Grice ed Eco – la rosa segnata -- il nome del nome –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Alessandria).
Filosofo. Grice: “Eco thought that his “Guglielmo da Bascavilla” was a clever
composite of Holmes, who deciphered the enigma of the Baskervilles, and William
Occam – and has his tutee claim that he died of the black plague – but Gal has
now discovered he did not!” -- Eco philosophised at the oldest varsity,
BolognaGrice: “Of course, ‘varsity’ is over-rated, as I’m sure Cicero would
agree!” -- Grice: “I would not call Eco a philosopher, since his dissertation
is on aesthetics in Aquinas! Plus, he wrote a novel!” -- scuola bolognese-- possibly,
after Speranza, one of the most Griceian of Italian philosophers (Only Speranza
calls himself an Oxonian, rather!“Surely alma mater trumps all!”). Figlio di Giulio, un impiegato nelle Ferrovie, e Rita
Bisio, conseguì la maturità al liceo classico Giovanni Plana di Alessandria,
sua città natale. Tra i suoi compagni di classe, vi era il fisarmonicista
Gianni Coscia, con il quale scrisse spettacoli di rivista. In gioventù fu
impegnato nella GIAC (l'allora ramo giovanile dell'Azione Cattolica) e nei
primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento
studentesco dell'AC (progenitore dell'attuale MSAC). Abbandonò l'incarico (così
come avevano fatto Carlo Carretto e Mario Rossi) in polemica con Luigi Gedda.
Durante i suoi studi universitari su Tommaso d'Aquino, smise di credere in Dio
e lasciò definitivamente la Chiesa cattolica; in una nota ironica, in seguito
commentò: «si può dire che lui Tommaso d'Aquino mi abbia miracolosamente curato
dalla fede». Laureatosi in filosofia a Torino (agli esami riportò
sempre 30/30, anche con lode, tranne quattro casi: filosofia teoretica e
letteratura latina, in cui ottenne 29/30, e storia della letteratura italiana e
pedagogia, entrambi superati con 27/30)
con relatore Pareyson e tesi sull'estetica di San Tommaso d'Aquino
(controrelatore Augusto Guzzo), cominciò a interessarsi di filosofia e cultura
medievale, campo d'indagine mai più abbandonato (vedi il volume Dall'albero al
labirinto), anche se successivamente si dedicò allo studio semiotico della
cultura popolare contemporanea e all'indagine critica sullo sperimentalismo letterario
e artistico. Pubblicò il suo primo libro, un'estensione della sua tesi di
laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Partecipò e vinse
un concorso della Rai per l'assunzione di telecronisti e nuovi funzionari; con
Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Tutti e tre
abbandonarono l'ente televisivo entro la fine degli anni cinquanta. Nel
concorso successivo entrarono Emmanuele Milano, Fabiano Fabiani, Angelo
Guglielmi, e molti altri. I vincitori dei primi concorsi furono in seguito
etichettati come i "corsari" perché seguirono un corso di formazione
diretto da Pier Emilio Gennarini e avrebbero dovuto, secondo le intenzioni del
dirigente Filiberto Guala, "svecchiare" i programmi. Con altri
ingressi successivi, come quelli di Gianni Serra, Emilio Garroni e Luigi
Silori, questi giovani intellettuali innovarono davvero l'ambiente culturale
della televisione, ancora molto legato a personalità provenienti dall'EIAR,
venendo in seguito considerati come i veri promotori della centralità della RAI
nel sistema culturale italiano. Dall'esperienza lavorativa in RAI,
incluse amicizie con membri del Gruppo 63, Eco trasse spunto per molti scritti,
tra cui il celebre articolo Fenomenologia di Mike Bongiorno. Codirettore
editoriale della casa editrice Bompiani. Pubblicò il saggio Opera aperta che,
con sorpresa dello stesso autore, ebbe notevole risonanza a livello
internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d'avanguardia
letterario e artistico italiano che suscitò interesse negli ambienti
critico-letterari anche per le polemiche che destò criticando fortemente autori
all'epoca già "consacrati" dalla fama come Carlo Cassola, Giorgio
Bassani e Vasco Pratolini, ironicamente definiti "Liale", con
riferimento a Liala, autrice di romanzi rosa. Ebbe inizio anche la sua
carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore
incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze e, infine,
Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica, diventando Professore.
All'Bologna è stato fra i fondatori del primo corso di laurea in DAMS, poi è
stato direttore dell'Istituto di Comunicazione e spettacolo del DAMS, e in
seguito ha dato inizio al corso di laurea in Scienze della comunicazione.
Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici,
fondata nel 2000, che coordina l'attività dei dottorati bolognesi del settore
umanistico, e dove ha ideato il Master in Editoria Cartacea e Digitale.
Nel corso degli anni ha insegnato come professore invitato alla New York
University, Northwestern University, Columbia University, Yale, Harvard (Norton
lectures sponsored by the Department of Romance Languages), University of
California-San Diego, Cambridge, Oxford – Weidenfeld lectures at the
female-only St. Anne’s, São Paulo e Rio de Janeiro, La Plata e Buenos Aires,
Collège de France, École normale supérieure (Parigi). Nell'ottobre 2007 si è
ritirato dall'insegnamento per limiti di età. Dalla fine degli anni
cinquanta, Eco cominciò a interessarsi all'influenza dei mass media nella
cultura di massa, su cui pubblicò articoli in diversi giornali e riviste, poi
in gran parte confluiti in Diario minimo e Apocalittici e integrati. Apocalittici
e integrati (che ebbe una nuova edizione) analizzò con taglio sociologico le
comunicazioni di massa. Il tema era già stato affrontato in Diario minimo, che
includeva tra gli altri il breve articolo Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Sullo stesso tema, ssvolse a New York il seminario Per una guerriglia
semiologica, in seguito pubblicato ne Il costume di casa e frequentemente
citato nelle discussioni sulla controcultura e la resistenza al potere dei mass
media. Significativa fu anche la sua attenzione per le correlazioni tra
dittatura e cultura di massa ne Il fascismo eterno, capitolo del saggio Cinque
scritti morali, dove individuava le caratteristiche, ricorrenti nel tempo, del
cosiddetto "fascismo eterno", o "Ur-fascismo": il culto
della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell'azione per l'azione,
il disaccordo come tradimento, la paura delle differenze, l'appello alle classi
medie frustrate, l'ossessione del complotto, il machismo, il "populismo
qualitativo Tv e Internet" e altre ancora; da esse e dalle loro
combinazioni, secondo Eco, è possibile anche "smascherare" le forme
di fascismo che si riproducono da sempre "in ogni parte del
mondo". In un'intervista del 24 aprile mise in evidenza la sua visione rispetto a,
della quale Eco si definiva un "utente compulsivo", e al mondo
dell'open source. Pubblicò il suo primo libro di teoria semiotica, La
struttura assente, cui seguirono il fondamentale Trattato di semiotica generale
e gli articoli per l'Enciclopedia Einaudi poi riuniti in Semiotica e filosofia
del linguaggio. Fondò VersusQuaderni di studi semiotici, una delle
maggiori riviste internazionali di semiotica, rimanendone direttore
responsabile e membro del comitato scientifico fino alla morte. È anche stato
segretario, vicepresidente e dal 1994 presidente onorario della IASS/AIS
("International Association for Semiotic Studies"). È stato invitato
a tenere le prestigiose conferenze Tanner (Cambridge), Norton (Harvard), Goggio
(Toronto), Weidenfeld lectures on comparative literature and translation,
sponsored by the female-only college St. Anne’s (Oxford,) e Richard Ellmann
(Università Emory). Collaborò sin dalla sua fondazione, nel 1955, al
settimanale L'Espresso, sul quale tenne in ultima pagina la rubrica La bustina
di minerva (nella quale, tra l'altro, dichiarò di aver contribuito
personalmente alla propria voce su ), ai giornali Il Giorno, La Stampa,
Corriere della Sera, la Repubblica, il manifesto e a innumerevoli riviste
internazionali specializzate, tra cui Semiotica (fondata da Thomas Albert
Sebeok), Poetics Today, Degrès, Structuralist Review, Text, Communications
(rivista parigina del EHESS), Problemi dell'informazione, Word & Images, o
riviste letterarie e di dibattito culturale quali Quindici, Il Verri (fondata
da Luciano Anceschi), Alfabeta, Il cavallo di Troia, ecc. Collaborò alla
collana "Fare l'Europa" diretta da Jacques Le Goff con lo studio La
ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, in cui si espresse a favore dell'utilizzo
dell'esperanto. Tradusse gli Esercizi di stile di Raymond Queneau (nel 1983) e
Sylvie di Gérard de Nerval (entrambi presso Einaudi) e introdusse opere di
numerosi scrittori e di artisti. Ha anche collaborato con i musicisti Luciano
Berio e Sylvano Bussotti. I suoi dibattiti, spesso dal tono divertito,
con Luciano Nanni, Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Ugo Volli, Francesco Leonetti,
Nanni Balestrini, Guido Almansi, Achille Bonito Oliva o Maria Corti, tanto per
nominarne alcuni, hanno aggiunto contributi non scritti alla storia degli
intellettuali italiani, soprattutto quando sfioravano argomenti non consueti (o
almeno non ritenuti tali prima dell'intervento di Eco), come la figura di James
Bond, l'enigmistica, la fisiognomica, la serialità televisiva, il romanzo
d'appendice, il fumetto, il labirinto, la menzogna, le società segrete o più
seriamente gli annosi concetti di abduzione, di canone e di classico.[senza
fonte] Grande appassionato del fumetto Dylan Dog, a Eco è stato fatto
tributo sul numero 136 attraverso il personaggio Humbert Coe, che ha affiancato
l'indagatore dell'incubo in un'indagine sull'origine delle lingue del mondo. È
stato inoltre amico del pittore e autore di fumetti Andrea Pazienza che fu suo
allievo al DAMS di Bologna, e ha scritto la prefazione a libri di Hugo Pratt,
Charles Monroe Schulz, Jules Feiffer e Raymond Peynet. Scrisse la presentazione
di "Cuore" a fumetti, di F. Bonzi e Alain Denis, pubblicata su "Linus".Esordì
nella narrativa. Il suo primo romanzo, Il nome della rosa, riscontrò un grande
successo sia presso la critica sia presso il pubblico, tanto da divenire un
best seller internazionale tradotto in 47 lingue e venduto in trenta milioni di
copie. Il nome della rosa è stato anche tra i finalisti del prestigioso Edgar
Award nel 1984 e ha vinto il Premio Strega.[26] Dal lavoro fu tratto anche un
celebre film con Sean Connery. Pubblicò il suo secondo romanzo, Il
pendolo di Foucault, satira dell'interpretazione paranoica dei fatti veri o
leggendari della storia e delle sindromi del complotto. Questa critica
dell'interpretazione incontrollata viene ripresa in opere teoriche sulla
ricezione (cfr. I limiti dell'interpretazione). Romanzi successivi sono L'isola
del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina
Loana, Il cimitero di Praga () e Numero zero (), tutti editi in italiano da
Bompiani. Nel è stata pubblicata
una versione "riveduta e corretta" del suo primo romanzo Il nome
della rosa, con una nota finale dello stesso Eco che, mantenendo stile e
struttura narrativa, è intervenuto a eliminare ripetizioni ed errori, a
modificare l'impianto delle citazioni latine e la descrizione della faccia del
bibliotecario per togliere un riferimento neogotico. Molte opere furono
dedicate alle teorie della narrazione e della letteratura: Il superuomo di
massa, Lector in fabula, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Sulla
letteratura, Dire quasi la stessa cosa (sulla traduzione). È stato inoltre
precursore e divulgatore dell'applicazione della tecnologia alla
scrittura. In contemporanea alla nomina di "guest curator"
(curatore ospite) del Louvre, dove organizzò una serie di eventi e
manifestazioni culturali, uscì per Bompiani Vertigine della lista, pubblicato
in quattordici paesi del mondo. Nel
Bompiani pubblicò una raccolta dal titolo Costruire il nemico e altri
scritti occasionali, che raccoglie saggi occasionali che spaziano nei vari
interessi dell'autore, come quello per la narratologia e il feuilleton ottocentesco.
Il primo saggio riprende temi già presenti ne Il cimitero di Praga. Muore nella
sua casa di Milano a causa di un tumore del pancreas che lo aveva colpito due
anni prima. I funerali laici si sono svolti nel Castello Sforzesco di Milano, dove migliaia
di persone si sono recate per l'ultimo saluto. Sono state eseguite due
composizioni alla viola da gamba e al clavicembalo: Couplets de folies (Les
folies d'Espagne) dalla Suite n. 1 in re maggiore dai Pièces de viole, Livre II
di Marin Marais e La Folia dalla Sonata per violino e basso continuo in re minore,
di Arcangelo Corelli. Nel proprio testamento Eco ha chiesto ai suoi familiari
di non autorizzare né promuovere, per i dieci anni successivi alla sua morte alcun
seminario o conferenza su di lui. Il corpo di Eco è stato infine cremato. La
moglie, Renate Eco-Ramge, rifiutando la proposta di tumularne le ceneri nel
Civico Mausoleo Garbin, ex edicola privata del Cimitero Monumentale di Milano
ora provvista di piccole cellette destinate a ceneri o resti ossei di
personalità artistiche illustri, ne ha preferito la conservazione privata, con
il progetto di costruire un'edicola di famiglia nel medesimo cimitero. Nei suoi
romanzi, Eco racconta storie realmente accadute o leggende che hanno come protagonisti
personaggi storici o inventati. Inserisce nelle sue opere accesi dibattiti
filosofici sull'esistenza del vuoto, di Dio o sulla natura dell'universo.
Attratto da temi piuttosto misteriosi e oscuri (i cavalieri Templari, il sacro
Graal, la sacra Sindone ecc.), nei suoi romanzi gli scienziati e gli uomini che
hanno fatto la storia sono spesso trattati con indifferenza dai
contemporanei. L'umorismo è l'arma letteraria preferita dallo scrittore
di Alessandria, che inserisce innumerevoli citazioni e collegamenti a opere di
vario genere, conosciute quasi esclusivamente da filologi e bibliofili. Ciò
rende romanzi come Il nome della rosa o L'isola del giorno prima un turbinio
variopinto di nozioni di carattere storico, filosofico, artistico e matematico.
Centrale ne Il nome della rosa è la questione del riso, post-modernisticamente
declinata. Ne Il pendolo di Foucault Eco affronta temi come la ricerca
del sacro Graal e la storia dei cavalieri Templari, facendo numerosi cenni ai
misteri dell'età antica e moderna, rivisitati in chiave parodistica. Ne
L'isola del giorno prima l'umanità intera è simboleggiata dal naufrago Roberto
de la Grive, che cerca un'isola al di fuori del tempo e dello spazio. In
Baudolino dà vita ad un picaresco personaggio medioevale tutto dedito alla
ricerca di un paradiso terrestre (il regno leggendario di Prete
Giovanni). Ne La misteriosa fiamma della regina Loana riflette sulla
forza e sull'essenza stessa del ricordo, rivolto, in questo caso, ad episodi
del XX secolo. Il cimitero di Praga è incentrato sulla natura del
complotto e, in particolar modo, sulla storia 'europea' del popolo
ebraico. Il suo ultimo romanzo, Numero zero, riprendendo temi da sempre
cari all'autore (il falso, la costruzione del complotto e delle notizie) si
sofferma sulla storia italiana recente, narrando fatti realmente accaduti, ma
riletti attraverso una chiave complottistica. Fu tra i 757 firmatari della
lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli e successivamente della
autodenuncia di solidarietà a Lotta Continua, in cui una cinquantina di
firmatari esprimevano solidarietà verso alcuni militanti e direttori
responsabili del giornale, inquisiti per istigazione a delinquere. I firmatari
si autodenunciavano alla magistratura dicendo di condividere il contenuto
dell'articolo. Peraltro le severe critiche di Eco al terrorismo e ai vari
progetti di lotta armata sono contenute in una serie di articoli scritti sul
settimanale L'Espresso e su Repubblica, specie ai tempi del caso Moro (articoli
poi ripubblicati nel volume Sette anni di desiderio). In effetti l'arma che ha
caratterizzato l'impegno politico di Eco è diventata l'analisi critica dei
discorsi politici e delle comunicazioni di massa. Questo impegno è
sintetizzato nella metafora della guerriglia semiologica dove si sostiene che
non è tanto importante cambiare il contenuto dei messaggi alla fonte ma cercare
di animare la loro analisi là dove essi arrivano (la formula era: non serve
occupare la televisione, bisogna occupare una sedia davanti a ogni televisore).
In questo senso la guerriglia semiologica è una forma di critica sociale
attraverso l'educazione alla ricezione. Partecipa alle attività
dell'associazione Libertà e Giustizia, di cui è uno dei fondatori e garanti più
noti, partecipando attivamente tramite le sue iniziative al dibattito
politico-culturale italiano. Il suo libro A passo di gambero contiene le
critiche a quello che lui definisce populismo berlusconiano, alla politica di
Bush, al cosiddetto scontro tra etnie e religioni. Nel, nelle settimane delle
rivolte arabe, durante una conferenza stampa registrata alla Fiera del libro di
Gerusalemme, scatena una polemica politica la sua risposta a un giornalista
italiano che gli domanda se condivida il paragone fra Berlusconi e Mubarak,
avanzato da alcuni: "Il paragone potrebbe essere fatto con Hitler: anche
lui giunse al potere con libere elezioni";[36] lo stesso Eco, dalle
colonne de l'Espresso, smentirà tale dichiarazione chiarendo le circostanze
della sua risposta. Eco faceva parte dell'associazione Aspen Institute Italia. Cavaliere
di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana — Roma, 9Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
cultura e dell'arte — Roma. Onorificenze straniere Commendatore dell'Ordine
delle Arti e delle Lettere (Francia)nastrino per uniforme ordinariaCommendatore
dell'Ordine delle Arti e delle Lettere (Francia), Cavaliere dell'Ordine pour le
Mérite für Wissenschaften und Künste (Repubblica Federale di Germania)nastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine pour le Mérite für Wissenschaften
und Künste (Repubblica Federale di Germania), Premio Principe delle Asturie per
la comunicazione e l'umanistica (Spagna)nastrino per uniforme ordinariaPremio
Principe delle Asturie per la comunicazione e l'umanistica (Spagna), Ufficiale
dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia) nastrino per uniforme
ordinariaUfficiale dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia), Gran croce al
merito con placca dell'Ordine al merito della Repubblica Federale di
Germanianastrino per uniforme ordinariaGran croce al merito con placca
dell'Ordine al merito della Repubblica Federale di Germania, Commendatore
dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia) nastrino per uniforme ordinaria Commendatore
dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia), Parigi. Cittadinanze onorarie Monte
Cerignone, Nizza Monferrato, San Leo, 11 giugno. Torre Pellice,. Lauree Eco ha
ricevuto 40 lauree honoris causa da prestigiose università europee e americane,
come quella del, che gli è stata conferita dall'Università federale del Rio
Grande do Sul, di Porto Alegre, in Brasile. In occasione della laurea in
comunicazione conferita da Torino, Umberto Eco ha rilasciato severi giudizi sui
social del Web che, a suo dire, possono essere utilizzati da «legioni di
imbecilli» per porsi sullo stesso piano di un vincitore di un Premio Nobel. Le
affermazioni di Eco hanno suscitato approvazioni ma anche vivaci discussioni. Affiliazioni
e sodalizi accademici Umberto Eco è stato membro onorario (Honorary Trustee)
della James Joyce Association, dell'Accademia delle Scienze di Bologna,
dell'Academia Europea de Yuste, dell'American Academy of Arts and Letters,
dell'Académie royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique,
della Polska Akademia Umiejętności ("Accademia polacca della Arti"),
"Fellow" del St Anne's, Oxford e socio dell'Accademia Nazionale dei
Lincei. Eco è stato inoltre membro onorario del CICAP. Altro Gli è stato
dedicato l'asteroide 13069 Umbertoeco, scoperto nel dall'astronomo belga Eric
Walter Elst. Il 12 aprile 2008 è stato nominato Duca dell'Isola del
Giorno Prima del regno di Redonda dal re Xavier. Nel il comune di Milano ha deciso che il suo nome
venga iscritto nel Pantheon di Milano, all'interno del cimitero monumentale.
Eco ha scritto numerosi saggi di filosofia, semiotica, linguistica,
estetica: Il problema estetico in San Tommaso, Torino, Edizioni di Filosofia,
poi Il problema estetico in Tommaso
d'Aquino, 2ª ed., Milano, Bompiani, Filosofi in libertà, come Dedalus, Torino,
Taylor, poi in Il secondo diario minimo. Sviluppo dell'estetica medievale, in
Momenti e problemi di storia dell'estetica, I, Dall'antichità classica al Barocco,
Milano, Marzorati, Arte e bellezza nell'estetica medievale, Milano, Bompiani, Storia
figurata delle invenzioni. Dalla selce scheggiata al volo spaziale, e con G. B.
Zorzoli, Milano, Bompiani, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle
poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, Diario minimo, Milano, A. Mondadori
(include i saggi Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti)
Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, Il caso Bond. [Le origini, la
natura, gli effetti del fenomeno 007], e con Oreste del Buono, Milano,
Bompiani, Le poetiche di Joyce. Dalla "Summa" al "Finnegans
Wake", Milano, Bompiani (ed. modificata sulla base della seconda parte di
Opera aperta) Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, Milano,
Bompiani (poi in La struttura assente) L'Italie par elle-meme. A portrait of
Italy. Autoritratto dell'Italia, e con Giulio Carlo Argan, Guido Piovene, Luigi
Chiarini, Vittorio Gregotti e altri, Milano, Bompiani, La struttura assente,
Milano, Bompiani, La definizione dell'arte, Milano, Mursia, L'arte come
mestiere, a cura di, Milano, Bompiani, I sistemi di segni e lo strutturalismo
sovietico, e con Remo Faccani, Milano, Bompiani, L'industria della cultura, a cura
di, Milano, Bompiani, Le forme del contenuto,
Milano, Bompiani, I fumetti di Mao, e con Jean Chesneaux e Gino Nebiolo, Bari,
Laterza, Cent'anni dopo. Il ritorno dell'intreccio, e con Cesare Sughi, Milano,
Bompiani, Documenti su il nuovo Medioevo, con Francesco Alberoni, Furio Colombo
e Giuseppe Sacco, Milano, Bompiani, Estetica e teoria dell'informazione, a cura
di, Milano, Bompiani, I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di
ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, e con Marisa Bonazzi, Rimini,
Guaraldi, Il segno, Milano, Isedi; Milano, A. Mondadori, Il costume di casa.
Evidenze e misteri dell'ideologia italiana, Milano, Bompiani, Beato di Liébana.
Miniature del Beato de Fernando I y Sancha. Codice B.N. Madrid Vit. 14-2, testo
e commenti alle tavole di, Milano, Franco Maria Ricci, Eugenio Carmi. Una
pittura di paesaggio?, Milano, Prearo, Trattato di semiotica generale, Milano,
Bompiani, Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, Roma, Cooperativa
Scrittori, Milano, Bompiani, Stelle & stellette. La via lattea mormorò,
illustrazioni di Philippe Druillet, Conegliano Treviso, Quadragono Libri, Storia
di una rivoluzione mai esistita. L'esperimento Vaduz. Appunti del Servizio opinioni,
Roma, Rai, Servizio Opinioni, Dalla periferia dell'impero, Milano, Bompiani, Come
si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, Carolina Invernizio, Matilde Serao,
Liala, con altri, Firenze, La nuova Italia, Lector in fabula, Milano, Bompiani,
De bibliotheca, Milano, Comune di Milano, Postille al nome della rosa, Milano,
Bompiani, Il segno dei tre, Milano,
Bompiani, Sette anni di desiderio. [Cronache], Milano, Bompiani, 1983.
Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani,
Lo strano caso della Hanau 1609, Milano, Bompiani, Saggio in Leggere i Promessi
sposi. Analisi semiotiche, Giovanni Manetti, Milano, Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno,
I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani, Vocali, con Soluzioni felici
di Paolo Domenico Malvinni, Napoli, Collana "Clessidra" di Alfredo Guida
Ed., Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, Interpretation and
Overinterpretation, Cambridge, Cambridge University Press, La memoria vegetale,
Milano, Rovello, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea,
Roma-Bari, Laterza, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Povero
Pinocchio. Giochi linguistici di studenti del Corso di Comunicazione, a cura
di, Modena, Comix, In cosa crede chi non crede?, con Carlo Maria Martini, Roma,
Liberal, Kant e l'ornitorinco, Milano, Bompiani, Cinque scritti morali, Milano,
Bompiani, Talking of Joyce, con Liberato Santoro-Brienza, Dublin, University
College Dublin Press, Serendipities. Language and Lunacy, New York, Columbia
University Press, Tra menzogna e ironia, Milano, Bompiani, La bustina di
minerva, Milano, Bompiani, Riflessioni
sulla bibliofilia, Milano, Rovello, Diario minimo, Secondo diario minimo,
Bustina di minerva e altre parodie da
raccolte in tedesco) Sulla letteratura, Milano, Bompiani, Guerre sante,
passione e ragione. Pensieri sparsi sulla superiorità culturale; Scenari di una
guerra globale, in Islam e Occidente. Riflessioni per la convivenza, Roma-Bari,
Laterza, Bellezza. Storia di un'idea dell'Occidente, CD-ROM a cura di, Milano,
Motta On Line, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani,
Mouse or Rat?, Translation as Negociation, London, Weidenfeld & Nicolson (Experiences
in translation e saggi selezionati da Dire quasi la stessa cosa) Storia della
bellezza, a cura di, testi di Umberto Eco e Girolamo de Michele, Milano, Bompiani,
Il linguaggio della Terra Australe, Milano, Bompiani, Il codice Temesvar,
Milano, Rovello, Nel segno della parola, con Daniele Del Giudice e Gianfranco
Ravasi, a cura e con un saggio di Ivano Dionigi, Milano, BUR, 2A passo di
gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Collana Overlook, Milano, Bompiani,
La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Rovello, Sator
Arepo eccetera, Roma, Nottetempo, Storia della bruttezza, a cura di, Milano,
Bompiani, La cospirazione impossibile, con Piergiorgio Odifreddi, Michael
Shermer, James Randi, Paolo Attivissimo, Lorenzo Montali, Francesco Grassi,
Andrea Ferrero e Stefano Bagnasco, Massimo Polidoro, Casale Monferrato, Piemme,
Dall'albero al labirinto. Studi storici sul segno e l'interpretazione, Milano, Bompiani,
Historia. La grande storia della civiltà europea, e con altri, 9 voll., Milano,
Motta, Storia della civiltà europea, e con altri, 18 voll., Milano, Corriere
della Sera, Nebbia, e con Remo Ceserani, con la collaborazione di Francesco
Ghelli e un saggio di Antonio Costa, Torino, Einaudi (antologia letteraria di
racconti a tema) Non sperate di liberarvi dei libri, con Jean-Claude Carrière,
Milano, Bompiani, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, Il Medioevo, a cura
di, 4 voll., Milano, Encyclomedia, La grande Storia, a cura di, 28 voll.,
Milano, Corriere della Sera,. Costruire il nemico e altri scritti occasionali,
Milano, Bompiani, Scritti sul pensiero medievale, Collana Il pensiero
occidentale, Milano, Bompiani, L'età moderna e contemporanea, a cura di, 22
voll., Roma, Gruppo editoriale L'Espresso, -. Storia delle terre e dei luoghi
leggendari, Milano, Bompiani, Da dove si comincia?, con Stefano Bartezzaghi,
Roma, La Repubblica,. Riflessioni sul dolore, Bologna, ASMEPA, La filosofia e
le sue storie, e con Riccardo Fedriga, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, Pape Satàn
Aleppe. Cronache di una società liquida, Milano, La nave di Teseo, Come
viaggiare con un salmone, Milano, La nave di Teseo, Sulle spalle dei giganti,
Collana I fari, Milano, La nave di Teseo, Il fascismo eterno, Collana Le onde,
Milano, La nave di Teseo, Cinque scritti morali, Bompiani, Sulla televisione.
Scritti, Gianfranco Marrone, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo, Narrativa
Il nome della rosa, Milano, Bompiani, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani,L'isola
del giorno prima, Milano, Bompiani, Baudolino, Milano, Bompiani, La misteriosa
fiamma della regina Loana. Romanzo illustrato, Milano, Bompiani, Il cimitero di
Praga, Milano, Bompiani, Numero zero, Milano, Bompiani, Narrativa per
l'infanzia La bomba e il generale, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano,
Bompiani, I tre cosmonauti, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano, Bompiani,
1966. Ammazza l'uccellino, come Dedalus, illustrazioni di Monica Sangberg,
Milano, Bompiani, Gli gnomi di Gnu, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano, Bompiani,
Tre racconti, Milano, Fabbri (raccolta dei
tre precedenti) La storia de "I promessi sposi", raccontata da,
Torino-Roma, Scuola Holden-La biblioteca di Repubblica-L'Espresso, Traduzioni
Raymond Queneau, Esercizi di stile, Torino, Einaudi. Claudio Gerino, Morto lo
scrittore Umberto Eco. Ci mancherà il suo sguardo nel mondo, in la Repubblica, Massimo
Delfino e Emma Camagna, Alessandria piange Umberto Eco, in La Stampa, Cosimo Di
Bari, "A passo di critica: il modello di media education nell'opera di
Umberto Eco", Firenze, Èco, Umberto, in TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
LINCEI, ENRICO MENESTO' E UMBERTO ECO NUOVI SOCI DELL'ACCADEMIA, su
tuttoggi.info. 30 ottobre. 'Il nome
della rosa' debutta su Rai1 e conquista gli ascolti della prima serata, su la
Repubblica, 5 marzo. 30 gennaio.
quotidiano la Stampa; Gianni Coscia: «quando suono col mio amico Umberto
Eco», su genova.mentelocale. «È il lato dolente e angoscioso di un uomo che è
cresciuto nell'Azione Cattolica, che l'ha lasciata in polemica con il grande
Gedda; un uomo, Eco, che ha studiatodiconoTommaso d'Aquino, e che un giorno se
n'è uscito dalla Chiesa proclamandosi orgogliosamente ateo, o se si preferisce,
agnostico.» (In Rassegna stampa cattolica: Mario Palmaro, Eco è solo un refuso,
2 «His new book touches on politics, but also on faith. Raised Catholic, Eco
has long since left the church. "Even though I'm still in love with that
world, I stopped believing in God in my 20s after my doctoral studies on St.
Thomas Aquinas. You could say he miraculously cured me of my
faith..."» «Il suo nuovo libro tratta di politica, ma anche di fede.
Cresciuto nel cattolicesimo, Eco ha lasciato da tempo la Chiesa. "Anche se
io sono ancora innamorato di quel mondo, ho smesso di credere in Dio durante i
miei anni 20, dopo i miei studi universitari su Tommaso d'Aquino. Potete dire
che egli mi ha miracolosamente curato dalla mia fede..."» (Articolo
in Time) Liukkonen, Petri, Umberto Eco. Pseudonym:
Dedalus in. Eco, quando l'Torino gli
consegnò il libretto con 27 in letteratura italiana, su la Repubblica, 2Antonio
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l'anagramma del mio..." Umberto Eco,
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ecco che cos'è la musica suonata per Umberto Eco, su Corriere della Sera. Umberto
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Umberto Eco, su elapsus. Umberto Eco, in Perlentaucher, Perlentaucher Medien
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internazionali del Prix Médicis V D M Vincitori del Premio Bancarella V D M
Vincitori del Premio Cesare Pavese V D M Vincitori del Premio di Stato
austriaco per la letteratura europea V D M Vincitori del Premio Mediterraneo per
stranieri, Europeana agent/base/ Filosofia Giallo Giallo Letteratura Eco provides a bridge between
Graeco-Roman philosophy and Grice! Eco is one of the few philosophers who
considers the very origins of philosophy in Bolognaand straight from RomeOn
top, Eco is one of the first to generalise most of Grice’s topics under
‘communication,’ rather than using the Anglo-Saxon ‘mean’ that does not really
belong in the Graeco-Roman tradition. Eco cites H. P. Grice in “Cognitive
constraints of communication.” Umberto b.2,
philosopher, intellectual historian, and novelist. A leading figure in
the field of semiotics, the general theory of signs. Eco has devoted most of
his vast production to the notion of interpretation and its role in
communication. In the 0s, building on the idea that an active process of
interpretation is required to take any sign as a sign, he pioneered
reader-oriented criticism The Open Work, 2, 6; The Role of the Reader, 9 and
championed a holistic view of meaning, holding that all of the interpreter’s
beliefs, i.e., his encyclopedia, are potentially relevant to word meaning. In
the 0s, equally influenced by Peirce and the
structuralists, he offered a unified theory of signs A Theory of
Semiotics, 6, aiming at grounding the study of communication in general. He
opposed the idea of communication as a natural process, steering a middle way
between realism and idealism, particularly of the Sapir-Whorf variety. The issue
of realism looms large also in his recent work. In The Limits of Interpretation
0 and Interpretation and Overinterpretation 2, he attacks deconstructionism.
Kant and the Platypus 7 defends a “contractarian” form of realism, holding that
the reader’s interpretation, driven by the Peircean regulative idea of
objectivity and collaborating with the speaker’s underdetermined intentions, is
needed to fix reference. In his historical essays, ranging from medieval
aesthetics The Aesthetics of Thomas Aquinas, 6 to the attempts at constructing
artificial and “perfect” languages The Search for the Perfect Language, 3 to
medieval semiotics, he traces the origins of some central notions in
contemporary philosophy of language e.g., meaning, symbol, denotation and such
recent concerns as the language of mind and translation, to larger issues in
the history of philosophy. All his novels are pervaded by philosophical
queries, such as Is the world an ordered whole? The Name of the Rose, 0, and
How much interpretation can one tolerate without falling prey to some
conspiracy syndrome? Foucault’s Pendulum, 8. Everywhere, he engages the reader
in the game of controlled interpretations. “Il nome della rosa” is about the
dark ages in Northern Italy, where the monks were the only to find a slight
interest in philosophy, unlike the barbaric Lombards!” -- Il problema
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Grice ed Ennio – il
primo filosofo inglese, il primo filosofo latino – filosofia italiana.
Wikipedia Ricerca Quinto Ennio poeta, drammaturgo e scrittore romano Lingua
Segui Modifica Quinto Ennio (in latino: Quintus Ennius; Rudiae, 16 luglio 239
a.C. – Roma, 8 ottobre 169 a.C.) è stato un poeta, drammaturgo e scrittore
romano. Viene considerato, fin dall'antichità, il padre della letteratura
latina, poiché fu il primo poeta ad usare la lingua latina come lingua
letteraria in competizione con quella greca. Ennio che ascolta
Omero, immaginato da Raffaello nel Parnaso, Stanze Vaticane Biografia Modifica
Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, nei pressi di Lecce, città
dell'antica Calabria (l'attuale Salento, corrispondente alla Puglia
meridionale) in cui allora convivevano tre culture: quella greca che aveva come
centro maggiore Taranto, quella osca dei centri minori indigeni italici, e
quella dell'occupante romano[1]: Aulo Gellio testimonia infatti che Ennio, pur
vantandosi di discendere da Messapo (eroe eponimo della Messapia e dei
Messapi)[2], era solito dire di possedere "tre cuori" (tria corda),
poiché sapeva parlare in greco, in latino e in osco[3]. Durante la
seconda guerra punica militò in Sardegna e nel 204 a.C. vi conobbe Catone il
Censore, che lo portò con sé a Roma[4]. Qui ottenne la protezione di illustri
uomini politici quali Scipione l'Africano e, poco tempo dopo, entrò in contatto
con altri aristocratici del circolo degli Scipioni, filoelleni, come Marco
Fulvio Nobiliore. Queste amicizie lo posero in conflitto con Catone, diffidente
nei confronti delle altre culture e di quella greca in particolare. Nel
189 a.C. Marco Fulvio Nobiliore, nella guerra contro la Lega etolica, condusse
con sé Ennio come poeta al seguito, con il compito cioè di celebrare le gesta
del generale (come in effetti fece nella tragedia praetexta Ambracia). Questo
scandalizzò Catone in quanto comportamento contrario al costume degli avi, al
mos maiorum. Cinque anni dopo Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco, gli
assegnò dei terreni presso la colonia da lui dedotta a Pesaro e gli fece
conferire la cittadinanza romana. Riconoscente, Ennio espresse orgogliosamente
questa concessione: (LA) «Nos sumus Romani qui fuimus ante
Rudini» (IT) «Sono cittadino di Roma, io che un tempo fui cittadino
di Rudiae» (Quinto Ennio, Annales[5]) Ennio, messo a capo del collegium
scribarum histrionumque, trascorse gli anni della vecchiaia in relativa
orgogliosa miseria, con una sola serva al suo servizio, attendendo alla
composizione delle sue tragedie e del poema epico: (LA) «Annos
septuaginta natus - tot enim vixit Ennius - ita ferebat duo quae maxima
putantur onera, paupertatem et senectutem, ut eis paene delectari
videretur» (IT) «A settant'anni - tanti, infatti, ne visse - Ennio
sopportava la povertà e la vecchiaia, che si suole considerare come le cose più
moleste, quasi sembrando che ne godesse» (Cicerone, De Senectute, 14 -
trad. A. D'Andria) Tra i suoi discepoli ricordiamo il nipote (figlio di sua
sorella), il tragediografo e pittore Marco Pacuvio, e il commediografo Cecilio
Stazio (con cui condivise l'abitazione). Sofferente di gotta, Ennio
morì a Roma nel 169 a.C. Per i suoi meriti, oltre che per l'amicizia personale,
fu sepolto nella tomba degli Scipioni, sull'antica Via Appia, dove fu
raffigurato da un busto su cui era inciso un epitaffio in distici elegiaci che
Cicerone credeva composto dallo stesso Ennio: (LA) «Aspicite, o
cives, senis Enni imaginis formam: hic vestrum panxit maxima facta patrum. Nemo
me lacrumis decoret, nec funera fletu faxit. Cur? Volito vivus per ora
virum» (IT) «Ecco, o cittadini, i tratti dell'effigie del vecchio
Ennio: costui le massime gesta cantò dei vostri padri. Nessuno di lacrime mi
onori, né la mia morte pianga. Perché? Volo vivo tra le bocche degli
uomini» (Quinto Ennio) Opere Modifica Cosiddetta testa di Ennio,
dal sepolcro degli Scipioni sull'Appia. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (240 - 78 a.C.).
Ennio sperimentò numerosi generi letterari, molti dei quali a Roma erano poco
conosciuti o del tutto sconosciuti, pertanto è stato definito il vero padre
della Letteratura latina[6]. Della maggior parte di queste sue
opere rimangono solo pochi frammenti e titoli. Per quanto riguarda
l'epica, si conoscono gli Annales e lo Scipio[7]. Gli Annales furono il
poema nazionale del popolo romano prima che fosse composta l'Eneide (29-19
a.C.). Ennio narrava la storia di Roma anno per anno, come spiega lo stesso
titolo, dalle origini sino al 171, sino a poco prima della morte del poeta,
dunque, avvenuta nel 169 a.C., e si ispira al modello greco, come farà poi
Virgilio. L'opera era strutturata in 18 libri, suddivisi in tre gruppi di sei,
detti esadi, ma rimangono solo 600 versi dei circa 30 000 originali. Nel
proemio posto all'inizio dell'opera Ennio racconta che Omero stesso gli era
apparso in sogno per rivelargli di essersi reincarnato in lui dopo avergli
esposto la dottrina pitagorica della metempsicosi, ovvero della transmigrazione
delle anime. Mentre nei primi libri sono raccontati gli eventi che vanno dalle
origini all'invasione di Pirro (280-272), nei successivi il racconto arriva
fino al 171 a.C., due anni prima della morte del poeta. Nel proemio della
seconda esade, poi, Ennio polemizza con coloro che lo criticavano per aver
introdotto l'esametro, polemizzando contro gli autori che scrivevano in saturni
- con chiaro riferimento a Nevio, che comunque omaggiava, non ripetendo la
narrazione della prima guerra punica - e racconta gli eventi dalle guerre
puniche sino alla seconda guerra macedonica, mentre la terza esade è quasi del
tutto andata perduta. Per quanto riguarda le composizioni drammatiche,
per concorde affermazione degli antichi, Ennio eccelleva nella tragedia, con
composizioni come Alexander, Andromaca prigioniera, Medea, Tieste, Achille,
Aiace, Il riscatto di Ettore, Ecuba, Ifigenia, Telamone, Telefo. A parte, come
praetextae, Sabinae[8] e Ambracia[9]. Che non fosse un grande poeta comico, lo
testimonia il fatto che restano solo pochissimi versi e due titoli di commedie,
la Caupunculae e il Pancratiastes. Alla poesia dotta appartenevano titoli
come Epicharmus ed Euhemerus, di tono filosofico, gli Hedyphagetica[10], o
ancora, sul versante della poesia disimpegnata, le Saturae e gli
Epigrammi[11]. Il mondo poetico e concettuale di Ennio Modifica Ennio fu
il primo poeta latino a scrivere un poema in esametri, il metro di Omero, che
fu poi utilizzato da tutti i poeti epici successivi: il suo capolavoro, gli
Annales, fu il primo poema epico a narrare la storia di Roma dalle origini
facendo di Ennio il "vate" di Roma e tra i principali modelli
stilistici del De rerum natura di Lucrezio e dell'Eneide di Virgilio. Scrisse
numerose commedie e tragedie di cui restano pochi frammenti, e da altri
frammenti si ritiene che abbia scritto anche alcune satire, anticipando
addirittura Lucilio, considerato il padre del genere. (LA) «O
Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti!» (IT) «O Tito Tazio,
tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!» (Quinto Ennio) Poiché i
frammenti a noi pervenuti sono pochi e giunti per tradizione indiretta, non siamo
capaci di valutare la struttura compositiva del poema maggiore e le tecniche
della narrazione, ma emergono con sufficiente chiarezza le caratteristiche
della lingua e lo stile elevato e solenne, che appaiono frutto di un geniale
contemperamento di tratti tipicamente latini e audaci innovazioni grecizzanti.
Ricorre spesso ad arcaismi internazionali, tratti distintivi di derivazione
omerica (tanto che si presenta nel proemio come Omero redivivo, e Orazio stesso
lo definisce alter Homerus, "altro Omero"). Infatti fu ritenuto uno
dei principali fautori dell'ellenizzazione; nonostante Catone fosse uno degli
scrittori più attaccati alla cultura romana, riconobbe e apprezzò in Ennio le
doti intellettuali. Pare che fu Ennio ad introdurre l'esametronella letteratura
latina, formando i suoi versi anche solo con degli spondei (infatti sono detti
versi olospondaici). In Ennio abbondano le metafore, sempre molto
presenti nei poemi epici, le allitterazioni e l'uso della retorica. Note
Modifica ^ La vita: Ennio e i suoi continuatori, su sapere.it, De Agostini
Editore S.p.A. URL consultato il 28 dicembre 2020 (archiviato il 5 settembre
2018). ^ Quinto Ennio, Annali (Libri IX–XVIII). Commentari. Volume IV. Napoli:
Liguori Editore, pp. 316 e ss. ^ Quintus Ennius tria corda habere sese dicebat,
quod loqui Graece et Osce et Latine sciret("Quinto Ennio diceva di avere
tre anime in quanto parlava greco, osco e latino") - Aulus Gellius, Noctes
Atticae 17.17. ^ Cornelio Nepote, Catone, I 4. ^ v. 525 Skutsch. ^ Quinto Orazio
Flacco ^ Poemetto epico-encomiastico, del quale restano solo 14 versi, dedicato
a Publio Cornelio Scipione, nel quale il condottiero viene descritto come
perfetto exemplum di vir romanus ^ Trattava il ratto delle Sabine. ^ Trattava
le gesta di Marco Fulvio Nobiliore in una spedizione contro gli Etoli nel 189
a.C., culminata nella presa della città di Ambracia. ^ Catalogo di cose buone
da mangiare, redatto con vena salottiera e decisamente superficiale, come
evidente dall'unico frammento pervenutoci, di 11 versi, in Apuleio, De magia,
11. ^ Componimenti in distici elegiaci che si rifacevano a momenti particolari
della vita dell'autore. Voci correlate Modifica Rudiae Sepolcro degli Scipioni
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dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Nicola Terzaghi, ENNIO, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1932. Modifica su
Wikidata Ennio, Quinto, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2010. Modifica su Wikidata ( EN ) Quinto Ennio, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di
Quinto Ennio, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Quinto
Ennio, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata
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Wikidata ( EN ) Opere di Quinto Ennio, su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata I frammenti degli annali editi e illustrati da Luigi
Valmaggi, Torino, Casa Editrice Ermanno Loescher, 1900. ( EN , LA )
Remains of old latin. Vol. 1: Aennius and Caecilius, E. H. Warmington (a cura
di), Cambridge-London, 1935, pagg. 1-465. Ennianae Poesis Reliquiae, Johannes
Vahlen (a cura di), Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1854 e 1903². Controllo
di autorità VIAF (
EN ) 84976347 · ISNI ( EN ) 0000 0001 0920 8922 · BAV 495/44519 · CERLcnp01321767
· LCCN ( EN ) n79109712 · GND( DE ) 118682105 · BNE ( ES ) XX977849(data) · BNF
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latina Portale Teatro Ultima modifica 1 mese fa di Pietro espasian
PAGINE CORRELATE Annales (Ennio) poema epico scritto dall'autore latino Quinto
Ennio Marco Fulvio Nobiliore politico romano Ambracia (Ennio)
Wikipedia Il contenuto. Ennio. Keywords: il primo filosofo inglese, il primo
filosofo latino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ennio”, The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Emiliani – semiotica – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Lugo). Filosofo. Grice:
“I like Emiliani; of course in proper English we don’t pluralise ‘meanings’!
But he speaks of ‘significati,’ which is literate! The vernacular Italian is
‘segno,’ and the ‘ficare’ is also learned latinate! Gotta love him!” Dio è la mia speranza Anch'io vivo nella
speranza di avere amici in cielo che pregano per me e che attendono di unirsi a
me nella nostra comune patria. Dobbiamo sempre ricordare che questa vita
terrena è soltanto un passaggio verso la nostra vera patria che è quella
celeste. La Madonna è apparsa e ha parlato a moltissimi veggenti di molti
popoli e nelle più svariate circostanze, come una persona viva, che promette,
annunzia, loda, esorta, profetizza, prega, guida e protegge dai pericoli,
risana i malati, opera i miracoli, piange, invita alla conversione ed alla
penitenza, aiuta ad avvicinarsi a Cristo, suo Figlio. La mia sicura bussola è
camminare sulla strada della carità in ogni circostanza della vita. La presenza
in noi dello Spirito Santo è la caparra della nostra vita eterna futura. Solo
Dio resta. Egli è l'unica roccia a cui mi posso aggrappare per non essere
travolto dai flutti tempestosi in mezzo ai quali galleggio. Alessandro Emiliani, Dio è la mia speranza,
Edizioni Studio Domenicano. Nel suo saggio sul
segnato, valore, communicazione e ragionamento, Emiliani presenta un'analisi del
‘segnato,’ topico della semiotica. Il segnato è
un modo di una correlazione astratta posta dall'attività razionale intersoggettiva
e cooperativa con cui un contenuto e intenzionato e strutturato in ordine al
valore della profferenza e alla correttezza del ragionamiento conversazionale.
La forme logica non è innata, né e un atto o
evento psichico soggettivo, ma una struttura intersoggetiva astratta e
relazionale, invariante intersoggettivamente. Il segnato (non il ‘segno’) fonda
la correttezza del ragionamiento conversazionale (colloquenza – dialettica),
segnato dal segno di una operazione (negans, negatum, negatore; connettivi, --
conjunctum, congiutivo, disjunctum, disgiuntivo, ‘if’ filoniano, il quantificatore
universale o totale (ogni), il quantificatore parziale o essitenziale (G.
jemand), il descrittore, descriptum) non è
privo di ‘segnato’. Il segno di negazione, p. es., ‘non’, segna la negazione.
‘Non piove’ segna che non è il caso che piove.
Il segno (‘non’) ha come UNICO segnato quello che s’esprime nella forma logica
(explicatura, no implicatura). L’intensionale e il contenuto nozionale di ciò
che è mentato o segnato, distinto dal segnato estensionale o funzionale – e
spiegabile in una teoria di mondi possibili. Pensatile sempre dentro e mediante
una determinata struttura logicha. L’atto de denotare (referire) e l’atto di
predicare sono le due elementi di un complesso proposizionale (“Fido is
shaggy”). Un oggetto dell'universo di riferimento, considerato reale nel modo
più ampio (valore di una variabile). Il valore di una profferenza è spiegato da
una teoria della correpondenza. Il valore di soddisfacibilità e parte del meta-languaggio che presuppone la sintassi, la
semantica, e la prammatica. Lo scopo del griceanismo: il segnato. Fondamento
della introduzione del segnato, simbolo mono-semantico, simbolo bi-semantico,
simbolo tri-semantico, segnato del termine, segnato della formula del
linguaggio. Relazione estensione/intensione, referenza e predicazione. Il
valore della profferenza di soddisfacibilità e
meta-linguistico. Rapporto tra sintassi, semantica e pragmmatica – linguaggi-
oggeto e meta-linguaggio. Il linguaggio di una teoria del ragionamiento
formalizzata elementare – Sistema G-hp. Calcolo di predicati di primo ordine
con identità.
Sintassi di una generica teoria del ragionamento normalizzata
elementare. Simbolo primitivo. Definizione ricorsiva del termine, definizione
ricorsiva della formula del sistema G-hp. Termine aperto e termine chiuso.
Formula aperta e formula chiusa. Profferenza semplice, proferrenza complessa.
Componente deduttivo, induttivo ed adduttivo di una generica teoria del
ragionamiento elementare (G. R. I. C. E. – gruppo per la ricerca dell’inferenza
e la comprensione elementare). Il segnato di una profferenza in romano ed
italiano (Piove). Il segnato intenzionale di una profferenza semiotica
comunicativa, distinzione tra atto intenzionale dell'io e forma intenzionale
con cui ciò che è segnato e compressibile dal ‘tu’, intenzionalità e
consapevolezza, forma intenzionale, contenuto intenzionato. Profferenza e modalità
intenzionale. Tre dimensioni del segnato nella profferenza comunicativa; Il
segnato della profferennza assertiva (il simbolo di Frege),L’assertivo di una
profferenza semplice. Segnato intensionale (il senso fregeiano) di una
profferenza semplice. Il topico o denotatum di una profferenza semplice (“The
dog is shaggy”). Il segnato logico del termine, il segnato intensionale del
termine, il segnato referenziale del termine, ragioni che giustificano
l'introduzione di una descrizione chiusa nel Sistema G-hp di una teoria del
ragionamento Normalizzata elementare. Il segnato logico, intensionale e
referenziale del segno predicativo (‘shaggy’), il segnato logico del segno
predicativo, il segnato intensionale del segno predicativo, Relazione tra
segnato logico e segnato intensionale del segno predicativo. Il segnato
referenziale del segno predicativo, rapporti tra il segno intensionale e il
referente o denotatum or relatum di un segno predicativo. Il segnato del segno mono-sematico.
Il segnato logico del segno del negare
(cf. Grice, “Negation and Privation”). Il segnato logico di una operazione di
connessione fra sintagme: le particelle coordinante ‘e’, ‘o,’ e subbordinante,
‘se’, il segnato del segno di quantificazione totale o universale, ‘ogni’ – il
segnato del segno di quantificazione sustituzionale parziale o esistenziale
(Ex), Il segnato del segno dell’articolo definito (‘il’), descrizione, el
segnato logico dei segni ausiliari, il segnato intensionale e referenziale di
una profferenza complessa, il segnato intensionale di una profferenza
complessa; il denotatum di un profferenza complessa. Refutazione delle
impostazione convenzionalista (in termini di implicatura convenzionale) di
Strawson circa l'interpretazione del formalismo. Ragioni della inadeguatezza
dell’approccio di Strawson, interpretazione logica, interpretazione intensionale
e interpretation referenziale della semantica di una teoria dell’inferenza elementare,
interpretazione intensionale del linguaggio di una teoria, interpretazione
referenziale del linguaggio di una teoria, il valore di satisfactorieta di una
profferenza nel sistema G-hp nel quadro del meta-linguaggio. I requisiti della
definizione del valore di soddisfacibilità; condizioni
che rendono la definizione di ‘soddisfacibile’ adeguata al contenuto della
nozione intuitiva, condizioni che devono essere soddisfatte perché la
definizione del valore sia formalmente sana. Il valore di soddisfacibile associato
a una profferenza del sisstema G-hp. Considerazioni sulla definizione del
valore di soddisfacibile, distinzione tra concetto di soddisfacibilità e criterio di soddisfacibilità. Il valore di soddisfacibilità associato ad una profferenza non è ‘segnato’ dalla
profferenza o profferente a cui è associata, il soddisfacibile rispetto alla
profferenza a cui a associate non e ‘segnato’, ma un valore. Il soddisfacibile è
meta-linguistico, profferenza soddisfacibile, relazione tra profferenza
soddisfacibile e ragionamento sano. Il principio di bivalenza (Tertium non datur
– il terzo incluso). Stato del problema: la polemica Grice/Strawson. Il valore
di soddisfacibilità è associabile soltanto
alla profferenza per la quale il communicatore o profferente (implicans,
implicaturus) segna che p o q, il valore di soddisfacibilità e associabile a
ogni profferenza. Critica di un sistema bivalente che accetta la categoria
confuse di “lacuna” di valore di soddisfacibilità. Bivalenza e il sistema considerato
poli-valente. Bivalenza e l’intuizionismo di Lemmon e Dummett. Communicazione e
segnato, rapporto tra materia e forma dell’espressione per la quale il
communicatore o profferente o implicaturus segna (empiega) che p o q e il
rispettivo segnato. Il segnato come
criterio per determinare la primitività di un
simbolo, Le regole o teoremii di formazione sintattica d’introduzione e
eliminazione, il teorema del ragionamiento sano definito dalla sintassi e il
segnato logico. Communicazione naturale, segnare artificiale, arbitrario, non
naturale, e segnato. Natura, genesi, funzione e invarianza della forma e
struttura logica. Natura, genesi e funzione della forma predicativa (“Fido is
shaggy”), natura, genesi e funzione della forma soggettiva o topica, natura,
genesi e funzione della forma logica semplice, Natura, genesi e funzione della
forma logica espressa da un simbolo mono-semantico di operazione logica, Rapporto
tra l'attività dell'io intenzionante (implicaturus, e la struttura logica
intesa come modalità con cui il contenuto e intenzionato (“He went to bed and
took off his boots”). L'invarianza della forme o struttura logica.
Wikipedia Ricerca Significato Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce o sezione sull'argomento linguistica è priva o carente
di note e riferimenti bibliografici puntuali. «Noi non sappiamo che cosa
significano le parole più semplici, tranne quando amiamo e desideriamo.»
Emiliani, “Significati e verità dei linguaggi delle teorie deduttive(Ralph
Waldo Emerson) Il significato è un concetto espresso mediante segni che possono
essere grafici, verbali-orali, o mediante cenni e gesti. Il significato
permette di capire o esprimere il senso, il valore o il contenuto del segno.
Secondo il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, il segno linguistico è
costituito dall'unione di un significato (un concetto, cioè la nozione mentale
che abbiamo di un determinato oggetto) con un significante (cioè una forma
sonora, o un'immagine uditiva). Il triangolo semiotico In semantica
(la disciplina che studia i rapporti tra segni e oggetti), secondo il classico
modello a tre elementi, il significato è la nozione o immagine mentale generica
che possediamo di un oggetto, la quale media tra la parola e la cosa. Ad es. il
concetto di albero ci dà modo di riconoscerlo sia che si tratti di una quercia
sia di un melo. Il significato è indicato graficamente o foneticamente dal
significante, mentre l’albero reale al di fuori della sfera linguistica è detto
referente. Va notato che mentre significato e significante sono sempre
presenti, il referente può mancare o cessare di esistere (es. nelle parole
“Napoleone” o “unicorno”). In semiotica, il significato è uno dei vertici
del triangolo semiotico postulato da Charles Peirce, come mostrato nella figura
accanto. Per quanto riguarda la porzione di realtà indicata, si distingue
in genere tra: denotazione, ovvero ciò che una parola indica in quanto
tale (uomo, e il suo significato di animale razionale); riferimento, ovvero ciò
che una parola indica in una frase determinata (quell'uomo è alto).
BibliografiaModifica Gottlob Frege, Senso, funzione e concetto, (edizione
originale 1892). Giorgio Graffi; Sergio Scalise, Le lingue e il linguaggio.
Bologna, Il Mulino, 2002. ISBN 88-15-09579-9 Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong
Richards, Il significato del significato. Studio dell'influsso del linguaggio
sul pensiero e della scienza del simbolismo, con saggi in appendice di B.
Malinowski e F. G. Crookshank, trad. Luca Pavolini, Milano, Il Saggiatore, 1966
(orig.: The Meaning of Meaning. A Study of the Influence of Language upon Thought
and of the Science of Symbolism, London, Routledge & Kegan Paul, 1923).
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1970,
(edizione originale 1916). Voci correlateModifica Disambiguazione Semantica
Semantica lessicale Significato (psicologia) Struttura (semiotica) Triangolo
semiotico Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene
il lemma di dizionario «significato» Portale Linguistica: accedi
alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Ultima modifica 6 mesi fa di
Dedda71 PAGINE CORRELATE Segno concetto base della semiotica Significante
Triangolo semiotico Wikipedia Il contenuto Grice: “Alessandro Emiliani
should be distinguished from Alessandro Emiliani. Alessandro Emiliani is a
philosopher; Alessandro Emiliani is a semiotician!” Alessandro Emiliani. Emiliani.
Keywords: semiotica, Dr. Wilde, Wilde lectures on religion? That’s after Henry
Wilde, not a doctor? He was a doctor: “Dr. Henry Wilde” -- -- -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Emiliani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763275664/in/dateposted-public/
Grice ed Enriques – implicatura arimmetica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo. Grice: “I like
Enriques; of course his “Problemi della scienza’ implicates that philosophy
does not have any!” Il Dipartimento "Federigo Enriques" di Matematica
dell'Università degli Studi di Milano, via Saldini, Milano. Nato in una
famiglia ebrea, si trasferì a Pisa. Suo fratello Paolo Enriques, uno zoologo,
fu padre di Enzo Enriques Agnoletti e Anna Maria Enriques Agnoletti. Dopo gli
studi liceali, compì gli studi universitari a Pisa e la Scuola Normale
Superiore. Si laurea. Frequenta in seguito un anno di perfezionamento a Pisa e
uno a Roma, dove ebbe modo di incontrare e collaborare con Castelnuovo. Inizia
inoltre a collaborare con Cremona, Segre e Amaldi. Lincei. Insegna a
Bologna. Fu invitato presso l'Roma, per occupare la cattedra di matematiche
superiori e di geometria superiore. Venne invitato da Neurath a divenire un
collaboratore dell'Encyclopaedia of Unified Science, la cui pubblicazione era
stata individuata come lo strumento per lo sviluppo del movimento per l'unità
della scienza (cf. Grice, “Einheit des Wissenschaft”). Quando però furono
promulgate le leggi razziali anti-ebraiche, e espulso dall'insegnamento e da
qualsiasi altra occupazione legata all'attività culturale. Durante
l'occupazione tedesca fu dapprima nascosto in casa di Frajese e poi a San Giovanni in Laterano. Insegna
a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Castelnuovo per i giovani
ebrei estromessi dalle università italiane, e riusce a pubblicare alcuni
articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche, di cui era stato
direttore. Torna a insegnare. Tra i fondatori della scuola italiana di
geometria algebrica, allarga gli orizzonti del dibattito scientifico
occupandosi di filosofia, storia e didattica della matematica. Fonda la Società
filosofica italiana (di cui fu presidente), assieme a Bruni, Dionisi, Rignano e
Giardina fonda la rivista internazionale Rivista di Scienza ed e nominato
direttore del Periodico di matematiche, organo della Mathesis. Diresse, tra
l'altro, la sezione di matematica dell'Enciclopedia Italiana. Fu un
filosofo di notevole livello e la sua fama fu internazionalmente riconosciuta.
I suoi contributi allo sviluppo della geometria algebrica furono rilevanti, per
importanza e originalità. Il periodo in cui si trova a vivere era un periodo di
cambiamenti epocali, cambiamenti che interessarono anche i concetti base della
matematica e della fisica. Enriques recepì immediatamente la portata delle
novità introdotte dalle opere di Einstein, che fu da lui invitato a tenere una
conferenza a Bologna. Nel campo dei fondamenti della matematica si ricordano i
testi scolastici di grande diffusione, rivolto all'insegnamento nei licei e
scuole superiori, nei quali la geometria euclidea, l'algebra elementare e la
trigonometria vengono presentate con il metodo razionale deduttivo. Fra le sue
opere più diffuse di matematica elementare si ricordano: Questioni
riguardanti le matematiche elementare, Questioni riguardanti la geometria elementare,
Bologna Zanichelli); Elementi di Geometria ad uso delle scuole superiori (con
U. Amaldi), Zanichelli Bologna e successive edizioni e ristampe); Nozioni di matematica ad uso dei licei moderni
(con U. Amaldi), Zanichelli Bologna); Gli elementi di Euclide e la critica
antica e moderna (Roma e Bologna, Le matematiche nella storia e nella cultura,
Bologna. Come opere principali di matematica superiore si ricordano in
particolare: Lezioni di geometria proiettiva, (it, de). Lezioni di geometria
descrittiva, Bologna, Lezioni sulla teoria geometrica delle equazioni e delle
funzioni algebriche. Bologna. Lezioni di geometria descrittiva, Le superficie
algebriche, Oltre alla sua attività come matematico, sviluppa significative
ricerche di epistemologia, storia della scienza e filosofia della scienza.
Questo suo impegno per il rinnovamento della cultura, avvenne in un periodo non
facile, sia per gli eventi bellici, sia per la cultura dominante nella prima
metà del Novecento, caratterizzata dalla filosofia idealistica e dal ridotto
interesse verso la cultura scientifica. Fra le sue numerose saggi in queste
materie si ricordano: Problemi della scienza” (Zanichelli, Bologna); “Razionalismo
e storicismo in "Rivista di Scienza", Zanichelli, Bologna, Il
pragmatismo in "Scientia", Zanichelli, Bologna); “Scienza e
razionalismo, Zanichelli, Bologna. Matematiche e teoria della conoscenza in
"Scientia", Zanichelli, Bologna); “Per la storia della logica,
Zanichelli, Bologna. Storia del pensiero scientifico, Bologna, scritta con G.
Santillana. Il significato della storia del pensiero scientifico, Bologna, ripubblicato
da Barbieri, La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai nostri giorni,
Bologna. Le dottrine di Democrito d'Abdera. Testi e commenti, con M. Mazziotti,
ripubblicato per Edizioni immanenza. Sviluppò una corrente di pensiero vicina
al razionalismo. Assieme a Peano si può considerare uno dei principali filosofi
italiani che si sono dedicati allo studio della logica e della filosofia della
scienza nella prima metà del Novecento. Ha messo in luce due aspetti fondamentali
del pensiero scientifico nella prima
metà del sec XX: la sempre maggiore specializzazione delle discipline fisiche,
tecniche, ecc. e la tendenza al rinnovamento che si è avuta sia nei fondamenti
della matematica, sia nella fisica moderna. Assieme a Bruni, Dionisi, Giardina
e Rignano, fonda la rivista di ricerca e divulgazione scientifica Rivista di
scienza (rinominata successivamente Scientia), con l'obiettivo dichiarato di
superare le divisioni disciplinari in nome dell'unità del sapere e contro l'eccessiva
specializzazione accademica. Contro codesti criterii ristretti intende reagire
soprattutto il movimento nuovo di pensiero verso la sintesi; una Filosofia
libera da legami diretti coi sistemi tradizionali, sorge appunto a promuovere
la coordinazione del lavoro, la critica dei metodi e delle teorie, e ad
affermare un apprezzamento più largo dei problemi della Scienza. Pel quale il
particolarismo stesso viene compreso in un aspetto più adeguato nella interezza
del processo scientifico. (Programma, Rivista di Scienza). Condusse la rivista,
quando un articolo di Rignano sulle cause della guerra lo costrinse a
rassegnare le dimissioni. Torna alla direzione alla morte di quest'ultimo e
sotto sua esplicita richiesta fino al’anno delle leggi razziali. Abbandonato
ogni incarico, ritorna infine alla guida di Scientia a due anni dalla morte. Il
primo saggio significativo dedicato da Enriques a questioni di metodo e
filosofia della conoscenza è l'opera Problemi della scienza nella quale compie
un'analisi articolata delle varie discipline della matematica, della geometria,
della meccanica, della fisica edella chimica alla fine del XIX secolo. Mette in
evidenza l'importanza che lo scienziato deve analizzare con la massima
attenzione, sia i fondamenti logici e sperimentali delle diverse
discipline, sia il contesto storico e le situazioni in cui i principi
scientifici sono stati scoperti. In quest'opera Enriques indica che una
visione dinamica della scienza, porta naturalmente nel terreno della storia. I
fondamenti della scienza quindi non possono essere capiti completamente se non
si analizza anche il contesto storico e culturale nel quale sono stati
formulati. L'opera ebbe maggiore fortuna e diffusione all'estero, che non in
Italia, dominata agli inizi del Novecento dalla cultura letteraria e della
filosofia idealistica. Il suo pensiero trova riscontro nelle teorie
elaborate dai massimi epistemologi filosofi fra cui Popper, Lakatos e Kuhn. In
particolare nel pensiero di Lakatos e di Kuhn viene sviluppata la concezione
della formazione storica dei concetti scientifici, come opera di più autori e
ricercatori, che in un determinato periodo storico elaborano una serie di
principi-base sui quali viene sviluppata una teoria ipotetico-deduttiva e le
successive verifiche sperimentali. Importante è anche la presa di
posizione sia rispetto alla filosofie idealistiche del ‘900, che hanno
tralasciato gli aspetti della filosofia della scienza, sia la sua posizione
critica rispetto alla filosofia di Kant. In particolare, critica il concetto di
giudizio sintetico a priori di Kant (Critica della ragion pura). Secondo
Enriques, i principi fondamentali delle scienze sono elaborazioni razionali
derivate per induzione dall'esperienza e dalla percezione sensoriale e non sono
giudizi sintetici a priori. In questo saggio porta alcuni esempio fondamentali.
I postulati della geometria sono generalizzazioni, per astrazione, di semplici
esperienze geometriche, che ogni allievo compie fin dalle prime osservazioni
razionali del mondo esterno, svolte anche in ambito scolastico. I principi
della geometria sono generalizzazioni di esperienze sensoriali concrete.
Allo stesso modo anche i principi della Fisica e della Chimica derivano
direttamente da generalizzazioni di esperimenti reali. Ad esempio la Legge di
conservazione della massa dovuta a Lavoisier non è un giudizio sintetico a
priori, come crede Kant. È noto infatti che deriva da semplici esperimenti
fisici, svolti pesando i composti chimici prima e dopo una reazione
chimica. La nuova impostazione razionalistica e storica fu avviata in
Italia da Enriques, in Francia da Duhem e in Austria da Mach e da altri autori
riunitisi intorno al Circolo di Vienna. Fu poi sviluppata ulteriormente in
Italia da Geymonat e dalla sua scuola milanese che ha ripreso gli studi di
Enriques, sviluppando i temi di storia della scienza e di filosofia della scienza.
Un'altro saggio fondamentale è Per la storia della logica che mette in evidenza
l'importanza della deduzione, della induzione e gli altri aspetti
interpretativi ed epistemologici della logica. Il saggio ha un approccio
storico e descrittivo della logica è ricco di citazioni originali, e affronta
questo difficile argomento anche con una certa ironia ed eleganza letteraria.
Nell'opera, sono illustrati in modo semplice e sintetico i contributi portati a
questa disciplina dai vari filosofi nelle varie epoche. Si può considerare uno
dei pochi testi in cui la materia è esposta in modo chiaro, essenziale e
interessante. Di notevole interesse per le fonti storiche citate e per la
narrazione della genesi dei concetti scientifici sono la serie di opere
dedicate alla storia della scienza. Il primo saggio fu la “Storia del pensiero
scientifico” scritto in collaborazione con G. Santilana. Quest'opera ripercorre
la storia delle scienze matematiche, geometriche, astronomiche, meccaniche e
fisiche dall'antica Grecia fino ai giorni nostri, con numerose citazioni e
fonti storiche degli autori originari. A esso seguirono altri testi di approfondimento,
fra cui, “Il significato della storia del pensiero scientifico e La teoria
della conoscenza scientifica da Kant ai nostri giorni; Lineamenti di filosofia
della scienza. Dei numerosi saggi dedicati agli aspetti filosofici della
scienza si desumono i principali lineamenti del suo pensiero razionalista, che,
a titolo orientativo si possono cercare di sintetizzare nei seguenti
punti: Equilibrio fra intuizione e ragionamento logico. Nelle opere
scientifiche gli argomenti sono esposti in modo intuitivo, evidenziando i
motivi sperimentali e oggettivi alla base di alcuni concetti astratti. Dopo la
descrizione dei suoi principi, si sviluppa poi la materia con criteri logici,
deducendo razionalmente le principali leggi, teoremi e applicazioni. Questo carattere,
comune anche ai grandi scienziati del passato (Galilei, Cartesio, Newton,
Eulero, Coulomb, ecc.) contraddistingue il metodo di Enriques, rispetto agli
indirizzi formalisti che si sono avuti nella logica e nella
matematica del XX secolo. Problema della specializzazione delle scienze: ha
colto questo aspetto critico delle numerose edeterogenee discipline
scientifiche nel XIX e XX secolo. Per superare il problema della eccessiva
frammentazione del sapere ha proposto di ripensare i concetti fondamentali
della fisica, della geometria, della matematica e delle altre scienze naturali
con criteri unitari, approfondendone il significato intuitivo, sperimentale e
la sua genesi storica. Approccio storico alla conoscenza scientifica. Questo
aspetto caratterizza il metodo di Enriques, che ha sviluppato con passione e
impegno moltissimi aspetti di storia della scienza. La storia della scienza fa
parte della scienza stessa. Per capire veramente un teorema non è sufficiente
capire solo la sua dimostrazione, ma anche il contesto storico nel quale è
stato formulato, quali sono stati i problemi tecnici che hanno portato alla sua
formulazione e come sono stati risolti tali problemi con l'applicazione delle
teorie scientifiche. Sviluppato in Italia il nuovo approccio di storia della
scienza avviato da Mach e da Duhem, precursori del gruppo di filosofi e
scienziati Professore del Circolo di Vienna. Valenza fisica dei concetti
geometrici. La geometria può essere considerata come il primo capitolo della
fisica, diversamente dai matematici e filosofici formalisti che la considerano
una scienza astratta. L'orientamento formalista nella geometria è stato
delineato da Kant (Critica della ragion pura) per il quale i postulati
geometrici non derivano solo dall'esperienza visiva, ma sono giudizi sintetici
a priori di carattere soggettivo e indipendenti dalle percezioni sensoriali. La
tesi di Kant è stata discussa dai massimi esperti di filosofia teoretica con
orientamenti contrastanti. Nel XIX secolo in opposizione a Kant si è delineato
un approccio fisico-sperimentale ai principi geometrici, al quale hanno aderito
molti storici e filosofi della scienza. Ha contribuito alla riscoperta del
significato più autentico, di carattere storico, intuitivo e sperimentale alla
base della geometria, della matematica e delle scienze fisiche. Contributi su
Scientia Articoli “Eredità ed evoluzione” su amshistorica.cib.unibo. “I numeri
e l'infinito” su amshistorica.cib.unibo. “Il pragmatismo” su
amshistorica.cib.unibo. “Il principio di ragion sufficiente” su
amshistorica.cib.unibo. “Il problema della realtà” su amshistorica.cib.unibo. “Il
significato della critica dei principii nello sviluppo delle matematiche” su
amshistorica.cib.unibo. “Importanza della storia del pensiero scientifico nella
cultura nazionale” su amshistorica.cib.unibo.
su amshistorica.cib.unibo. “L'infinito
nella storia del pensiero” su amshistorica.cib.unibo. La filosofia positiva e
la classificazione delle scienze, I motivi della filosofia di Eugenio Rignano,
su amshistorica.cib.unibo. Recensioni (in francese) Ailly (D'),Imago mundi, Aliotta, A. L'esperienza
nella scienza, nella religione e nella morale, su amshistorica.cib.unibo. Archibald, R. C. Outline of the History of
Mathematics, su amshistorica.cib.unibo.
Bignone, E. L'Aristotele perduto
e la formazione filosofica di Epicuro, su amshistorica.cib.unibo. Blanche, R. Le rationalisme de Wewell, su
amshistorica.cib.unibo. Bouasse H.Bachot
et bachotage, su amshistorica.cib.unibo.
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la connaissance de soi, su amshistorica.cib.unibo. Carbonara, C. Scienza e filosofia ai principi
dell'età moderna, su amshistorica.cib.unibo.
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amshistorica.cib.unibo. Carnap, R. La
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History of Science, Technology and Philosophy in the 16 and 17 Centuries, su
amshistorica.cib.unibo.L'autore ha curato una decina di manuali didattici di
geometria e algebra elementare e oltre 20 trattati di matematica superiore. Ha
inoltre pubblicato un'ampia serie di testi di storia e di filosofia della
scienza e numerosi articoli specializzati. L'elenco completo delle sue opere
comprende oltre 300 titoli, fra saggi, articoli e trattati
scientifici. Questo testo proviene
da Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di
Storia della Scienza di Firenze Spoglio di articoli e recensioni disponibile
sul Catalogo Italiano dei Periodici (ACNP). Informazioni sulla storia
editoriale di Scientia. Silvia Haia Antonucci e Giuliana Piperno Beer, Sapere
ed essere nella Roma razzista. Gli ebrei nelle scuole e nell’università, Roma,
Gangemi editore, Collana Roma ebraica-7,
Tina Nastasi,Federico Enriquez e la civetta di Atena, ed plus,Pisa, Comunità
ebraica di Livorno. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Federigo Enriques / Federigo
Enriques (altra versione), in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Federigo Enriques, su MacTutor,
University of St Andrews, Scotland. Federigo Enriques, su Mathematics Genealogy
Project, North Dakota State University.
Opere di Federigo Enriques, su Liber Liber. Opere di Federigo Enriques, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Federigo Enriques, Gaspare Polizzi, ENRIQUES,
Federigo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Edizione nazionale delle opere.
Digitalizzazione completa di Scientia e Rivista di Scienza su AMS Historica.
Sito ufficiale del Centro Studi Enriques di Livorno. "Le Armonie
Nascoste", un recente documentario su Enriques su lalimonaia.pisa. Coloro che s'immergono nella dialettica, dice Aristone
di Chio, fanno come i mangiatori di gamberi: per un boccone di polpa perdono il
loro tempo sopra un mucchio di scaglie. Ma Hamilton, riportando il motto, vi
aggiunge un’osservazione che non sembra aver perduto valore ai nostri giorni.
Da noi, dice, il filosofo perde il tempo senza nemmeno gustare un boccone di
polpa. Infatti il filosofo che ha percorso gli studi romani antichi classici,
domanderebbe invano alla dialettica che gli fu insegnata, un concetto adeguato
di quello che è l’ordinamento di un calcolo deduttiva come la geometria, nonché
una spiegazione del significato e del valore dei principi che s’incontrano in
la geometria. Che cosa e una definizione, un’assioma, un postulato? Che posto
occupano nell’organismo della teoria dialettica? Quali sono i criteri che
presiedono alla loro scelta o che permettono di giudicare della loro
accettabilità? Tutte queste domande rimangono senza risposta, pel filosofo, se
pure ad esse si alluse vagamente da qualche oscura dottrina del concetto. Certo
esse non ricevono lume dalle minute classificazioni sillogistiche, per mezzo
delle quali egli vien abilitato, quando mai, a verificare ciò che non ha alcun
bisogno di verifica, cioè la coerenza formale di una dimostrazione geometrica.
Ora è essenziale rilevare che il filosofo, ponendosi il problema dell’ordinamento
della propria disciplina, si ritrova in faccia alla dialettica nella posizione
stessa dei filosofi che hanno lavorato a costruirne l’edifizio, giacche lo sviluppo
della dottrina del ragionamento procede appunto dalla critica dei filosofi che
hanno riflettuto intorno alla natura e all’ordine della consequenza logica. Come
padre della dialettica viene designato Aristotele. Ma Aristotele non può essere
ritenuto se non raccoglitore e sistematore di ciò che nella dialettica e
elaborato prima di lui, qualunque sia il contributo originale che può aver
recato al sistema. L'affermazione precedente apparirà tosto giustificata quando
si ricordi che le matematiche avevano raggiunto, già all’epoca di Platone, uno
sviluppo assai elevato, [Il vanto che Aristotele dà a sè stesso (al termine
degli Elenchi Sophistici) di aver creato una nuova scienza, appare, a chi legga
tutto il paragrafo, riferirsi in modo stretto alla scienza della discussione o
dialettica o collequenza e ad ogni modo non prova nulla contro il nostro
asserto. La logica degli anlichi fiacche — a partire da Ippocrate di Chio — si
cominciò a scrivere trattazioni dei suoi Elementi. Anche, che anzi, proprio
all'epoca di Platone, ed in più o meno stretta connessione coll’accademia da
cui pure usce Aristotele, alcune teorie aritmetiche furono oggetto di una
profonda elaborazione critica (Eudosso, Teeteto...), che costituisce il
precedente storico degli Elementi d'Euclide. Anche, che, d’altra parte, la
dialettica aveva ricevuto uno straordinario sviluppo nelle discussioni dei
Sofisti, sia presso i primi insegnanti salariati che presero tal nome, filosofi
— come Protagora dì Abdera — sostenitori dell’ empirismo avverso il
razionalismo metafisico del circolo di Velia, sia, più specialmente, presso i
Megarici ed altri pensatori affini, che, in connessione coi circoli socratici,
ripresero e svolsero in un modo formalistico la veduta veliatica. La finezza di
alcuni sofismi attribuiti a filosofi di Velia, basterebbe da sola a
testimoniare della profondità dell’analisi da essi ragggiunta, di fronte a cui
fanno talora meschina figura le spiegazioni o confutazioni d’Aristotele negli
Elenchi Sophistici. Aggiungasi che le stesse polemiche aristoteliche contro
avversari non nominati (per esempio, intorno alla necessità e al carattere dei
principi negli Analytica posteriora) valgono ad indicare che il problema logico
dell’ordinamento di un calcolo analitico-deduttivo si dibatte secondo vedute
diverse, alcune delle quali si riveleranno — ad un esame approfondito — più
vicine alle vedute moderne, in confronto a quelle adottate dal filosofo di
Stagira. I trattati d’Aristotele, che furono raccolti sotto il nome comprensivo
di Organo, manifestano la doppia origine, dalla critica dell’aritmetica e dalla
pratica della colloquenza. Infatti, i primi due saggi (Categoriae e De
Interpretatione) si riferiscono alla classificazione o tassonomia delle
espressione isolate e della proposizione, formando quasi una introduzione a
tutta l’opera. I due saggi successivi (Analytica priora e Analytica posteriora)
svolgono appunto la colloquenza come calcolo, quale risulta dall’analisi del
ragionamento. Invece i due saggi (Topica ed Elenchi Sophistici) concernono
l’arte della colloquenza o argomentare, mirante — non all’analitico ma soltanto
al ‘desirabile’ ed al ‘credibile’ o ‘probabile’ in rapporto alla pratica della
colloquenza. Aristotele ritiene per quest’arte il nome eleatico-platonico di
‘colloquenza’, mentre distingue col nome di propedeutica analitica – lo studio
dell’analitico -- l’esame del procedimento della scienza dimostrativa, in cui
dalla possibilità della scienza si desumono le condizioni del suo ordinamento
questo senso è stato ripreso da Kant in quella parte della Critica della ragion
pura che costituisce l’Analitica trascendentale. L’espressione ‘logicus’ è
usato dal nostro per designare procedimenti del discorso che, non partendo da principi,
non hanno valore dimostrativo. Ma quest’espressione s'incontra, già prima,
[Quest’osservazione è fatta da Pranll, Geschichte der Logik. La logica degli antichi
nel titolo di un saggio di Democrito d’Abdera: rtepi Xoytxwv i) xavwv. E nella misura in cui
si può ammettere che Aristotele ne abbia conservato il ‘significato’,
rivelerebbe una diversa cocezione (più relativa e formale) del ragionamento: la
quale s’incontra di fatto dopo Aristotele, e spalmente presso gli Stoici. Ora
questi filosofi, appunto a partire da Zenone Cizio, designano come “to logikón”
quella parte della filosofia che ha relazione al “logo” o discorso, e che
comprende questioni attinenti al ragionamento e questioni rettoriche o di
grammatical della profundita; mentre la scuola contemporanea di Epicuro ha
tratto sicuramente da Democrito il nome di canonica, con cui designa le regole
del metodo. Siffatte osservazioni, tendono a mostrare che l’influenza della vasta
opera aristotelica sui successori, non fu così esclusiva come di solito si
ammette, e c’inviterà a ricercare in questi stessi successori il riflesso delle
opinioni più antiche, ed in particolare di quelle del maestro d’Abdera. Per formarsi
un concetto dell’origine della logica, sarebbe interessante di ricercare se e
quali ([Diels, Die Fragmente der Vorsokraliker: Dem.A 33, B. 10^. Diog. Laert.
VII, 33 (In Arnim, Diogenes, 16). CO Aggiungeremo che Prantl opina che il nome
proprio vj, come appellativo della scienza del ragionamento, o come nome comprensivo
di esso e della rettorica, introduca piuttosto dai tardi peripatetici che dagli
stoici] rapporti sieno interceduti fra la critica dei matematici e le sottili
disquisizioni e implicature dei sofisti. Clairaut, per spiegare il rigore del
ragionamento di Euclide, notta: ce geomètre avait à convaincre des Sophistes
obstinés qui se faisaient une gioire de se lefuser aux vérités le plus
évidentes. Houel ripette che la forma dogmatica d’Euclide è dovuta a “sa
préoccupation de fermer avant tout la bouche à des sophistes que la Grece avait
le tori de prendre au sérieux.” “De là,” egli aggiunge, “son habitude de
demontrer toujours qu' une chose ne peul pas ótre au lieu de demontrer qu’ elle
est.” Queste affermazioni sono state frequentemente contestate, giacche è
difficile riconoscere che i sofisti abbiano esercitato un'influenza diretta,
non dico sopra Euclide, ma nemmeno sopra i geometri, suoi predecessori, che
hanno elaborato criticamente la scienza matematica. Tuttavia si può citare, a
questo proposito, qualche accenno ad una polemica antimatematica di Protagora e
di Antifonte tendente a restituire (avverso la filosofia razionalistica) il
carattere empirico (alla Mills, i. e., sintetico, non analitico) ai concetti
della geometria: argomenti dello [Elementi de geometrie, Parigi] [Essai
critique sur les Principes fondamenlaux de la Géométrie” Parigi] Nondimeno i
rapporti amichevoli di Protagora col matematico Teodoro di Cirene sono
attestati da Platone: Teeteto 161 b 162 a. (Aristotele, Met. II, 2. (20). Cfr.
Simplicio in Aristotele Phys.: Diels B. 13. La logica degli antichi] stesso
genere vedonsi comunemente ripetuti dagli empiristi» e — per quanto concerne l'antichità
— si trovano raccolti da Sesto Empirico (‘). Ma, qualunque veduta si abbia
intorno alle idee espresse da Clairaut e da Hoiiel (che sono errate almeno per
quel che concerne la svalutazione del movimento sofistico I), un altro nesso,
più importante, appare fra la critica logica dei matematici e la dialettica dei
sofisti, poiché l’una e l’altra sono generate insieme dalla filosofia di Velia.
Infatti Zenone di Velia, è additato, dallo stesso Aristotele, come inventore di
quell’arte litigiosa che è la dialettica e, d’altra parte, l’analisi penetrante
di Tannery e di Zeuthen sui celebri argomenti intorno al moto (la dicotomia,
l’Achille, la freccia, ecc.), ha messo in evidenza il loro significato e valore
matematico, sicché il sottile dialettico in cui la tradizione non ha veduto che
un ragionatore ‘paradossale’, si scopre ai nostri occhi come iniziatore di
quell’ ordine di considerazioni che costituisce l'analisi infinitesimale. Ed é
sommamente istruttivo riconoscere che proprio dalle considerazioni infinitesimali
— in cui il pensiero i trova esposto a non sospettate fallacie — trae origine
la critica del ragionamento, onde ne esce fuori la sco¬ perta del principio di
contraddizione e il procedimento [Adversus Aialhcmaticos, I. III. (2 ) Cfr.
Diog., L., Vili, 57; Sesto Adv., Math., VII, 6 (in Diels, Zenone, A, IO); Aristotele
ed. Didot] di riduzione all'assurdo, o eliminazione della negazione. Democrito
che spingerà innanzi l’analisi infinitesimale, scoprendo il volume della
piramide, viene parimente ricordato da Diogene Laerzio come prosecutore della
dialettica zenoniana. Ma importa spiegare, sia pure con brevità, come le
origini dell’analisi infinitesimale si riattacchino ad un critica dei principi
della geometria, a cui pertanto viene a connettersi lo sviluppo della logica.
La dimostrazione delle cose che qui asseriamo si troverà nei lavori degli
storici sopra citati, ed anche in altri nostri scritti, in cui abbiamo trattato
più particoiar-mente questo soggetto. Secondo le notizie che ci vengono fornite
da Proclo, nel commento al primo libro dell' Euclide, le principali teorie
geometriche che costituiscono gli Elementi furono elaborate dai pitagorici e
ricevettero già a Crotone uno sviluppo dimostrativo. Zeuthen suppone che il
punto di partenza di questo sviluppo sia stato il tentativo di stabilire in
generale la relazione fra i quadrati dell’ipotenusa e dei cateti del triangolo
rettangolo, nota sotto il nome di teorema di Pitagora. D’altronde vi sono
numerosi indizi che la geometria pitagorica avesse come fondamento una teoria
delle proporzioni (symmetria, o della misura o analogia), basata sopra un
concetto EMPIRICO del punto-esteso, preso come [Cfr. Enriques, Il procedimento
di riduzione all'assurdo, Bollettino della Mathesis ».Cfr. in ispecie Tannery,
Pour la Science hellcne, cap. X. La logica degli antichi] elemento unitario di
tutte le cose (monade). Così l’affermazione pitagorica che le cose sono numeri è
da interpretare nel senso che un corpo, o una figura geometrica, che in questo
stadio della filosofia si pensa in maniera concreta, e un aggregato di punti,
cioè unità aventi posizione. Ma l’ipotesi monadica traeva con se la commensurabilità
(simmetria) di due segmenti qualsiansi, che appunto rendeva senz' altro possibile
la misura, e questa conseguenza doveva urtarsi — nel stesso circolo pitagorico—
colla scoperta che la diagonale e il lato del quadrato sono incommensurabili.
Ora, mentre i pitagorici si affaticavano intorno a questa difficoltà, altri
filosofi che del resto sono usciti dai medesimi circoli, iniziano la critica
dei concetti geometrici, riconoscendo che un ragionamento, il quale voglia
mantenersi immune da contraddizioni, deve riguardare il punto come privo di
estensione, la linea come lunghezza senza larghezza, la superficie senza spessore,
e di qui vengoo naturalmente condotti alle prime considerazioni infinitesimali.
Questi critici razionalisti sono i filosofi di Velia: Parmenide e il suo
discepolo, l’italiano Zenone. La loro speculazione segna un punto decisivo nella
storia della filosofìa, perocché essa proclama nettamente, per la prima volta,
i diritti della ragione: il ragionamento coerente viene assunto [Parmenide è
annoverato fra i pitagorici nel catalogo di Giarablico (Diels, Pyth, 45, A.) e
delle sue relazioni con altri pitagorici ci viene attestato da Diogene Laerzio.
Senz’ altro a misura della verità, cioè dell' esistenza metafisica, distinta e
contrapposta all’ opinione probabile che si riferisce alla realtà sensibile. Da
questo razionalismo, per cui il pensiero non esita a staccarsi dalle apparenze
fenomeniche per serbare rigida fede ai suoi principi, nasce — come si è detto —
il metodo dialettico, che è il germe della logica. La quale ebbe a svilupparsi
di poi, mentre fervevano le controversie fra empiristi e razionalisti, e — per
opera di questi — si proseguiva lo sviluppo dell analisi infinitesimale
(Democrito), e se ne indagava criticamente i principi (Eudosso). Ma, poiché
questa critica — toccando alla teoria fondamentale degli incommensurabili e
delle proporzioni — veniva ad involgere l’intiero problema dell’assetto
rigoroso della geometria, la ricerca logica non poteva limitarsi all’ analisi
dei sottili procedimenti implicaturali della deduzione, anzi doveva naturalmente
estendersi all’ordinamento della scienza e alla valutazione dei suoi principi. In
rapporto a ciò che precede riescono sommamente espressivi ed interessanti i
giudizii di Plato ne, sebbene forse, si sia esagerata dallo Zeuthen l’influenza
che il filosofo ateniese può. “Sur la riforme qu' a subie la malhématique de
Platon à Euclide et gràce à laquelle elle est devenue Science raisonnée,
“Memorie dell’ Accademia di Copenhagen”)] avere esercitato su pensatori
matematici quali Eudosso Teeteto, allorché designa il movimento critico el
tempo col nome di riforma platonica dèlle matematiche. Riferiamo alcuni passi della
Republica 510. Quelli che si occupano di geometria e di aritmetica ecc.
assumono il “pari” ed il “dispari”, e le figure e tre specie di angoli, e altri
simili supposti nelle dimostrazioni; e come avendone certa scienza questi
supposti li prendono per base, e quasi fossero evidenti non pensano affato a
darne alcuna ragione, nè a se stessi, nè agli altri; anzi, di qui partendo,
ordinatamente dimostrano lutto il resto giungendo infine a ciò che si
proponevano di dimostrare. Essi si valgono, per ciò, di figure visibili, e
ragionano su di esse, non ad esse pensando, ma a quelle di cui queste sono l’immagine,
ragionando sul quadrato in se stesso e sulla sua diagonale, anziché su quello o
quella che disegnano; e cosìutte le figure che formano o disegnano (quasi ombre
o immagini specchiate dall' acqua), tutte le adoperano come rappresentazioni,
cercando di vedere attraverso di esse i loro originali, che non sono visibili
se nndall’intelligenza (5:cV3ix).... ». (511). Questa specie invero io la
dicevo intelligibile, e intendevo dire che l’anima nell’ investigazione di
essa, è costretta a valersi di remesse. Ci valiamo dell’ed. Didot e della trad.
it. edita da Laterza, che riportiamo con lievi modificazioni. non procede al
principio, perchè non è in grado di andare oltre alle premesse, ma si vale,
come d’ immagini, degli originali appartenenti al mondo di quaggiù, da esse
imitali, valutandoli e stimandoli come eidenti di fronte a quelle,” mentre “il
ragionamento che usa la forza della dialettica, considerando le remesse non
come principi ma soltanto come pre¬ esse — quasi punti d’ appoggio e di
partenza — giunge a ciò che più non ha premesse, cioè al principio universale,
e raggiuntolo e tenendosi fermo alle conseguenze che ne derivano, perviene al
fine senza far uso di nessun sensibile, cioè procede dalle idee stesse alle
idee attraverso le idee, per finire alle idee. Di qui la distinzione posta fra
la ragione del dialettico (vo’jc, vóy}oic) e l’intelligenza del geometra
(3:xvo:s() che sta di mezzo fra l’opinione e la ragione”. La stessa distinzione
ritorna in: Rep. (533c,...): la geometria e le scienze affini sognano rispetto
all’ essere, ma è imposibile che lo vedano ad occhi aperti, intanto che si
valgono di postulati e li tengon fermi, mentre non sanno renderne conto.
Veramente la disciplina, che ignora il suo principio, e che ha la fine e il
mezzo legato a ciò che non sa, come si potrebbe chiamarla scienza?... ».Vi è
qualche difficoltà a comprendere queste vedute. Anzitutto giova respingere l’
interpretazione più comune, che stabilisce una differenza radicale fra la
ragione del dialettico e l’intelligenza del geometra, giacché non si riesce a
dare alcun significato alle idee platoniche, se non ammettendo che esse
esistano nello stesso modo in cui si afferma l’esistenza di rapporti o di forme
matematiche nella natura. L' apparente contraddizione fra questo modo d'intendere
la dottrina e le parole del testo sopra accennato, si toglie ammettendo che il
posto inferiore attribuito alle matematiche di fronte alla dialettica, si
riferisca non tanto alle matematiche pure, costruibili come scienze (pafW’yiJ.aT*)
secondo l’ideale del nostro, quanto alle matematiche considerate come arti (zl'/yy.:).
Ed in appoggio a tale veduta si possono citare altri passi dello stesso
dialogo, p. es.: Rep. (527) anche coloro
che sono poco profondi in geometria, non metteranno in dubbio che questa
scienza è tutto il contrario di quanto parrebbe dalla terminologia che usano
quelli che la professano. È una terminologia troppo ridicola e misera, perchè —
quasi si trattasse di scopo pratico — parlano sempre di quadrare, di prolungare
o di aggiungere. Invece tutta la scienza si coltiva collo scopo di conoscere”. Ma
qual’ è l’ordinamento della geometria vagheggiato da Platone? su che base
vorrebbe egli edificarne i principi? I passi citati indicano assai chiaramente
che per conferire alla scienza un valore razionale, il filosofo [Cfr. G.
Milhaud: Les philosophes géometres de la Grece. Parigi, Alcan; Enriques:
Scienza e razionalismo, Bologna, Zanichelli] vorrebbe eliminare quelle domande
che si pongono a fondamento delle dimostrazioni, sotto il nome di postulati
(axioma), mercè cui si assume la possibilità di certe costruzioni, facendo
appello ad operazioni pratiche sopra modelli sensibili. La base della
geometria, edificata secondo i criteri della dialettica, consisterebbe duue in
pure definizioni (il procedimento dialettico ha appunto come scopo di definire
i concetti !) o in principi evidenti — quali gli assiomi — che Platone
riguarderebbe come conoscenze innate, giusta la teoria della reminiscenza (annamnesis)
esposta nel Menone. In tal guisa le proprietà elementari che una figure
visibile ha porto occasione di riconoscere, merce 1 intelligenza ideahzzatrice
(dianoia), apparirebbero fondate sulla pura ragione (nous). Rivolgendoci agli
Analytica di Aristotele, vi troveremo notizie più precise sui criteri adottati
dai geometri nell ordinamento logico della scienza, criteri che sara
interessante di raffrontare a quelli che appaiono, in atto, negli Elementi
euclidei. Già al principio degli Analytica priora, l’autore definisce il
concetto della scienza di cui imprende lo studio. Anzitutto e da dire il
soggetto e lo scopo di questo studio: il soggetto è la dimostrazione e lo scopo
è la scienza dimostrativa (à~:a~y.tirj à7to8sM~:xf/). Quindi, negli stessi
Analytica priora, viene a stabilire la teoria del sillogismo (teorico o
aletico, e pratico o volitivo), e passa poi ad esaminare — nei posteriora —
l’ordinamento delle scienze deduttive, riferendosi perciò continuamente alle matematiche.
Quest’ ultimo trattato, che qui occorre specialmente esaminare, si apre coll’
enunciato che ogni conoscenza razionale, sia insegnata, sia acquistata, deriva
sempre da conoscenze anteriori. L'osservazione mostra che ciò è vero di tutte
le scienze. Infatti questo è il procedimento delle matematiche e, senza eccezione,
di tutte le altre arti. Ora dal concetto stesso del sapere segue necessariamente
che la scienza dimostrativa procede da principi veri, da principi immediati,
più noti che la conclusione, di cui sono la causa ed a cui precedono.
Aristotele (ibidem, 1, 3) esamina e respinge le obiezioni di due specie di
avversari di questa dottrina, i quali pretendono o che non vi sieno principi e
però che la dimostrazione riesca impossibile, dando luogo ad un regresso all’
infinito; o, all' opposto, che il procedimento della dimostrazione sia affatto
relativo, sicché i principi possano provarsi partendo dalle conclusioni, così
come le conclusioni dai principi: ciò che egli dice dar luogo ad un circolo
vizioso. Sarebbe assai interessante conoscere gli avversari [Cfr. Enriques: Il
concetto della Logica dimostrativa secondo Aristotele in « Rivista di filosofia
») An. post. I, 2 (6). a cui il nostro si riferisce. Forse la prima obiezione
apparteneva alla polemica antimatematica di filosofi empiristi, mentre la seconda
potrebbe essersi presentata nei circoli megarici (imbevuti del relativismo
veliatico) ovvero a Democrito o ad altri matematici, critici dei principi della
scienza. Ad ogni modo, della veduta qui espressa — che è solo apparentemente
illogica — ci colpisce l'analogia che essa presenta con talune vedute moderne.
Aristotele combatte questo relativismo, poiché tutta la sua metafisica,
ispirata alla dottrina platonica delle idee, e soggiacente alla sua logica,
reagisce appunto alle tendenze relativistiche delle speculazioni, che dalla scienza
presocratica erano passate nel dominio del costume e delle credenze religiose,
in guisa da minacciare le condizioni della vita sociale nel mondo ellenico. Il
parallelismo che i veleiatici avevano scorto fra il logo o ragione e l’essere,
e che i sofisti (avversari e prosecutori) avevano interpretato nel modo di
proiettare nella realtà l’arbitrario che è proprio della libera critica,
riceve, nella dottrina socratico-platonica, una interpretazione inversa.
Infattim la teoria ontologica delle
idee, suppone un ordine assoluto di consistenza che stanno di fronte alla
ragione come dati, sopra cui esso ha da modellare l’ordine della propria
scienza. Così dunque Platone vede nella classificazione delle forme geometriche
un modello della gerarchia delle specie naturali, la quale si rispecchia nquel
procedimento più generale di “divisione” (diaresis) e di definizione (horismos)
che costituisce la dialettica. Ed analogamente per Aristotele, il rapporto necessario
ed irrversibile fra causa ed effetto, offerto dalla natura, si riflette nel
rapporto fa premesse (p) e conseguenze (q) della scienza dimostrativa (p
implicat q); la quale perciò possiede un ordine naturale che non può essere
invertito, onde i suoi principi appariscno assolutamente indimostrabili, An.
post. I, 2 (9): Bisogna che i principi da cui si parte sieno indimostrabili.
Altrimenti, non possedendone la dimostrazione, on potrebbero ritenersi noti,
poiché sapere in modo non accidentale le cose di cui la dimostrazione è
posibile, è possederne la dimostrazione, Ora, proseguendo l’esame degli Analityca
posteriora, veniamo istruiti più precisamente che i principi della scienza, si
lasciano distinguere in più specie. Primo, i Termini o definizioni (3 poi),
cioè supposizioni del ‘significato’ (semiosis,segno) dell’espressione (in
linguaggio moderno: assunzioni di concetti primitivi non definiti) e
definizione propriamente detta. Secondo, Supposizioni d’esistenza del genere e
delle sue modificazioni, cioè delle cose designate dai termini. Terzo, Proposizioni
immediate che occorre necessariamente [La teoria logica della definizione è
trattata da Aristotele in An. post. II, e specie nei Capi 9 e 12: dove si
pscrive la regola di restringere successivamente l’estensione del genere
aggiungendo — nell’ordine naturale — la differenza specifica che lo delimitano,
fino a che esse circoscrivano, nel loro insieme, l’estensione del soggetto da
definire] riamete conoscere per apprendere qualsiasi cosa, le quali vengono
chiamate assiomi (ófiwpaTsc) giacché vi sono proposizioni di tal natura e ad
esse si riserva abitualmente questo nome. Infine anche ipotesi o postulati
(odr^i-istra), che s'introducono effettivamente nell’ insegnameto delle
matematiche (o anche nella discussione) domandando al discente di ammettere
l'esistenza di qualche cosa di cui egli non abbia alcuna idea, ovvero abbia
un’idea contraria. Qui d concetto d Aristotele riesce alquantscuro, iacché da
una parte egli sembra ammettere (come Platone) che un postulato potrebbe essere
eliminato * postulato... e ciò che si pone senza dimostrazione, quantunque
potrebbe dimostrarsi, e di cui ci si serve senz’ averlo dimostrato » (I, 10 (8)
); e d’ altra parte (riferendo evidentemente le vedute dei geometri) egli
avverte che una definizione non e un’ ipotesi perchè non dice se la cosa
definita esista oppur no. Ma probabilmente il suo pensiero è che il sapere
dovrebbe edificarsi su quelle sole supposizioni d'esistenza che hanno carattere
di necessità, essendo vere di per sé stesse (xaO’ alili), le quali non si
possono considerare come ipotesi o postulati.. (1, 10(7)), imperocché la
dimostrazione si rivolge non alla parola esteriore, ma alla parola interiore
dell’animo. Con ciò il Nostro fa appello a quel sentimento d’evidenza del
pensiero che Platone. Usalo dai pitagorici secondo Giamblico (in Diels, D, 6). ha
rappresentato come intima sincerità nel Teeteto, servendosi quasi delle stesse
parole. Tuttavia Aristotele critica la teoria platonica della reminiscenza, negando
che vi siano conoscenze innate. La conoscenza universale dei principi viene per
lui acquisita indubbiamente dalla sensazione. Essa si produce mercè l’unità
dell’ esperienza che sussiste nell' anima, nonostante la molteplicità degli
oggetti, in forza della facoltà di fissare ciò che vi è di simile o d’identico
nei particolari e di riconoscerlo come dato del pensiero. (An. post. 11, 15
(5,6, 7)). Ciò non toglie all’ assoluta verità che l'intelligenza idealizzatrice
(òtavaa), fondamento della scienza, conferisce ai suoi principi (II, 1-5 (8)). Alle
dottrine d’Aristotele giova paragonare quelle che appariscono nell’ ordinamento
degli Elementi di Euclide: Il ragionare è un discorso che l'anima rivolge a sè
stessa, per sè, intorno alle cose che consideri nemmeno in sogno hai ardito
dire a te stesso che il dispari è pari, o altra simile cosa. An. priora II, 21 (7)
e An. post. I, I (7). Heiberg, Euclidis opera omnia, Teubner, Lipsia, Secondo
le indicazioni del commentatore Proclo di Bisanziom Euclide sarebbe vissuto in
Alessandria al tempo del re Tolomeo. Le opere di Aristotele che conosciamo sembrano
appartenere all’ultimo decennio della sua vita. Nei quali si trovano tre specie
di principi: 1) termini o definizioni (Spot): 2) postulati 3) nozioni comuni
(y.otvof Ivvoiat). Non è qui il luogo per sottoporre ad un’analisi appiofondita
queste premesse, che — a dir vero — sono lungi dall’apparire soddisfacenti,
tanto che da Tannery si è perfino messo in dubbio la loro autenticità; solo,
riferendoci alla critica che ne ha fatto lo Zeuthen, Limiteremo ad alcune
osservazioni logiche. Ma anzitutto vogliamo arrestarci un momento sopra una
questione di parole. Non pochi si meravigliano che Euclide usa l’espressione
‘nozione comune’ per designare quelli che Aristotele chiama (coi matematici
pitagorici) * assiomi», tanto più che — si dice — l’espressione « evvow »
compare solo più tardi nel linguaggio degli Stoici. Ora non è fuor di luogo
rilevare che la stessa espressione si trova pure in Democrito. Il rilievo
assume interesse per la circostanza che Democrito compose, circa cent’anni
prima d’ Euclide, degli Elementi, che non sono annoverati nel sunto storico di
Proclo, ma di cui Trasillo ci ha conservato i titoli (:J ); tanto più che
questi lasciano (*) Clr. Hisloire dea malhimallquea traci, dal danese di Mascari
(Parigi, Gauthier-Villars): n. 14, 69 94. Cfr. Sesto in Diels, A, III. (3 )
rsti>|isi?t>t(óv (A, li?), Api0|io£, IIspl à/.dyfev Ypxfijitòv stai
vxowùv A, li (cfr. Diels B, II", II 0, I |P)] scorgere un ordinamento
della materia simile a quello adottato dallo stesso Euclide. Non sembra fuor di
luogo congetturare che nella terminologia democritea gli assiomi venissero
appunto designati come nozione o nozione comune, e che il geometra
alessandrino, imprendendo a sistemare la stessa materia, in rapporto ai
progressi critici del secolo, abbia conservato la denominazione del suo
illustre predecessore: al quale di preferenza doveva guardare. Diciamo ora che
la distinzione fra le nozioni comuni o gli assiomi, e i postulati, viene spiegata
da Gemino in Proclo come analoga a quella fra teoremi e problemi, o fra
identità e equazioni, in quanto i primi porgono delle relazioni, per cui certe
proprietà resultano conciute come conseguenza di altre date, laddove i secondi
assegnano costruzioni elementari, ciò che, nel concetto dei antichi, significa
affermare l’ esistenza di enti particolari cui s’impongono certe condizioni. Questo
carattere costruttivo sembra mancare soltanto al post. 4 (tutti gli ngoli retti
sono uguali fra loro); ma Zeulhen spiega come in tale affermazione debba
vedersi un complemento del post. 2, nel modo di affermare che il prolungamento
di una retta è unico. In appoggio della nostra veduta può valere, forse, un
passo del noto commento. Prodi Diadoclii in primum Euclidis Elemenorum librato
commentarii (ed. Friedlein), in cui sembra che Proclo alluda all'uso dei
geometri di chiamare nozione comune ciò che Aristotele chiama assioma. Cfr.
Vailati, Scritti, Proclo osserva pure che gli assiomi e i postulati
differiscono anche per essere: questi, principi particolari della geometria, e
quelli, principi comuni alle varie scienze; infatti si tratta qui delle
proprietà generali dell uguaglianza e diseguaglianza fra grandezze. Infine la
distinzione fra le due specie di principi si accorda anche col criterio
d'Aristotele, che riconosce negli assiomi delle verità cessarie ed indimostrabili,
perchè evidenti di per se (xocS' èx jvx), e nei postulati delle verità —
partecipanti ad un’ altra specie di evidenza (sensibile) — che non risultano
ugualmente dviyxw dal significato dei termini che vi figurano: la natura del principio,
enunciato da Euclide come nozione comune, sembra infatti rispondere a questo
criterio. Ma se taluni geometri (al dire dello stesso Proclo) recusavano di
distinguere assioma e postulato, mancano tuttavia indizi per affermare che essi
respingessero il significato che Aristotele e probabilmente altri ancora
(secondo la metafisica del senso comune) attaccavano a codesta distinzione,
così come lo respinge la critica moderna, che per tale motivo appunto —
considera ugualmente le proposizioni primitive della scienza quali postulati,
da ricevere, in una qualsiasi teoria deduttiva, come dati anteriori allo
sviluppo della teoria stessa. Un piccolo lume ci è recato in tali questioni dal
riferimento dello stesso Proclo circa un tentativo di dimostrare l'assioma I
(cose uguali ad una terza sono uguali fra loro), che sarebbe stato fatto da
Apollonio. Infatti della tentata dimostrazione viene porto il seguente cenno. Sia
a uguale a b, e b uguale a c; dico che a è uguale a c. Invero a occupa Io
stesso luogo (córto;) di b, e così b occupa lo stesso luogo di c; quindi anche
a occupa lo stesso luogo di c. Questo ragionamento indicherebbe forse che
Apollonio voleva ricondurre il concetto euclideo di ‘eguaglianza’ geometrica al
caso della sovrapponibilità delle figure, facendo appello ad esperienze ideali
di movimento, mercè cui poteva iludersi di ridurre ad una pura proposizione
identica la proprietà transitiva di quella relazione. Mentre il ricorso a
siffatte esperienze ci avverte appunto (con Helmholtz e Stolz) che il detto
assioma 1 ha un significato o carattere sintetico e non può ritenersi come una
semplice proposizione analitica (vera per definizione). Comunque il rifermento
accennato lascia presumere che la critica dei principi sia stata spinta innanzi
da Apollonio, dopo Euclide, con quella penetrazione di cui volentieri siamo
disposti ad accreditare il grande geometra iPerga. Ritorniamo all' Euclide per
esaminare, in breve, i principi eh' egli ha designato col nome horós: termine o
definizione. Se essi vengono considerati come definizione, non si può a meno di
rilevarne la manchevolezza, poiché non offrono, spesso, che descrizioni atte a
indicare la genesi psicologica dei concetti. Così, p. es., in 3 e 3, dove si
dice che gli estremi di una linea sono punti, e che gli estremi di una
superficie sono linee. Ma, verosimilmente, queste ed altre spiegazioni sono da
considerare in rapporto alla tradizione storica precedente, come un richiamo
dei caratteri per cui gli enti delia geometria razionale appaiono idealizzazioni
dell'esperienza: p. es. le I, 2, 5 stanno a ricordare che — secondo il risultato
della critica veliatica il punto è inesteso, la linea è lunghezza senza
larghezza, e la superficie non ha spessore. Anche quelle che si presentano come
definizioni propriamente dette, non ottemperano sempre al criterio fondamentale
enunciato da Aristotele, che l’insieme degli attributi restringa l’estensione
del genere in guisa da non appartenere ad alcun concetto più esteso. Per questo
motivo sembra insufficiente la def. 4, inea retta è quella che e posta ugualmente
rispetto ai suoi punti. Imperocché, se s interpreta come si usa comunemente, retta
è quella linea che è divisa in due parti uguali da qualsiasi uo punto’, si
enuncia una proprietà non caratteristica della retta, che appartiene anche
all’elica (cfr. Apollonio in Proclo: 105, 5). Ora conviene aggiungere che
Euclide, non soltanto suppone l’esistenza di ciò che viene immediatamente
designato da alcuni termini, ma sembra anche introdurre surrettiziamente alcune
ipotesi esistenziali, per mezzo di definizioni, laddove — per analogia coi
criteri seguiti in altri casi — si sarebbe aspettata l'esplicita introduzione
di un postulato. Ciò accade, in ispecie, per quel che riguarda le intersezioni
di rette e circoli, le assunoni adoperate nelle prop. I, 12, 22 sembrando giustificarsi
(secondo che osserva ) Cfr. Proclo 1. linea II] Zeuthen) mediante la
definizione (15) del circolo come figura piana compresa da una sola linea. Ma
non giova insistere su tali difetti, che apparten¬ gono all’esecuzione e non
modificano i criteri logici del disegno. Restando nell’ordine d’idee euclideo,
avremmo soltanto da completare i postulati coll’ enunciare esplicitamente i
casi d'esistenza delle interse¬ zioni di rette e cerchi o di due cerchi, che si
offrono nelle costruzioni elementari. Interessa piuttosto di rile¬ vare come
queste ipotesi esistenziali, che la geometria antica introduceva nei singoli
casi, mercè appropriate costruzioni, oggi si lasciano dedurre da un unico principio
generale di continuità, onde l'affermazione d’esistenza si libera dalla ricerca
dei mezzi costruttivi, complicantisi colla natura del problema. E questo un
progresso conforme all'indirizzo preconizzato da Platone, che— come si è visto
— repugnava appunto da ciò che sa di pratico o di meccanico nella formu¬
lazione dei postulati. Nota. A complemento di quel che si è detto intorno alla
geometria euclidea, aggiungeremo che Archimede (5) sembra classificare e
distinguere i principi in modo diverso, poiché (in una lettera a (Cfr. p. e*.
I* art. 5° di G. Vii a li nelle Questioni riguardanti le matematiche elementari
raccolte e coordinate daF. Enriques Voi. J, Bologna, Zahelli. De sphaera et
cilindro in « Archiinedis opera omnia cum commentari^ Eutocii », ed. Heiberg.
Lipsia, 1910. Cfr. The Work* of Archimedes, e. Heath, Cambridge, Capitolo I
Dositeo) chima «assiomi» (à^:ih\i.xTx) le definizioni accompagnate da
supposizioni d’esistenza: p. es. esi¬ stono linee piane che giacciono tutte da
una parte ecc., e queste si dicono concave; mentre poi dà il nome di *
assunzioni » (Aa|l3*V0;xsva) a taluni principi (teoremi precednemente stabiliti
o postulati, assai eleganti) da cui muove la sua trattazione: p. es. la retta è
la linea più breve tra due punti. Il commento d’Eutocio restituisce agli
àfjuojtara archimedei il nome di opy. ConsiderazioSe ora, riguardando
soprattutto ai secondi Analitici d’Aristotele e agli Elementi d’Euclide,
cerchiamo di esprimere le nostre impressioni in un giudizio sintetico sulla
logica degli antichi, domandandoci fino a che punto i loro criteri ci sembrino
accettabili o esaurienti, siamo condotti alle seguenti riflessioni. La logica
dei antichi suppone un ingenuo realismo per cui il pensiero appare come la
copia o la visione di una natura esterna. Così il numero dai pitagorici e lo
spazio continuo dagli eleati, sono pensati in concreto, ad imitazione di quella
sostanza cosmica che viene figurata costituire il sostrato naturale (la epa:;)
di tutte le cose. La supposizione realistica è tipicamente espresa nella teoria
delle idee di Platone, che (orma infine la metafisica soggiacente alla logica
d'Aristotele. Da essa deriva il carat¬ tere di necessità dei principi, e quindi
la pretesa di un ordine naturale della scienza, facente capo a pre- messe
assolutamente indimostrabili; la qual pretesa viene corretta, almeno in parte,
nelle vedute dei geometri. Ma dallo
stesso realismo, ha origine la radicale manchevolezza della teoria della
definizione. Poiché le oscunta del trattato di Aristotele e le imperfezioni
dell’Euclide, in enere gli errori della critica che si riscontrano in tali
opere, si possono riattaccare a codesto presupposto, quasi a comune radice. Si
ammette infatti che le parole rispondano ad enti di un mondo intelligibile
trascendente il soggetto, che si tratta di fissare univocament Di qui il
criterio che la deduzione logica debba tener presenti, non soltanto le premesse
esplicitamente enunciate come assiomi o postulati, bensì anche il significato
dei termini su cui si ragiona, vedendo, attraverso di essi, quella realtà
(geometrica ecc.) che è oggetto del pensiero. Ma ciò significa autorizzare nel
ragionamento inconfessati appelli all' intuizione, che, dichiarati, si
tradurrebbero in nuovi assiomi. Ora, se l'intuizione (o visione del
significato) rimane sempre presupposta nel ragionamento, quando mai potremo
assicurarci che gli assiomi formino un sistema completo? A stretto rigore di
tale domanda non si riesce neanche a definire il senso ! E quindi non si
comprende perchè si senta il bisogno di enunciare — a preferenza di altri —
alcuni fra gli assiomi, che pure sono dichiarati evidenti, necessari ecc. ecc. Aggiungiamo
che anche l’analisi aristotelica del ragionamento, facente capo alla teoria del
sillogismo (An. priora) sta pure in relazione col presup¬ posto metafisico
della logica. E specialmente colla circostanza che i Greci, in generale,
immaginarono la realtà intelligibile rappresentata dalla scienza, sul tipo statico
della classificazione delle forme geome¬ triche: tale è infatti il carattere
dell’ ontologia eleatica, che imprime il suo suggello sulla dottrina platonica
non superata veramente da Aristotele. Soltanto Democrito, come diremo più
avanti, si solleva al concetto di una scienza razionale del moto, ma le sue
vedute filosofiche non trovano adeguato sviluppo se non due mila anni più
tardi, all epoca della Rinascita. Qui conviene rilevare che le critiche mosse
alla teoria sillogistica dagli empiristi inglesi (da Bacone a Mill), opponenti
alla deduzione 1 induzione generahzzatrice dell’esperienza, hanno fatto perder
di vista ciò che manca all’ analisi aristotelica del ragionamento, pur
riguardato nelle forme rigorose, che sole appartengono — secondo il concetto
del filosofo greco alla logica dimostrativa propriamente detta. Infatti i brevi
cenni che Aristotele dedica all’induzione (completa), negli Analylica priora,
non suppliscono certo all’analisi delle operazioni logiche costruttive
(significate da particelle come « e », o » ecc.) che accanto al sillogismo
ricorrono nello sviluppo delle dimostrazioni matematiche. La quale lacuna torna
a (i) Cfr. Cli. Werner, Aristotele et V ideallsme plalonicien, Alcan, Parigi]
riflettersi sulla teoria delle definizioni, che appunto esprimono codesto lavoro
costruttivo del pensiero. Infine giova rilevare che l’anzidetto realismo si
riflette in una concezione ingenua del linguaggio: la filosofia greca — sia che
abbia ammesso l'origine naturale della lingua (come Platone nel Cratilo), sia
che abbia rilevato ciò che vi è di convenzionale nelle parole (come Democrito e
Aristotele) — non riesce a scorgere la varietà essenziale delle lingue, che
tiene ai diversi modi di rappresentazione delle cose ed esprimendo la libera attività
del soggetto, dà origine all'intraducibilità. Dice infatti Aristotele: De
Inlerpretatione, 1. Una espressione e una l'immagine delle modificazioni
dell'anima. L’espressioni differiscono fra loro. Ma una modificazione
dell’anima, di cui l’espressione e i SEGNO immediato, e identica per tutti gli
uomini, come sono identiche per tutti le cose che quelle modificazioni
esattamente rappresentano. E chiaro come una siffatta dottrina spieghi quella
confusione fra analisi logica e analisi del linguaggio, Proclo, nel commento al “Cratilo”, riferisce
appunto questa opinione di Democrito, basata auiromonimia e la sinonimia di una
espressione E1 e una espressione E2, sul cambiamento dei nomi e sul difetto di
analogia nella formazione di certe espressioni verbali. (Cfr. le note al Cratilo
di Cousin). De Interpretatione, 2 (1), che culmina nel concetto aristotelico di
trarre dalla forma o materia dell’espressione grammaticale una classificazione o tassonomia di questa o
quella categoria. In ciò che precede ci siamo fermati a studiare il pensiero
degli antichi traverso le sistemazioni scientifiche che sono a noi pervenute.
Ma, per l’intelligenza dello sviluppo ulteriore che la logica riceve nelle
scuole filosofiche dopo Aristotele, conviene tener conto dell'influsso che i
predecessori del Stagirita sembrano aver esercitato sul movimento delle idee.
Infatti codesto sviluppo si lascia definire, nlle sue linee generali, come
tendente a liberare il pensiero dall ontologismo, che pure sopravvive in
qualche modo alla ideologia platonico-aristotelica, nella misura in cui tale
filosofia esprime la metafisica del senso comune. E l’anzidetta tendenza
liberatrice si esplica in un progresso verso il formalismo logico, che procede
dallo studio degli schemi discorsivi, formante oggetto degli Analytica priora.
Questo progresso si avverte già nei primi paripatetici, come Eudemo, lo
scrittore di una storia delle matematiche, e Teofrasto il raccoglitore delle
opinioni dei fisici, ma più largamente ancora negli Stoici, in cui è pure
passata 1 eredita dei dialettici megarici. Questo progresso si avverte anchein
una revisione dei principi della teoria della conoscenza, che ha per oggetto
l’origine e il valore dei concetto generale da cui muove la scienza dimostrativa:
qui soprattutto vengono in luce delle vedute che debbono essere riattaccate ai
grandi predecessori di Platone e di Aristotele; sulle quali l’interesse della
questione c invita a fermarci. Ora, se ci volgiamo a riostruire induttivamente
le idee di codesti predecessori, la figura di Democrito d'Abdera, deve
attirare, sovra ogni altra, la nostra attenzione. Democrito, vissuto 40 anni
dopo Anassagora e 25 anni dopo il suo concittadino Protagora che è il maggiore
rappresentante della sofistica), deve esser considerato come un contemporaneo di
Platone. Così, soltanto i pregiudizii dominanti la ricostruzione della storia
della filosofia greco-romana nel secolo decimonono, hanno impedito di stdare
più da vicino i rapporti fra Democrito e Platone, relegando Democrito tra i pre-socratici
e perfino tra i pre-sofisti, in onta alla cronologia. Democrito è il ande
fondatore dell’atomismo, in cui ha tuttavia come precursore Leucippo, e che fu
svolta da lui come una teoria cinetica cosmologica. Attraverso questa dottrina
Democrito agiunse ad una rigorosa concezione del determinismo meccanico, e
verosimilmente he alla scoperta di principi (massa, inerzia) chalileo. Fanno eccezione
Windelband e Burnel, che restituiscono airAbderita il suo posto cronologico, ma
che tuttavia non sembrano arne un apprezzamento proporzionato all' importanza
del suo lavoro scientifico] ha riostruito due mil’ anni più tardi, riprendendo
le intuizioni fondamentali del lontano predecessore. Per il suo rigido meccanicismo,
con esclusione di ogni teleologia, Democrito viene considerato come il padre
del materialismo, e da ciò appunto ha origine il pregiudizio da cui in ispecie
la storia svoltasi sotto l’nfluenza hegeliana, nel secolo decimonono, non ha
saputo mai emanciparsi completamente. Quantunque un esame accurato avrebbe
permesso di riconoscere ello stesso Democrito anche il padre dello spiritualismo
(così come Leibniz sembra avere intuito!) e forse anche di far risalire a lui
l’argomento per l’immortalita dell’anima basato sulla sua semplicità o in-divis-ibilità,
che s'incontra nel Fedone 78, b, c. Le opere di Democrito, di cui ci sono
trasmessi i titoli da Trasillo, formano una mole imponente e si riferiscono ai
più svariati argomenti, dalle matematiche alla fisica, alle scienze naturali,
all’agricoltura, alla teoria dei segno e dell’espressione, la dialettica, la grammatica,
alla poetica, alla teoria della conoscenza ecc. ecc.; fra i frammenti più belli
sono da annoverare quelli morali, conservatici da Stobeo. La posizione
filosofica di Democrito, per ciò che concerne la teoria della conoscenza,
resulta dalla testimonianza di Sesto Empirico, laddove egli parla di Democrito
e Platone sostenitori della verità degli intelligibili (ià vorjra) in
contraddizione con Protagora [Di ciò mi propongo fornire altrove la prova col
confront dei testi aristotelici] aora. Si tratta dunque di un razionalismo, che
si contrappone all’ empirismo protagoreo. Ma, poichè a sua volta questo
empirismo dei sofisti era sorto come una reazione di caratere “positivistico”
al razionalismo metafisico della scuola di Velia, è naturale che Democrito
avesse a tener conto dell’ esigenza fondamentale che i sofisti avevano formulato.
Democrito non posse semplicemente riprendere come materia della scienza una
Verità (£M)0s:a) indifferente rispetto all’opinione (doxa) che si riferisce
alle cose sensibili, ma doveva invece cercare una razionalizzazione dell’empirico,
cioè una verità atta a salvare i fenomeni (ofttTe'.v ~ì 6|JtSV«); e siffatta
veduta si poteva esprimere nel linguaggio tecnico del tempo, dando per compito
alla scienza l’opinione vera, o inverata mediante il ragionamento. Appunto
questa teoria della scienza come lii^x (isià Xóyo'j, viene riferita e discussa
da Platone nel “Teeteto”, ed una comparazione analitica del testo con altri
dello stesso Platone e di Aristotele, prova che il riferimento deve essere
attribuito a Democrito. Ma, poiché la spiegazione razionale dei fenomeni
suppone dei concetti, per mezzo dei quali si unifichi la rappresentazione delle
cose del mondo empirico, si può domandare su che Democrito ne basasse il ossesso
da parte dal soggeto percipiente. Qui soccorono alcune indicazioni. /. ' (l )
Diel. A. 59 i eh. A. 114. (! ) Cfr. Enriques: La teoria democritea delta scienza
nel dialoghi di 'Platone, Rivista di Filosofia, n. I. 1) Anzitutto Democrito
viene additato da Aristotele come il primo a trattare delle definizioni di cose
fisiche, mentre ei ci dice che con Socrate crebbe l'uso del definire e si
estese soprattutto alle nozioni morali. Conviene intendere che Democrito inizia
quel modo di definire proprio della scuola socratica, in cui si ricercano i
caratteri comuni delle cose che rispondono al definito; è più difficile dire se
lo stesso Democrito, come Socrate, facesse anche appello alla nozione comune
che tutti gli uomini si formano in rapporto a dati oggetti; e tuttavia questo
criterio ei ben poteva derivare da Eraclito, cui lo stesso Socrate sembra avere
attinto. In un frammento della già citata opera logica di Democrito rtsp:
àoyrxtòv noi xzvwv che ci è statmandato da Sesto, vengono distinte due speecie,
di conoscenza, l’una relativa all’intelligenza (à7j; Siavaas), l’altra alla
sensazione (Ò:à rwv aìofi^oetov). Dice precisamente Democrito: “Vi sono due forme
della conoscenza: una conoscenza pura o legittima (yvyjafyj) ed una adombrata spuria
(av.v.ri). Appartengono a quest’ ultima forma adombrata spuria le cinque sensi:
la vista (visum), l’udito (uditum), il gusto (gustatum), l’odorato (odoratum),
il tattoo (tactum). Ma la conoscenza pura è completamente distinta. Ed aggiunge
ce questa conoscenza pura è relativa ad un (') Mtt. I, 4, (3), De Partibus
Animalium I, 1 (ed. Didot, t. IH, pag. 223, 2). (! ) In Diel» B. II) orbano di
pensiero più raffinato che prende il posto di un vedere o di un udire o gustare
o odorre o tastare nel più piccolo (mettendoci così in rapporto colla vera
natura delle cose, cioè cogli atomi. Anche in altri modi Democrito esprime la
relazione fra le due forme del conoscere; per esempio ove dice che « apparenza
(vòptoi) il colore, apparenza il dolce, apparenza l'amaro. In realtà soltanto
gli atomi e il vuoto. Ma poi, facendo parlare i sensi contro l’intelligenza,
soggiunge povera me, prendendo da noi la tua fede, tu vuoi confonderci; la tua
vittoria è la tua caduta. Troviamo qui una notizia estremamente interessante. Democrito,
al pari di Platone e di Aristotele, e prima di loro, dibatteva il problema
dell'origine dell’idea. Democrito non si fermava, come il filosofo ateniese
alla supposizione della conoscenze innata (teoria della reminiscenza --
anamnesis), anzi piuttosto sembra derivare la idea dalla sensazione, sicché è
lecito pensare che a lui possa aver attinto Aristotele la veduta che gli abbiam
visto esprimere in An. Post. Il, 15. Ma, mentre in Aristotele non si vede come
possa conciliarsi questa dottrina colla dignità attribuita alla nozione
induttivamente acquistata, che debbe costituire le premesse necessarie della
scienza dimostrativa, ciò che sappiamo intorno alla teoria delle sensazione di
Democrito (in rapporto alla fondamentale (*) Galeno in Die!» B. 125; cfr. Sesto
in Diels B. 9.] supposizione atomica) e ben atto a sciogliere la difficoltà.
Ammetteva infatti il Nostro, che la sensazione
in generale derivassero da piccole immagini (sKoiXa) emesse dai corpi e proprie
ad impressionare gli organi dei cinque sensi ed anche lo stesso pensiero in
quella guisa in cui la luce impressiona una lastra fotografica. L’immagini
rispondente alla conoscenza inteligibile partenti direttamente dagli atomi —
sono di natura più fine. Si comprende quindi che esse possano liberarsi dalla
mescolanza colle immagini più grossolane che colpiscono i cinque sensi, quando
il confronto di sensazioni ripetute, in rapporto ad una molteplicità di cose,
permette di fissare i caratteri comuni che definiscono il concetto. Che
effettivamente Democrito riconoscesse il valore logico del concetto, quasi come
anticipazioni dell'esperienza, resulta anche dalla testimonianza di Diotimo in
Sesto (VII, 1401), che egli assumeva come criterio della comprensione delle
cose oscure il fenomeno, e come criterio della ricerca'il concetto, èvvoia
xpurr/pwv Z,r\vtpzwq. Qui è notevole lo del termine. Ivvotoe che già notammo a
proposto della designazione di y.oiw.l Ivvs:% adoperata da Euclide per gli
assiomi, giacche abbiam pur detto che codesto termine non si trova nella [Cfr.
p. et. Aetiui in Diel», A. 30. (2 ) Diels, A. III. 37]letteratura filosofica di
Platone ed Aristotele, ma invece, più tardi, presso gli Stoici. Appunto ad
un’opera di Crisippo 7tepì £?jT^7S(0£ sembra fare allusione Plutarco presso
Olimpiodoro, dove dice che gli Stoici allegano a causa di ciò (cioè della possibilità
di arrivare a cose che non si conoscono) le nozioni fisiche: tàj qjuaixà;
èvvofa?. D’altronde Diogoene Laerzio (VII, 54) (c’informa che Crisippo dice
esservi DUE criteri della verità, la sensazione e il concetto. Qui in cambio di
svvoia viene adoperata l’espressione TtpóXvjtjt:?, che ricorre anche presso gli
Epicurei, designando l’anticipazione dell’esperienza. Ora il significato
preciso che gli Stoici davano alle ÈVV 3 tati, si può rilevare, per esempio, da
un passo del De Civitate Dei di S. Agostino dove si parla di coloro che
riposero la verità nei sensi, cioè degli Epicurei e degli stessi Stoici. Qui
cum vehementer aaerint sollertiam disputando quam dialecticam nominant, a
corporis sensibus eam ducendam putarunt, hinc asseverantes animum concipere
notiones, quas appellant èvvo'st;, earum rerum scilicet quas definiendo
explicant. Da questi riferimenti sembra potersi dedurre che gli Stoici abbiano
adottato, al pari di Aristotele, la dottrina democritea dell’ origine sensibile
dei concetti – nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensi (l ) Cfr.
Arnim, Stoicorum veterani fragmenta. Voi. II, n. 104. Crisippo, discepolo di
Zenone Cizio (280-209 a. C.).In Arnim, op. c. 105. In Arnim, 106. (cui soltanto
gli Epicurei conservarono come fondamento l’ipotesi delle piccole immagini), ma
spogliando i concetti di quella dignità superiore che il razionalista cerca conferire
agli intelligibili; così, per loro, la dimostrazione scientifica (àiróSs:^;)
viene ridotta, per dirla con Cicerone, ad una “ratio, quae ex rebus perceptis
ad id, quod non percipiebatur, adducit.” In corrispondenza di queste vedute, di
carattere più empirico, è interessante rilevare come si modifichi la dottrina
democritea della scienza, che Zenone Cizio dice essere una comprensione sicura
e ferma e immutabile dalla ragione » (à,u£-*sov ùttò Àóyo j /./.- ovvero anche un
possesso immutabile dalla ragione, nell’accoglienza delle rappresentazioni »
(èv a>xvT5tTO)v r.ozz- a&o. Pertanto gli Stoici non giunsero a quello
schietto empirismo, che si vede accolto da Epicuro, per cui è accettata sempre
come vera ogni sensazione o apparenza: richiesero anzi che all apparenza si
aggiunga 1 assenso volontario dell animo, che per il saggia ha motivo nell
identità fra la ragione individuale e la Ragione o logos universale. Così il
concetto eracliteo del logos, che la scuola Arnim, 111. () Riferimenti di Sesto
e Diogene Laerzio in Arnim: Zeno- Citius, n. 68. (' ) Cfr. Sesto e Cicerone in
Arnim: Zeno Citius, nn. 63 e 61. 3] stoica
ha fatto proprio, doveva pur sempre conservare al pensiero una certa dignità, e
quindi facilitare il trapasso alla veduta posteriore degli eclettici (Cicerone),
per cui le commune notio vengono ritenute non più come uniformità della natura
bensì come idea innata, attestanti la reminiscenza della vera origine divina
dell' uomo, onde la teoria stoica (ritornando in effetto a Platone) viene a
fondersi colla neoplatonica. Più direttamente degli Stoici (che pure ne derivarono
il principio del determinismo universale) si riattaccano a Democrito gli
Epicurei, che ne adottarono la teoria atomica, spogliata bensì del suo più
profondo significato meccanico. Ma, come abbiamo già accennato, Epicuro e lungi
dal razionalismo del maestro d’Abdera. La sua “Canonica” comprende poche regole
di cui abbiamo chiaro riferimento da Sesto Empirico, e che Gassendi ha
ricostruito con precisione nella sua Logica. Riferiamo la parte essenziale dei
canoni epicurei così formulate. Sensus nunquam fallitur. Opinio est consequens
sensum, sensiomque superadiecta, in quam veritas aut falsitas cadit. Opinio illa vera est, cui vel suffragata, vel
non refragatur sensus evidentia. Petri Gassendi Opera Omnia, Firenze. 1277,
Voi. 1. Pari 1, De Logicae origine el varietale]. Omnis quae in mente est
anticipatio, seu prae-notio, dependet a sensibus, idque vel incursione, vel
proportione, vel similitudine, vel compositione. (Questo stesso modo di
formazione dei concetti appare negli Stoici). Anticipatio est ipsa rei nodo,
sive definitio. Est anticipatio in omni ratiocinadoe principium. Quod inevidens
est, ex rei evidenti anticipaticele demonstrari debet. Qui è notevole 1 appello
all’evidenza sensibile (ev%ex) che viene così assunta come criterio di verità.
Nonostante la modificazione subita, è facile riconoscervi lo stesso criterio di
Democrito che contrapponendo la conoscenza pura o legittima alla conoscenza
oscura, viene appunto a ritenere la chiarezza delle idee come segno del loro
valore: senonchè quella che per Democrito era chiarezza di concepimento,
diviene per Epicuro chiarezza sensibile. Toccherà poi a Descartes di ritornare
al criterio dell’evidenza (cf. Grice, “Descartes on clear and distinct
perception) rispetto al pensiero, riguardando come vera la idea chiara e
distinta (l’aggiunta deriva dal Teeteto 209c-2l0). Dopo aver parlato degli
Stoici e degli Epicurei, ci convien dire degli [Notisi che già in Teofrasto si
applica il criterio dell’evidenza tanto all’intelligenza che al senso. (Cfr.
Sesto Adv. Malh.)] scettici i qual per verità non formano ugualmente una setta
o scuola chiusa, ma — a partire da Pirrone d’Elide e dal suo amico Timone —
ofno tuttavia una certa continuità di tradizione critica, mantenendo di fronte
alle filosofie dogmatiche un atteggiamento di dubbio metodico. No Diogene, ma Arcesilao
di Pitane e Carneade (che venne ambasciatore a Roma nel 155 a. C.), portarono
la filosofia scettica nella media Accademia – e che fascina a Scipione! Più
tardi incontriamo Enesidemo di Cnosso, Agrippa, e finalmente Sesto Empirico che
riassume tutto questo movimento nella sua opera pregevole, fonte cospicua di
notizie per la storia della filosofia romana. I rapporti esteriori che la
tradizione segnala fra Pirrone e qualche democriteo come Nausifane, nonché le
tendenze scettiche che si attribuiscono ad altri democritei (Metrodoro,
Anassarco) indicano già una certa dipendenza della scepsi da Democrito.
D’altronde il legame appare prima di tutto nel motivo morale che ispira la
riserva degli scettici di fronte alla vera natura delle cose, giacche la
sospensione del giudizio mirava a conquistare quella atarassia o
imperturbabilità dell' animo, che si riduce infine alla vittoria sulle
passioni, inculcata dall'Abderita. Ma il apporto teorico della scepsi con
Democrito resulta da ciò che questi aveva ridotto la realtà alla materia
indifferente degli atomi, negando le qualità sensibili; un passo ulteriore
della critica (riportantealla posizione di Protagora) doveva naturalmente
estendere il dubbio anche a quelle proprietà primarie in cui il grande atomista
aveva scorto l'oggetto intel¬ ligibile della conoscenza. E certo questo
sviluppo era suggerito dal contrasto fra le vedute dei due razio¬ nalisti,
sorti a combattere l’empirismo protagoreo: Democrito e Platone. Giacche questi
riteneva proprio come intelligibili quelle stesse qualità (ipostatizzate sotto
il nome di idea) che 1 altro aveva con¬ siderato vane apparenze. Inoltre, anche
nello stesso sistema democriteo, si può riconoscere 1 origine della critica che
investirà gli intelligibili, se — come siamo stati tratti induttivamente ad
ammettere — l’Abderita faceva pur nascere 1 intelligenza dai sensi. In tal
guisa il pensiero antico avrebbe percorso una via non lon¬ tana da quella per
cui il pensiero moderno giunse dalla posizione di Galileo, di Descartes e di
Locke (i quali ripresero la distinzione fra la qualità primaria e le qualità seconda)
alla critica di Berkeley, che — attraverso la teoria della visione - riusciva a
negare anche il significato trascendente di codesto sostrato geometrico della
materia. La teoria degli scettici, si noti, non nega affatto il mondo
fenomenico, bensì oppugna la pretesa dei dogmatici di affermare qualcosa della
verità o della natura delle cose in se stesse. La critica che essi svolgono a
tale scopo, rilevando ciò che vi è di relativo nei criterii della verità,
costituisce in gran parte un acquisto durevole per la dottrina della conoscenza:
lo La logica degli antichispirito che l’anima è affine a quello del positivismo
moderno, salvo il sentimento che la veduta di una scienza più progredita ispira
oggi ai critici della metafìsica. Ma per la storia della logica interessa
soprattutto esaminare gli argomenti di Carneade contro il concetto aristotelico
della dimostrazione: intorno ai quali siamo informati da Sesto Empirico. Ricompare
qui l’idea, già affacciata dai predecessori di Aristotele e da questi
oppugnata, che ogni prova dia luogo ad un regressus in infmitum, poiché ogni
premessa deve essere dedotta da un’altra premessa. E questo argo¬ mento prende
forza dalla negazione di ogni certezza immediata, alla quale gli scettici pervengono
(come si è accennato) mercè la veduta che i concetti su cui si ragiona traggono
pure origine dal senso, onde 1 incer¬ tezza della sensazione si riflette anche
sull intelligenza. Quindi viene presa in esame l'opinione che sia lecito
fondare la scienza sopra ipotesi, e che queste sieno fatte ferme e valide dalla
verità delle conseguenze che se ne deducono. Il passo di Sesto che critica
questa opinione non dice chi ne sia l’autore; ma resulta assai chiaro che essa
deve riferirsi particolar¬ mente ai fìsici matematici, e vi è forse qualche
motivo di attribuirla già a Democrito, che per primo propose alla scienza il
compito di spiegare razionalmente i feno¬ meni. Infatti abbiamo già accennato
che questi appunto (i) Adv. Math. VII, 159-189 e Vili in ispecie 367-463. (s )
Vili, 375] potesse essere preso di mira da Aristotele, ove eicontesta che voler
provare le premesse mediante le conclusioni costituisce un circolo vizioso (*).
Di nuovo Cameade riprende la tesi aristotelica, notando che dal vero si può dedurre
il falso; e certo l'argomento — in stretta logica — non potrebbe essere
confutato. Ma, per quanto o scettico sia portato a dare il maggior peso a
questa constatazione negativa, Cameade non vi si arresta. Dopo aver negato
l'esistenza di criteri assolutamente certi del vero e del falso, egli accorda
pure alla conoscenza un valore probabile; e questo valore lo riconosce, in
primo luogo, ad ogni rappresentazione dotata di sufficiente evidenza, ma in
grado più alto alle catene di rappresentazioni legate 1’una all'altra in un
sistema logico (ibidem, VII, 176 e seg.). Non diverso è, in ultima analisi, il
cri¬ terio positivo con cui anche oggi possiamo giudicare il valore delle
teorie scientifiche: soltanto appare, ai nostri tempi, un atteggiamento più
fiducioso, che è in rapporto collo sviluppo della trattazione matematica della
fisica; mentre il sentimento degli scettici risponde ad una scienza meno
evoluta, ed anche — piuttosto che alla mentalità di matematici — a quella dei
circoli medici, in cui Io scetticismo antico ebbe acco¬ glienza. Effettivamente
l’uso di ipotesi, il cui valore probabile viene desunto dalla verifica
sperimentale delle conseguenze che ne dipendono, caratterizza il metodo
deduttivo-sperimentale della scienza moderna. L. c. An. posi., I, 2] quale si
disegna in Kepler, Galileo e Descartes. L' esame intorno allo sviluppo della
logica post-aristotelica, in cui abbiamo cercato l'influsso delle idee di
qualche predecessore, ci ha mostrato che in verità il realismo logico di
Aristotele è stato superato dallo stesso pensiero greco; il quale ha toccato
posizioni affatto conformi alle più alte vedute moderne. Ma della critica
speciaente istituita dai geometri dopo Euclide, abbiamo notizie troppo scarse per
misurarne il significato; e secondo le apparenze dobbiamo ammettere che le fini
ricerche di Apollonio su questo soggetto non abbiano trovato prosecutori.
D’altra parte l’opera dei filosofi che hanno riflettuto sulla scienza, nella
filosofia romana, non aderendo propriamente ad uno sviluppo scientifico, e
tanto meno matematico, prese spesso quella forma negativa che nel modo più
raffinato ci presenta la dottrina scettica. Infatti per osservatori cui non sia
dato di riprendere e di proseguire il pensiero profondo dei più antichi filosofi
matematici, la confutazione di un ordine di verità necessario, quale è affermato
da Aristotele, deve apparire una confutazione dell stessa possibilità della
scienza. Resta nondimeno un esempio pieno d’interesse nella storia, quello che
ci viene offerto dalla scuola stoica, per cui la trattazione formale della
logica si associa ad una dottrina empirica della conoscenza. E, se codesto
sviluppo formale approda ad un arido schematismo (di fronte a cui comprendiamo
il disprezzo della dialettica manifestato dallo stoico Aristone di Chio),
tuttavia non si può disconoscere il valore dell’analisi logico-grammaticale
dell’espressione, mercè cui si riesce a scorgere in qualche modo nel
linguaggio, l’espressione di una attività costrittiva. Fino a che punto gli
stici sieno proceduti su questa via, non vogliamo qui esaminare. Ma certo si
scopre in essi quella distinzione fra subiettivo ed inter-soggettivo, che
riapparire agli inizii dell’epoca moderna, come fondamento della filosofia.
Dalla storia della filosofia romana si passa, senza indugiarci al movimento
delle idee che accompagna la rinascita della scienza, agli inizi dell’ Evo
moderno. Basta rilevare il carattere generale degli sviluppi che la dialettica riceve
nel periodo intermedio (medius aevus), arido se non del tutto infecondo. Diremo
per ciò come la logica aristotelico-stoica fu introdotta dal filosofo romano
Boezio presso i Romani. La traduzione di Boezio del greco al romano dei primi
due trattati dell’Organum (Categoriae e De Interpretatione – the only two that
Grice lectured on with J. L. Austin and P. F. Strawson), nonché dell’Isagoge di
Porfirio [arbor griceana], e i commenti con cui egli stesso ed altri scrittori
neo-platonici accompagnarono codesti scritti (nel senso della tecnica formale,
secondo la tradizione stoica), costituiscono il fondamento della cultura del
più antico (alto) Medio Evo. Del resto, la cultura generale sembra ^ppjesentata
da un certo numero di enciclopedie clella bassa antichità, come quella di Marciano
Capella, nelle quali si tratta delle sette artes liberales che, nel tirocinio
scolastico, formarono il trivio (I. grammatica, II. Rettorica, III. Dialettica)
ed il quadrivio (IV. Aritmetica. V. Geometria. VI. Astronomia. VII.
Musica). Specialmente degno di nota che
questa prima parte del Medio Evo non ha conosciuto, nè le altre opere (logiche,
fisiche ecc.) di Aristotile, nè le opere originali di Platone, fuori del “Timeo”,
tradotto in romano da Calcidio. Più tardi, il Rinascimento umanistico doveva
venir fecondato mercè una conoscenza diretta dei testi, in seguito alla caduta
dell’impero romano d'Oriente, che addusse numerosi profughi segnatamente in
Italia. Ora nella logica scolastica due aspetti sono degni di nota. Primo,la
progressiva elaborazione della tecnica formale, acuitasi mercè sottili
distinzioni. Secondo, la grande questione della realtà degli universali, di cui
a stento riusciamo a comprendere il carattere drammatico, traverso la forma
aridamente schematica delle discussioni. Sorvoleremo affatto sul primo punto,
sebbene sarebbe interessante per la storia della dialettica, di mostrare, per
esempio, in Buridano il riconoscimento della proprietà distributiva della
particella (adverbium) ‘non’ (~) rispetto a “et” (/\) e “vel” (\/). non (p et
q), ~ (p /\ q) ≡ non p vel non p (~p \/ q).
(notizia segnalatmi da Vacca) o di cercare simili analisi in Paolo
Veneto. Ma, quanto alla questione della realta degl’universale, diremo che si
tratta dell'antica questionollevata dalla ideologia platonico-aristotelica, se
all’idea generali corrisponde una realtà. La quale questione fu riaccesada un
passo dell’Isagoge di Porfirio (I, 3). “E anzitutto, per ciò che riguarda il
genero o la specie, io evito di ricercare se esiste di per sè, ovvero se esiste
soltanto come pure nozione; e — ammettendo che esista di per sè — se
apartengano alla cosa corporea o incorporee; e infine se abbiano esistenza
separata ovvero solo nella cosa corporea sensibile. E una questione troppo
profonda che esigerebbe uno studio differente da questo e troppo este. Nel
vasto intreccio della polemica medioevale appare che il nominalista (negante la
realtà dell’universale) rappresentano, in generale, le tendenze scientifiche,
avverso il misticismo platonizzante del realista. Ciò è vero soprattutto per
riguardo ai rinnovatori del nominalismo nel secolo come Guglielmo Occam e Giovanni
Buridano, rettore dell'Università di Parigi, ai quali è dovuta la teoria che ha
preso il nome di terminismo. Il terminista (che si accosta al concettualismo di
Abelardo) ritiene i concetto (o termino) come un segno intersoggettivo (signa)
della singola cose, o di una classe di cose, realmente esistenti. La dialettica
si riferisce soltanto alle reazione di questo segno della cose (Occam,
Quodlibeta V. 5). Occam avverte pue che l’espressione assume il suo proprio
significato nella proposizione, e spesso in unione a qualche altro termine. Terminus
conceptus est intentio seu passio animae aliquid NATURALITER SIGNIFICANSaut
consignificans, nata esse pars propositionis. Sifftta dottrina supera lo
stretto nominalismo e tuttavia nega il realismo: cioè nega che il ‘significato’
(o ‘signato’) dell’espressione sia da
cercare nella sua comprensione o connotazione, ossia nell’ insieme delle note o
attributi, di cui esso esprimerebbe l'unità sostanziale; e
si afferra invece all’estensione o denotazione (denotatum, relatum), cioè all’
insieme delle cose rappresentati dall’espressione (‘homo’), che — sotto la
specie di certe reali somiglianze — vengono vramente unificati. Al lume di
questa veduta, la definizione scolastica, discendente dal astratto generale universale
al concreto particulare individuo, e la logica stessa perdono importanza: onde
è fatto invito a volgersi dalla spiegazione dell’espressione al concreto della
esperienza. Ciò spiega abbastanza l’interesse appassionato della polemica
intorno agli universali che nel mondo sociale e morale deve rivendicare la
libertà dell'individuo soffocata dalla tirannia delle istituzioni e dall'autorità
delle credenze e dell’insegnamento tradizionale. Nulla sembra più proprio a
favorire un tale affrancamento degli spiriti, che abbattere alla radice
l’albero della deduzione infeconda, triviale, analitica, ricostruendo induttivamente
tutto il sapere. Onde la stessa tendenza si continua ed esplica nella reazione
anti-aristotelica (platonista) degli umanisti italiani purificatori della
logica dalla sottigliezza o implicatura scolastica (Valla, Agricola, Vives) e
si manifesta poi in nuove forme nella rinascita del movimento scientifico. RENATO
DEL PONTE IL MOVIMENTO TRADIZIONALISTA ROMANO NEL
NOVECENTO Studio storico preliminare SeaR
Edizioni 1987 RENATO DEL PONTE IL
MOVIMENTO TRADIZIONALISTA ROMANO NEL NOVECENTO Studio storico
preliminare Seconda edizione riveduta SeaR
Edizioni 1987 PREMESSA
Quanto segue è, nella sostanza, il contenuto di una conferenza
tenuta a Palermo presso ristituto Platone il 31 maggio 1986 e
successivamente, verso la fine di queiranno, riprodotto in un numero
limitato di co¬ pie, con aggiunte note critiche e documentarie, per
le «Dispense di Arx» di Messina, edite da Salvatore Ruta.
Oggi il testo viene ripresentato con maggiore digni¬ tà tipografica
e tiratura, onde favorirne la diffusione, con poche modifiche e aggiunte,
in questa nuova col¬ lana della Sear di Scandiano. Poiché è
certamente la prima volta che con una certa organicità viene affrontato
questo argomento, il presente scritto può a ben diritto definirsi una
novità. Tuttavia, dal momento che il nostro testo viene
presentato come uno «studio storico preliminare», il lettore potrà
dedurne che: a) i dati storici, biografici e letterari, le notizie
contenute ed ogni altra informa¬ zione non sono frutto di fantasia o di
illazioni avven¬ tate, ma desumibili nella loro grande maggioranza
da fonti documentarie (come dimostrato dai miei stessi
riferimenti); b) Tinsieme costituisce, d'altra parte, qualcosa di non definitivo,
in quanto suscettibile di essere ampliato ed ulteriormente specificato da
suc¬ cessive indagini e approfondimenti di maggior respiro.
Bisogna peraltro subito aggiungere che anche a molte notizie
documentarie non sarei pervenuto se non avessi tenuto conto, nel corso di
più anni, di in- 11 dicazioni,
suggerimenti, informazioni pervenutimi per via amichevole o riservata.
Quanto qui esposto, tuttavia, non fa parte di alcun segreto esclusivo
— come vorrebbero alcuni — bensì del patrimonio sto¬ rico della
nazione italica e come tale lo offriamo alla meditazione di quei lettori
che vorranno o sapranno trovarvi spunto di interesse interiore, nonché
agli sto¬ rici «laici», perché almeno in questa occasione si ren¬
dano conto del tipo di dimensione occulta che corre parallela e
interferisce nelle vicende della storia: nella fattispecie, prendano atto
dell 'esistenza, sinora igno¬ rata, delle correnti esoteriche che
tentarono di dare al fascismo queiranima priva di compromessi che non
fu capace di far sua. Renato del Ponte Entrando il
Sole nei Gemelli — anno MMDCCXL a.U.c. — 12
Nella prefazione da lui posta ad un recente lavoro dedicato soprattutto
alla cosiddetta «Nuova De¬ stra», il noto politologo Giorgio Galli, a cui
si deve senza dubbio riconoscere una notevole apertura mentale e
un’intelligente operazione culturale volta alla riscoperta di alcune
tematiche proprie della de¬ stra tradizionale, ha potuto osservare come
alla «Nuova Destra» sia mancata «precisamente una ri¬ lettura della
componente “magica” ed “esoterica” della cultura di destra». La «Nuova
Destra» si trove¬ rebbe anzi, attualmente, «in difficoltà sul piano
pro¬ priamente politico forse anche perché ha trascurato l’analisi
di fenomeni ai quali si dimostrava sensibi¬ le (...) la destra
tradizionalista “esoterica’^): tale fal¬ limento, dunque, sarebbe
implicito nel «completo abbandono di un bagaglio culturale di indubbia
ri¬ levanza» (1). Tale diagnosi ci pare esatta e le acute osservazioni
del Galli (al quale si debbono anche tentativi di pe¬ netrare nel mondo
oggi ancor poco conosciuto, pro¬ prio perché poco adeguatamente studiato,
dell’eso- (1) G. GALLI, prefaz. a: MONICA ZUCCHINALI, A destra in
Ita¬ lia, Sugarco Edizioni, Milano 1986, pp. 7-14. Tale lavoro non
merita, di per sé, alcuna annotazione di rilievo, essendo molto
superficiale e limi¬ tato nel settore dedicato alia «destra radicale» (e
in questo largamente superato da precedenti pubblicazioni, per quanto
decisamente a sini¬ stra, come La destra radicale, a cura di F.
Ferraresi, che è del 1984), ec¬ cessivamente ampio e parziale nei
confronti della cosiddetta «Nuova Destra», mentre la «destra
tradizionale» è pressoché inesistente. In so¬ stanza, ciò che dà rilievo
al libro, sono le poche notazioni preliminari del Galli, che peraltro
suonano da campana a morto per i profeti della fine del «mito
incapacitante»... 13 terismo del
III Reich) (2), che ben difficilmente, del resto, potrebbero essere
recepite nella loro portata da quanto sopravvive della «Nuova Destra»,
pro¬ prio per la sua impostazione profana e modernista (per non
parlare della destra «tecnocratica» missina, per sua intrinseca natura da
sempre impermeabile ad ogni discorso «intelligente») (3), potranno
ser- (2) In una relazione sul tema tenuta nel giugno 1984 a Torino
(pare per la Fondazione Agnelli), il cui testo abbiamo potuto leggere, il
Galli osserva come «la storiografia ufficiale e accademica abbia sempre
esita¬ to a muoversi in questa direzione, appunto per il timore di
spostarsi dal piano della storia a quello della fantasia». Ciononostante
il Galli, che dunque sembra muoversi tra i primi al di fuori di tale
logica paralizzan¬ te, afferma come «vi siano sufficienti elementi per una
riflessione stori¬ ca organica sulla componente esoterica soprattutto dei
nazismo, mentre per quanto riguarda il fascismo italiano questa
riflessione potrebbe con¬ cernere esclusivamente la personalità di Julius
Evola». 11 presente volu¬ metto dovrebbe dunque servire ad ampliare le
prospettive conoscitive del Galli e di quanti altri si interessino di
tali tematiche proprio sull’ulti¬ mo punto, quello concernente il
fascismo. Circa poi le correnti esoteri¬ che del nazismo, bisognerebbe
intanto distinguere fra ciò che ha prece¬ duto la sua presa del potere,
le gerarchie ufficiali dello Stato ed alcuni settori delle SS. In base a
ricerche che stiamo effettuando, possiamo an¬ ticipare che tali correnti
esoteriche poggiano su fondamenta assai fragi¬ li, contrariamente a quel
che potrebbe pensare il Galli stesso, che in que¬ sto caso pare essere
rimasto vittima di alcune «ingenuità» propalate sul¬ la scia del
famigerato Mattino dei Maghi di Pauwels e Bergier. Per un discorso
preliminare su quanto andiamo dicendo, si veda ora il mio sag¬ gio su La
realtà storica della «Società Thule», in introduzione alla pri¬ ma
traduzione italiana di: Prima che Hitler venisse di Rudolf von Se-
bottendorff. Edizioni Delta-Arktos, Torino 1987. Su Evola e certi am¬
bienti delle SS, pubblicherò in seguito documenti provenienti dall’archi¬
vio di stato tedesco (Quartier Generale di Himmler), in cui tali temati¬
che saranno ulteriormente trattate. (3) In un recente articolo che
vuole costituire una sorta di recensione del libro della Zucchinali, un
anonimo missino cosi sintetizza gli interes- 14 virci
qui da spunto iniziale per una breve indagine preliminare,
necessariamente per ora limitata, su una corrente di pensiero
indubbiamente assai mino¬ ritaria, ieri ed oggi, in Italia, ma come è
stato di re¬ cente sottolineato, «nel contempo assolutamente ne¬
cessaria per l’Italia» (4), che ha svolto ed è destinata a svolgere
ancora una funzione molto importante, per non dire essenziale, per la
nostra nazione: quella della conservazione dtXV identità delle nostre
radici. Essa, se è stata opacizzata nelle masse e in una
classe dirigente sclerotizzata e corrotta per incapaci¬ tà e colpevole
negligenza, nondimeno persiste im¬ mutata, come presenze e immagini
primordiali, ne¬ gli archetipi divini che presiedono alle nostre
sorti. Il compito di tale minoranza, al di là della pura e semplice
azione conservativa, è stato quello di saper ridestare nei momenti
opportuni quelle immagini, sì che divenissero presenze vive ed operanti,
concretiz¬ zandole nelle nuove realtà della nazione italica.
Si tratta delle immagini primordiali e delle epifa¬ nie divine del
Lazio e dell 'Italia delle origini, ovvero della Saturnia tellus: quelle
che hanno reso possibile la manifestazione sul nostro suolo della
tradizione di Roma — che simboli, funzioni ed attribuzioni
si e i tentativi controcorrente del Galli: «A cosa ciò possa condurre in
concreto, è imprevedibile. Forse a nulla» (in «Proposta», I, 2, marzo-
aprile 1986, p. 95). (4) Conventum Italicum, comunicato anonimo in
«Arthos», XII- XIII, 27-28 (1983-84), p. 85. 15
hanno reso evidente essere emanazione della Tradi¬
zione primordiale (5) — ed il suo rinnovellarsi attra¬ verso i
tempi. Il precedente riferimento del Galli all’esoterismo è,
nel nostro caso, più che pertinente, dal momento che la trasmissione e
perpetuazione della tradizione romana, almeno negli ultimi quindici
secoli, ha po¬ tuto avvenire, per motivi ben comprensibili, per via
segreta, cioè esoterica e di necessità sotto forme e vie anche molto
diverse. Se oggi si può parlare di «de¬ stra» esoterica è soltanto
perché, per circostanze sto¬ riche particolari, in un ambito (peraltro,
assai ri¬ stretto) della destra del nostro secolo certe tematiche
hanno potuto trovare parziale ospitalità (6): va da sé — e non sarebbe il
caso di insistervi sopra — che la .tradizione di cui tali correnti sono
portatrici si situa ben al di là e al di sopra di ogni miserabile
dialettica fra destra e sinistra, termini e concetti di derivazione
parlamentare moderna e quindi del tutto inadeguati ad inquadrare forme di
realtà spirituali quali quelle a cui ci riferiamo. Tuttavia,
dal momento che il presente intende es¬ sere semplicemente uno «studio
storico» su tale cor- (5) Per tali evidenziazioni, debbo rimandare
ad alcuni capitoli del mio Dèi e miti italici. Il ed., ECIG, Genova 1986,
specialmente in con¬ nessione con le figure di Giano e Saturno (con il
ciclo a lui connesso). (6) Si deve peraltro notare che ad interessi
esoterici inerenti anche alla tradizione romana non furono aliene certe
personalità della «sinistra storica» e nel corso della nostra esposizione
non mancherà un esempio concreto. 16 rente,
dovremo fare solo riferimenti indiretti e limi¬ tati al suo lato
esoterico, quanto invece insistere sui suoi riflessi politici, culturali
e religiosi. L’abbiamo definita «corrente tradizionalista ro¬
mana» (7) nel Novecento: un’élite che ha in ogni ca¬ so lasciato una sua
impronta in una certa epoca e che, nell’incertezza del «pensiero debole»
attuale, potrebbe ancora essere portatrice di un messaggio
radicalmente alternativo, poiché radicalmente (e qui l’espressione va
intesa, con coscienza di causa, nel suo pieno valore etimologico, a
radicibus) orientata contro gli pseudovalori che reggono la scena
del mondo moderno. Non è mio compito qui riassumere i termini
della questione intorno alla possibilità della trasmissione della
sacralità e della tradizione di Roma dall’epoca degli ultimi sapienti
pagani sino ai nostri giorni: è uno studio che, in riferimento
soprattutto alle gentes dei Simmachi, dei Nicomachi, dei Pretestati ed
altri, abbiamo da anni iniziato in varie riviste e pubblica-
(7) Derivo l’espressione di «corrente tradizionalista romana» dal po¬
deroso (e ponderoso) lavoro di P. DI VONA, Evola e Guénon. Tradizio¬ ne e
civiltà, Napoli 1985, pp. 179-210, in cui, nel VI cap., intitolato ap¬
punto Il tradizionalismo romano, l’A. studia la «corrente romana del
tradizionalismo, ad opera di Reghini, Evola e De Giorgio». È evidente che
col termine «corrente» noi non intendiamo riferirci (se non in singo¬ li
casi, che ben preciseremo) ad una linea di pensiero omogenea, bene
organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche co¬
muni, ideologicamente e politicamente parlando, ma ad una tendenza che
potè assumere aspetti e sfaccettature diverse, come proprio i casi di
Reghini, Evola e De Giorgio (e non sono certo gli unici) sono a dimo¬
strare. 17 zioni (8) e che non
mancherà di ulteriori sviluppi. In questa sede sarà sufficiente
fare rapido riferi¬ mento a quell’epoca gravida di grandi e decisive
tra¬ sformazioni che fu il Rinascimento italiano. È so¬ prattutto
nel corso del XV secolo che tradizioni oc¬ culte, sopravissute per secoli
nel più grande segreto, paiono ricevere nuova linfa e l’impulso ad una
nuo¬ va manifestazione dal contatto con personalità del¬ l’Oriente
europeo di altissima rilevanza intellettuale, come quella di Giorgio
Gemisto Pletone, il grande rivitalizzatore della filosofia platonica
negli ultimi anni dell’Impero d’Oriente e fondatore di un cena¬
colo esoterico a Mistra, la medievale erede dell’anti¬ ca Sparta,
all’interno del quale, oltre a conservare testi dell’antichità pagana
(come le opere dell’impe¬ ratore Giuliano, che vi venivano trascritte),
si cele¬ bravano veri e propri riti e si elevavano inni in onore
degli dèi olimpici (9). La figura e la funzione di Giorgio Gemisto
Pleto¬ ne sono ancora troppo poco note in generale e, in Italia,
non ancora studiate (10). In genere, ci si limi- (8) Cfr. ad
esempio: R. DEL PONTE, Sulla continuità della tradizio¬ ne sacrale
romana, parti I e II, in «Arthos», voi. V, numeri 21 e 25 (1980-82), pp.
1-13, 275-281; parte III, voi. VI, n. 29(1985), pp. 149-157; vedi anche:
Q. AURELIO SIMMACO, RelazionesuH’altare della Vitto¬ ria, con
un’introduzione di R. del Ponte su Simmaco e isuoi tempi. Edi¬ zioni del
Basilisco, Genova 1987. (9) Si tenga conto che nel sud del
Peloponneso sono attestati, a livello popolare, culti nei confronti degli
dèi classici sino al IX secolo della no¬ stra era. (10) In
lingua italiana mancano ancora del tutto studi approfonditi. 18
ta a citare, a proposito di lui, la sua partecipazione al Concilio
di Firenze e l’istituzione dell’Accademia Platonica Fiorentina, che ebbe
sede nella villa di Ca- reggi (o «delle Cariti», o «Muse»), concepita da
Co¬ simo il Vecchio e realizzata da Lorenzo il Magnifico su
suggestione del Pletone. Ma gli effetti dovettero essere ancora più
interessanti e gravidi di conseguen¬ ze, se si considerino i legami, ad
esempio, fra Gior¬ gio Gemisto Pletone e Sigismondo Pandolfo Mala-
testa. Signore di Rimini: colui che ne sottrarrà il ca¬ davere agli
Ottomani (1464), i quali avevano occu¬ pato Mistra nel 1460, onde deporlo
pietosamente in un’arca marmorea del suo famoso «Tempio Malate¬
stiano». Lo stesso Malatesta dovette pure essere in rapporto con la ben nota
«Accademia Romana» di Pomponio Leto (11), propugnatore, scrive il von
Pa- stor, del «romanesimo nazionale antico». Il capo Ci si
dovrà pertanto limitare a rimandare a: B. KIESZKOWSKI, Studi sul
platonismo del Rinascimento in Italia (vedi soprattutto cap. II),
Sansoni, Firenze 1936; P. FENILI, Bisanzio e la corrente tradizionale del
Rinascimento, in «Vie della Tradizione», X, 39 (1980), pp. 139-147 (ci
viene comunicato ora, che a cura dello stesso P. Fenili è in corso di
stampa un’antologia di brani di Pletone, dal titolo «Paganitas», lo
squarcio nelle tenebre, per Basala Editore di Roma). Di recente, ci è ca¬
pitato di leggere in un’insolita pubblicazione, una rivistina satirica di
si¬ nistra, un reportage da Mistra singolarmente informato e documentato
su Gemisto Pletone e la sua scuola (cfr. P.LO SARDO, La repubblica dei
Magi. Da Sparta alla Firenze del '400, in «Frigidaire», 56-57, luglio-
agosto 1985, pp. 55-63). (11) Per mezzo del Platina (definito da
Pomponio pater sanctissi- mus), 1 ’Accademia Romana intratteneva rapporti
col Malatesta, il quale 19
dell’Accademia Romana, riporta il von Pastori «spregiava la
religione cristiana ed usciva in vio¬ lenti discorsi contro i suoi
seguaci... venerava il ge¬ nio della città di Roma. (...) Quale rappresentante
di queU’umanesimo, che gravitava verso il pagane¬ simo, si schierarono
ben presto attorno a Pompo¬ nio un certo numero di giovani, spiriti
liberi dalle idee e dai costumi mezzo pagani. (...) Gli iniziati
consideravano la loro dotta società come un vero collegio sacerdotale
alla foggia antica, con alla te¬ sta un pontefice massimo, alla quale
dignità fu elevato Pomponio Leto» (12). Si noti che sembra
certa l’adesione alla cerchia del Leto del principe Francesco Colonna,
Signore di Pa- lestrina, l’antica Praeneste, dai più ritenuto
l’autore della celeberrima Hypnerotomachia Poliphili, un te¬ sto
molto citato, ma molto poco letto e soprattutto compreso, dove, in ogni
modo, una sapienza ermeti¬ ca si sposa all’esaltazione, non tanto filosofica.
fu notoriamente nemico dei papi e ammiratore del movimento pagano
di Mistra (cfr. F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris 1956,
p. 344, nota. L’opera del Masai è a tutt’oggi la più completa esistente
sulla dottrina e la figura di Giorgio Gemisto Pletone). Si noti che il
Pla¬ tina fu allievo a Firenze dell’Argiropulo, discepolo di Pletone, e
che un altro antico discepolo, il Cardinal Bessarione, si prodigò per la
liberazio¬ ne da Castel Sant’Angelo dei membri dell’Accademia Romana nel
1468, dopo che furono accusati dal papa Paolo II — non senza
fondamento — di «paganesimo». 11 Masai (op. cit., p. 343) si domanda se
l’Accade¬ mia Romana «non fosse in qualche modo una filiale di quella
di Mistra». (12) L. von PASTOR, Storia dei Papi, voi. II,
Roma 1911, pp. 308-309. 20 quanto mistica, del mondo
della paganità romano¬ italica, culminante nella visione di Venere
Genitrice. Se si rifletta al fatto che Francesco Colonna,
rea¬ lizzatore fra il 1490 e il 1500 del nuovo imponente palazzo
gentilizio eretto sulle rovine del tempio di Fortuna Primigenia (ancora
oggi ben identificabili nelle strutture originali), vantava discendenza
diret¬ ta dalla gens Julia e quindi da Venere (13), si potrà allora
intravedere come l’apporto vivificante della corrente sapienziale
reintrodotta in Italia da Gemi¬ sto Pletone si fosse incontrato col
retaggio gentilizio di una tradizione antichissima, gelosamente
custodi¬ to nel silenzio dei secoli col tramite di alcune fami¬
glie nobiliari italiane, in ispecie laziali, generosa¬ mente
fruttificando: nel senso di spingere ad un rin¬ novamento tradizionale
non solo l’Italia, ma persi¬ no, ad un certo momento, lo stesso papato,
se avven¬ ti 3) Risulterà forse sorprendente apprendere come i
Colonna posse¬ dessero ancora fino ai nostri giorni (è documentato almeno
sino al 1927) il «feudo» originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie
d’Alba- no). Sempre fino al 1927 era visibile nel giardino Colonna al
Quirinale l’aitare antico dedicato al Vediove della gens Julia (notizie
ricavate da: P. COLONNA, I Colonna, Roma 1927, pp. 5-6). Tolomeo 1
Colonna ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia
stirpe progenitus (cfr. P. FEDELE, s.v. Colonna, in «Enciclopedia Italiana»,
X, 1931). Ha compiuto un’attenta analisi deWHypnerotomachia Poli¬ phili
(editio princeps nel 1499, presso Manuzio) come opera di France¬ sco
Colonna, M. CALVESI, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980. Si veda
anche: OLIMPIA PELOSI, Il sogno di Polifilo: una quéte del¬ l’umanesimo,
ed. Palladio, s.l. 1978. A.C. Ambesi, in considerazione della dimensione
iniziatica dell’opera di Francesco Colonna, la conside¬ ra come
un’anticipazione cifrata del movimento dei Rosacroce (/ Rosa¬ croce,
Milano 1982, pp. 76 e sgg.). 21
ne che poco mancò che salisse al soglio pontificio quel cardinale
Giuseppe Bassarione che fu discepolo diretto di Giorgio Gemisto Pletone,
da lui giudicato, come scrisse in una lettera privata ai figli del
mae¬ stro dopo la sua morte, «il più grande dei Greci do¬ po
Platone» (14). Ma altri tempi tristi dovevano giungere, tempi
in cui sarebbe stato più prudente tacere, come dimo¬ strò il
bagliore delle fiamme in Campo dei Fiori, av¬ volgenti nell’anno di Cristo
1600 il corpo, ma non l’animo, di Giordano Bruno, rivivificatore
generoso, ma impaziente, di dottrine orfico-pitagoriche, che
trovavano analoga eco — frutto di una linfa non mai del tutto estinta
nell’Italia Meridionale — nella poesia e nella prosa dell’irruente frate
calabrese Tommaso Campanella, lui pure oggetto di odiose
persecuzioni. Bisognerà giungere sino all’unità d’Italia,
parzial¬ mente realizzatasi nel 1870 con la fine della millena¬ ria
usurpazione temporale dei papi, per trovare una situazione mutata. A
questo punto bisogna chiarire una volta per tutte, con la maggiore
evidenza, che dal punto di vista del tradizionalismo romano l’uni¬
tà d’Italia — indipendentemente dai modi con cui (14) Si dovrà
ricordare che il Bessarione raccolse cum pietate nel suo studio le opere
e i manoscritti del maestro, in particolare alcuni fram¬ menti
apertamente pagani delle Leggi, dotandone poi la Biblioteca Marciana da
lui fondata, a Venezia. 22 potè in effetti
verificarsi (modi spesso arbitrari e prevaricatori della dignità e delle
sacrosante autono¬ mie di diverse popolazioni italiche) e dall’azione
di certe forze sospette (Carboneria, massoneria e sette varie) che
per i loro fini occulti poterono agevolarla — era e rimane condizione
imprescindibile e necessa¬ ria per ritornare alla realtà geopolitica
dell’Italia au- gustea (e dantesca): quindi per propiziare il
rimani¬ festarsi nella Saturnia tellus di quelle forze divine che
ab origine a quella realtà geografica — consa¬ crata dalla volontà degli
dèi indigeti — sono legate. È un dato che si dovrà tenere ben
presente, per meglio intendere certi fatti che avremo modo di
esporre in seguito. Intanto, negli ultimi anni del XIX secolo è
nell’a¬ ria qualcosa di nuovo e antico insieme, che verrà av¬
vertito dalle anime più sensibili. Fra queste, il grande poeta
Giovanni Pascoli, con un equilibrio ed una compostezza veramente
classi¬ ci, valendosi di una sensibilità non inferiore a quella con
cui in quegli stessi anni conduceva l’esegesi di certi lati occulti della
dantesca Commedia, con il se¬ guente sonetto (e col corrispondente testo
in esame¬ tri latini, da noi non riprodotto) celebrava in una
semplice aula scolastica la solennità del 21 aprile 1895:
23 «L’aratro è fermo: il toro d’arar
sazio, leva il fumido muso ad una branca d’olmo; la vacca mugge a
lungo, stanca, e n’echeggia il frondifero Palazio. Una mano
sull’asta, una sull’anca del toro, l’arator guarda lo spazio: sotto
lui, verde acquitrinoso il Lazio; là, sul monte, una lunga breccia
bianca. È Alba. Passa l’Albula tranquilla, sì che ognun
ode un picchio che percuote nell’Argileto l’acero sonoro.
Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla, come un incendio. Scende
a larghe ruote l’aquila nera in un polverio d’oro» (15). Allo
scadere del secolo, nel 1899, è un fatto nuovo di ordine archeologico il
punto di riferimento im¬ portante ed essenziale per il secolo che sta per
aprir¬ si: la scoperta nel Foro da parte dell’archeologo Gia¬ como
Boni (un nome che non dovremo scordare) del cippo arcaico sotto il
cosiddetto Lapis Niger (VI sec. a.C.), in cui l’iscrizione in caratteri
antichi del termi¬ ne RECHI ( = regi) attesta documentariamente
l’ef¬ fettiva esistenza in Roma della monarchia e, con quanto ne
consegue, la sostanziale fondatezza della tradizione annalistica romana,
trasmessa nel corso di innumerevoli generazioni, dai primi Annales
Ma¬ ximi dei pontefici sino a Tito Livio e, al termine del-
(15) G. PASCOLI, Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino,
Zanichelli, Bologna 1925, p. 29. 11 lettore esperto potrà notare come in
pochi versi il poeta abbia saputo sapientemente concentrare particolari
nomi evocativi di determinate realtà primordiali dell’Urbe.
24 l’Impero d’Occidente, alle ultime gentes sacerdotali ed a
quegli estremi devoti raccoglitori e trasmettitori della sapienza delle
origini, come poterono essere un Macrobio ed un Marziano Capella nel V
secolo. È come se, fisicamente, una parte di tradizione ro¬
mana si esponesse improvvisamente alla luce del so¬ le a smentire
l’incredulità e l’ipercriticismo della scuola tedesca, che, in nome di un
presunto realismo scientifico, aveva respinto in blocco le più antiche
memorie patrie, e soprattutto dei suoi squallidi se¬ guaci italiani, come
quell’Ettore Pais che nella sua Storia di Roma (ristampata innumerevoli
volte fino in piena epoca fascista) aveva negato ogni tradizione da
una parte, costruendo dall’altra fantastici castelli in aria, senza
alcuna base, né storica, né filologica. Risulta che Giacomo Boni fu
in corrispondenza con un altro principe romano, pioniere degli
studi islamici e deputato al parlamento nei banchi della sinistra:
Leone Caetani duca di Sermoneta, principe di Teano, marito di una
principessa Colonna. Suo nonno, Michelangelo Caetani, era stato
l’au¬ tore di un fortunato opuscolo di esegesi dantesca sin dal
1852, dove si sosteneva l’identità di Enea col dantesco «messo del cielo»
che apre le porte della Città di Dite con «l’aurea verghetta» degli
iniziati di Eieusi (16): quello stesso che nel 1870, già vecchio e
quasi cieco, fu il latore a Vittorio Emanuele II dei (16) Cfr. M.
CAETANI di SERMONETA, Tre chiose nella Divina Commedia di Dante Alighieri,
II ed., Lapi, Città di Castello 1894. 25
risultati del plebiscito che sanciva l’unione di Roma
all’Italia. Proprio Leone Caetani sarebbe stato l’autorevole
tramite attraverso cui si sarebbero manifestate al¬ l’interno della
Fratellanza Terapeutica di Myriam (operativa proprio negli anni della
scoperta del La¬ pis Niger) fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro
Formisano di Portici) — che la definì talvolta come Schola Italica —
determinate influenze derivanti dall’antica tradizione romano-italica se,
come scrive l’esoterista Marco Daffi {alias il conte Libero Ric-
ciardelli) (17) è lui il misterioso «Ottaviano» (altro riferimento alla
gens Julia!) autore nel 1910, nella ri¬ vista «Commentarium» diretta dal
Kremmerz, di un articolo sul dio Pan e di una lettera di congedo
dalla redazione in cui egli riafferma in tali termini la pro¬
ti?) «Sotto tale pseudonimo si nascondeva persona veramente auto¬
revole, autorevolissimo collega di ricerche ermetiche di Kremmerz tanto
da potere essere ritenuto portavoce di sede superiore (...) Don Leone
Caetani, Duca di Sermoneta, Principe di Teano» (M. DAFFI, Giuliano
Kremmerz e la Fr+Tr+ di Myriam, a cura di G.M.G., Alkaest, Genova 1981,
pp. 62 e 84). Gli scritti firmati da «Ottaviano» in «.Commenta¬ rium»
sono tre: La divinazionepantéa (n. 1 del 25 luglio 1910), Per Giu¬ seppe
Francesco Borri (n. 3 del 25 agosto 1910), Gnosticismo e inizia¬ zione
(n. 8-10 di novembre-dicembre 1910). In quest’ultimo scritto, con¬ sistente
in una lettera di congedo come collaboratore della rivista, si ri¬ manda
all’opera di un altro personaggio che, come «Ottaviano», doveva
riconnettersi allo stesso ambiente iniziatico gravitante alle spalle
dell’or¬ ganismo kremmerziano: l’avvocato Giustiniano Lebano, autore di
un curioso libretto intitolato Dell’Inferno: Cristo vi discese colla sola
ani¬ ma o anche col corpo? (Torre Annunziata 1899), in cui nuovamente
si accenna al «ramoscello dorato del segreto, ossia la voce mistica di
con¬ venzione» (p. 66) che Enea presenta a Proscrpina.
26 pria fede pagana: «... non sono che pagano e
ammiratore del paga¬ nesimo e divido il mondo in volgo e sapienti
(...) volgo, che i miei antenati simboleggiavano nel ca¬ ne e lo
pingevano alla catena sul vestibolo del Do- mus familiae con la nota
scritta: Cave canem; ca¬ ne perché latra, addenta e lacera» (18).
In quegli stessi anni (a partire dal 1905) era co¬ minciata
l’attività pubblicistica ed iniziatica di Ar¬ turo Reghini (1878-1946).
La sua importanza fra i più autorevoli esponenti europei della
Tradizione, e del filone romano-italico in particolare, risiede
cer¬ tamente non tanto nel tentativo, vano e fatalmente destinato
all’insuccesso, per quanto disinteressato, di rivitalizzare la massoneria
al suo interno (19), quanto nell’attenzione da lui portata allo studio
ed (18) OTTAVIANO, Gnosticismo e iniziazione, cit., p. 210.
(19) Tentativo che si concretizzò soprattutto con la creazione del
Rito Filosofico Italiano, fondato nel 1909 dal Reghini, Edoardo Frosini
ed altri (il 20 ottobre 1911 vi sarà accolto come membro onorario
Aleister Crowley...), ma dall’esistenza effimera, dal momento che sin dal
1919 si fuse con la massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato di
Piazza del Gesù. 11 Reghini seguirà le sorti e le direttive di Piazza del
Gesù di Raoul Palermi, molto favorevole nei confronti del fascismo, sino
ai provvedimenti contro le società segrete del 1925. Giovanni Papini ha
de¬ dicato alcune pagine nel contempo pungenti e commosse ad Arturo
Re¬ ghini di cui fu amico negli anni giovanili, cosi concludendo:
«Arturo Reghini visse, povero e solitario, una vita di pensiero e di
sogno: anch’e¬ gli difese e incarnò, a suo modo, il “primato dello
spirituale’’. Nessuno di quelli che lo conobbero potrà dimenticarlo»
(Passato remoto (1885- 1914), ed. L’Arco, Firenze 1948, p. 129).
27 alla riscoperta della tradizione
classica e romana, che gli era stato dato in compito di rivitalizzare
«in segreto», così come egli stesso si esprime in una let¬ tera
inviata ad Augusto Agabiti e pubblicata nel nu¬ mero di aprile 1914 di
«Ultra»: «sai bene come il nostro lavoro, puramente meta¬
fisico e quindi naturalmente esoterico, sia rimasto sempre e volontariamente
segreto» (20). In tal modo il Reghini ben si inseriva nel
filone della corrente tradizionalista romana, in quella sua
variante che si può legittimamente definire «orfico- pitagorica» (21),
col contributo di numerosi scritti, soprattutto sulla numerologia
pitagorica, sparsi fra molti articoli e opere impegnative, come Per la
resti¬ tuzione della geometria pitagorica (1935; rist. 1978), I
numeri sacri della tradizione pitagorica massonica (postumo 1947; rist.
1978), Aritmosofia (postumo (20) A. REGHINI, La «tradizione
italica», in «Ultra», Vili, 2 (aprile 1914), p. 69. (21) Allo
stesso modo, di tradizione ermetica «egizio-ellenistica» si potrebbe
parlare per il filone essenzialmente seguito dalla corrente kremmerziana.
È chiaro come nessuna di queste correnti possa preten¬ dere di
identificarsi con il filone centrale deWa tradizione romana (come
vorrebbero, ad esempio, certi continuatori del Reghini dei nostri
giorni), rappresentandone, semmai, corollari concentrici ed espressioni
validis¬ sime, ma essenzialmente periferiche. Il nucleo della tradizione
romana è altra cosa: può includere tutto ciò, ma al tempo stesso ne è al
di sopra nella sua essenza originaria. Per cercare di comprendere la
cosa, si dovrà riflettere sul simbolismo e sulla funzione del dio Giano,
non per caso divinità unica e propria della sacra terra laziale.
28 1980) ed il tuttora inedito Dei numeri pitagorici
(22). Con questa attività egli avrebbe perseguito la mis¬
sione affidatagli da un’antica scuola iniziatica di tra¬ dizione
pitagorica della Magna Grecia (23) allorché, ancora giovane e studente a
Pisa, fu avvicinato da colui che sarebbe divenuto il suo maestro
spirituale: Amedeo Rocco Armentano (24), calabrese, ufficiale
dell’esercito all’epoca in cui lo conobbe il Reghini. Ad Amedeo
Armentano (1886-1966) apparteneva (22) Di recente, per il
quarantesimo anniversario della scomparsa del Reghini (1986), è stata
edita una raccolta di suoi scritti vari: Paganesi¬ mo, pitagorismo,
massoneria, ed. Mantinea, Fumari 1986, a cura del¬ l’Associazione
Pitagorica, un gruppo costituitosi solo nel giugno 1984 con un poco
iniziatico «atto notarile» (sic), ma che vanta diretta discen¬ denza dal
gruppo del Reghini. La raccolta è stata purtroppo eseguita con
dilettantismo, senza criteri ed inquadramenti storico-filologici e gli
scritti reghiniani (uno addirittura incompleto) non seguono nè un ordi¬
ne logico, nè cronologico. Il saggio suW Interdizione pitagorica delle
fa¬ ve si potrà leggere ora completo in «Arthos» n. 30 (1986, ma
stampato 1987). (23) DIOGENE LAERZIO (Vili, 56) ricorda come
il pensiero di Pi¬ tagora avesse trovato accoglienza presso gli Italioti
della Magna Grecia: «Come dice Alcidamante tutti onorano i sapienti. Così
i Pari onorano Archiloco, che pur era blasfemo, e i Chii Omero, che era
d’altra città (...) e gli Italioti Pitagora» (Die fragmente der
Vorsokratiker, a cura di H. Diels-W. Kranz; trad. ital. Bari 1981, v.
I). (24) Per alcune notizie su Armentano (ed una sua foto), cfr. R.
SE- STITO, A.R.A., il Maestro, in Ygieia, bollettino interno
dell’Associazio¬ ne Pitagorica, 111, 1-4 (1986), pp. 1-3. Di Armentano si
vedano le Massi¬ me di scienza iniziatica, commentate dal Reghini in vari
numeri di «Atanòr» ed «Ignis» (1924-25). Negli anni Trenta Armentano
lasciò l’I¬ talia per il Brasile, dove morì. È sintomatico come anche
«Ottaviano» in quel periodo si sarebbe allontanato dall’Italia
stanziandosi a Vancou¬ ver in Canada. 29
quella misteriosa «torre in mezzo al mare. Una ve¬ detta
diroccata, su di uno scoglio deserto» (25) dove, con gran dispiacere di
Sibilla Aleramo, il giovane protagonista del romanzo Amo, dunque sono
(Mon¬ dadori, Milano 1927), «Luciano» {alias Giulio Pari¬ se),
avrebbe dovuto «diventare mago» in compagnia di un amico non nominato,
vale a dire proprio il Reghini. Fu proprio nella torre di
Scalea, in Calabria, che il Reghini rivide nell’estate 1926 il testo
della tradu¬ zione italiana deirOccw//flr Phylosophia di Agrippa, a
cui premise un ampio saggio di quasi duecento pa¬ gine su E.C. Agrippa e
la sua magia. Vi scriveva, fra l’altro: «E perciò, in noi,
il senso della romanità si fonde con quello aristocratico e iniziatico
nel renderci fieramente avversi a certe alleanze, acquiescenze e
deviazioni. Forse si avvicina il tempo in cui sarà possibile di rimettere
un po’ a posto le cose, e noi speriamo che ci venga consentito, una
qualche vol¬ ta, di riportare alla luce qualche segno dell’esoteri¬
smo romano. Quanto alla permanenza di una “tradizione romana”, si vorrà
ammettere che se una tradizione iniziatica romana pagana ha potu¬
to perpetuarsi, non può averlo fatto che nel più as¬ soluto mistero. Non
è quindi il caso di interloquire con affermazioni e negazioni» (26).
(25) S. ALERAMO, Amo, dunque sono, cit., p. 15. Cfr. p. 50: «Lu¬
ciano, Luciano, e tu vuoi essere mago! M’hai detto d’aver già operato
fantastiche cose, fantastiche a narrarsi, ma realmente accadute».
(26) A. REGHINI, E.C. Agrippa e la sua magia, in: E.C. AGRIPPA,
30 Il 1914 è un anno molto importante, sotto diversi
aspetti, per i tentativi di rivivificazione della tradi¬ zione italica.
Nel numero di gennaio-febbraio 1914 di «Salamandra», in un articolo dal
titolo fortuna¬ to, poi ripreso da Evola, Imperialismo pagano, il
Re¬ ghini coglieva occasione, scagliandosi contro il par¬
lamentarismo ed il suffragio universale che favoriva cattolici e
socialisti, di riaffermare l’unità e l’immu¬ tabilità della tradizione
pagana in Italia, che, sempre ricollegata nella sua visione al
pitagorismo, si sareb¬ be trasmessa attraverso le figure di alcuni grandi
ini¬ ziati sino ai nostri giorni (27). In ottobre, dalle pagi¬ ne
di «Ultra», precisava nello stesso tempo, in un importante articolo dottrinario,
che: «Il linguaggio e la razza non sono le cause della
superiorità metafisica, essa appare connaturata al luogo, al suolo,
all’aria stessa. Roma, Roma caput mundi, la città eterna, si manifesta
anche storica¬ mente come una di queste regioni magnetiche del¬ la
terra. (...) Se noi parleremo del mito aureo e so¬ lare in Egitto, Caldea
e Grecia prima di occuparci della sapienza romana, non è perché questa
derivi da quella, ché il meno non può dare il più» (28). Lm
Filosofia occulta o la Magia, voi. I, rist. Mediterranee, Roma 1972, pp.
XCIII-XClV, nota. (27) L’articolo fu poi ripubblicato in «Atanòr»,
I, 3 (marzo 1924), pp. 69-85 (oggi nella ristampa anastatica a cura
dell’omonima casa edi¬ trice di Roma). (28) A. REGHINI, Del
simbolismo e della filologia in rapporto alla sapienza metafisica, in
«Ultra», Vili, 5 (ottobre 1914), p. 506. 31
Intanto, nella notte del solstizio d’inverno del 1913, si
era verificato un insolito episodio, gravido di future conseguenze: in
seguito a misteriose indi¬ cazioni, nei pressi di un antico sepolcro
sull’Appia Antica era stato rinvenuto, a cura di «Ekatlos» (29),
accuratamente celato e protetto da un involucro im¬ permeabile, uno
scettro regale di arcaica fattura e i segni di un rituale.
«Ed il rito — riporta «Ekatlos» (30) — fu celebra¬ to per mesi e
mesi, ogni notte, senza sosta. E noi sentimmo, meravigliati, accorrervi
forze di guerra e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua
lu¬ ce le figure vetuste ed auguste degli “Eroi” della razza nostra
romana; e un “segno che non può fal¬ lire” fu sigillo per il ponte di
salda pietra che uo¬ mini sconosciuti costruivano per essi nel
silenzio profondo della notte, giorno per giorno». «Il
significato, le vere intenzioni e le origini di tali (29) Lasciamo
ogni responsabilità circa l’identificazione di «Eka¬ tlos» con il
principe Leone Caetani, già da noi incontrato, all’anonimo autore (si
tratta, peraltro, certamente di C. Mutti, fanatico integralista islamico)
di una postilla alla parziale traduzione francese della rivista evoliana
«Krur» (TRANSILVANUS 1984, A propos de l’article d’Eka- tlos, seguito da
una Note sur Leone Caetani, in: J. EVOLA, Tous les écrits de «Ur» &
«Krur», 111 [Krur 1929], Arché, Milano 1985, pp. 475- 486). Ancor più
lasciamo all’autore di tali tristi note (in cui ancora una volta si
dimostra come tra fanatismo religioso e via iniziatica esista un divario
invalicabile) la pesante responsabilità delle poco ragguardevoli
espressioni usate nei confronti del benemerito principe romano.
(30) EKATLOS, La «Grande Orma»: la scena e le quinte, in «Krur», I,
12 (dicembre 1929), pp. 353-355, oggi in: GRUPPO di UR, Introdu¬ zione
alla Magia, voi. Ili, Roma 1971, pp. 380-383. 32 riti
pongono un problema», osserva il Di Vona (31), «ma il loro fine immediato
fu esplicito, e come tale è stato dichiarato. (...) Esso fu compiuto nel
dovuto modo da un gruppo che si propose di dirigere verso la
vittoria italiana la I Guerra Mondiale». Ma l’episodio ha un
seguito: il 23 marzo 1919 (giorno in cui cade la festa romana del
Tubilustrium, o consacrazione delle trombe di guerra) fu fondato a
Milano, nella famosa riunione di Piazza Sansepol- cro, il primo Fascio di
Combattimento (dal 1921 de¬ nominato Partito Nazionale Fascista). Fra gli
astanti vi fu chi, emanazione dello stesso gruppo che aveva
riesumato l’antico rituale, preannuncio a Benito Mussolini: «Voisarete
Console d’Italia». E fu la stes¬ sa persona che, qualche mese dopo la
Marcia su Ro¬ ma, il 23 maggio 1923, vestita di rosso, offrì al
Capo del Governo un’arcaica ascia etrusca, con «le dodici verghe di
betulla secondo la prescrizione rituale le¬ gate con strisce di cuoio
rosso» (32). Con tale atto dal sapore sacrale, come è evidente.
(31) P. DI VONA, Evola e Guénon, cit., p. 202. (32) EKATLOS,
art. cit., p. 382, nota. La notizia è riportata con altri particolari nel
«Piccolo» di Roma del 23-24 maggio 1923, p. 2 [cfr. Ap¬ pendice 1].
Particolare curioso: la sera stessa del 23 maggio Mussolini parti in
aereo alla volta di Udine, onde potere inaugurare il giorno dopo, 24
maggio, anniversario dell ’entrata in guerra, il monumentale cimitero di
Redipuglia, alla presenza del Duca d’Aosta. La sera del 24, sulla via del
ritorno verso Roma, l’aereo fu costretto, da un inspiegabile guasto, ad
un atterraggio di fortuna nei pressi di Cerveteri, cioè l’antica etrusca
Cere, donde forse proveniva l’arcaico fascio. 33
le correnti più occulte portatrici della
tradizione ro¬ mana avrebbero voluto propiziare una restaurazione
in senso «pagano» del fascismo. Altri episodi concomitanti
concorrono a rafforza¬ re questa supposizione. Dopo essere stata
composta proprio nel 1914, fra il 21 aprile ed il 6 maggio 1923 (altre
significative coincidenze di date), fu rappre¬ sentata sul Palatino la
tragedia Rumori: Romae sa- crae origines (il solo terzo atto), col
beneplacito e la presenza plaudente di Benito Mussolini. La
tragedia (o, meglio, alla latina, il Carmen solutum) risulta opera
di un certo «Ignis» (pseudonimo sotto cui si celerebbe l’avvocato Ruggero
Musmeci Ferrari Bra¬ vo), che risulta godere di appoggi assai influenti,
co¬ me quello di Ardengo Soffici [cfr. Appendice 11], e appare,
specialmente in quel terzo carmen che fu re¬ citato, più che una semplice
rappresentazione sceni¬ ca, un vero e proprio atto rituale: un rito di
consa¬ crazione, certamente denotante nell’autore, o nei gruppi
restati nell’ombra di cui egli era emanazione, una conoscenza non solo filologica
della tradizione romana (si pensi che in intermezzi scenici vengono
cantati, al suono di flauti, i versi ianuli e iunonii dei Fratres
Arvales), ma anche di certi suoi lati occulti, come lascia intendere il
rito di incisione su lamine auree dei nomi arcani deU’Urbe e l’esegesi,
voluta- mente incompleta, dei significati del nome di Roma.
Quest’azione, occulta e palese, sulle gerarchie fa¬ sciste affinché
i simboli da esse evocate, come l’aqui¬ la o il fascio, non restassero
puro orpello di facciata, continuerà sino al 1929, che è anche l’anno in
cui 34 Rumon verrà pubblicata, in splendida edizione
uffi¬ ciale, dalla Libreria del Littorio, con i frontespizi or¬
nati di caratteri arcaici romani, disegnati apposita¬ mente nel 1923 da
Giacomo Boni, lo scopritore del Lapis Niger già da noi incontrato, il
quale avrà il pri¬ vilegio poco dopo, alla sua morte (1925), di
essere inumato sul Palatino stesso (33). Ancora noteremo come
sintomatica l’uscita, nello stesso 1923, della Apologia del paganesimo
(Formig- gini, Roma) di Giovanni Costa, futuro collaboratore delle
iniziative pubblicistiche di Evola [cfr. Appendi¬ ce III].
Fra il 1924 e il 1925 uscirono le due riviste «di stu¬ di
iniziatici» «Atanòr» ed «Ignis», dirette da Arturo Reghini, e in cui iniziò
una collaborazione il giovane Evola: affronteranno con un rigore ed una
serietà inconsuete, per l’eterogeneo ambiente spiritualista
dell’epoca, tematiche e discipline esoteriche di parti¬ colare interesse:
vi comparvero, per la prima volta in Italia, scritti di René Guénon, fra
cui a puntate, pri¬ ma ancora che in Francia, L'esoterismo di Dante.
È peraltro evidente come il contenuto di queste riviste non avesse
un valore puramente speculativo, come dimostrano gli scritti di «Luce»
suirO/7M5 magicum (Gli specchi - Le erbe) negli ultimi due numeri
di (33) Fu proprio Giacomo Boni che, risalendo ai modelli
d’origine, mi¬ se a punto il prototipo del fascio romano (oggi al Museo
dell’Impero) per il Regime Fascista: è quello che compare sulle monete da
due lire di quel periodo (cfr. V. BRACCO, L’archeologia del Regime,
Volpe, Roma 1983). 35
«Ignis», che preludono a quelli del successivo Grup¬ po di Ur. Ma
intanto l’auspicata svolta in senso pa¬ gano da parte del fascismo
sperata dalla corrente tradizionalista romana non solo stenta a
verificarsi, anzi è messa pericolosamente in forse dalle mene de¬
gli ambienti cattolici e clericali. Nel n. 5 del maggio 1924 di «Atanòr»
Reghini con parole di fuoco de¬ preca alcune espressioni pronunciate da
Mussolini in occasione del Natale di Roma: «Il colle del
Campidoglio, egli ha detto, "‘dopo il Golgota, è certamente da
secoli il più sacro alle genti civiir. In questo modo l’On. Mussolini,
in¬ vece di esaltare la romanità, perviene piuttosto ad irriderla
ed a vilipenderla. (...) Noi ci rifiutiamo di subordinare ad una
collinetta asiatica il sacro colle del Campidoglio». E nel n.
7 di luglio, dopo il delitto Matteotti: «... ecco un clamoroso
delitto politico viene a sconvolgere la vita della nazione, ad agitare
gli ani¬ mi. (...) Investito da popolari e da ogni gradazione di
democratici, a Mussolini non resterebbe che battere la via
dell’imperialismo ghibellino, se non esistesse un partito che già lo sta
esautorando... tengano ben presente i nostri nemici che, nono¬
stante la loro enorme potenza e tutte le loro pro¬ dezze, esiste ancor
oggi, come è esistita in passato, traendo le sue radici da quelle
profondità interiori che il ferro e il fuoco non tangono, la stessa catena
iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e seco¬ larmente
perseguitata». L’ordine del giorno Bodrero e le successive
leggi 36 sulle società segrete tolgono ulteriore
spazio all’atti¬ vità pubblicistica del Reghini, che peraltro conflui¬
sce, fra il 1927 e il 1928, nel «Gruppo di Ur», for¬ malmente diretto da
Julius Evola. A noi qui non interessa tanto esaminare il
lavoro di ricerca esoterico svolto dal Gruppo di Ur, cui par¬
teciparono, come è noto, personalità appartenenti alle principali
correnti esoteriche operanti in quegli anni in Italia, dai pitagorici ai
kremmerziani, dagli steineriani (antroposofi) ai cattolici eterodossi
come il De Giorgio, quanto sottolineare come in quella se¬ de
dovesse essere stato, almeno in parte, ripreso il programma di
influenzare per via sottile le gerarchie del fascismo, nel senso già
voluto dal gruppo mani¬ festatosi nel 1913 con la testimonianza di
«Ekatlos» (che, non lo si dimentichi, viene riportata proprio nel
terzo dei volumi che raccolgono le testimonianze di tutto il gruppo — in
apparenza slegata da esse — successivamente apparse col titolo di
Introduzione alla Magia). In un inserto per i lettori comparso nel
n. 11-12 di «Ur» (1927), Evola poteva scrivere: «... possiamo dire che
una Grande Forza, oggi più che mai, cerca un punto di sbocco in seno a
quella bar¬ barie, che è la cosidetta “civilizzazione” contempo¬
ranea — e chi ci sostiene, collabora di fatto ad una opera che trascende
di certo ciascuna delle nostre stesse persone particolari».
Del resto, molti anni più tardi, Evola stesso di¬ chiarerà
piuttosto esplicitamente nella sua autobio¬ grafia spirituale che
l’intento del Gruppo era stato quello, oltre a «destare una forza
superiore dr servi- 37 re d’ausilio
al lavoro individuale di ciascuno», di far sì che «su quella specie di
corpo psichico che si vole¬ va creare, potesse innestarsi per evocazione,
una vera influenza dall’alto», sì che «non sarebbe stata esclu¬ sa
la possibilità di esercitare, dietro le quinte, un’a¬ zione perfino sulle
forze predominanti nell’ambien¬te generale» (34). Un’indagine ben più
approfondi¬ ta, come si vede, meriterebbe di essere svolta sugli
evidenti tentativi di rivitalizzazione, all’interno del Grupo di Ur (35),
delle radici esoteriche e dei conte¬ nuti iniziatici della tradizione
romana: a parte i con¬ tributi dello stesso Evola (che firmerà come «EA»
e, pare, anche come «AGARDA» e «lAGLA»), di cui ricordiamo
l’importante saggio (nel HI volume) Sul «sacro» nella tradizione romana,
ancora una volta fondamentale resta l’apporto del Reghini (che
firma come «PIETRO NEGRI»): egli, nella relazione Sul¬ la
tradizione occidentale, sulla scorta di un’attenta esegesi delle fonti
antiche (soprattutto Macrobio) e di personali acute intuizioni, nonché di
probabili «trasmissioni» iniziatiche, non esiterà ad indicare nel
mito di Saturno il «luogo» ove è racchiuso il sen¬ so e il massimo
mistero iniziatico della tradizione (34) J. EVOLA, Il cammino del
cinabro, Milano 1972 (li ed.), p. 88. (35) Un esame generale,
storico-bibliografico, sul Gruppo di Ur è sta¬ to da me compiuto in
lingua tedesca, come studio introduttivo alla ver¬ sione tedesca del I
volume di Introduzione alla Magia (Ansata Verlag, Interlaken 1985). Si
tratta del notevole ampliamento, riveduto e corret¬ to, di un mio
precedente studio già apparso in «Arthos» n. 4-5 (1973-74).
38 romana, un’indicazione utilizzata e sviluppata ulte¬
riormente nel nostro recente Dèi e miti italici. Intanto, nella
seconda metà del 1927, una serie di articoli polemici sui nuovi rapporti
tra fascismo e chiesa cattolica, che Evola aveva pubblicato in
«Cri¬ tica fascista» di Bottai e in «Vita Nova» di Leandro
Arpinati, e la successiva comparsa, nella primavera del 1928, di
Imperialismo pagano, che quegli articoli raccoglieva e sviluppava,
riversarono proprio sul Gruppo di Ur pesanti attacchi clericali, fra cui
è in¬ teressante segnalare quello particolarmente violento e ambiguo,
del futuro papa Paolo VI, Giovanni Bat¬ tista Montini, allora assistente
centrale ecclesiasti¬ co della Federazione Universitari Cattolici
Italiani (F.U.C.I.), che aveva come organo culturale la rivista
«Studium» (redazione a Roma e a Brescia). Dalle pagine di «Studium» il
Montini accusava «i maghi» riuniti attorno a Evola di «abuso di pensiero
e di pa¬ rola (...) di aberrazioni retoriche, di rievocazioni fa¬
natiche e di superstiziose magie» (36). (36) G.B.M., Filosofia:
una nuova rivista, in «Studium», XXIV, 6 (giugno 1928), pp. 323-324.
Oltre che del futuro Paolo VI (certamente il più nefasto fra i papi di
questo secolo), apparvero in «Studium» anche gli attacchi del futuro
ministro democristiano del dopoguerra Guido Gonella {Un difensore del paganesimo,
ivi, gennaio 1928, pp. 28-31; // nuovo colpo di testa di un filosofo
pagano, ivi, aprile 1928, pp. 203- 208), cui Evola replicò — dopo averlo
definito «un tale il cui nome esprime felicemente che vesti gli si
confacciano più che non quelle della romana virilità» — nell'«Appendice
Polemica» di Imperialismo paga¬ no. Contro Imperialismo pagano (le nostre
citazioni sono tratte dalla ristampa del 1978, presso Ar di Padova) si
scomodò tutto Ventourage del giornalismo clericale, da «L’Osservatore
Romano» a «L’Avvenire», 39
Imperialismo pagano fu l’ultimo deciso, inequivo¬ cabile e tragico
appello da parte di esponenti della «corrente tradizionalista romana»,
prima del triste compromesso del Concordato, affinché il fascismo,
come si esprimeva Evola, «cominciasse ad assumere la romanità
integralmente e a permearne tutta la co¬ scienza nazionale», così che il
terreno fosse «pronto per comprendere e realizzare ciò che, nella
gerarchia delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere
e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della Tradizione» (p.
162). A questo scopo Evola non ri¬ sparmiava taglienti critiche alle
gerarchie del Regime: «Il fascismo è sorto dal basso, da
esigenze confuse e da forze brute scatenate dalla guerra europea.
Il fascismo si è alimentato di compromessi, si è ali¬ mentato di
retorica, si è alimentato di piccole am¬ bizioni di piccole persone.
L’organismo statale che ha costituito è spesso incerto, maldestro,
violento, non libero, non scevro da equivoci» (p. 13). Di
più: Evola, nel 1928, prevedeva addirittura gli al «Cittadino» di
Genova, nonché tutta la pubblicistica fascista fautrice dell’intesa col
Vaticano, da «Educazione fascista» a «Bibliografia fasci¬ sta», sino alla
stessa bottaiana «Critica fascista» che aveva ospitato i primi articoli
evoliani. 40 esiti e gli sviluppi della Seconda
Guerra Mondiale: «L’Inghilterra e l’America, focolari temibili
dei pericolo europeo, dovrebbero essere le prime ad essere
stroncate, ma non occorre di certo spendere troppe parole per mostrare
che esito avrebbe una simiie avventura sulla base dell’attuale stato di
fat¬ to. Data la meccanizzazione della guerra moder¬ na, le sue
possibilità si compenetrano strettamente con la potenza industriale ed
economica delle grandi nazioni...» (pp. 88-89). Era dunque
necessario che il fascismo, che «bene o male ha messo su un corpo. Ma...
non ha ancora un'anima» (p. 13), si rivolgesse senza esitazioni a
quella della Roma precristiana prima che fosse trop¬ po tardi, sì da
«eleggere l'Aquila e il fascio e non le due chiavi e la mitria a simbolo
della sua rivolu¬ zione» (p. 138). «Nostro Dio può essere
quello aristocratico dei Romani, il Dio dei patrizi, che si prega in
piedi e a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni
vittoriose — non il patrono dei miserabili e degli afflitti che si
implora ai piedi del crocifisso, nella disfatta di tutto il proprio
animo» (p. 163). L’il febbraio 1929 il governo di Mussolini
firma¬ va a nome del Re d’Italia, dal 1870 considerato dai papi un
«usurpatore», il cosiddetto Coneordato con la Chiesa Cattolica (37) e
nasceva il monstrum giuri- (37) Che il cosiddetto Concordato abbia
sortito un effetto a dir poco nefasto sulle sorti, non solo dello stesso
fascismo (come le vicende stori- 41
dico della Citta del Vaticano (38). Veniva con ciò tolta ogni
speranza residua di azione all’interno de¬ gli ambienti ufficiali, sia da
parte di Evola che di Re- ghini e di altri autorevoli esponenti, restati
per lo più in ombra, del «tradizionalismo romano»: alcuni di loro,
come già si è accennato in nota, abbandonaro¬ no per sempre l’Italia per
il Nuovo Continente nel corso degli anni Trenta. Restava il
«programma minimo» indicato ancora da Evola in Imperialismo pagano,
secondo cui il fa¬ scismo avrebbe dovuto: «promuovere studi
di critica e di storia, non parti- giana, ma fredda, chirurgica,
sull’essenza del cri¬ stianesimo (...). Contemporaneamente dovrebbe
promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della
paganità, sopra la sua visione vera della vita» (p. 125).
che successive ben presto dimostrarono, avvalorando i timori di Reghini e
di Evola), ma della stessa Italia del dopoguerra, lo sperimentiamo an¬
cora oggi sulla nostra pelle, dopo che un quarantennale dominio
clericale-borghese ha provveduto, quasi in ogni campo, ad addormenta¬ re
la coscienza delle «masse» ed a stroncare, con un autentico «terrori¬ smo
di Stato», qualsiasi velleità di reazione delle minoranze coscienti della
necessità di mutare uno stato di cose ormai incancrenito. (38)
«Mussolini non si era reso conto che prima di lui uomini non so¬ lo
autoritari, ma dal potere assoluto — gli Ottoni, gli Svevi, perfino Carlo
V ecc. — si erano dovuti pentire di ogni intesa, patto e transazio¬ ne
con la Santa Sede. (...) ogni intesa tra Santa Sede e Stato italiano
avrebbe significato unicamente il riconoscimento giuridico della validità
42 Chi avesse pensato che la «Scuola di Mistica Fa¬
scista», fondata significativamente poco dopo la «Conciliazione»,
nell’aprile 1930 nell’ambito del G.U.F. di Milano per opera di Nicolò
Giani, avrebbe svolto una funzione del genere, avrebbe dovuto ben
presto ricredersi amaramente. In realtà, il sentimen¬ to religioso
dichiarato di quella che avrebbe voluto costituire Vélite
politico-intellettuale del fascismo si configurava con precisione come
cattolico. Lo di¬ chiara, in una maniera che non potrebbe essere
più esplicita, lo stesso fratello del «Duce», Arnaldo Mussolini, in
un discorso tenuto alla Scuola nel 1931: «La nostra
esistenza deve essere inquadrata in una marcia solida che sente la
collaborazione della gente generosa e audace, che obbedisce al
coman¬ do e tiene gli occhi fissi in alto, perché ogni cosa nostra,
vicina o lontana, piccola o grande, contin¬ gente od eterna, nasce e
finisce in Dio. E non parlo qui del Dio generico che si chiama talvolta
per sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza, ma di Dio nostro Signore,
creatore del cielo e della terra, e del suo Figliolo che un giorno
premierà nei regni ultraterreni le nostre poche virtù e perdonerà,
spe¬ riamo, i molti difetti legati alle vicende della no¬ stra
esistenza terrena» (39). dei principii su cui si fonda l’ingerenza
della Chiesa nelle questioni del¬ lo Stato italiano» (N. SERVENTI, Dal
potere temporale alla repubblica conciliare. Volpe, Roma 1974, p.
42). (39) Cfr. «11 Popolo d’Italia» del 1° dicembre 1931. Sulla
«Scuola di Mistica Fascista», si veda: D. MARCHESINI, La scuola dei
gerarchi, Feltrinelli, Milano 1976. 43
E il filosofo Armando Carlini, discutendo della
nuova mistica, ravvisava la nota più originale del fa¬ scismo proprio nel
suo presupposto «religioso, anzi cristiano, anzi cattolico» (40); perché
«il Dio di Mussolini vuol essere quello definito dai due dogmi
fondamentali della nostra religione (...): il dogma trinitario e quello
cristologico» (41). Quel programma che abbiamo detto «minimo»
cercherà Evola più tardi in parte di compiere con l’organizzare il lavoro
di alcuni suoi insigni collabo¬ ratori attorno al «Diorama filosofico»,
la pagina speciale che, con uscita irregolare e alterna, quindi¬
cinale e mensile, curò per dieci anni, dal 1934 al 1943, all’interno del
quotidiano cremonese di Fari¬ nacci, «11 Regime Fascista». La tematica
della tradi¬ zione romana, esaminata nei suo simboli, nei suoi
miti, nella sua forza spirituale, ritorna qui frequen¬ temente negli
scritti dello stesso Evola, di Giovanni Costa (già da noi incontrato), di
Massimo Scaligero e di diversi collaboratori stranieri, come Edmund
Dodsworth (appartenente alla famiglia reale britan¬ nica) e lo storico
tedesco Franz Altheim. Analoghe collaborazioni sono fornite dall’allora
giovane An¬ gelo Brelich, in quell’epoca sconosciuto, ma destina¬
to nel dopoguerra a ricoprire degnamente l’impor- (40) A. CARLINI,
Mistica fascista, in «Archivio di studi corporati¬ vi», voi. XI (1940),
p. 299. (41) ID., Saggio sul pensiero fUosofico e religoso del
fascismo, Roma 1942, p. 56. 44 tante cattedra,
che fu del Pettazzoni, di Storia delle Religioni nell’Università di Roma,
e da Guido De Giorgio, già collaboratore di «Ur» e di altre
iniziati¬ ve evoliane. Nel contesto della corrente da noi defi¬
nita del «tradizionalismo romano» il De Giorgio oc¬ cupa una posizione
piuttosto anomala e tale che il Reghini avrebbe visto con sospetto: egli
infatti con¬ cepisce in Roma la sede eterna, geografica e storica,
ma soprattutto metafisica, in grado di unire in sé stessa la religione
pagana e il cristianesimo, tesi ela¬ borata soprattutto ne La tradizione
romana, uscita postuma solo nel 1973 (42). D’altra parte, è lo
stesso De Giorgio a ribadire con sorprendente sicurezza la
persistenza del culto di Vesta in un misterioso cen¬ tro, nascosto e
inaccessibile: «Il fuoco di Vesta (...) arde inaccessibilmente
nel Tempio nascosto ove nessuno sguardo profano sa- (42)
L’uscita alle stampe di questa edizione (presentata come Ed. Fla- men,
Milano 1973) offre contorni alquanto misteriosi. In ogni caso, il
manoscritto dell’opera sarebbe stato consegnato all’autore della nota
introduttiva, «ASILAS» (che corrisponderebbe ad uno degli ispiratori del
«Gruppo dei Dioscuri» e nel contempo autore di due dei fascicoli omonimi
[si veda poi]), da un antico componente del Gruppo di Ur, che noi
sappiamo corrispondere al «TAURULUS» del 1929, cioè Corallo Reginelli,
tuttora vivente. L’uscita della Tradizione romana, in ogni modo, è
stata 1 ’occasione per una salutare riflessione sul tema da parte
dell’ambiente tradizionali¬ sta nella prima metà degli anni Settanta, sia
da parte cattolica (si veda¬ no il bollettino «Il rogo», operante fra il
1974 e il 1976 e la successiva rivista «Excalibur»), sia da parte
propriamente «pagana» (si veda la no¬ stra recensione dell’opera del De
Giorgio, confortata da un parere di Evola, in «Arthos» n. 8: essenziale
come punto di ripresa del discorso sulle origini della tradizione
romana). 45 prebbe
penetrare e a lui deve l’Europa intera la sua vita e il prolungamento
della sua agonia. Da questo fuoco occulto partono scintille che
alimentano le crisi e risollevano periodicamente l’esigenza del ri¬
torno alla Romanità attraverso le varie vicende di cui s’intesse la
storia delle nazioni europee conside¬ rata geneticamente, internamente e
non sul piano li¬ mitatissimo della contingenza dei fatti e degli
uomini» (43). Queir immane conflitto, già previsto da Evola
nel 1928, e che anche il De Giorgio giudicava del tutto inefficace,
«se non addirittura letale per lo spirito e il nome di Roma» (44), avrà
in effetti come risultato più manifesto, per i fini dello studio che qui
andia¬ mo conducendo, di occultare del tutto le fila della corrente
di pensiero di cui siamo andati ripercorren¬ do la trama.
Solo verso la fine degli anni Sessanta è proprio la ristampa
dell’evoliano Imperialismo pagano (e la scelta pare significativa),
curata nel 1968 dal «Cen¬ tro Studi Ordine Nuovo» di Messina (45), a tentare
(43) G. DE GIORGIO, op. di., p. 245 (vedi anche pp. 239 e 243).
(44) ibidem, p. 296. (45) L’edizione, ciclostilata, con
copertina stampata in azzurro, venne tolta subito dalla circolazione in
quanto non autorizzata da Evola: la si può considerare oggi una vera
rarità bibliografica. 46 di riannodare i termini di
un antico discorso: «L’angoscioso grido d’allarme rivolto
dall’Autore in quel lontano 1928 a Benito Mussolini per met¬ terlo
in guardia contro il ventilato proposito della cosiddetta
“Conciliazione’)) — si afferma nell’a¬ nonima introduzione — «risuona
oggi con inusi¬ tata attualità e fa si che Imperialismo pagano ven¬
ga guardato come un oracolo». Ed è proprio provenendo dalle fila di
«Ordine Nuovo», un’organizzazione che lo stesso Evola ha tenuto in
buona considerazione (46) — almeno fino a che, sul finire del 1969, la
sua ala borghese¬ modernista, condotta da Rauti, non confluì nel
MSI (47) — che comincia ad agire, tra la fine degli anni Sessanta ed i
primi anni Settanta, il «Gruppo dei Dioscuri», con sede principale a Roma
e dirama¬ zioni a Napoli e Messina. Pare assodato che all’in¬ terno
del «Gruppo dei Dioscuri» venissero riprese - (46) Cfr. J. EVOLA,
Il cammino del cinabro, cit., p. 212: «L’unico gruppo che dottrinalmente
ha tenuto fermo senza scendere in compro¬ messi è quello che si è
chiamato AeWOrdine Nuovo». (47) L’interesse dei «tradizionalisti
romani» nei confronti di «Ordine Nuovo» si esaurisce sin dall’inizio
degli anni Settanta, allorché, da una parte, la frazione rautiana
rientrata nei ranghi del MSI si isterilì in fatui ed estenuanti «giochi
di potere» (!?) all’interno del partito e in decla¬ mazioni
populistico-giovanilistiche (non a caso la cosiddetta «Nuova Destra»
proviene quasi esclusivamente da quell’ambiente torpido ed ambiguamente
compromissorio), dall’altra, la frazione «movimentista» ed
extraparlamentare condotta da Clemente Oraziani ed altri si smarrì nelle
velleità inconcludenti e pericolose della «lotta di popolo», con
conseguente ed inevitabile suo annientamento da parte del Potere vero...
47 tematiche e pratiche
operative già in uso nel «Grup¬ po di Ur» ed è perlomeno probabile che lo
stesso Evola ne fosse al corrente. Fatto sta che nei quattro
«Fascicoli dei Dioscuri», usciti in quel torno di tempo, l’idea di Roma
da una parte e di un Centro nascosto dall’altra, a cui il tra¬
dizionalismo dovrebbe far riferimento, ritornano con grande
evidenza. Per l’anonimo autore del primo «Fascicolo dei Dioscuri»,
intitolato Rivoluzione tradizionale e sov¬ versione (Centro di Ordine
Nuovo, Roma 1969), il più grande dei meriti di Evola è quello:
«di avere rammentato il destino di Roma quale portatrice
dell’Impero Sacro Universale e di avere tratto da tale verità le
necessarie conseguenze in ordine alle idee-forza che devono essere
mobilitate per una vera rivoluzione tradizionale» (p. 20).
Qualche anno dopo, al termine del terzo «Fasci¬ colo» intitolato
Impeto della vera cultura (tradotto poi anche in francese nel 1979), il
mito di Roma vie¬ ne additato come l’unico che sia in grado di
condur¬ re ad una superiore unità gli sforzi di tutti i tradizio¬
nalisti italiani: «a tutti i tradizionalisti, anziché proporre uno
dei tanti miti soggetti a rapido e facile logoramento, si può
ricordare la presenza di una forza spirituale perennemente viva e
operante, quella stessa che il mondo classico ed il medio-evo definirono
l’AE- TERNITAS ROMAE» (p. 18). 48 Il «Gruppo
dei Dioscuri» ebbe notevole impor¬ tanza come cosciente riconnessione
alle precedenti esperienze sapienziali e come indicazione, per
taluni elementi particolarmente sensibili dell’area della de¬ stra
radicale, di possibili indirizzi e sbocchi futuri del «tradizionalismo
romano», anche se la partico¬ lare via operativa scelta e, soprattutto,
la mancata qualificazione di taluni componenti, porterà ben presto
alla distruzione dall’interno del Gruppo stes¬ so, di cui non si sentirà
più parlare già prima della metà degli anni Settanta (ci viene detto che
frange disperse del gruppo continuerebbero a sussistere so¬
prattutto a Napoli). È tuttavia da supporre che alcu¬ ni dei gruppi
periferici, sia pure trasformati, ne ab¬ biano continuato il retaggio se,
ad esempio, a Messi¬ na nel 1975, molto probabilmente nell’ambito di
al¬ cuni dei vecchi membri del «Gruppo dei Dioscuri» viene
elaborato un testo dottrinale ed operativo, a circolazione interna, sotto
forma di «lezioni» di un maestro a un discepolo, piuttosto interessante.
La via romana degli dèi: «Diremo anzitutto dell’essenza della
tua religiosi¬ tà, fornendo alla tua mente profonda gli argomen¬ ti
per una serie di esercizi di meditazione affinché con saldo cuore, tu
possa prepararti all’assolvi¬ mento del rito» (48) [cfr. anche Appendice
IV]. (48) N.N., La via romana degli dèi. Istituto di Psicologia
Superiore Operativa, Messina 1975 (ciclostilato ad uso interno), p.
1. 49 E certamente
non priva di connessioni genetiche col gruppo romano appare la sortita,
improvvisa, verso la fine degli anni Settanta, nella stessa Messi¬
na, del «Gruppo Arx», successivamente editore del periodico «La
Cittadella» e degli omonimi quader¬ ni, in cui senza alcuna attenuazione
i possibili itine¬ rari di approccio alla «via romana degli dèi»
sono indicati attraverso la cosciente riappropriazione del- Vanimus
romano-italico, rivissuto nel rito stesso, e nel rigetto, sostanziale e
formale, di ogni adesione a forme anche esteriori del culto
cristiano. Quanto segue è storia dei nostri giorni, dal mo¬
mento che proprio con l’inizio degli anni Ottanta vi è stata una nuova
cosciente ripresa del moderno «movimento tradizionalista romano», una cui
rima¬ nifestazione «pubblica» si estrinsicherà in una data ed in un
luogo alquanto significativi. Infatti nel 1981, il 1° marzo (data in cui
iniziava l’anno sacro romano), a Cortona (donde in epoca
primordiale Dardano, figlio di Giove, si sarebbe mosso alla volta
della Troade) si tenne un importante Convegno di studi sulla Tradizione
italica e romana (49), che, a (49) Gli Atti sono stati pubblicati
nel numero speciale triplo di «Ar- thos» n. 22-24, daU’omonimo titolo, di
pp. 192. Per una sintetica analisi sulla diversa valenza del termine
«italico» nei vari interventi, cfr. R. DEL PONTE, Che cos’è la tradizione
italical, in «Vie della Tradizio¬ ne», XV, 57 (gennaio-marzo 1985), pp.
1-3. 50 parte l’emergenza di differenti prese di
posizone dei tradizionalisti presenti, ebbe il merito di riproporre
la questione — non puramente dottrinale o formale — di una cosciente
riconnessione aWaurea catena Saturni della tradizione indigena da parte
di chi, pur in quest’epoca di totale dissoluzione di ogni valore,
intenda coscientemente riassumere il fardello delle proprie radici
etniche e spirituali. Successivamente ad un nuovo Convegno, tenutosi nel
dicembre 1981 a Messina, sul Sacro in Virgilio (50), la
rielaborazio¬ ne dottrinale e la ridefinizione concettuale dei
valori difesi dagli attuali esponenti del «tradizionalismo romano»
(di cui è parte cospicua anche l’apparire alle stampe di alcune collane
di libri specifiche) (51) si è spostata su un piano più interiore, ma la
loro presenza è destinata a riaffiorare a livello di influen¬ za
sottile e indiretta di gruppi o ambienti eticamente sensibili di un’area
superante i limiti stessi del mon¬ do della «destra politica».
Il futuro dimostrerà se la funzione di questa mi¬ noranza (ben
cosciente di esserlo) si limiterà ad una (50) Gli Atti sono stati
pubblicati in buona parte nel numero speciale di «Arthos» n. 20 (uscito
successivamente al n. 22-24), daH’omonimo titolo, di pp. 72.
(51) Ci limiteremo a ricordare la collana «1 Dioscuri» per le ECIG
di Genova, in cui figurano L’oltretomba dei pagani di C. Pascal, il
mio Dèi e miti italici. La religiosità arcaica dell ’Eliade di N. D’Anna
e Arca¬ na Urbis di M. Baistrocchi (in stampa); o quella di «Studi
Pagani» del Basilisco di Genova, in cui sono comparsi testi di antichi
(Giuliano Au¬ gusto, Giamblico, Simmaco, Porfirio) e di moderni (Guidi,
De Angelis, Beghini, Evola ecc.). 51
pura e semplice azione di testimonianza, sia pure
«scomoda» per molte cattive coscienze. Il «mito ca¬ pacitante» di Roma,
come l’antica fenice, è destina¬ to a risorgere continuamente dalle sue
ceneri, poiché riposa nella mente feconda degli dèi archegeti di
questa terra. Appendici documentarie 52
53 I Da: «Il Piccolo» di Roma, 23-24
maggio 1923, p. 2: «Il Fascio littorio a Mussolini»
Il giorno 19 scorso, presentata dall’esimia prof.a Regina Terrazzi,
fu dall’on. Mussolini ricevuta la dott.a prof.a Cesarina Ribulsi, che
offriva al Presi¬ dente del Consiglio come augurio per la data del
XXIV Maggio un fascio littorio da lei esattamente ricostruito secondo le
indicazioni storiche e icono¬ grafiche. L’ascia di bronzo è
proveniente da una tomba etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra col
foro per la legatura al manico: alcuni esemplari simili so¬ no
conservati nel nostro Museo Kircheriano. Le dodici verghe di
betulla, secondo la prescrizio¬ ne rituale, sono legate con stringhe di
cuoio rosso che formano al sommo un cappio per poter appen¬ dere il
fascio, come nel bassorilievo per la scala del Palazzo Capitolino dei Conservatori.
Il fascio ricomposto con elementi antichissimi e nuovissimi è stato
offerto al Duce come simbolo del¬ la sua opera organica di ricostruzione
dei valori del¬ la nostra stirpe allacciando le vetuste origini alle for¬
me più vibranti dell’attività gagliarda e rinnovata che prende le mosse
dal XXIV Maggio 1915. La rudezza espressiva del Fascio è
ingentilita dal contrasto tra il verde della patina bronzea e il
rosso 55 del cuoio che ricorda la
stessa armonica tonalità che producono le colonne di porfido presso la
porta di bronzo àcWheroon di Romolo, figlio di Massenzio, al Foro
Romano. L’offerta era accompagnata da una epigrafe latina
dedicatoria composta dall’offerente, la quale nel¬ l’Università Popolare
fascista svolge una fervida opera di propaganda di romanità viva.
Il Duce gradì l’augurio ed il voto accogliendoli colla sua consueta
serena nobiltà, non senza un se¬ gno della vivacità del sorridente suo
spirito latino: «Lei mi ha dato una lezione di storia» — osservò in
tono scherzoso. Singolari parole in bocca di chi dà e darà non poco a
fare agli storici futuri. (La notizia è riportata in una rubrica
dedicata a «I solenni riti del XXIV Maggio», senza indicazione di
paternità). 56 II Da: IGNIS, Rumori.
Sacrae Romae origines, tra¬ gedia in cinque carmi. Editrice Libreria del
Littorio, Roma 1929. pag. non numerata, IV dopo il
frontespizio: LETTERA DI ARDENGO SOFFICI A S.E.
MUSSOLINI Mio caro Presidente, (...) permettimi ti dia,
scritte e sottoscritte anche da me, che ne resto garante, al¬ cune
prove di pregi eccezionali della tragedia, che, in fondo, in un vero
poema epico delle origini, è l’esal¬ tazione di oggi della nostra stirpe.
Comincio da un mio giudizio, già a te noto; Rumori è tragedia roma¬
na che può stare a paro col Giulio Cesare di Shake¬ speare (...) ti fo
osservare che il titolo di Poeta di Ro¬ ma, dato da Jean Carrère ad
ignis, si è dato solo a Virgilio e ad Orazio: Augusto, vive, oggi, tra
noi tut¬ ti in ispirito, più per questi due poeti, da lui protetti,
che per la sua politica imperiale. E tu vedi come Rumori sia stato
giudicato, prima ancora che esistessero l’idea e la forza fascista,
tra¬ gedia degna di Roma (...) quando competenti — dai nostri a
Carrère, ed a me che sono l’ultimo al giudi¬ zio del 1923 — corrono
all’iperbolico per lodare Ru¬ mori di ignis bisogna concludere che ci si
trova da¬ vanti ad un’opera d’arte somma, e per fortuna no¬ stra,
d’arte italiana — opera che è, anche per se stes- 57
sa, di alto significato politico, e di spirito
fascista (...) Mi rileggo, e mi credo, caro Presidente ed amico
carissimo, di averti scritto una lettera storica. Fai che non sia stata
scritta invano, ma invece il tuo no¬ me vada unito a quello della
tragedia Rumori, al poema di Roma e degno di Roma: e di questo
lega¬ me in avvenire, spero che tu possa essere un po’ gra¬ to al
tuo affezionato amico e devoto ARDENGO SOFFICI pag.
successiva non numerata: IL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI Caro
Soffici, bisogna assolutamente far marciare Rumori. 11
Governo appoggia fervidissimamente l’iniziativa perché essa rientra nel
grande quadro della rinascita nazionale. Saluti fascisti e
cordialissimi. f.to MUSSOLINI Roma, 7 marzo 1923
pagg. CLXV-CLXVI (Carme terzo): AUGURE Manifesto
è dunque: amor — essere — ROMA. Se tutte move, ed incende, le create
cose... legge si è — Amor — dell’universo vita... così, un tanto
Nome, a noi predice: 58 dono di regno e potestà sovra
ogni terra, e dello spirito, e d’imperio. Confirmato si è,
per te, prodigioso il vaticinio. Non pronunciati mai più sien i
Nomi occulti... su la Città terribili chiamerebbero fortune...
Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai Pontefici. Né mai più,
tu, l’eccelso pronuncia Nome palese, se concluso non avrai, prima, il
solco sacro. Permesso e commesso mi è: Nunziare, allora, in gran
letizia, al Popolo... quel Nome che licito non più mi è dire
quando, già per tre volte, qui, in tre diversi suoni, de la gran
Madre nostra il Nome risonò. {Dispiega le dita della sinistra, ad
una ad una, per nu¬ merare i significati del nome). Di
significati cinque: È... ’l Nome palese, latore, con
l’occulto: Chiama la Città: Valentia... Ròbure... Virtù! e
ancor: Madre... Mamma... Alma Nutrice! Vostra — nei nomi vostri —
oh Re! suoi fondatori... Come del grande Rumon: URBE: la Città del
Fiume! {Pausa) Ammirate! se gli Dei saputo abbiano
addensare, in così breve Verbo, sì pieni... tanti arcani.
Mirifici! donando Nomi nove: in quattro occulti ed un — Medio
— palese, e quando, nove, siamo al Rito. 59
Ili Da: G. COSTA, Apologia del paganesimo,
A.F. For- mìggini Editore, Roma 1923, pagg. 69-70: Il pagano
è, per definizione, buono. Né un greco, né un romano avrebbero concepito
che l’uomo po¬ tesse esser qualcosa di diverso da ciò, che in lui
liti¬ gassero per così dire due nature, che la manifestazio¬ ne
esterna fosse diversa dall’interna, che né nella vi¬ ta individuale, né
in quella sociale vi fossero mezzi termini, transazioni, compromessi.
Esso è quello che naturalmente è, cioè buono, come ideale supre¬ mo
della vita, come dovere, come necessaria fatalità insita nelle cose
umane. Egli vive quindi la vita inte¬ ramente, dolorosamente,
gioiosamente a un tempo, con un pragmatismo sano e forte che non
ammette ipocrisie, doppiezze, scuse. Solamente all’uomo
cosiddetto moderno è stato concesso, per virtù di dottrine religiose e
culturali che si sono formate a lui d’intorno, una distinzione ed
una separazione del suo essere intimo, spirituale, psicologico, dal suo
essere apparente, esteriore, ma¬ teriale. All’antico quando di questa
scissione appar¬ ve per un momento la possibilità, egli ne cacciò
da sé l’idea, ne biasimò perfino la concezione. La concezione
pagana della vita ha fatto perciò l’uomo tutto d’un pezzo, ne ha
affermato il caratte¬ re, ne ha provocato 1 ’azione. Ecco perché la vita
nel paganesimo ha avuto tutto il suo massimo sviluppo ed è stata
accettata non come un male, ma come un 60 bene che
bisognava con interezza di carattere vivere interamente e sanamente per
sé e per gli altri. pag. 91: Per stabilire l’equilibrio
l’uomo deve tornare al paganesimo poiché il cristianesimo si è mostrato
di¬ vina opera cui le sue spalle non sanno sottostare. Ma
paganesimo è sincerità e l’uomo deve ritorna¬ re ad essere sincero. Il
cozzo a cui l’ha costretto per due millenni il suo desiderio di seguire
il messaggio cristiano e la sua manifesta impotenza di non saper¬
lo fare, deve risolversi in armonia se egli vuol sanare in sé l’eterno
dissidio. Lo spirito e la carne debbono avere il medesimo valore ed il
loro prevalere non può essere determinato che da circostanze speciali di
in¬ dividuo, di momento e di luogo che l’uomo può in- travvedere,
non deve violare con convinta testardag¬ gine. L’equilibrio di queste
forze, l’esteriore e l’inte¬ riore, quindi, deve essere nella dottrina,
come nella vita, assoluto. 61
IV Da: Im via romana degli dèi, ciclostilato
anonimo, Messina 1975 pagg. 41-42: L'immagine di un dio è lo
stemma della Forza che essa rappresenta. A tutti i fini pratici tali
immagini sono personae, perché qualsiasi cosa possano essere nella
realtà esse sono state personalizzate e forme di pensiero sono state
proiettate su un altro piano (...) Alcune di queste immagini e le
loro attribuzioni sono così antiche e sono state costruite con
tanta ricchezza di lavoro sottile da essere capaci di rico¬
struirsi da se stesse, durante l’eventuale lavoro di meditazione, che
l’allievo può fare su una divinità. Resta un minimo «invito», un minimo
stimolo, per¬ ché il meccanismo scatti e l’immagine si ricompon¬
ga, sia pure su un piano semplicemente psichico. Così, della limatura di
ferro, dispersa su un piano, si raccoglie intorno ad un magnete che venga
posto in mezzo. Se il magnete è forte esso attirerà i granelli
anche se essi sono pochi e molto distanti... 62
AMKDKO R(K ( () ARMKM ANO (im - da «Ygieia», 111, 1-4 (dicembre
1986) 63 Arturo
Reghini (1878-1946) 64 0 Piscio littorio a
Mussolini n florno If »cor*o. pr^eniaU dalla tsl- bjU prof.»
Rcidna Trmiizl. fa rtalTon. Maa. aOltnl rlotwta la doti.» pmf.» Osarina
RI- baiai cba offriva al Proatdanta dr’. Conti¬ guo romo aufurln la
data de) XXIV Mabfio «n falcio littorio da lei eaattamcDte
licoatndto lecoudo la lodicaslonl atorictie e leooograflclia.
l.‘aicla di bronra k prorenlenU dm aoa tomba etmaca hlmtneoarta ed
ba la forma aorra eoi foro per la Vantura hi manico: alcool
eaamplan slmili sono coosenrat: :.«! nostro Ma.*«o Klrcberiamo. é
La dodict verace di l>ctulla. ascondo la prescrizione rit'iale.
sono legala con tiri¬ sele ^ cuoio rosso cba formano al tonimo ua
cappio per poter appendere fi fascio, conta nel ba.MorUiero per la acala
del Pa lazzo Capitolino dd Conaenalori. Il Fascio ricomposto
con elementi antl- fhlHilmt a nuoTltaUnl k stato offerto al Dora
come simbolo della saa opera onra- ntea di rieoatruztona del valori della
no- Mra attrpa allacciando le veia«ie origini alla fonn* più
vibranti dell'attività ga- giarda a rinnovata cha prendo la mosse ^
XXIY Maggio 19t8 Là rudezza espressiva dal Fascio è in- gantlHta
dal contrasto tra (I verde della patind bronsea e U rosso del molo che
ri¬ corda la stes.aa armonica tonalità che pm- doeono le colonne di
porfido presso la por¬ ta di bronzo deD'brroon di Itomdlo, figlio
41 Massenzio al Foro Romano. L'oflerla efa accompagnata da ani
epl- graia latina dedicatoria composta dall'or- farente. la quale
nell'UntvcnUtà Popolare faartsta avolga una fervida opera di pro-
pafgada di romani Ih viva. n Duca gradi raugorto a fi voto
acro- Mlaodoll colla sua consueta serena nobiltà. 2«m senza tm
segno della vivacità del sor> ridaots ano spirito latino: • Let mi ba
dato nna testone di storia • — osservò In tono aehanoao. Btngolart
parole In bocca di r.hl db a darà non poca a fare agli storici fu-
tnrl Riproduzione da «11 Piccolo». V. pag. 55. Grice:
“Like Reghini, of the movimento tradizionalista romano, Enriques was, for
different reasons, all into Pythagoras’s ‘arimmetica’!” -- Federigo Enriques. Enriques.
Keywords: implicature arimmetica, unity of science, history of logic,
foundations of mathematics, the synthetic a priori. Grice e Enriques su Peirce,
l’arimmetica pitagorica, Reghini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Enriques” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761739337/in/photolist-2mS1rKF-2mPEDc8
Grice ed Enzo – l’uomo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Burano).
Filosofo. Grice: “I like Enzo; for one, his “Ubi es?” is a classic – only in
Italy they take the Bible so seriously – “Ubi es” can be interpreted literally
– sans implicature. And that’s what Enzo does.”. Figlio di Alessandro, vetraio
a Murano, un mestiere estremamente usurante, morirà appena cinquantenne. Uomo
concreto e critico nella sua essenziale bontà.
La madre, Flaminia Vio, è una bravissima maestra merlettaia. Da lei apprende
il rigore e lo spirito di rispetto verso l'istituzione. È lei, una cattolica laica,
che vive al servizio della Chiesa, ad accompagnarlo dalle suore perché serva come chierichetto
alla prima Messa. È lei che accoglie la proposta del parroco di mandarelo in
seminario a Venezia per permettergli di continuare gli studi, ma preferisce
ritardarne l'entrata e chiede alla nipote di ospitare a Venezia il cugino che
posse così frequentare i primi anni come esterno. Negli anni di studio
ginnasiale, si imbatte per la seconda
volta nella lettura della Bibbia. Il primo contatto era stato quando, aveva
deciso di leggere ai fratelli, nella traduzione di Martini, una vecchia Bibbia
trovata in casa, per accompagnarli al sonno. Il contatto è più corposo e sistematico,
ma come la lettura lo entusiasma e nello stesso tempo lo delude, intuisce
infatti la mancanza di adeguate conoscenze e strumenti concettuali per poter
penetrare pienamente il messaggio biblico. Ha la stessa reazione anche quando,
finito il liceo, sceglie gli studi, dove la lettura della Bibbia è seria e
critica, ma rimane, per importanza, sempre la seconda o la terza materia dopo
la dogmatica e la morale. Viene mandato a fare cura pastorale come vicario cooperatore
a Caorle, dove accoglie 350 alluvionati del Polesine. Qui, meta preferita di
turisti tedeschi, studia da auto-didatta la lingua tedesca per meglio servire
la Chiesa. Viene trasferito con lo stesso incarico nella vicina frazioncina di
Ca' Cotoni per divergenze con il parroco di Caorle e nella popolare parrocchia
di S. Giuseppe di Castello a Venezia. Aveva conosciuto questa comunità quando
vi era stato per una stazione quaresimale con il patriarca Piazza e
l'accoglienza ostile degli operai verso una personalità vista come filo0fascista
aveva reso necessaria la scorta della polizia. A S. Giuseppe di Castello compera
un appartamento, indebitandosi, per fare patronato con doposcuola tutti i
pomeriggi sino alle 20, e a sera gli incontri con i ragazzi più grandi. Insegna
al Lido e poi nella vicina "P.F.Calvi", organizzando anche uno
spettacolo per un concorso al teatro "Goldoni". Il vicario generale Gottardi,
dopo essersi consultato con monsignore Capovilla, segretario del cardinale Roncalli,
gli comunica che andrà a studiare a Roma. Gottardi era stato suo insegnante di
teologia e scienze bibliche in seminario e aveva conosciuto il suo profondo
interesse per gli studi biblici, ne aveva poi apprezzato il saggio, “La
'Giustificazione' nella Lettera ai Romani” in cui analizza le varie
interpretazioni bibliche in maniera dia-cronica risalendo sino alle tradizioni
patristiche. Le due omelie di Carlo a S. Giuseppe di Castello ascoltate dallo
stesso vicario generale avevano poi confermato quella scelta. A Roma è ospite presso il Pontificio Collegio
Nepomuceno in via Concordia ed è lì che lo viene a prelevare Capovilla per una
visita guidata alla città, alla vigilia del Conclave da cui uscirà papa Roncalli.
A fargli da cicerone è proprio il futuro papa Giovanni XXIII e le bellezze
della città illustrate da una guida tanto preziosa assieme al paterno congedo
di Capovilla costituiranno il ricordo più bello della sua vita. Consegue la
Licenza con una tesi su "I Carismi" e contemporaneamente i corsi in
scienze bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico, dove perfeziona lo
studio dell'ebraico già iniziato in seminario, ma soprattutto ha l'incontro,
decisivo per i suoi studi, con il grande biblista Schoekel. Segue i corsi del
quinto anno che gli avrebbero permesso di redigere il saggio su "Grazia e
benevolenza" per la laurea, tesi che non può però portare a termine perché
torna a Venezia, chiamato da Urbani a svolgere la funzione di vicerettore del
Seminario Patriarcale, nel burrascoso periodo tra il rettorato di Vecchi e Villa.
Da vicerettore del seminario insegna anche scienze bibliche, diviene in seguito
pro-rettore, sino a quando chiede di essere sollevato dall'incarico per poter
assistere la madre paralizzata ed è quindi ascritto alla parrocchia di S. Zaccaria,
dove abiterà con la madre. Qui si fa promotore dell'allestimento e della
conduzione di un teatro, dell'organizzazione del cinema per ragazzi, del
cineforum, dell'istituzione della biblioteca, mentre cura anche l'esecuzione di
opere di risanamento e ristrutturazione di tutti gli ambienti frequentati dai
ragazzi. Continua ad insegnare in seminario, e dal rettore viene mandato nel
Benedektiner Kloster di Metten a Degendorf (Germania) per preparare alla
maturità i seminaristi che studiano la lingua italiana. Compensa l'esiguo
stipendio con l'insegnamento nella scuola pubblica, come il liceo classico
"M. Polo", dove matura la sua sottoscrizione delle tesi del "Manifesto".
Viene nominato patriarca di Venezia Luciani e pochi giorni dopo il suo
insediamento emerge il suo diverso sentire con Enzo, che, nella mensile lezione
culturale al clero, trattando il tema della "Consumatio saeculi" o
secolarizzazione nella Bibbia, provoca una dura reazione del presule. Dà le
dimissioni dall'insegnamento in seminario, dapprima ritirate, perché lui, che da tempo nella santa messa
pratica l'omelia dialogata, non si sente in consonanza con le direttive
indicategli. Sino a questo momento i patriarchi veneziani che avevano conosciuto
Carlo, Piazza, Agostini, Roncalli ed Urbani, gli avevano dimostrato la loro
stima. Proprio Urbani aveva chiesto ad Enzo un commentario al Vangelo di Marco.
Sin dagli inizi, accompagna la vita sacerdotale di Carlo una costante e intensa
cura pastorale, rivolta sia ai ragazzi che agli adulti, e non solo nelle sue sedi
parrocchiali. Più che trentennale è a questo proposito la collaborazione che
gli chiede Marangoni nella parrocchia di Marghera, nel quartiere Cita, nei
difficili anni Settanta e, dagli anni Ottanta, a San Giacomo dell'Orio a
Venezia, a testimoniare la stima e l'affetto maturati dagli anni del seminario.
Si laurea a Venezia con “Alle origini dell'utopia messianica. Insegna a
Venezia, Oriago, Mestre e Giudecca. Va in pensione dall'insegnamento. Tiene a Venezia dei cicli di seminari di
esegesi biblica nell'ambito dei corsi tenuti dal prof. Arnaldo Petterlini, da
Madera, e allo IUAV di Venezia seminari di antropologia biblica ed esegesi
invitato da Rizzi. Sudia filosofia scolastica, propedeutica alla teologia. Nel
manuale di Calcagno, "Elementa philosophiae scolasticae" trova il
capitolo dedicato alla filosofia immanentistica, che considera Dio la natura o
non considera affatto Dio e considera solo la natura. Lo colpisce Spinoza per
la sua vita nascosta, dimessa, umile, scriveva infatti solo per gli amici. Ne
legge l"Ethica more geometrico", commentata da G. Gentile, più facile
a reperire perché considerata meno sospetta del "Tractatus theologicus politicus"
che studia in seguito, dedicando particolare attenzione al capitolo "De
interpretatione". Spinoza afferma che la Bibbia va letta e interpretata con
la Bibbia, era quanto Enzo aveva intuito sin da ragazzo, ma aveva abbandonato
quella strada in seminario dove si praticava il metodo storico-critico. A Roma,
il Nuovo Testamento viene studiato ed interpretato secondo il metodo della
storia delle forme che applica al testo biblico le regole dello scrivere
greco-latino, mentre per il Vecchio Testamento si segue la teoria dei generi letterari.
Incontra Schoekel, insegnante di teologia, esegesi ed ermeneutica biblica, che ha
un'attenzione speciale alle particolarità stilistiche e semantiche del lessico
biblico che schiudono un nuovo orizzonte metodologico e tematico. Considera
fondamentale per la comprensione dell'intera Bibbia lo studio dei primi tre
capitoli di Genesi e incoraggia Enzo, verso cui dimostra profonda stima e
un'amicizia che durerà sino alla propria scomparsa, ad affinarne l'esegesi e a
continuare il suo lavoro. Torna a Venezia con l'intenzione di mettere a frutto
quanto appreso applicando le indicazioni metodologiche spinoziane. Gli studi su
Genesi 1-3 vengono pubblicati in "Biblica". La interpretazione di
Genesi è alla base di diversi testi, dalla tesi di laurea, all'articolo su Servitium,
al testo "Adamo dove sei?" In parallelo decide di approfondire la
connessione tra i testi di Genesi e il vangelo di Matteo e scrive diversi
appunti che continuamente rivede nel corso degli anni. Da questi nasce il
progetto "La generazione di Gesù Cristo nel vangelo di Matteo". Altre
opere: “Testo e interpretazione in Weber e Bultmann, Unicopli, Milano); Alle
origini dell'utopia messianica, Antenore, Padova); Sulla nascita della
filosofia medievale, Venezia 1984 Sitz im Leben e interpretazione, Venezi); “Individuo
e comunità, nella riflessione biblica delle scritture antiche Servitium:
Quaderni di ricerca spirituale, Adamo dove sei?, il Saggiatore, Milano); La
terza delle dieci parole di “Esodo” 20 nell’interpretazione di Gesù in Le
parole dell'essere: per Emanuele Severino Petterlini A., Brianese G. e Goggi
G., Pearson Italia S.p.a Il Progetto di Mondo e di Uomo delle Generazioni di
Israele (Genesi 1-4), Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel
Vangelo secondo Matteo. I. Gli Inizi, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù
Cristo nel Vangelo secondo Matteo. II. La Legge, Mimesis, Milano, Le prime
dieci parole di YHWH a Israele in Panta, Decalogo, Donà M. e Toffolo R.,
Bompiani, La Generazione di Gesù Cristo
nel Vangelo secondo Matteo. III. La Regola dell'Apostolo, Mimesis, Milano, La
Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. IV. Il Regno dei Cieli,
Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. V.
La Ecclesia di Gesù Cristo, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel
Vangelo secondo Matteo. VII. La consegna del figlio dell'Adamo, Mimesis,
Milano, Genere adamico. Riflessioni sui testi fondativi della tradizione
spirituale occidentale che si trovano nei primi quattro capitoli di Genesi,
Servitium: Quaderni di ricerca spirituale,
Interventi alla radio Giuda: consegnare e tradire: Marco 14,43-52 con
Ludwig Monti, 3 marzo Sulla barca le
parole del regno Matteo 13, con Romano Madera, Le parole del regno Matteo 13; Due
lezioni bibliche: Il “mondo” del nostro Dio, Rovato e L’ “uomo” del nostro Dio,
Rovato, Lo Spirito di Cristo nel
progetto messianico, comunità della parrocchia di S. Giacomo, Venezia La
rivelazione secondo la Bibbia, Università degli studi di Venezia, Dipartimento
di filosofia e Teoria della scienza, Seminario sul “Der Mann Moses und die
monotheistische religion”, Incontro tra Carlo Enzo e Romano Madera, 13 marzo,
IUAV (Venezia) ‘ôLaM, il progetto consegnato, Le decadi, dieci incontri con
pensatori eccellenti sul tema “Le potenze invisibili”, IUAV (Venezia) Scritti
su Carlo Enzo e testimonianze Tagliapietra A. La Bibbia, libro sempre “aperto”,
Gazzettino Tattara G. e altri Per una rilettura del vangelo di Matteo, Mosaico
di pace (on line), Madera R. Date al
cielo quello che è del cielo, L’Unità, Gnoli A. Rileggere la Bibbia, La
Repubblica Della Pergola F. Parola di biblista,
Della Pergola F. La Bibbia svelata,
e in Left, Lamonaca L. Su una nuova lettura della Genesi, Patrignani C.
Laicità: il biblista Carlo Enzo batte i marxisti ratzingheriani, MorettoUn mondo possibile, Della Pergola F.
Il problema dell’unicità e della trascendenza di Dio nella Bibbia ebraica, Della
Pergola F. Il Dio del nulla Tattara G. e altri Gesù e le donne nel vangelo di
Matteo, Della Pergola F. La lunga
battaglia contro la Bibbia e in Left, 1 aprile
Video Da Burano a Roma, parte I, dal progetto Memoro. La Banca della
Memoria La prima visita di Roma, parte II, dal progetto Memoro. La Banca della
Memoria Dal Biblico a Baruch Spinoza, parte III, dal progetto Memoro. La Banca
della Memoria Gesù Maestro ed Elohîm dell'Ecclesìa, parte IV, dal progetto
Memoro. La Banca della Memoria Vai, vai per te, parte V, dal progetto Memoro.
La Banca della Memoria Dalla Bibbia Ebraica alla generazione di Gesù Cristo.
Un'intervista di Romano Màdera La Bibbia non dice quello che ci hanno fatto
credere. Un’intervista a Carlo Enzo Date
al cielo quello che è del cielo di Romano Madera, in L'Unità, Rileggere la
Bibbia di Antonio Gnoli, in La Repubblica. x V
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S C 0 X S O DELLA RELI « >
r. =• *' t j GIONE ANTICA D E R. O
M A N I, ’fcSbr lnjìeme <rrn altro Difcorfo
della CaUrametatione , f£) difciplma militare, % agni, & efferati]
an- tichi di detti Xomani, tU
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» i. i Comporti in
Franzefc dal S.Gugliclmo Choul,GcntiJhuomo Li onde, & Bagty delle
Montagne del Dclfinato, 'otti in Tofcano da M.
Gabriel Simeoni Fiorentino. di Medaglie & Figure , tirare de i
marmi amichi, quali fi trouano à Roma , & nella Francia.
^ IN LIONE,, APPRESSO GVGLIELMO ROVILLIO.
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•*• ^1# < » w Armoiries dudiB S.(juiUdume du
Choul. hi'* BEATVS.
J m I
r I r
"«Hi. alla christianissim a et ScreniiTìma
Rcinadi Francia, Macia ma Cateri- na de Medici, Guglielmo Rouillio
humi- liflìmofcruitore,(aIutc & con^ 'c'N tentezza
Tempi- '■% terna. i ^4.
purità & dolcetta della lingua Tofcana pare che fia di prefenre (
Chnfiianifima Rei- na) falira in tanto pregio , che doppo la (^re-
ca (èj? la LatinafiTofcani medefimi Jludian - dolaci ingegnano ogni
giorno di renderla più bella y i letterati firanieriì
ammirano, (gj ( come hanno fatta t*Ariofio,il "Bembo, fèd il
Sennaz&aro') ne iloro ferini cerca- no di imitarla , & in fomma,
non fi troua natione-à cui non piaccia cjuafi ogni opera compofiapiù
tofio in Tofcano,che in altra /inguada ejuale cofa conofco io tffere ogni
dt più yera nel fare Jìampare {gfi mandare fuora i miei libri ,nafcendo (
co- me io credo) <juefio,che poche altre lingue fi pronunziano
(tfi fcriuono di \na medefima maniera, come fanno la Latina &
In Tofcana, le quali oltre di ciò hanno Vna certa conformità in-
ferno per la vicinità delle ‘Provincie, che nelfignificato,nel fitto- ne
, Qf nell'accento fi poffono meritamente nominare f or elle. Jtla fi come
ogniTofianofe non ben letterato, non può ne par- lare, ne fcriuere
bene,cofi e gran felicità disdire le parole, (gfi leggetegli ferirti di
colui che Tofcano (gr letterato fi ritrova. Traitjuah ha vendo io fempre
\ dito per tale filmare Jrfejftre (jabncl Symeoni da gli h ut miniì tram
ente dotti, oltre à quel- li ' &
I ►ig* 10 che io
medefimo ne ho cogno fiuto , (gl egli da fe (leffo ha di' mojlro in più
opere fue fampate in Francia & in Italia , mi fon mojfo à gregario di
tradurre m Tofcano il libro della Reli- gione antica de Romani,prima
compofo in Frange fe dalS. (julielmo Choul,2?agly delle montagne del
T> elfinato, la quale fatica volentieri egli ha fui ito profanarne
anchoragia fece del - laltromio libro della Caframetatione de Romani, pur
e com- porlo dal mede fimo autore- Là onde, considerando futilità
gran de che di tal libro fi può cauar e, (gl maf ime hauendolo fiam-
pato nella più bella forma che io ho faputo imaginare, ho pre/i ardire di
dedicarlo à ZJ.Jrf- parendomi [fe fi debbo hauer ri- guardo che il
prefente habbia qualche proportione con la per- dona a cui fi prefenta )
non poter più degnamente quello mio conuenire ad altri che a ZJ.M. come
lettura non meno nobile , che V rile alla Republica , potendo percofi
fatti mezzi cono fie- re, che la grandezza & profferita dell’Imperio
Romano non nacque ctaltroue,che dalla virtù deltarmi proprie ,dallagiu-
fitia,(gl dal culto frequente (anchora chefaljo, altrettanto che 11
noffro ordinato dalla chiefa catholica , e falutifero (gl vero } della
Religione dei loro falfi Z>q,i quali o come creature ( deifi - cando
gli fiocchi i loro co fi buoni come cartiui lmper adori} o come inanimati
numi [adorando & temendole felle, i Fia- neti,la forte, (gir gl'
accidenti h umani} fe bene non haueuono poffanza d aiutarli, nondimeno fi
vede che fomnipotenre &> Vero 2 )io,hauendo più riguardo alla
/implicita & buono animo loro t ch e alla loro cieca credenza ,tion
anchora illuminata dal Vero Mefiiaglifauoriuafempre (gl aiuraua, non
altrimenti che io lo priego al prefente che al Re, à U.JM.(gl à tutta
la fua regia & bella prole doni fanitàconrinoua, allegrezza fini#
fineffl longa vita.Di Lione el dì }0.dùdgofio,itf8. Difcor,
'S: 5 Stata
comune opcnionc d’alcuni hiftori ci antichi che lano, primo Re de
Latini, forte elprimo che caificaflc tépio a Dio; Alcuni altri
hanno voluto che quello fa - ccflìno in Candia Foraneo &
Dionigi,& che di qui tutte le republichc, i Principi, &
gl’imperato- ri di buona voluntà, fegunarterodi poi à fare templi
ma gnifìchi, ornatifsimi& ricchi: tra cuttii quali i Romani
principalmente oflcruorno fopta ognicofa le cerimo- nie, & culto
della Religione, mettendo ogni loro sfor- fo nel fare chiefc grandi &
merauigliofc,come anchora hoggi fi vede per quella piùintcra & più
bclla,chc in Ra marecc fareM. Agrippa, genero d’Ortauiano Imp.da;
luy chiamata Panteone, & da noi fi oggi la Ritonda* rif- . petto alla
fua forma.. Quello tepio di fuoraecompo- n o di mattoni,& dentro
folcua eflcre ornato di marmi di diuerfi colori, con certe cappcflettc,in
ogniuna delle quali era porta laftatua et vno Diodi quel tempo: ma
fopra tutte vi era venerata quella di Mtncrua*fatrada- uorio per
lemanidcl celcbratiflìmo fcultorc FidiaGrc- co:5 e dart'altrapartc quella
di Venerei gl orecchi della A 3 DE GL’
ANTICHI ROMANI. Imo prima inuentore
it templi Tempio dt M.Agrip- JW.
P tfó t Ud- ititi dtUa Perla di Cleopatra.
Torma er ricchezza del P antco- ne.
P dnteone dedicato i Gioite.
Sacrilegio di Coftanti- no impera.
DELLA RELIGIONE quale pendeua la Pcrla,chc auanzò à Cleopatra
Rana d’Egitto , la quale Augufto haucua per quello effetto fatta
diuiderc in due parti, non hauendo potuto trouar- nein tutto il mondo
vn’altra che la fomigliaflc.Concio Ila che la compagna di quella mangiata
da Cleopatra nel conuitodi Marcantonio pefaflc mezza oncia, che fono
l x x x. carati, & folfc (limata cento fcllerti j , di lc- flertij
che al modo nollro varrebbono cc. cinquanta mila feudi. Di quella Perla
Icriuendo Plinio ncll’v ni. libro dcH’Hilloria naturale, dice che ella
era di co lì ma- rauigliofa grandezza Se bellezza, che la Natura non
ha- ucua mai fatto opera ne più perfetta ne più pretiofa. Ma
tornando al proposto del nollro tempio , dico che egli ha le porte di
bronzo di fmifurata groflezza & al- tczza,con colonne innanzi nel
medelìmo modo fmifu- ratcrte quali nel principio lolcuono ellèrc x v i.
ma hoggi à x n i. fono ridottc,conciolìa che due ne fumo guade dal
fuoco , & la terza non fi fa ciò che ne lìa fe- guito. Le traui ,
architraui & cornici di querto mirabile tempio erano ùmilmente di bronzo
dorato, & finalmcn te fu la fua principale dedicatone à Giowc
Vincitore, ò Vendicatore, quantunque Dione fcriua che Agrippa lo
facerte fare in honorc d’Augudo. Collantino terzo di- poi, Imperatore
& nipote d’Hcraclio,Ieuò la copertu- radi qucdotcmpio,la quale era di
piadrc d’argento , & interne con molte rtaruedi marmo & di
bronzo, che feruiuonodi bellezza & d’ornamento àRoma, le fece
metrere lòpra mare pcnlàndo diportarle in Codanti- nopoli,il q naie
facrilegio non volendo lafciare impuni- to Iddio, fece che in Siracufa ,
Città di Sicilia , lì morì Codand DE GL’ A NTI
CHI ROMANI. : Coftantino,& tante cofefìngulari Se rare fumo
rapite dall'armata dei barbari corfali,& portatelo Egitto. Coi!
fece quello Iceleratifhmo-tyrano più danno invi r. gior- nichcegli (lette
in Roma, che in c c.anni non haucuor- no fatto i Corti & tante altre
barbare narioni. L’archi- tettura di quello tempio (per quello che io ne
hò potuto conofccre)è fopra tutte l'altre bene intefa & mirabile ,
lì come anchora li può vedere inRoma,& vedranno qui quelli,che
non vi fono (lati, per la medaglia di detto Agrippa^riprcfcntata qui
difottoal naturale. MARCO AGRTPPA. BRONZO.
Vn’altro firmici quello tempio fece già fare (pacan- do per
Atene) HadrianoImpcratote,il quale dedicò li- milmcnteà tutti gli
Dij,.&lo cinfc di c x x. colonne di marmo
Frigiano,conporrichi&loggieintorno per pai- feggiare al coperto,
limili àichioftri delle nollre chiefe. Fece oltre à quello nel detto
tempio vnn libreria, Se dal fuonomcvngynnafio ornato di cento colonnedi
mar- T empio d‘- H adnano.
Librrrié d'HadrU- no.
•HMSfri.v, 8 DELLA RELIGIONE raufanU. mo che
egli haucua,comc fcriuc negl’ Attici Paufiinia? fatte condurre di Libia:
foggiugncndo il detto Autore che il nome d’Hadriano fi trouaua per infino
nel tem- pio comune à tuttegli Dijila quale verità apparile an-
chora per le medaglie Greche, quiui battute per memo- ria di cofi nobile
edificio:& nelle quali fi vede il*? «fcp.,, chcè il portale della
chicfii, con altre letrerc Greche, che diconoKoiNON&moTNiAs, cioè
tempio com- muneà ruttigli Dij. HADRIANO GRECO.
BRONZO. BRONZO. Ma.lafciando (lare i templi dedicati à
tutti quelli fal- fi Dij & Demonij , pieni di fuperftitioni & di
bugie, venghiamo (blamente à confiderarc la grandezza & Tempio
di ma g n ificcnza di quello di Salomone, il quale di ricchcz Sélmonc. ^
^bellezza ha pafiito tutti gl’altri ,conciofia chcncl- l’ Arca douc erano
ferrate le leggi & comandamenti di Dio,fi vedeuono infinite pietre
pretiofedi grandifiìmo pregio, DE
GL’ ANTICHI ROMANI. pregio, & l’Arca medefima era
coperta di grolle piaftre tutte d’oro.Quiui fimilmcnte era vna tauola tutta
do- ro malficcio con innumcrabili vali d’oro & d’argento,
di stlomo - calici , ampolle, & altre cofe, che leruiuono nell’ammi-
Bf ' niftrationc & cerimonie de i facrificij. Vncandellicre
S andiflimo d’oro, del quale vlciuonotre rami da ogni to con
altrettante lucerne, figurate per i fette pianeti, tra le quali quella
del mezzo4'o ftcnuta dal tronco , era più grande à mifura che il Sole e
più bello di tutte l’al- tre ltelle. Et tutte quelle cofe furono
portatcfdoppo la Tempio del prefa di Giudea) innanzi ài trionfo di
Velpafiano & di Titofuo figliuolo, &pofte nel tempio della
PaceàRo- ma, &di poi {colpite nell’Arco trionfale di marmo,
edi- ficato in honoredi Tito Vepafiano dal Senato Roma- no, il
quale Arco con molti facrificij fi vede anchora quafi tutto intero.
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) 1 f . , ;• •..-ftn.ii'v ( 7
, V), ‘ ’i - .a . ,’,’i
9 IO Quello tempio di
Pace, del quale tra l’altrccofe piu IT eccellenti della Città di Roma
Plinio ha fatto mentione Minio. nc lxxxvi.librodeirHi(lorianaturalc,abbruciò
nel tc- H aodUno. podi Commodo Imp.Sicomc fcriue Herodiano,fog-
giugnendo ch’eglicrafopra ogn’altro ricchiflìmo &or- natiflìmo di
(lame & altre cofc belle coli dentro >comc fuora,ficomc anchora fi
puoconofccrc per le meda- glie de due fopradetti padre & figliuolo
Imperatori. V E S DELL A RE LIGI ONE
TTqvTZd R ITR u TT^i Z> f xArco Triomplfdle di Tito in
Ronu. i V DE GL'ANTÌCHI
ROMANI. VTspXsTa no. tTtò: BRONZO. BRON
ZO. Della bontà & valore di quelli d uc Principi , che
rir duflero(comecdetto)turtala Giudea fotro l’obedicnza de Romani,
& della miferabile prefa &diftruttioncdcl tcjnpio di Salomone, ha
Icritto affai à pieno Iofcpho nel fuo libro, che tratta della guerra de i
Giudei. VESPA SIA NO. "C T I T O. ARGENTO.
, BRONZO. Il DELIA RELIGIONE
VESPASIANO. TITO. bronzo. argento.
VESPASIANO. BRONZO. ARGENTO. AMA
DE GL’ ANTICHI ROMANI. i } Jtt *A T l ST *A
Z^nTTTZa, quale è nelle mani Je fautore. gradiftìmo
piacere Vefpafiano fopradetto neir p ^ f edificare & ornare quello
tempio di Pace, di tutte le piu J tUaltm » belIecole,ch’ei potette
haucrc,come quello, che doppo ve- la prefadi Giudca,haucua mcfl'o in pace
tutto il mondo: il che moftrano anchora le Medaglie battute al Tuo
tem po cofidi bronzo,comed'oro,tralcqualifcne trouano alcune
colfimulacrodclla pace, accompagnato da lette- re che dicono,PACi orbis
ter rar vm. & in alcune altre fi vede la Pace con vn torchio accclo
in mano, che abbrucia & diftrugge vn fafeio d’archi, di frcccic, di
cela tc,di fcudi,& di corazze con altri inftrumenti della guer-
ra^ nell'altra mano ha vn ramo d’vliuo & lettere che moftrano la pace
d’Augufto, con quelle parole, pax ptee. avgvsti.
VES. M DELLA RELIGIONE VÌfSPÀS I A NO.
DOMINANO. BRONZO. BRONZO. Et li come Vefpalìano
ha di fopra figurata la pace eoa Lvliuo &col Caduceo di Mercurio,
coli Tito la difegnà poi con vn ramo di Palma. Pace
nutrì- Quelle fono tutte le figure antiche della pace, tanto cc detta
feti dcfidcratadaogniuno,comequelIa cheè nutrice della ctu pubti- p U bIi
caV tilita,&con lafclicitàdellaquale fi conferma il mondo.La pace è
quella, per la quale la Natura Huma- na va crefcendojlc richezzc
fimilmcnte multiplicano,la virtù VESPASIANO.
TITO. BRONZO. DE GL’ ANTICHI ROMANI.
virtù c in pregio, & finalmente ella contiene in (e tutte le
colcbuone,chcfipoflonodefidcrarein quello mondo. Et che ciò fia vero,
ficonolce, che nel tempo di pace fiorifeono affai piu i begli
ingcgni,& i principi fauorifeo no piu i letterathcomc quelli , che intrattenendo
coli i virtuofi, i lettori publici, &crcfccndo il numcrodeCol
legi&dcllclcuolc,conolcono pcrtal mezzo, haucreà reltare
immortali,elTcndoilibri come vna tromba per- petua à gl’orccchi de noftri
fucccflori : fi come lenza quelli vegliamo che non farebbe piu memoria de
nomi & fatti di Filippo, ò Aleflandro Re di Macedoni a,diCe
(are, ne di Pompeo, di Cyro , de Perii , ne de Greci:& la gloria
&grandezzade Romani col nome di tanti huomi ni eccellenti farebbegia
del tutto fpentaxhec quella co- là(Signore illuftriflìmo)Ia quale vi può
portare maggio re gloria & honore,facendoammacftrarc &
introdurre nelle buone lettere il figliuolo del Re, che meritamente
fua MaelU haconftituito lòtto ladifciplina & cuftodia voftra:dclla
quale tornando à propofito della noftra pa- ce,dico che Augnilo Cefarc
prima fu quello, che fece fa re l’altare della Pace in Roma, &
Agrippa Tacerebbe , fi comcanchoradimoftra Ouidio nei Tuoi Falli, doue
ci dice, Ipfum no s carmen deduxit ‘Pack ad /tram,
Hac erit a mtnjis jìnefecunda dies. Veggonfi le forme di
quello altare perle Medaglie diTiberio,battutcin honore d’Augulto, quali
limili à quelle di Nerone , doue fono lettere che dicono pace
avgvsti p erpet v a, & nell’altra, ara pacis. TI
>5 Lf Intere C T letterati rendono
il nome de U principi im- mortale. V
Altare d Pace. Ouidio. 1 6
DELLA TIBERIO. RE LIGIO
ISTE N E R O N ET BRONZO.
Tempio di Numa Pompilio fu il primo che infegno di pace edi Un
°uJrI & ^ crm ° ^ r ^P‘° Lano,iI quale (come fcriue Pro - tL ?
copio)era quadro &grandecomc vna Capella, tutto di bronzo,&
tanto alto, quanto la ftatua di ramedi Iano vi potefle ilare dentro, la
quale non era lunga piu di cinque piedi,& con due vifi,l’vno riuolto
allenente, & all’occa fo l’altro ronde ci fu detto Gemino ,& del
quale Plinio nel libro xx x v.de l'hifloria naturale ha cofì fatto
men- tione. unmgcmi' Ianni geminiti a 'Numd Rege
dicdttts , qui pdeii, belli que dr~ gumenro colitur. Augufto
nm. • , k
*7 DE CL’ANTICHI ROMANI. A V G V S T
O. BRONZO. Haucua quello tcpio due porte
di bronzo, Icquali in tempo di pace ftauano chiulc, & aperte in
quello della gucrra,ficomc anchora lì vede in Virgilio,doucei dice,
Sunt gemina belli porta. Furono quelle pone tre volte fermate al
tepo de Ro- manica prima lotto Numa, la feconda fotto il Conlòlo
Tito Manlio,& la terza & vltimafotto Augullo,quado piacque al
Signorc&fabbricatorc del’ vniucrlo,vcro au tore& di pace & di
luce, pigliare carne humana: della quale cola lafciò mcmoriail
fucccflorcd’ Augullo(dop- po che ei fu deificato) facccndo battere
medaglie, nelle quali lì veggono due mani llrettcinfieme,convn Cadu
eco nel mezzo, & due corni d’abbondanza con parole, che dicono , p a
x. Significando che dalla concordia dipende la copia di tutù quanti i
beni. Caduceo inftgm pace.
B li DELLA RELIGIONE
avgvsto: ARGENTO. Tito Liuio lcriue,che
doppofa guerra Adliaca,hauc- % do Ccfarc pacificato il mondo per mare
& per terra, fer- mò il tepio di Iano. Et Nerone dipoi lenza
haucrc rigar- do à la pace,mofi:rò per la Icrittura delle fuc medaglie,
& la figura del tepio di Iano,d’haucrc{bFo rcnduto lapacc
Umilmente per mare & per terra al Popolo Romano^, facendo fcolpire
coli fatte parole ,pace popvlo ROMANO TERRA MARIQVE PARTA, I
A- NVM CIVSIT. NERONE. DI BRONZO.
Tro DE GL* ANTICHI ROMANI. ip Trouafi vn Marmo
in Roma di colore bia co & ton- do/! quale mie parfo di riprefcntarc
qui innanzi, per moftrarcla differenza delle parole che gli fono
intor- no, limili nondimeno nel fenfo à quelle, che nella meda-
glia di Nerone habbiamo viftequi fopra, ianvm c l v- SIT PACE pRIVS
POPVtO ROMANO VBIQVE PARTA. Plinio nel libro xxm.
dell’hiftoria naturale (feri- IANO uendo di Iano gemino) dice che i
Romani nella pri- * min0 ‘ magucrra,chchcbbonocon i Cartagincfi,fcciono
bat- tere molte medaglie di bronzo, da vn de lati delle quali era
la teda di Iano con due vili, & dall’altro la poppa d'vnanauecon
quella parola, Roma. Si trouano ancora medaglie di Iano,ncllc quali
fi ri- prefentano nauili & trofei'Ja deferittion delle quali fi
vedrà piu allongo nel libro de l’Antiquità di Roma, il quali’ Autor
mcttra torto in luce. MEDAGLIA DI I A Na
BRONZO. La caufa perche Iano fi depingeua con due
vili, ella- ta affai benedichiarata da Plucarcho nel libro delle lue
Ijjjf*** quilUoni,doucdicc chcqùcflo nacque perche Iano era B
a Uno con due uijì. Ouidio.
Berofo. Uno Dio- deli pace .
IO DELLA RELIGIONE (lato i! primo che
haucua rend u ti i collumi rozzi delle pedone piu ciuili , dando loro
leggi, & inoltrando che per la commodita de mari Se de fiumi
gl'huomini potc- uono hauerc Tempre abbondanza di tutte le cofc ,
tranf- portandolc d’vn luogo ad altro. Alcuni altri dicono che
arriuando Saturnoin Italia in vna naue,& infegnando a Iano l’arte
dcllagricultura, & altre cole vtili & buone, lancio prclèpcr
compagno nella Monarchia, & per eterna memoria del Tuo- nome, fece
battere medaglie con due vilì,& nel roueTeio la nauecon la quale
Satur- no era venuto in Italia:di che anchora. pare che habbia.
rcnduto teftimonio Ouidio,doueci dice, ±At bona pojleritds Unum
formante in are Hofitis aduentum tejlificata Dei. Io
nondimeno m’accofterci piu volentieri all’oppe- nionc di Macrobio, che
dice cnc Iano Tu (colpito con due vift,percflere Rato vn Re molto Tauio ,
che confi- dcrado le cole pallatc,giudicaua Se prouedeua à quel- lo
che doucuaaucnircjchc e certo, quella prudenza, la quale epiuneccflaria
àtuttc le noftre attioni : laonde confidcrado la varictadcllc leggi Se
manierede collumi de gli huominbparc che
quafimcriramcntelanollravi- ta fi polla aflomigliare alla figura di Iano
con due vili. ScriueBcroTo.che Iano Tu chiamatoDio di pace Se di co
cordia,doppo che Romolo &Tatios’accordornoinfie mcj&che per la
pacc& vnioncchc quelli due popoli ha - ucuonofatta l’vnacon l'altro,
l’imagine di Iano Tu Tcol- pita con due vifi,& nel tépo pure di
Romolo fatta di le- gnoTolamcte/ccondo ilcollumc de
grantichi,volendo mollrare Se fignificarcchclapoucrtaè amica diDio,
come DE GL’ ANTICHI ROMANI. zi
come quelle che contienile in fe l’honcftà , & la pace, quello che
conferma Tibullo ne Tuoi verfi > douepar- ritmilo. landò
dellantichcimagini degli Dei, dice. Ne pudeatprifco Vos ejjìe e
Jìipite fatto s. Sic Reterei fedes incoluijhs aui. Tunc
meline renuere fdem } cttm paupere culeu S tabarin exigua ligneus
adcDetts. N urna di poi fu quello, che fece fare quxfta
imagine di bronzo da Mamurio Ofco ,grandi(hmo maeftro di Ju
xm<t. fondere ilbronzo&iIramc,ilquaIcda Numa fu chia- mato
àRomaperfondcrcfimilrnentei xn.ancili,che di poi foleuono portare nei
facrificij r faccrdoti detti Salij, come noi moftraremo apprclfo piu
dillcfamcntc nel difcorlo de noftrifacerdotij. Quello Iano fu
chiamato anchora quadriforme, & dipinto con quattro vili, come quello
che haueua fi- gnoreggiato da tutti iquattro angoli del Mondo,
nella qualeforma di poi Ip riprefentò anchora Hadriano nel- le fuc
Medaglie. M. A VRELIO. DIOCLETIANO.
HADRI ANO. BRONZO. Etpcrchcgia dal Signore
Iacopo Strada Mantova- no, grandiflìmo & diligente amatore
&inueftigato delle cofe antiche, mi fu altre volte donata la figura
d’ tempio di Ianoquadrifrontc, però mie parfo di fentarlo qui fotto
al naturale, ocr maggiore inrell del lettore.
DE GL’ ANTICHI ROMANI. ~Ò CON
z 4 - DELLA RELIGIONE Hauendo à baldanza fcritto de templi
della Pace &di Iano,ragionercmo al preferite di quelli della Dea
Cócor dia, alla quale gli Antichi ne edificarono tati, che non ha
rebbono mai fineà volerli tutti recitare.Ma purccomin- ciando da
quello,che in Roma per tcftamcnro di Liuia c oneordu ^ ua ^ a< ^
re & mo g^ c d’Augufto,fece fare Tiberio impe- sto da radore, diremo,
chele la concordia & la pace fono vnà Tiberio.
mcdefimacola,eipotrcbbceflcreforfc quello, del quale Dionr. Dione
haragionato nel libro l v i. dell’ hiftoria Roma- na, fcolpito per le
medaglie di molti Imperadori, nelle quali fi vède la concordia con vna
tazza in mano, in le- gno della fuadcità,& nell’altra tiene vn Corno
d’abbon- danza,fignificatorc della copia di tutti i beni, quando
gli huomimfonoinvnionc: vedefianchora qualche volta con due figure
, che fi danno la mano I’vna all’altra : nel modo che fi vede qui difotto
, potrà il lettor vedere la concordia. «—
wm DE GL’ ANTICHI ROMANI. aj
Et perla medaglia di Bronzo, di Caracalla, potrà ve- der il lettore
la concordia tra lui & il Tuo fratello Geta, lignificata per la mano
delira che fidano l’vno all’altro, accompagnati da vna vettoria che gli
corona améduc. ''che mollrala vettoria d Inghilterra, douc erano
Ita- ti tutti infieme. Nelle McdagliediM. Antonio
Triumuiro lì troua anchorala tefta di Concordia da vn Iato , Se
dall’altro duemani ftrette infieme con vn caduceo nel mezzo, &
lettere che dicono, m a r c v s antonivs, caivs B L I C AE
CON- .r Auicuncaltrepure
del mede/ìmo hanno fcolpita la Concordia con ducfcrpichc cingono
vn’altarc , fopraal quale e polla la tcftad Auguflo, lignificando la con-
cordia del Triumuirato:& nelle medaglie d'Augufto li figura dei-
vedcanchorala concordia, che con vna mano tiene U Contar- cornocopia,&con
l’altra prclcnta de frutti àiTriumui ri,quali furono Lepido, Cclarc&
Antonio, per mollra rechc dalla loro vnionc nafceua il bene della R
ca,&di tutta fhumana generinone, fpecificato mili parole, salvs generis
h v m a *7 DE G I/ANTICHI ROMANI.
MARCO ANTONIO. ARGENTO. AVGVSTO T RI V
MV IRÒ. ARGENTO. Ma volendo vedere
quanto folle {limata la concor- dia àccmpiantichi &da gl'imperatori
Romani, & dagli Efferati loro, riguardiamo alle altre medaglie , che
fole- uono fare, in alcune delle quali fi vedeuano cofi fatte
parole, concordia miei tv m , con vnavettoriache coronaua con due mani à
vn tempo medefimoj due Imperatòri , lignificando d’haucre vinto per
fvnionc & vir Concordi* degli
folda- ti Romani, I z8 DELLA
RELIGIONE & virtù de loro fo!dati:& in altre fi troua la
concor- dia con due infegne militari in mano, & le medefime
parole. SEVERIN A. ARGENTO.
C^V I N T I L I S. ARGENTO.
» - — — - B—i. 11*
a* ’•/ .. »-••*•• DE GL’ ANTICHI ROMANI. 19 Hcbbono
Tempre tutti i piu faur Imperatori quefta ferma Ipcranza^he nella
concordia de foldati confi- ftcuono tutte le vettoric Se la falutc del
popolo Roma- no, & pcròfareplicauono fpcflbcon limile medaglia.
H A D R 1 A N O. BRONZO. BRONZO.
Per alficurarfi poi meglio deirvnionc degli Efferati loro , gli faccuono
giurare per mezzo i facrificij, non trouando colà che piu gli. faccflc
temere, quanto la religione.. , A quefta concordia dcdicomo
glantichi fa Cornac- C om<tcchU chia,&di qui nalce chcEliano ha
Icritto che gl'anticht dcdUaual- ncl far matrimonio inuocauono quello
vccello.Il Po- ^ Con<0, ’ Iitiano fcrittorc diligcntiffimo fa. nelle
lue Mifccllancc mcntionediqucftoi& per mcglioprouarlo, dice
haucrc veduta vna medaglia doro della minore Fauftina, figli- uola
di M. Aurelio, Semoglic di L.Vcro,ncI rouefeio della quale era vna
Cornacchia con lettere, che diccuo- no, concordi a. Et perche io n’ho vn
altra limile nel- fc mani, però mie parfo riprcfcntarla qui
difotto. Fauftina. • * * •
0 • *
ìj&k Mi f j
La quale colà per p UMU vo ! u 1 , ° ^ompagnarc la
fopradcrra Medaglia con moglie di vn alcra d orodl Plautilla Augufta,
figliuola di Plaudo, cauviu Jaqualc fiotto Scucro goucrnò tutto Tlmpcrio
Roma- ** P ' fu poi moglie d' Anronino Caracalla, figliuolo di
Scucro Impcratore,douc fipotravedcrcinchcmodo fi dauano la fede in
fiegno di concordia due pcrfionc ma- ritate,con quelle parole, felix
concordia. ’ : DELLA R ELI Gì ONE FA VSTIN
A. doro. PLA VTILLA. D ORO.
Vfauono DE GL’ÀNTl CHI ROMÀNI. 31 .'
Vfauono limilmcntcgrimpcratori di {tendere la man drittafoprale infegne
dciloro foldati , inoltrando 1 vni~ onc &concordiache doucuaclfcrcin
vn Campo, & dal- lequali nalceuono quali tutte le vettoric loro, li
come io ho già inoltro nel dilcorfo pallàto , che io feci del modo
del campare antiquo de Romani; TRAIANO. FILIPPO.
ARGENTO. BRONZO. Erano à Roma anchora moiri altri
Templi , come quello della Speranza col Tuo limulacro, adorato da i
Romani nel modo, che li vedcperlc mcdaglied’Hadria- no,d’Anronino Pio, di
Traiano & di Plotina, con limili fcritturc, spes popvli roman \ y
spes Temp i 0 a PVBLICA, SPES AVGVSTA. Spirane.
HA 3i DELLA RELIGIONE HADRIANO. ANTONINO
PIO. BRON-ZO. BRONZO. Per mezzo di tutte
le fopralcrittc imprefe noihabbia- comegtd n mo conolciuto chiaramente
come gl’antichi figura- gli Tu uono laPace ,Ia Concordia,&la
Speranza, reità à mo- Ttdc. ftrare hora come da quelli era dipinta la
Fede. Facccuo- no quello per mezzo di due mani diritte congiunte
in- terne, nclmodoqualichclioggianchora fanno i nollri orefici in
certi anelletti d’oro: ma l’accompagnauono i Romani con l’H onore, con la
Verità , & con l’Amore, come a Roma li vede anchora hoggi fcolpito in
vn mar- mo bianco. FICV de gl*
Antichi romani. 33 F I (j Z/ It D E L L <A FEDE
ritratta da yn marmo antiquo in Roma. lo non
midiltcnderò piu oltre nel inoltrare candì , modi, in quanti gl’antichi
dipingcuono la fedc,& malfi- mccol caduceo, & con le mani,
macontenterommifo- lamenredi ripreientare come priuatamentc &
publica- mcnte ella fu figurata & intrattenuta da i buoni &
cat- tiui Imperatori con fuperflue Ipcfc, nella maniera che lì
C P L O T I N A BRONZA
VESPASIANO. DOMI TI ANO BRONZO BRONZO.
34 DELLA RELIGIONE ohi» da vede per la medaglia di Com modo
Imperatore,}! qua - lTj «Unte k con larghiflimi promeflc la foleua
comperare da soli ni, fuoi !bldati,nel modo che fi vede qui difotto.
, -iiDBlnrfj .'ro'ur.icni.IRVW •|f.i Z incuci i
nhs-7'i:-' ìbdo fosiru.rn sfj&rvr/ ac O !tiu
0 • E;n.».v ’ ' : * i ; ili i ,j& ti i
rjjscjj Hadriano, 1 fclijiàojrn
m H %
ti'- i' h
hi* ÌV DE GL* ANTICHI
ROMANI. 35 HADRIANO. COMMODO. BRONZO. BRONZO.
Tra tutte le medaglie che io tengo piucare,io n’ho * vna
d’argcnto,donatami già dal S.TcforicroGrolicro, (iugulari flìmo
amatore delle co fc antiche, nelle quale fi vede daduc lati fcolpitc le
mani in legno di concor- dia,con lettere, che ncll’vno dicono , fidis e x
er- oi t v v m, & nell’altro, fide s provino i a rvm. La quale
cola come rara,& poco vifla da coloro, che fi dilettano delle
mcdaglie,potcndo arrecare loro qualche r 1 marauiglia,pcrò fara
caufa che io narrerò qui le cagio- ni, ond^ ella fu in tal modo
battuta. Quello era che volendo le Prouincic, alla guardia De f
critlio , delle quali erano ordinate le legioni Romane, ogn’an- Ze-
no reiterare la fede & patti che haueuonoinficme, face-
uono nel melò di Gennaio battere cofi fatte monete : & infogno
diconcordia ne faccuono prefente l’vno all’al- tro.
>rn rrv
....V;,: vi. <4 5 *
DELLA RELIGIONE MEDAGLIE.
D'ARGENTO. il primo che edificate mai tempio alla
Fedepubliea, piddcUdfe- fu NumaPompiliOjfi come recita HalicarnalTco,
quiui de fatto U facendo lacrificio alle fpefe del comune , doue i
Saccr- N|WM ‘ doti detti Flamini facrificauono fenza fare fangue,
vedi- ti di panni bianchi, & portati in vn carro con vna
mano coperta cerimoniofamentc,pcrmoftrarechc la fede pu- blica,comc
cofafagranon fi debbe violare. Ma perche io mi trouohaucre detto di
foprachegrantichiftimor- hono- no l'honorc come Dio,&gli fecero vn
tempio ,come à re. conferuatore della fede promefla: però
àconfermatio- ne di quello dico,chc chi di ciò dubitate , vada à
vedere cicerone, il fecondo libro, che Cicerone ha fatto della nkura
de r. Liuto." gli Dei.Marccllo anchora(comc Icriuc Liuio) fu
quello T 'd* m 1" che f ccc vn tem P‘° a ^ a v * rc,a ^ a lfl
lonorc > & Mario no,*iUvir vn’altro fimilc,come fi vede nelle
medaglie di Vitcllio, tù cr ho- jougfono due figurcttejl’vna delle quali
mezza ignuda Tifici, tiene nella mano delira vn’hafla,& nella
finillravn Cor tbonorea- noc0 pja,con il piè deliro fopra vno morrionc:
l’altra detta utrta. ^ l atoraan co con vnmorrione in tcfta,ha vna
halla nella DE GL’ ANTICHI ROMANI. 37
nella mano manca, & nella ritta vn fccttro,Ie gambe ar- mate, &
il pie ritto fopra vna tcftugginc,con lettere che dicono, ho nos et vi
rtvs. Vcggonfi Umilmen- te nelle medaglie d’Antonino Pio dipinte Iefigure
del- l’honore con il tuo corno d’Abondanza, il quale tie- ne nella
mano mancatchccrinfegnachc portano tutti i noftri Dei & Dee.
V I T E L L I O. M. A VRELIO. UO N Z O. BRONZO.
Fu anticamente collocato il tempio di virtù innanzi T . en !f ,,
' 0 & à quello dell’honorc, lignificando che all’honorc &
di- gnità mondane, non fi può facilmente peruenirc lenza il mezzo
di virtùràpropofito della quale materia io ho tra l’altrc vna medaglia di
Gordiano , nel rouefeio della quale c vn'HercoIc ignudo , appoggiato
fopra la fua jj mazza ,& fopra al braccioha la pelle del Iione,con
lette coUfìgura rcinrorno che dicono, virtvti avgvs.ti. Ma per le t0
** medaglie di Traiano, d’Hadriano, di M. Aurelio, & di Filippo
fi vede che la virtù c dipinta in altri modi come qui di lotto.
C 3 DE LA RELIGIONE 5 »
FILIPPO. GORDIANO." ARGENTO. ARGENTO.
Per la dili- gizafeuie- ne al fine deU'impre-
r<- Come gfan tichi ordi- nauono
le eafe [agre 4 iloro Dif. Tempio di
Mercurio cr di Bac- co. Per la medaglia
fopradettadi M. Aurelio & quella di Filippo, fi vede l’Imperatore
vcftito della Tua corazza, vn morrionein tcfta,vn’hafta in mano,&
accompagna- to da Tuoi foldati paflarc fòpravn ponte innanzi à
tutti, perfornirela fuaimprefaja quale ha figurata per le pa- role
che dicono, vi rtvs a vgvsti. Et per l’altra me- daglia di Filippo fi
vede il padre & figliuolo correre à cauallo leggiermente, per
moftrare la diligenza ,con la quale ei veniuono à capo di tutte le loro
imprefc,con li- mili parole, virtvs avgvstorvm. Ma lafciando
qui l’interpreratione di tutte quelle cole , farà piu à propofito tornare
alla noflra religione, & moftrare, fecondo Virruuio, come &douc
gl’antichi foleuono fare iTcpli ài loro Dij,comc quello di Mer-
curio nel mercato-.cT A pollo & di Bacco vicino al Thea-
trord’Hercolc nella Citta , douc anchora non eranoi gynnafij ne
gl’anfitcatri : di Marte fuora della terra: di Venere allacampagna,&à
Cerere fopra al porto fuora della Città, eleggendo femprcluoghi,doue non
frequen taflino DE GL* ANTICHI ROMANI. 35
taffino molto Icpcrfone,fcgià noi riccrcauala ncceffità de facrificij ,
& i quali fi guardauono rcligiofamcntc & cattamente. Il medefimo
Autore fcriuendo dcH'archi- tettura dcrcmpli nel fuo terzo & quarto
libro dice,chc a Mmerua,à Marte, &à Hercolcfi doueua ofleruar
l’or- dine Dorico:à Venere, Flora.Profcrpina , & le N ymfc de
Fonti, Corintio, cioè con le colonne Toltili, dilicate, pu- lite^ ornate
de fogliami perla morbidezza delle Dee: & fé Ionico, à Giunone &
Diana, fi doueua nondimeno in ciò alla mediocrità haucrc riguardo:
fcriuendo an- chora appretto le regioni &quarticri,verfo i quali
doue- uono edere volti colifatti templi, altari, ftatuc,& altre
fì- gurccelcfti, per fare loro facrificij : circa che fi conofce,
che nella loro diucrfa& fuperttitiofa religione errorno grandemente i
Romani,& molto piu il popolo, ncll’ha- uerc conofccza d vn folo &
vero Dio, come piu oftina- to in quella imprcffionc che vna volta ha
fattada cagio- ne del quale errore dichiarò affai bene Prudétio ne
Tuoi verfi, quando ditte, Puerorum infanti a primo
Errorem curri latte hibit,gujlauerat inter Uagìtus de ftrre mola.
Madi tutti i Templi che fumo in Roma edificati , il piu celebrato
fu quello di Giouc Capitolino,cofi chia- mato per cffcrc ftato fatto in
Campidoglio, fi come fi vede per la medaglia d’Aurclia Qmrina, Monaca Ve
- ftalc,douc cfcolpito Gioue nel mczzodcl fuo tempio a fcdere,fatto
in forma quadrata con la factta in vna ma- no, & nell’altra vno feettro
con lettere che dicono, iyppi- ter. o p t iu vi max. capjtolinvs.
C 4 Tempio di Minerva, di Marte , CT
d’HcT' cole, di ve- nere, di fio ra , c di
Proftrpina. Errore de Romani nel la
religio- ne. Pruduti io. Tempio
di Gioue Ca- pitolino. J
DELLA RELIGIONE Tempio di Giove Veti
dicatore , Olympico, CT Tonile. 4Ó
AVRELIA QVlRINA, VESTALE. ARGENTO.
Quello tempio fu prima deftinato da TarquinoPu- fco,&dipoi edificato
da Tarquino Superbo in forma quadra, & ogni faccia di CC. piedi con
rrc ordini di co- lonne, fi come lì troua nelle medaglie di Traiano,
nel- le quali lìveggono fopra al detto tempio molti trofei, carri
trionfali, vetrorie, & altre cofc belle. Vna altra mc-
daglialìmilmente lì troua di Gioue Vincitore, ò Ven- dicatore, la quale
fece battere Alelìàndro Scuero, figli- uolo di Mammear&r altre di
Gioue Olympico & To- nante, fatte da Augufio, comepiu àlungo lì vedrà
nel mio libro delle Antichità di Roma. Traiano
r* fe, DE GL’
ANTICHI ROMANI. TRAIANO. ALESS. SEVERO. BRONZO.
4 » BRONZO. A V G v h O, AVGVST
67 argento. MEDA. DE P ET I H V S. A n G
P N T O. « N 5
DE GL* ANTICHI ROMANI, 4 +
'(co- pura tito- lano
tcile pio, che : de
yit k TEMPIO Z> I Cj 1 0 V
E, ritratto dalli Antico. 44 Spefa
fatta nel tempia di Gioue. Cofe ftngu- l ari
nelté- pio di Gio- ue Capito- lino* h
aUcmdf feo. Tlinio . DELLA
RELIGIONE Dicono gl Hiftoriciche Tarquinofuperbo (pcfc nel-
la fondanone di quello tempio x L.mila libre d’argento, nel quale oltre
all’altre cole lingolari fi vedeua vna ftatua d’oro aita dieci piedi, vi.
Tazze di fmeraldo, vi. vali mur rini, che Pompeo portò d’ Alia, truffando
di quella pro- uincia,&vnmatello,o velie di Porpora tanto bella,
che melìa àparagonc con l altre d‘ Aureliano Imperatore, le faceua
parere di colore di cenere pi u tolto che di fcarlac- tordella quale
velie dicono che era già fiato fatto vn pre fcntc (come di cofa rara) dal
Rcd’IndiaàqucIlodcPcr- fiani,&chc quello dipoi l’haucua donata al
detto Im- pcratorc.Era fimilmcntc in quello tempio vna calìa di
marmo, guardata da x.huomini,ch’ci chiamauono Dc- ccmuiri, nella quale
erano i libri Sibillini , contrccap- pellcttc legrctc d’vna medefima
maniera, douenon era lecito à neffuno d'entrarc(comc fcriue
HaIicarnalTeo)fi: non à ifaccrdotidelmcdcfimotépio.NcH'vnadi quelle
Cappelle, cioè quclladcl mezzo, era lartatuadiGioue, nell’altra ama diritta
Mincrua, Stalla finiftra Giunone: douc afferma Plinio hauerc veduto vn
cane di bronzo, che c5 arte marauigliofa fabbricato fi Icccaua vna
ferita. Io nonlafcicrò di fcriucrecomcrAquilafutragral- tri
vccelli dedicata à Gioue,non volédo gli antichi ligni- ficare altra cofa
, fc non che come l’Aquila è Reina de gli vccelli, coli Gioue c Signore
di tutti gli altri Dij,fi co- me hanno mofiro non folamcntci Romani, mai
Gre- ci anchorancllc loro medaglie. Àlefian
« DEGL’ ANTICHI ROMANI. 43 ALESSAND. RE DI GLI
EPIROTI." ARGENTO. Non voglio mancare
d’aucrtire il Icttorecomc Gio- ue,Giunone,&Mincruafurno figurati da
gli antichi per tre animalirquali furono , per la ductta Minerua,
per Giunone il Pagonc, & per Gioue l’Aquila, fi come fi vede in
vna medaglia d Antonino Pio. ANTONINO PIO.
V arieti deli Aqui- la falla tef- ta di
Cio- Vcdefianchora in dì molte medaglie, tanto di Con-
foli, comcd’Impcratori,che l’Aquila c poftafopra la fa- cttadi
Giouc,altroucchcella porta il Tuo fimulacro ò fi- gura filila tcfta ,
& in altri luoghi lctcftedi Giouc &di Giunone fopra le due
alle. 4 <? DELLA RELIGIONE Per la figura
d’vna Pila antica che fi vede qui di fiotto, Giouc c accompagnato della fina
Aquila, &Giunonc dal fuo Pagone,doue c Nettuno col fuo tridente,
&pre- fientc al fiicrificio inficme con Mercurio, col fiuo
cadu- ceo, & col Cappello chiamato Galero da i Latini.
V Z>’ V N ? 1 ÌTJl . "> fica ritratta
et\n marmo di Roma. H AD 47
A V G V S T O. argento. re Den cnc
Scappella di Giunone foflefeome e detto) nel tempio di Giouc, nodimeno
haueua anch’ella il Tuo tempioàpartCjComefi vede nella medaglia di
bronzo d’Augufto,doueè il tempio di Giunone arrichito dinan zi di
quattro colonne Doriche, & nel fregio e tale inferir zione,i vn o n
i.conilnomcdcmacftri di HI ROMANI. HADR. GRECO.
BRONZO. BRONZO. [
4* DELLA RELIGIÓNE AVGVSTO'
n r n m i n Et come l’Aquila era di Gioue , coli il
pagonc&lo bruzzolo furono cólagrati à Giu none, come fi vede
nel- le medaglie di Fauftina,diGiuliaPia,&di Filippo Impe
ratorc,& il Tuo carro tirato per i Tuoi pauoni, di che ha fatto
mentione Ouidio, * Halili Saturnia curru Ingrediturliquidum
fauonibus aera fiBis. F A V S T I N A.
FILIPPO. ARGENTO.
A DE GL’ ANTICHI ROMANI. G1VLIA PIA. F A VST
INA. 4 » ARGENTO.
BRONZO. F A V S T I N A.
BRONZO. ARGENTO. — —
MINER- A Mincrua(comc c detto) per eflcrc dedicata la Ci- v A
- uctta , nafccua che nelle Medaglie degli Atcniefi fi ve- JJ“J
dcua da vn lato la teda della Dea , & dall’altro il detto Minena.
vccello con lettere Greche che diccuano ,athna, cóli nominata da loro
Minerua:&come m olirà il rouefeio de la prima medaglia, la Ciuctta
vola con Tali fpanfe , & tenendo vn ramo di Palma co i picdi.Pcr i!
volodi la Ci- uettagli Ateniefi ftimauano il fimbolo de la
vittoria. D 5 ° Giouc
Vincitore. Mintruj nutrice.
Lypnuco. DELLA RELIGIONE MONETA ATHENIESE.
ARGENTO. MONETA ATHENIESE.
ARGENTO. Ec fi come Gioue fu da Greci & Romani
chiamato Vincitorc,quadolo faccuono dipingere con vna vetro- ria
nella mano diritta , & nell’altra vn’hafta in luogo di fccttro,cofi
fu Mincrua figurata da loro vettoriofa, ac- compagnandola con vna
vcttoria,ncl modo che fi vede per le medaglie di Lyfimaco , vno de
fucccflbri d’Alef- fandro Magno , doue da vn lato è la fua teda con
vn i Diade u. I
DE GL’ANTIC HI ROMANI. 51 Diadema, &dua corna, in fegno di
grande honore , per haucrc fermato & ritenuto vn toro per le corna,
il qua- le (cappato delle manidi colui , che lo menauaper fare
facrificio ad Aleflandro,fi fuggiua. LISIMACO.
ARGENTO. LYSIMACO. BRONZO.
Erano principali tutori & auocatidella Città di Ro- ma G ioue,
Mi nenia, & Giunone, &di qui nafccchePol- lioneha fcrittonel
libro della fua Architettura, che il D a ' Si
DELLA RELIGIONE luogo più a!to,dal quale fi poteua meglio {coprire
& Icorgcrc tutto il fito di Roma, quale c il Capidoglio ,fu
eletto per edificami il tempio di quelli tre dij.Ondc tor- ntdiToZ riandò
alla ftolta fupcrllitione de Gentili , che non fola- nL mente adororno
Giouecomc Dio omnipotéte,ne fi con tcntomo’di dedicarli l'Aquila,come Reina
di tutti gl’ vc- cclI»,penlàndolo maggiore di tutti glabri Dij,ma gli
con Ammone f a g rorno ancho il Montone, chiamadolo Iuppiter Am-
moni mettendolo fopraquello à fcderccon lo Icettro in mano. Nacque quello
vocabulo Ammon dalla rena, che i Greci chiamano «w** .ciochc Plinio
(fcriuendo del Tale Ammoniaco nelxi i. libro) ha meglio dichiarato
in quello modo. Ergo ^AEtbiogU fuhie&d ^AJricd^mmonUci
Ucrynum Jìiìldt in drenti [un, inde etto, nomine w Ammonii oraculo
iuxtd quod gignitur drhor. Quantunque Tinterpreted’ A rato
Latino, ò Ballo, ó Celare che fi fbflcjfcriuachc quello fia il Montone,
che anchora di poi fu meflb il primo tra i legni cclelli per ha
uerc infognata a Bacco Tacquaperilfuo ElTercito,chc da lui condotto per
la Libya fi moriua di fete,fi come piu à pieno potrà il lettore vedere
nel mijibro di Q^Curtio, o xv 1 1. di Diodoro Siciliano, ò nel 11 1. lib.
che Arriano ha Icritto de fatti d’ AlclTandro Magno.
Meda. DE GL’ ANTICHI ROMANI. MED..
D’HAD. BATTVTA IN GRECIA, BRONZO. BRONZO.
Fuanchoraà Gioue dedicata la Capra, per hauerlo t* c*pré nutrito
del Tuo Iartc,ondc ei fu detto Egiuco,& da Greci ùtyic X t f,Ia quale
capra intendcuono quella della Nymfa Amaltea^he l’haucua allcuato, A come
afferma Gcrma nico Celare ncAioi vcrA d’ Arato, douc ci dice,
-lUaputatur Nutrix ejje louu/i 'vere luppicer infdm
Ubera Crete* muljìt fidi^ima capra, Sy dere qua clarograrum
cejlaturalumnum. Il che moftrarono anchora meglio Filippo Se Valc-
riano Imperatori , facendo nelle loro medaglie mettere vna volta la Capra
fola con lettere che dicono , io v i conservatori a v cvsT i, &
altrouc la Capra che portaua addoffo vn Gioue à modo di fanciullo con
altre lettere à quello modo , iovi crescenti. Vi
V 54 Gioite vit- tore.
Calcidonio dittico. DELLA’
FILIPPO. ARGENTO. RELIGIONE
VALERI ANO. ARGENTO. Attribuì Umilmente
molti altri nomi & dignità la fu- perftitiofa antichità à quello
Gioue,vna volta chiaman dolo Vcttoriofojcome quelli che péfauono che ei
donaf fclcvcttoricj&cohlo fugurauonoconvna Vettoriain
mano,& con vno fccttro nell’altra:& vn’altra volta face
uonolaVcttoriachccoronaualuid’vnacoronad’Allo- ro,(ì come io lapoflo
moftrare (colpita in vn mio Calci donio antico, poco minorcd’vna medagliada
quale pie- tra anticamente fu confcgrata à Gioue Fulguratorc,per
vfeirne il fuoco, onde i noftri Soldati l'adopranoancho ra hoegi
all’archibufo. CAL DE GL’ ANTICHI
ROMANI. CAL CIDONIO ANTICO. BRONZO.
MEDA. GRECA. BRONZO. DOMITIANO.
BRONZO. DELLA MARCO
RELIGION AVRELIO. BRONZO.
BRONZa cottegli Per le medaglie qui appreflo ,
fi vede Gioue mezzo * *** * *'• ignudo di Copra, & dalla cintura in
giù vcftito,chc fta à ciò**. federe nel mezzo di quattro elementi ,
tenendo da vna mano vna hafta , & l’altra la ripofa Copra la tefta de
l' A- quila,fi comclalcultturalo dimoftra peri due carri ce- ledi
dclSo!c,& delaLuna:& per i due fimulachri che fono Cotto i Cuoi
piedi, lignifica gl’altri due elementi, cioè , l’acqua & la terra ,
hauendo il Z odiaco attorno, doue Cono riprefentati i dodici Cegni
ideili. Et la ca- gion perche riprefentauano cofi Gioue, era,
chcgl’an- tichi nella loro miftica & occulta theolo^ia volcuono
lignificare, che le cole lupcriori debbono a gli huomini efìcrc celate,
& Colamcnte manifcftc à Dio. Mafuadi- uinità & tutte le Cuc
potenze, ci ha moftrato Alcxan- dro figliuolo di Mammea per i Cuoi
medaglioni bat- tuti in Grecia, doue fi veggono da vn lato caratteri
ab- bre DE GL’ ANTICHI ROMANI. 57
breuiati, che dicono XrTOKPA'Tnp K^riAP ma'pkos atpe*aioì iebaitòs
a* AEfg a n a po z , che iLatinihan no interpretato ,imperator caesar
marcvs AVRELIVS AVGVSTVS ALEXANDER. Alexandr o mamme
a. bronzo. I Greci chiamorono Gioue per
varij nomi, malfima- mcncci Siraculànijcomc recita Tito Liuio nel
quarto libro della terza Dccadctcon ciò Ila, che hebbero il tem- t empio
di pio di Gioue detto Olimpio,alcrimcnti Eleo , celebrato primajpcril
Tuo oracolo, & dapoi per i giochi publici che lìfaccuono in Elide ,
nel Campo di Pifar&di là e ve- nuto il nome di Gioue Elco,come lì
potrà vedere per la medaglia Greca polla quidifotto,nelìa quale lì troua
da la bandadritta il lìmolacrodi la teila di Gioue con que- Gioue
Ite lettere Grechc,s e rs iAET02 > chcfignificano J ciovE ^ ELEO.EtncI
rouefcio elcolpito il fuo Folgore & l’Aqui- la con tale
inlcrizionc,zr paro sion: la quale cifaap- parircchela città di Siracufa
portògrandiflimo honorc D s w',ltrr r*jr" *- **
•‘.‘r * 4 . -r* • .*• . v ‘. v. ‘‘ ■ m
58 DELLA RE LÌGIO NÉ a Giouc Eleo, à cui fece
edificare vn cofi bcllilfimo tèni pio,& battere fimili medaglie in
fua eterna memoria. MEDA. DE I SIRACVSANI.
BRONZO. SttBd fot»- tiferà di Giouc.
Per le medaglie d’argento che furono battute per Lucio
Lentulo,& Caio Marcello Confoli,fi troua la te- tta di Giouc d'vna
banda con tale inflizione, ivcio L E N T V L Oj CAIO MARCELLO C
ONSVL I» b v s. &da l’altra è vn Giouc coi fuo Folgore nella
man dritta,& l’Aquila nell’altra , &innanzi aìui vno
piccolo altare,& dietro laftella falutifcra,laquale c polla nel
fe- condo luogo tra le fteile erranti: lignificando tutte que- lle
cofc vn facrificio fatto per detti Confoli à Giouc, per caula del Folgore
caduto fopra il fuo tempio Capitoli- no à Roma.
Meda? DE GL‘ANTICHI ROMANI. ss>
MEDA. DI L. LENTVLO, ET C. MARCELLO, CONSOLI.
ARGENTO. I Romani chiamorono quello Giouc Confèruato-
Gioite cc%> re , fi come noi leggiamo nelle medaglie di Diocletiano {
enutort ' Si di Gordiano Imp.che lo dipinlcro ritto eon due faeffe
nella man delira, & nella finiftra vn’hafta, infieme col medefimo
Imperatore fiotto la cuftodia fua,& lettere che dicono, io vi
conservatori. Nclrouelciodcl- l’altra medaglia di Diocletiano fi troua
vn’altro limile Giouc, che prclènta vna vetraria, la quale ha fiotto i
pie- di vnglobo,&Gioue {aquila vicina àifiioi: fi come Li-
cinio ne fece battere vn’altra,doue l'aquila hain becco vna Corona
d’allòro & lettere in quella guifa, ioyi CONSERVATORI
AVGVSTORVM NOSTRORVM. Domi *■
v. «* DELLA
RELIGIONE DOMITI ANO ANTON. PIO. ARGENTO.
ARGENTO. GORDIANO. BRONZO.
ARGENTO. MASSIMIANO • LICINIO. ARGENTO.
ARGENTO. Oltre ì
!•; * '?*\ P M r
DE GL’ ANTICHI ROMANI. 61 Oltre à Vettoriofo,Fulguratorc, ò
Fulminatore, fu Dìutrfe po anchora chiamato Statore, Propugnatore,
Vendicatore dl & Cuftode,Anxur, ò Auxur. Et come Marte
Vincitore fu honoraro da Romani, coll ancora fu adorato da loro
Gioue Vendicatore, perche da lui erano punitele cole Gl - owf v j_
malfatte. tote. GORDIANO.
ARGENTO. ALESS. SEVERO. ARGENTO.
GORDIANO. DIOCLETIANO. argento.
ARGENTO. Del Seneca,
CJ. della religione Del foprafiguratoGioueCullodc
nella medagliadi Nerone, ha fatto mentionc Seneca, nel fuo fecondo
li- bro delle qucflioni naturali,douecidice: Quem Iouem tnteUigunr
cujlodem rettorémtjue \niuerf. Qucllo,chc parimente fi vede nelle
medaglie d Ha- driano, douc Gioue c dipinto à Ledere nel fuo Trono
conia filetta in mano dritta, Se lettere chcdicono, ivpi- ter cvstos.
Vcfpafiano le fece battere con inferi - zion diffcrcntc,chc dice, iovis
cvstos. Cicerone. NERO.
ORO. VESPASIANO. ARGENTO.
Ma quanto à Gioue Statore, cofi chiamato, perche, mediante
lui, fi confcrua ognicofinli vede che Cicero- ne ne fece anch’egli
mcntione nclloratione, cheei fece innanzi che andare in cfiglio:doue ei
dille; O Gioue Sta- torc,quale i noftri antichi cofi chiamarono , come
con- fèruatoredi quello Imperio,& dalle mura del cui rem- pio
io tenni difcollo le violéti imprefedi Cati!ina,dop- po che Romolo
l’hebbe edificato nel palagio , apprefib la vettoria hauuta de Sabini, io
ti priego d’cllcrc in aiuto alla Rcpublica & Città diRoma, Stame in
tutte le dif- gratie mie. yltore
P'S DE GL' ANTICHI ROMANI. <r 3 Vlcorc
fu chiamato, & honorato da Romani come Marce, per edere l’vno &
l’altro vendicatore delle cofe mal fatte: & in Italia , maTTimamcntc
nel territorio Ca- pouano detto Auxur,& figurato il Tuo lìmulacrope r
vn Auxun fanciullctto lenza barba, del qualefcce mentione Vie-
Virgilio. gilio nell’ viij.libro dell’ Encida, quando dille:
Cyneumejue iugum^uets I uff iter ^Auxttrus aruis r
Pr<efìdet. Et è ancor Giouc coli (colpito (opra vna
medaglia d’argentodi Pania, da vn lato della quale fi vedeà fede-
re nel fuo T rono con vna tazza nella mano mra,& nel- la manca lo
fcettro,con vna corona di Quercia, o d’Vlt- uo,ilchc non ho potutotroppo
bene difccrnerc,per la piccolezza della mcdagliarnondimeno Phornuto
affer- machefolamcnccGiouccra coronato d’Vliuo,in fegno di
perpetuitàrperchc egli è Tempre verde, & tiene qual- che poco del
colore cclcltc. ME DATgTi E DI P ANSAI ARGENTO.
Et Ti *4 Tempio
d'Augufto in Alcjptn ària. DELLA
RELIGIONE EtlicomcGiouchaucua in Roma (come e dctto)iI Tuo
tempio magnifico , & era chiamato Scruatorc Se Conlcruatorc,coli in
Alcflandria nera vn’altró limile conlagratofcome fcriuc Filone nel libro
della Tua lega- tioncà Caio Ccfarc) à A uguftoConfcruatorc, chiama-
to hauuto in vcncrationcda i nauiganti.Era quello grandillimo &
altiflìmo tempio pollo innanzi al Porto,picno di Tau ole offerta, di
pitture cxccllcnti,& di flacuc marauigliofamentcfabricatc,&
ornate d’argento Se d’oro, con portichi Se loggic per Ilare al coperto,
& palleggiare, & vna libraria accompagnata dagradilEmc
làlc,portali,bofchetti,& lunghe vie, che di lontano por-
geuonofpcranzadi falutc à tutti i nauiganti,che volc- uono pigliare porto
in Alcflandria: benché quali per tutto il modo foflcro flati dirizati
& fatti molti altri tem pii in memoria d’Augufto & per eternità
del fuo nome, li come li troua nelle medaglie battute al tempo di
Ti- berio, il quale cominciò vn tempio in honorc fuo che Caligula
fornì poi,& Io confagro al fuo nomccon ofH- cij Se facrificij pieni
di pietà Se di rcIigione,il che ei con- ferma perle fuc medagIie,doucda
vn Iato è il lìmula- cro della pietà à federe con vna tazza nella man
dritta, & la fianca ripofafopra vnfanciuIIctto,che moftral'of
fido pio che Caligula faccuainuerfo i fuoi parenti , con quelle parole,
e. caesar divi avgvsti prone- POS AVCVSTVS PONTIF EX MAXIMVS TRIBVNIT1
A POTESTATE QVARTVM PATER PATR1AE. & poi quella altra
appreflo folamcntc, pietas. Dall’altro Ia- Sdtrificio to mC£ ^ a g*
ia fi vede fi tempio d’Augufto flato ri- diCéU&uU. ccuuto (comeci
penfauono) tra gli Dci:& nel mezzodi detto
Librario b.Uifiinu d'AuguJlo.
Tempio tA ugujlo (omincUto per Tibe- rio, cr
for- nito per C4 ligula. - *"*
DE GL’ ANTICHI ROMANI. <r 5 detto tempio
vn’altare,fopra al quale c vn Buc,tcnuto da colui che n’haucua la cura,
chiamato Vittimario,con vnfaccrdotc chemoftra di volere fa me facrificio,
teneri do vna razza nella mano deftra,& dietro alle fpalc vn
miniftro con vnvafopcrriccuercilfanguc della beftia. AVG
VSTO. ORO. *
DELLA" RELIGIONE MED ÀGLI ÒNI DI TIBERIO.
Tempio dkugujlo reflituito per A
nto~ nino. Comminciando dipoi quello tempio col tempo
à rovinare, Antonino Pio lo fece inftaurarc, fi come h ve- de per
le Tue medaglie d’argento, d’oro, & di bronzo, douc fono lettere che
dicono .templvm divi avgVsti restitvtvm. Ne contento di qucfto, ne
fece fare vn’altroad Adriano fuo predcceflbrc,comc ricordeuolc de
benefici), che haucua riccuuti da lui. Anto
» DE GL’ ANTICHI ROMANI.
c-j ANTONINO PIO. BRONZO. Oltre à quelli
templi , furono anchora fatti molti altari in honored’Augulto, per
moftraremaggiormen- imiti de te, & per diuerfe vie la fua eternità
con quelle parole, providentia, hauendo quei Romani quella vana
opinione, chela deitàd’Augullo potcflèloro concedere tutto
quello,dichehaueuonobifogno per laucnire.
tu»-, -ilKrTivb'Jì / 68 DE
LA RELIGIONE Et coli per tutte l’altre medaglie de gli
Imperatori; che erano (lati à modo loro deificati, folcuono
gl’anti- chi (colpire quelli altari in legno della loro
deificatione-. Deferivo* Scriuc Apulco nel dogma di Platone
, chela proui- XkJu denzanon è altroché vnafenccnza diuinachc
mantie- ne femprcfelice colui,checlla piglia vna volta iti cura:
& altri hanno detto che folamenteriguardaua Se pcnlà- Dtuodi
uaalIecofeaucnire:ma i dannati Epicuri£al(amcntecre- zpÙHro. deuonochcDio
non haueflc alcuna cura de mortali. Ond’io à propofito di quella
Prouidenza mi ricordo ha- uerctra molte altre pietre intagliate, cheiofcrboin
ho- nore dell’antichità, vn Diafpro, nel quale è (colpita vna
vtformU* formica con tre fpighc in bocca,fignificatricc della Pro- K de
Polii- uidenza-.la quale pietra fu altre volte trouata ne i fonda- de*K4.
menti d’vna delle torri cheio ho fatte farcnclla mia cafa della
Maddalena, che per edere cofa anttchitfìma & rà- ra,mi c parlo farla
ritrarre qui Cotto al naturale. — Diafpro
DE GL’ANTICHI ROMANI. Et perche Plotina ha già
comporti in 4. libri della Prouidenza, inoltrando che tanto le piccole come
le grancofe cranogoucrnate per il Dio di natura, io rimet- terò il
lettore à quella lcttione,& ritornando al propoli - to mio, dico
chegl’antichi riputorno la Prouidenza per Dea, come anchora ha inoltrato
Cicerone nel libro del- la naturadegli DcijOndcpcrla Tua figurabile
clafem- bianzad’vna matrona ftolata , ò velata & dritta , che
in vnamano hàlolccttro,&con l’altra moftra vn globo, chcgli Ita
à piedi, pare che voglia lignificare che la Pro- uidenza goucrna tutto il
mondo, come vna buona ma- dre di famiglia, nel modo, che nelle loro
medaglie la fi- gurorno (benché con diuerlì atti) Traiano &
Pertinace Imperatori. r. ;• -
fiorini. PROVI DENZA. Cietront.
'■.V ' > r !
Alcuni altri Imperatori, comeTito, la fecionodipin
gereconvntymone& vn globo, inoltrando come ella gouernaua il mondo.
Antonino Pio la figurò per vna filetta di Giouc accompagnata da molte
altre. A leda n- droScucroper vn vaio pieno di fpighe,& Probo &
Fio riano per vna fcminaftolatacon vn globo in mano,vn fccttro
&vn Corno d’abbondanza. rrouidtnz'*
diuerfmen tc pinta da antichi. Caracal
Ei mi parrebbcinuano affaticare ,fc io non
auertiflì 0 « lettore della pazza fuperftitionc de gli aderbi Roma
ni,i quali durante la vita de i loro Imperaton, o buoni, o catti u i,cKc
ci follerò, in ogni modo non lalciauonodi fare loro templi,ttatue &
altari , & doppo la morte di lànftificarli,attribuendofaIfamentc loro
nomi dibuo ni Principiai fondatori di pace, & (non ottante che ha
- ueflino maltrattato il Scnato,& Popolo Roman o)di re E
4 CONSE CRATIO- NB.
V<tra f a . flit ione ir Romani nel
fanttfi- tar loro ^ imperato^ ri.
FLORI AN A HI ROMANI. 71 S S.
MAMM EAT BUON Z O. 7i DELLA RELIGIONE . ftauratori
della Città di Roma, fteome auenne di Lu- cio Settimio Scuero,il
quale oltre aireflcrehuomobar- baro,beftiale,homicida,&che di
fimplice foldàto pcr- ucnnealla dignità deilTmpcrio, ingannò & tradì
Clo- dio Albino gcntilhuomo Romano per venire à capo dei
fuoidifegni, &: nondimeno s’attribuì & fece dare più per paurache
per volontà dal Senato Romano tùt- ti i titoli di buono Imperatore.
S A R G E N T < 3*23
‘ DF GL’ ANTICHI ROMANI. 73 Ma che diremo noi di quello
Monftro di Natura co- minciato & non finito,il quale doppo la fua
morte fu connumerato daRomaninelnumerodei buoni Dei,& del quale
foleuadirc Nerone, che l'haueua fatto auelc- nare, che egli era ftato
fatto Dio p c r mezzo del boccone d’vn fungo? clodio;
ORO. Et per contrario furono i buoni Principi,
di T raiano, Antonino Pio,& Marco Aurelio, che per le loro virtù
&: buoni coftumi,mcritarono d’cflcre chiamati ottimi Im- c .
pcratori,& canonizati,fe lecitaméte fifolfc potuto ciò fa re.
Trai quali è pur degno d’clTcrc Tempre nominato& ricordato il nome d
Antonino Pio , lolito dire che piu tofto volcuacolcruarc &faluare la
vita d vn Cittadino, che ammazarc mille defuoinimici. Parola certamente £
Antonino piena di pietà & degna d’vn buono Imperatore, come
cglicra,&:comclo chiamòil Senato, facendoli dirizarc come à Traiano,
vnaColonna,& Templi nel modo che £ Antonino fi vede qui di
fono. 'i .... e $ c w • . • • r
0 amo moftraco cornea! tempo anticogli
ucrrdctì Inipcratorieranoconfngrati,&diuentauonoDijdoppo
^TLi ]aI . 0r ° m05tCj& comc * Romani faccuono tem pii &al-
tio di ttm - rar * * n Sonore loro coni /àcnficij de vitelli
ficdegl’agncl-' & Reonfegnado loro Sacerdoti & Flammini nel modS
che di Celare A ugufto ha già fcrirro Prudcnrio^diccndo: Prudenti».
Hunemorem V ererum docili Um aiate fejnuta ? olì eritas t men fa t atque
adytit } & fiamme^ tris DELLA RELIGIONE ANTONINO
PIO. BRONZO. ON. PIO.
BRONZO. Uuguft 75
DE GL* ANTICHI ROMANI. \AuguJlum col nitritalo
placa uù tgd agno: Strafa ad puluinar iacuit, refj>onfa
popofcit. Tcjlantur tituli,prod»nt confulta Scnatus Cafareum
louis ad ) fecitm Jlatuentia templum. Equanto al reità della
conftgratione , chiamata da Greci & della quale ha le ritto
minutamente He radiano al vij.capitolo del iii j.Iibro,mi è parlo
non fola- ménrc di figurarla cjui fottoal naturale, ritratta dalle
me- daglieantiche d’Antonino Pio,& dt M. Aurelio, ma tra- durla
in volgare,pcr maggiore intelligenza del lettore. ANTON; Pia M-
AVRELIOl ' BRONZO. BRONZ O.
c Soleuono i Romani confagrarc doppo la morte
lo- ro tuttiquclli Imperatori, i quali làlciauono i figliuoli
heredi dell' Imperio, in quello modo penlando efTcre ri-- ceuutr nel
numero de loto fallì DijrEa Citta tiftta vcftita abruno,&picna di
dolore &di lamenti, folennemente fatta fàrcvnaimaginediccra limile al
morto Imperato re, la poneua dentro a vn ricco letto d’auorio,lcuato
in alto aU’cntrarc del palagio Imperiale. Era quello letto coperto
di prctiofì panni d’oro &dcntroui quella ima- gine
H erodiano. b o«».f W «HV
Ccrimonù de Roma* nella mori de loro l« fe
rotori. - 7 6 DELLA RELIGIONE ginc pallida
àguifa quali di ammalato Imperatore/! ri- polaua,haucndo dal lato manco à
ledere tutti i Senato ri vcftiti di bruno,chequiuigran parte del giorno
dimo rauono.Et dal lato deliro tutte le Donne Romane, cias- cuna
fecondo ladignità & grado dcloro padri,ò mariti, . fenza ornamento
alcuno d’anelli, maniglie, ò catene d’oro,ma fedamente vcftircdi bianco
leggicrmetc(qualì come portano in tal calo le getildonne in Francia)#
tue te piene di maninconia. Durauono quelle cerimonie
vij.giorni,nel qual tempo i Medici ogni giorno s’apprcf fauonóalla bara,
fingendo di toccare il polfo all’amma- lato,# mollrando che gli andaua
fempre peggiorando. Ma fubito che ci diccuono quello cflèrc fpirato, i
primi letto i Up4 Senatori lì lcuauono il letto Tulle fpallc, portandolo
nel YtZ'ZÌ? ^ av ‘ a ^ acra ^ no al Mercato vecchio, douc i
Magillrati tutori Romani Toleuono fpogliarlidelladignitàdi tutti i
loro. officij.Erano in quello luogo da due lati fatti certi pal-
chi con ilcalc,dai’vn de quali tutti i piu nobili giouani & patritij
Romani, & dall’altro le piu illullri donne canta- Himi tan- uonoHynni
& Cantici Iamctcuoli# pietofi,nelmodo, tati nette po che s’vla
ncllcpópe funebri. Dopo quello i Senatori di pt funebri. nuouo fa
lcuauono la bara fullc Ipallc, &la portauono fuora della Città in vn
luogo chiamato il capo di Mar- te,douecravn tabernacolo quadro fatto di
gradirmi legni fcccjii,& ripieno di fcrméti.di paglia, & di
falcine, & di fuora riccamctc adorno di cortinclauorarc d'oro,
di flatucd’auorio,#altrediuerfcdipinturc.Sopraàque Ho tabernacolo n’era
vn altro lìmile,ma piu piccolo,& riccamente acconcio come
l'altro,cccetto che haueua le porte & le fincllre aperte, & coli
di mano in mano mó- taua DE GL’ANTICHI
ROMANI. H77 tauapiù alto nel mcdclimo modo fempre diminoedo.
Potrebbe!! quella ftruttura ailbmigliarc à certe Torri fondate in marc,ò
fopra ài Porti, chiamate da moderni, Fanali, dagl’antichi
Phari,douela notte Hanno acccfi lu TJnaU mi perfarefeorta a
inauiganti.Portato adunque ildet- chiamati to letto fopra al fecondo
ftaggio.quiui fpargcuono gra- dequantitàdi
fpcticrie,diprofùmi,difrutti,d’hcrbc, & d’vngucnti odoriferi di tutte
leparri del Mondo, facen- doqualì à gara di chi più , ò meglio, porc/Tc
honorare, & fare quello vltimo prefente al loro
Imperatorc.Fat- to quello, lì moueuono certi Caualicri à corfa
intorno al tabernacolo, facendo vn modo di Morcfcha tonda, MortfAé
Pyrricada gli antichi nominata:& apprefib à quelli fa- ryntt4 '
ceuono il mcdelìmo i Cocchi, ò carrette , fopra lequali i carrettieri
erano vcllitidiporpora,8cdi velluto chcrmi- lì,con mafchcrc fomiglianti à
i Capitani , & principi che haueuonogià fcruito il morto Imperatore.
Et con finite tutte quelle ccrimonie,colui che doueua fuccedcre
all’- Imperio, pigliato vn torchio accefo in mano,mettcua il fuoco
nel Tabernacolo, & il limile faccuono tuttigl'al- trhpoidi mano, in
manoùl quale per la materia tato fec- ca,& le cofc vnte deprofumi,
& olij profumati, leuaua { j, e fubito le fiamme in alto,pcr
mezzo lequali, vfcitavn’ A- t* quila viua del minore & più alto
Tabernacolo, fc n’an- « daua volando in verfo il cielo , quiui di terra
portando i cieli (come crcdeua &gridauala lloltitia de Romani nql
me delìmo tempo) l’anima del loro Imperatore), il quale poi coli
adorauono come Dio,& gli faccuono altari & templi,
come e detto di fopra. » C rwr,-* r-’ìRtn
« v 7 8 ' DELLA
RELIGIONE ’ M. AVRELIO. F AVSTINA 4U«
tu 1 - PERTINAX.
BRONZO. F AVSTINA. ARGENTO.
Crédcuonoi Romani qiicfto mi fieri o non Iblam" elfere vcro,ma
molti giurauono hauerc veduto vfeire del fuoco l’anima dell Imperatore ,
& altri pagauono huomini à polla per confermare coli fatta bugia,
diccn - do che l’Axjuila di Gioue l’haucua portata in Ciclo, &
coli ecco in cheniodofu anchora canonizato Seucro lottizzo* collocato nel
numcrodegli Dei, inlìcmccon moltialrri Imperatori & Imperatrici
ch’elPopo.Ro. fece fàlir per forza DE GL’
ANTICHI ROMANI. 7 9 COM forza alciclo
nel medefimo modo che Scucro. Ma ri - tornando alla materia de noftri
templi, doppo haucrc fcritto de i più trionfanti di tu tti,cioc,di quello
di Giouc Capitolino , di quel d'Augufto à Roma&in Alcflan-
dria,del Pantcone^ di quello della Pace, ci reftai vede- Tempio «K rcil
marauigliofo di Diana Efcfiamcllà fu perba edifica ^j c pg % rione del
quale concorfcro tutti i Re,Potcntati,& Repu blichc dell* Alia
maggiore, contribuendo ogniuno per lafuaparrc/olamcntcmoflidalzelo di
religionc,qua'n- tunquepcr Ja fuagrandezza folle a pena tornito in
CC. anni,& fondato rifpetto a i tremuoti in vn Pantano, tal-
mente che ci fu connumcrato per vno dei lette miracov li del Mondo, &
di poifcolpito in piu medaglie di di- ucrfi Imperatori. “
CLAVDia ‘ ' A R G E N T O. stnr. *4
• Ma pcrcbeil fimulacro interodi Diana,qualc era nel Àmpio
degli Efcfij,nonfi. può interamcce {cingere nel le med agliedi pi ntedi
fo p ra,mi cpàrfódi farlo-hilthopa di nuouo ritrarre qui di fotto nel
modo , che io ihoirt e ” due '.Ikimfc
K.OII 8o DELLA RELtGIO due
medaglie Grechc,l’ vna di C5modo,S: l aura a nn - tonino Pio , nell'vna
delle quali e Icritto aptemhx e «• e x i a n , cioè, Diana degli Efelìj ,
& nell’altra quella l ola parola, e « e s i a spedendo tutte l’altrc
lettere perdute. ANTOM. PIO.
COMMODO. BRONZO. Dtfcrizìon
del tempio di Diana. Era la lunghezza di quello tempio
ccccxxv. piedi, & la larghezza e e x x. ornato di e x x v 1 1 . colóne,
ogniu- naalta lx. piedi, & nondimeno fu abbruciato da quel- lo
fcclcrato Eroftrato,folamentc per dire che egli hau ua fatto qualche cofa
degna di mctporia:bcnche di poi fu rillaurato & rifatto anchora piu
bello da Dinocratc, Celebrati!) Architettore d’Alellandro Magno. Quiui
aduque lolc- cUDianf* L, ono ogn'anno, nel giorno che lì cclcbraua la
fella di ~ Diana, trouarlì tutti i giouani ,& fanciulle , vergini
del paefe,vcllitidibiaco,doucfpeflò lìmaritauono iUcrne? Il
fimulacro ò imagine di quella Dea fu fccodo le fue dignità & qualità dipinto
& figurato da gli antichi in di- uerfe manierc,lt come ella fu
pariméte chiamata perdi; JSSL. uer/I nomi.ConciòlìachcquàdoIaLunaera
tutta pie- na, la dilegnauono per la lua chiarezza con vno tor-
chio v DE GL’ANTICHI ROMANI. 8x
chioaccelo in ambedue le mani, come fi vede nelle mc- dagliedi GiuliaPia,
moglie di Seuero Imperatore, con lettere chedicono, di an a
lvcifera. G I V L I A PIA. argento.
BRONZO. Et per inoltrare anchora meglio che
Diana &la LlT- na eranoinqucl tempo vna mcdefimacofa,ioho fatto
qui mettere vn'altra medaglia di brózo della mecfefima Giulia, nella
quale e ferino, lvna lvcifer a,&ìI(uo carro tirato daducccruic,
chcfignificauono checll'cra Dea della caccia, quantunque l’interprete
d’Arato hab- bia detto che quello fignificaua la fila leggerezza.
Ma quadogl’antichila figurauono poico vnolpiedcinma no,& vn
ccruio apprcfio,voleuono lignificare che cac- ciando, ella pigliaua &
ammazzauai ccrui pcrforza,no minadola »^óa«c, & per memoria che ella era
la prima cacciatricc,fofpcndcuono le corna de cerui dinanzi
al fuò tepio.DclIa quale cofahauendo affai à baftazadif- corfo nel
libro , che per comandamento di fua Maefli iohò fittodella naturadc
giammai! ferochpcrò rimette rò il lectorcà vederne quello, chcion’hò
quiui trattato. F 8i
DELLA RELIGIONE MED AGLI E D’H OSTILIO. A G R E N T
O. Trouanfi anchoradelle medaglie , doue Dinnac
di- pinta, òfcolpitacon Io fpiede, in legno che ella foleua
ammazzarci cingùiali, diche fa chiaro rcflimoniolamc daglia di Gcta
Triumuiro, nella quale da vn lato è fcol- pita la tefta di Diana , &
dall’altro vn cinguialc , ferito d’vno fpiede in vna fpalla con vn cane
appreffo. GETA TRIVMVIR DE GL’ ANTICHI
ROMANI. 83 Quando i Romani figurauono Diana cacciatrice, ordinariamente
la folcuono accópagnared’vn turchaf- fo,d’vn , arco,& di frccciccon
vn cane da ghignerei fc - gugio,(cnzaraiiirode quali non fi può cacciarci
come mortra la medaglia qui di lotto. med 7 ~d f C~P OS T
VMO. ARGENTO. Ma nelle medaglie
d’Augurto fi vede vna volta Dia- na figurata tutta ritta in habito
virginale, con l'arco in vna mano , & con l’altra /opra al turcharto,
facendo le- gno di cauarne vna freccia pcrtirare,&: nel mezzo
lette- re, che dicono/iM pera t or DECiEs,&di fotto,sici- x.i
a. & altre che dicono , im perator vNDEciEs.Et L nel rouefciod’vn
altra fi vede con la velie alzata, vnar- sthukitl co in vna mano , &
nell’altro vno fccttro, vn can da giu- * gnerc,& gli rtiualcrti
infino à mezza gamba , colà prò- £ 1 pria per lei come cacciatrice,
&i quali daPolluccfono An<lro »”- ftati Endiomidi chiamati. des
' F z «4
* • ì t ari- t m r rfi & PpSKT’
• r T v DELLA RELIGIONE A V G V S T O. Tra
cucce le medaglie d oro, che fanno ìjjj.furnorro uaccàTolofa, &
rraquelleche mi vennero nelle mani, io ne hò vna,nclla quale da vn lato è
fimaginc di Diana, col Tuo arco & la faretra,*: dall'altro vn tempio,
nel cui mezzo c vn trofeo naualc,in cima al quale è vna celata antica:&
della prua della natte, c fitto vn tronco come vno Itile con due rami,
vno riuclliro d’vna corazza, & da l’altro pendono due dardi & vna
rotelIa:& à pie del tron co è vn Ancora da vn lato,& vn timone da
J aItro,in le- gno della rotta di Sello Pompeo, quando Ccfarc Augu-
ro racquiftò la Sicilia, la quale in mezzo al frontilpi- Tri gSbe, c *° ^
mc J c h mo tempio e figurata per tre gambe, con impresici lettere che
dicono,i mper ator . c ae s ar,co!ì fignifi- UsùiU can do che Augullo
ringratiaua Diana della vettoria hauutadc nimici Tuoi. -
av 1 i
DE G'E’ ANTICHI /ROMANI. *5 AVGVSTO.
Et nc rouefci delle medaglie battute in honoredt Mar cello, fi vede
parimente-vn facardote, chccon due mani lebrato in prclcnra al tempia di
Diana vn altro trofeo di Sicilia, s *” a *- ringratiandola delI’Kauuta
vittoria di Siracu(a,&dcl te- foro portatone à Roma,iI quale-fu
{limato tanto, quan- to quello che i Romani cauorno di Cartagine.
* MAJICELLINO,. ~ BRONZO.. *6 DELLA
RELIGIONE Animali tonfatati i Diana.
Solcuono gl antichi placare Diana imolando la cer- iliaci
daino, il ccruio,& il toro,tutci animali confècrati lei, fi come
tcftimoncranno le medaglie Latine & chc,che io ho fatto ritrarre qui
di lotto. FILIPPO. BRONCO.
Tempi o di Scriuc Strabonc nel x ri 1 1. libro della fua Cofmògra
to“ra*ro~ & 1 che quello tempio cra fondato nclflfola d’Icaria &
polon. chiamato Tstupóirtxor. Et Tito Liuio neh ni. della quinta Decade ,
lo chiamò parimente Tauropolum , & Tauro poli* i ficrificij,chclifaccuonoà
Diana. Dionilìo nondime- no nel fuo libro de Sicu Orbis dice,chc Diana
non fu chia mataTauropoU dalla regione, ma dalla quantità de tori,
ehcvinalceuonofotto la fua protezione :& però detta dum Tau eguale
colà appari Ice vera per la medaglia Gre ca qui di fottojdoue fono
lettere, che dicono, e petp i- IÓN DAMASI AZ. MED
f vi. DE Gl'ANTICHl ROMANI.
87 MED AGLIA GRECA D I DIANA. ARGENTO.
Chequcfto fiavcro,& che Diana Ila (lata chiamata
TaurofoloSybiTdurof oliai Tuoi facrificij dal toro che l’era
confagrato,come il cane, dimoftra anchora Diodoro nel iti. libro, douc
parlando della Rcina delle Amazo- nc dice, che ella faceua ogni giorno
cflcrcitarc le Tue ver- gini allacaccia, acciò chcpiu facilmente tollcraflino
il difagio dcllarme & della guerra , facendo le fare vn cer- to
facrificio, che ella chiamò T*opej 3 fojo.,benchc gl’ Autori tanto Greci
come Latini habbinoconfufi tutti quelli no mi Tdurouoliumjduropolum,
& Tauropobolum, & malli me Suidane i Collcttanei, chiamando Diana
Tduroholosfal Toro(quello che anchora conferma Euftathio) il quale
l’era facrificato, come fi vede nella medaglia d’argento ' d’ Aulo
Pofthumo, nella quale fi vede da vnlato Diana con vna luna in teda,
l’arco & il turcafTo:& dall'altro il fa orifìcio del toro, nel
modo, che fi vede qui di fotro. F 4
Sacrifìci» di Diati» ordinato da la regi, na deli
a- mazonc. Diana chi» mata Tau- robolos
. tttJICi * * : v ni'
I $8 .'D É L L A Rì L 1 G f Ò M £ ' A VLO
PO STHVMO. - ~ i ARGENTO. eia, &
ma/firneàLettora,doue fe nc vede grandi/fim» Tùtro gì - quantità,
donatimi già da Pietro GiIio,huomo dotto Se deVanuZ g ranc * c amatore delle
cofc antiche, fi conofcechcifacri- ti ficij fatti anticamente da i
facendoti alla madre degli Dij congrande apparecchio,crano chiamati
TAuroj>olium& •>- • altre volte Taurtuolium , &non
folamente à Diana Cibelc,maanchoraàMinerua, volendo
maflìmamente credere àSuidas: benché di coli fatti fiicrificij io
habbia, aliai diftefamete fcritto negli Epigrammi, che io hò rac-'
colti di tutta la Francia. * 'a • ; ' b - •• . „ j ( .
t . * e* V. ... LeBor* inpropugrutcttlo \rbis. matri
devm pomp. philvmenae t*VAE PRIMA EECTORAE TAVROBOIIVM F e e
r T. . tìdi°G4f!o fedeli àiichora in vna piccola chiefa di S.
Tomafo giuu mezza rouinata nella medefima terra, vn’altro epitaffio
in vna D E GL’ ANTICHI ROMANI. S* hi vna
colonna, che regge l’altare grande, per il quale fi conolce che i
Decurioni di quel tempo , cioè gouucr- torì della Tcrra,feciono il
facrificiodi Tauropolium alla madre degliDij per la falutc diGordiano
Imperato- re, & di Sabina Tranquillina Tua moglie.
In facelle D.Thanutnunc diruto in columna i aitarli vijìrur.
1 PRO SALVTE I MP. ANTONINI GOR- < DI ANI PII FEL A
V G V. TOTIVSCHE^ DOMVS DI VI N A£, PROQVE STATV C li V 1 T-
LACTOR. TAVROPOLIVM FECIT ÒRDO LACT. D. N. GORDIANO II. ET
POMPEIANO COS. VI. 1D. DEC. CV- " RANTIB. M. EROTIO ET FESTO CA-
» NINIO SACÈRD. Di quella Sabina Tranquillina ho io
veduto altre yolte yna medaglia d’argento, & vno Epitaffio fatto
in quello modo, FVRIAE SABINAE TR AN QV 1 LLIN AE
SANCTISSIMAE A V G. CONIVGI DOMI- NI N. M. ANTONINI GORDIANI PII
FEL1CIS INVICTI A V G V STI DECVRIA- LES AEDILIVM PLEBIS C ERI ALI
VM DEVOTI NVM1NI MAIESTATICHE EO- R VM. Trouafià
Roma vn gran marmo antico fcolpitoin otfmzion honorc della madredegli
Dei,douelì fa mentione del- * cibele Taurouohum,& quiui lì vede
l’imagine della Dea co- ronata d’vna Torre con vn tamburo nella man
manca appoggiato fopra alla fuacolcia,& con la ritta
tiene cer- te fpighe di grano, à federe fui fuo carro tirato da due
liooi,& accompagnata del fuo Atis, che tiene vna palla in mano, &
cappeggiato à vn Pino, come albero con- F 5
90 DELLA RELIGIONE Carro de
la madre de gli Dei , ti- rato di duo leoni.
Dichiara- tionedel'in fegna de la madre de gli
Dei. {agrato arale Dea, à caufa della monragnad’Ida, eh
ciò Candia, òdi quella di Frigia, abondantifiime ambedue
diPinij&doue cllac adorata principalmente per Dea,' & dedicatele
le Pine, onde Marciale ha detto di quelle parlando, Toma
fumus Cybeles. Ma quanto à i due Iioniche tirano il Tuo carro
,co-. mefcriuc Virgilio, Et iunBi rerum dominai
fubiereleones. voltano i Greci lignificare, che non fi troua cofi
Acrile terra,chc ben coltiuata,non diuenti fertile & buona. La
torre lignifica leCitta & edifìci j de quali la terra è orna- taci
tamburo la mondezza della terra, benché alcuni veglino che ciò lignifichi
i venti rinchiufiui dentro, & le fpighe,ch© la terra fola è quella
che nutrifee l’huomo. Figura .u ■ :• '• :•> h
. ' it j . . \ 9J®.: -, 3 A
trt, ,Ou u;j . . . ;ì. ‘ A .w y.
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rr/tarV;ioi f! - •> J *. ■ i V • ... ...
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DE GL' ANTICHI ROMANI. in
FJG y R A~ D E LA MADRE DE I DEI R I 7 R ATTA del marmo
artico, il qual fi vede in Roma ntll’ecchiefa di S.Sebafliano.
M. d: M. L ET ATTINIS L. CORNELIVS SCIPIO
OREITVS V. C. AVGVR TAVROBOLIVM SIVE CRIOBOLIVM , FECIT DIE
IIII. KAL. MART. TVSCO ET ANNVLLINO COSS.
Cibelt tOf- riU. Nell’altra medaglia pure Greca
li vede da vn lato Cibelc torrira,& dall’altro il folgore di Giouc
con al- tre facttc, la quale c tanto vecchia & frulla, che non
lì c potuto cauare alcun fenfo delle parole Greche.
Meda Vari I nomi de la madre dei
Dei. Diana con- feruatrice, adorata in
Sieilia. Chiamaronlagl’antichi madre degli Dei, perche
in guifadi madreche nutriteci figlìuoli.la terra limilmcn- te
nutrilcetuttigrhuomini & animali del Mondo, coli dice Furnuto.I
«Greci & Romani le dettono più nomi & attribuirne diuerfe
virtù.chiamandola Cibelc, Cere- re,^ Terra,Prolcrpina, &fecondo
Lucretio, madre delle beftie. Veda, &Diana:il che li vede &
conferma per due medaglie di bronzo Greche, ncll’vna delle quali c
Dia- na da vn lato con quelle parole, 2 atei p a, & da l’altro
il folgorc,dcdicatole cornea Velia ,& limili parole x i aeqi a r a
©ojc a e n 2, ci oc , medaglia battuta dal Agatoclc in honoredi Diana confcruatrice.
Nel tempo, che io Faceuo quello
33cor|oi mi fumo mc faglie clonate alcune medaglie d’argento, di quelle,
che viti- doro & inamente furono trouateà Reims, tutte quafi di Seuc-
trouute°t ro,di Giuliani CaracaHa,di Geta,8t diMacrino. Et per-
chcrracfleio netrouaitrc,doue livedcCibelc convnfolgorc in mano,& à
federe fopra vn qucflc parole , ind mi cparfo non fuora di
fotto. L’vna. GLIA GRECA. bronzo.
« ■ . V «A »
i 5>4 DELLA RELIGIONE if
pino con- L’vna dell altre due medaglie e dì Giulia, nella quale madre
dc*i ^ vc< ^ c Cibclc tortila in compagnia di due lioni & àfc- Dd.
dere fopra vna Tedia con vn ramo di pino in vna mano, & nell
altra lo fcctcro,chcclIa appoggia fopra il Tuo tam buro,3c lettere che
dicono intorno ,mater devm. Il medefìmo rouefeio nella medaglia di
Fauftina e quali del tutto foni iglianteà quello.
ARGENTO. BRONZO. Figuro
MED. DI C. VOLTEIO. ARGENTO.; ANTO.
Pio. BRONZO. p JJ ■ ' ■'■W ■■
DE GL’ANTICHI DOMANI. Figurornoanchoragl’antichiil lìmulacro
di quella Cibcìe con vn gran numero dipoppe,fignificando‘ che
cllanutricaua tutto il Mondo, con vn a torrefalla tefta, due Honi Copra i
bracci , & diuerfr animali incorno, produtei da lei come Dea della
Natura, & di più due ccruie ài piedi, che moftrauono che Diana, &
quella erano vnamedchmacolà.Ncl qual modo nonhd mot- to tempo che
ella fu ricrouata in vna grotta ancichiflì- maàRomadadipinturadellaqualemi
donò altra vol- ta M. Antonio Fantuflì dipintore Romano, la quale
io ho polla nel miolibro de la Natura de gli dèi , per dame la
villa à .gli amatori dell’antichità. Furono tutte quelle forme attribuite
à Dianacondiuertì nomi di triforme, come per il tellimoniodiPaufania la
chiamò Alcamc- nc:& Virgilio, dichiarandoci che in cielo lì
chiamaua Luna, in terra. Diana,& nell’inferno Profcrpina , coli laf
: ciò fcritto, Tergeminamque Hccaten>trU ùrginìs or a
Tfidnx. Et perche la figuradi Diana, ritratta da vn marmò
antico,!! vedrà meglio nelnollro primo libro dell anti- chitàdiRoma, io
non nelcriùero qui altro , ma fola- mence dirò come fotto la deità &
nome d’Hccate i più ricchi Romani foleuono ogni mefe far facrificio à
Dia- na, mettendo fopra i canti delle llradc della Città, pane
& altre cofe,chcfubito da ipoueri erano leuaje via , co- me fcriuc
Ateneo, llimando che Diana, la Luna, & Pro- ferpina fodero vna
mcdclima coCa. Hauendoà baftanza parlato di Diana , &
defìderan- - do venire alladcfcrittionc degli altri Dij,
comincieremo da ^inerita* la quale fccondoi Poeti, nacque.de l capo
diGio 55 Dea di m-
tura. Diana tri- forme. Paufinid.
Virgilio. Sacrifìcio fattoi Dia na fotto
il nome di He tate. Ateneo. MINER-
VA. 96 DELLA RELIGIONE di Giouc,
pcreflcrcrintcllctto collocato nella certa dell* huomo. Armaronla oltre à
quello gl’antichi d’vno feu- do, nclqnalcera il capo di
Mcdufa,moftradochcrhuo- mo fauiodcbbecon force animo & intrepido vifo
refi- ftcrc aU’aucrficà,& à nimici.il pennachio che ella hauc*
ua fopra al morrionc , fignificaua rornamenro di tutte lefciczc,
&cofcaItenclccruclIo dcH‘huomo:le tre vedi differenti l’vna
all’altra, che la Capienza debbe clferefc- grcta,&l'hafta che ella
haucua in mano, che l’huomo fauio guarda, con fiderà, & batte di
lontano & con van- drdicXt*! taggto. Mala Ciuctta le fu dedicata
(come habbiamo Mintrtu. detto) per moftrarcche la Capienza cuopre con le
tene- bre il fuolplcndore-.i qualitutti lignificati pare chedcf-
criucffc affai bene Ouidio nel Certo libro della fua Mc- tamorfofi,
quando dille, ^t fili datelypeumjat acuta cuflidis hafiam,
Datgaleam capiti, defendituragide pettus, ‘PercuJìa'mejuefua
fimulàt decufiide ferrarti. Edere cu mi; accia factum canentis
oliua , Jrfirartque deos «perù vittoria finis. Minmu
Scriuc Varronc che Mincrua fu quella , che fondò ie untoti Atcne,&
per ciò fu chiamata, aohn a quafi idxraìoe rrdfOt- i- Atene. r e, che voi
dire, vergine immortale, àcaufa chcfcomc fcriue Fulgentio) la
ìapienza non muore mai. Di qui ha voluto Porfirio dire, che Mincrua none
altro che la vir- tù del fole, mediante la quale lafapienza entra &
pene- tra dentro alcuorcdcH’huomo, là onde nafcendodalla
fommkàdcU’aria : però fi vede che i Poeti hanno finto che Mincrua c
vfcitadelcapodiGiouc. I Filici dicono chela virtùintellccciuaècollocata
nel cerucllo deliquio DE GL'ANTICHI ROMANI. *7
mo,comc denrroalia principale fortezza del redo del corpo.
Chiamaronla Umilmente gl’antichi Bellona, BrBofl4 cioè Dea della guerra,
lignificando chei Soldati debbo- d « * u no non fidamente edere del
continouo armati Spederei- S* frr <- caci, ma proueduri di configlio:
&rprima chccominciarc vn imprcfa,cdàminarc molto bene le forze del
nimico: quello che confermò anchora Saludio dicendo, che ei bifogna
prima configliarfi,& doppo il configlio, & la deliberationc fatta
mandar predo ad effetto ìlfuo dife- gno.Lacaufà perche gl’hiftorici
l’hanno fatta fondatri- ce d’Atcnc, è, che dicono che nafccndo difeordia
tra lei & Nettuno, di chi douede porre nome alla Città, gli Dei
fimedono in mezzo per pacificarli, &giudicorno che Ncttu- qualc di
loro due produrrebbe cofa piu vtilc alla detta Vaim terra, quello le
douede dare il nome, per il che pcrcoccn- do la terra, & facendo
nafcerc Nettuno vn cauallo, & Minerua l’vIiuo,fu fententiato
chcl’vliuo, piu che il ca- uallo fodènccedirio & vtile alla vita
humana,& cofi re- do la Dea vincitrice, con attribuirle l’vliuo &
cdcrechia- mata Pacifera, come fi vede nelle medaglie di M. Aure- vulimit
- Iio,& di Commodo Imperatore. - 4 ut 1 q
ncrua. f • *. • T V ■ * 1 t\ e k \ ■ l A ,|f I. fi , *
. I .. '• •• 1 ■ • "• «f; IM ,1 - f . n
L M. AVRELIO. COMMODO.
BRONZO. Ttfle di mi Scriue Plinio che infino alfuo
tempo duraua ancho- ra la celcbrationc della fella & giuochi di
Minerua, tjuatria. chiamati Quinquatrij, quali erano, che i fanciulli
facen- do vacationc dalle fcuolc & da gli ftudij porrauono la
mancia ài loro maellri in honore della Dea,come quel Jache aiutaua la
mcmoriarciò che Quintiliano a! 1 1 1. li- bro^ nefuoi falli Ouidio
anchora meglio ha dichia- rato, quando ci dice, 'Pallata nunc
putrì tener a j ornate p nella: Qui lene placarit Palla
Ja,Jolhuerir. L’occafione fopradetta della difeordia di
Mincrua nettv- & di Nettuno, pare che mi porgea
conuencuolcmare- « n o. ria di ragionare anchora di quello Dio,il quale
(come il Delfino fcriuc Higinio) fi dipingevi con vn Delfino fotto
il dedicato ì piede 5 ò la "mano mancaappogiataui fopra, hauendo
il nettano, tric | enrc nc lJ a r j t ta , fi come dimollrano i rouefei
delle medaglie di M Agrippa. M.Agr
I 1 L DE GL’
ANTICHI ROMANI, M. A G R I P P A.
BRONZO. Fu Umilmente da gl’antichi dipinto Nettuno
con uettunodi vn Tridente & vna Acroftolia (ornamento antico di
galea) in mano , come fi vede ne rouefei di due mie te cr una medaglie
d’argento, l'vnad’ A ugufi:o,& l’altra di Vefpa* fiano.douc fono
lettere che dicono, neptvno redv- ci, in fegnodi ringratiare lo Dio del
felice ritorno dal- le imprefe nauali.
Acrojlolta dagli anti- chi. AVGVSTO.
VESPASIANO. ARGENTO. G z
100 ut -inai*
: DELLA RELIGIÓNE vufciiut 4t- Attribuirno
parimente grantichiii Tridente a Nct- mttuno 4 tuno,,n %no dello feettro
, & ancho per efl'erc vno in- perfetttro. frumento molto ncceflario à
i marinai, dipingendolo vna volta pacifico>& vn’altra adirato
,come fi vede per le medaglie di Pompeo doppol’imprela fatta, & la
vet- roria hanuta de Corlali, donc da vii Iato fono lettere, che
dicono, MAGNVS IMPERATOR ITERVM-.& dell’altro, PRAEFECTVS CLASSIS ET
O ilARITIMAE EX SENATVSCONSV MED. DI PO MP
DE GL’ ANTICHI ROMANI. ioi Io ho tra molte pietre antiche,
intagliate di diuerfc Ag<tu <m- forci, l’Agata di forco figu rata ,
nella quale è il mcdelìmo Nettunoà ledere, con vn braccio appoggiato
fopra vn tmo* va Co alta maniera d'vn fiume,& doppo quella vna
Cor- niolaanticadicolorcdi rubino, nella quale cvn Nettu- no fui
fuo carro, tirato da due caualli, nel modo , ch’egli tumori- è anchora
figurato in vna medaglia di M. Agrippa con rito dà <a - lertcrc che
dicono aeqvoris me omnipotens. AGATA. CORNIOLO.
M. AGRIPPA. arg e n t o. .
v."“ v - -m * .... VA
monete ioz N rtttmo i
fiutilo. DE LA RELIGIONE La caufa perche glancichi
dedicorno il causilo à Nettuno, fu,perchc ci fu il primo che trouò il
modo di domarli &frenarli, come dice Virgilio nel y.dil'EncidL
/ ungir eejuos curru geni tot fumanti a. <jue addir Frana f'eris ì
manilupjue omnes ejfundit babenat. Fanno vera teflimonanza di
quello, ’ Tarcntini, nelle quali da vn lato fi vede Nettuno
uallo,& dall’altro Taras fuo figliuolo fopra vn Delfino.
HÌppOCTé- tid. Confutili.
Nettuno in h entore di tutte del tuuigtr.
A iNettunocauanere recionoiKomanjgia vn tem- pio,comc fi leggein
Haficarnalco,&chiamaronogl’Ar cadi) il dì della fila fella
Higgocratia , fi come gl'antichi Confualia , nel quale tempo tutti i causili
> muli, & mule non erano in modo alcuno adoperati à
rrauagliare,' madai garzoni di Italia condotti à moftra per tuttala
Città di Roma con la teda coperta di fiori & ornata di ghirlande con
ricchi fornimenti. Scriuc Diodoro che Nettuno fu il primo che
trouò l’arte del nauigarc& didrizarc vna armata di marc,&
che D E GL’ ANTICHI ROMANI. 103 ' che per quello
ci fu fatto da Giouc Ammiraglio del ma- re^ di poi adoratocome Dio.Et per
le due medaglie, & vn Niccolo, figurate qui Cotto, vollono glantichi
li- gnificare che Nettuno haucua poflanza tanto in mare Ncttuno ^
quanto in terra,figurando vn caualloconla coda tor- gnordrima ta &
diuifà in due partidnfegno de iduc Elementi, l’vno (quale e la terra)
ripreientato dinanzi per il cauailo, & l’altro (qual’ è il
marc)difcgnato dietro per la coda in forma di Delfino.
ANTICO NICCOLO. Qi CREPERIO. GALLIENO.
* »o4 DELLA RELIGIONE Quando i Romani volcuono
moftrarc di ringratia- rcNettuno di qualche vettoriahauuta in mare, lo
facc- uono Scolpire nelle loro medagliedavn lacoconil Tri- dente^
dall’altro mctteuono vnaVcttoriafulla poppai d’vnaNaucmel quale
modolofcciono già fare Deme- trio, Augufto Ccfarc,Vcfpafiano , & Tito
fuo figliuolo. Imp.Rom. MED. DI DEMETRIO.
ARGENTO. AVGVSTO. VESPASIANO. ARGENTO.
ARGENTO. Ritor -
I E serv- ir API a
Machione DE GL’ ANTICHI ROMANI. 105 Ritornando à
gl’altri noflri Dij,& loro templi, altari & fimulachrijdiciamo
chcEfculapio Dio della fa nità,fu il primo chctrouò l’vfo della Medicina,
infcgnataglifor fc prima da qualche Dio flato innazi à lui. Quelli al
rem po di Homero fi vcdcchcnon era anchora flato collo- cato nel
numcrodegli Dei,cóciofìa che il detto Poeta fa medicare àPconcle piaghe
di Marte. Ma quadoci parla diMachaonc,figliuolo d’ÈfcuIapio,ci lo chiama
huomo Ma(hégj figliuolo d’EfcuIàpio Medico, chctrouò molti rimedij
figliuolo ncccflarij perla fanità dcllhuomo , & lo fa tato
eccellete in quella arte, che ci dice che rifufcitaua i morti .Dice Lat
Stantio. tantiochc Efculapio nacque di padre & di madrc,chcn6
fumo da perfonaconofciuti,& coli lafciato in mezzo à vn campo,&
trouato da certi cacciatori, fu dato i n guar- dia à Chironc
Centauro,chcgl’infegnò lar te di medica- renella quale vfarono dipoi
fempregl’antichi fino al tc- pod’Hippocrate,che la riduflc alla fua
perfezionc.L’ha- Kippocratt birationed’EfcuIapiofugiààRaugiacittàdi
Schiauonia, Umdu^a & dagli antichi chiamata Epidauro,doue ci
fucòfiigra- * pnfctno to, fattogli vn tempio, & vna flarua d’oro
& d’auorio per " f * le mani di Trafimcdc,cccclIcntiflìmo(comc
fcriuc Pau fàniajfculcorcdi queltcpo, &natiuo dcll’IfoladiParos.
^ef^iuio Eufebio nondimeno lo vedi &dipinfenel modo, che in nedeiima-
marmo bianco fi vede anchora à Roma,& in molte me daglic & pietre
antiche, cioè vcflitod’vn mantello alla do Eufebio. Greca, con vn baflonc
in mano, & fopra al quale(attor- cigliato d’ vna ferpe)pare che il
Dio s’appoggi, nella ma- niera che io l’hò in vn’altra belliffima
Corniola, &in vno Niccolo, ritratti qui di forco al naturale.
G 5 .ori oia/ì Jr
ioc DELLA RELIGIONE ‘CORNIOLA ANT. NICCOLO ANT.
Tornato. Microbio. I a
Ciuciti dedicata ì Efculapio. Significai™ la
fcrpc (fecondo Fornuto) che fi come quelle fi fpogliano & mutano la
icorza, cofi auiehedc Mcdccichc riducono gl’ammalaci dalla malaria alla
fa- ttiti, rendendo loro vn corpo nuouo. Altri voglionoche fi come
la ferpe lignifica laprudcza,cofi bifogni al buo Medico edere prudente
circa alia finità d’vna perfona. Ma Plinio rede vn’altra ragione, cioè
che la fcrpc fia de- dicata à Efculapio per edere buona a molte
mcdicinc:& Macrobio dice che quello e, perche la ferpe ha la
villa fiottile, come bifiogna che habbia il Medico nella cura d’vn
infermo, &chc il battone fignifica,chcvn huomo ammalato ha bifiogno
di nutrimento che Io fiollcnga, in modo,ch’ei non
caggiaaffatto.EtEufebio,chcilba- ftonegl’è attribuito, come quello che
^er appoggiarli e ncccdario à vn’ammalato. Fu oltre a quello
dedicata à Eficulapio la Ciuctta, lignificando che il medico debbe
edere vigilante più la notte che il giorno intorno all'in- fcrmo.fi come
lì vede ne rouefici delle medaghedi Nero nc,&di Vitcllio.
Nerone. DE GL’ ANTICHI ROMANI.
107 NERONE. VITE L LrO. * ORO. BRONZO.
Vcdc(i anchoraà Roma nel mezzo del Teuero vn’I- foletta à modo
d’vna galeotta, cioè larga nel mezzo,lua- ga due ottani di miglio,
appuntata da bado , & piu larga di fopra, à modo d’vna poppacL’vna
naue:la quale Ifola fu già confagrata à E(culapio,ati!ina,dop- po
che Romolo l’hebbe edificato nel palagio , apprefib la vettoria hauuta de
Sabini, io ti priego d’cllcrc in aiuto alla Rcpublica & Città diRoma,
Stame in tutte le dif- gratie mie. yltore
P'S DE GL' ANTICHI ROMANI. <r 3
Vlcorc fu chiamato, & honorato da Romani come Marce, per edere
l’vno & l’altro vendicatore delle cofe mal fatte: & in Italia ,
maTTimamcntc nel territorio Ca- pouano detto Auxur,& figurato il Tuo
lìmulacrope r vn Auxun fanciullctto lenza barba, del qualefcce mentione
Vie- Virgilio. gilio nell’ viij.libro dell’ Encida, quando dille:
Cyneumejue iugum^uets I uff iter ^Auxttrus aruis r
Pr<efìdet. Et è ancor Giouc coli (colpito (opra vna
medaglia d’argentodi Pania, da vn lato della quale fi vedeà fede-
re nel fuo T rono con vna tazza nella mano mra,& nel- la manca lo
fcettro,con vna corona di Quercia, o d’Vlt- uo,ilchc non ho potutotroppo
bene difccrnerc,per la piccolezza della mcdagliarnondimeno Phornuto
affer- machefolamcnccGiouccra coronato d’Vliuo,in fegno di
perpetuitàrperchc egli è Tempre verde, & tiene qual- che poco del
colore cclcltc. ME DATgTi E DI P ANSAI ARGENTO.
Et Ti *4 Tempio
d'Augufto in Alcjptn ària. DELLA
RELIGIONE EtlicomcGiouchaucua in Roma (come e dctto)iI Tuo
tempio magnifico , & era chiamato Scruatorc Se Conlcruatorc,coli in
Alcflandria nera vn’altró limile conlagratofcome fcriuc Filone nel libro
della Tua lega- tioncà Caio Ccfarc) à A uguftoConfcruatorc, chiama-
to hauuto in vcncrationcda i nauiganti.Era quello grandillimo &
altiflìmo tempio pollo innanzi al Porto,picno di Tau ole offerta, di
pitture cxccllcnti,& di flacuc marauigliofamentcfabricatc,&
ornate d’argento Se d’oro, con portichi Se loggic per Ilare al coperto,
& palleggiare, & vna libraria accompagnata dagradilEmc
làlc,portali,bofchetti,& lunghe vie, che di lontano por-
geuonofpcranzadi falutc à tutti i nauiganti,che volc- uono pigliare porto
in Alcflandria: benché quali per tutto il modo foflcro flati dirizati
& fatti molti altri tem pii in memoria d’Augufto & per eternità
del fuo nome, li come li troua nelle medaglie battute al tempo di
Ti- berio, il quale cominciò vn tempio in honorc fuo che Caligula fornì
poi,& Io confagro al fuo nomccon ofH- cij Se facrificij pieni di
pietà Se di rcIigione,il che ei con- ferma perle fuc medagIie,doucda vn
Iato è il lìmula- cro della pietà à federe con vna tazza nella man
dritta, & la fianca ripofafopra vnfanciuIIctto,che moftral'of
fido pio che Caligula faccuainuerfo i fuoi parenti , con quelle parole,
e. caesar divi avgvsti prone- POS AVCVSTVS PONTIF EX MAXIMVS TRIBVNIT1
A POTESTATE QVARTVM PATER PATR1AE. & poi quella altra
appreflo folamcntc, pietas. Dall’altro Ia- Sdtrificio to mC£ ^ a g*
ia fi vede fi tempio d’Augufto flato ri- diCéU&uU. ccuuto (comeci
penfauono) tra gli Dci:& nel mezzodi detto
Librario b.Uifiinu d'AuguJlo.
Tempio tA ugujlo (omincUto per Tibe- rio, cr
for- nito per C4 ligula. - *"*
DE GL’ ANTICHI ROMANI. <r 5 detto tempio
vn’altare,fopra al quale c vn Buc,tcnuto da colui che n’haucua la cura,
chiamato Vittimario,con vnfaccrdotc chemoftra di volere fa me facrificio,
teneri do vna razza nella mano deftra,& dietro alle fpalc vn miniftro
con vnvafopcrriccuercilfanguc della beftia. AVG VSTO.
ORO. *
DELLA" RELIGIONE MED ÀGLI ÒNI DI TIBERIO.
Tempio dkugujlo reflituito per A
nto~ nino. Comminciando dipoi quello tempio col tempo
à rovinare, Antonino Pio lo fece inftaurarc, fi come h ve- de per
le Tue medaglie d’argento, d’oro, & di bronzo, douc fono lettere che
dicono .templvm divi avgVsti restitvtvm. Ne contento di qucfto, ne
fece fare vn’altroad Adriano fuo predcceflbrc,comc ricordeuolc de benefici),
che haucua riccuuti da lui. Anto »
DE GL’ ANTICHI ROMANI. c-j ANTONINO
PIO. BRONZO. Oltre à quelli templi , furono
anchora fatti molti altari in honored’Augulto, per moftraremaggiormen-
imiti de te, & per diuerfe vie la fua eternità con quelle
parole, providentia, hauendo quei Romani quella vana opinione,
chela deitàd’Augullo potcflèloro concedere tutto
quello,dichehaueuonobifogno per laucnire.
tu»-, -ilKrTivb'Jì / 68 DE
LA RELIGIONE Et coli per tutte l’altre medaglie de gli
Imperatori; che erano (lati à modo loro deificati, folcuono
gl’anti- chi (colpire quelli altari in legno della loro
deificatione-. Deferivo* Scriuc Apulco nel dogma di Platone
, chela proui- XkJu denzanon è altroché vnafenccnza diuinachc
mantie- ne femprcfelice colui,checlla piglia vna volta iti cura:
& altri hanno detto che folamenteriguardaua Se pcnlà- Dtuodi
uaalIecofeaucnire:ma i dannati Epicuri£al(amcntecre- zpÙHro. deuonochcDio
non haueflc alcuna cura de mortali. Ond’io à propofito di quella
Prouidenza mi ricordo ha- uerctra molte altre pietre intagliate,
cheiofcrboin ho- nore dell’antichità, vn Diafpro, nel quale è (colpita
vna vtformU* formica con tre fpighc in bocca,fignificatricc della
Pro- K de Polii- uidenza-.la quale pietra fu altre volte trouata ne i
fonda- de*K4. menti d’vna delle torri cheio ho fatte farcnclla mia
cafa della Maddalena, che per edere cofa anttchitfìma &
rà- ra,mi c parlo farla ritrarre qui Cotto al naturale. —
Diafpro DE GL’ANTICHI ROMANI.
Et perche Plotina ha già comporti in 4. libri della Prouidenza,
inoltrando che tanto le piccole come le grancofe cranogoucrnate per il
Dio di natura, io rimet- terò il lettore à quella lcttione,&
ritornando al propoli - to mio, dico chegl’antichi riputorno la
Prouidenza per Dea, come anchora ha inoltrato Cicerone nel libro
del- la naturadegli DcijOndcpcrla Tua figurabile clafem-
bianzad’vna matrona ftolata , ò velata & dritta , che in vnamano
hàlolccttro,&con l’altra moftra vn globo, chcgli Ita à piedi, pare
che voglia lignificare che la Pro- uidenza goucrna tutto il mondo, come
vna buona ma- dre di famiglia, nel modo, che nelle loro medaglie la
fi- gurorno (benché con diuerlì atti) Traiano & Pertinace
Imperatori. r. ;• - fiorini.
PROVI DENZA. Cietront. '■.V '
> r ! Alcuni altri Imperatori,
comeTito, la fecionodipin gereconvntymone& vn globo, inoltrando come
ella gouernaua il mondo. Antonino Pio la figurò per vna filetta di
Giouc accompagnata da molte altre. A leda n- droScucroper vn vaio pieno
di fpighe,& Probo & Fio riano per vna fcminaftolatacon vn globo
in mano,vn fccttro &vn Corno d’abbondanza.
rrouidtnz'* diuerfmen tc pinta da antichi.
Caracal Ei mi parrebbcinuano affaticare
,fc io non auertiflì 0 « lettore della pazza fuperftitionc de gli aderbi
Roma ni,i quali durante la vita de i loro Imperaton, o buoni, o
catti u i,cKc ci follerò, in ogni modo non lalciauonodi fare loro
templi,ttatue & altari , & doppo la morte di
lànftificarli,attribuendofaIfamentc loro nomi dibuo ni Principiai
fondatori di pace, & (non ottante che ha - ueflino maltrattato il
Scnato,& Popolo Roman o)di re E 4
CONSE CRATIO- NB. V<tra f a
. flit ione ir Romani nel fanttfi- tar loro
^ imperato^ ri. FLORI AN
A HI ROMANI. 71 S S. MAMM EAT
BUON Z O. 7i DELLA RELIGIONE . ftauratori della
Città di Roma, fteome auenne di Lu- cio Settimio Scuero,il quale
oltre aireflcrehuomobar- baro,beftiale,homicida,&che di fimplice
foldàto pcr- ucnnealla dignità deilTmpcrio, ingannò & tradì
Clo- dio Albino gcntilhuomo Romano per venire à capo dei
fuoidifegni, &: nondimeno s’attribuì & fece dare più per paurache
per volontà dal Senato Romano tùt- ti i titoli di buono Imperatore.
S A R G E N T < 3*23
‘ DF GL’ ANTICHI ROMANI. 73 Ma che diremo noi di
quello Monftro di Natura co- minciato & non finito,il quale doppo la
fua morte fu connumerato daRomaninelnumerodei buoni Dei,& del
quale foleuadirc Nerone, che l'haueua fatto auelc- nare, che egli era
ftato fatto Dio p c r mezzo del boccone d’vn fungo?
clodio; ORO. Et per contrario
furono i buoni Principi, di T raiano, Antonino Pio,& Marco Aurelio,
che per le loro virtù &: buoni coftumi,mcritarono d’cflcre chiamati
ottimi Im- c . pcratori,& canonizati,fe lecitaméte fifolfc
potuto ciò fa re. Trai quali è pur degno d’clTcrc Tempre
nominato& ricordato il nome d Antonino Pio , lolito dire che
piu tofto volcuacolcruarc &faluare la vita d vn Cittadino, che
ammazarc mille defuoinimici. Parola certamente £ Antonino piena di pietà
& degna d’vn buono Imperatore, come cglicra,&:comclo chiamòil
Senato, facendoli dirizarc come à Traiano, vnaColonna,& Templi nel
modo che £ Antonino fi vede qui di fono. 'i .... e $ c
w • . • • r 0 amo
moftraco cornea! tempo anticogli ucrrdctì
Inipcratorieranoconfngrati,&diuentauonoDijdoppo ^TLi ]aI . 0r °
m05tCj& comc * Romani faccuono tem pii &al- tio di ttm - rar * *
n Sonore loro coni /àcnficij de vitelli ficdegl’agncl-' & Reonfegnado
loro Sacerdoti & Flammini nel modS che di Celare A ugufto ha già
fcrirro Prudcnrio^diccndo: Prudenti». Hunemorem V ererum docili Um aiate
fejnuta ? olì eritas t men fa t atque adytit } & fiamme^ tris
DELLA RELIGIONE ANTONINO PIO. BRONZO.
ON. PIO. BRONZO.
Uuguft 75 DE GL* ANTICHI
ROMANI. \AuguJlum col nitritalo placa uù tgd agno:
Strafa ad puluinar iacuit, refj>onfa popofcit. Tcjlantur
tituli,prod»nt confulta Scnatus Cafareum louis ad ) fecitm Jlatuentia
templum. Equanto al reità della conftgratione , chiamata da
Greci & della quale ha le ritto minutamente He radiano al
vij.capitolo del iii j.Iibro,mi è parlo non fola- ménrc di figurarla cjui
fottoal naturale, ritratta dalle me- daglieantiche d’Antonino Pio,&
dt M. Aurelio, ma tra- durla in volgare,pcr maggiore intelligenza del
lettore. ANTON; Pia M- AVRELIOl ' BRONZO.
BRONZ O. c Soleuono i Romani
confagrarc doppo la morte lo- ro tuttiquclli Imperatori, i quali
làlciauono i figliuoli heredi dell' Imperio, in quello modo penlando
efTcre ri-- ceuutr nel numero de loto fallì DijrEa Citta tiftta
vcftita abruno,&picna di dolore &di lamenti, folennemente
fatta fàrcvnaimaginediccra limile al morto Imperato re, la poneua dentro
a vn ricco letto d’auorio,lcuato in alto aU’cntrarc del palagio
Imperiale. Era quello letto coperto di prctiofì panni d’oro &dcntroui
quella ima- gine H erodiano.
b o«».f W «HV Ccrimonù de
Roma* nella mori de loro l« fe rotori. - 7
6 DELLA RELIGIONE ginc pallida àguifa quali di ammalato
Imperatore/! ri- polaua,haucndo dal lato manco à ledere tutti i
Senato ri vcftiti di bruno,chequiuigran parte del giorno dimo
rauono.Et dal lato deliro tutte le Donne Romane, cias- cuna fecondo
ladignità & grado dcloro padri,ò mariti, . fenza ornamento
alcuno d’anelli, maniglie, ò catene d’oro,ma fedamente vcftircdi bianco
leggicrmetc(qualì come portano in tal calo le getildonne in Francia)#
tue te piene di maninconia. Durauono quelle cerimonie
vij.giorni,nel qual tempo i Medici ogni giorno s’apprcf fauonóalla bara,
fingendo di toccare il polfo all’amma- lato,# mollrando che gli andaua
fempre peggiorando. Ma fubito che ci diccuono quello cflèrc fpirato, i
primi letto i Up4 Senatori lì lcuauono il letto Tulle fpallc, portandolo
nel YtZ'ZÌ? ^ av ‘ a ^ acra ^ no al Mercato vecchio, douc i
Magillrati tutori Romani Toleuono fpogliarlidelladignitàdi tutti i
loro. officij.Erano in quello luogo da due lati fatti certi pal-
chi con ilcalc,dai’vn de quali tutti i piu nobili giouani & patritij
Romani, & dall’altro le piu illullri donne canta- Himi tan- uonoHynni
& Cantici Iamctcuoli# pietofi,nelmodo, tati nette po che s’vla
ncllcpópe funebri. Dopo quello i Senatori di pt funebri. nuouo fa
lcuauono la bara fullc Ipallc, &la portauono fuora della Città in vn
luogo chiamato il capo di Mar- te,douecravn tabernacolo quadro fatto di
gradirmi legni fcccjii,& ripieno di fcrméti.di paglia, & di
falcine, & di fuora riccamctc adorno di cortinclauorarc d'oro,
di flatucd’auorio,#altrediuerfcdipinturc.Sopraàque Ho tabernacolo n’era
vn altro lìmile,ma piu piccolo,& riccamente acconcio come
l'altro,cccetto che haueua le porte & le fincllre aperte, & coli
di mano in mano mó- taua DE GL’ANTICHI
ROMANI. H77 tauapiù alto nel mcdclimo modo fempre diminoedo.
Potrebbe!! quella ftruttura ailbmigliarc à certe Torri fondate in marc,ò
fopra ài Porti, chiamate da moderni, Fanali, dagl’antichi
Phari,douela notte Hanno acccfi lu TJnaU mi perfarefeorta a
inauiganti.Portato adunque ildet- chiamati to letto fopra al fecondo
ftaggio.quiui fpargcuono gra- dequantitàdi
fpcticrie,diprofùmi,difrutti,d’hcrbc, & d’vngucnti odoriferi di tutte
leparri del Mondo, facen- doqualì à gara di chi più , ò meglio, porc/Tc
honorare, & fare quello vltimo prefente al loro
Imperatorc.Fat- to quello, lì moueuono certi Caualicri à corfa
intorno al tabernacolo, facendo vn modo di Morcfcha tonda, MortfAé
Pyrricada gli antichi nominata:& apprefib à quelli fa- ryntt4 '
ceuono il mcdelìmo i Cocchi, ò carrette , fopra lequali i carrettieri
erano vcllitidiporpora,8cdi velluto chcrmi- lì,con mafchcrc fomiglianti à
i Capitani , & principi che haueuonogià fcruito il morto Imperatore.
Et con finite tutte quelle ccrimonie,colui che doueua fuccedcre
all’- Imperio, pigliato vn torchio accefo in mano,mettcua il fuoco
nel Tabernacolo, & il limile faccuono tuttigl'al- trhpoidi mano, in
manoùl quale per la materia tato fec- ca,& le cofc vnte deprofumi,
& olij profumati, leuaua { j, e fubito le fiamme in alto,pcr
mezzo lequali, vfcitavn’ A- t* quila viua del minore & più alto
Tabernacolo, fc n’an- « daua volando in verfo il cielo , quiui di terra
portando i cieli (come crcdeua &gridauala lloltitia de Romani nql
me delìmo tempo) l’anima del loro Imperatore), il quale poi coli
adorauono come Dio,& gli faccuono altari & templi,
come e detto di fopra. » C rwr,-* r-’ìRtn
« v 7 8 ' DELLA
RELIGIONE ’ M. AVRELIO. F AVSTINA 4U«
tu 1 - PERTINAX.
BRONZO. F AVSTINA. ARGENTO.
Crédcuonoi Romani qiicfto mi fieri o non Iblam" elfere vcro,ma
molti giurauono hauerc veduto vfeire del fuoco l’anima dell Imperatore ,
& altri pagauono huomini à polla per confermare coli fatta bugia,
diccn - do che l’Axjuila di Gioue l’haucua portata in Ciclo, &
coli ecco in cheniodofu anchora canonizato Seucro lottizzo* collocato nel
numcrodegli Dei, inlìcmccon moltialrri Imperatori & Imperatrici
ch’elPopo.Ro. fece fàlir per forza DE GL’
ANTICHI ROMANI. 7 9 COM forza alciclo
nel medefimo modo che Scucro. Ma ri - tornando alla materia de noftri
templi, doppo haucrc fcritto de i più trionfanti di tu tti,cioc,di quello
di Giouc Capitolino , di quel d'Augufto à Roma&in Alcflan-
dria,del Pantcone^ di quello della Pace, ci reftai vede- Tempio «K rcil
marauigliofo di Diana Efcfiamcllà fu perba edifica ^j c pg % rione del
quale concorfcro tutti i Re,Potcntati,& Repu blichc dell* Alia
maggiore, contribuendo ogniuno per lafuaparrc/olamcntcmoflidalzelo di
religionc,qua'n- tunquepcr Ja fuagrandezza folle a pena tornito in
CC. anni,& fondato rifpetto a i tremuoti in vn Pantano, tal-
mente che ci fu connumcrato per vno dei lette miracov li del Mondo, &
di poifcolpito in piu medaglie di di- ucrfi Imperatori. “
CLAVDia ‘ ' A R G E N T O. stnr. *4
• Ma pcrcbeil fimulacro interodi Diana,qualc era nel Àmpio
degli Efcfij,nonfi. può interamcce {cingere nel le med agliedi pi ntedi
fo p ra,mi cpàrfódi farlo-hilthopa di nuouo ritrarre qui di fotto nel
modo , che io ihoirt e ” due '.Ikimfc
K.OII 8o DELLA RELtGIO due
medaglie Grechc,l’ vna di C5modo,S: l aura a nn - tonino Pio , nell'vna
delle quali e Icritto aptemhx e «• e x i a n , cioè, Diana degli Efelìj ,
& nell’altra quella l ola parola, e « e s i a spedendo tutte l’altrc
lettere perdute. ANTOM. PIO.
COMMODO. BRONZO. Dtfcrizìon
del tempio di Diana. Era la lunghezza di quello tempio
ccccxxv. piedi, & la larghezza e e x x. ornato di e x x v 1 1 .
colóne, ogniu- naalta lx. piedi, & nondimeno fu abbruciato da
quel- lo fcclcrato Eroftrato,folamentc per dire che egli hau ua
fatto qualche cofa degna di mctporia:bcnche di poi fu rillaurato &
rifatto anchora piu bello da Dinocratc, Celebrati!) Architettore
d’Alellandro Magno. Quiui aduque lolc- cUDianf* L, ono ogn'anno, nel
giorno che lì cclcbraua la fella di ~ Diana, trouarlì tutti i giouani
,& fanciulle , vergini del paefe,vcllitidibiaco,doucfpeflò lìmaritauono
iUcrne? Il fimulacro ò imagine di quella Dea fu fccodo le fue
dignità & qualità dipinto & figurato da gli antichi in di- uerfe
manierc,lt come ella fu pariméte chiamata perdi; JSSL. uer/I
nomi.ConciòlìachcquàdoIaLunaera tutta pie- na, la dilegnauono per la lua
chiarezza con vno tor- chio v DE
GL’ANTICHI ROMANI. 8x chioaccelo in ambedue le mani, come fi vede nelle
mc- dagliedi GiuliaPia, moglie di Seuero Imperatore, con lettere
chedicono, di an a lvcifera. G I V L I A PIA.
argento. BRONZO. Et per inoltrare
anchora meglio che Diana &la LlT- na eranoinqucl tempo vna
mcdefimacofa,ioho fatto qui mettere vn'altra medaglia di brózo della
mecfefima Giulia, nella quale e ferino, lvna lvcifer a,&ìI(uo
carro tirato daducccruic, chcfignificauono checll'cra Dea della caccia,
quantunque l’interprete d’Arato hab- bia detto che quello fignificaua la
fila leggerezza. Ma quadogl’antichila figurauono poico
vnolpiedcinma no,& vn ccruio apprcfio,voleuono lignificare che
cac- ciando, ella pigliaua & ammazzauai ccrui pcrforza,no
minadola »^óa«c, & per memoria che ella era la prima
cacciatricc,fofpcndcuono le corna de cerui dinanzi al fuò
tepio.DclIa quale cofahauendo affai à baftazadif- corfo nel libro , che
per comandamento di fua Maefli iohò fittodella naturadc giammai!
ferochpcrò rimette rò il lectorcà vederne quello, chcion’hò quiui
trattato. F 8i DELLA
RELIGIONE MED AGLI E D’H OSTILIO. A G R E N T O.
Trouanfi anchoradelle medaglie , doue Dinnac di- pinta,
òfcolpitacon Io fpiede, in legno che ella foleua ammazzarci cingùiali,
diche fa chiaro rcflimoniolamc daglia di Gcta Triumuiro, nella quale da
vn lato è fcol- pita la tefta di Diana , & dall’altro vn cinguialc ,
ferito d’vno fpiede in vna fpalla con vn cane appreffo.
GETA TRIVMVIR DE GL’ ANTICHI ROMANI. 83
Quando i Romani figurauono Diana cacciatrice, ordinariamente la
folcuono accópagnared’vn turchaf- fo,d’vn , arco,& di frccciccon vn
cane da ghignerei fc - gugio,(cnzaraiiirode quali non fi può cacciarci
come mortra la medaglia qui di lotto. med 7 ~d f C~P OS T
VMO. ARGENTO. Ma nelle medaglie
d’Augurto fi vede vna volta Dia- na figurata tutta ritta in habito
virginale, con l'arco in vna mano , & con l’altra /opra al turcharto,
facendo le- gno di cauarne vna freccia pcrtirare,&: nel mezzo
lette- re, che dicono/iM pera t or DECiEs,&di fotto,sici- x.i
a. & altre che dicono , im perator vNDEciEs.Et L nel rouefciod’vn
altra fi vede con la velie alzata, vnar- sthukitl co in vna mano , &
nell’altro vno fccttro, vn can da giu- * gnerc,& gli rtiualcrti
infino à mezza gamba , colà prò- £ 1 pria per lei come cacciatrice,
&i quali daPolluccfono An<lro »”- ftati Endiomidi chiamati. des
' F z «4
* • ì t ari- t m r rfi & PpSKT’
• r T v DELLA RELIGIONE A V G V S T O. Tra
cucce le medaglie d oro, che fanno ìjjj.furnorro uaccàTolofa, &
rraquelleche mi vennero nelle mani, io ne hò vna,nclla quale da vn lato è
fimaginc di Diana, col Tuo arco & la faretra,*: dall'altro vn tempio,
nel cui mezzo c vn trofeo naualc,in cima al quale è vna celata
antica:& della prua della natte, c fitto vn tronco come vno Itile con
due rami, vno riuclliro d’vna corazza, & da l’altro pendono due dardi
& vna rotelIa:& à pie del tron co è vn Ancora da vn lato,& vn
timone da J aItro,in le- gno della rotta di Sello Pompeo, quando Ccfarc
Augu- ro racquiftò la Sicilia, la quale in mezzo al frontilpi- Tri
gSbe, c *° ^ mc J c h mo tempio e figurata per tre gambe, con impresici
lettere che dicono,i mper ator . c ae s ar,co!ì fignifi- UsùiU can do che
Augullo ringratiaua Diana della vettoria hauutadc nimici Tuoi.
- av 1 i
DE G'E’ ANTICHI /ROMANI. *5 AVGVSTO.
Et nc rouefci delle medaglie battute in honoredt Mar cello,
fi vede parimente-vn facardote, chccon due mani lebrato in prclcnra al
tempia di Diana vn altro trofeo di Sicilia, s *” a *- ringratiandola
delI’Kauuta vittoria di Siracu(a,&dcl te- foro portatone à Roma,iI quale-fu
{limato tanto, quan- to quello che i Romani cauorno di Cartagine.
* MAJICELLINO,. ~ BRONZO.. *6 DELLA
RELIGIONE Animali tonfatati i Diana.
Solcuono gl antichi placare Diana imolando la cer- iliaci
daino, il ccruio,& il toro,tutci animali confècrati lei, fi come
tcftimoncranno le medaglie Latine & chc,che io ho fatto ritrarre qui
di lotto. FILIPPO. BRONCO.
Tempi o di Scriuc Strabonc nel x ri 1 1. libro della fua Cofmògra
to“ra*ro~ & 1 che quello tempio cra fondato nclflfola d’Icaria &
polon. chiamato Tstupóirtxor. Et Tito Liuio neh ni. della quinta Decade ,
lo chiamò parimente Tauropolum , & Tauro poli* i
ficrificij,chclifaccuonoà Diana. Dionilìo nondime- no nel fuo libro de
Sicu Orbis dice,chc Diana non fu chia mataTauropoU dalla regione, ma
dalla quantità de tori, ehcvinalceuonofotto la fua protezione :& però
detta dum Tau eguale colà appari Ice vera per la medaglia Gre
ca qui di fottojdoue fono lettere, che dicono, e petp i- IÓN
DAMASI AZ. MED f vi.
DE Gl'ANTICHl ROMANI. 87 MED AGLIA GRECA D I DIANA.
ARGENTO. Chequcfto fiavcro,& che
Diana Ila (lata chiamata TaurofoloSybiTdurof oliai Tuoi facrificij dal
toro che l’era confagrato,come il cane, dimoftra anchora Diodoro
nel iti. libro, douc parlando della Rcina delle Amazo- nc dice, che ella
faceua ogni giorno cflcrcitarc le Tue ver- gini allacaccia, acciò chcpiu
facilmente tollcraflino il difagio dcllarme & della guerra , facendo
le fare vn cer- to facrificio, che ella chiamò T*opej 3 fojo.,benchc gl’
Autori tanto Greci come Latini habbinoconfufi tutti quelli no mi
Tdurouoliumjduropolum, & Tauropobolum, & malli me Suidane i
Collcttanei, chiamando Diana Tduroholosfal Toro(quello che anchora
conferma Euftathio) il quale l’era facrificato, come fi vede nella
medaglia d’argento ' d’ Aulo Pofthumo, nella quale fi vede da vnlato
Diana con vna luna in teda, l’arco & il turcafTo:& dall'altro il
fa orifìcio del toro, nel modo, che fi vede qui di fotro. F
4 Sacrifìci» di Diati» ordinato da la regi,
na deli a- mazonc. Diana chi» mata Tau-
robolos . tttJICi * * : v ni'
I $8 .'D É L L A Rì L 1 G f Ò M £ '
A VLO PO STHVMO. - ~ i ARGENTO.
eia, & ma/firneàLettora,doue fe nc vede grandi/fim» Tùtro gì -
quantità, donatimi già da Pietro GiIio,huomo dotto Se deVanuZ g ranc * c
amatore delle cofc antiche, fi conofcechcifacri- ti ficij fatti
anticamente da i facendoti alla madre degli Dij congrande
apparecchio,crano chiamati TAuroj>olium& •>- • altre volte
Taurtuolium , &non folamente à Diana Cibelc,maanchoraàMinerua,
volendo maflìmamente credere àSuidas: benché di coli fatti fiicrificij io
habbia, aliai diftefamete fcritto negli Epigrammi, che io hò rac-'
colti di tutta la Francia. * 'a • ; ' b - •• . „ j ( .
t . * e* V. ... LeBor* inpropugrutcttlo \rbis. matri
devm pomp. philvmenae t*VAE PRIMA EECTORAE TAVROBOIIVM F e e
r T. . tìdi°G4f!o fedeli àiichora in vna piccola chiefa di S.
Tomafo giuu mezza rouinata nella medefima terra, vn’altro epitaffio
in vna D E GL’ ANTICHI ROMANI. S* hi vna
colonna, che regge l’altare grande, per il quale fi conolce che i
Decurioni di quel tempo , cioè gouucr- torì della Tcrra,feciono il
facrificiodi Tauropolium alla madre degliDij per la falutc diGordiano Imperato-
re, & di Sabina Tranquillina Tua moglie. In facelle
D.Thanutnunc diruto in columna i aitarli vijìrur. 1 PRO
SALVTE I MP. ANTONINI GOR- < DI ANI PII FEL A V G V.
TOTIVSCHE^ DOMVS DI VI N A£, PROQVE STATV C li V 1 T- LACTOR.
TAVROPOLIVM FECIT ÒRDO LACT. D. N. GORDIANO II. ET POMPEIANO COS.
VI. 1D. DEC. CV- " RANTIB. M. EROTIO ET FESTO CA- »
NINIO SACÈRD. Di quella Sabina Tranquillina ho io veduto
altre yolte yna medaglia d’argento, & vno Epitaffio fatto in
quello modo, FVRIAE SABINAE TR AN QV 1 LLIN AE SANCTISSIMAE A
V G. CONIVGI DOMI- NI N. M. ANTONINI GORDIANI PII FEL1CIS INVICTI A
V G V STI DECVRIA- LES AEDILIVM PLEBIS C ERI ALI VM DEVOTI NVM1NI
MAIESTATICHE EO- R VM. Trouafià Roma vn gran marmo
antico fcolpitoin otfmzion honorc della madredegli Dei,douelì fa mentione
del- * cibele Taurouohum,& quiui lì vede l’imagine della Dea
co- ronata d’vna Torre con vn tamburo nella man manca
appoggiato fopra alla fuacolcia,& con la ritta tiene cer- te
fpighe di grano, à federe fui fuo carro tirato da due liooi,&
accompagnata del fuo Atis, che tiene vna palla in mano, & cappeggiato
à vn Pino, come albero con- F 5 90
DELLA RELIGIONE Carro de la madre
de gli Dei , ti- rato di duo leoni.
Dichiara- tionedel'in fegna de la madre de gli
Dei. {agrato arale Dea, à caufa della monragnad’Ida, eh
ciò Candia, òdi quella di Frigia, abondantifiime ambedue
diPinij&doue cllac adorata principalmente per Dea,' & dedicatele
le Pine, onde Marciale ha detto di quelle parlando, Toma
fumus Cybeles. Ma quanto à i due Iioniche tirano il Tuo carro
,co-. mefcriuc Virgilio, Et iunBi rerum dominai
fubiereleones. voltano i Greci lignificare, che non fi troua cofi
Acrile terra,chc ben coltiuata,non diuenti fertile & buona. La
torre lignifica leCitta & edifìci j de quali la terra è orna- taci
tamburo la mondezza della terra, benché alcuni veglino che ciò lignifichi
i venti rinchiufiui dentro, & le fpighe,ch© la terra fola è quella
che nutrifee l’huomo. Figura .u ■ :• '• :•> h
. ' it j . . \ 9J®.: -, 3 A
trt, ,Ou u;j . . . ;ì. ‘ A .w y.
LA «... uidy. . adX > m ri </ a r»
fi il . ■ J . ri
Vf.TOJ tOplI ini r.twyt ^ •* . u Yiai n
i.ir^u cTonorl li : ;j v £ i , j.T .v vii./r ,
rr/tarV;ioi f! - •> J *. ■ i V • ... ...
; . • V'-vi - j *- *'y ^ 1 '-i ‘I • •
DE GL' ANTICHI ROMANI. in
FJG y R A~ D E LA MADRE DE I DEI R I 7 R ATTA del marmo
artico, il qual fi vede in Roma ntll’ecchiefa di S.Sebafliano.
M. d: M. L ET ATTINIS L. CORNELIVS SCIPIO
OREITVS V. C. AVGVR TAVROBOLIVM SIVE CRIOBOLIVM , FECIT DIE
IIII. KAL. MART. TVSCO ET ANNVLLINO COSS.
Cibelt tOf- riU. Nell’altra medaglia pure Greca
li vede da vn lato Cibelc torrira,& dall’altro il folgore di Giouc
con al- tre facttc, la quale c tanto vecchia & frulla, che non
lì c potuto cauare alcun fenfo delle parole Greche.
Meda Vari I nomi de la madre dei Dei.
Diana con- feruatrice, adorata in Sieilia.
Chiamaronlagl’antichi madre degli Dei, perche in guifadi
madreche nutriteci figlìuoli.la terra limilmcn- te nutrilcetuttigrhuomini
& animali del Mondo, coli dice Furnuto.I «Greci & Romani le
dettono più nomi & attribuirne diuerfe virtù.chiamandola Cibelc,
Cere- re,^ Terra,Prolcrpina, &fecondo Lucretio, madre delle
beftie. Veda, &Diana:il che li vede & conferma per due medaglie
di bronzo Greche, ncll’vna delle quali c Dia- na da vn lato con quelle
parole, 2 atei p a, & da l’altro il folgorc,dcdicatole cornea Velia
,& limili parole x i aeqi a r a ©ojc a e n 2, ci oc , medaglia
battuta dal Agatoclc in honoredi Diana confcruatrice.
Nel tempo, che io Faceuo quello 33cor|oi mi
fumo mc faglie clonate alcune medaglie d’argento, di quelle, che viti-
doro & inamente furono trouateà Reims, tutte quafi di Seuc-
trouute°t ro,di Giuliani CaracaHa,di Geta,8t diMacrino. Et per-
chcrracfleio netrouaitrc,doue livedcCibelc convnfolgorc in mano,& à
federe fopra vn qucflc parole , ind mi cparfo non fuora di
fotto. L’vna. GLIA GRECA.
bronzo. « ■ . V «A
» i 5>4 DELLA
RELIGIONE if pino con- L’vna dell altre due medaglie e dì Giulia,
nella quale madre dc*i ^ vc< ^ c Cibclc tortila in compagnia di due
lioni & àfc- Dd. dere fopra vna Tedia con vn ramo di pino in vna
mano, & nell altra lo fcctcro,chcclIa appoggia fopra il Tuo
tam buro,3c lettere che dicono intorno ,mater devm. Il medefìmo
rouefeio nella medaglia di Fauftina e quali del tutto foni iglianteà quello.
ARGENTO. BRONZO.
Figuro MED. DI C. VOLTEIO. ARGENTO.;
ANTO. Pio. BRONZO. p JJ ■ ' ■'■W
■■ DE GL’ANTICHI DOMANI.
Figurornoanchoragl’antichiil lìmulacro di quella Cibcìe con vn gran
numero dipoppe,fignificando‘ che cllanutricaua tutto il Mondo, con vn a
torrefalla tefta, due Honi Copra i bracci , & diuerfr animali
incorno, produtei da lei come Dea della Natura, & di più due
ccruie ài piedi, che moftrauono che Diana, & quella erano
vnamedchmacolà.Ncl qual modo nonhd mot- to tempo che ella fu ricrouata in
vna grotta ancichiflì- maàRomadadipinturadellaqualemi donò altra
vol- ta M. Antonio Fantuflì dipintore Romano, la quale io ho polla
nel miolibro de la Natura de gli dèi , per dame la villa à .gli amatori
dell’antichità. Furono tutte quelle forme attribuite à Dianacondiuertì
nomi di triforme, come per il tellimoniodiPaufania la chiamò
Alcamc- nc:& Virgilio, dichiarandoci che in cielo lì chiamaua
Luna, in terra. Diana,& nell’inferno Profcrpina , coli laf : ciò
fcritto, Tergeminamque Hccaten>trU ùrginìs or a Tfidnx.
Et perche la figuradi Diana, ritratta da vn marmò antico,!! vedrà
meglio nelnollro primo libro dell anti- chitàdiRoma, io non nelcriùero
qui altro , ma fola- mence dirò come fotto la deità & nome d’Hccate i
più ricchi Romani foleuono ogni mefe far facrificio à Dia- na,
mettendo fopra i canti delle llradc della Città, pane & altre
cofe,chcfubito da ipoueri erano leuaje via , co- me fcriuc Ateneo,
llimando che Diana, la Luna, & Pro- ferpina fodero vna mcdclima
coCa. Hauendoà baftanza parlato di Diana , & defìderan- -
do venire alladcfcrittionc degli altri Dij, comincieremo da ^inerita* la
quale fccondoi Poeti, nacque.de l capo diGio 55
Dea di m- tura. Diana tri-
forme. Paufinid. Virgilio. Sacrifìcio
fattoi Dia na fotto il nome di He tate. Ateneo.
MINER- VA. 96 DELLA RELIGIONE
di Giouc, pcreflcrcrintcllctto collocato nella certa dell* huomo.
Armaronla oltre à quello gl’antichi d’vno feu- do, nclqnalcera il capo di
Mcdufa,moftradochcrhuo- mo fauiodcbbecon force animo & intrepido vifo
refi- ftcrc aU’aucrficà,& à nimici.il pennachio che ella hauc*
ua fopra al morrionc , fignificaua rornamenro di tutte lefciczc,
&cofcaItenclccruclIo dcH‘huomo:le tre vedi differenti l’vna
all’altra, che la Capienza debbe clferefc- grcta,&l'hafta che ella
haucua in mano, che l’huomo fauio guarda, con fiderà, & batte di
lontano & con van- drdicXt*! taggto. Mala Ciuctta le fu dedicata (come
habbiamo Mintrtu. detto) per moftrarcche la Capienza cuopre con le
tene- bre il fuolplcndore-.i qualitutti lignificati pare chedcf-
criucffc affai bene Ouidio nel Certo libro della fua Mc- tamorfofi,
quando dille, ^t fili datelypeumjat acuta cuflidis hafiam,
Datgaleam capiti, defendituragide pettus, ‘PercuJìa'mejuefua
fimulàt decufiide ferrarti. Edere cu mi; accia factum canentis
oliua , Jrfirartque deos «perù vittoria finis. Minmu
Scriuc Varronc che Mincrua fu quella , che fondò ie untoti Atcne,&
per ciò fu chiamata, aohn a quafi idxraìoe rrdfOt- i- Atene. r e, che voi
dire, vergine immortale, àcaufa chcfcomc fcriue Fulgentio) la
ìapienza non muore mai. Di qui ha voluto Porfirio dire, che Mincrua none
altro che la vir- tù del fole, mediante la quale lafapienza entra &
pene- tra dentro alcuorcdcH’huomo, là onde nafcendodalla
fommkàdcU’aria : però fi vede che i Poeti hanno finto che Mincrua c
vfcitadelcapodiGiouc. I Filici dicono chela virtùintellccciuaècollocata
nel cerucllo deliquio DE GL'ANTICHI ROMANI. *7
mo,comc denrroalia principale fortezza del redo del corpo.
Chiamaronla Umilmente gl’antichi Bellona, BrBofl4 cioè Dea della guerra,
lignificando chei Soldati debbo- d « * u no non fidamente edere del
continouo armati Spederei- S* frr <- caci, ma proueduri di configlio:
&rprima chccominciarc vn imprcfa,cdàminarc molto bene le forze del
nimico: quello che confermò anchora Saludio dicendo, che ei bifogna
prima configliarfi,& doppo il configlio, & la deliberationc fatta
mandar predo ad effetto ìlfuo dife- gno.Lacaufà perche gl’hiftorici
l’hanno fatta fondatri- ce d’Atcnc, è, che dicono che nafccndo difeordia
tra lei & Nettuno, di chi douede porre nome alla Città, gli Dei
fimedono in mezzo per pacificarli, &giudicorno che Ncttu- qualc di
loro due produrrebbe cofa piu vtilc alla detta Vaim terra, quello le
douede dare il nome, per il che pcrcoccn- do la terra, & facendo
nafcerc Nettuno vn cauallo, & Minerua l’vIiuo,fu fententiato
chcl’vliuo, piu che il ca- uallo fodènccedirio & vtile alla vita
humana,& cofi re- do la Dea vincitrice, con attribuirle l’vliuo &
cdcrechia- mata Pacifera, come fi vede nelle medaglie di M. Aure- vulimit
- Iio,& di Commodo Imperatore. - 4 ut 1 q
ncrua. f • *. • T V ■ * 1 t\ e k \ ■ l A ,|f I. fi , *
. I .. '• •• 1 ■ • "• «f; IM ,1 - f . n
L M. AVRELIO. COMMODO.
BRONZO. Ttfle di mi Scriue Plinio che infino alfuo
tempo duraua ancho- ra la celcbrationc della fella & giuochi di
Minerua, tjuatria. chiamati Quinquatrij, quali erano, che i fanciulli
facen- do vacationc dalle fcuolc & da gli ftudij porrauono la
mancia ài loro maellri in honore della Dea,come quel Jache aiutaua la
mcmoriarciò che Quintiliano a! 1 1 1. li- bro^ nefuoi falli Ouidio
anchora meglio ha dichia- rato, quando ci dice, 'Pallata nunc
putrì tener a j ornate p nella: Qui lene placarit Palla
Ja,Jolhuerir. L’occafione fopradetta della difeordia di
Mincrua nettv- & di Nettuno, pare che mi porgea
conuencuolcmare- « n o. ria di ragionare anchora di quello Dio,il quale (come
il Delfino fcriuc Higinio) fi dipingevi con vn Delfino fotto il
dedicato ì piede 5 ò la "mano mancaappogiataui fopra, hauendo il
nettano, tric | enrc nc lJ a r j t ta , fi come dimollrano i rouefei
delle medaglie di M Agrippa. M.Agr
I 1 L DE GL’
ANTICHI ROMANI, M. A G R I P P A.
BRONZO. Fu Umilmente da gl’antichi dipinto Nettuno
con uettunodi vn Tridente & vna Acroftolia (ornamento antico di
galea) in mano , come fi vede ne rouefei di due mie te cr una medaglie
d’argento, l'vnad’ A ugufi:o,& l’altra di Vefpa* fiano.douc fono
lettere che dicono, neptvno redv- ci, in fegnodi ringratiare lo Dio del
felice ritorno dal- le imprefe nauali.
Acrojlolta dagli anti- chi. AVGVSTO.
VESPASIANO. ARGENTO. G z
100 ut -inai*
: DELLA RELIGIÓNE vufciiut 4t- Attribuirno
parimente grantichiii Tridente a Nct- mttuno 4 tuno,,n %no dello feettro
, & ancho per efl'erc vno in- perfetttro. frumento molto ncceflario à
i marinai, dipingendolo vna volta pacifico>& vn’altra adirato
,come fi vede per le medaglie di Pompeo doppol’imprela fatta, & la
vet- roria hanuta de Corlali, donc da vii Iato fono lettere, che
dicono, MAGNVS IMPERATOR ITERVM-.& dell’altro, PRAEFECTVS CLASSIS ET
O ilARITIMAE EX SENATVSCONSV MED. DI PO MP
DE GL’ ANTICHI ROMANI. ioi Io ho tra molte pietre antiche,
intagliate di diuerfc Ag<tu <m- forci, l’Agata di forco figu rata ,
nella quale è il mcdelìmo Nettunoà ledere, con vn braccio appoggiato
fopra vn tmo* va Co alta maniera d'vn fiume,& doppo quella vna
Cor- niolaanticadicolorcdi rubino, nella quale cvn Nettu- no fui
fuo carro, tirato da due caualli, nel modo , ch’egli tumori- è anchora
figurato in vna medaglia di M. Agrippa con rito dà <a - lertcrc che dicono
aeqvoris me omnipotens. AGATA. CORNIOLO.
M. AGRIPPA. arg e n t o. . v."“ v -
-m * .... VA
monete ioz N rtttmo i
fiutilo. DE LA RELIGIONE La caufa perche glancichi
dedicorno il causilo à Nettuno, fu,perchc ci fu il primo che trouò il
modo di domarli &frenarli, come dice Virgilio nel y.dil'EncidL
/ ungir eejuos curru geni tot fumanti a. <jue addir Frana f'eris ì
manilupjue omnes ejfundit babenat. Fanno vera teflimonanza di
quello, ’ Tarcntini, nelle quali da vn lato fi vede Nettuno
uallo,& dall’altro Taras fuo figliuolo fopra vn Delfino.
HÌppOCTé- tid. Confutili.
Nettuno in h entore di tutte del tuuigtr.
A iNettunocauanere recionoiKomanjgia vn tem- pio,comc fi leggein
Haficarnalco,&chiamaronogl’Ar cadi) il dì della fila fella
Higgocratia , fi come gl'antichi Confualia , nel quale tempo tutti i
causili > muli, & mule non erano in modo alcuno adoperati à
rrauagliare,' madai garzoni di Italia condotti à moftra per tuttala
Città di Roma con la teda coperta di fiori & ornata di ghirlande con
ricchi fornimenti. Scriuc Diodoro che Nettuno fu il primo che
trouò l’arte del nauigarc& didrizarc vna armata di marc,&
che D E GL’ ANTICHI ROMANI. 103 ' che per quello
ci fu fatto da Giouc Ammiraglio del ma- re^ di poi adoratocome Dio.Et per
le due medaglie, & vn Niccolo, figurate qui Cotto, vollono
glantichi li- gnificare che Nettuno haucua poflanza tanto in mare Ncttuno
^ quanto in terra,figurando vn caualloconla coda tor- gnordrima ta
& diuifà in due partidnfegno de iduc Elementi, l’vno (quale e la
terra) ripreientato dinanzi per il cauailo, & l’altro (qual’ è il
marc)difcgnato dietro per la coda in forma di Delfino.
ANTICO NICCOLO. Qi CREPERIO. GALLIENO.
* »o4 DELLA RELIGIONE Quando i Romani volcuono
moftrarc di ringratia- rcNettuno di qualche vettoriahauuta in mare, lo
facc- uono Scolpire nelle loro medagliedavn lacoconil Tri- dente^
dall’altro mctteuono vnaVcttoriafulla poppai d’vnaNaucmel quale modolofcciono
già fare Deme- trio, Augufto Ccfarc,Vcfpafiano , & Tito fuo
figliuolo. Imp.Rom. MED. DI DEMETRIO.
ARGENTO. AVGVSTO. VESPASIANO. ARGENTO.
ARGENTO. Ritor -
I E serv- ir API a
Machione DE GL’ ANTICHI ROMANI. 105 Ritornando à
gl’altri noflri Dij,& loro templi, altari & fimulachrijdiciamo
chcEfculapio Dio della fa nità,fu il primo chctrouò l’vfo della Medicina,
infcgnataglifor fc prima da qualche Dio flato innazi à lui. Quelli al
rem po di Homero fi vcdcchcnon era anchora flato collo- cato nel
numcrodegli Dei,cóciofìa che il detto Poeta fa medicare àPconcle piaghe
di Marte. Ma quadoci parla diMachaonc,figliuolo d’ÈfcuIapio,ci lo chiama
huomo Ma(hégj figliuolo d’EfcuIàpio Medico, chctrouò molti rimedij
figliuolo ncccflarij perla fanità dcllhuomo , & lo fa tato
eccellete in quella arte, che ci dice che rifufcitaua i morti .Dice Lat
Stantio. tantiochc Efculapio nacque di padre & di madrc,chcn6
fumo da perfonaconofciuti,& coli lafciato in mezzo à vn campo,&
trouato da certi cacciatori, fu dato i n guar- dia à Chironc
Centauro,chcgl’infegnò lar te di medica- renella quale vfarono dipoi
fempregl’antichi fino al tc- pod’Hippocrate,che la riduflc alla fua
perfezionc.L’ha- Kippocratt birationed’EfcuIapiofugiààRaugiacittàdi
Schiauonia, Umdu^a & dagli antichi chiamata Epidauro,doue ci
fucòfiigra- * pnfctno to, fattogli vn tempio, & vna flarua d’oro
& d’auorio per " f * le mani di Trafimcdc,cccclIcntiflìmo(comc
fcriuc Pau fàniajfculcorcdi queltcpo, &natiuo dcll’IfoladiParos.
^ef^iuio Eufebio nondimeno lo vedi &dipinfenel modo, che in
nedeiima- marmo bianco fi vede anchora à Roma,& in molte me
daglic & pietre antiche, cioè vcflitod’vn mantello alla do Eufebio.
Greca, con vn baflonc in mano, & fopra al quale(attor- cigliato d’
vna ferpe)pare che il Dio s’appoggi, nella ma- niera che io l’hò in
vn’altra belliffima Corniola, &in vno Niccolo, ritratti qui di forco
al naturale. G 5 .ori oia/ì
Jr ioc DELLA RELIGIONE ‘CORNIOLA ANT.
NICCOLO ANT. Tornato. Microbio.
I a Ciuciti dedicata ì Efculapio.
Significai™ la fcrpc (fecondo Fornuto) che fi come quelle fi
fpogliano & mutano la icorza, cofi auiehedc Mcdccichc riducono
gl’ammalaci dalla malaria alla fa- ttiti, rendendo loro vn corpo nuouo.
Altri voglionoche fi come la ferpe lignifica laprudcza,cofi bifogni al
buo Medico edere prudente circa alia finità d’vna perfona. Ma
Plinio rede vn’altra ragione, cioè che la fcrpc fia de- dicata à
Efculapio per edere buona a molte mcdicinc:& Macrobio dice che quello
e, perche la ferpe ha la villa fiottile, come bifiogna che habbia il
Medico nella cura d’vn infermo, &chc il battone fignifica,chcvn
huomo ammalato ha bifiogno di nutrimento che Io fiollcnga, in
modo,ch’ei non caggiaaffatto.EtEufebio,chcilba- ftonegl’è attribuito,
come quello che ^er appoggiarli e ncccdario à vn’ammalato. Fu oltre a
quello dedicata à Eficulapio la Ciuctta, lignificando che il medico
debbe edere vigilante più la notte che il giorno intorno all'in-
fcrmo.fi come lì vede ne rouefici delle medaghedi Nero nc,&di
Vitcllio. Nerone. DE GL’ ANTICHI
ROMANI. 107 NERONE. VITE L LrO. * ORO. BRONZO.
Vcdc(i anchoraà Roma nel mezzo del Teuero vn’I- foletta à
modo d’vna galeotta, cioè larga nel mezzo,lua- ga due ottani di miglio,
appuntata da bado , & piu larga di fopra, à modo d’vna poppacL’vna
naue:la quale Ifola fu già confagrata à E(culapio,doppo che il fuo
lìmula- cro fuilato condotto à RomafQttolafbrma d’vnalcr-
pc,òpiùtoftod'vnDcmonio:in honorcdcl quale fedo* no già i Raugei battere
monete con la lèrpc &: conlctre- re Greche, che diceuono epuat pio
N,la. quale Città (comclcriueLiuio)fufoIàmenre nobilitata dal
tempio d’Efculapiojlontanodaquellacinque miglia,douecon molte cerimonie
fu adorato come Dio. MON.
Simulacro d'Efculapù portato fa Roma. Moneta é i
Epidauri Quelle parole Greche attorpatop o
taaepia- •NOS, r A A A I E NO X , O TAAEPIA NOJ KAJXAPES.nOH
dinotano altra co(à,fc nonchcVaIeriano Imp.fccc bat- tere quella
medaglia con l’effigie Tua &rde due Tuoi figli- uoli Gallieno &
Va!criano J & i tre tcpli nel rouelcio con tali parole Greche, tpix
neokopoi nikomhaeon: lignificano chetrc guardiani de detti tcpli pregauono
pcrlafanità & falute(figurataperlafcrpe)dc fopradetti tre
Impcradori. iTP I C N t^KD k PvA-N
Nel Vittri di ThafiU.
DE GL' ANTICHI 1 ROMANI. io* Ncllhorto dcllachielàdi
S.BartoIomeo,che c ncll’l- fola nominata di (opra, fi vede anchora vna
nauicclladi pietra Thaflìa,chcè molto (limata per la varietà de
(uoi colori, nella qualcdavnlato fi vede (colpita vna ferpe, che
alcuni vogliono che fia delle reliquie del tempio già detto d’Efculapio :
&quafi Tempre nelle medaglie de gli Imperatori fi trouala ferpe con
la fanità,chc fiotto figura SANITA> d’ElcuI.tpiogli fa làcrificiorò
veramente la ticneabbrac- ciata, lignificando che da quello Dio dipendeua
la fani- tàfiola. Anton, pio.
BRONZO. M. AVRELIO. ARGEN TO.
M. AC ILI A. ARGENTO. ARGENTO.
Sono no Medaglio- ne din.
Aurelio trouato in JU ione. P ub. Vitto
re. DELLA RELIGIONE Sono forfcfei mcfi,ch’eflcndomi
portato vna vecchia medaglia di M. AureIio,ft:ata crociata nc fondamenti
del la vecchia zecca di Lione, mi e parfo di farla ritrarre qui di
fottoalnaturalc,pcrfarc meglio intendere àgl’ama- tori del l'antichità in
che modo,fotro colore d’vna ferpe, gl’antichi fingeuonodi fare facrificio
iEfcuIapio per le manidiMinerua,con vna tazza in mano coperta d’vno
vliuo.&dinazi la Vcttoria,chc porta vn’altra tazza pie- na di
frutte. MEDAGLIONI. M. AVRELIO. COMMODO.
Non fi potendo lenza la finità fare bene alcuna cofa, pare che
meritamente ella debbia haucre luogo tra tanti altri Dijril tempio della
qualefcome fcriué Publio Vic- tore)era nclvi.quartiere della Città di
Roma, quantun- que Domitiano le ne faccfTc edificare vn’altro piccolo ,
1 doppo il pericolo che egli haueua portato nella venuta di
ViteUioàRoma. DO. Ili
CASTI- TÀ. L’habitodi quella Dea con
l’imagine Tua, (colpita nelle medaglie di Giulia Pia, Donna di Scuero
Impera- tore, fu limile à quello d’vna Donna vedouaaflifafopra vna
Tedia con lo feettro in mano, & due colóbc appref- fo, lignificando
che come la colomba c bianca & pura, ^ fo/om _ coli la caftitàdcbbe
edere fenza macchiarla Donna da bt j imbolo bene
fcmplicc&purafimilmentc. dictjUu. gTvlia PIA.
ARGENTO. GL’ ANTICHI XOMANI. DOMITIANO.
ARGENTO. DELLA RELIGIONE Quelli, che hanno
dichiarata la Caftità, dicono che dtu cajli - ella c vna virtù, che
cfccd’vn buon cuorc:& piu torto co- fentc di patirc,chc fare atto
lontano dall’honcrto &dal- l'honore.Et le pure egli auicne che
cllafia forzata, non per quello riccue alcun torto, non fi potédo corrompe-
re il cuore accompagnato da vna buona indiamone & nutrimentoialla
quale (come cofa fimilmente chara & li ber P ret ' 0 ^ a )g^ an
fi c ^*^ cttcr0 P cr cópagna la Libcrtà,chia« T a. madola,comc l'altrc,
Dea, amata & cerca da tutti i begli ingegniionde ci non farebbe
polfibile di fcriucre à pieno lacontentczza di colui, che viuendo
liberamente lenza ambinone, fi contenta di quello checglihà,
ncconofcc perfona che per Pallidità de beni di quello mòdo (fotto-
poftiaU‘inuidia& alla fortuna) gli porta comandare, & farlo pervn
poco di bene incorrere ingrandirtìmima- li, quello che anchorapcr
Euripide c ftato dottamente Euripide. dichiarato,douc ci dice:
'Ham hberum effe, maximum dico bonum: Quoti fi quii ejl
pauper,puter fe diuirem. Et Cicerone ne Tuoi Paradofli dichiarando
la Libertà fimilmente dille, che la vera libertà non era alerò
chcpo Tempio di tere viucrecomc l’huom volcua.il tépiodi quella Dea
uberei. cra nc j m 5 tc Aucntino, ornato di molte ftatue &r cotóne di
bronzo, onde per l’orazione che Cicerone fece à i Pó- tcfici per la
fuacafa, fi conofcc come Claudio l’haucua conlagrataalla Dea
Libertàd’habito della qualeerad’v- naDonnacon vna Itola, òvn velo
addoflb,vn’haftain vna mano, & nell altra vn capello, folitodarfi àiferui,
che erano liberati da i padroni, quantunque alcuni altri habbino detto
che forte vna campana.* GAL. «5
Chequcfìocappcllofairein legno della Libertà(fì co il
cappella me io ho più chiaramente inoltrato nella fine del mio li
bro dell’antichità di Roma)lì vede nelle medaglie battu rein honoredi
Brutto libcratoredella Patri a,& di Ccfa- quidi fotto al
naturale. CALIGVLA. BRONZO: DE GL'
ANTICHI ROMANI. GALBA. ~ TRAIANO. BRONZO- ARGENTO.
cnc delia libertà nalcc la felicità, io accompa- FELICI
gneròqucltacon quella^ inoltrerò cornei Romani L- TA ‘ fcciono vn tempio
& vn’alcare,dcl quale fcriuendoPli- H - iM •
DELLA RELIGIONE , . nio dice che la (latua della Dea Felicità,crafl:ata
fatta da rufits! ° Archcfilao Pla(les,& coftata à
Luculloix.gran fcfter- tij, (limando i Romani cflcre all'hora i tempi
felici , & la vera Felicità regnare per tutto, quando i loro
Imperato- ri haucuono viuuto,ò regnato lungamente:quando ha-
ueuonogencratibci figliuoli,&foggiagati, & vinti i lo- ro
nimicijondclapaccpublica regnaua: quando fi feo- priua qualche tradimento
òcogiuratione contro all lm perio,& quando egli era abbondanza di
grano, ò le naui cariche di quello, & d’altre mercanzie arriuauono al
portod'Oftiaàfaluamento. FAVSTIN A. BRONZO.
BRONZO. CARACALLA. TACITO. ARGENTO.
ARGENTO. 4
DE GL’ANTICHI ROMANI. wj ANTON. PIO. SEV.ERO.
BRONZO. ARGENTO. Maqucllacla vera felicità quando la
Giuftitia regna in vn Reame, laqualefa che gl'imperatori, i Rc,& le
Re ^ia* 71 publichc durano Iungamente:ondegl’antichifoIeuono i
Principi dire che Giouc fenza la Giuftitia non farebbe potuto fta
reinciclo,nclaRepublicain piede pu re vn’h ora. E v la Giuftitia vna
perpetua & ferma volontà di fare ragione adogniuno, &viuédo
virtuofamente, non fare torto à perfona , rendendo àciafcuno quello che c
fuo. Della Giuftitia fono nate due leggi , l’vna publica , & priuata
Lfgg[ fUm l’altra. La publica c di por méte alla comunefalutc de-
blica&pri gli ftati,& la priuata è quella (come
anchoras’accordail uiU ‘ Iurifc5fuIto)de i particulari. Quella cóccrnc la
religio- ne, le colè fagrc,i Sacerdoti & iMagiftrati:& quella è
fon data fulla ragione naturale, ciuile,&: humana:della qua- le
fc piace al lettore di fapcrne piu oltre, legga Plutarco, v lutano.
doue,fcriucndo della dottrina de principi, moftra aflài: chiaramente
quantoprctioIa,fanta , Se ncccflariacofa è la Giuftitia :lacui forza è
tale, che ella regna in inferno (doue non èvirtùalcuna)quiuicflTendo cadi
gate le fcc- H » rr n:i
n* DELLA RELIGIONE leratczzc degli huomini fecondo i
meriti & grandezze loro.Quefla a Juque volcdo (colpire, ò
dipingercglan- tichija (aceuono con vna taflàin vna mano, che era
la gruatMgii r ‘ tta : & nella manca le dauono lo feettro , ponendola
à intubi u federe in vna Tedia nel modo, che l’hà figurata Hadria-
Giujìitia, no nc jj c f uc mC( J a gIi C- quelli che non hanno co-
gnitione delle cole antiche, l'hanno figurata nel modo, che fi vede hoggi,
cioè con la fpada & le bilancic,che fo - no propriamente le
infegne,con le quali foleua l’Equi- tà cflèrcdifcgnatadagl’antichi.
TIBERIO. BRONZO. BRONZO. I
DE GL’ANTICHI ROMANI. HADRI ANO- ALE X.M A M M E A.
»7 ARGENTO. BRONZO.
Che l’Equità folle dipinta nel modòdettodi fopra,& E
^ in luogo dilpadacon vn corno d’abbondanza, li vede ta. per
le medaglie di Gordiano & di Filippo, non altriméti che fi folle in
limile modo il fimulacro della Dea Mone rain quelle di Collante ,& di
Diocleciano,con lettere, che diccuono, sacra moneta avgvstorvm et nontuf
*- CAESARVM NOSTRORVM. fr< * GORDIANO.
ARGENTO. FILIPPO. BRONZO.
H 3 1 I
V* -vj * *. -'f O. J i /* «MITCJb MS DELLA
R E L 1 G I O N E COSTANTE. DI OC LETI A N O.
BRONZO. MED. D I T. A R G E N
— Volendo t»TlmpcracoriRomani dare cimorc ài talli £!$Z ficittori
delle mon'ete,hlccuono in quelle (colpire le ima perfori f, inj
lorojconfidciando che non e cola che piu ìmpedll- ZX. ca
l'abbondanza de iviueciin vna -Città, quanto la mo- ‘ inugini nel nc
rafalfa,aftcncndofi gl'huomini forcOicn di portami u lormonc ^ j oro mcrc
hantic:chec pure vn peccato troppo cnor- me,chcgrhuomlnifalfificatori(portando
fi gran danno all’vniuerfale per vno vtile particularcjcorrópino
quek lo che -irJP»
DE GL’ ANTICHI ROMANI. u* Io che l'ingiuria dei tempo, nela
terra, ne il fuoco non hanno potuto ne {apuro guaftare.Et di qui nacque
chei rrimuin Romani crearono tre huomini,da loro detti T riumuiri, * te
mone- fopraie monete con autorità di fare battere oro, argéto &
bronzo, come fi vede per le medaglie di Celare Dit- A
VGVSTO BH.ONZO. L'officio di Macftri delle
monete era di guardare,& fa reproua selle erano di buona
lega, prima che farle fta- pare,& poi ch'elle erano battute, selle
erano di pefo : on- d’io penfo che Aùgufto, volendo che quella buona
vfim za fi mantcneflc Tempre conia maelHdcirimperio Ro- mano, ^erò
lafirinflè a i Triumuiri delle monete quella autorità accompagnata dalla
poflànzade Tribuni, co- me fi vede perle medaglie battuteda M. Saluto
Otonc, CaioPlotio Ruffo, &diuerfi altri. t
■> UO della religione
AVGVSTO. ' BRONZO. BRONZO. Trouanfi
anchora molte altre medaglie lenza l'ima- ginc d’Augufto,per le quali fi
conolcc quello edere vc- ro,chc noi habbiamo fcritto qui di
fopra,&maflìmc per lcparole,chc accompagnate d’vna corona ciuica,
dico- no, avgvstvs tri bvnitja pot est a t e. & dal- l’altro
lato , AERE, ARGENTO, AVRÒ FLAVO FE- RVNTO. A V.GVST O.
~ BRONZO. BRONZO. Pc
GL’ ANTICHI ROMANI, l'cr i quali
tcftimonij chiaramente vergiamo che tale autorità di fare battere monete
, pcfarlc,& e {lami- narle, apparteneua anticamente à i Tribuni ,
& mafiì- tnc che tra le loro leggi fi trouano fcrittc cofi fatte pa-
hrggi (fr _ role, TRIBVNI SVNTO DOMI, PECVNIAM PVBLI-
ttnuirali. CAM CVSTODIVNTO, &! più baffo, AES, ARGENTVM,
AVRVMYE PVBLICE SIGNANTO. Erano tutti huomini da bene & virtuofi
quelli, à qua • li gl’imperatori concedcuono cofi fatto Magiftrato,
con pcrmifiìoncdi fare mettere nelle medaglie i nomi> loro, per
piùficurtà delle monetc,& perche il popolo conofirefie quando
&fotto quali huomini erano fiate battute.Pur nondimeno mancò col
tempo ( come fan- no tuttel'altrc^quefta buona vfanza,& pallate le
meda- gliedi Claudio & di Neronc,non fi trouò neviddepiù
l’Equità dipinta con la bilancia in mano. BRONZO.
NERONE. BRONZO. Soleuono tutti i
buoni Principi & Imperatori Ro- mani vifitando le Prouincic fuggette
alloro Imperio H 5 ua DELLA RELIGIONE
fare lcrcparationi per tutto doue erano neceflàrie,& fo- pra
tutto liuiHtarc Je monete , & farne battere dcllc : nuouc per le
Città principali in ogni regione. Ciò che strabane, conferma Strabonc,
quando ci dice, che i Principi Ro- mani lèdono battere monete d’argento
& d’oro nella Luigixm- G*ttà di Lioneda quale cofa imitò Luigi mi.
Impera- perutorc 4 . tore & Principe virtuofo & bellicolb, amato
da tutto il Rrdì ma mondo, quantunque sfortunato fi
trouafleneH’imprelà che ci fece in Vnghcria. Somigliò molto quello
buon Principe Hadriano Imperatore, con ciò lìa che ei fece-*
a#aiviaggi,&nominòlcterrc principali, che egli hauc-ì ua rillaurateal
fuo tempo nelle fue monetc.Et ficomei buoni Principi Romani ficeuono
fcolpirc le* infegne della Religione nelieloro medaglie,colì quello
religio- fó Imperatore mctteua nelle fue monete da vn lato vn
tempio con la figura d’vna Crocc,& parole che diccuo- no, c hristi an
a re Li ciò. & dall’altro , vna Croce maggiore con qucllcaltrc parole
> lvdovicvs impe- rator. MED. u
.>/{ avi ■ a«.v- <■- ’ V * - . • ^ •
DE GL ANTICHI ROMANI. 115 MED. DI LVIGI
IMPERATORE 1 1 1 iT RE DI FRANCIA. ARGENTO.
Non è molto tempo éhc vn lauoratore di terranei vafo piena paefedi
Lione, trouò lauorado vnltio campo, vicino à vna tcrricciuola chiamata
Anfa,vn gran vafo di terra troultoa'p- pieno di medaglie d’argéto del
detto Imperatore, delle quali(haucdoncio vnaparte)mi e parfo non
fuora'pro- Uour ' polito di moftrarne qui di Lotto lcflempio al
Lettore. ~ MONETA DI LVÌGÌ IlÌL ' ‘
Mone li 4 DELIA RELIGIONE
MONETA DEL MEDESIMO. ARGENTO.
tini A' ri. c icerone.
Volle quello magnanimo & virtuolo Principe (coli valorofamencc
operando, & facendo officio di pio & catholico) moftrarcà i Tuoi
fucceflòri in che modo fi debbe imitare la virtù, honorare la memoria de
gl'anti- chi, portare riucréza alla R cligionc,tcmerc Dio, &
ama re la Republica& la Patria: Quello, che anchora ci ha
infegnato Cicerone dicendo, nel fuo libro della Natura Diffinitio i-
degli Dei,chc leflcrc pio none altro che la riucrenza w dì vut*. c | ie
no | debbiamo hauercà Dio, à i noftri maggiori, ài pitturi de parenti,à
gl amici,& alla patria. Quella virtù fu dipinta da Antonino Pio in
habito di Matrona, ò dona vedoua conia fua verte lunga, vnturibulo in
mano, chiamalo da i Latini ^cerrafic dinanzi vnaltarc cinto d’vn
fefto- nccol fuoco accefo pcrfacrificare. Antonino
Wt -r.'- . JWjr . ' £ -pr • Xttrr 4.
onci/ DE GL’ANTICHI ROMANI. 115
ANTONINO PIO. HADRIANO. BRONZO. ARGENTO.
diariamente nel libro della Cita di Dio, dice chela vera pietà non
è altrochel’adoratione d’vnfolo Dio,creato- re del ciclo & della
terra, ribattendo & dannando l’op- pinioni de gl’antichi Romaniche
cglihauclfino inRo- ma(comc afferma Prudcntio)tanti templi
&alcari,quah indenti*. ti penlàuono edere Dij nella Naturaci che
tutta volta fivcdechcnalceuada buona intentione, facendo que- llo
per religione : della quale cofa ci fan fede le meda- glicdi Giulio
Ccfare, di Pompeo, d’Augufto, di Vclpa- ln f egnt ^ lìano, d’Hadriano,
d’Antonino Pio, & di Màico Aure- l* rtii&io- lio,pienc d’antichi
inftrumenti di religione, come d’vn cappello,d’vn lituo, d’vn
prcfcriculo, d’vn fimpulo,d’vn coIccllo,chiamatoiVr^//vr,di taze &
validi molte fort£ dequah (come cofa aliai nota) non bilognagià fare
più lunga mcntione. j - GIV.
ANTONINO PIO. M. AVRELIO. argento.
Argento. PtlUdioii Da l’atto pio di religione, venendo à
quello che fi Tnia. debbe vfareinuerfo i padri, noi ne faremo qui fede
per lemcdaghe di M.Herennio, che portò fuo padre Tulle
fpalle,& per quelle di Cefare,doue fi vede Enea, che fi- milmente
portò Anchife nel medcfimo modo, portan- doin manpil Palladio di
Troiarondc Vergiliolcrifle, ^At t>w ^ÀeneAs. M.
HE- DE GL'ANTICHI ROMANI. 12.7
M. HERENNIO. GIVLIO CESARE. ARGENTO. ARGENTO.
Quello medefimo ateo pio pare che habbia concefi.
Co la Natura infino à gl’animali bruti, onde veggiamo che la
Cicogna fofticne & nutrifee il padre & la madre vitti di u nella
loro vecchiezza: Cofa da farebene arroflìre , & c,f0 £' w *
vergognare gl’ingrati, che rendono male per bene ài loro
benefattori:& da fare adirare infino à Dio, al quale temendo anchora
di non difpiacere i Romani, fi vede vieti di che fumo amorcuoli &
grati fimilmente ne i proprij fi- «<« » nfa gliuoli,& maflìme
Antonino Pio,nel rouefeio d’vna medaglia, nel quale fi vede la Pietà con
due figliuoli in braccio, & due altri ài piedi:Et nelle medagliedi
Domi- na, & di Sabina moglie di Traiano fi vede anchora la
Pietà figurata in diuerfe maniere. Anton. i
~ ‘ AV - ÌJÌ3K
fcl & * l»,° ì'r*
iz* DELLA RELIGIONE ANTON. PIO. M. AVRELIO.
BRONZO. DOMITI A. ARGENTO. ARGENTO.
S A BINA. bronzo.
' .Tv DE G’LANTICHI ROMANI. izp Per
le medaglie battute di Titofigliuolo di Vefpafia - no, fi vede la Pietà
che mette inficine d’accordo i duo fratelli Dominano & Tito, dandoli
la mano l’vno ali ai tro,pcr mofirare l’amore, il quale debbono duo
fratelli portare I’vno all’altro. TITO.
B R O N 2 0. ma.
Vlinio. CLE- MENZA. Era il
tempio della Dea Pietà in Roma, fatto da At- t mpio di tilio fulla
piaza,douc era fiata la cala di quella figliuo- ******** la, che haueua
già dato la poppa à Tuo padre in prigio- nc,conIafua
fiatuachcriprcfenraua latto piccolo vlà- to da lei, & col
quale(comcdice Plinio) non fi può fare comparatione alcuna.Et perche
dalla pietà nafee lami*. fericordia& la clcméza,hò giudicato. non
fuora di prò- poficoaccópagnarecon qucfti eflcmpli la cella di Giu-
lio Celare(comc quello ched’humanicà&di clemenza pafiò tuttii
Principi del mondo) ftampatain vna meda- glia di Tiberio , aggiugnendoci
vna Temenza antica degna d’efierclcritta con lettere d’oro, fi come era
in vn BcUifiima marmo, che diccua ,nihil est qvod magis ftntmùu
I 1 130 DELLA
RELIGIONE DECI AT PRINCIPEM QVAM LIBERALITAS ET
ole menti a. Etnei vero,non è cofa nel mondo piu E retiofa
& piùconueneuoleà vn Principe che la libera- ta & la
mifcricordia. TIBERIO. BRONZO.
V I T E L L I O. ARGENTO. Da quelli
atti pij inuerfo la rcligione,il padre, la ma- drc,i parenti & la
Patria,proccdc poi l’eternità de nomi di coloro, che fono fiati tali,fi
come ci hanno dimoftra- to i Romani per ifimulacri delle loro vcttoric,
perle fcftc & giuochi fccolari, penanti magnifichi & ricchi
templi &cdifitij, ne i quali faccuono fcolpirc f Eternità come vna
Dea in habito di matrona, con vn’hafta nella man dritta,& nell’altra
vn Corno d'abbondanza, & il pie manco (opravnglobo.Alcuni altri
l’hanno figura- ta con due teAe in mano, fi come fi vede in vna
meda- aliad'Hadriano, ° Tito / #■
D E GL* ANTICHI ROMANI, 131 TITO VESPA.
FAVST1NA. rii. Et Filippo Imperatore riprcfentò l’eternità
ne i fuot giuochi Secolari fopra vno elefante^ quale fignificaua
vna longa & cjuafi eterna vita. I Romani la difpinfero con duo
elefanti, & alcune volte conduolioni cnetira- uono il cirro de
glImperatorc> o Imperatrice eh crano> fiati deificati.
W I x DE LA RELIGIONE 7
LA TER- RA. Gl' titubi
ftcnficaut noi la ter- T4.
: TJt GfVLIA PIA. FILIPPO. E*
certo,cofa molco difficile (confìderato il numero fìgrandedcgli Dij antichi)
di potere crollare Je meda- glie àpropofito di cutrùpurc fermando la mia
imprefa, io m ingegnerò di ripreientarci tutte quelle, nelle quali
furono figurati gli Dij.ò Dee à modo loro, che portor- noqunlche
vrilcalIJuimana natura, come la terra, alla qualcfc ono vn tempio, &
in luogo che a' glabri Dcifà- crificauono con l’inccnfo J & altri
buoni odori, à quella face
DE GL ANTICHI ROM ANI. 133 fàceuono fàcrificio de femi, eccetto
che delle faue, & al- tre colè aromatiche : là onde per la medaglia
che fece ftamjxtrcCómodo in honorc della tcrra,fi vede che ei la
fece a giacere in terra mezza ignuda , come cola ftabilc con vn
braccioappoggiato (opra vn vafo,dcl quale efee vna vite,&con Tauro
ripofà fopra vn globo celefte, in- torno al quale fono un. piccole figure
che le prefenra- ' no TvnadclTvuc, l’altra delle fpighccon vna corona
di fiori, l altra vn vaio pieno di liquore,*: l’vltimac la Vct-
toriaconvnramodi palma & lettere che dicono, te l- tvs stabilts,
lignificando che tutte quelle cofechc la tetra produce/onoper
lavitadelThuomo. MEDAGLIONE CO M
MODO. Perhaucre affai lungamente trattato delle feite Ce- C
e r e* reali nel mio libro dell’Antichità di Roma, io non nc RE *
parlerò qui altrimente, contentandomi folamétc di met tcrc innanzi il
rouefeio della medaglia di C. Mcmmio c nummi» Edile Curulc, nella quale
fi vede Cerere che hà in vna ^naltQt mano tre fpighe,& nell'altra vn
torchio accefo, &il pie rc»u. manco fopra vna ferpe, con parole che
dicono , mem- I 3 ' *34 DELLA RELIGIONE
MIVS. AEDILI5 C £ R. £ A L I A PR.IMVS F E C I .tJ Ma per
altre medaglie tanto diVoltcio,chedi Panfa, fi vede femprc Cerere con due
torchi nel fuo carro, tirato da due lerpi.Etin due altre medaglie fi
trouacon la ve- de alzata, con due torchi, & à i piedi la manica di
Tara- ti porto co tro,& nell’ altra ilporco,òla porca, che gli
antichi le fo- enrere. * Ictiono racrificare,pcrchcguada le biade: onde
Ouidio haferitro, Prima Ceres grauid* gauifaejì fanguine
porca, i Ulra fuas merita cade nocentu opes. debutiti ^
comc cra p cr mcdh d’ammazare il porco, coli era fcfo fra li proibito
d’immolarei buoi nellàcrificio di Cerere, per- Roawni. chelauorano Se non
guadano i beni della terra, onde ouidio. Ouidio xiel 1 1 1 1. de Fadi
fende anchora, kA bone fuccintti cultros remouete minijìri:
%os aree, ignauamfacrijì care fuem. lAptd mgo cern ix non efl
ferienda fecuri: ZJiuaCi&J in dura fape laboret humo. *
« Ve. ME MED. h Óf>ì
» » ùueihi Cerere e la Pace, con ciò
lìache la guerra porga impedimento al lauoratore di coltiuare&lcminare
i campi, eflendo conrtretto di fug- girli &faluarc dentro ài
bofchj.,0 fu per i monti i Tuoi beftiami. Quello che Umilmente ha bene
fcrittoOui- dio nel u n. deludi Farti, doucei dice, Pace
Cerei Uta \os orate coloni . ‘Perpetuam pacem,pacifì cum <jue
Z)eum. EtTibullo quel medelìmo nella x.Elegia>
Intere a pax ama coldt,pax candida p) Z)uxit aratura fub tuga
curila boues. Et poco piu difetto, ‘Pace bidens fornir
yue Vigent-jit trijtta Stillini in tenebra occupat arma
Jìtics. Quando gl’antichi dipingcuono la Pace col Cadu- ceo,
vi aggiugneuonolcfpighcdigranojil corno d’ab- bondanza, lignificando che
la Pace era quella,chcf ce- lia multiplicarc il grano & le frutte per
la vitadcU'hua- i ■ , - \ I 4 uloitioJ -
PACE. L4 guerra contraria à Cerere.
Ouùlio» ’i h t%J*v Tibullo »
BACCO. Il buco fi reificato , Bieco.
i3<r DELLA RELIGIONE mojondc il raedelìmo Tibullo
nella x.Elegiaparimen- tc dille, ^irnobispax alma
y>eni,Jj>icdmejue tenero, ‘P erfluat pomis candidai ante
[mot. OTTO. ARGENTO.
VESPASIANO. ARGENTO. Et lì come Cerere
haueua la corona di ipighe per in- fegna,& per vittima la T roia,colì
al atdrc Libero, altri- mente detto Bacco, lì ponetiaintcfta Ta corona
d’Ellcra, & il becco à i piedini quale gl era £acrificato,perchc
gua- ita le vignc,ondc Virgilio dille, Saccho caper omnibus
ari* Caditur. Et nel rouclcio della medaglia di Molò lì
vede vn faccrdote col Tuo habito innanzi à vn’alrarc riucllito d’vn
fellone, che con vna mano tiene il Jituo,&: con l’al- tra il lìmpulo
con vn becco innanzi,tcnutoda vnmini- llro per lacrificarlo.Etio tra
l’altrc mie cofc ho longua- menteferbato vna Corniola antica, nella quale
c vn Sa- tiro , che conduce vn becco fuiralrarc,doue e il fuoco
aCccfo per lacrifìcarlo allo Dio Bacco. Corniola
DE GL* ANTICHI ROMANI. «57 CORNIOLA ANTICA.
f 'Wm. ir ■ Ma perche di Bacco in
diuerfe manicre,come farebbe à dire, in for- e «to'. ma d'vn fanciullo
che abbraccia vn grappolo d’vue,& vn'altra volracome vngiouane co vn
ramo di Pino, nel modo che fi potrà vedere nel libro, che io ho
comporto in Latino delle Imagini de gli Dei antichi:però mi e par
fo di ripreientare qui al naturale il piccolo Bacco di bronzo,chc
ioguardo(comc cofa fi ngu la re & arti fitio* f à)tra le mie
ftatuc & medaglie antiche. ■ l'iCLOLO MMOLACRO DI BACCO.
d’antichi lo leuono dipingercilfimulacrò .
Ciltuv. il V i 3 8
DELLA RELIGIONE 5 Vogliono gl’ancichiffigurado Bacco in quello
modo) lignificare che vn'huomo troppo fuggetto al vino,diué- ta
limile à vnfanciuIlo,chcnon fa quello clic fifa. Tro- uomi anchora due
Niccoli antichi, i quali riprefentano quello Bacco ignudo con vnbaftoncin
manometto da i Latini Tyrfo,& nell'altra vn grappolo d’vuc,&
intorno kMcIto' a ^ r,lcc *° vni P e ^ c di Tigre, animale
particularmentc Bièco. 0 4 confacraro à Bacco.Et quanto alle Baccanti , ò
Bacchi- dc,o Mimalonidcschc cclcbrauono la fella di Bacco, io ^ ne
metterò qui fotto l’eflcmpio d’vna medaglia Greca, & M ,
chegiàmi donò M.Giulio di Calcftan da Parma ,gran- - • • diflimo amatore
delle cole antiche idoue da vn laro c Bacco incoronato d HeIIera,&
lettere Greche, chedico- nó avì un, cioè libcro,& dall’altro fono le
Baccanti,chc ballano, facendo vn prclcntc à Dionifio (chccofi ancho
ra era chiamato Bacco)con vn fuoco, in fegno di facrifì- cio , &
lettere che dicono aiowvio acpds. che vuol dire, Donod Dionifio.
• ••••’. .• • » i ,* * *" , NICCOLI ANTICHI.
Medaglia DE GL’ANTICHI ROMANI. m MEDAGLIA
GRECA. ARGENTO. Et per glabri due
medaglioni di Bacco porti qui di fiotto, dequali vno e di Nerone, &
l’alerò d’Antonino Pio, fi vedrano lefefte Baccanali, &vn Bacco nel
Tuo car buccmmIì. rotiraroda d ue Pantere (animali dedicati à lui)
accom- pagnato de Tuoi Satiri con tutto il Tuo mifterio : &
qual- che volta per due tigri, comcdice Propcrtio , parlando
d'Ariadna rapita da Bacco, Lynciius in c*lnm \c&d \ArUdna.
tu'u. Et per le medaglie di Filippo &di Gallieno fi vede
anchora il tigre, il qual ripreienta Bacco, con lettere che dicono
, LI BERO PATRI CONSERVATORI A VQV- - sti, rimettendo il lettorcal
mio primo libro dell’An.- '■ 1 tichità di Roma,doucpiù lungamente io hòdifeorfo
di a J querti Baccanali. , » . V , ME ' - 1
. ’» -UXjdij'V j-ci'id t ~ ■ . r.< u OtX-.èi^'ì tipi - • é
a *•,. . ■; ‘.n ;h»>» -vr fc?o<t 4 - k
140 V km
LIBERA- LITÀ. XAuitdeU
Oberatiti. FILIPPO DELLA
RELIGIONE MEDAGLIONI. NERO. ANTONINO PIO.
Si come daCcrerc]& Bacco nalce l’abbondanza d’o- gni cofa,cofi
dall’abbondanza dipende la liberalità, Dea delidcrata & cara acuito
il mondo , la quale tira à le il cuore dcH'huomo.comc la Calamita il ferro,
tanto che lìnoà quelli che habitano nelle eftreme parti del mon- do
per la loro liberalità ne vengono lodati, anchora che non lì fpcri cofa
alcunadaloro:!! come vituperati &in poca Rima fono quelli , che fono
tutti lepolti nella loro GALLIENO. BRONZO
141 DE GL’ ANTICHI ROMANI.
auaritia.Là onde fé noi porremo ben mente allo fplcn- Liberalità
dorè della liberalitàdi Celare, d’Augulto, di Tito,di Vef pafiano,di
Traiano,&d’Alcflandro di Mammca,trouer rcmoch’ei dura infino a hoggi,
ne hard forza il tepo che fi fponga mai : della quale cola fé alcuno
dubicalfc, va- da à leggere Tranquillo, & vedrà come Auguftohauc-
sartorio ua per vfanzadi diltribuirc fpefl'o al popufo Romano
vnagrandiffimafommadidan«iri,dai Latini chiamata Congiarium , da Tofeanila
mancia, & dai Franccfi larghe zarlc quali quando fi dauonoà i
foldati, fi chiamauono Donatiuojcomc fi vede in più luoghi nel libro di
Taci to,douc parlando di Cefarcgiouanedice,0»^/Wr///»7^.
pulo,Z)onariuHm mtlitibus iedit.'Hc mai mancòquefio li- beralifiimo
Principe nel Tuo Imperio, che palio cin- quanta anni, di donare quella
mancia, dilhibuendot.il volta xxx. piccoli feftcrtij per huomo , altre
volte x l. & altre volte, e CL.comediceSuetonio , tantoché
non crafanciullo(purccheci pallafic xi i. anni) che non ha- ueffe
qualche colarla quale vlanza fu conferuata da tut- ti glabri Imperatori
buoni &cattiui,chc voleuonoha- licre lagratia del populo Romano ,come
fi inoltrano le Medaglie di Commodo, di Ncronc.di Tito, di Traia-
no, d’Hadriano,d’ Antonino Pio,di M. Aurelio, &: dimoi ti altri, i
quali tutti farebbono tropo lunghi à raccon- Congiario
. Liberalità di Augufto Ce fare.
tare. TI IV
t/i liberatiti di il. Aure Ito
. Pittiti* de U Liberati ti. TITO.
TRAIANO. BRONZO. RRONZO. La
maggioredillributioncnon Ci faccua croppafpcf- fò,mala minore fi
benc,comchà {cricco Succoniordalla quale liberalità cofi
vfacainuerfoilpopolo,nafceua che Ipefio finoà i cacciui Imperacori erano
màtenuti in ilia- co &difefi da lui,& da foldaci nella pacc,&
doppo hauc rcccrminaca qualche pericolofa & difficileimprefa,
nel quale ccmpoquafiordinariamcnccdauono quello con- ciario, &
faceuono quello donaciuo. Onde era le mie medaglie io in ho vna di M.
Aurclio,doucfi vede che egli baucua vlaca quella liberalità già fecce
voice, figurando nelrouefcio di detea medaglia la Liberalicà,vellita d
vna velia funga,. come falere Dee > con lettere che dicono,
liberalitas avgvsti s epti m a. nel modo che anchora fi vede nelle
medaglie di Gordiano minore, & Tacito Imperatore con altre limili
parole, cioè, li b e- RALITAS AVGVSTI T ERTI A ET QVARTA, CÌÒ
che anchora fccionoin vna altra maniera Filippo il pa- dre &
figliuolo, come fi vede per le lor medaglie pólle qui appreflo.
M.Au DE GL’ANTIC HI ROMANI.
*43 M. AVRELIO. GORDIANO. BRONZO. BRONZO.
tt nella medaglia a Adriano &: d’ Alcflandro Seuero Liberatiti
fi veggono ìin.figurc, onde la maggiore è quella dell’- dl 0 Had J]ff Im
pcratoreà federe fopravna Tedia, con vnruotolodi [miro. * carta in
vnamano,& con l'altra moftra di donare qual- che cofaà vno,chc fi
prefenta innanzi àlui:la qualità & Comma della quale,parc che
fia figurata per i punti, che fi veggono notati nel rialto doue ci tiene
i piedi,! quali fa cilmente potrebbono cflère il numero de
feftcrtij:& l’al- tro FILIPPO PADRE.
FILIP. FIGLIVOLO. i44 DELLA RELIGIONE
trochemoftradilalire, e colui che riceuc il donatiuo conlimaginc ritta
della Liberalità da vn lato, che tiene vn Dado in mano con limili parole,
liberalità* a ve v s t i ; \
Dentizio- ne di nobili tì. HADRI
ANO. BRONZO. ALESS. SEVERO.
BRONZO. Ugge de Macedoni/- Ugge
delle Amazzoni, crdrglt Sey ti. Il Dado,
portato dalla Liberalità, è tanto conofciu- to,che io non ne parlerò piu
oltrc,dcliderofo di moftra- re che la liberalità nafee da nobilità di
cuore: la quale co là fola ha cauGito che i nobili virtuofi fono (lati
hono- rati comegiufo, onde c vfcitalapoflanza reale,& tutti gli
altri principati, che mediante la Giu fona & l’Equità hanno mantenuti
i loro fuggetti 3 6r quelli difelì dai loro nimici.Di qui nafee che tutti
coloro , che afpirano alla lode & alia gloria, li danno volentieri
all'eflcrcitio della guerra, per eflèrc tanto priuilegiati:ondeiMacedonijfo
leuono condannare colui àportarcvna corda in luogo di cinturaci quale no
hauefle fatto qualchccola hono- rcuolc alla guerra. Alle Amazzoni non era
permclTo maritarli , fe prima non haueuono fuperato vn loro
nimico. DE GL* ANTICHI ROMANI. i 45 nimico.
EttragliScyti non era lecito a perfona toccare la tazza òvafovfato nei
facrificij, che non hauc/Tc alla guerra meritato qualche honorc. Di tutte
quelle cofc fanno fedele hiftorieRomanc,douefi leggono le qua- lità
de premi) che fi dauonoà coloniche haueuono fat- toqualchc fcruitio alla
Rcpubl.come erano le corone c " 0 "' ciuichc,Ie trionfali,Ic
murali, & le nauali,infieme con ti- KomLi. toli,cpiteti Sellarne, che
fàccuono fede della virtù loro: onde non c da marauigliarfi,fe Roma venne
in coli fat- ta grandezza, poi che di grado ingrado dTaltaua &
ho^ norauai Tuoi foldati, fino alla dignità dell’Imperio,& il
Confido ò Imperatore riftoraua il buon foldaco con ca- tene
d’oro,maniglie, corone, & ricchi fornimenti dica- ualli,fi come
moltra vn’Epitaffio che fi vede in Turino, inoltratomi già dal Symeonc,il
cui tenore è quello, C. G A V IO L. F. STEL.
SILVANO PRIMIPILARI LEG. Vili. A VG. TRIBVNO COHOR. II.
VIGILVM TRI B V NO COH. XIII. VRBAN. TRIBVNO COH. XII. PRAE
TOR. DONIS DONATO A DIVO CLAVD. BELLO BRITANNICO
TORQVIBVS ARM1LLIS PHALERIS CORONA AVREA PATRONO COLON.
D D Et fi come dei buoni Temi nalcono anchora i buoni
frutti,cofideglihuominivirtuofinafconoinobili,purc che fianoeflercitati
nelle lettere cneH'armi:lequali qua- do fono accompagnate infieme, fanno
chela no bilità fia K Cicerone.
Dichiara- tione delti nobiliti. Tlinio.
Cornelio Nipote. Tullio.
luuenale. Annotile. i 4 <? DELLA
RELIGIONE perfetta & duri fiempiternamentc.Stimauafi amicameli
te la nobilita che nafceua dalla gcncrofità del fanguc,di- fcgnata da
Cicerone nelle fue Topiche à qucflo modo, C tntile s fune, qui inter fe
todem nomine funr, quia! ingenui s oriundi funr quorum maiorum nemo feruitutem
feruiuit,qui capire non funr diminuti. La quale definitionc dice
Tul- lio edere nata daSccuolaPontefice,&io l’hò intcrpreca- ra
in quello modo, Nobili fono coloro che ha no vn me • defimo nome, che
nafeono di padri & madri liberi, glan tichide quali non hanno mai
fcruiro,nccambiato di (la to,conciò fia che la mtitatione faccia perdere
la nobili- ta & la gctilczza , la quale gl'antichi riprefentauono
per leimaginijdaloro portate nelle pompe funeralide loro maggiori,
come recita Plinio nel xx x ix.librodeUHiflo' ria naturale , Se Cornelio
Nipote nel libro de gli Huomi ni illuflri.il quale parlando di Portio
Catone òìcc, Ima- go buius funeri* grati* producifolet. Della quale
oppenione canchora M.Tullio, Se gl’antichi chiamorno tali ima- gi
ni Stemmata, come fi vede in lu uenale, quando beffan doli di tale
nobilita fienza l’operc nobili, dice. Stemmata quid ' fucilanti
quid prodejl Pontice longo Sanguine cenferifè) pt&os o fendere
vultas Jrfaiorum?& fante s in curri! us ^AemilUnosI Ariflotilc
nondimeno nclv.libro della Politica dicc,che nobili fono coloro, i
preccfTori de quali fono flati, ò ric- chi,ò virtuofi:effcndolc ricchezze
neceffarie per foccor rere la Rcpnblica,&vfiarelalibcra!ità, la quale
fenza la ricchezza non può flare.Etfc qualcuno domadafleche
differenza c tra la nobilita d’AriflotileSr di Sceuola, tifi- pondo, che
Ariflótile domanda la ricchezza, &Sceu ola non:
DE GL’ ANTICHI ROMANI. 147 nonrattclochc la nobilita
può viucrccon la pouertà: benché col tempo poi(volendofì palcerc di
quello fumo di direche fono nobili) fi muoiam di fame : onde nafee
che gli antichi faui hanno Icritto che la vera nobilita condite nella
virtù,comc quella, alla quale non può mai mancarc:& quello è quello
di che ragiona luucnale, di- cendo: Tota licet Veteres
exornent indizile cera tria:nohiliras fola efyOtque Vmca v ireos.
Conciò lìachcl’huomovitiofocheprcdicalafua nobi- lita, mediante i
fattidefuoi antccclTori,condannafeme- delìmo,non fendo egli
virtuofo,& lì può dire di lui quel locherifpofe Anacarfeà vn’altro
che lo chiamaua bar- Rìjpofta baro,& nato nella Scytia,chc fu tale,
la mia patria ****&& COME BARBARA MI ARRECCA QVALCHE 1
N- f AMIA, MA TV FAI D 1 S H O N OR E ALEA T V A che e' tanto
nobile et c e nti l e. Circa che bifogna conchiudere che la vera nobilita
c quella, g* che procede dalla virtù propria, nel modo cheproua
Boetionelm. libro di Confolatione,doucei dice,^?#^ Jì quid ejl in
nobilitate bonumjd arhitror effe folum,vr impo- rta noi? dii us necefuudo
vide a tur, ne a maiorum V ir tute dege- nerent. il quale propofito
feguita dicendo, TJmu enim rerum pater ejl, XJnus
cuntta mmiBrat-. J Ile dedir Tinello radiati Dediti cornua
Luna: 1 He h ornine s & ferri* Omne
liumanumgenus m terris Similifurgit ah or tu. K
i i 4 » DELLA RELIGIONE i Dedit fè) fiderà
Calo: Hic claufit membri! animo s Celfafedepetitos.
Mortale! igitur cunBos Edit nobile germen. Quid gentts
féj proauos Jlrepifù ? Si primordia 'vejlra ^yiutorénujue
Deum fieftes, Nullus degener exrat , Ni 'finn peiora
fouens ‘Propriumdeferat ortum. Parmi d’aucrtirc qui il
lettore della differenza eh ed tra nobile & generoforcon ciò fia che
A riftotilc nel prin- cipio dell’Hiltoria degli animali,fcriue che nobile
è quel ladifftren lo che c nato di buona razza, & colui gencrofo che
non ** traligna dalla fua razzala buona , ò cattiua , allegando
fccrii gt l'eflcmpiodcl lupo& dcllione. Il lupo (dice egli)
farà ne ^[ 0 '. chiamato generofo, ma ignobile.Gcnerofo, perche non
deihpò ©• digcncra dalla fua cattiua razza:& ignobile perche egli
e ieliiooe. nato di cattiuo feme.Ma il Itone lì può dire nobile &
gc- nerofo inficme.Nobilc,perchcè vfeito di buonfeme, & gencrofo,
perche non digcncra dal fuo femeronde nafee che fi comclc virtù
dell’animo meritano d’eflcrc lodate con parole, l’opere virtuofe
richieggono d’cficrc hono- ratecon i fatti.Cocludédo chcegli è
impoffibile che vn principe, fia gràde quato vuole, poffa nobilitare vn’huo-
mo che vuole edere villano : laqualc nobilita ci ha aliai bene dichiarata
in vna fua medaglia Antonino Gcta, figliuolo di Seuerojhaucndo fatta
dipingere la nobilita inhabitod’vnaDonnada benc,conlofcetrro nella
ma- no di DI GL* A NT! C HI KÓMÀtfl. i 4 >
nodirirra.&nellamanca il fimulacro di Mincrua ,
per inoltrare chelarmc& lelcccerefonoduccofe ccccllcn-
'ti/dallcquali debbe Tempre eflcrc l'huomo nobile ac- compagnato.
GETA O natura tegli huo.miiu
e la no - genio» pinta conieruata&.crc(ciuta, però non
fàràimpertintn- tetrattarc anchqra qualche colà dello Dio di Natura,
G°iró d io chiamato dagl antichi Genio, & il quale ftimaronopa-
dredegli huomini,& figliuolo diDiorpenfandoncllalo ro rèligiòncehc
ciafcuno haueffe particolarmente vn ge nÌGk& vno intelletto diuerfo
Se propriojcomc lì vede per la medaglia di Nerone, nella quale òlcritto,
genio a v- cvsTijin quelle d’AntoninoPio, genio senatvs, in quelle
di Collantino, genio pop vii rom ani^ in quelledi Claudio, genio
exerci t v vMrfigù- ^ ^ ^ randolo mezzo vcllito& mezzo ignudo, con
vno altare ^io. innanzi A: yiì fuocojvna tazza nella manodiritta, &
nel- ,• - ;; » j l’altra vn Corno d’abbondanza, nel modo che Thà dipia .
. to A m rhi ano Marcelli no nel xxv. libro che egli ha fatta 'di
Giuliano Imperatore.. " K * •n
ANT. PIO, BRONZO. NERONE
BRONZO. COSTANTINO CLAVDIO
Scriuc Ccnforinoncl libro da lui fatto De die nau-
tiche (ubico che noi nasciamo, noi fiamo accompagnati da
vngcnio,chcciconducc,guarda & non mai ci abbati donna. Altri hanno
detto, & maflìme Fiacco nel lib.chc lares. cilafeiò à Ccfarc de
lniigitdmtntìi>che Lare & Genio era b KtUde. no vnamedefima
cofa.Et Euclide vuole che ogni huo- mohabbia due Lari, cioè l’vn buono
& l’altro catriuo, chia DE G L’
ANTICHI ROMANI, chiamado il buono Larc,&: il cattiuo Lemure, come
noi hoggi anchora diciamo buono Angelo & cattiuo;à pro- {
jofito dei quali Icriuc Plutarcbo nella vita di Bruto } chc a notte
mentre che ci penfaua con vna lucerna accerti alle facccdc della guerra
jgl’apjjarfc vno fpirito in for- ma d’vna perfona tragica, & più
grado che il naturateci quale fubito domandò Bruto (comehuomo
intrepido che egli era)chi egli folle , ò quello che ci cercaflc , &
che quello rilpofc,Io folio il tuocattiuo Genio, il quale tu ve
drai à Filippo:di che non punto fpauctatoBrutogli dif- fe,Adunqucti
vcdròioinquelluogoul che auennepot innanzi eh’ eimoriflc:& di quella
mcdelima oppcnione fono flati & fonoi noftriTcologi, cioè che noi
flamo Tempre accompagnati (cornee detto) da vno Angelo buono, che
ci guida al bcne,& da vn cattiuo, che ci mena al male.Platone
parlando di Socrate loleuadire,chein lui era vno fpirito, ò Genio
particularc & diucrlo da glaltri-Nel tempo de Romani non era lccito(comelcri
uc il Iurifconfulto fotto il titolo T)e \ erborarti oUigationi- bus) di
giurare per i Lari, ne per il Genio del Principe, ri- putando qucfto
giuramento grandiflìmo, però chefàcc- dolo& fapendofl, erano puniti
graueméte, laonde rom peuonograntichi più torto il giuramento fitto fotto
il nome d’ogni loro Iddio, che Torto il Genio del Principe
lorojlìcomehàmoftro Tertulliano nella Apologia da lui fatta contro à i
Gentili, &Ouidio parlando della cu- ra che hanno di noi i noftri
Genij,quando ci dice: Et vigiUntnoJìnt frmper in \rbt Ldres.
Da quelli Lari fuchiamato Larario quel luogo à par- te &fcgreto
nelle cafe,doue gl’antichi adorauonoiloro K 4
>5* Lare c r L( mure- Buoni c r
canini fal- liti. Genio appi rato 4 Bru- to.
P Ul* Difefo di giurar per il genio
de t'imperato, re trai Ro- mani.
Tertullia- no. Gnidio, f$i
DELLA' RELIGIÓNE / , Xf tjfmdro Dij domcftici &
particulari,il che hà confermato Spar- baHfMin tiano, quando nella vita
d’AlelIandro figliuolo di Mam- fui Urtino mea, dice che egli haucua nel
luo Larario l’imagine di GUfuchrf- Giefu Chrifto con quelle d’altri
Dij.Ne è molto tempo fio. che in Lione fui monte della croce di Colle fu
trouara vna Lucerna ant cadi bronzo che mi fu donata , nella
quale erano fcrittc coli fatte pa rolc, l a ri b v s sacrvm . 1 con altre
più baflc,^ più piccole, che lignificandola pu blica felicità de Romani,
dicono, p ve lic /e telici* tati ro m a n or v M,nel modo che lì vede qui
di fottoi ' ~LV CE jTiTJl JL KT1 ' di H ronzo , trovata
in Lione Canno LARI B V S SACRVM P. F.
ROMAN. Stima DE GL" ANTICHI
ROMANI. 5 r 153 Stimarono gl’antichichei Lari follerò figliuoli
della iUri pgiil Luna & di Mercurio, come fi vedeindiuerfi Autori ,
la «oli di uh quale oppenione mi porge materia di parlare di Mer-
curio lecondo la Teologia de gl’antichi , che volcuonò mercv- che la
ftella di quello Pianeta facelle gli huomini elo- R 1 °* ìquenti
&grAmbalciatori,maflìmamente quando egl( stella dì èra congiunto col
Sole & con Gioue,comeper contra- rio volcuonoche ci folle dannofo
cficndo accompagna to da Martc,ò da Saturno Et lacaufa perdici Poeti
nan ilo attribuito à Mercurio Ambalciator de gli Dei il ca- duceo,
il cappello chiamato Galero da Latini, & laiicaf capo & ài piedi,
è, pcrchevolcuono lignificar, che fico- me vn’vcccllo vola
leggiermcntepcr l’aria, coli la paro- Jafàcilmcnte efee della bocca
d’vn’huomo eloquente. I Greci lo chiamornoe PMH2,cioé interprete ,
ò Tur- uermet. cimanno,&Dio della Mercatura, perche le parole
fo- no quelle che fono mezzane d fare comperare, ò vende- menadi»-
revnacofa. *'• a 7 r ~~" N T O.
154 DELLA RELIGIONE coprilo di Plauto nondimcmo & glabri
Icmtori più antichi Mercurio hanno chiamato il cappello Pccafo, come fi
vede perle ntafo. Icntture di piu marmi antichi che dicono, cvm m e
r- cvrio petasato, volendo lignificare cheli co- me il
cappello cuoprclatcfta,cofi le parole fcruono per coprirli & giuflificarlì
contro alle falfc calunnie degli huomini maligni & inuidiolì. Altri
hanno detto, che quello cappello lignificauache vn buono
Ambafciado- redoueua goucrnarli nelle fuc faccédc
fegrctamente:& il Caduceo che Mercurio ha in mano,Ia pace che il piu
delle volte lì tratta per mezzo d hu omini eloquenti, co- me lì vede in
diuerle medaglie de glantichi. V E S P A S l A N O. FOSTVMO.
ARGENTO. BRONZO. • i - - - , ,
ylìnio Della lignificatione delle dueferpi intornoai Cadu-
ceo ha Icritto Plinioallài diftefamentc,& però io (come cofa fu
peritinola) rimetterò il lettore à quella lezione: . . &
pcrfaperncla fauoIa,àHiginio, il qualenel Tuo libro t adirò in
Agronomico ha fatto il medelìmo, confermando che f'gnadip*- J Caduceo fu
concedo à Mercurio in légno della pace: ~ ‘ " " la
DE G’LANTICHI ROMANI. i 5f la quale volendo dipingere
gl’imperatori nelle loro monete,&moArarecncei n’erano flati
autori,faceuono battere nelle monete la Dea di Felicità, con vn Caduceo
peuci- invnamano,&neira!travncornod’abbondanza,figni- T A -
ficandochc nella pace publica non fi (ènte careflia. G A L B A.
" TITO. BRONZO. BRON ZO. Ne i Comenrari j
di Celare fi troua fcritto che i Fran- ccfi adorornoMercurio/rome inucncore
di tutte Farti, & guida de camini , (limando che egli hauefle gran
pof- fanza per fare ricchi i mercanti, ciò chcconferma Plinio
nclxxxnii. libro dellHiftoria naturale, parlando de coloflì&ftatue
antiche, & doueei dice, che Scnodoro haueuanel Tuo tempo Superato in
grandezza di fiatue tutti glabri fculcori,haucndo inx.anni fatto in
Auuer- nia quella di Mercurio d'altezza di c c c c. piedi.Solc
uonooltreàqucflograntichi attribuire il galloà Mcrcù rio,figni beando che
i mercanti debbono edere vigilati ti&folliciti lamattinaàbuon’hora,
volendo arricchire &farc bene le faccende loro. Tra le mie pietre
antiche, io ho Mercurio dorato da
franctjì. Plinio. Scnodoro fcultor
ec- ctUauifii. mo. Statua di Mercurio fatta
in AuMernia. ij<r DLL A' REELIGIONE
io Ho vn Niccolo &dùe Corniole, ncllequalrfono le fi- gure di
Mercurio. Nel Niccolo fi vede con vna boria in mano,& nell’altra il
caduceo. Et nella Corniolaàfc- dcre fopravn granchio marino: con il
caduceo in vna mano, & con l’altra tiene l'vno de piedi del
granchio; col cappello in tefta.Per Mercurio c fignificata la paro
Ja,& per il granchio, che i mercanti non fi debbono af- frettare
nelle parole, ne (penderci loro danari fenzacon fidcratione.
I fi s / * < /.r
V DE GL’ANTICHI ROMANI. i > 7 Sono
(lati alcuni altroché hanno detto che l’eloquen zà fu attribuita à
Mcrcurio,pcrelfere (lato ii primo che haueua ordinate & meflè le
parole inficine per ifprime- fei concetti della mente, deformare vna
bella oratione, ncceflaria à gl'Auocati & Procuratori , & pero
dille Vi- truuiocheil fuo tempio lì doueua edificare preflò alle
piazze. Grande fu certamente la curiofità & fupcrlìitionc
de gl’antichijvolendoche Gioue finalmente fignificaflè il ciclo,
&Giunone l’aria, per cflerecofi vicino l’vnoallal- tro:Nettuno il
mare:&Plutonela terra, 8c che la mo- gi ie di Netruno folle Salaria,
& quella di Plutone Profcr- 1 >ina,fi come Giunone di Gioue,
alla quale attribuirno a cura delle Donne grollèjinuocandola in quel
tempo cheell’crano vicine à partorire , & poi che il figliuolo
era nato (come Diodoro afferma) lalciandone la cura à Dinna,ncl modo che
fi può vedere per l'hynno fatto da Callimaco in honore della Dea. Et
quando le Donne Romane che non potcuonoingrauidare,voleuono ha-
uere figliuoli,cllc andauono al tempiodi Giunone,chia mata Luci na,douc
llaua vn facerdotc detto Lupcrcalc, che fattole fpogliare tutte ignude
& dillcndcre in terra, le pcrcoteuacon vna sferza fitta di cuoio di
becco,co- me fi vede per le medaglie di Lucilla : ne i rouefei
delle quali fi vede Giunone à federe in habito didonna ve- douacol
fuo lecttroinmano comeRcina,& nellaltra vna sferza & lettere che
dicono ,ivnoni lvcinae. Lucilla Menurio
Dio d’rio ' quenza. Vitruuio.
GIVNO- NE. Giunone * - iutrice de le
dine gr 4 uide. Diuotione de le donne Romane
4 Giunone Lucina» *J« DELLA
RELIGIONE L VC I L L A~ BRONZO. BRONZO.
cerimonie Quando quelli facerdoti Lupercali corrcuono per dt faccrdo-
mezzo le llradc, erano tutti ignudi,eccctto le parti vcr- t« Lupcrca- g 0
g no f ejC h c erano coperte di pelli di beccbi,llati faenfi cati fu
l'altare di Giunonc.Et delle coreggie che haueua- no
Era pure grande quella luperllitionc chele Donne Romane
pcnlalTino (clTcndo coli battute da ifacerdoti di Giunone)
d’hauereàingrauidare,&chc la felicità piu grande era di hauer molti
figliuoli, come fi vede perle infraferittte Medaglie. FA V S
T I N A. GIVLIA M A MME A. ARfitNTO. BRONZO.
I • DE GL’ ANTICHI ROMANI. 155
no in manoandauono pcrcotcdo le mani delle Donne che le norgeuono loro
per ingrauidarc. Era qucfto luogo chiamato Lupcrcale nel palagio di Roma,
& de- dicato allo Dio Lupino, chiamato altrimenti daiRo-
maniPan Lyceo.Pcròchequiui haucuono già- poppa- tala lupa Romolo &
Remo, come moftrano le piccole imagini Fatte di bronzo, che hoggi anchora
fi veggono in Campidoglio , & le molte medaglie di Confoli
& d’imperatori. ME DAGL ÌE Di' D io
lupino ò nero, Pan Lyceo. MEDA. DI SESTO P
lOmI l(Zo
DE LA RELIGI ONE DOMITI ANO. HADRI
ANO. Fu Romolo di poi la Tua morte conlagrato &
meflo nel numero de gli Dei, come fi vede perle medaglie d’Anconino
Pio, nelle quali è Romolo veftito come vn Marte,che tiene da vna mano
vn’hafta & dall’altra vn trofeo fullcfpallc con quelle parole ,
romvlo avg. ANTO N I N G~P To. BRONZO.
BRONZO. La lini plici ta degl’antichi fu tale,
che non badando roma. j oro j iaue r C deificato Romolo, fcciono
anchoradiuerfi templi à Roma, & la chiamorno Dea, dipingendola
vna r volta DE GL’ANTIC HI ROMANI, k;i volta
vcttoriofa con vna hafta in vna mano,& nell altra vna vcttoria che
l’incoronaua di lauro , & altra volta con vn globo, in fegno della
Monarchia,& limili paro - le* r o m ae AE T E R N AE.
NERONE. ARGENTO. FILIPPO.
ARGENTO. Roma eter no. Et
nelle medaglie di Malfientiofitrouano Umilmen- te più templi dedicati i
Roma eterna, la quale i lèdere fopra certe infegne militari,&convn
morrione in tcfla, hi in vna mano lo ficctcro,& nell’altra vn globo,
che ella prefenta all’Imperatore coronato d’alloro, lignificando
che egli era conferuatore del Mondo, come fi vede per ni ff entio vna
Prouincia foggiogata che ei tiene fiotto i piedi , il ‘onferu*- dardoche
egli hi in vna mano,& dell’altra piglia ilglo bordino con la fiua
corazza & mantello militare , & lettere intorno che dicono ,
conservatori vrbis AE T E R N AE. \C l
MA SSENTIO. BRONZO. BRON ZO.
Vcfpafiano fimilmcntcfccc (lampare nelle Tue meda SdTRoM gta Roma
con vn celatone incapo, la veflecinta, mez- nrOr meda- za ignuda, lo
feettro in mano, gli (liualetti in piedi , col glie di ve- Teuero
prediche havn giunco in manovella appog- frajìin 0 . gj ata ( a f cttc co
ijj ? lettere che dicono , Roma.Ec nelle medaglie d’Hadrianofi vcdeconvn
ramo d'allo- ro nella mano manca,& nell altra vna Vetcoria con
vn globo fotto i piedi. VESPA’ i.
ICHI ROMANI. iti M.
AVRELIO. BRONZO. Mentre che io fcriucuo quelle
cofc,mi fu donata vna KmJi. 4 medaglia di bronzo, nella qualeda vn Iato è
la teftadel Sole,& dall’altro vna Luna convn globo, & due
(Ielle r opra,con lettere fottoche dicono, Roma, lignifican- te le
vectorie & fatti de Romani rifplcndeuono , co- ll Sole per tutto il
mondo, &erano (àliti (ino al cielo. ITALIA.
1*4 DELLA RELIGIONE MEDAGLIA DI ROMA? BRONZO.
Non ballando à i Romani haucrc figurata Roma in tanti
modijfcciono quel limile d’Italia, coronàdola co- me Reina del mondo à
federe fopra vn globo (Iellato, & mezza ignuda con vnofcettro&vn
corno d’abbódan- za,in fegno della fertilità del paefe d’Italia, come fi
vede nelle medaglie d’Antonino Pio. ANTONINO PIO.
B R O N Z O. BRONZO. Volendo à pieno narrare le Iodi
di queda Prouincia, noi ci diuertiremo troppo dal nodro intento
principale: Pur D E GUANTI CHI ROMANI. i<r
5 Pur nondimeno non lafciercmo di recitare qui quei yerfi che il
Petrarca , tornando di Proucnzain Italia, Pt(Wrt , cantò arriuato falla
cima del Mon Gencua,in quello modo, Saluecard T)eo
tellnsfdnBifimd ftlue, Teìlus tuta honis } teUus metuenddfuperbis
» Tellus nobilibus multum genero f or oris . Ne manco
voglio lafciare in dietro che Collanti- no Impciatorc fece battere
medaglie di bronzo in Ro- ma,nelle quali da vn lato è la lupa che lecca
Romolo & Remo mentre ch’ci la poppanoj&rdall’altro la Tua
te- tta. Et in Collantinopoli Umilmente dipoi fece batte- re monete
d’argento & d’oro con la Tua tetta , & lettere che dicono, constantinopolis,
lì come in quel Jc di Roma haueua metto, vr b s koma.
Ver fi iti Vttrarcd in lode i'itn- IU.
COSTANTINO. BRONZO. ARGENTO.
ScriueStrabone(parlado d’Italia) che in quettaPro- uincia fitroua il
temperamento dell'aria migliore che in altro luogorl’abbondanza delle
fontane & de bagni ft «* falubri,per Jacommodità&fanità
dell'huomo, i frutti i L 3 1 66
DELLA REELIGI ONE
buonijc mine-di cuttii metalli, & marmi di diucrfi co- ìtJid gU
lori, onde non fcnza ragione, è ella Hata Regina del rtgin* del mondo ,
producendo tutte le cofc neceflarie alla vita mondo. humana:huomini
eccellenti ncllarmc, & nelle lettere, nella pittura, (cultura,
architettura, & in tutte lecofe più rare&fingulari,lc quali con
molti libri farebbono an- chorain piede, fe la maladctta & barbara
natione de Gotti, non l’haueflc tante volte corla &
moleftata.Ma perche di fopranoici trouiamo hauere aliai ragionato
vetto- delle Vcttorieicolpitc per tante medaglie, non faràfuo- radi proposto
(feguitando il fubietto della noftra ma- teria) di (criucrecomeanchora
quella fu da gli antichi riputata vergine & Dea, & fattili più
templi nella Gre- . pittura del cia,douc (comefcriucTaufaniaró^tf/Và)
ella fu adora- la vetto- figuratacon l’alie,vna corona d’ Alloro in vna
ma-" no,& nell’altra vna Palma, ’& lotto i piedi vn
globo :an- chora che Domitiano la facelTc dipingere con vnCor-
nocopia,fignificando che dalla Vettoria nafee l’abbon- danza delle
cofc. DOMITIANO. BRONZO. BRONZO.
r i i
lw TICHI ROMANI. ic 7 tc perii
rouelcio della medaglia d’argento diL.Ho- ftilioli troua la Vettoria
figurata con vn Caduceo in vna delle maniche lignificala pace di
Mercurio, Se ncL- l’altra vn trofeo delle fpoglie d i ninnici ,
modrando-chc la guerra & la Vertoria apportano la pace.
JL. H O S T I L 1 O. A R G F. N T O.
DOMITIANO. BRONZO. Ma Tuo
Imperatore la feccfcolpire nelle fue meda- vittore del glie d’argento con
vna palma & corona d’Alloro fenza 'alimonie quellochc no voleua
chcella difpartiffc mai da.ìui: Se co fi la dipinfero gli Atenicfi (come
dice Pau- fania nelle fue Attiche) per quella medefima ragione.
'“VÈSPA SI ANO. ' TITO VESPA - . -L
# ics DELLA RELIGIONE Labaro in l
cm,c medaglie doro io n’ho vna d’Auguflo,’ ftSM pria- nel rouefeio
della quale e vna Vetcoria Copra vn globo cipde de & l’alie aperte
per volare, con vna corona d’Alloro in ri«per<- vna mano ^ nell’altra
il Labaro, infegna dcll’I mpera- tore,che i Franzefi Hoggi dicono
Cornetta, folita por- tarli innanzi al Principe, quando in perfona fi
trouaua alla guerra, come inoltrano le lettere che intorno alla,
medaglia dicono, i mperator c Nella declinatiòne dell’Imperio
Romano,commin-' linoni ciorno di P oi gl’l m P cratori a fare
<ii P in 8 ere l’Aquila in tT quello labaro, come fi vede nel rouefeio
della medaglia di Maflcntiojdouc fi vede armato della corazza,
& velie militare con il Labaro in vna mano,& nell altra vn
ra- mo d’Alloro,le gambe armate , & vna Prouincia , ò ni- mico
folto i piedi, & lettere che dkono, victqru 1 AVGVSTI
LIBERATORI ROM ANOIVM. Bctt che dipoi folle vinto da Collantino
Imperatore , in virtù d’vna Croce , ò figlilo moftrato al detto Co-
, - " llantino DE GL’ ANTICHI ROMANI. i<r?
{lamino in vifionc , & ancho perche fu aiutato affai i lf'g»optr da 1
medefimi Romani, & chiamato in Italia, non potè- ^n 0 ^ Un do più
fopportarela tyrannide di coli crudele huomo. Haucndo coli Coflantino
reftituito nella fua dignità Tlmperio, fi fece Chrifliano , & volle
che tutti gl abri cojUntino adoraffino Chrilto, al quale edificò
piuchiefc, & per l’innanzi portò lemprcin tutte lefucimprcle il
Labaro (0 Ui tempii pcrinfegna,di fcarlatto, & d’oro con quello
carattere» fesche non lignifica altro fe non il nome & la virtù
di christ o, accompagnata da lettere, A. & w .cioè , che
sìgnìficatio il principio & la fine di tutte le cole è Di o,
& ancho per- nf<u, “ n che i Greci feriuendo il nome di Chrillo ,
cominciano per X.la prima lettera diqucllo.Onde molti hanno er-
rato intorno à quello, dicedo che tal fegno era vna Cro- ce d’oro che
Collantino haueua fatta lare partendo di Francia per andare à combattere
in Italia con Malfen- tio. Vfarono poiifucccfiori di Collantino lungo
tempo quella infogna, come fi vede per le monete di Collante» nelle
quali èl lmpcratorc armato col mantello digucr- ra, vna Vettoriain mano,
che lo vuole incoronare d’Al loro,& in vna altra tiene il labaro col
fopradetto fegno di Collantino , pofando i piedi fulla prua d’vna
galea» il tinjone dcllaquale tiene in mano vna Vettoria, & let
- tcrecbc dicono, f elix temporvm reparatio* V, ■’ L x
* 7 ° DELLA RELIGIONE
MASSENTIO. ARGENTO. COSTANTE.
ARGENTO. G'udUno Dccentio,Coftanzo,& altri
Imperatori di poi infino àpojìata. £ j tempi di Giuliano A portata
vfarono Tempre quella inlègna&figillodi Coftantino con limili parole,
s a lvs DOM INO RV M NOSTRORVM AVGVSTORVM LVCET,
COSTANZO. DECENTIO. BRONZO. BRONZO.
s. a mbro- Chetale figillo forte il fegno diChrifto , dimoftra S.
I 10 ' Ambrogio nel v. libro, & nella Epiftola xxix. che egli
fcriuciTeodofioImpcratorc,&Prudétio nei Tuoi verfi àquerto
modo: Chrijhts DE GL’ ANTICHI ROMANI. i 7
x Chrijlus purpureum gemmanti textiu in auro , Signabat
labarum,clypeorum infignia Chrijlus £crip[erat,ardebat fummis crux addita
crijlis. Era quello flcndardo fatto di fcta pagonazza chermi
fina con vna frangia d’oro tutto intorno, ornata di pie- tre pretiofe,nel
mezzo del quale era la Croce di Chrifto fatea di riite uo,& nel mezzo
di quella ricamato il fegno ■di Coftantino,&cofi legata fullacima
d’vna lancia do- rata fi portauain tutte le guerre dinazià fopradetti
Im- peratori, quali nel modo che fanno hoggi gli ftcndardi,
dedicati chià vn Santocchi àvn’altrod’alcu ne religio iccompagnie. Ma
ritornando all’imagini delle noftrc comedipin Vettorie,dicochegrantichi
ladipinferoin formad’An gclo con l’alic,& bene fpefioà federe fopra
le fpogliede torio. nimici con vn trofeo dinanzi, il petto fcopcrto,con
vna palma, &vno feudo &paroleche diceuono,vicTORi a a vg vs
ti, nel modo che l’ha dcfcrittaClaudiano quan- cUudiano. do ci
dice: Jpfa Duci [aerai ZJittoria panderetalos, Et palma
viridi gaudens & amica trophaù. Cujlos imperij 'virgo qua fola
mederii ZJulneribuijnullumque docesfentire dolore m. Et
Plinio dille, Eaborem in vittoria nemo fentit.
MED. ir t I
« 1 71 DELLA RELÌG
MEDAGLIONE DI M. IONE
COMMODO. avremo. BRON/O.
Et perche la vettoria non fi può acquetare IcnzaFati- t °
ca >f enza virtu,ne lènza forza, non farà fuora di propofi- figura
codi ragionare qui d’HcrcoIe, che ne guadagnò tante in <l ucfto raodo
> onclc » Romani volédo figurare la virtiUo ualauirtù leuono dipingere
il fuo fimulacro appoggiato fopra al fuo ballone,& la pelle d’vn
lioneauiiuppata intorno al braccio, & altre volte tenédo abbracciato
Anteo, il qua- le vccifc, come dice Giuucnalc, - Ceraie il us
ctquat H erettiti ^Anteum pronti a tellure tenenti*.
Nel quale modo lo dipinfcroanchora nelle loro meda- glie
Hadriano& Poftumio, con quelle parole, hercvli MACVSANO,
HA D. DE GL’ANTIC HI ROMANI.
*73 HADRIANÒ. POSTVMIO. BRONZO.
BRONZO. Et fi come la mazza & in lione fono due cofc
fortiflì- Pm . mc,& la virtù e fiata Tempre figurata ignuda, come
quel tribuirono la che non cerca ricchczzc,ma immortalità,gloria,&
ho norc,comc fi è vifto in vn marmo antico che dice, vi r- U pelle
del T VS NVDO HOMINE CONTENTA EST, Cofi el’antichi
volendo moftrare la virtù d’Hercole , doppo la morte lo figurorno ignudo
, con la pelle del lione & con la mazza, &. la mazza & la
pelle infiemc,comc fi ve- de per le medaglie qui di fiotto.
PRIN. Ss. JW/ »74
DELLA RELIGIONE PRINCIPESSA DI MACEDONIA.
BRONZO. BRONZO. Q^CINCINNIO
III. VIR. AVGVSTO. argento.
ARGENTO. mix* di Fu chiamata da Greci quella mazza
psrraAc*, la quale Htrcole g lamichi fpeflè volte (dipingendo
Hercolc)accompa-] Ja Greci gnorono d’vn trofeo,&Hercolecon vn
ramod’Alloro Kbopalos. nc J} a ma dritta,& nella finiftra la
mazza,& vna pelle di lione,chiamandolo Vincitore: & volédo per la
mazza anchora lignificare la prudenza, conia quale fi gouer- naua
in tutte le fucimprefe. ;; i C. AN.
DE GL’ ANTICHI ROMANI. i
75 uaif f [lor
llc<5 n» ifltf Vii
C. A NT IO. MEDAGLIONE DI ARGENTO. COMMODO.
Apulco lo nominò cercatore del mondo, domatore Epitetili de gl
huomini,&dclIcbeflieferoci:&:Tcocrito,occifore di lioni & di
tori, come moftrano le medaglie (lampare a puleo. in honorc fuo,ncI modo
che fi vede qui di Cotto. t tonilo. MED. GRECA. C.
BRONZO. POBLITIO. ARGENTO.
tk ^ | iv laVttUia i/wiv»»*» » «■»»». w v< »
»•»» pelle di lione & della mazza, fu, perche in quel
tempo nons’vfauonoaltrearmijche le pelli dcgranimalifalua-
tichi> per coprire il corpo : & i baffoni per offendere i nimici,
i 7 <r DELLA RELIGIONE Arme che nimici^ vendicare
l’ingiurie. Et perche Homcro con o mo ^‘ a ^ cr * P° ct * hanno
fcritto.chc Hcrcolccauò Cerbe "L Suo ro cane con tre
teftejdell’inferno^crò mi c parfo non HtrcoU. fuoradi propofito
riprefentare qui appreso la figura d’vna pietra antica, fiatami mandata
da Narbona,&ri- trouata in quel tempo che fi cauauono i fondaméti de
i baftioni di quellaCittà,nel modo che fivede qui di fiotto.
S1MVLACRO DI HERCOLE ET DI Cerbcro.ririrato d’vn mattilo antico di
Natbona. DE G L'ANTICHI ROMANI. 177 “Interpretarono i
Teologi antichi quclfo Cerbero per tutti i vitij,lfati fupcrati &
vinti della virtù d’HercoIe, co me più apertamente potrà il lettore
vedere nel trattato * che hà fatto Lilio Gregorio Ferrarefe della vita
d’Herco rarefi leda (fatua del quale fu altrimenti dipinta con tre
palle nella mano diritta, &nclla manca la mazza, volendo Lffr ; wr
. perle tre palle lignificare la virtù di tre colè, cioè, lènza
tudiHcrto ira,fenza auaritia,& lenza defiderij vitiofironde ancho- k
’ ra hoggi li vedeà Roma vna fua (fatua di bronzo con vna palla in
mano trouata, non e lungo tepo,douc era flato il fuo grade altare fulla
piaza del mercato de buoi. Fu oltra à quelfo dedicato à Hercole il
Popolo albero di po o[g A fpctic di Salicio, del quale i fiacerdoti Sali;
fi faceuono ferro dedica girlandc, volédo fare à Hercole làcrificio, come
ha mo- t0 * Hfrf0 " ffro Virgilio, doueci dice, “ Tunc
Sali) ad canta inceri fa altaria circuì n *?opuleid adfunt tuinRi tempora
ramit. Soggiugncndo altroue, Copulai ^Alcida gratif
ima. La quale cofa fi conferma ancora meglio per la me-
daglia Greca d’HcrcoIe, nella quale da vn Iato c la fua telfa coronata di
popolo con la pelle di lione intorno ai collo,& dall’altro il Zodiaco
con tutti iluoi fegni , & Fe- tonte caduto del carro del fole con ini
i.caualli, la fac- cia del fole, & lettere intorno che dicono,
a’at'nata z h t n n, lignificando che ei cercauacofc impolfibilipcr
le forze fiumane. M MED.
GRECA D’HERCOLE. BRONZO. BRONZO.
FuanchoradipintoqueftoHercoledagl’antichiGrc cicon la pelle della
teda del lionc in capo, in cambio di celata, vn’arco,vn turcaflo,& la
mazza,volendo lignifi- care che la virtù dell huomo fcrcifccdi lontano.
MED. GRECA BRONZO. D’HERCOLE
BRONZO. Non V .
r ,.t* mi t'W. §*
T* 1 ■ » • ■ b i^v
flfr m m DE GL’ ANTICHI
ROMANI. 17* * Non porto fare che (criucdo d'HcrcoIe, non mi ricor
di&non mi ridaanchoradellabertialità di Commodo Imperatore, che
vanamente afpirando aU’immorralita p * zz u del Tuo nomc,8,Tendo
emulatore, ò più torto iuuidiofo £ della virtù d’Hercole,rinuntiò il
cognome fuo Droprio, &della carta fua:&in luogo di Comodo
figliuolo di M. Aurelio, vollceflcrc chiamato Hcrcole figliuolo di
Gio- uc:& lartciando I'habito d’imperatore Romano, fi veftì
d’vna pelle di lionc, portò vna mazza in mano:&mefco landò le vcfti
di porpora ricamate d oro con quella altra, non fi vergognò d’vfcircin
pub!ico,& mortrarfi al popo Io per tutto, come fi vede per le file
medaglie d oro,d’ar- gcnto,& di brozo, nelle quali da vn lato eia fua
iella ac- concia come quella d'Hercolecoil la pelle del lione,
& d’allaltro l’arco, il turcaflo,le freccierà mazza, & lettere
che dicono, h e r c v l 1 romano avgvsto. ■p , • . . ■ ■
MEDAGLIONE DI COMMODO. bronzo. bronzo.
M z i8o DELLA
RELIGIONE Dione. Colonie
Commo- dma. COMMODO.
BRONZO. Ne contento anchora Commodo di quello,
vollc(co me ferine Dionc)eflerc chiamato Hercolc fondatore di Roma,
facendo battere monete, nelle quali fi vedeua in habito d’Hercolc
condurre due buoi, in fegno di nuoua colonia, Scche ci voleua mettere
nuoui habitatori in Roma, la qualcchiamò Commodiana,&Cómodiani
i Tuoi faldati, comefi vedepcr le lettere, chcdicono,coLo N I A
LVCII ANTONINI COM MODIAN A. & altrO- UC, HERCVLES ROMANVS
COND1TOR. COMMODO. DE GL’ANTICHI
ROMANI. Ma quello chein quello moltrò anchora più la Tua
pazia, furono i titoli,! quaIi(fcriuendo al Senato Roma- nojs'atcribuiua
in quello modo, IMPERATOR CAESAR LVCIVS AELIVS AVRELIVS
COMMODVS AVGVSTVS PIVS FELIX SARMATICVS GERMANICVS MA- XIMVS
BRITANNICVS PACATOR ORB1S TERRARVM INVICTVS ROMANVS HER- CVLES PONTIFEX
MAXIMVS TRIBVNI- TIAE POTESTATIS XVIII. IMPERATOR Vili. CONSVL VII.
PATER PATRIAE CON- SVL1BVS PRAETORIBVS TRIBVNIS PLE- BIS
SENATVIQ^VE C.OMMODIANO FELI- CI SALVTEM. Andando poi per paefe. lì
faccua portare innanzi la mazza,& la pelle di lionc , onde mol-
te ftatuegli furono fatte alla fomiglianza dell’altro Hcr cole antico.Dal
quale propofìto ritornando à quello del noftro Hcrcole vcro,&
lanciando in dietro tutte le fauo- lepcr accodarci alla verità
deirhiiloria,diciamo che(lc- condoHalicarnalTeo)Hcrcolcfu vno eccellente
Capita no, il qualcardito&fauiotrouàdofi vn efferato gagliar
do,pigliauapiaccrcd’andarc per il mondo, riformando i cattiuicoflumide
gl’huomini , ipegnendo i Tiranni,! ladri , & giada Alni coll Greci ,
come Barbari , & Latini: edificando nuouecittà:& drizzando per
publica vtilità (quello che è il debito d’ogni buon Principe) i camini,
& fiumi che guadarono il paefcrdella virtù del quale, qua-
tuque iohaueffi deliberato nó fare coli lungo dffeorfo* nondimenoilgran
numero di mcda^licchc iomitroua di lui, mi conllringono,per piacere ai
letterati amatori delle cofc antiche, di leguitarc & mettere inanzi
Hcrco- le,chiamato da i Franiceli Ogmionffccondo la narratio-
r. ri M 3 .
rou[' r8i I nomi is- tituii
che fi duua Com- modo. Qual fu
hcrcole fe- condo li Hi fonografi.
hcrcole Gallico . l i$z DELLA
RELIGIONE ne di Luciano oratore &Filofofo Greco, il fenfo
della come i Fri quale fatto prima latino da Erafmo, è tale: I Francefi
in « fi dipinfe loro lingua hanno chiamato Hercole Ogmion,&
l’han- roucrtole. n0 formato in vn modo molto nuotio & Urano,
però che ei l'hanno figurato vecchio , canuto , & decrepito,
tutto caluo dinanzi, con pochi capelli , dietro "rinzuto, &
cotto dal Sole come vn contadino vecchio, o marinic
rc,tantocheinaItracofa non pare Hercole fenon per l’habitochc ci porta,
veftito d’vna pelle di lionecon la mazza, l’arco tefo, & il
turcafiòda quale cola io harciccr tamentc penfaro che folle Hata fatta da
i Francefi in dc- Htrtolc rifione & difprcgio di quei Grcci,chc
haueuono fcritto negno^l ^ oro Hercole haueuafeorfo come virtcitorc
ilRe- f ranci*, gno di Francia, {ciò non hauclfi villo vn numero
infini- to di huomini,& di donne legate per gl’orccchicon
cate- • nuzzcd’oro,& d’ambra alla lingua d’HercoIe, lenza fa-
re non folamcntc légno d’cllérccofi menate contro alla loro voglia, &
di volere rompere i legami, ma parendo che tutti facclfinoà gara di
follccitarc il palTo piu di lui, dubitando nonrcllarc indietro, anzi
leccando lecatenc, comecola grata, métrcchc Hercole col vifo volto
inuer fo loro gli guardaua tutti allcgramentcril quale miflcrio
mentre che coli riguardato arrccaua marauiglia à Lucia no, dice che vn
altro Filofofo Francclc,ma dotto in Grc- co,fc gli fece innanzi &
dille. Amico io ti voglio dichia- rare la difficultà di quella dipintura:
Sappi che noi altri Francefi non attribuiamo l’eloquenza à Mercurio,
co- me vo i a Ic r i Greci folcre fare, ma à Hercole, come qucl-
édanreolc. lo che è più robullodi Mercuriodà onde tu non «debbi
marauigliarc fe tu lo vedi vecchio, con ciofiajchel’clo- quen
DE GL’ ANTICHI ROMANI. 183 qucnza rade voice è ne i
giouani,eflendo offufcaci dalle tenebred’ignoranza,ondc la lingua de
vecchi lènza paf- jfione pronuncia più
cleganrcmcnrcifuoiconcerti,cncc il lignificaco di quella pitcura, volendo
inoltrare, che il parlare ornaco li eira apprcflo le perfone
perlaconue- nicnza,che hàlalinguacongl’orecchi.Ncmcno ci debbi
marauigliarc,ncbialimarc Hcrcolc, che egli habbia la lingua
toraca,conlidcrandoche noi vfiamo nelle nollre Comedicdidire,che cucci
coloro hanno bucara la lin- gua che parlono aflai,& bene, come faceua
Hcrcole:che per ciò(lecondo l’opinione di noi alcri Francclì ) lì rcn-
Hfrf0 / f dcua luggecce cucce lenarionij&orrcneuaciòcheglipia tot fuo
fcrf ccua, mediate léfóttìliflìmc & ingegniolc ragione ch'ci
{àpcuaallcgarc,&concireperfuadercleperfone,la qua- ti™* i fe
leacucezza & foccigliczza d’ingegno c figuraca perle huom *
freccie, per l’arco & pel curcalTo:onde voi alcri Greci lo-
Iecedirechela parola c pennucacome vndardodaqua- lcinccrprecacione ci
fcruiràhora Umilmente per ilcriuc redellefrecc^&dclrarcod’ApollojCon
le quali am- mazzo il TerpencePitone,& per ciò daHomcrofu decco
L0> ^oWu^«,cioècheiciraua lonrano:&i Greci Io figu-
rornoinquello modo, come fi vede per le medaglie di Nerone, doue da vn
laro c dipinco con vna corona d’al- loro, il curcaflo Tulle fpalle &
la ftella di Febo, con lectcrc che dicono, a no a aon snrHP.cioc Apollo
Conferua tore,lì come i Greci vfarono faquila,& ilfolgorc nel
me defimoTenfo. A • , M 4
184 DELLA RELIGIONE CLAVD.
NERONE. ARGENTO. MEDAGLIA GRECA.
BRONZO. Apollo dio di [oiukori di
lira. Quella lira fu attribuirai Apollo, perche
gl'antichi penfornoche cifofle Dio de fonatori, dipingendolo an-
cora con i capei lunghi fenza barbala lira, & vn ramo d alloro in
mano,& vn altra volta con vna tazza & vna, velie lunga fino à i
piedi, per mollrare la fua deità. AN DE
GL* ANTICHI ROMANI. ì$$ I l
ANTON. PIO. CARACALLA. ARGENTO. ARGENTO.
- Mai Grecigh attribuirne non folamcntclalloro per vdHoroc 5
la fauoladi Dafne, ma per la virtù della pianta Tempre f*sr*to ai
verde, volendo mollare l'ctcrnftà del Sole, & perche - 1 ella
feruiua nella purificatone de i facrificij, & perche la è mai touo
factranonla tocca,comciha fcritto Plinio:& pcrchcdi U f* u ~ quella
s’ornauonoi turcaflì, le citare, &i cappelli de gli L'alloro de
Imperatori, quando trionfauono con vn ramo d’alloro dic .* t0 * * in
mano, onde il medefimo Plinio la chiamò Portina- ea delle cale de i
Cefiiri & de Pontefici , & nuntiatrice di \ vettoria,
conciò fia chela coróna d'alloro foleua ariti- 1 camente Ilare
legata dinanzialpalagio de gli Imperato- ri, con quella di Quercia in
mezzo, come fi vede per il tcftimoniod’Ouidio nel primo libro del
Mctarriorfo- o iddio. (co douc ci dice, * JMediamtjtie
tuebere ejuercum. Delle quali corone fi rrouano tutte piene le
monete de gl'imperatori in quello modo, < M j
v: c'n;.m r.ll.i: r.:iv i; .«•- ... otr.ooiop
tic DE LA RELIGIONE A VGVSTO. BRONZO.
ARGENTO. Plinio. Inodore
di rdUoroftfc ttiU pejle. Dbterpcpà ture
de U flatua d'Ar pollo. Probo.
La virtù di qucfta pianta c tale, che fc nel tempo di peftc(comc
fcriue Plinio) i’huomo (blamente l'odora Se porta fcco,ei non può hauerc
malc:&: per certo fi legge che cflendo vnagranpeftein Roma, Commodo
fi ritirò à Laurentojcoficonhgliacoda i medici Tuoi, per cflcrc
quel luogo abbondante d’allori. Et quanto alì’imagine d'Apollojoltrc
aU’arcoJefrccciej Se la lira, con la quale lo
(oleuonodipingcregl’antichi, l’Imperatore Gallieno (volendo moftrarela
(ua im prefa d’Oriéte) lofecefcol- pire informa di Ccntauro,con la lira
in vna mano, & nell'altra vna palla con quefte parole., apollini
co- miti, moftrando che egli andaua col fauorc del Sole. Ma Probo
lo dipinfc Copra vn carro con piu razzi in ca- po, & con la briglia
in mano di n n.caualli, chiaman- dolo luuitto con quefte parole, soli
invicto. Et glabri Imperatori , come Coftantino , Aureliano Se
Crifpo ftamporno nelle loro medaglie il Sole ignudo, coronato di razzi,
con vna palla nella mano diritta, Se nella DE G
L' ANTICHI ROMANI. 187 nella manca vnasfcrza, con limili parole,
soli invi- cto coMiTi, fignificando,che con 1 aiuto d Apol- lo egli
haueuono vinto &lbttomeflcdiucrfe regioni.
GALLIENO. BRONZO.
COSTANTINO. BRONZO- PROBO.
BRONZO. A VP EL I AN O. BRONZO. ,
Ec perche alcuni hanno detto che il tempio del Soìè Tempio
del era in forma tonda, però mi èparlbdiriprefénrarequi la SoIe '
medaglia di M.Antonio Triumuiro, nella qualeha fi- figurato il Sole in
vn.tcmpio quadrato,& accompaqna- to da limili. parole, in. v ir r, p.
c. cioc, trxvm- vir i38
DELLA RELIGIONE vir reipvblicae c ons tit v e n d ae, &dalf
altro Ia- to, MARCVS ANTONIVS 1MPERATOR. M. ANTONIO TRIVMV
IRÒ. ARGENTO. Moneta di I Rodianidipinfono nelle
loro monete il Sole coni KodianL razzi j n capo, lenza barba, &
con i capei lunghi da vn lato, & dall’altro (colpirnovna rolà,Hora in
vn modo,& horain vnoalcrocon quelle parolcpoamN apizto-
KPITOI, Se POAION, MONET ARO PI A N A. '
VVù OiT^ v iV MONE DE
GL' ANTICHI ROMANI. <i8j> MONETA RODI ANA.
BRONZO. ALTRA MON. RODIANA.
ARGENTO. Etne roucfci delle medaglie d’oro di Traiano,
Ha- Vorlpat ' driano>& Aureliano Imperatori fi troua ( fecondo
l'v- u°mc2gul fanza de Greci) fcolpito I Oriente per la faccia del So- de
limpt- le,con lettere che dicono , o r i e n s. Ma in quelle di
ratoru Lucio Plaucio fi vede la tetta d’Apollo accompagnara
dadueferpi,comcPythio, & nelroucfcio della medefi- ma medaglia vna
Vettoria,che tiene per la briglia i ca- • ualli del Sole.
TRA Coloffo Rodi-
DELLA RELICION E T R A I A N CL A V R E L 1 A N O.
ORO. ARGENTO. , ' Non erTlaTnaTaTintcntionedi
fcriuerc altrimenti del * ColofTodiRodi,il quale era la flatuad Apollo, perche
io ne haueua già parlato.nel fecondo mio libro dell An- tichità di
Roma,maeflèndomi flato predato vn certo libro Greco antichiflìmo,&
lenza Autorc/critto a ma- no da M Giorgiodi Vauzelles Caualierc di Rodi,
&h- ■ onore della Torretta, quale egli haueua portatodi Grc-
cia,non ho voluto mancare di communicarc a gl altri
huomini DE GL’ ANTICHI ROMANI.
ì*r huomini quello, che io ne ho ritratto intorno à quello, nel
modo che fcguc: Tra gl’altri miracoli del mon- do (dice egli) era il
Coloflo di bronzo dentro à Rodi Deferito- fatto in honorcdel Sole, da
Colalìe in dodici anni,& al- todi fettanta cubiti. La bafeche lo
fofteneua era trian a. golare , & ciafcuno lato (ottenuto da fettanta
colon- ne di marmo. La (tatua era tutta vota dentro & fatta à
(cala à vite, per la quale fi faliuafinoà la cima:&quiui erano
diuerfi ftromenti, che in verfi Iambici faccuo- no vna mufica foaue. In
quella (tatua, la quale era volta inuerfo Egitto , fi vedeua tutto il paefedella
Si- ria, & i nauili che andauono in Egitto, mediate vno fpec-
chioche ella haucua legato intorno al collo , cttcndo del retto tutta
ignuda, con vnafpada nella mano diritta, & nella manca vn’hafta
lunga,tanto che la (pefa cofta- ua ccc. Talenti d’oro. Aucnne di poi, che
doppo cin- quanta anni, che ella era ftatafatta,ellafu metta per
ter- ra da vntremuoto, che durò vii. giorni , & coli rotta in
Mirrile piu parti (ì trouauono pochi huomini, che potettmo ab- trmuoto
' tracciare vnodei fuoi diti grottì,& colui che ne compe- rò i
pezzi del bronzo, ne caricò 500. Camelli.Ma ritor- nando al noftro
Apollo, & alla diferenzachc egli hebbe rifiorii* con
Marfiafonatore,come ha fcritto Apulco,nel primo ** A P °£ 9 libr.de fuoi
Floridi, dico che à cottui parcua edere coli eccellente, che accecato
dalla fua infolenza , non fi ver- gognò di volere competere nella mufica
cori vntanto . v Dio,allaprc(cnza delle mule, le quali, data la
fentenza in fauorc d’ A pollo,fcciono che legato Marfiaad vno al- M
- bcro per punirlo (come ci meritaua) della fua temerità,
fiortiutt. lo (corticaflc, nel modo che ha moftrato Ouidio ne i. t:
fuoi isn . ■ DELLA REE LI Gl ONE Tuoi Farti,
dicendo, o uidio. ‘Prouocat & e Phcebum i < Phxbo fuperante
pependin . Cafa recejprunt a cute membra fua. Et Nerone
nel fuofuggello, del quale la figura cpofta qui di fotto. sy
OO LL LO DI NERONE RlTR ATTO d’ t ma pietra tattica.
Dipingeuono fimilmcntcgrancichi Apollo accom- dtUc°Mufe pagnato bene
(peflo dalle Mule, volendo inoltrare che con Apollo, tra lui Sdoro, è vna
naturale conuentione, fi comcmo- Virgilio, rtrò Vergilioall’horache della
natura di quelle ragio- nando dille, In medio rejìdens
compleBìtur omnia ‘Phccbut. l*. ùv/è Le quali però fumo da gl’antichi
vergini figurate(co- ucrgini. mc h a fcritto Phumuto) perche il
frutto delle feienze « . ' nafee DE GL’ ANTICHI
ROMANI, 1*3 nafcc dal giuditio dell’ingegno, & perche la virtù
occul ta fi contenta del fuo ornamento naturale: &: che l'ha-
bitationc delie Mule uer i monti &; per i bofchi,non fi- gnifica
altrove non cal gli huominipiù dotti & ccccl- imonti. lenti
viuono,& vanno volentieri foli,& feparati dalla ignoranza della
plebe, (blamente (come dille il Petrar- ca)al vii guadagno intenta,
imaginandofi la (ciocca, che le lue ricchezze le habbinoà infondere ad vn
tratto la fapienza,& la dottrina nel capo , perii che diuenuta
infolcntillìma, & volendo riprendere quei, che fanno più dilei,
rimane alla finelcorbacchiata & fcorticata, co- me vna bcllia della
propria pellciilqualc propofitocoti fermò Plutarcho quando fcrilTechei
templi delle Mufe non fi trouauono altrouc le non lontani alle Citta ,
& a i eradichi de gli huomini plebci:& Orfeo & Proclo
ha- no voluto che le Mufe fodero le prime inucntrici della gionc .
rc ■ rcligionc,dclla quale ritorneremo fubito a parlare, che noi
haremo inoltrata la figura del Trepie,ò Tripode d'Apollojgià tanto
celebrato & venerato da gl’antichi. S Apollo, Di quello adunque fi
vede il difegno nelle medaglie d’argento di Vitcllio,& di
Vefpafiano,& (quello che io Rimo anchora più cofa rara) in vn dialpro
rollò antico che io hò meco , douc egli e figurato con vna cornac- a
j chia,la lira,& vn ramo d’alloro, tutte cofe conlagrate à a
pollo, lui, come qui fi vede. * N t>4
DELLA RELIGIONE DIASPRO ANTICO.
VITELLI O. ARGENTO. VESPASIANO:
ARGENTO. Il iimu Tf
GL’ANTICHI ROMANI. 155 » Il fimulacro del Sole, che i
Fenicij chiamorno nella ìtsoledrt - loro lingua HeliogabaIo,fu portato à
Roma dall’Impe- latore Antonino, coli chiamato anchora lui, il quale nel
(,«/„* monte Palatino gli fece fare vn tempio (come fcriuc
Lampridio)& qui volle che non folamcntci Romani, r ma i Chriftiani
& Giudei facchino tutti i loro facrificij, non per altra ragione, fe
non perche nella fuagiouanez- rèpio dedi za egli era flato fatto
fàcerdotc del Sole , honorato & ** s ®: tenuto in grande
riuerenzada i Fenicij, però che gl’ha- tiero&mo» ueuono fatto vn
tempio marauigliofo di pietre quadra- Antonino te, & (come fcriuc nel
5. libro Herodiano) ornato dar- gento,d’oro,& di pietre prctiofè :
onde io ho tra le mie le. due medaglie d’argento del detto Imperatore,
nelle quali fi vede in abito di fàcerdotc di Fenicia facrilicare al
Sole con vna tazza in vna mano,& nell’altra vn ra- mo
d’a!loro,&fopra l’altare, doue c il fuoco accefo,fi Vede il
Sole,& lettere che dicono ncll’vna delle meda- glie, svmmvs sa cer do
s, & nell’altra, invictvs sacerdos ,chc fono i medefimi epiteti del
Sole. HELIOG A B A LÒ.
ARGENTO. FORT V NA. t5rf
DELLA RELIGIONE Io nonmidiftcnderò più oltre àfcriucre la vita
fede- rata di quello Imperatore, ma bene mi dorrò del cieco &
tirannico arbitrio della Fortuna, che lo meflc in quel luogo che ci non
mcriraua,ficomcanchora veggiamo che ella fa di molti altri à i tempi
no(lri,onde gl’antichi volendo moltrarc la fua portanza , & come ella
gouer- naua tutte le cofe del mondo, la dipinfcro con vn corno
pitta* de d’abbondanza in vnamano,& nell'altra con vn timone U
fortund. Ji nauc fopra vna palla. TR AI AN O.
BRONZO. HADRIANO. ORO.
ARGENTO. ANTON. PIO. ARGENTO.
DE GL* ANTICHI ROMANI. 1*7 F,u Umilmente figurata da
glantichi à federe in terra col comocopia,& vn braccio appogiato fopra
vnaruo- ta,per moflrarc la fua inconftanza , & limili parole,
fORTVNAE red ver. Et di qui nacque che A pel le Aprile rr- cclcbratilfimo
pittore Greco,domandato perche hauc- uadipinta la Fortuna à federe,
rifpof? chchaucuaciò fatto per che ella non haucua mai ripofo.
ANTON. GETA TRAIANO. argento. argento.
Ma quella che noi habbiamo chiamata Fortun a, i Greci lachiamorno sella
folle fiata buona,*«^ w, ^ ^ *»»comc fi vedrà per vno intaglio antico
portato di Gre- fortuna cia,& donatomi da Frate Andrea Thcuet
d’Angulcmc, nel ritorno del fuo viaggio di Ierufalem.con molte al-
Caladi tre medaglie antiche, che io moftrerò ritratte, nel libro
che io hò fatto dell’Antichità di Roma, accompagnan- do in quello mezzo
la nollra Fortuna d’vnDiafpro , & d’vna Corniola antica,doueella c
fcolpita con vn cor- no d’abbondanza, & vn ramo d’alloro,
lignificando N 3
della religione DIASPRO antico, corni O- LA
ANTICA. La fortuna accompa- gnava il Ut
to diCefa- ri. Vlinio. Difftnition
de la fortu- na. Arijlofane. Tempio
fu- perbo de la Fortuna in Prenefte.
Vcdcfi per l'hifìorie che vna Fortuna tutta doro acr compagnaua
Tempre il Ietto de gl’imperatori , & che quando ci veniuonoà morire,
in Tua prefenza eraporta- taàiloro fuccelforr.ondePlinio la chiama
leggiera, in- conftante,&fallacc,come quella che fauorilcei
manco degnirnon dimeno , alla verità, la Fortuna non c altro che la
prouidenza di Dio , dalla quale fecondo i noftri iteriti noi riceuiamo
male,ò benè.Et la caufa perche gl'antichila dipinfono anchora cieca, fu
per la cagione nominata di fopra-di che ha molto bene icritto
Arifto- fahe nel fuo Plutone,DiodcIleRicchezze:il quale argu •
mento hà Tradotto Luciano nel fuo Mifarftropos.il det- to Ariftofanc
fcriue che quando Giouc donale richczzo à i buoni, ei fi moftra zoppo,
& porgedoleà icattiui,cor- re leggiermente. A‘ Prtfncftc anticamente
fu il fupérbo . tempio di Fortuna cdificatoda Sylla , con la Tua
ftatuà di bronzo dorata, la quale èra di tanta eccellenza cheli
foleuadire perproucrbio(volendolodarc vna cofaben dorata
DE G L’ANTICHI ROMANI. w> dorata) la doratura Prcneltina.
Nc contento Sylla di quello, cominciò à fare il pauimento di detto
tempio di Mufaico,chegl’antichi chiamorno Lytoftrates , con
mirabili figure di diuerlì colorali comcPlimo (parlando dei pauimenti)
fcriuc nel xxxv. capitolo del xxxvi. li- bro dcH’Hiftoria naturale. Et
perche la Fortuna può molto nella guerra, però mie parfo di collocarla
preffo lo Dio Marte, al quale i Romani feciono fare diucrli
templi,&dandoglifacerdoti , detti Salijdo chiamorno vna volta
Vincitore, all'hora cheei porrà vna Vettoria (lilla mano:vn’altra volta
Propugnatore, Vendicatore, &Pacatore, quando egli haucua nella mano
dritta vn ramod’vliuoj&nellaltrala fuahalla con la corazza à i
piedi, & dinanzi targhe, rotelle, & il celatone,con vn pen
nacchio,& lettere cnedicono , Marti pacatori, li- gnificando che
quelli che vanno alla guerra, li debbono lenza paura moftrarc à inimici.
M« [aito. MARTE- Epiteti
di Marte. Qui ua al- la guerra non deve
ha tter paura. V 1TELLI O. ANTON.
PIO. zoo L’haftachc eiportauafu chiamata
Qiiiris dai Sabi- ni,& Romolo Quirino,comefi vede per le
infralcrittc medaglic,doue egli è dipinto tutto armato , per
fignifi- care,che lui era vendicatore, nel modo che lo chiama- rono
i Romani. QniriJ. Marte QH* rtno.
ANTON. PIO. BRONZO. V
DE GL’ANTICHI ROMANI. aoi GORDIANO. ALEX. MAMMEA.
BRONZO. HADRI ANO. ARGENTO.
CLAVDIO. B R O N ZO Il tempio di Marte
Vendicatore fu fatto i Roma per Tépioetifì Cefare Auguftoin forma tóda,à
cau fa della gucrra.chc egli haueua giurata concra Filippo, per vendicare
fuopa da a ugufto dre,come fcriue Suctonio,& Ouidionci Falli, doue ei
Ct f* re ’ dice Tempi d feresfè) me vittore Vocaberis Ultori
ouidio. Uoueraty&fufoUtnt ab bojlereJit. Scriue
Dione neliniUibrodellHiftoriaRomana, che OÌ9at » N 5
ARGENTO. r pmfr. 101 DELLA RELIGIONE
Celare Augufto edificò quello tempio in Campidoglio} & vi fece
portare gli ftendardi &inlcgne militari, con l’Aquila deRomanirondeil
Senato dipoi volendo an- chora maggiormente honorare Ja fua memoria, vi
fece condurre il carro fui quale egli haueua trionfato. A VG
V STO. L. - CTN NX ARGENTO. ARGENTO. Si come
gi’antichi dipinlero Marte, nelle maniere già ville di fopra, chiamandolo
infieme con Giouc Vendica torc & Propugnatore, & in molti altri
modi Greci & La- ùniche forebbono troppo lunghi à raccontare, coli
dir pin A V G V S T O. ' , .
Ci , ' * ARGENTO. DE CL’ANTICHI ROMANI.
*>3 jpingendo Venere, la chiamorno Vincitrice, con la Vet-
raria, Io feeeero & appogiata fopra vno grande feudo, & v e n b -
altra volta con vn morrionc in luogo di Vettoria,ò con R E * vna palla,
in figno che ella haucua fupcrate in bellezza tutte Falere Dee. Il fuo
carro,fecondoil direde Poeti, era carro div e tratto daduocigni:Ecper
tanto dice Ouidio, - JuriBif^ue per dir A cygnis 'C arpie
iter. C A R A C A L L A M ACNVR B FcX nere
tratto da duo ti- gni. PLAVTILLA. FA
VSTINA. La Ve io4 DELLA RELIGIONE
venere La Venere chei Greci chiamorno Afroditi ,i Latini 1 hanno
detta Dea di bcllcza,&di gencratione,nata(fec6 do i Poeti)dclla
fchiuma del marerEt Cicerone nel libro della Natura de gli Dei,parlado di
i n i. Venere, dice che Tempio di l’vna fu figliuola del Cielo,& di
Giouc,&haucre vifto il eMc* hi o tempio in Elide: l’altra vfeita
della fchiuma del mare: la terza di Gioue& Dione moglie di
Volcano:& la quar ta Siriaca di Siro nominato Allarte,chc fu quella
mari-J D*r vene* tat ‘™l bello Adonc.MaPlatone nel fuo Conuiuio
hàpo re fecondo fto due Venere, vna cclefteche incita gl’huominialbuo
vintone. no amorc> & l’altra terrena che gli muouc al piacererdi-
cendo chela prima fenza madre fu figliuola del CicIo,& venere uc- 1^
altradi Dione &diGioue:Iaquale 1 Fenicijvenerauo- ne rata
Tcnicij. ta dai no afiai, per cflere (lata moglie d’
Adone, & Adone nato nel pacic loro, onde in memoria della mortedi
quello lamentandoli lefaccuono facrificio:le quali
fàuololc opinioni & fu perftitioni lanciando tutte in dietro,
ven- ghiamoà vedere come fenfa laVcttoriala dipinfcCe- fare
Dittatore nellefue medaglie. ARGENTO
GIVLIO CESARE. Et ne DE GL’
ANTICHI ROMANI. io* Et ne i rouelci delle medaglie d’argento di
Cefa re mi - norc,fi veggono due Cupidi condurre il carro di Vene-
corrodi ut re volando, & lei che ticncabbracciato il fuofccttro
con 11,. lo d 4 duo lettere che dicono, lvc n ivli
lvcii filii. cupidi. Gl VL. CESARE.
ARGENTO. AVGVSTO. ARGENTO.
Auguftodipoi dedicò à Giulio Celare il tempio di Tempio di
Venere Genitrice, coli adorata da i Romani, &alla qua- j' n ' rede '
le haucua Cefarc fatto vn bullo di perle, le quali (come A u g u ji 0
fcriue Plinio nel libro xxx vi. dell Hilloria naturategli Ctfurt, haueua
portate d’Inghilterra, hauendo prima farrofa- bricarla detta figura
diVenere Genitrice da Archefi- lào:& per la fretta di dedicarla,non
fi fendo potuta for- nire, coll imperfetta la collocò nel mezzo del fuo
Foro. nf i" AV. * 5:1
' OU < K ri. ; • c $ -iìtfj
.1 'J J 106
R E LI AVGVSTO CES ANT I- NOVS.
Tempio £ fAntinoo magnifico e di fiotto da
Adriano, fopra il Ni lo. Taufania in
Arta£ck. Io non hareì altrimenti qui fcritto d’ Antinoo ,
quali tunqucHadriano Imperatore lo faccflegià deificare, fc
10 non mi forti per forte ritrouate due fue medaglie, che 11
detto Imper.fcce battere in honoredi quello, doppo chcei fu morto,
accompagnando Hadriano nellafuapc regrinationc fopra al Nilo:il quale non
cotento di que- llo, & doppo haucrlo pianto molti giorni, gli fece
edifi- care vn tempio, &vno altare, con vna Città chiamata dal
fuo nome,douc meflè faccrdoti & Flamini per farti làcrificio:&in
Arcadia nella Città di Mantinea feccfir milmcntc vn’altro tempio
celebratiflìmo, con ftatuc ne igynnafij,& per tutta la Città fono
nome di Dionifio, come narra Paufania.EtpcriI rouefeio dvnamcdaglia
ch’io mi trouoncllcmanijè riprefentato il tempio ma- gnifico eh Hadrianp
fece edificare fopra il Nilo in fuo honore,& adornare &
arricchire di belle ftatue& inda- gini, con talcinfcrittione,AAPiANos
okoaomhìen, che voi dire, adrianvs constrvxit, frdifottoil
tempio de gl’ Antichi romani. tempio è
vnCrocodilo, animale particolare del fiume Nilo, nel quale mori
Antinoo. MEDAGLIONE GRECO CANTI NO O.
■f k
DELLA RELIGIONE MEDAGLIONE GRECO
D-ANTINOO. Antmoo tu Ma nell'altra
fua medaglia fi vede vn giouane di Biti toin b iti- n i a Ji marauigliofa
bellezza con lettere Greche che dico nO,OZTIAlOZ MAPKEAA02 O IEPETt
TOT AN * » or. & dall’altro lato, t 012 axaioxx an e ©hke ,
cioè , HOSTILIVS MARCELLVS SACERDOS ANTIN0I acheis dic
avit , & nel rouefeio della medaglia c il eauJb fcolpito il cauallo
Pcgafo,& Mercurio con i talari & il regdfo. Caduceo. DAGLIONE
GRE D'ANTJNOO. Fina DE GL’
ANTICHI ROMANI. i °9 Finalmente per l'intera cognitionc de i templi
anti- chi, quanto alla religione io ne ho farti ritrarre 1 1 1
i.qui di lotto, de quali pcreflère le medaglie logore, non ho
potuto tirare (enfo alcuno. CL. NERONE. TITO.
BRONZO. BRONZO. SEVERO. bronzo.
bronzo. L’ vicini o di quelli quartro templi,fattoin forma
ron VESTA - da,parequafi limile à quello di Velia tanto riuerira da
r Romani, per ripofare là dentro Iaftatuadi Mi nenia, fta- ta
portata, da T roia:& la quale era in tanta vencrationc O —
- no Tempio di Pace abbru
ciato. DELLA RELIGIONE che mai huomo non
l’haucua vida.Nondimeno quado abbrucici il tempio della Pace, il fuoco
s’appicò anchora à qucfto,onde le vergini Vedali prefo il Palladio, &
con cdo paflandoperla via facra, lofaluornofìno al palagio
dcirimpcratorcj&vcdefi il Tuo ritrattone irouefei del- le medaglie di
Vcfpafiano,& di Giulia Pia, che non è al- troche vna piccola datua di
PaIlas,con l’hadainvna mano, & nell’altra vno brocchiere.
VESPASIANO. GIVLIA PIA. ARGENTO. ARGENTO.
CLAVDIO. VESPASIANO. ARGENTO. BRONZO.
Fedo DE GL'ANTICHI ROMANI. in
Fccionogl’antichi quello tempio di Vefta informa Tempio di tonda,llimando
che tale Dea folTe la terra, & il primo fu Numaà corniciarlo per
addolcire, lòtto Ipctie direligio ne, la ferocità de Tuoi fuggetti.
EVINTO ARGENTO. NERONE.
ORO. VESPASIANO. ORO. ~
L’entrata dfq nello tempio era vietata à gl’liuomini, comeànoi
hoggiquclla deMunilleridcIIc nollre Mo- ^ nache già (late riformate
:& il numero delle Vertali fu drOcvrfia- ncl principio mi.&dipoiv
i.& coli durò lungarni nte, w - O ‘ z mi
DELLA RELIGIONE come mollrano le medaglie di Fauftina , & di
Lucilla^ ùiu'vr/lì nc ^ c c I ua ^ fi vede il loro modo di
facrificare,con i loro li. vefti menti bianchi.chia mari dai Latini
Sufftul* , lun- ghetti & quadrati , tanto che le ne potcuono
coprire la iella, & Maflìma tralalrrefcome farebbe tra le noftrc la
BadefTa)hauere come prima il fympulo (vafo ordinato peri facrificij)in
mano, & l’altra innanzi alci, chela ri- guardaci turibulo in mano
Umilmente detto ^cerradi Latini, col quale(facendoalIa Dcafacrificio)dà
lo incen- do alla Dea fopra all’altare, dipinto inficmc concila nel
modo che fi vede. '-'FAVSTINA: medaglione di BRONZO. LV
CILLA. Augmcntornocoltcmpo quelle Vertali fino al
nume fiali orditi* ro di vcnth&bifognaua per edere Monache
cheellefof tt al [imi- £ no natc Ji padre libero non feruo, vergini,
& lènza ma fta. 1 Vt ~ cula alcuna nella loro pcrfona,& d’età di
Tei anni fino à dieci, nel qual tempo era loro infegnato 1 vfo del
facrifi- care,comc moflra la medaglia di Fauftina, netta quale fi
vede la piccola Vellalc riceuuta dentro al Munifleroda quale
DE GL* ANTICHI ROMANI. zi 3 quale à capo d’altri X.
anni faceua làcrificio , & ncl- l’vltimo della fua vecchiezza
inlègnaua all'altre que- fiomedefimo,con qucftaconditionc,chcinxxx. anni
vajffti io. fi poceuonomaritare,quatunquc(pcrquellochc filcg- jj IHp p 0
u ge^tutte quelle che cxercitorno quella vita, furono sfor uano mari
- lunate &. capitorno male. Etpcrchedi fopra habbiamo ttrc ‘
detto che la principale di Ioro,cioè la Badeffa fu da i Ro mani chiamata
Maflìma : noi prouerremo quello per due Epitaffi antichi fiati ritrouati
à Roma nel noftro tempo ,1’vno de i quali comincia, &fornilcc in
quello modo. Epitaffio di Fiatila Manilla U e
fiale. FL. MANI LI AE V V. MAXIMAE, CV1VS EGRE- * G1AM SANCTIMONIAM
ET VENERABILEM MORVM D1S C1PLLNAM INDEOS Q^VOQ^. PERVIGILEM
ADMINISTRATIONEM SENA- TVSLAVDANDO COMPROBAV1T AEM1LIVS FRATER ET
RVFINVS FRATER ET FLAV1I SILVANVS ET H IR E N E V S S O R O R 1 S
FILII A' M I LI TU S OB EXIMIAM ERGA SE l’IETA- TEM PRAESTANTIAM
Q^_. Epitaffio di Claudia Elia Claudiana ZJ e
fiale. CL. AE LI AE CLAVDIANAE V V. MAX. RELI- GIOS1SSIMAE
BENLGN1SS1MAE Q__. CVIVS RITVS ET PLENAM SACRORVM ERGA DEOS
ADMINISTRATIONEM VRBIS AE- TERNAE LA V DI B V S SS. COMPROBATA OCTAVIA
HONORATA V V. D1V1NIS AD- MON1TIONIBVS SEMPER PROVECTA. O
5 i!4 DELLA RELIGIONE Erano quelle vergini
Veftali hauute in grandilfima vcnerationcdal popolo Romano, come fi vede
nelquin venerano - to libro della prima Deca, di Tito Liuio, douc
èferitto wrfoUv* c b c rincontrandole vna volta à piede Albino
huomopo fiali. polare,comadòalla moglie & a i figliuoli di
Icéderedel carro, perfarui fiilircfopra levcftali: &quefto
aueniua pcrlarfucrcnzachc i Romani portali ono al fuoco pcr- fuoco
per - p Ctuo ,che ledette Monache tcncuono Tempre accefo,d pttU °'
qualcfe per dilgratialafciauonofpegncrc, elle erano dal gran
Pontefice acerbamcte caftigare,quantunquc ogni r inoiutio- annofoflTcda
loro rinouato,quafi nel modo che foglia- ne del fuoco mofarenoidcl gran
cero di Pafqua.Su l’altare degli He U fitto fan brei fimilmcntcftaua
Tempre il lumeaccefo,fignifican- no in anno . do che le grafie di Dio Ita
no Tempre per gl'huominiap- parecchiatc tanto di dì, che di notte:&
nella miftica Tco logia de gl’antichi Verta non fignificaua altroché
fuoco, ilquale(comedicc Furnuto) perche nel Tuo continouo mouimcnto
per le medefimo non genera nulla,però era dalle vernini guardato : &i
Poeti anchora (parlandodi fuoco. Vefta)l’hanno Tempre prefa & intefa
in qucfto fcnlo,co- me fi vede in Ouidio,quando ci dice,
’Nectu aliud "vejlam ejuampuram intelligejlammdm, ‘Natdque de
fiamma, corpora nulla. vides. Iure igìtur virgo e[,(jua [emina
nulla remittìt, *tiec capirà comires virginitatis amar, dciic’vc-
Anzi furono quelle Veftali in tata auroriti,chelpcf- flali. Co
pacificornoinficmeil Popolo Romano nelle guerre ciuili:& ho ollèruato
io che,quado entrauono la prima Lt ve fiali volta in Muniftero fi
tofauono, come anchora hoggi fan togate. no ] c Monache noftre: ne era
loro permelTo di lafciarfi piu DE GL’ ANTICHI
ROMANI. più crefcereicapegIi,comcfi vede in Plinio , quando
al xvi.Iibro dcH’Hiftorianaturale fcriue: Antiquior lothos efiejua
C<t pillata dicìtur,quoniam xirginum Uejìalium ad ea capillus
defertur.\\ vitto loro vfciuadal publico, & durò quella vfanza (ino
al tépodiTeodalio Imp.chriftiano, al quale mandorno iGécilhuomini Romani
Symmaco Patritio per ambalciacorc fìnoà Milano (doue all’hora
faceua refideza il detto Impcratore^pregandolodi con- fcruarc i priuilegi
alle loro Vertali, acciò che elle potelfi- no cflèguire i teliamoti
&lafciati ftati loro fatti da diucr Ce pcrfone,però che i loro beni
potcuono cflcrc tali, che di quello che farebbe auanzato loro, harebbono
potu- to aiutare molte pouere pcrfonc,& guardare che aliai di
loro nonfoflero andate mendicando per Roma, & po- tendo giouare
anchora à iforerticri.Nondimcnofu tan to in quello
roftinationedcH’Imperatore,che Symma- co non potette ottenere il
defiderio Tuo, ne del Popolo Romano:& cofì fumo tolte alle Vertali
tutte l’entrate, di che egli dolédofl nella fua oratione,dice limili
parole: Honorauerat lex parentum TJejlales virgines,ac minitlros
Deorum vittu modico, iu fi fijue priudegmfijtt muneris huius integriti
yfque ad degentres trapelerai. Soggiugnen- do più baffo. : Sequura ejl
hoc fames puhlica , & Jf>em prouinciarum omnium me fi agra
decepit,. 'Non fìtnt hac "pitia terrarum , nihil imput ernia aufiu ,
nec rubigofe - getibus ohfuit , nec auena frugei necauit. Sacrilegio
annus exaruit. Ne cefi enim fiit perire omnibus quod religioni- bus
negabatur. Quid tale proauipertulerunt,cum religtonum miniftros honor
publicus pafeeretì A' i quali argu menti rifpofe poi affai bene
Prudentio,moftrando che innan* O 4 ir 5
Le Veftali haue ujno lor vitto dal
publico. Teodofìo imp. Cbri- ftiano. Symmaco
patritio am bafi. Amba f. di Symmaco nulla
. Aifrojìa de Prudcntioi Symmaco-
ruf DELLA RELIGIONE zi che il Palladio, ncVcfta
, ne lari, ne Dei penati follerò itati portaci àRoma,ilportod’Hoftiacra
picnodinaui- li carichi digrano,i granai pieni iìmilmétc,&
tanta gran de abbondanza di viueri erano in Roma,chc neiTunofo
reitiero che vi venifle per vederci giuochi Circciì,non morì di famc,&
che fc tal volta la terra iterile non ren- derla le biade in abbondanza,
naiceuaqueito,ò per cagio Trudtntio. ne dcH'aria.ò per altri
accidenti naturali, il cheanchora meglio dichiara nel principio del iuo
libro fecondo, do- ue dice parlando contro àSymmaco: Ultima
legati defitta dolore querela ejl , ! Palladiu quod farra focu,vel
quod fip'u ipfs U irgimbm } caìlifque torti alimenta negentur. h
XJeJlales foluù faudenturfumptibus ignei. Doppo laqualc
rifpoitadcicriucndo la vita & modi ho- nciti delle vergini Vertali, dice
in quello modo: Qua nunc Oefalis fu virginità tu bone fot,
2)ifcutiam,qua lege regat decus omne pudori*. kA c primum parua teneri i
capiuntur in annis, lAnte Voluntati* propria, quam libera feda
Laude pudiciria feruens,(Q amore Deorum, 1 tifa maritandi condemnat
vincala fexus. Captiutts pudor ingrata addicitur arit ,
‘Nec contenta perir miferisfed adempta voluptas , Corporii
intatti meni non intatta tene tur. ’Necrequies dar uri Ila torli ,
quii ut innuba cacum ZJulnuiy&' amiffat fujjnratfoemina redat.
Tum,quianon totum JJ>es falua interfeit ignem, Nam refdes
quandoquefaccs adolere licebir, Feda
Dtfcrizio- ne della ui ■ ta delle Ve fiali.
DE GL* ANTICHI ROMANI. FeJldrjue decrepiti s offendere
flammea canti Tempore prafcripto, membra intemerata retjuirens ,
Tandem virgineam fajlidit Zdejìa feneBam, 2)um rhalamit habilis
timuit Vigor, irrita nuUns Foecundauit amor materno vifcera par tu
, Tdubir anta veterana [acro perfunBa labore , 2)efertisejue
foca, tjuibus ejl famulata tuuentus, Transfert emerita* ad f ultra
iugalia rugar, Z)ifcit &• in gelido noua nupra repefcere
leBo. Intere a dum torta vagos ligat infula crine s,
Fataléfjue adoler primas innupta facerdos, Fertur per mediai vt
publica pompa platea t. Rilento refdens, molli scejue ore
reteBo Imputar attonita virgo ffeBabilis Vrbi: Inde ad
concejfum cauea pudoralmus expers Sanguina, it pietas hominum vifura
cruento s Congrejfu, morte fjue,^d vulnera Vendita pajlu Spellatura
facris oculisfed & illa Verendis, Vittarum infignU phalerufuiturtjue
lanifis. 0 tenerum mirimene animarne onfurgit ad iBus, Et
tjuoties viBorferrum iugulo inferir ,illd T)elicias ait effe
fuas,peBufe]ue incentri TJirgo mode fi a iubet conuerfo pollice
rampi, *He lateat pars ‘itila anima vitalibus ima girini
impreffd dum palpitar enfe fecutor. Hoc illud mentum efl,tjuod
continuare feruntur Excubiat, Lari] prò maiejlate palati],
Quod redimane viram populi.procertimaue falutem, ‘Perfundunr quia
colla comis bene, Voi bene cingane Tempora taniolrsjtf litia crinibue
addane. 9 5 p ompa iti le V filali
nel tempo di Pruden- ti. Di qual ma feria
fabri- cauono gli antichi le imagini. p aufania
in Arcadie if. \A uite è mtn fugget ta à
corro- sione. U8 DELLA REELrGIONE Et quia
fubterhumum lujlrales rejlibus Ombrìi In fldmmam tuguUnt
pecuJes,&' murmurc mifeent. Quello c tutto quello che Prudentio
fcriue della fuper (licione & pompa delle Vertali , che acconcic
lafciua- mente andauono fopra i loro cocchi, o carrette à vede- re
tutte le felle St giuochi cheli faceuono ne i circhi & Amfiteatri
& (oltre à quello che fi conuienc all’habi- to,& l’animo pio de i
religiofi)pigliauono piacere di vedere i gladiatori combattere con le
beftic feroci, & ammazare le pcrfone,ondc Prudentio nella fine de
ver- fi fopradetti priega l'Imperatore di tor via coli fatti
fpettacoli crudeli, dicendo in quello modo, Te precor ^ Aufonij
T)ux ^Auguftifìme regni, TJtum trifie ftcrttm tube *s ,yt exter a
rolli. Hauendo à baftanza fcritto de templi, & nomi de
gli Dei & Dee de gl’antichi Romani ,rcfta à vedere, & faperela
materia della quale ei fabricauono le imagini Sellarne loro. Qucfteerano
(come IcriucPaufania) dc- bano,d’arcipreflb,di cedro, di quercia, di
loto,di milacc, & di boflolo , anchora che Teofrafto vi aggiunga
la radice deU’vliuo per le ftatue minori, & Plinio la vitc^
quando ci dice dhauere veduto nella Città di Polo- nia il fimulacro
antichiflìmo di Gioue fatto di legno di vite : la quale cofa io crederrei
facilmente potere effere fiata vera , confiderato che Ce gl‘antichi
eleggeuono i fopradetti legnami, come quelli che durauono aflai, la
vite fenza dubbio, è quella che è men fuggetta alla cor- rozionc,ficome fi
è villo per diuerfe fperienze, quan- tunque la ftatua di Mercurio in
Arcadia non forte fatta d’alcuno de i fopradetti legnami , ma di quello
che c chiama DE GL* ANTICHI ROMANI zip
chiamato Thya,& da Homcro Troìetbes ; la fpctic del rhya. quale è
limile aH’arcipreflb di rami, di foglie, d'odore & di
frutto,&comcfcriueTcofrafto, tenuto in pregio per l’odore tra tutti
quelli, che nafeono nella contrada di Cyrcne,foggiugnendo che della Tua
radice fi faccuo- no anchora mille intagli & cofc pretiofe. Vfiirono
fi Gli antichi milmcntc gl’antichi di fare ftatue di cera & di falc,
onde u b aron ? di non è molto tempo che in vna grotta prefloà Volterra i
magni & nefurno alcune ritrouatc, fi come anchora fi trouano
molte cole antiche di vetro, tra le quali io ho vn vafo fatto in forma
della teftad’vn Moro, & ripieno il fondo di certa compofitionc
anticaglie fa molto di buono, il qualccon molti altri fu trouatogiànel
Delfinaroin ca- la del fignore della Motta, che ne fece prefente alla
buo- na memoriadi Monfignore d’Orliens. Adopcrorno ol- tre à quello
gl’antichi nelle imagini loro, l’oro, l’argcto, il bronzo,il ferro, lo
llagno,il piombo, l’auorio, &ìater ra grafia detta arzilla,
accompagnandole permaggiorc ornamento de iloro templi, di pietre
pretiolè, & final- mente fi feruirono d’ogni forte di marmi, portati
dilon tani paefi. Dal quale ragionamento venendo al modo
&ordinedelorofacerdoti,&facrificij,dircmo cheque- f^dlu Ili fumo
diuerfi,comeil maggiore,& minore Pontefice, Romani. Flamini,
&Archiflamini, che tcneuono i primi ordini fagri:gl’Auguri per
gl’vccelli:i Salijper Marte, & altri preti particulari (quali
come i noftri Canonici) che fur- r rr lì 1 • i i . . . . .
Sacerdoti no afiegnati alla memoria de loro Imperatori, da poi che
Augnati» egl'erano fiati deificati, come gl’Auguftali
d’Augufto, gl’Heluiani d'Heluio,gr Antoniani d'Antonino, gl’Au -
TulTiìanU rcliani d’ Aurelio, & i Fauftiniani di Faufiina ,
tutti oidi- f*»fiinia- na 220
DELLA RELIGIONE nati per la religione, pietà, & fàntità,
la quale Cicerone interpreta per la fciéza d’adorare i loro Dei, ò più
rollo demonij,& per fare facrificij, cerimonie fagre,dedicatio-
n',confasrationi,(uppIicarioni,proccflìoni, voti &altre loro vane
pompe diaboliche, & vane fupcrllitioni. Sicrrdotio
ic i futi Amili. QUffto fi- enfi do
è detto da Li tini. Ambir tuli fieri. 2)
e s^t Cervo ti 1 et fz^ti Ornali elei facrificio chiamato isi
mheruale . Omolofuil primo inuentorc di quello ordinc,8c
dicreare il primo facerdotc per i facrificij publici intorno alle
terrc,& al- le biade , acciochc elle crcfccffino in
maggiore abbondanza , pigliando per infegna vna corona,
ògirlanda di fpighe, legata con vn cintolo bianco, ne palfauono il
numerodi xn. Quelli cofì fatti faccrdoti,&il modo del loro facrificio
era tale. Il primo di quelli facerdoti accompagnato da tutti
graltri,&r coronato d’vna girlandadi quercia , cantando le Iodi di
Cerere con vna troia,© vna vacca pregna cir- cundaua tre voltci campi
pieni di biade, & doppo ha- uerebeuto del vino,& del latte
innanzi che fegarc le biade/acrificauaà Cerere la troia, ò la vacca. Et
il pa- ftorcvolendoalficurarcilfuo belliame dalla rogna & da
tutte altre malattie, gli fpruzaua prima 1 acqua fopra, &di poifatta
vnafaccellinad’aIloro,& di fauina mefeo- lata con zolfo
I’acccndeua,& tre volte circondando il Tuo belliame con certi verlì
facri Io profumaua,facrifi- candoneH’vltimo vna torta di miglio, & di
latte alla Dea Pale,auocata dei pallori, credendo in quello modo
rende DE GL’ ANTICHI ROMANI, in rendere
ficuro( come e detto) il Tuo gregge da tutti quanti i mali.
~1d E q L‘ V g V X I, ET Z> E U lor dignità. Verta
fpetie di religione fu portata à Ro- cicerone ma & inlegnata da i
Tolcani , la quale A»g»re. Cicerone (per eflèrc flato di quefto or-
dinc^ Icriue nel libro della Natura de rate di prò gli Dei, 8i doue egli
hi parlato de Diin- ^tf^aiKo natione,cllerc fiata tanto venerata da
Romaniche non mani. harebbono mai fatto, ne deliberato cofa alcuna
dentro o fuora di Roma,che prima non haueflìno prefo l’Au- gurio.
Anzi venne quella dignità in tale riputatione, rifpetro allhonorc &
vtile , che ne riceucuono quelli eh erano Auguri,che i primi Romani
cercauono d’en- trare in quefto laccrdotio, come fi vede per le
medaglie di Pompeo, &di Ccfarc Dittatore, che vi mcllèanchora
M. Antonio & Lepido, nelle quali fi troua il lituo(bafto- m. Anio- ne
torto & limile alpaftoralcdeinoftri vclcoui^ilfym- pulo,i 1 cappelloni
vafo,&i pulcini , tutte infegne che moftrano la dignità &cofe
necclfaric à quefto officio. IL LI DELLA
RELIGIONE r* * «► IL L 1 TU 0, S USTORI B UV-
gurale degli antichi Romani. GIVLIO CESARE. POMPEO.
argento. a r r. f. n t o. M. AVR.
DE GL' ANTICHI ROMANI. zz 5 M. AVR. ANTONINO, ET AEL.
VERO. RESTI T. ARGENTO. ARGENTO.
ARGENTO. M. ANTONIO. ARGENTO.
ARGENTO. Erano Nuwfro
de gli Auguri. Augurato- rio.
jJtuoJbajlo ne Augura- le. zi 4 DELLA
RELIGIONE Erano in quello Collegio degli Auguri tre nel prin-
cipio diputati,àcaufia delle treTribu,&di poi quattro
comeficriueHalicarnalèo. Madomandando il popolo col tempo che quello
numero folle crclciuto, ve nefuro no aggiunti cinque della Plebe &
mi. Patri tij, & coll continouò dipoi femprequeftavfanza di
noueinterpre- ti de gli Dei fino alla fine. Il luogo, nel
qualcfipiglia- uono gl’Augurijieraà modod’vn tempio, douc l’Au-
guratore ftaua àlcdcrccon latclla velata, & il Lituo in mano,col
quale fegnaua 1 quattro angoli del ciclo, eficn- do veftito d’vna verta
doppia, & lunga,tintain Scarlat- to, &chiamata Lena, o Trabea da
i Latini, come fi vede nelle medaglie di M. Antonio , con tale
infcrizione, MARCVS ANTONIVS LVCII FILIVS MARCI NEPOS, AVGVR
1MPERATOR T E R T 1 V M. Et in vn’altra fi vede la terta del Sole , con
tali parole abbrcuiatc,TRlVMViR REIPVBLICAE consti. TVENDAE CONSVL
DESIGNATVS ITE R VM ET TERTIVM: & figurate con altre di
LcntuloSpin- ter,nel modo che fi vede qui di fiotto. m.
anto"n ia ARGENTO. Lcntu
LENTVLO SPINTE R.. ARGENTO.
ARGENTO. Ec per venire alla conclùfione di quanto io voglio
vtjtidift- fcriuerc de gl’Augurij, io metterò qui dinanzi la. figura
a»* ritrattadVnàmedagliad’argétod’AuguJfto, nella quale SUuU ' fi
veggono ifacerdoti conlorovcfti lunghe, & il fimpu I . lo , &
lituo in mano x tutti inrtrumenti accomodati alla loro
religione, • -V P • H] k ■
i fi Wc
ite • DELLA' RELIGIONE xXrGygt ET SACERDOTI. CHE. PORTANO
L'Vfitt- gnt tltld religioni per mejlrdr U fitti.
% DE GL* ANTICHI ROMANI.’ I17 Quanto all’augurio
de Galletti , & del loro beccare, onde gl’Aurpici de i Romani
folcuono pigiare l’augu- rio, & giudicare delle cofefuture,anchora
che io ne hab- bia ragionato qui difopra,&chciociò ftimicofa
ridicu la, vana & piena di fuperftitionc, io nondimeno non ho
voluto mancare per fatisfatione del lettore & de gli amatori delle
buone lettere di moftrarne qui Ja.prefen- te figura. P
a 2*8 DELLA’ RELIGIONE FiayK^f È ITA ATT A Dt-LL
c/f JUXD^GtliA D'iAM- gmtt iiJU.Lef ìit rriummrt.
- • - — DE GL' ANTICHI ROMANI. I
Romani hcbbcro in tale venerationc i lacerdoti drepolli allo Aufpicio,
che ei fondauono tutto il loro giuditiodcllccolcaucnire & di quello
che doucuono fare,(opra il beccare de polli, non cominciando alcuna
imprefa che prima non hauclTìno prefo quello augu- rio,ncl quale fé vedeu
ono beccarli allegra mentc,piglia * uonotalcofaperbuonfcgno,&lcalrrimentiaccadcua,
ne de ro- non faccuono in quel giorno cola alcuna. L’huomo, che
baueua la cura di quelli polli, li chiama ua pvll a • Rio, & la
gabbia, ò Hia douc erano rinchinlì, cavea tVL l aria, fatta nella
medelìma forma diqucliachclì vede di marmo nella loggia del palagio dei
Cardinale Cclìsin Roma,accompagnara d’vn bcllilHmo epitaffio pollo
qui di Lotto nel modo chefegue, wt I.
0 ST1U *P ZJ L L ria, ritratta <Tì>n marmo antico in Roma
. * 3 o DELLA RELIGIONE ’ M. POMPEIO M.
F. ANI ASPRO > LEG. XV. APOLLlNAR.> COH. III. PR.
PRIMOP. LEG. III. CYREN PRAEF. CASTR. LEG. XV. VICTR.
ATIMETVS LIO. PVLLAR1VS FECIT ET SIBI ET M. POMPEIO M.
F. ET C1NCIAE COL. ASPRO SATVRNINAE , FILIO SVO ET VXORI SVAE
■ M. POMPEIO M. F COL. ASPRO FILIO MINGRI U.varro.
1 fdctrioti differenti fecondo le
dijferentìt de gli Dij. Ornamen- to del
fla- mine Dia- le. Del Flamine Diale.
Sacerdoti di Giouc& di Marte fumo ora- dinari, & chiamati
Flamini da Numa Pompilio: onde Varrone nel libro della Lingua
Latina dicc,chcgrantichi hebbe- ro tanti Flamini j. quanti haueuono
Difc come il Diale di Gioue,il Marnale di Marte, il Quiri- nale di
Romolo, il Volcanale dì V òlcano, & molti altri alla differenza de
noltri che noi chiamiauono Vcfcoui, Archiuefcoui, Patriarchi,
Cardinali. Mail Senatodipoi ordinò anchora Flamini à ^'Imperatori
diati da loro deificati-come gl’Auguftali per Augufto,& gl’
Antoni- ni per Antoninoctra quali il Diale era meglio vellico de
gl'altri, & haucua la fua Tedia d’auorio, ordinata loia- mente per i
Magiftfaci, &il Flamine lolo portauail cap- pello biancojfcnza.il
quale non gli era lecito vfeire fuo- ra dicafa- CAP
.«Sw -'-v - DE GL* A NTICH I ROMANI.
z)i CAPPELLO DEL FLAMINE ritratto et i>n fregio antico di
marmo eh e in /Lorna. De Sali],
Ra tutti quelli faccrdoti ne fece Numa anchorax 1 1.
chiamati Salij,da i Etiti Io Icnni,che ei faccuorio ne i loro
facrificij. Et dipoi Tulio Hbftilro gli crebbe infì- noà x xiiil
& di x x 1 1 n. alla fine flir- tanti che feciono vngran Collegio^,
ne potcuono cfleredi quello ordine le non quelli, che non haueuo-
no padre ne madre. Di quelli Icriué Tito Liuio, egli andauono cantando
& ballando per mezzo la Ara- ba, & cantando veri! Saliarij n<*l
melodi Marzo porra- uono in mano lo feudo célerte 1 chiamato , zHncilè ì
in ho- norc di Marte, come lìvedeDtr le medaglie d’Àu’truAn
<^efaxe,& d’Antonino nmm Poi» pii
infittiti iSalif. Tutto fillio.
Anale, jcu- ànrrltM* 1
»ji DELLA RELIGIONE A VG. CESARE.
ARGENTO. A N T. PIO. BRONZO.
totani*- L’acconciatura di quelli Salijcra vna velie honorc-
turddis*- uo I Cj di calore pagonazzo, con vna celata in capo,&
quando ballauono pcrcoteuono i loro feudi con vna daga,o pugnale che
portauonoin mano. Uj, ■<
Sdendoti tbumeti Epuloni.
2>e \ij. h uomini Epuloni. Er quanto fi è potuto conofccre,
quello ordine d’Epuloni era vna fpetie di faccr- doti,trouatida i
Pontefici ppr ordinare! conuicichei Romani faccuono,cclebran do le
fede de i loro Dij, annuntiando il giorno nel quale fi doueua fare la
cena di Gioue:doucfc per fortuna accadcua che la folcnnità non
foflcintcra- mcnte oflcruata,con ledebite cerimonie, ci lo diccuono
à i Pontefici, che rimediauono à tutto ; quantunque i i lutili*.
GrccigHchiamaflbno piuto{ltì»^«f«, cioè,faccrdoti di buon tem po, che
fare facnficio à i loro Dij. L. CAL DE GL*
ANTICHI ROMANI. xjj L. CALDO SEPTEMVIR EPVLONE.
ARGENTO. Vedeli la memoria di coftuianchorahoggi in
Roma Vir<tm ^ e • 1 _ | \ c ' c * . . , ittica che
per le paroleinragliarcin vna Guglia, o Piramide di mar fìutdcint
*■ jno quadrata, che fono tali, opvs a bsolvtvm D i E _ «irto*.
BVS CxXX. EX TBSTAM. C. CORNELII TRIB. pleb. septemviri
epvlon v m> le quali interpreta* tc voltano dire,ch'ella fu fatta in
ex xx. giorni per tc> ftamenro di Caio Cornelio,Tribuno della plebe,
& del numero di quelli v 1 1. Epuloni, moftrando l’autorità
& portanza che egli haucuono con limili parole, tv c ivs
CALDVS SEPTEMVIR EPVtONVM. De due y cl xv. huomini.
Tarquino fumo ordinati due mini per fare fieri
ficiorà quali ne agg Zeftio & Licinio Tribù olì fletterò lino à
temp Sylla,chc veneaggiunfcv.altri lcuan donc duciamo che in tutto
furnox v.lacerdoci fulamcn M buoni- tc:l’officio de quali era d» leggere
& interpretare i librila- P 3 mento il
tm. — J»< tf- *34 DELLA RELIGIONE cri;
oSibilIini:&rifpondcre & consigliare al popolo Ro mano tutte le
cole dubbiofcjaffiftcndoiifacrificijd'A* pollo.romcmoftra il Tri
podeftampato nelle medaglie di Vitcllio & di Velpafiano con lettere
che dicono» qvindecim vir sacris fAc ivndis. \ ; v
VITELLIO. VESPASIANOTli '*■ • ARGENTO. ARGENTO.
* Del gran ‘Pontefice. Ra tutti i
Pontefici creaci da Numa nc fu fatto vno più grande degl altri,il
qua* lecol tempo venne in tanta riputatone chenonpoteua eflerne
alcuno fenonSe t l cttione Ba^aa a natorc,& cofi m orendo glabri
Pontefici drigri fon minori ncelcggeuonovn’altro.come fanno hoggi i
nc *É“cZ* ftri Cardinali vn Papa. Haueua quello gran Pontefice 5
cura delle eofc Sagre, coli priuatc come publiche» delle ^ .
cerimonie, prodigi], rnortorijjd’intcrpretarc le cofc diui? hp.u *
nc,fegnare,{criucrc accomandarci qualialtari&r Dij fi * doucuono fare
i facrificij : & Sopra tutto. por mente 8t ■ ’ prohibire
a : DE G’LANTICHI ROMANI. x J5
prohibirc che nuoue vfanze non entragno in Roma perdifturbatc,o
corrompere le cerimoniedclla loro pri ma religione & loro Dij :
della quale autorità ha ferino non ricette- Cicerone nel Po ratio
ne che fece per conto della fua prò U0 "‘ 0n ^ 0tte pria cala
in quello modo» Cum multa, diuimtusfponnfi- cerimonie
ces.amaiorilms no (lri« inuenta arane inftirura fune, rum mini rt
^~ , . , J v , , 1 . / _ 1 gwnr. praclanns quam quod
)>o; @T religioni bui Deorum immorta- lium , (g) flemma
Xeipuhlica pratjfe \>oluerunt,'vt ampi fimi clarifiimi Citte;
ReipuMicabene gerendo , ‘Pontifico s reli- gione; fapienttr interpretando
, Rempuilicam conferttarenr. Laonde per meglio inoltrare la lua
autorità & dignità chcgl’antichi (timauono tanta, eiportaua vn
cappello, fatto nel modo che lì vede per le medaglie di Celare Die
tatore in compagnia del fimpulo& lettereche dicono, ^fg^UnPò
CAESAR IM0ERATOR PONTIFEX MAXIMVS. All teficc. chora che in
altre medaglie fi vegghino la tazza, il cappcl lo, il limpulo,&: il
lituo , come proprie infegne del gran Pontefice. GIVL.
CESARE. ARGENTO argento li „
*3* DELLA RELIGIONE Non ottante quello fi veggono anchora
affai meglio cappella ^ quelle inlègnc della religione, & cappello
del gran Potè u$xT ° ^ ce nc » fregi di marmo , che fono in Roma {colpite
in quello modo. .MM
CAPPELLO 2) E L ‘Pontefice. ■
• • confetta- La confccratione di quello Pontefice è
tanto ridicu- tione dipo la & llrana,che ella merita d’efièrc tutta
interamente di- “rldentio. mollrata nel medefimo modo che l’hà ferina
Pruden- tio:il quale dice che quello Pontefice nel fuo habito P5-
tificale,con la miccra in tc(la,& la velie alzata entraoain vna
foflà,fopra la quale era vn pótedi legno tutto bue- cato,douc dal
Victimario era condotto vn toro ornato Horr Mi tutro fi° r * > &
d’oroin torno alcapo , che il detto coa- ctto,& del fangue co
fi caldo che n’v • cr i bufehi del ponte,cra il detto Pon
teficc cerimonie
ductorctcriuanelp Mti - feiua & trapclaua p
Cenativi loridi. il tordo di *
litato libo. DE GL’ANTICHI ROMANI. *37 teficc tutto imbrattato
con fregartene gl’occhi 3 gI’orec- chUclabia & la bocca, & coll
vfeendo fu ora coli fpor- cho & brutto,& molto terribile a
riguardare, era da tut- to il popolo falutato & adorato. L’altre
cerimonie , fatte per i piccoliPontcfici,Flamini,Archiflamini &
albera- no i conuiti magnificamente apparecchiati, de quali hi
jfcritro Macrobio dicendo, che all'entrare della Cenale tifici, prime
viuande prefentate erano fpinofi di mare, dipoi s P ino fì & peloridi
& fpondili,fpetic di nicchi , o chiocciole mari- spo ^ c p* ne,&
tordi,chc i Romani ftimorno cofi dilicato cibo, che venuti in
tauolalafciauono ogni altra viuanda , & pc^trouarli mcgliori nel
tempo d'Auguftogli riempie- uono dentro di più buòne cofe. Dipoi feruiuòno
fpara- gi con vna gallina grafia, oingraflàta àpoda, la quale
vfanza leuò via pcrleggc & bando publico Caio Annio cjjoAmifa Eannio,
volendo che le galline fi mangiaflero,comc elle ramo. erano
trouatc,dclmodode iquai conuiti chivuole an- chorapiù àpieno vederne
lniftoria, legga Varrone & ColumcIla,doucegli infognano tutti i modi
della gola. Doppo quelle colè veniuono piatti d’oftrighe,
peloridi, che ci chiama , Salanos nigros ffialbos, fpondilos&gly-
BaUnL comandas,fpetie di nicchi & d'altri pefei che non fi pof-
fano (non fendo in vfo) altrimenti dichiarare al nortro BeccafiebU tepo,
bcccafichi, colombcllc,vn’arifta di porco, cingialc, rorpórj . capretti,
bcccafichi impattati, po!ipi,oporpori et murici «i [angue del (angue de
quali gPantichi faccuono lo fcarlatto , & de quali fcriuédo Seneca
nella prima Epiftoladel x 1 1 1 1. libro dice , marauigliandofi della
gola degli huomini, O quanteforti di Conchili portati di lontani
paefi palla- zfcUmatti noper loftomacodell’huqmo,chclbno ben poucri d’in
* Seneca. gegno. *3» DELLA' RELIGIONE
gegno,&dilgratiati poi che maggiore hanno lappemo che il ventre
.El fccòdo piatto era d’vna teda di cinguia- Ic,vn piatto di pelei fritti
nella padella: vn piatto di Som- sommta. mataj f atta delie poppe d'vna
troia, che haucflTc figliato frclcamente,lequali erano (limate tanto
migliori quan- to più erano piene di latte. Doppo quelle leruiuonoi
petti dcH'anitre faluatiche,ccrucllid’animali Jeifi , lepri, vani detta
molti vccelli arroftiti,con pani della Marca d’Ancona, ^Ancona. * quali
fifaccuo no di farina ftcmpcrata noue giorni ncl^
latifana,oalica,&poiarroftica con zibibbo in vna pen- tlinio. toladi
terra dentro alfornoja quale (come dice Plinio) non fi poteua poi
altrimenti disfarete mangiare fc non meda nel lattc,o nell’acqua &
nel mclIe.Et taleerail mo do del cenare & l’apparecchio delle
viuandede Pontefi- ci, ripiene d’vn fi grande numero di viuande
mefeokte. 2) e fi cerdoti ^ugttjldli^ di loro
collegio* I berlo Celare fu quello chccrcò prima, il
collegio defàccrdoti Augullalijdoppò Ihauerc edificato vn ten^io ad
Augu- ro, che C,. Caligu la co nfiigrò dipoi ap- porne fi
vede rUerio c» fare fondi glihngyfU
predo la morte di Tiberio per la fua medaglia di bronzo..
DE GL’ANTÌCHI ROMANI.
CESARE. CALIGVLA. BRONZO. BRONZO. Scriuc
Strabono nell in.Iibro della Tua Geografia che Tempio à
LyoncdoucilRodano&laSona fi congiungono in- * A w* ficmc ,fu fatto vn
altare, &vn tempio doppo la morte ’^yoM? d’Augufto,&quiui porta
vnaftatua da tutte JcProuin- cic della Francia, la quale cofa m’hà fatto
penfitre che quello poteflèeflereilluogOjdoucchoggilaBadiad’Ai- colonne
di né,rifpctto alle gran colonne di getto che vi fi veggono w
dentro:&quiui penfcrei io che folle fiato il collegio de i faccrdoti
Auguftali, come chiaramente dimoftra vna pietra antica di marmo, eh e fi
vede nella chiefa delle Mo nache di S. Pietro, in Lyonc,
IO VI O. M. > (VADCINNIVS VRBId FIL. MARTINVS SEQ.
SACER.DOS ROM AE ET A VG. AD ARAM AD CONFLV ENTES ARA.
RIS ET RHODANI FLAMEN ff. V 1 R IN CIVITATE SE QJ/AN OR
VM. Ter i 4 o DELLA
RELIGIONE Per il (opra (cricco epitaffio (ì conofcc , che non Co
Ia- menccàRoma&àLyonc,mapcr tutto il mondodoppo la morte
d'Auguflogli furono edificati templi, dcrizati a ^ CiU ' con vn collegio
di Sacerdoti detti Stxtum-'vir't^iu Ut. gujlalesjin honored’Auguflo,
comcanchora fi vedein vna pietra fcritta alla porta di S.Giufto in
Lyone,in que- llo modo, D. M. C AL VISI AE
VBRICAE ET MEMORI AE S A N C TISSI MAE P. POMPONIVS GEME LLl N
VS limi. V I R A V G. LVGD. À CONIVGI CARISSIMAE ET
INCOMPARABILI POS VIT. Tranquillo Quello collegio de gl’
Augurali venne col tempo in sagio gA tanto credito, che( fecondo
che fcriuc Tranquillo) Scr- ba A«gW * gj 0 G a lb a innanzi che fode
Imperatore, vi. volleencrare dentro, & fu riceuutotraifàcerdoti
Auguflali ,de quali inficmecol Scflumuiratohaucndo
àbaflanzafcritto,& maffime neh n.libr.delle mie Antichità di Roraacócro
all’oppenione dclI’Alciato nelm. libro.del Codice, & moftroqual’era
rautoritàdcDecurioni,&comeei dona uono&diftribuiuono quelli
offici) perle Prouincic,tor nero à parlare della Cittàdi Lyone,la quale
doppo ede- re data popolata daPlanco per ordine del Senato Ro-
mano, paflò di grandezza, di magnificenza, & di richez- za tutte
raltrcterrcdelmondo,rifpettoallefierc& traffi- chi che fempre fono
flati in edà fatti , come ^iùi I Ugo io ho moflro ne detti mici libri
dell’Antichità di Roma, cdcndoobligatodi pagare quello debito alla mia
patria. De Aleuto. lodi
della Città di Lyooe. X DE
C*L ANTICHI ROMANI. m» 2) e Sacerdoti di Cy Itele Madre
degli Dei. Sacerdoti di quella dea fumo detti Gal- li^
Archigalio il maggiore di loro:i qua li nel principio della primaucra
(come recita Herodiano)vfauonoogn’anno fa re vnagran fella in
honoredi quella, por il lìmulacro.o ftatua della, acompngnato dalle
più prctiolè cole, che haueuono in cala, come vali riccamente lauorati
d’oro & d’argento, elfendo permef- foà ogniuno di traucllirlì &
vcltirlì in che modoglipia- ccua celebrando quella fella,la quale
chiamarono Me- galejìa&ioè, maggiore di tutte lai tre. Quella fu
folcnne- mcntc già fatta da Com modo Impalipoi che cghhcbbc
(campato dallacongiurationedi Materno, & fattoli ta- gliare la tella,
però che clTo Commodo volendo ringra- tiare la dea del pericolo
paflàto,portò egli medelìmo tue tele reliquicdi quella, & il popolo
fecegrandi/Tima alle- grezza & diuerlì giuochiper la falutc del
Principe, chia- mandoli Seteria, cioè,facrifìcij di falutc:dcllc quali
ceri- monie chi vuole più largamente fapere, legga ilxxix. libro
delle Decadi di Liuio.Vedclì adunque che l’officio di tutti quelli
faccrdoti non era altro che fare facrificio à i loro demonij più rollo
che Dij,inlIcmecon procef- fìoni& orationi, oringratiamenti di
qualche vetroria hauuta, opcr mitigare l’ira dclcielo : portando
innanzi il lìmulacro di Giouc,& fu per i canti delle vie
pofando- lo fopra certi altari,quafì comc noi hoggi vlìamo di fa •
re per lafèlla del corpo di Chrillo,anchora che non con uenga quelle vere
& lecite à quelle falfc & profane ceri- ci
Calli, Sacer doli di Cy- bele. Tejla in ho nore
di <jne /la Dea. MrgalcfU.
Sacrificio di falutc d't to Sotcria. Tifo Limo.
Qual tra l'officio d'i faccrdoti. Cofiumi
de gli antichi guardati in trancio.
Ordine del le procreo ni degli an- tichi. Nel
I-libr. degli F ajli. 141 DELLA RELIGIONE monic
aflomigliare.Et à quello propofito io mi ricordo hauere veduta vna
medaglia di Dominano, nel rouclcio della quale era vna proceflìone fatta
da i Romani,do- uc fi vedeuono innanzi à tutti i fanciulli chetici, &
poi i fiiccrdoti più vecchi in habito, & getto dicaminarei
tutti con vna girlanda in tcfta.in mano vn ramo d’allo; ro,&
l’Imperatore ncll’vltimo, vettito di (carlatro:onde none dubbio alcuno
che i prieghi, l'offerte, i voti,i facri- ficij,& l'orationi fono i
mezzi, per i quali s’arriuaàgl’o-, recchi di Dio: quello che afiai bene haferitto
Ouidio quando ei dice, Fleti itur ir ar ut 'voce rogante
Deut. Sape Iouem \idi,cum fetta mietere pellet Fulmina, th ur
e dato fujlinuijjemanttm. L’orationeha tanta forza,fccondo
Pittagora,chc media te quella fiorirono tutte falere virtù, & ella
conduce l’huomo infino al cielo, eflendo fatta con fede inuerfo
Dio.il quale c quello che ci fa forti contro àtutte le pafi*. fioni&r
dilgratie humane,rifufcitandoinnoi Iafpcran- za che faremo difefi da
lui,&per mezzo dcH’orationcfà remo ripieni di carità con animo di
correggerci de no- ftri errori, &nó tornare piùà peccare,
comchabbiamo fatto per il pattato, trouàdoci tanto fortificati.che cofi
fa cilmentenon potremo piùcrrarc:Sc finalmente delibe- rando di
viueregiuftamentc, & accompagnarci con la temperanza con fermo
propofito di vincere tutti gl’tn- fortunijchecipoccttìnoaueniredi Dio,
eflendo ragionc- uole che fotte ringratiato colui,checidaua&dona
tutti i beni, il che non fi può fare per altro mezzo migliore.
fittene, che quello dcll’orationc:ilchc cófcrmò finalmente Pi*
F de loratione fecondo Pit tagora .
cone DE GL'ANTIC HI‘ ROMANI. *43
tonedicendo,chcà l’huomoera ncccflàrio d’honorarc, &
riuerirc Dio,volcndolo hauerc con elfo Iui,& prolpc murre in rare in
ogni atrionc:ondc fi vede che quelli che di que- ;ìfi fto non hanno
curarono il più delle volte dilgratiati, ne damentode fono mai eflauditi
da Dio, come per contrario fortunati o felici tutti coloro che ricorrono
à Dio, come moftra Homcrodicendo, o't « èiriT<i'S»T«i,
ixdtut Ti<t>u»r iu-n. Cioè,
coluièeffauditodaDio,cheolIcruaifuoi precetti. colui indi Era
parimente l’officio di quelli fiiccrdou di fare ogni [ 0 h ^ e ^\ annoi
voti publicidoppoleCalendidi Gennaio, come fuoiprtut- fcnueTacito nelfcfto
libro de fuoi Annali, & Plinio Se *«• condo nel fuo Panegirico,
dicendo che i Romani vfauo atiiom* nodi nominarci voti perl’eternità.
deH'Impcrio , per la rL fanità de Cittadini, & principalmente per Ja
falutc de Principi, che è quello che i Latini propriamente hanno
detto, Nuncupare ìord, facendo facrificij publici : onde 2T* 0 * nafccche
fi trouano lettere diuerfe fcritte in quella for- ma , vota PVBLICA, QVIN
QV ENNAL1A, DECEN- N ALI A, VICENN ALIA, TRICENNALIA, QVADRI*
c e nn a l i a , come fi vede in più medaglie di Impera -
144 DELLA RELIGIONE severo geta: ARGENTO.
ARGENTO. CRISPO. GIVLIANO. BRONZO .
ARGENTO.* CONSTANTI NO. GIVLIANO. BRONZO.'
BRONZO. Mallìm/a MAòSIMIANO.
DIOCLETlANO. BRONZO. BRONZO. ___ DE GL’ ANTICHI
ROMANI. Faccuanfi quefle cerimonie da ifaccrdoti &?
Flami- ni vertici nel loro habito (accrdotalc alla pri Lenza de-
Confoli, Pretori &Cenfori, che pigliauono il votopubli cp innanzi à
tutto il popolo Romano. CARAC ALL A. bronzo
MEDAGLIONE DI CR tSPINA. ' Tutti iM
agi tirati di poifaceuonofcriuerequeftLvo ìuotiferit- ri in vn marmo>o
in vna tauola di ramc.battendo meda wlicchc mollrauono gl’anni domadati
per ricominciar- uolc di t *■ li,cio<ì di cinque in cinque anni, di
x.di xx.di xxx. &tal Wf * O a U
*4* DELLA RELIGIONE volta iniìnoàxL. come moftrano le
medaglieri Maf- fentio & Dccentio,neIlcqualic ferino, votis
qvin- QVENNAL1BYS MVLTiS D E C E NN A LI B VS, ornate di
cappelletti guarniti nella fommitàdel laboro,& intór- no
lettere che dicono, v ictorue do minouvm NOSTRORVM AVCVSTORVM ET
CAESARVM. M ASSENTI O. DECENTI O. BRONZO-
BRONZO. i
t- i •■■■ I \
. \ -r DE /GL’ANTICHI
ROMANI. *47 $CUZ> O 7)1 FORM .A oliale gratto del marmo
antico . TERi Etpcr le medaglie d*
Antonino Pio &. di M. Aurelio Ci veggono i voti fatti per zo.anni
conejueftc parole,v ot a syscepta vicennalia,& iUàcerdotc il qual
prò-, metto de render i voti. ;
i- ■' ,|K3Kl L'/ * v Ó
Q. 4 é
MS della religione FLAVIO Gl VL IO CRISPO ” BRONZO.
BRONZO.. Tra l’altrc mie medaglie ione hòdue d’argento
l’vna di Valente & l’altra di Teodono Irap.ne rouefei delle,
voti# jo. fi veggono i voti di xxx.&2fxxx.anni,conrimagi tir 4
m ne di Roma à federe,chc tiene vn globo io mano con la croce difopra ,
lignificando [imperio de principi Chri- ftiani. VALENTE.
TEODOSIO. Quello elici faccrdotidomandauonoin quelli
voti inliemecol popolosa lunghezza di vita per gl’impe-
ratori. Ronwiù w lor uoti,<ì gli Dei.
DE GL’ ANTICHI ROMANI. a*? ratori , ficurtà dell’Imperio ,
la grandezza della cala de cfcr donni i i.Principi,la fortezza
delleflercito^a fidelità del Sena- <<4 " 4no ' to,la bontà del
popolosa pace del mondo, & Iavctto- ria contro à nimici,comc li vede
per le medaglie polle quidi fopra,doue habbiamo villo, vie tori a
domi- NORVM NOSTROR VM AVGVSTORVM ET CAE- s a r v m, in
maniera che quelli voti hanno durato infi- no àhogg’,&fubito che i
Romani erano giunti al ter- mine di elfi, di nuouo ringratiauono
Dio,& (come fcri- uc Plinio Secondo à Traiano)faceuono altari con
facri p /&„•„ $ f _ ficij, balli, fede & conuiti, dimando opera
rcligiofa & pia,quello che piu torto fi doucua profano Si empio KO
manintt giudicare, poi che egli haueuono licenzadi fare ogni ma ringratù
- lcicon ciò fia infino che negli Anfiteatri i carcerieri correuòno
per il circo, le bertic feroci erano ammaza- noti «iu- te, i gladiatori
sbranati, & gli Imperatori faliti lopra vn piut, ‘ palco ragionauono
di dare la Mancia ai-popolo , che fdtrimnti gridaua ad alta voce, c<w
?~ Denofins dnnu dugedt ubi I uff iter dnnos. Latino, cr
Et mentre che fi faceuono quelli voti, il Pontefice era tramo di -
vcftito d’vna verta lina tutta bianca, & lunga fino ài
piedijfignificando la fermezza d’vna rifplendcnte virtù: za. &
de gli altriiàcerdoti chi cantaua hymni &peani,chi fonaua flauti, chi
la lira, o la ceterajn tanto che il mini- ftrodcl facrificio tcneua vn
bue,& vn’alcro detto vitti- roario lammazaua,comc fi potrà vedere
nelle Meda- glie di Dominano, & di Geta per la cclebrarionc de i
cMtuu* loro giuochi, & fcfte feculari. ™ bi 5
ri. » ■ -enfe- r*b% tljrm 4
DELLA RELIGIONE FtGVRA ritratta h
t* (/^ gmochifeciLm d\yt*g*fb. iiiiiii
DOMITI A N O ANT. GETA
BRONZO. BRONZO. DE GL’ ANTICHI
ROMANI. domiti ano: BRONZO. BRONZÒ.
Facendoli quelli facrificij , tutto il popolo in Geme
con l lmperatorc fi inginocchiaua.&adorauono i loro
fallì Dij,come lì vede nelle mcdagliedi Dominano. DOMI
DELLA RELIGIONE •
Sagrauono nmilmcntc le imagini de i loro Dij > non firn* togli
per amore di quelle (come dice Platone) ma perche elle fomigliauono le
deità di quelli, come noi hoggi figuria- mo le no(lre,& tral’altrc
cofc venerauono affai la faetta di Gioueffimaginedellaqualccra confagràta
dal gran d! UtoZ Pontefice, (limando che per quella via il popolo
&lc fiumi!*» biade farebbono accurati dalla tempefta del ciclo,
co- 4i Romam. me fa vc dcpcr le medaglie qui di fotto. TV G V
S T o! A N T. P 1 0~ A’ que
DE G L’ANTICHI ROMANI, ijj A' quello mcdcfimo effetto quello
che i Cetili oflci> ùauono& crcdcuono nella loro fupcrftitiofa
religione, noi l’vfiamo hoggi nella conlàcrationcdcllc noftrc cam
Confacra- panc, (limando che fonate caccino il mal tempo, fi co- me
egli vfauono ilfalc,l’acqua&gli cflorcifmi,pcnfan • do che cacciafiìno
i cattiui (piriti d intorno à i luoghi, & à le perfone:ondcio
mi marauiglio grandemente che tanti begli ingegni, & valorofi
faui,& prudenti huomi- ni, come fumo i Romani, penlàflino ((appendo
la licen tiofa& dishonefta vita di Gioue) che egli hauefle forza La
uta 4 di tonare, danneggiare, mandare laette, & beneficare le ^ iou
* co le humanc,chiamandolo Ottimo, Mafiìmo & Omni potente ,
& perche più torto non crcdefiìnodi poi che Chrifto era già nato di
molto tempo, che come illoro Efculapiojchci fcciono volare al cielo per
forza, non hrrtligio. poteflè più torto Giefu Chrifto hauere rifulcitato
i mor- • ti,& che ci folTc figliuolo d’vna vergine, come ei
diceuo - no che vergine era Verta &madrc de gli Dei, &
chcno- ftro Signore haueua alluminato vn cicco, come egli af-
fermauono hauere veduto fare quello medefimo mi- racolo à Vcfpafiano in
Alertandria.Ma tutta quella in- credulità nafceua dal demonio che
gl’accccaua. Ha- ucndo aliai à balla nzaoflcruato & Icritto de
l’ordine di quelli facerdoti,facrificij & voti , i quali erano
anchora, che fecondo lefortune che egli haueuono (campate & la
qualità de voti fatti, egli appicauono alle mura de haucr t /Um templi le
tauole,douc erano dipinti tutti i cali, fi come pato qual - hoggi fi
coftuma in Fiorenza, & in molte altre chicfe f . he ca f° *
d'Italia,ondcHoratio fcriflc; Fortiuw. Me
rnr qual ca gioitegli ut fichi facri * ficomo.
Cerimonie del ftcrifi- ciò.
Moti. Plinio nel 17. libr.de tHifioria
tutur. N«n»M fa- cùfico il primo 4 Dio, fecon- do
il diredi Plinio. Microbio. Virgilio.
purgatione degli anti- chi con l'oc qua ffiarfa.
154 DELLA RELIGIONE Jrfe tabula facer ZJ attua
paria indicai h umida Sufj>endiJJe potenti ZJefimenta maria
Dee. Refla à vedere tutte le cerimonie & inftrumcnti vfad
da glantichi ne i loro làcrificij,i quali fc alcuno mi do- mandali!
perche erano fatti, rifponderei per tre cofc. La prima,pcr honore di
Diod’altraper vtilcdel faccrdote, che impetrauafanitàper il
Principc,& per il popoIo;co- mc cofa più prctiofa tra l’altre, &
la terza , per doman- dare perdono à Dio dcgl’crrori commcflì,
pregandolo di volere fanarc l’alma inferma. Era adunque il princi-
pio di quello facrificio che il prete innanzi, che ammaz- zare la
bcflia,lcmcttcua fui capo , o Culla fronte della farina, dell’orzo
arroflito,& del fale tutti mcfcolati in- ficine, la quale millura gl
antichi chiamorono Mola, come fi vede in Plinio, quando ei dice, che Numa
fu il primo chcfacrificò à Dio col grano, & lo pregò con la
mola falatarnondimeno innanzi che fàcrificareil faccr- dote fi
lauaua,& quando volcua folamcntc rappacifi- care l'ira de gli Dei,o
rallegrarli fi gettaua l'acqua fopra» come fcriuc Macrobio,& Vcrgilio
parlando di Didone apparecchiata per fare facrificio,
^yfnnam,cara mihi nutrixfuc fi fi e fororem. Die corpus
properet fluuialifargere lympha. Etaltroue quando il detto Poeta
parla della fèpoltura di Mifeno,ci moftra come gl’ailìilenti al
facrificio erano purgati dal facerdote con l’acqua fparfa convn
ramo d’vliuo,o d’alloro nel modo chefeguev Idem ter focios pura
circumtulit inda, Spar DI GL' ANTICHI ROMANI, *
55 $pdrgen$rortleHÌ,(èfr rtmoftlicìi olia*, _ \ Mai
Romani di jjoì in luogo di quelli rami vfarono vn’afperge, limile a quella
che fi colliima hoggi nelle nollre chicle, come li vede in più medaglie
& fregi an- tichi che fono à Romaà quello modo.
Quelta alperge llaua ncll’acqua,douc prima era /la- ro
fpcntovn torchio accerojchchaueuaferuiro al làcri- ficiofu l’altare.
Et di qui nacque l’acqua di Mercurio . predo alla porta Appia,della quale
via ua il popolo Ro" « £££ manoinuocando Mercurio, & penfando
coli fcanccl- s ^ rr fi i ~ Ure i peccati leggieri & fpccialmcnre la
fede rotta , & le ‘ÌZ bugic.Oltrc a quello ho olléruato che
gl’antichi driza- uono innanzi ài loro templi vna Pila magnifica,
douc del continouo teneuonol’acqua, con la quale li tocca- uono
prima che entrare nel tempio per fare fa orificio. A
%}( DELLA RELIGIONE: ‘PILLjl T 1 2t sAT DEL '
marmo antico. * I
!» ir Vfauonodi poi vn’altro vafctto
minore & portatile. li con acqua, limile à quello che portano anchora
hoggi uà nelle chicfc & fuora i noftri preti. 1 1
Fi g V a sin ir tot
tf VI DE GL’ANTICHI ROMANI.
257 FigVK^l 2)' UK VASETTO portàtile a tenere l acqua
[aera. Ma gl’Hebrcià l’entrare de loro templi vfauonovn
Tind gran vafo fatto in forma di Tina, chiamato da i Latini altrimenti
lal>rum ì del quale i facerdoti che andauono per (acrilica- re
pigliando dell’acqua lì lauauono le mani,& i piedi, & il modo di
volendola benedire vi gittauono dentro le cenere della f ar l ac ì u4
vittima arfa,& di quella con vn ramo d’hifopo bagna- degli h «- uonogl’alfiftenti,
benché io ho ofleruatoche nella fine trfi * de loro facrifìcij, quando il
fuoco era per mancare, vi gittauono fopra certe fcheggicdi cedro, hifopo
, & co- rnino, & della cenere diqucfte tre cofefaceuono
l’acqua facra.Douec danotarcchein tutti i facrifìcij antichi lì rrèfortidi
trouauono tre forti di purgationi,cioè di pino, di zolfo, pmrgationi
& d’acqua, quello che conferma Plinio nel vi. libro quando ei dice
che la teda, o vero pino tra tutti gl’albc- ri, che fanno la ragia, è
molto grato per il fuo fuoco nei R i5 8 DELLA
RELIGIONE vrodo. facrificij. Del zolfo (come dice Proclo) vfarono i
faccr- doticon 1 alphalto o bitume, & acqua di mare nelle loro
purificationi,pcrchc il zolfo per l’acutezzadcf fuo odo- zoìfo. ^ re ha
forza di purificare.Et Plinio /criue che il zolfo è buonoalla religione
&per purgare le cafe col fuo fu- mo. Oltre a quello i fàccrdoti
ftauono conrinenri & di- giunauono prima checntrarc al
facrificio,ondc volen- ti»* ^.° ^ uma Pom P'^° pregare perla ricolta
& facrificnre, Tompj&di s aftenne prima dal mangiare della carne,
& dalle don- GiulUno nc. Et Giuliano Imperarore(fe noi vogliamo
crede- spartùno. re a Spaziano) fi contentò prima che andare al
facri- ficio di cenare d’hcrbe & di pere folamenteicon ciò fia
(come dice Porfirio) che l'vfo della carne nuoca piùto- fto alla
fanità chele gioui,confiderato che le infermità nenzf. afii ' fi N
g uarifcon ° benc fpàfo per dieta. Et cofi per fobrie- ta,pcr carità,
& religione debbiamo cercare di purgare, & nettare l’anima , acciochc
ella viua ficura contro ì ogni pericolo che le poteflè auenirc, cacciando
da noi . tutti i
penfierichecipo{Tonoporrarepregiudicio,&o£ fufcarci 1 ingegno
& la ragione, confiderato che I’afti- nenzaguardal huomo di peccare,
la /obrietà fa finge - TauoUfu- gno
fottile,&ildigiunoperl’eflèmpiodellatauoIa/agra bru'dì ri- & ^ 0
^ r,a ^ e P‘ ta g or,c, >cifa viucrc lungamente. La legge tagorid. de
i Bracmani era tale, che ella non patiua , che alcuno ugge de entraflè
nelloro collegi o,chc non potelfe aftenerfi dalla diunto i carne, dal
vino, & dal peccato. Et le noi porremo ben hjUncnzi. mente al x xx v.
libro di Tito Liuio, noi troueremo il digiuno c ^ c il digiuno fu
oflcruato per «lamichi, quando ei di- ojjWo ce, che comandando il Senato
all’officio de’Dicci huo- Sf anti ' mini di riguardare i libri
Sibillini,pcr intendere il /igni- DE GL’ANTICHI
ROMANI, iìcato d'alca ni prodigaci rilpofono,chc bilognaua di
cinque in cinque anni ordinare i digiuni in honore del- la Dea Cerere. Ma
quanto alla continenza, ella c vtile all’anima &r al corpo,comc
inoltrarono ilaccrdori de- gli Atenielì chiamati Hierofantes , i quali
lìcallrauono h icrofdn* col bere il fugo di la cicuta.Ne balla quello
(blamente, Us ‘ che ei bifogna fpogliarlì d’ogni affezione &
pallìone particulare , come dice Cicerone nelle Tue queltioni cicerone
• Tulculanc, chiamandole pcllifercmallattie dell’animo:
ondeincambio,che gl’antichi penlauonodilauare con l’acqua i loro peccati
, lauiamo noi con la penitenzai penitenza noltri euori/eguitandoin quella
la Temenza di Seneca. èilueromo in Thiefte,dooc ei dice, t&fi'ì
/£ Qutm poenitet peccajje,pene e/l innocens.. Iute. La
quale cofa ci feruira di vero zolfo , Se vera bitume , Seneta * come
Icriflc Ouidio,nel libro </r Tonto, ouidio. Sape leuant
pcenas,ereptd<jue lumia* reddunt, Cùm bene peccati poenieuijje V
idear. Vlauono anchora gl’antichi rElcmolìna , come ferme
Spartiano nella vita d’Antonino Caracalla, dicendo, s P* rtiano '
'Nontenaxin Urgitionem , non lentus in eleemofynam. Ec La limojìn* Homcro
narra d’vn giouaneche s’adira con Anrinoo “ ^P r< \“ Proco, perche
egli haucua ingiuriato vn pouero huo- m tr^gU mo, che gli domandaua la
limolala innanzi aH’vfcio R- 0 '"*'"*"»- della Tua cala,
inoltrandogli che Diocclclle lopunireb- *** ** be.E' certo che i
laccrdotidc Gentili innanzi che fare tf*eerdo i i facrifìcio lì
confeflauonod’hauereerrato,domandando (come dice Pitagora & Orfeo) ài
loro Dij Tempre cofe facrip.care giulle,doppo la quale confcdionc publica
il preteche u f auAno ld andaua innanzi & miniltraualecole fagre
vfaua di f lr co ^ c P ,onr ‘ R a 2.60 DELLA
RELIGIONE silcntio ne - mili parole, hoc age , per fare che il
popolo tacef- <'ir™ ncl fc,& ftclfc intento à i facrificij,
facccndo fare largo con grf . 7 vna bacchcttaùlqualcfilentioè neceffario
nelle cofcfa- grc,come Icriuc Ver^ilio quando dice, Hinc fida
filtntia fiacris. Non elfendo dubbio alcuno che ogni bene
procede rune ft- d a l poco parlare. Et coli il prete comandaua fautrtfa-
trfto. crù,ò funere linguis , che altro non è (come dice Fedo) che
honafiari, le quali parole io ho vfate latine per non vfeirefuora de
termini antichi circa ài facrificij, maflì- « inamente che i noftri
poethvolcndo dire filentio, vfa- rono aliai quello \cxbo fiauere.
Finalmente quando il -, . prete s’appreflaua all’altare per facrificare,
ei lo trouaua ornato in quello modo, FigVX^i 2 ) 1 U ^
LT^XE 0 nato de fiefioni,come fi vede nel marmo antico .
' 1 . i i (
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F a ! il ti
It ri i t i ■<a
I ♦ 3 Menandro.
DE GL’ ANTICHI R OjM ANI. Et il faccrdotc era coronato
d’herbe chiamate ver- verbene. bene, per edere appropriate,& (limate
felici ne i facrifì- cij.Ie quali coglieuono in luoghi fagri : quantunque
noi impropriamente parlando chiamiamo verbene Tallo-
ro,Tvliuo,& la mortine, nondimeno Mcnandro afferma che quello era
proprio la mortine vfata nelle loropurifi cationi infieme col
Pcntafìlo,chc noi diciamo cinque foglie:anzi erano gTantichi d'oppinione
che Tvliuo foflè proprietà albero tanto netto &puro,che fcvna
meretrice, o altra ^Muo. femina impudica lo toccaua , o piantaua,non
portadè frutto, & fi fcccadè.Et benché gTantichi ornaffino i lo-
ro altari di quede foglie , pur nondimeno (limauono che ogni Dio haueife
la fua hcrba,& albero particularc: comeGioue Te(cuIo,ch’è vna
fpctiedi quercia, Apollo l’alloro, Minerua Tvliuo, Venere la
mortinc,àcaufadel fuo buono odore,Pan il pino, & gli Dei infernali
Tarci- preflò, per non rimettere mai quefla pianta vna volta f°
tagliato tagliata, non più che vn morto non e buono à nulla:
Bacco Tcllera,& Hercolcil popolo nominato di (opra. veUeraeo-
Stimauonoparimentechc ogni loro Dio hauede vna- * nimale proprio, come
Bacco la capra,o ilbecco, perche ogni dìo I Romani
eonfatraro - no ad ogni Dio la fua berba.
Varcipref- ei nuoce alle vigne. Cerere la troia, perche
guadale *» biade, Diana ilceruio & il cane, Nettunodl cauallo per proprio.
le ragioni allegate di fopra,Fauno,laca^l,Gioue il to- ro,
Efculapio il gallo, & Ifis , Tocha. NclTimmolaré adunque, o
(àcrificarc quedi animali, il Flamine, o fa'- cerdoteera veditod’vna vede
di lino bianca, chiamata da Latini lignificando che la purità e
grata àDio,& perche ogni colà che efee della terra , è nel fuo
t fce di u principiopura & nettadaquaje vfanza c anchora hoggi terra
' m ~ R 3 “ t0 ' Zdi DELLA RELIGIONE trai
noftri preti nella popa di loro faenfieij, & nel prin cipio che egli
entrano all'altare : & vogliono alcuni che gl'Egittij ne fodero
inuctori,vfando le dette velli ne i fa- crificij d’vn lino detto
A^/flWjonde fu detta la vede Xylin* rUnio. nel modo che lo
IcriuePlinionel xvi ni. libro dell’Hi- cucrone. fLoria naturale. He
Cicerone dice nel libro delle Leggi, che il colore bipco e molto grato à
Dio:&r che le vedi colorate non debbono fcruire le non à gl'huomini
di HrfWfo de guerra:fomma, che quello habito faccrdotalecra fi lun-
[kcerdoti go,ched’ogni parte dracinaua per terra, come lì vede per la
prclcnte figura. SACRIFICIO TIRATO DEL MARMO ARTI, co
Ài Jlom*. Veluuon DE GL' ANTICHI
ROMANI.' a * 3 Veftiuonfi ancora quelli faccrdoti d’vna tonaca
dr- pinta,&foprala tonaca vna falcia intorno al petto, fi
comcparlandodiNuma Pompilio ha fcritto Tito Li- uio,dicendo che ei creò à
Giouc vn Flamine Diale per- petuo, vcftillo d’vna bella verte , &gli
donò la Iella Cu- rulc:& clic oltre à quello ordinò xii. preti Salij
per fa- re lacrificio à Marte, vertendoli d’vna tonaca dipinta con
vna falcia di rame intorno al petto, quali nella ma- niera che vlàno
hoggi i noftri facerdori.ma di feta orna- ta d’argento, & d’oro,
& di piecre pretiofe.Ornolli Umil- mente d’vn cappello di la nabiàca,
chiamato Albogalc- ro,il quale perche à caufa del troppo caldo non
pote- uono Iellate fopportare,fi legauono vn filo intorno al
capo,non ellendo loro lecito d’andare lènza nulla in te- rta,nondimeno
bifognaua che idi delle felle lo portafli- no,pcr moftrare meglio la
dignità facerdotale: oltre à tutte quelle cofe bifognaua che il facerdore
antico ha- uerteil caporafo/ccondoil modo degli Egitti] , come
fcriuono Herodoto&Plinio,dicendo che altroue i pre- ti portauonoi
capcgli,main Egitto nonronde Com- modo Antonino volendo portare (come
fcriue Lam- pridio)rimagined’Anubi,bifognòchefiradefie il capo: ia
quale cola gl’interpreti della Icrittura (aera , & mallì- mc S.
Hieronimo hanno interpretata che la tefta rafa non vuole altro
lignificare,, che la depofitionc di tutti i penficri & cofe
temporali, & che la corona, ò cherica de ipreti fignificala corona
del cielo. Ma ritornan- do alle cerimonie de noftri facrificij antichi ,
dico che quando fi veniua à facri ficare , il facerdore voltando-
li dallaltarc inuerfo il popolo, fi mcttcua la mano al- R 4
Tonaca do i fateraori. Tito Lir.
MÌO. A Ihogale- royucjlimtn to del fla-
mine Diale* Alfacerdo- te non tra lecito an- dar con
la tefta ignu- da. il facerdo- te antico
baueua la tejta rafa. Commodo fi fece ra- dere il
ca- po. Hieroni- mo. Cherica de
freti. Segno di fi- lmilo. *?4
DELLA RELIGIONE la bocca, lignificandoli il filcntio, quali nel modo che
fi sonatori volgono i preti di noftra religione : nel quale mezzo *
"io. ^ auc ‘ & ^ cctcrc fonauono,i quali flauti ne i facrificij
erano di boflolo : & nelle fede & giuochi fècolari d’àr-
ornamento g cnto > & la vittima paffo à paflo andaua caminando
4riu uitti- verfo l’altare ornata di fiori intorno al capo, & certi
pa- m ' ternoftri dorati, che le penderono dalla punta de corni,
efifendo condotta da i vittimarij mezi vediti d’altre pelli ntn ,
JU di beftie,chc egli haueuonogia facrificate, comcmoftra Ouidio
dicendo, -Induraque cornilus auro vaglio. Vittima.
EtVergilio, vlinio. ^ ft atUdm ante ar4S dUrata fronte
iuuencum. Quello che ha confermato Umilmente Plinio , nel
xxxiii. libro deH’Hiftoria naturale, douc ci dice, che non fi penfaua nel
fuo tempo ad altra colà che trouare vna gran bcftia,con le corna
doratc,pcr farne honore & facrificio «à gli Dij immortali nel modo
che fi vede qui difotto. FIG V DE
GL ANTICHI ROMANI. is 5 • FiCjVR^ YlrTZrrfZi IdeZ marmo
antico, che fi vede in Roma. Mala viteima minore cheli
doneua imolareà qual- i» oUtione che Dio,era coronata d’vn ramo delle
foglie dell albero dedicato arale Dio,o veramente d’vna falcia di
lana, chiamata infula, dalla quale pendeuonoduc bendedette Tal viti
da Greci, & Vitu & a i Latini, & fe menata all'alta- re Lenza
clfcre legara(quantunquc per l’adietro ella lo fo ledè ellèrcjcome
inoltra Iuuenaledicendo, Sei proctil extenfum perulans <j uatìt
hojìia funem.) segni di ella faccua refiltcza d’accoltarlì , o fi
fuggiua,o che per-, colla gridaua,o cadcua da vn’altro lato che quello,
che lime de ro dilègnauono i Romanici pélauono quello cllere mal- mani
• R 5 Virgilio . 1
Vittima ri j dowrjli- t duerno le bejUcperle
vittime. Tranquil- lo. Audacia di Ceftre.
Btfticpiù utili ithuo
a<r<? ‘DELLA RELIGIONE' l’augurio,# illacrificio non grato à
gli Dij, nondimeno non lafciauonod’ammazzarlaful luogo medcfìmo,do-
ue era fopragiunta, come per contrario,pigliauonoin bcne/c pacientcmente
ella afpcrtaua il colporqucllo che ha moftro Vcrgilio in quel verfo,chc
dice. Et duElus cornu Jldbit fteer bircus dJ dir dm.
& Hadriano Imperatore nelle fuc medaglie. MED. GRECA
D’HAD~RIANO. BRONZO. _____ BRONZO Dipoi per
ouuiare à quefli dubbi) , Scnondiftur- barei {acri fìcij,ordinorno gli antichi
i vittimarij à po- lla, che domellicauono le beftie, & coli
facilmente le conduceuonoaH‘altare:quantunque Celare del fuggire, o
non fuggire della vittima(come lèriucTraquilh faceflèconto,&non
IalcialTedi combattere doue rione lì prefentaua : anzi fumo gl’antichi in
quelli, riolì , che prima che itnolare vna bcftia.la poneuo
mentedaleapo lino ài piedi, accioche ella folle fènz "^ , ~ula,&
coli pcnfauonodouerc cflerc molto piùgra- Ioro Dij.Etfurono le vittime
vfatedai Romani,!* ;a,la troiani bue, &la capra,comebellicpiù
man- fuece DE GL’ ANTICHI ROMANI. z6 7
fuctc& facili à condurre douc l’huomo vuole, & an- no,
trono cho come beftìe più vtili alla vira dcH’huomo, con ciò lìache
le pecore danno il latte & la lana, & i buoi lauora- p t u e de
«- noia terra , & del jfelo delle capre gl’antichi faccuono ft
roniin feltri per la pioggia, & delle pelle dccaftroni cucite in- v ^
0 ‘* , ^ oUd ficme , i foldati mantelli perla guerra.Et coli
nelprin cipio del facrificio illàcerdotc Romano veniua all’al- tare
velato Scoronato d’alloro in compagnia del coro di fanciulli^ fonatori di
flauti & di ccrere.che fonauo- no&cantauono,come moftralaprefcnte
medaglia di Longino Triumuiro. ti Romani perla
gu nr ra. LONGINO TRIVMVIRO. ARGENTO.
ARGENTO. Oltre àqueflo non farebbe parfo interamente
buo- no ilfacrificiOjfc illaccrdore non haueflè tenuta la ma- no fu
l’altare , come ha moftro Vergilio nel 4. dell’ Ac- vtrgilio. neid.doueei
dice: Talli ut orantem JiBis ardfijue tenentem ’ *
^duJtit omniporens. Volta 168 D E L
L A RELIGIONE soltuono i Voltaua Umilmente il iàcerdotc il vifo
all’Oriente nel g^Umt P rc g arc gli Di j, -fida mattina di
buon’hora, {limando titutxr f*- gl’antichi che quello folle il tempo
proprio, nel quale gli ucrfrorié- Dci lecndeuono nel tempio perricctiere
& vdirc i prie* te. ghi,& voti di queflo
&dic]ucllo:Ia<]uaIev{anzahabbia Forano, moritenutaanchora noi
ncllanoflra Rcligione:& Por- fino ha voluto che le ftatue &
entrate de templi fiano tutte volte aH’OrientCjConforme in
<juc{lo(feben miri- cordo)con Vitru uio. ' FiqLm^t
TlTt^T^l Z> L- la colonna di Traiano.
tifine 1 DE GL' ANTICHI ROMANI. Doppo quello il
facerdote pigliaua tra le corna della vittima del pelo, & lo gitrauafoprail
fuoco accelo, nel modo che ha fcritto Vergilio quando dice.
Et fummat carpens mediti inter comua feto*» Jgnibta
imponitfacris. La quale fuffumigatione fatta con altre di frutti
& biade primaticcie, chiamate dai Greci come fi vede per
la prelènte figura. i Co Virgilio .
Fl^VR^A T> E COLTURE, don erano polle le primicie ftj
fruttijnnanzi cine facrifìcafiino. Gl’antichi
penfauono quelto cflcreaugurio di futura fertilità, rendendo gratic à gli
Dij d’cflcrc arriuati in vn tempo più ciuile,& più bcllo,nel quale in
cambio di ghi ande & d’orzo potcuono mangiare viuande più dili-
catc. I granelli di quello orzo mclcolati con Tale ( Sic
mifcel a 7 o DELLA RELIGIONE Cerche mef
tnifìellam inteìligunt Oraci ex hordeo, & f*le> mar eri am )
Ronuni f- fichiamauono Ole&cUle,\ quali coli magiauonagl'an- orzo con
il tichi,prima che folle in vfo il macinare. Ne vi mefcola- rt ficrifi-
uono *1 P cr h fertilità, eflcfndo cola (Ieri le, nc manco àj. per
ringratiaregli Dij,ma perche lo Rimarono vn lega- Uftlcriprc mc £ f e£ ,
no d’amicitia , & di qui nafceua che innanzi à game dumi gl
hofti&aglamici liprclentaua il (ale prima che tutte citu.
l’altrccofè, volendo /igni ficare la fermezza dcH’amici- tia,&
moltrarechecomedi più acque fijfavn corpofo- Iidò(quajc c il (ale)cofi
della volontà di più perfone fi genera vna perfetta concordia &
amicitia. il medefimo faccrdote d ipoi gittaua tra le corna della vittima
la mo- la, & verfaua del vino,comehà moftroVergilio, douc ei
dice. Simbolo di ucraamici- tu.
Mola. Vrobatione -Frontone inuergit
vinafacerdos. della uitti - lignificando per quello che la vittima
era crcfciuta in di ma " gnitàr&ancho lo faceuonopcr prouarc
fecllahaucua paura , {limando che lenza la mola il ficrificio non
era . . grato à i loro Dij:&: il vino era portato in vn vafo
detto l 0 . Prcfcriculo,per vnodei miniflridel lacnficio,nclmodo
chcfe ne veggono à Roma invìi marmo antico. VUSO
DE GL’ANTICHI ROMANI. 171
VUSO, Tinnirò DEL M^tR- mo antico-, chiamato ^ref
inculo. Ma innanzi che il prete fpargefleil vinofu la
tcftadel- Ia vittima, eil’aflàggiauacoì/ìmpulojchceravnaltro pie s
imputo. colovafo , fatto nel modo che fi vede qui difotto,&
ri- tratto da diuerfi marmi & medaglie antiche. SI MTV LI
TIRATI D‘V 2ST fregio dntico cine in Roma. Ne
man t 7 i DELLA RELIGIONE i Ro»Mn{ Ne
manco fi faceuono quelli fiicrificij fenza fuoco, il non fucrifi- q
Ua J c era dilegnc (ceche porte fu l'altarc,fi come vfiamo ““fuoco,
anchora hoggi ne i noftri facrificij (non per ouuiareallc tcnebre,ma per
moftrarc nell’adoratione fegno di gioia) & come fi vede per il
candeliere de gl’antichi, fatto in quella forma, CERVELLI ERE,
RITRUT- to del nurmo antico. M ^ Lclegnedel
detto facrificiononpoteuonoc/Ièred’v- téttiu o tu- liuo,d’alIoro,ne di
quercia, perche gl’antichi ftimauono *’"*• che tutti quelli alberi
faceflìnocattiuoaugurio:& quan- fidccold il do il facerdote racccndcua,pigliaua
vna fiaccola di pi- P in0 \ • no guardando bene di non errare fecondo
l’ordine delle Cerimonie ’o , • i , i i< -t primdch
oc loro cerimonie antiche ,doppo le quali il prete toccaua eiderUuit- | a
k e ftj aC0 n vn coltello, dalla iella per infino allacoda, yergìlìo,
come ha moftro Virgilio, douc dice» Et V DE G’L
A NTICHI ROMANI. 273 (. -Et tempora ferro ' Stimma
notar pecudum. Comandando dipoi al vittimano di mettere i coltelli
fo pra alla bcftia,come dinuouo ha inoltrato Virgilio qua do
dice, Supponunr alif cultros , Et di qui c nato che
gl’antichi diceuono mattare, cioè crefccre,percotcndo la viteima con vn
maglio/atto nel modochefi vede qui difotto, MAGLIO ET
SCURE con quali ammazzinone le Vittime.
Non era lecito à i miniftri di percuotere la vittima» ^ fé il
faccrdote non Io comandaua;gI habiti de quali per i mnìjbi cflerc
differenti , mi è parfo inoltrarne la figura qui di- d, ff eTtnte >
(beco. S *74 DELLA
RELIGIONE FICfV'R^l Z>’ l MJlslJSTXJ del
facrifdo, ritratta del marmo antico. Et tutti quelli
ch’andauono innanzi 1 . grand jfacrifì cijdicenro buoi, chiamati
Hecntombc,ciòè trombet ti, fonatori di flauti, o dicorni, & quei
chcconduccuo no le vittime , óccheporrauono i vali, Se altre cofe
ne ceflaric per il ficrificio, èrano differen temerne corona ti, 6i
vcftiri *ncl modo che fi vedc.qui difolto, H eeatobr.
SO DE GL’ ANTICHI ROMANI.
no innanzi alle vittime, Quella vittima era bene
fpellbammazata di coltello, colteUochi fubico che il làcerdotc comandaua
di ferirla nella gola, Sf " il quale coltello, chiamato Seeejpira,
era limile à quello ritratto da i marmi & fregi antichi , che fi
veggono in Roma. S a ■v
DE G'L ANTICHI ROMÀNI. zf? Wf i <K1 /
X r z J ! qjj ^ L 1 ammazzino le vittime.
Etalcunialtri tcneuonograndillìmi bacini da loro detti difchi,per
riceucre gli inteftini della beftia,Ia forma de quali Ci vede in Italia
& in Francia in molti luoghi fatta à quello modo.
S Tutte quelle colè non erano fatte lènza
millerio, con ciò lìa,chc doppo haucre glatichi lacrificato i buoi,
per Mijitrio memoria del facrificio,& in honorede loro Dij
faccuo- no f u I luogo (colpire 1 bacini, &:i tcfchidc buoi, có
fcfto* pojitnticni. # . c • . \ | . r , . .
nnntorno.comeinpiulati li vede mgran marmi anti- chi, & maflìme
fopraà gl’archi delle pone di S.Giufto in Lyonc. 2) 1
S CO, 0 2 CI Fregio DE GL’ANTICHI
ROMANI, *7* FX3 q io TTYZTro Wltm marmo antico eh' è in
Lyone. • Pelle detto vittima in-
Alcuni alcri,lcQrticatada vittima/accuorio rtietrère la
pclleconl’altreinfegne della religione, dormendo bene fpeffone i templi
fopra le dette pelli, per affettare la ri- religione. fpofta de iloro
Dij,come mollraVerglio, quando dice, y ‘Pellihus ine uh ut t
JlratisJomnofque perirne. S 4 vìD l “
UT'' I Giu
Etficomeletcftedc buoi erano quiui collocate per moftrare la pietà
& la religione, & tutte le loro cerimo- nie vfate nei facrificij,
colici mctteuonoanchora quelle de caftroni facrificati,fi come fi vede
nel fopradetto fre- gio, onde io ho fatta ritrarre la prefente
figura. a i ,/V'y, '■ ' . ^ x yfq i8o' DELIA
RELIGIONE /. TESCHIO DEL' TO X q mejfo tra le infegne della
religione. DE GL’ANTICHI ROMANI. ito ‘ I Giudei (come
fcriue Straberne al vi. libr.)haueuo- i Giudei no anch’eglino quella
vfanza di dormire ne i tcmpli,& di vegliami dentro , come faccuono i
Romani , perche tomcTUo- ■ comehà detto Cicerone, gli Dei parlano
(blamente à mni ' coloro che ei trouano dormendo : la quale vfiinza
(co- me (criucEufebio Panfilo) fu dipoi tolta via daCoftan E “A bio
tino,auertito de i maliche fotto colore di bene fi face- uono là
dentro. ‘PELLE PELLAI VITTIMAI.
Vltimamcnte il fiicerdotefaceuarizarc vna gran ta- uola chiamata
EncUhrnjz ome i vafi , che fcruiuono per ifacrificij, fumo detti
EncUbria, , fopra la quale faceua porre la vittima (parata
percercarcdiligctemente gl’in- QsoUinte- teftini (quali erano il cuore,iI
polmone &il fegato)con vn coltello di ferro,& cognofcerc fe gli
Dei s’erano con- * tentati del facrificio & pacificatila i
Greci (come' fcri- ue Paufania) appreflo hauere guardati gl’inteftini de
Taufaù. glagnclli, capretti, & vitelli, folcuono predire le
cofc ■;.v: - - _ S 5 jl8i della
religione officio de future.EfgrArufpicioflcruauonofolamentclc
fiamme t^nelfacri' delfuoco,dal q ua le era la vittima abbruciata.
Hauen- ficio. do i faccrdoti coli bene effeminati gl’intcftini ,
faccuo- no diuiderele membra della beftia, & quelle coperte di
farina,& polle in vn paniere, ne faceuono offerta à c o-
lui,chehaueua fatto il fecrificio,&cofì (limauono la vit- tima
pcrfetta.il coItcIlo,col quale era la vittimafquar- DoUbré tata, fu
chiamato Dolabra ‘Pontifici* , fi come Tito Liuio ponfj/icu, ha nominato
quello, col quale fe le tagliaua la gola , Se- ua,yel a fecando
SeceJj>ir*.}Az i coltelli, coni quali s’am- mazzauonoi piccoli
animali, fumo detti Cultrii come ottico nel hàmoftro Ouidio quando ci
dice, il TrJff ‘ ‘PercuJJufque [augnine cultros form,
lnficit. Et de gl abri coltelli che feruiuono alla caccia, detti
Ve- natori) cultriy ha fatto mcntione Tranquillo nella vita di
Claudio, douc ei dice , Reperti eejuejlri ordinuduoin pu- hlico cum dolane
& "venatorio cultro. Solamente i Giudei Coltelli di
nelle loro circuncifioni vfaronoi coltcllidi pietra. putra per
* e™™"' ~SCVRE ET COLTELLA [A N TJ CH ì\
Laltro • DE GL’ANTlCHI ROMANI; Ì83 L altro coltello ,
col quale era fquartata la vittima, coltelli per era fatto nel modo,che
fi vede qui (otto. uìttim ^ ^ LTXO CO LTE L LO
^ANTICO. Inuitami la diuerfitàdi quelli co!telIi,& per
fare pia- piwr p f j ccreàgl’amatori delle cofe antichc,à riprefentare
quindi de coltelli forco la figura dei coltelli antichi, che i vittimarij
porta- * uono appiccati alla cintura in quello modo.
COL i8 4 della religion e • COTTE L Li CHE
‘PORT^V^'HO w »*» ordinariamente i ZJittìmarij alla cintura.
4 Etfc alcuno purefteflc anchora in dubbio del
mo- do di quelli facrificij, mi è parfo di riprefcntarc qui al
naturale quello che fi è potuto ritrarre della colonna di Traiano à Roma.
. S.JCR 1 Bh>'ob -A. ih' iup 31 l MI 51
■1141^ ♦Ha . ; t pn jnnr. 3
KV)*j f ■ :J. ^ 'ff ’ !:Ì,W MJtll 11 * 03 1
n I : ,obomofbop ni Mina; ; sjbinoàiq ;
: onta* DE GL’ÀNTICHI ROMANI. zfy
s uc r i fTcTo~~u wr Tcori fxZf ttò dalla colonna diTr
alano. Riguardata la vittima, & fatto preferite al
facrifica- tore di pezzi migliori , il prete gli faceua abbruciare
fu l'altare, quantunque benefpclfo la carne reftaflè i i fa-
ccrdoti doppoil (angue fparfo fu l'alrare,come hi tno- ftro Vergilio
quando ei dice, Sanguinis @r [acri patera*. Mane gran
&crificij .dntida i la vittima h gittaua tutta intera dentro al
fuoco , come hi dimoftroil mcdefimo Poeta dicendo, Etfolida
imponunt taurorum inferra fammi s. La
itt DELLA RELIGIONE La quale carne non era coli torto porta
dentro a 1 fuo- frtu ì'tc- co, che il prete vifpargcua fopra delì incenfo
del corto, nerliiuen- & altre cole odorifere, che ci pigliaua dentro
à vna caf- fetta detta ^ cetra da i Lati n i,& de noi hoggi Turibulum
, come moftrala predente figura, , t ~ . ~ ‘ d C
S S E TT yA DOVE TEMEVANO ifacerdoti line enfi.
W ’ : il uino in Qucfto iflccnfo,o profummo (comeio penfo)
s’ab- ufo ntl fa- bruciaua per amorzarc il cattiuo odore della
carne «rifido, abbruciata, doppo il quale il facerdote vcrfauadcl
vino rane in mag fu l’altare , & all’hora fi ftimaua fornito il
facrifici tono in ma g LU I aitare , oc auuuia u muuw lumuu
n facrificio, gior pregio quantunque il più perfetto & maggiore era
tenuto quel mi Curi - j Q ^ c j lc ^faccuad’vnatroiajd’vn toro,d’vn becco,
&d’vn montone, & appreflo àgl’Ateniefi d’vna troia.d’vn
mon- tone & d’vn toro,chiamatodai Romani Solitaurilia , &
fatto da Cenfori ogni cinqueanni,pcrluftrarc,o purga- re la Città di
Roma, come qui lo dimoftra la figura, "" ■'* “ ' ~ “
SjLCZi nel facrifi ào . Solitauri-
lia. DE GL’ ANTICHI ROMANI. z8 7
SACRIFICIO CHIAMA TO S 0 L 1- taurihajirato dui marmo antico.
~ Qiì e ft ovoca bolo,folo,dirnoflra laqualirà delfacrU
ficio, cioc che egli era perfetto & intero, conciofia che Solum in
lingua T ulca lìgnificaua intero, come dimoierà . Solum - Tito liuio,
chiamando gli ftrali fohferrei,cioè tutti di T i itoiiuio. ferro.Nel
refto & vlrimo de làcrificij i medclìmi preti apparecchiauono la
cena, alla quale era permeilo di Ctnd ^ i trouarfì à ciafcuno, che era
flato prelènte aIlacrificio:& preti Ro- di quel che auanzaua,poteua
il facrificarorcportarc & mnu donare ài parenti, &à gli
amici,qualì come li fa nella < noftra religione hoggi del pane
,che ogni domcnicair diftri i38 DELLA
RELIGIONE nijlribu- diftribuifce per Icchicfc.il modo del loro
mangiare craj tionejetta nc l tempio ftauono tutti ritti con certi
panetti ton- ati anti * diin mano, mentre che ficantauono d’altra parte
le lo- «*>*• di di Dio , facendo cuocere la loro carne dentro à
vn vafo detto Olld,&. da noi Pentola, nel modo che da i marmi
antichi ella fi vede ritratta qui difotco. • PENTOLA DOVE 1
S UCÌtl El- ettori ftceuano cuocere Ucarne de li facrijìcij.
Hauendo anchora olìcruato per la icultura d'vn'al- tro marmo
antico, che fi vede fopra la porta della chicia di Bcauieu ixn. leghe di
Lyone.comcdoppo che la vit- tima era fiata pofta morta lu l’altare, il
vittimario fe la caricaua fu le (palle,& la portaua per metterla in
pezzi, & farla cuocere, come fi vede pcrilgiouane vittima-
rio,che porta la pentola & la mcfiola,& il facrificatorc noUfiU-
il paniere douc era la mola falata , però mi è parlo di u, riprefentarne
qui la figura al naturale. r • ~ ■ Eigv 4
> M Me FiqUR^l
T12tUT<st' D'V'N fico eh’ è /opra la porta de la chiefa di
Tcauiett in Seauiolois. 1J>0 DELIBA RELIGIONE’ . J
Cerere lulus^ per le biadc,di Venere Ereriches,c ioc picn d’amore,
& di Bacco, Dityramhus : benché grimbriachi h yanl de haucuono i loro
hynni à parte, i quali Ariltofanc inXd- ba chiamati *ft**yÌHunct , à
caufa che i Greci chiamano e». 4 >1 tremito de la
tefta*p>*a'>irr, & mangiare & bere J troppo. H ora
appreflo à tutte quelle cole, il prete, liccn- venilio. tiaua ogniuno,comc
moftra Vcrgilio, quando dice, -Dixutjue nouifiirru vtrl> 4 .
1* il fine del ^ et: volendo mollrarccheil facrificio
eraforni- fecrifieio. to,comehoggi anchora fanno i noftri preti
alla fine del- la mefla, quando dicono, ItemiJJa e fi. In quelli templi
tra l’altrc era vna Tedia à parte dinanzi all’altare, perii ^
Principe, o quello che tencua la giuftitia, intorno ali ai- r
tare vn coro, & nel rcfto del tempio erano portichi ®
Ioggie,doucil popolo lpaflcggiaua,afpcttando che lì fa- ^ celle il
lacrificio. Et certamente che Te noi mettiamo ^ ogni induftria
& facciamo ogni grande fpela per Tare ^ bei palagi, &:
belle cafe,tanto più douerremo ingegnarci ^ di fare beile chielc,
Scorationi à Dio , per intrattenere Religione co *‘ * a P‘ cta, * a
religione & la mifericordia,come ci hati degli enti-
noinfegnatoCefarc Augufto,Vclpafiano,Ncrua,&M. 'Jf ehi impero
Aurelio, tutti buoni & diuoti Impcratori,pcr quanto li tifarne- vede
nelle loro medaglie, doue fono tutte infegne della gnifiebité- antica
loro religione, nel modo che fi trouano qui di- fottO;
ANTON. A Pf-
DE GL’ ANTICHI ROMANI. 2*1 ANTON. PIO. M.
AVRELIO. ARGENTO. ARGENTO. « Ma perche
gl’ Egitcij fono (lati i primi , che Icuando Religione gl’occhi in verfo
ilcielo,& affifando la mente nella co- E S‘*' gnitione di
Dio.trouorno molte cerimonie, & modi di religione:pcrò ho giudicato
non fuora di propofito , Io fcriuere qui neH’vlfimo qualche colà di loro:
& come penfando che il Sole & la Luna fodero Dij ,chiamorno
quello Ofiris,& quell’altra Ifis, adorata poi infino à Ro- ^ s '
ma,come fi vede per la infraferitta mcdaglia,dclla qua- le io ho fcritto
altroue adai largamente. MEDAGLIA DEL CINOCEFALO. ARGENTO.
T 2 ff DELLA
RELIGIONE Et Commodo Imperatore (come fcriuc Spartiano) hpiiorò
molto tra gli altri facrificij, quello di quella Dea, come fi vede nelU
fua medaglia , doue ella tiene vna sfera in mano, come madre di tutti
Parti, & vn vaio, ovcroamfora piena di Ipighe, lignificando la
fertilità d’Egitto. BRONZO.
BRONZO. L’vfanza de gl’Egitij nell’adorarc i loro
Dij,fu nel principio pura &femplice,fenza effuzione di fanguc,
o vfare altra crudeltà, però che egli offeriuono fu l'altare quei
mcdcfimi frutti, che ei magiauono, il che fecio- noanchora tal voltai
Romani, come dimoftra Iaprc- fente figura: & abbruciando le radici
& le foglie infic- mc,guardauonoi frutti offerti all’altare,
pacificando gli Dei celefti col fumo fidamente. v
pinzi fo- gli Egitti/ nelTadora- rt » loro
X>ij. s^Cz/ DE GL‘ ANTICHI ROMANI.
zs>} SACRIFICIO 2)1 FRVTTI TIRATO del marmo antico
di Roma. Scriue Porfirio che in quel primo tempo non erano
Porfirio. invfo ne rincenfo,nc Iamyrra,nc la cannellate il zol-
fine il zafferano, ma l'hcrba verta, la quale moftraua » la potenza
della cerra,& tale facrificio quale fi faccua propriamente delle
herbe fi chiamaua da Greci 5v*t*. Di poi vennero Hipcrbio &
Prometeo che trouorno il Hipfr&io modo di Eterificare le bclfic,&
di conofcere selle erano intere &fane,& il facrificio grato à gli
Disperò chefcil fiacri fi tato- toro rifiuta u a la farina, o le capre i
ceci,chc erano pre- acif ~ (curati loro , giudicauono il facrificio ne le
beftie edere buono.Dipoi offerirno myrra &: zafferano, &
ndl'vlti- T 3 . Cerimonie degli
Egit- ti f, i felli' tarloroDij ld mattina.
Vitruuio. Itore certe per far ora tione,cr
ci tare. P linio. Tacito. Macrobio,
Marcelli- no, Cojlume t Orfeo à far giurare
i forejiitri entrido nel la fua reli gione.
L ecofebuo ne commu- nicate ima Ugni, perdo
nolorripu- tatione. 1*4 DELLA RELIGIONE
mofcciono vna vera beccheria dei facrificij loro. L’al- tre
cerimonie de gl’Egittij erano di falutare la mattina i loro Dij,il quale
modo da gl’antichi fu detto adoratio- nc,comc moftra Vitruuio nel in i.
libro della Aia Ar- chitettura,doueci vuole che i templi de gli Dei
fiano prdl'o alle ftrade macftrc:acciochc i paflànti gli pollino
più commodamentc falutare & adorareda quale vfanza pare che habbino
ritenuta i noftri preti,diccndo il mat-
tutino,&terza&feda,comcgrEgirtijfaccuonoorationc la prima,
feconda & terza hora, cantando hynni & altri canti, fitti in
laude del loro Dci,& fcritti (come fcriuc Plinio) ne i loro libri di
Rcligione,per figure & caratte- ri di beftic,d’vccelli,& d’altre
cofe, che Tacito, Macro- bio & Marcellino chiamano Hycrogliphice ,
come an- chora fi può vedere ne i loro obclifci, o vero piramidi
& guglie, delle quali ragiona Plinio al x x x v i. hb.dcl- fHiftoria
naturale in quello modo,Gl’intagli, caratteri, & imagini,chc noi
veggiamo, fono lettere de gl’Egittij fcnzaordine& inrclligcnza di
perfona,fcnondi coloro che crono prepolli alla religione. Et Orfeo (come
narra Firmico) mollrando à gli huominiforellieri,chc entra - uono
nella fua religione, i lecreti & miflerij di quella, gli faceua prima
folla portadel tempio giurare, che non riuclcrebbono maicofa,che egli
hauellìno veduta ài profani, cioè à quellichcnon erano dell’ordine
loro:& certamente non fenza ragione, conlìdcraco come le co- le
buone perdono di rìputationcquando ellcfonocoftì municatc à huomini
ignorami, incredulfonuidioii, per- fidi & maligni. Vlauono oltre à
quello gl’Egittij, che pi- gIiauonogl’ordinifacri,di pigliare anchora
prefentida ogniuno. DE GL’ ANTICHI ROMANI, a*
5 ogniuno,& poi faccuonovn conuitoà tutti quelli , che
erano flati prefentialle cerimonie loro: &il gran facer- dote (come
noi diremo hoggi vno de i noftri vefcoui) infegnaua poi lorc^ciò che ci
doueflìno fare, dandoli vn libro, o ruotolo , come quelli che vfauono i
Giudei. I Romani poi (come habbiamo detto) haueuono altri vigniti
de ordini tra loro, come il maggiore & minori Pontefici,
flamini,archiflamini,& protoflamini, limili alnoftro Papa, cardinali,
patriarchharchinefcoui, vefcoui , abbati* priori, canonici & altri ,
à i quali porta uono molto ho- nore&
obbediuonogl’antichigrandemcntr-.ondc Cice- rone fcriuc,che la religione
fu quella che fece coli gran- urrllgim di i Romani, anchora che egli
haueflino affili nationifu- periori à loro in molte cofe. Pofledcuono
parimente gl’antichi benefici) con la difpenfa del maggiore Ponte-
eB fìce,come fi vede in T ranquillo nella vita di Claudio, & doti
Antichi in Tito Liuio, quando ci dice che il figliuolo di Fabio
Maflimo haueua due bencficij,quando ci fu fatto Pon- tefice:i quali
benefici) erano di fi gran valuta, che non fo- lamentc ei poteuono
intrattenere le loro cafc& famiglie magnificamcnte,ma peruenire alle
fbmmc dignità de i loro trionfi, nonlafciando perqueftodi tenere altri
of- fici) fecolari & publichhandarc alla guerra, & fare
mer- canti a, fecondo che roccafionc fi prefcntaua:& erano
quefli bcneficijdiduefortid’vnaVfa fuggettaalla colla- tionedcPonteficbde
la Rcpublica,& degli Imperatori, & l'ahra reftaua libera
& hcreditaria di mano in mano à R 0m JT « i fucceflorijche chiamorno
tali facerdotij Gentilirij,& tuamentr. quafi al modo noftro patronati:de
quali hà coli parlato Cicerone, nel libro de ^Aruftìcum reftonfìs, Ei
fono (dice citarne. , che hanno fattoi T 4
egli) in qucfto ordine molte perfone DELLA
RELIGIONE intrjte de facrificij Gentilicij in quello iftclTotcmpio.Nc e
dama- tntjiaf. rauigliarfi fc l’enrrattc di quelli benefici j antichi
erano cofi grandi, confidcraro che quando i Romani veniuo- noa
fondarctcpli o munillerj,ci gli jfotauono digran- dilfimi beni, cofi
indanari,& penfioni,comcin tcrre& altre cole (labi li, & i Re
&gl Imperatori le faccuono fi- jonluioni a quelle , che in Francia fi
chiamono Fondationi rtélL Realidcntratte delle quali fi coinè fono
rifeofTe & pa- gate dai Riceuitori del Dominio, cofi quelle de
Roma- ni paflàuono per le mani de Queftori,o Telorieri, fi co-
coUcgìdd m x c m °ft ra Tito Liuio,quando ei dice che Numa ordi- ne V
rftaii no i Collegi de i Flamini & delle vergini Vcftali,&: aflc-
- N ^ id4 £ n ° foro entrate & prouifionidei beni publicida quale
vfanza non bifogna dubitare che non fo/Iè poi oflerua- ta & matcnuta
da gl altri fondatori che vennono do- cSformiti P° lui. Concludendo che
fc noi porremo ben mente,noi troucrrcmo & vedremo che gl’ordini della
noflra reli- Gentili con gionefonóin moire cole limili à quelli de
gl’antichi Egit k nojircin tij,&Romani,comclbno i camicide pretine
ftolcde piì- netejecherichc ralc, che i Franzcfi, chiamano Corone,
lo inclinare della tcfla, volgendoli all altare, il principio & la
fine del facrificio, i prieghi,i voti,l’orationi , gl’fiy ti- ni, le mufichc
delle voci,ifuonicomequellidegli orga- ni,^ proccfIìoni,& molte altre
cofc,chc vn buono fipiri- to potrà facilmente ricorre, hauendo
bcneconlidera- tc quelle cerimonie & qucIle:ecccttoche quelle de
Gcn-’ df ti,icrano ^«tlupcrfiitiofe, ma lenollre fono Chri- g
aitili. diane & catholichc, eflèndo fatte inhonoredi Dio Pa-
dre Omnitenrc, &di Gicfu Chrillofoo figliuolo,à cui fiagloria
etcrnalmente. Grice: “There are many issues about philosophical theology, as we
may call it. The romans were into cult, rather than religion – they didn’t even
know where ‘religio’ came from, and Lucrezio famously disagreed with Cicero –
It seems it was all about killing livestock in lieu of humans, as the
barbarians did!” -- Grice: “Enzo should
concentrate a bit on how the ancient Romans dealt with their civil religion.
Roma and romanitas. Carlo Enzo. Enzo. Keywords: l’uomo, essegesi, ermeneutica,
i quattro sensi – from Genesis to Revelations: a new discourse on metaphysics,
eschatology – perhaps Moses got more than the 10 comm from Sinai --. Ebraismo e
romanita – romanita pagana – la teologia naturale dei romani antichi – la religione
civile dei romani – I simboli della religione romana pagana --. La religione
ufficiale della Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Enzo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763158449/in/photolist-2mS8HB8-2mS81kq-2mRSqwK-2mRWmWX-2mRYsHJ-2mRV8wa-2mRWmUx-2mRV8zS-2mRYsKN-2mRWmSP-2mRQT1q-2mRYsKh-2mRV8zr-2mRV8zX-2mRWmR1-2mRV8yQ-2mRV8xY-2mRV8wL-2mRZy1m-2mRZxZV-2mRWmVu-2mRV8uG-2mRWmPx-2mRV8wW-2mS2fwZ-2mRWmTF-2mRWmUc-2mRWmQE-2mRZy54-2mRV8xc-2mRZxZz-2mRWmTq-2mRWmWG-2mRQSYg-2mRV8AJ-2mRYsJR-2mRQT1L-2mRWmP7-2mRV8yK-2mRYsM1-2mRZy2Z-2mRV8vJ-2mRYsLE-2mRWmU2-2mRVFhB-2mRPtKR-2mRV5s7-2mRSmRq-2mRLp9C-2mREWCm
Grice ed Epicoco – la
religione civile dei romani -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne).
Filosofo. Grice: “I like Epicoco; he has a way with words – e.g. ‘only the sick
heal.” Is that synthetic a priori?” Grice: “My favourite is Epicoco’s emphasis
on some symbols, like blood, and Canova’s Eros – and ‘l’amore che decide.’
Insegna a San Carlo Borromeo all'Aquila. Altre opere: Vergine Madre figlia del tuo figlio; Itaca
editrice; Jesu dulcis memoria; Itaca editrice; Il grido di Benedetto XVI; con
Michele G. Masciarelli; Tau editrice; Futuro presente. Contributi
sull'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI; con Angelo Amato e Paola Bignardi;
Tau editrice; L'Immacolata perfezione. Sentieri in preparazione alla festa
dell'Immacolata; Tau editrice Io vedo il
tuo volto. Arte e liturgia; Tau editrice
Ex coelesti virtute. Miscellanea di studi in onore di S. E. Mons.
Giuseppe Molinari nel Suo 50º di Sacerdozio; Tau editrice Etty Hillesum. Introduzione ad una donna; Tau
editrice Piccola introduzione alla
Bibbia; Tau editrice Qualcuno accenda la
luce. Conversazioni sull'Enciclica Lumen Fidei di papa Francesco; Tau
editrice Giovanni Paolo II. Ricordi di
un papa santo; con Mons. Piero Marini; Tau editrice La misericordia ha un volto. Il Giubileo
straordinario della Misericordia secondo papa Francesco; Tau editrice Preghiere di ogni giorno; Tau editrice Nati per amare. I giovani raccontano la
famiglia; LUP Solo i malati guariscono.
L'umano del (non) credente; San Paolo, Milano
Educare è meglio che curare; Tau editrice, La malattia è un dono di vita. Storia di
Teresa Ruocco; Tau editrice La stella,
il cammino, il bambino. Il natale del viandante; San Paolo, Milano Quello che sei per me. Parole sull'intimità;
San Paolo, Milano Amen. La Parola che
salva; San Paolo, Milano Sale non miele.
Per una fede che brucia; San Paolo, Milano. Telemaco non si sbagliava. O del
perché la giovinezza non è una malattia; San Paolo, Milano L’amore che decide; Tau editrice, Camminando tra pastori e Re Magi. Trenta
piccole meditazioni e un "quaderno" per la riflessione personale: un
percorso di preparazione al Natale, San Paolo, Cinisello Balsamo, Qualcuno a cui guardare. Per una spiritualità
della testimonianza, Città Nuova, Roma,. Note
A L'Aquila Epicoco diventa il nuovo preside dell’Istituto Superiore
Scienze Religiose, Giovani: don Epicoco (filosofo), “proporre un incontro che
può cambiare la loro vita”, in Servizio Informazione Religiosa, 11 settembre. Intervista a Il Faro di Roma Scheda in Itaca
libri Scheda sito San Paolo Scheda del docente nel sito dell'Università
Pontificia Articolo incarichi diocesani Intervista a Credere Sito della Parrocchia Universitaria L'Aquila Incarichi nel Sito Ufficiale della Diocesi, su
diocesilaquila. Scheda sul profilo di don Luigi Maria Epicoco Radio Radicale Comunicato stampa Sito Rai Caterpillar Rai Due intervento a NemoNessuno escluso in
prima serata Membri Cavalieri della Luce
Archiviato il 18 gennaio in. Testimonianza nella rivista Credere Roma Sette sul nuovo Messalino edito da San
Paolo Intervista e nuovo libro sul sito
Aleteia La prefazione di Massimo Recalcati
al libro di don Luigi Maria Epicoco Don
Epicoco nuovo preside dell’Issr L’Aquila
Conferenza di don Luigi Maria Epicoco a Nizza il 13 novembre. Wikipedia
Ricerca Religione sistema di credenze e attività umane nei confronti di una o
più entità sovrannaturali Lingua Segui Modifica La religione è un costrutto
sociale formato da quell'insieme di credenze, vissuti, riti che coinvolgono
l'essere umano, o una comunità, nell'esperienza di ciò che viene considerato
sacro, in modo speciale con la divinità, oppure è quell'insieme di contenuti,
riti, rappresentazioni che, nell'insieme, entrano a far parte di un determinato
culto.[1] Alcuni simboli religiosi. Da sinistra a destra, dall'alto
verso il basso: Cristianesimo, ebraismo, induismo, bahaismo, Islam, Neopaganesimo,
Taoismo, Shintoismo, Buddismo, Sikhismo, Brahmanesimo, Giainismo, Ayyavazhi,
Wicca, Templari e Chiesa Nativa Polacca Va tenuto presente che «il concetto di
religione non è definibile astrattamente, cioè al di fuori di una posizione
culturale storicamente determinata e di un riferimento a determinate formazioni
storiche».[1] Lo studio delle "religioni" è oggetto della
"Scienza delle religioni" mentre lo sviluppo storico delle religioni
è oggetto della "Storia delle religioni". Etimologia Modifica Marco Tullio Cicerone(106
a.C.-43 a.C.), fu il primo autore a proporre un significato etimologico,
collegato all'attenzione verso ciò che riguardava gli dèi, e una definizione
del termine religio. Lattanzio (250-327), apologeta cristiano, criticò l'etimologia
di "religione" proposta da Cicerone, ritenendo che questo termine
dovesse essere riferito al "legame" tra l'uomo e la divinità. Il
termine religione deriva dal latino relìgio, la cui etimologia non è del tutto
chiarita[2]. Secondo Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), la parola originerebbe
dal verbo relegere, ossia "ripercorrere" o "rileggere",
intendendo una riconsiderazione diligente di ciò che riguarda il culto degli
dèi[3]: (LA) «qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent
diligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi ex
relegendo, ut elegantes ex eligendo, diligendo diligentes, ex intelligendo
intelligentes» (IT) «invece coloro che riconsideravano con cura e,
per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dei furono
detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere),
diligente da diligere(prendersi cura di), intelligente da
intelligere(comprendere)» (Cicerone. De natura deorum II, 28; traduzione
in italiano di Cesare Marco Calcante in Cicerone. La natura divina. Milano,
Rizzoli, 2007, pagg. 214-5) Jean Paulhan evidenzia come Lucrezio fece invece
derivare religio dalla radice di re-ligare, nel significato «dei legami che
uniscono gli uomini a certe pratiche»[3] – derivazione che fu poi ritenuta tale
anche da Lattanzio e Servio Mario Onorato (però col significato di «legarsi nei
confronti degli dei»[4]). Secondo Michael von Albrecht, da essa, poiché verbo
contrario all'idea di liberazione, Lucrezio ne derivò il significato negativo,
del quale è: «molto grafica l'espressione religione refrenatus (5, 114), che
rispecchia le inibizioni al pensiero filosofico causate dal paganesimo: l'uomo
è trattenuto, impedito, essendo le sue mani letteralmente "legate dietro
la schiena"». Inoltre «parla spesso dei “nodi stretti” [...]della religio,
dai quali Epicuro avrebbe liberato l'umanità».[5][6] Un significato simile le
aveva attribuito lo storico greco Polibio, dando alla religione, ma con
particolare riguardo alla tradizione e ai costumi dei Romani, il senso di un
instrumentum regni.[7] Nello specifico Lattanzio (250-327)[8], che fu ripreso
anche da Agostino d'Ippona (354-430)[9], correggendo Cicerone, sostiene:
(LA) «Hoc vinculo pietatis obstiicti Deo et religati sumus ; unde ipsa
religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est, a relegendo.»
(IT) «Con questo vincolo di pietà siamo stretti e legati (religati) a
Dio: da ciò prese nome religio, e non secondo l'interpretazione di Cicerone, da
relegendo.» (Lattanzio. Divinae institutiones IV, 28. Traduzione di
Giovanni Filoramo. Le scienze delle religioni. Brescia, Morcelliana, 1997,
pag.286) Così lo studioso Luigi Alici (1950-) mette a confronto la lettura
etimologica offerta da Agostino in De civitate Dei X,3, che si richiama a Cicerone,
con quella di Lattanzio il quale "preferisce insistere sull'idea primitiva
di 'ciò che lega' di fronte agli dèi": «tale legame sarebbe pure
indicato dall'uso simbolico delle vitae, cioè delle bende con cui si coprivano
il capo i sacerdoti» (Luigi Alici. Nota 5 in Agostino. La città di Dio.
Milano, Bompiani, 2004, pag.462) Tuttavia lo storico delle religioni italiano
Enrico Montanari (1942-) osserva che: «Etimologicamente, religio non
deriva da religare('legarsi faccia a faccia con gli dèi'): questa interpretazione,
di fonte cristiana (Lattanzio), fu attribuita agli antichi, ma sulla base del
nuovo culto monoteistico.» (Enrico Montanari. Roma. Il concetto di
"religio" a Roma. In Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni
Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.642) Quindi, per Enrico Montanari,
l'origine del termine "religione" è da ricercarsi nella coppia dei
termini religere/relegere intesi come "raccogliere nuovamente",
"rileggere"[10] osservare "con scrupolo e coscienziosità
l'esecuzione di un atto"[11] e quindi eseguire con attenzione l'"atto
religioso". Furono i primi teologi cristiani, nel IV secolo, a rovesciare
il significato originario del termine per collegarlo al nuovo credo[12].
Allo stesso modo osservò Gerardus van der Leeuw(1890-1950) che coniando
l'espressione homo religiosus lo oppose all'homo negligens: «Possiamo
quindi intendere la definizione del giurista Masurio Sabino: religiosum est,
quod propter sanctitatem aliquam remotum ac sepositum a nobis est. Ecco
precisamente in che cosa consiste il sacro. Usargli sempre debiti riguardi: è
questo l'elemento principale della relazione fra l'uomo e lo straordinario.
L'etimologia più verosimile fa derivare la parola religio da relegere,
osservare, stare attenti; homo religiosus è il contrario di homo
negligens.» (Gerardus van der Leeuw. Phanomenologie der Religion (1933).
In italiano: Gerardus van der Leeuw. Fenomenologia della religione. Torino,
Boringhieri, 2002, pag.30) Storia della definizione Modifica Occidente Modifica
Grecia antica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Religione dell'antica Grecia. Il termine che
nella lingua greca moderna indica la "religione" è θρησκεία
(thrēskeia). Tale termine è collegato a θρησκός (thrēskos; "pio",
"timoroso di Dio"). Quindi anche se nella cultura religiosa
greco-antica non esisteva un termine che riassumesse quello che noi intendiamo
oggi per "religione"[13], thrēskeia[14] possedeva tuttavia un ruolo e
un significato precisi[15]: indicava la modalità formale con cui andava
celebrato il culto a favore degli dèi[16]. Scopo del culto religioso greco era
infatti quello di mantenere la concordia con gli dèi: non celebrare loro il
culto significava provocarne l'ira, da qui il "timore della divinità"
(θρησκός) che lo stesso culto provocava in quanto connesso con la dimensione
del sacro. Roma antica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Religione romana Monaci manichei intenti a
copiare testi sacri, con un'iscrizione in sogdiano (manoscritto da Khocho,
Bacino del Tarim). Il manicheismofu una religione perseguitata, al pari di
altre, nell'Impero romano in quanto contrastava con il mos maiorum. La
concezione romana di "religione" (religio) corrisponde alla cura nei
confronti dell'esecuzione del rito a favore degli dèi, rito che, per
tradizione, va ripetuto finché non risulti correttamente eseguito[17]. In
questo senso i romani collegavano al termine di "religione" un senso
di timore nei confronti della sfera del sacro, sfera propria del rito e quindi
della religione stessa[18]. In un ambito più aperto i romani accoglievano
comunque tutti i riti che non contrastassero con il mos maiorum dei
tradizionali riti religiosi, ovvero con il costume degli antenati. Quando nuovi
riti, e quindi novae religiones, venivano a contrastare con il mos maiorum
questi venivano proibiti: fu il caso, ad esempio e di volta in volta, delle
religioni ebraica, cristiana, manichea e dei riti bacchanalia[19]. La
prima definizione del termine "religione", ovvero del suo originario
termine latino religio, la dobbiamo a Cicerone il quale nel De inventione così
la esprime: (LA) «Religio est, quae superioris naturae, quam
divinam vocant, curam caerimoniamque effert» (IT) «Religio è tutto
ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolti ad un essere superiore la cui
natura definiamo divina» (Cicerone. De inventione. II,161) Con l'epicureo
Lucrezio (98 a.C.-55 a.C.) si affaccia una prima critica alla nozione di
religione intesa qui come un elemento che sottomette l'uomo per mezzo della
paura e da cui il filosofo deve liberarsi[20]: (LA) «Humana ante
oculos foede cum vita iacere / in terris oppressa gravi sub religione / quae
caput a caeli regionibus ostendebat / horribili super aspectu mortalibus
istans, / primum Graius homo mortalis tollere contra est / oculos ausus
primusque obsistere contra» (IT) «La vita umana giaceva sulla terra
alla vista di tutti turpemente schiacciata dall'opprimente religione, che
mostrava il capo dalle regioni celesti, con orribile faccia incombendo
dall'alto sui mortali. Un uomo greco[21] per la prima volta osò levare contro
di lei gli occhi mortali, e per primo resistere contro di lei.»
(Lucrezio. De rerum natura I,62-7. Traduzione di Francesco Giancotti in
Lucrezio. La natura. Milano, Garzanti, 2006, pagg. 4-5) (LA) «primum quod
magnis doceo de rebus et artis religionum animum nodis exsolvere pergo»
(IT) «prima di tutto in quanto grandi cose insegno, e tento di sciogliere
l'animo dai nodi stretti della religione» (Lucrezio. De rerum natura
I,932) Occidente cristiano Modifica
Massacre saint Barthelemy di François Dubois (1529–1584) conservato presso il
Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna. A seguito dei massacri provocati
dalle Guerre di religione i pensatori francesi del XVII secolo misero in dubbio
la sovrapposizione delle nozioni di civiltà e religione fino a quel momento in
vigore. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio:Cristianesimo. Ebrei in preghiera il giorno
dello Yom Kippur, opera di Maurycy Gottlieb(1856–1879). Nell'Occidente
cristiano, l'Ebraismo, come l'Islām, verrà indicato come una religione solo a
partire dal XVII secolo. Le prime comunità cristiane non utilizzarono il
termine religio per indicare le proprie credenze e pratiche religiose[22]. Con
il tempo, tuttavia, diffusamente a partire dal IV secolo, il Cristianesimo
adottò tale termine nell'accezione indicata da Lattanzio, individuandone
l'unicità in quanto la "religione" era l'unica via di salvezza per
l'uomo. La relazione tra religio cristiana e quelle dei culti o delle
"filosofie" precedenti fu variamente interpretata dagli esegeti
cristiani. Giustino (II secolo)[23], ma anche Clemente Alessandrino e Origene,
sostennero che partecipando tutti gli uomini al "Verbo" coloro che
tra questi vissero secondo "ragione" erano comunque dei
cristiani[24]. Con Tertulliano (III secolo) la prospettiva cambiò e le
differenze tra mondo "antico" e il mondo dopo la
"rivelazione" cristiana furono decisamente accentuate. Con
Agostino d'Ippona (354-430), ma già precedentemente con Basilio, Gregorio
Nazianzeno e Gregorio di Nissa, il pensiero platonico rappresentò per i teologi
cristiani un esempio della comprensibilità di cosa fosse la vera
"religione"[25]. Rispetto ai significati del termine
"religione" nel mondo cristiano, lo storico delle religioni svizzero
Michel Despland osserva che: «Diventato cristiano l'Impero, si trovano
presso i cristiani tre accezioni della parola. La religione è un ordine
pubblico mantenuto dall'imperatore cristiano che instaura sulla terra la
legislazione voluta da Dio (idea imperiale). Può anche essere l'eros dell'anima
individuale verso Dio (idea mistica). Infine religio può designare la
disciplina propria ai battezzati che hanno fatto voto di perfezione e sono
diventati eremiti o cenobiti (Monachesimo).» (Michel Despland. Religione.
Storia dell'idea in Occidente, in Dictionnaire des Religions (a cura di Jacques
Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario
delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pagg. 1539 e segg.) Quindi se
inizialmente il termine "religione" è assegnato esclusivamente agli
ordini religiosi[26], a partire dalla Francia il termine accoglie dapprima
anche quei pellegrini o cavalieri che se ne mostrano degni attraverso il mantenimento
dei loro voti, poi i mercanti onesti e gli sposi fedeli, aprendo così il
termine all'intero mondo laicale che osserva con scrupolo i precetti della
Chiesa. Con la Scolastica la "religione" venne collocata tra le
"virtù morali" inserite nella "giustizia" in quanto essa
rende a Dio l'onore e l'attenzione che gli sono "dovuti" esprimendosi
con atti esteriori, come la liturgia o il voto, ed atti interiori, come la
preghiera o la devozione[27]. Infine il termine "religione"
diviene sinonimo di "civiltà". Con la Riforma protestante a partire
dal XVI secolo il termine "religione" è assegnato a due confessioni
cristiane distinte, e solo con il XVII secolo l'Ebraismo e l'Islām saranno
considerate "religioni"[28]. Le Guerre di religione del XVI
secolo provocarono in Francia l'abbandono dell'idea che il termine
"religione" potesse essere sovrapponibile a quello di civiltà e, ad
incominciare dal XVII secolo, alcuni intellettuali francesi avviarono una
critica serrata al valore stesso della religione[28]. «Vive forze
nazionali si risvegliano e insorgono contro l'adattamento compiuto dopo le
guerre di religione. Da allora la religione è vista come riguardante
un'autorità oppressiva, la fede come una credenza poco ragionevole, anzi quasi
irragionevole. In Francia, le intelligenze cominciano a preferire la civiltà
alla religione. E c'è la tendenza a credere che quanto l'uomo più si
civilizzerà tanto meno sarà incline alla religione.» (Michel Despland.
Op.cit.) Occidente moderno e contemporaneo Modifica
A partire dal XVII secolo, la Modernità attribuisce valore supremo alla
razionalità affrontando con questo strumento conoscitivo anche l'alveo della
religione che così viene sottoposto al suo esame. Se da una parte autori
come Gottfried Wilhelm von Leibniz (1645-1716) e Nicolas Malebranche
(1638-1715) dopo l'analisi razionale esaltarono i valori religiosi, altri, come
ad esempio John Locke (1632-1704) o Jean-Jacques Rousseau (1712-1778),
utilizzarono la "ragione" per spogliare la "religione" dei
suoi contenuti non giustificabili razionalmente. Altri autori, come
l'irlandese John Toland (1670-1722) o il francese Voltaire (1694-1778) furono
propugnatori del deismo, una lettura decisamente razionalista della
religione. Con David Hume (1711-1776) vi fu un rifiuto dei contenuti
razionali della religione, nell'insieme considerata un fenomeno del tutto
irrazionale, nato dai timori propri dell'uomo nei confronti dell'universo.
Partendo dal giudizio di "irrazionalismo" della religione, in
Occidente, con ad esempio Julien Offray de La Mettrie (1709-1751) o
Claude-Adrien Helvétius(1715-1771), si affacciarono le prime critiche radicali
alla religione che portarono all'affermazione dell'ateismo. In questo
ambito Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789) giunse a sostenere che: «L'idea
di un Dio terribile, raffigurato come un despota, ha dovuto rendere
inevitabilmente malvagi i suoi sudditi. La paura non crea che schiavi [...] che
credono che tutto divenga lecito quando si tratta o di guadagnarsi la
benevolenza del loro Signore, o di sottrarsi ai suoi temuti castighi. La
nozione di un Dio-tiranno non può produrre che schiavi meschini, infelici,
rissosi, intolleranti.» (Holbach, Il buon senso, a cura di S. Timpanaro,
Garzanti 1985, p.150) Culture non occidentali Modifica
Nelle culture non occidentali il termine "religione" viene reso con
termini che non hanno la stessa etimologia latina. Così, se in Occidente, fatto
salvo la lingua greca, il termine "religione" ha ovunque origine dal
latino religio, l'etimologia del termine ebraico origina invece da un termine
proprio dell'antico persiano, allo stesso modo l'arabo dove il termine
"religione" origina dall'avestico. Nelle lingue del Subcontinente
indiano invece il termine "religione" viene reso con termini di origine
sanscrita e, in Estremo Oriente, con termini di origine cinese. Vicino e
Medio Oriente Modifica In
lingua ebraica il termine occidentale "religione" viene reso come דת
(alfabeto ebraico) traslitterato in caratteri latini come dath. Tale termine
compare alcune volte nel Tanakh, così nel Libro di Ester (HE) «ויאמר
המלך להעשות כן ותנתן דת בשושן ואת עשרת בני המן תלו» (IT) «Il re
ordinò che così fosse fatto. Il decreto (dath) fu promulgato a Susa. I dieci
figli di Amàn furono appesi al palo.» (Libro di Ester, IX,14) In questo
verso דת (dath) sta per "editto", "legge",
"decreto". L'ebraico dath deriva dall'avestico e dall'antico persiano
dāta[29]. Il termine avestico dāta possiede in quella lingua sempre il
significato di "legge" o di "legge di Ahura Mazdā"[30],
ovvero legge del Dio unico e supremo dello Zoroastrismo. (AE)
«ahmya zaothre baresmanaêca mãthrem speñtem ashhvarenanghem âyese ýeshti, dâtem
vîdôyûm âyese ýeshti, dâtem zarathushtri âyese ýeshti, darekhãm upayanãm âyese
ýeshti, daênãm vanguhîm mâzdayasnîm âyese ýeshti.» (IT) «Con questo
zaothra e baresman desidero questo Yasna per il generoso Manthra, il più
glorioso e lo desidero per Dāta, la Legge, la più gloriosa, santificata Aša,
istituita contro i daēva, e per la legge insegnata da Zarathuštra. Desidero,
questo Yasna, per Upayana, l'antica tradizione mazdea, e per Daēna, la santa
religione mazdea.» (Avestā II, 13. Traduzione di Arnaldo Alberti, in
Avestā. Torino, UTET, 2008, pag.96) In lingua araba il termine occidentale
"religione" viene reso come دين (alfabeto arabo) traslitterato in
caratteri latini come dīn. (AR) «الْيَوْمَ أَكْمَلْتُ لَكُمْ دِينَكُمْ وَأَتْمَمْتُ
عَلَيْكُمْ نِعْمَتِي وَرَضِيتُ لَكُمُ الإِسْلاَمَ دِينا ً» (IT)
«Oggi ho perfezionato la vostra religione ( dīn) compiendo per voi il mio beneficio
e ho scelto per voi l'Islām come religione ( dīn)» (Corano V,3) Il
termine arabo dīn deriva dal medio persiano dēn[31]. In lingua persiana
il termine occidentale "religione" viene reso come دین (alfabeto
arabo-persiano) traslitterato in caratteri latini come dīn. Tale termine deriva
dal termine medio persiano dēnche, a sua volta, deriva dall'avestico daēnā che
in quella antica lingua significa "religione" intesa come splendore,
luminosità di Ahura Mazdā. Daēnā a sua volta proviene, nella medesima lingua,
dalla radice dāy(vedere). (AE) «nivaêdhayemi hañkârayemi mãthrahe
speñtahe ashaonô verezyanguhahe dâtahe vîdaêvahe dâtahe zarathushtrôish
darekhayå upayanayå daênayå vanghuyå mâzdayasnôish» (IT) «Annuncio
e celebro in lode del benefico ed efficace Manthra, ašavan, rivelazione contro
i daēva; rivelazione che viene da Zarathuštra, e in lode di Daēna, la buona
religione mazdea, che ha un'antica Tradizione» (Avestā I, 13. Traduzione
di Arnaldo Alberti, in Avestā. Torino, UTET, 2008, pag.92) Subcontinente
indiano Modifica La bandiera
dell'India. Al centro della bandiera è collocato, raffigurato in blu, il Čakra
di Aśokaovvero il sigillo che compare negli editti promulgati dall'imperatore
indiano Aśoka (304-232 a.C.) e che rappresenta il Dharmačakra, la "Ruota
del Dharma". Nella lingua hindi, la lingua ufficiale e più diffusa
dell'India, il termine occidentale "religione" viene reso come धर्म
(alfabeto devanagari) traslitterato in caratteri latini come Dharma. «È
abbastanza difficile trovare un'unica parola nell'area dell'Asia meridionale
che denoti ciò che in italiano è definito "religione", un termine
effettivamente piuttosto vago e dall'ampio raggio semantico. Forse il termine
più appropriato potrebbe essere il sanscrito dharma, traducibile in diversi
modi, tutti pertinenti alle idee e alle pratiche religiose indiane»
(William K. Mahony. Induismo, "Enciclopedia delle Religioni" vol. 9:
"Dharma induista". Milano, Jaca Book, 2006, pag.99) Gianluca Magi
precisa tuttavia che il termine Dharma «è più ampio e complesso di quello
cristiano di religione e, dall'altro, meno giuridico delle attuali concezioni
occidentali di "dovere" o di "norma", poiché privilegia la
consapevolezza e la libertà piuttosto che il concetto di religio od
obbligo» (in Dharma, "Enciclopedia filosofica" vol.3. Milano,
Bompiani, 2006, pag. 2786) Il termine Dharma (धर्म) è
usato nella maggior parte delle religioni di origine indiana per indicare tali
contesti religiosi: Induismo (सनातन धर्म
Sanātana Dharma), Buddhismo (बौद्ध धर्म Buddha
Dharma), Giainismo (जैन धर्म Jain Dharma) e Sikhismo (सिख धर्म Sikh
Dharma). Ma anche per indicare le religioni occidentali come l'Ebraismo (यहूदी धर्म,
Dharma ebraico) o il Cristianesimo (ईसाई धर्म,
Dharma cristiano) Il termine Dharma deriva dalla radice sanscrita dhṛtraducibile
in italiano come "fornire una base", ovvero come "fondamento
della realtà", "verità", "obbligo morale",
"giusto", "come le cose sono" oppure "come le cose
dovrebbero essere". (SA) «Ṛtasya gopāv adhi tiṣṭhatho rathaṃ
satyadharmāṇā parame vyomani yam atra mitrāvaruṇāvatho yuvaṃ tasmai vṛṣṭir
madhumat pinvate divaḥ» (IT) «O guardiani dell'ordine cosmico (Ṛta),
o Dei le cui leggi (Dharma) sono sempre realizzate, voi salite sul vasto carro
del cielo più alto; a chi, Mitra e Varuṇa, mostrate il vostro favore, la
pioggia del cielo dona abbondanza di miele» (Ṛgveda, V 63,1 a-c) Estremo
Oriente Modifica 三教一教 sānjiào yījiào Tre religioni (insegnamenti) una religione
(insegnamento). Confucio (孔丘 Kǒng
Qiū) e Lǎozǐ (老子)
proteggono il Buddha Śākyamuni(釋迦牟尼
Shìjiāmóuní) infante. Rotolo dipinto su seta, Dinastia Ming (1368-1644)
conservato presso il British Museum di Londra. Scrittura oracolare su
ossa, all'origine del carattere cinese 子 (zǐ,
bambino). Il carattere cineseche indica la singola "religione" è 教 (jiào) e si compone, oltre del carattere 子 (zǐ), del carattere 耂 (lǎo,
vecchio), il tutto ad indicare l'insegnamento. In lingua cinese il termine
occidentale "religione" viene reso come 宗教, traslitterato in caratteri latini in zōngjiào (Wade-Giles
tsung-chiao). Da questa lingua il termine religione (宗教) viene così reso nelle altre lingue estremo-orientali in:
lingua giapponese 宗教
shūkyō; lingua coreana 종교
jonggyo lingua vietnamita tôn giáo. In lingua cinese 教 (jiào) rende anche il khotanesedeśanā, a sua volta resa del
sanscrito deśayati(causativo del verbo di III classe diś: "mostrare",
"assegnare", "esibire", "rivelare") e anche il
sanscritośāsana (insegnamento). Il carattere 教 è formato da 子 (zǐ,
bambino, dove la figura stilizzata è avvolta in fasce e agita le braccia), 耂 (lǎo, vecchio). Mentre 宗 (zōng)
indica "scuola", "tradizione acclarata",
"religione" quindi 宗教
"insegnamento di una tradizione acclarata/religione". Il
carattere cinese 宗 (zōng)
è formato dai caratteri 宀 (mián,
tetto di un edificio) e 示 ( shì
"altare", oggi nel significato di "mostrare") a sua volta
composto da 丁
(altare primitivo) con ai lati 丶 (gocce
di sangue o di libagioni); il tutto a significare "edificio che contiene
un altare". Le singole religioni vengono indicate dal nome che le
caratterizza seguite dal carattere 教
(jiào): Buddhismo佛教
(Fójiào da 佛 Fó
Buddha), Confucianesimo 儒教
(Rújiào, da 儒 Rú,
letterato confuciano), Daoismo 道教
(Dàojiào da 道 Dào)
Cristianesimo 基督教
(Jīdūjiāo da 基督 Jīdū
Cristo), Ebraismo 犹太教 (
Yóutàijiào da 犹太 Yóutài
Giuda), Islām (伊斯兰教 Yīsīlánjiāo da 伊斯兰
Yīsīlán Islām). Descrizione Modifica
Il dibattito sulla nozione di religione Modifica
La nozione di "religione" è problematica e dibattuta. Da un
punto di vista fenomenologico-religioso il termine "religione" è
collegato alla nozione di sacro: «Secondo Nathan Söderblom, Rudolf Otto e
Mircea Eliade, la religione è per l'uomo la percezione di un "totalmente
Altro"; ciò ha come conseguenza un'esperienza del sacro che a sua volta dà
luogo a un comportamento sui generis. Questa esperienza, non riconducibile ad
altre, caratterizza l'homo religiosus delle diverse culture storiche
dell'umanità. In tale prospettiva, ogni religione è inseparabile dall'homo
religiosus, poiché essa sottende e traduce la sua Weltanschauung (Georges
Dumézil). La religione elabora una spiegazione del destino umano (Geo
Widengren) e conduce a un comportamento che attraverso miti, riti e simboli
attualizza l'esperienza del sacro.» (Julien Ries. Le origini, le
religioni. Milano, Jaca Book, 1992, pagg.7-23) Da un punto di vista
storico-religioso la nozione di "religione" è collegata al suo
esprimersi storico: «Ogni tentativo di definire il concetto di
"religione", circoscrivendo l'area semantica che esso comprende, non
può prescindere dalla constatazione che esso, al pari di altri concetti
fondamentali e generali della storia delle religionie della scienza della
religione, ha una origine storica precisa e suoi peculiari sviluppi, che ne
condizionano l'estensione e l'utilizzo. [...] Considerata questa prospettiva,
la definizione della "religione" è per sua natura operativa e non
reale: essa, cioè, non persegue lo scopo di cogliere la "realtà"
della religione, ma di definire in modo provvisorio, come work in progress, che
cosa sia "religione" in quelle società e in quelle tradizioni oggetto
di indagine e che si differenziano nei loro esiti e nelle loro manifestazioni
dai modi a noi abituali.» (Giovanni Filoramo. Religione in Dizionario
delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.620)
Da un punto di vista antropologico-religioso la "religione"
corrisponde al suo modo peculiare di manifestarsi nella cultura: «Le
concezioni religiose si esprimono in simboli, in miti, in forme rituali e
rappresentazioni artistiche che formano sistemi generali di orientamento del
pensiero e di spiegazione del mondo, di valori ideali e di modelli di
riferimento» (Enrico Comba. Antropologia delle religioni.
Un'introduzione. Bari, Laterza, 2008, pag.3) Anche se come evidenzia lo stesso
Enrico Comba: «Non è dunque possibile stabilire un criterio assoluto per
distinguere i sistemi religiosi da quelli non religiosi nel vasto repertorio
delle culture umane» (Enrico Comba. Op.cit. pag.28) Quindi, come notano
Carlo Tullio Altan e Marcello Massenzio, il fenomeno della religione:
«come forma specifica della cultura umana, ovunque presente nella storia e
nella geografia, è un fenomeno estremamente complesso, che va studiato con
molteplici procedure, mano a mano che queste ci vengono offerte dal progresso
degli studi delle scienze umane, senza pretendere di dire mai in proposito
l'ultima parola, come accade per un lavoro che sia costantemente in corso
d'opera.» (Carlo Tullio Altan e Marcello Massenzio. Religioni Simboli
Società: Sul fondamento dell'esperienza religiosa. Milano, Feltrinelli, 1998,
pagg. 71-2) Analisi filosofica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: scienze delle religioni Natura problematica
della definizione di "religione" Max Weber (1864-1920)
sostenne che la definizione di "religione" si può declinare alla fine
della ricerca su di essa. Leszek Kołakowski(1927-2009) ha osservato che,
come per altri ambiti umanistici, difficilmente si potrà addivenire ad una
definizione condivisa del termine "religione". La definizione moderna
del termine "religione" è problematica e controversa: «Definire
la religione è compito tanto ineludibile quanto improbo. È infatti evidente
che, se una definizione non può prendere il posto di una indagine, quest'ultima
non può avere luogo in assenza di una definizione.» (Giovanni Filoramo.
Op.cit 1993, pag.621) Già Max Weber aveva sostenuto che: «Una definizione
di ciò che la religione 'è' non può trovarsi all'inizio, ma caso mai, alla fine
di un'indagine come quella che segue.» (Max Weber. Economia e società
Milano, Comunità, 1968, pag.411. (prima ed. 1922)) Melford E. Spiro (1920-)[32]
e Benson Saler[33]obiettano in proposito che quando non si definisce l'oggetto
di indagine in modo esplicito si finisce per definirlo in modo implicito.
Lo storico polacco Leszek Kołakowski (1927-2009) rileva invece che:
«Studiando le attività umane nessuno dei concetti di cui disponiamo può essere
definito con assoluta precisione, e, sotto questo aspetto, 'religione' non si
trova in una situazione peggiore di "arte", "società",
"storia", "politica", "scienza",
"linguaggio" e innumerevoli altre parole. Ogni definizione della
religione deve essere fino ad un certo punto, arbitraria, e, per quanto
scrupolosamente tentiamo di far sì che si conformi all'impiego attuale della
parola nel linguaggio comune, molte persone riterranno che la nostra
definizione comprenda troppo o troppo poco.» (Leszek Kołakowski. Se non
esiste Dio. Bologna, Il Mulino, 1997) Le spiegazioni sulla natura e le ragioni dell'esistenza
dei credi religiosi Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento
religione è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni
di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Il filosofo
tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872) sosteneva che: la religione consiste di
idee e valori prodotti dagli esseri umani, erroneamente proiettati su forze e
personificazioni divine. Dio sarebbe quindi la costruzione di un Super uomo
(uomo potenziato con attribuiti ideali dati dall'uomo stesso). È una forma di
alienazione (che non ha lo stesso significato attribuito da Marx), in quanto la
religione estranea l'uomo da sé stesso facendogli credere di non essere in
prima persona: l'uomo è sottomesso da sé stesso. La religione si trova ad
essere dunque un rifugio dell'uomo di fronte alla durezza della realtà
quotidiana. Karl Marx (1818-1883) affermò che: la Religione è «il gemito
della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo
spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei
popoli»[34]. Secondo l'ottica di Max Weber (1864-1920): le Religioni
mondiali sarebbero capaci di raccogliere vaste masse di credenti e di
influenzare il corso della storia universale. Weber non crede che la religione
sia una forza conservatrice (Karl Marx), bensì crede che essa possa provocare
enormi trasformazioni sociali: La religione influisce sulla vita sociale ed
economica. Il Puritanesimo e il protestantesimo, ad esempio, furono all'origine
del modo di pensare capitalistico. Ne ”L'etica protestante e lo spirito del
capitalismo” Weber discusse ampiamente l'influenza del cristianesimo sulla
storia dell'Occidente moderno. Weber scoprì che effettivamente alcune religioni
sono caratterizzate da un ascetismo ultramondano, che privilegia la fuga dai
problemi terreni, distogliendo gli sforzi dallo sviluppo economico. Il
cristianesimo sarebbe una religione di salvezza per Weber, poiché è incentrata
sulla convinzione che gli esseri umani possano essere salvati purché scelgano
la fede e seguano le sue prescrizioni morali. Le religioni di salvezza
presentano un aspetto rivoluzionario perché sono caratterizzate da un ascetismo
intramondano, cioè uno spirito religioso che privilegia la condotta virtuosa in
questo mondo. Le religioni asiatiche invece avevano un atteggiamento di
passività rispetto all'esistente. Tra le riflessioni contemporanee,
particolarmente interessante è la spiegazione del fenomeno religioso proposta
da Marcel Gauchet a iniziare dall'opera del 1985 Il Disincanto del mondo[35]:
secondo lo storico-filosofo francese, la religione non è né una tensione
individuale verso il trascendente, né una costruzione funzionale alla
giustificazione del potere. La religione va invece intesa, in una prospettiva
storica e antropologica, come maniera particolare di strutturazione dello
spazio sociale e umano. In particolare la forma più pura di religione è da
rintracciare negli animismi che caratterizzano quelle società che Pierre
Clastres definisce “contro lo Stato”. Nelle società di questo tipo, la legge
viene cioè fatta risalire a un tempo e a forze assolutamente altre rispetto al
presente e nessun membro della società può quindi rivendicare un rapporto
privilegiato con il trascendente. La nascita di un'istanza separata del potere
è indisgiungibile da una trasformazione della religione: dopo tali
trasformazioni, il mondo terreno e la realtà trascendente entrano in rapporto.
La religione, che nella sua forma più pura era un disinnescamento totale
dell'instabilità sociale, una rimozione assoluta della divisione attraverso
l'assolutizzazione della separazione terreno/trascendente, si apre a quella che
Gauchet definisce l'uscita dalla religione. Alcuni termini classificatori
e descrittivi delle religioni Modifica
Edward Burnett Tylor introdusse, nel 1871, la nozione di
"animismo". Il teologo calvinista svizzero Pierre Viret
(1511-1571) che, nel suo Instruction chrétienne del 1564 introdusse il termine
"deismo". Friedrich Schelling nel 1842 introdusse per primo il
termine "enoteismo" poi ripreso e diffuso dall'indologo Friedrich Max
Müller (1823-1900). John Toland(1670-1722) nel suo Socinianism Truly
Stated. By a pantheist (1705) utilizzò per primo la nozione di
"panteismo". Animismo Modifica
"Animismo" (dall'inglese animism, a sua volta dal latino anĭma) è il
termine introdotto nello studio delle religioni primitive dall'antropologo
inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917) che, nel 1871 nel suo Primitive
Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion,
Language, Art and Custom, lo utilizzò per indicare quella prima forma di
credenza spirituale ("anima" o "forza vitale") che viene
riscontrata in oggetti o luoghi. In tal senso la teoria di Tylor si opponeva a
quella di Herbert Spencer(1820-1903) che invece poneva nell'ateismo le
convinzioni degli uomini primitivi[36]. La teoria "animistica",
già messa in discussione da Marcel Mauss (1872-1950) e da James Frazer
(1854-1941), è rifiutata oggi dalla maggior parte degli antropologi. Tuttavia,
come nota Jacques Vidal[37] «in mancanza di altre espressioni l'uso del
termine rimane frequente.» Carlo Prandi[38] nota anche come tale termine
venga utilizzato per indicare le credenze religiose dell'Africa subsahariana,
quelle afrobrasiliane e quelle attinenti alle culture dell'Oceania.
Ateismo Modifica Esistono religioni
atee, per considerarle tali prevale la definizione legata al culto piuttosto
che al sacro, e l'interpretazione strettamente etimologica su quella abituale
di "atteggiamento antireligioso".[39]. Nel 1993 durante i lavori del
Parlamento Mondiale delle Religioni (PoWR) i buddisti, guidati dal Dalai Lama,
protestarono contro l’uso del termine Dio che essi rifiutano, concordando solo
su quello di Realtà suprema[40]. Deismo Modifica
Il termine "Deismo" (dal francese déisme, a sua volta dal latino
deus[41]) fu coniato dal teologo calvinista svizzero di lingua francese Pierre
Viret (1511-1571) che nella sua Instruction chrétienne (Ginevra, 1564) lo
utilizzò per indicare un gruppo che si opponeva agli "ateisti", ma
Viret descrisse questo "gruppo" come di coloro che pur credendo in un
Dio unico e creatore rigettavano la fede in Gesù Cristo. Il poeta inglese
John Dryden (1631-1700), in Religio Laici del 1682 definì il "Deismo"
come la credenza in un Dio creatore rifiutando qualsivoglia dottrina propugnata
dalla tradizione e dalla rivelazione. Con la pubblicazione del
Dictionnaire historique et critique (Rotterdam, 1697) di Pierre Bayle
(1647-1706), che riprese la nozione di Déisme (s.v. "Viret"), il
termine si diffuse ampiamente nella cultura europea. Tuttavia il
significato di "Deismo" ha posseduto, di volta in volta, connotazioni
diverse. Allen W. Wood[42]ne ha identificate quattro: credenza in un
Essere supremo privo di tutti gli attributi di personalità (come intelletto e
volontà); credenza in un Dio, ma rifiuto di qualsiasi cura provvidenziale da
parte di questi per il mondo; fede in un Dio, ma negazione di ogni vita futura;
credenza in un Dio, ma rifiuto di tutti gli altri articoli di fede religiosa. Molti
filosofi e scienziati, per lo più illuministi del Settecento, sostennero tali
posizioni; varianti istituzionalizzate del "Deismo" sono il Culto
dell'Essere supremo durante la Rivoluzione francese e la spiritualità della
Massoneria. Enoteismo Modifica
"Enoteismo" (dal tedesco henotheismus, a sua volta dal greco εἷς eîs
+ θεός theós "un dio") fu il termine coniato dal Friedrich Schelling
(1775-1854) in Philosophie der Mythologie und der Offenbarung(1842) per
indicare un "monoteismo " rudimentale sorto durante la preistoria
della coscienza e precedente al "monoteismo evoluto" e al politeismo.
In questo senso il termine si presenta simile a quello di Urmonotheimus ovvero
"monoteismo primordiale" elaborato nel 1912 dall'antropologo e sacerdote
Wilhelm Schmidt. Successivamente, l'indologo tedesco Friedrich Max Müller
(1823-1900) utilizzò questo termine[43] per indicare una pratica propria del Ṛgveda
consistente nell'isolare una divinità rispetto alle altre durante le
invocazioni rituali. Nel suo significato storico-religioso,
"enoteismo" occorre ad indicare quella forma di culto per cui una
divinità viene, durante il rito, momentaneamente isolata e privilegiata
rispetto alle altre, assurgendo così a divinità principale. Monoteismo Modifica Il termine Monoteismo
(neologismo greco, dal grecoμόνος, mónos = unico, solo e θεός theós = dio)
caratterizza quelle religioni che propugnano l'esistenza di una singola
divinità. André Lalande (1867-1963) ha così descritto, nel suo
Vocabulaire technique et critique de la philosophie, revu par MM. les membres
et correspondants de la Société française de philosophie et publié, avec leurs
corrections et observations par André Lalande, membre de l'Institut, professeur
à la Sorbonne, secrétaire général de la Société (2 volumi) Parigi, 1927, il
termine "monoteismo": «Dottrina filosofica o religiosa che
ammette un solo Dio, distinto dal mondo» Il tema, controverso, è quali
possano essere le religioni ascrivibili a questo contesto. Dopo una disamina di
tale problema, Paolo Scarpi così chiosa: «In questa prospettiva, pertanto
conviene limitare l'uso del termine monoteismo alle forme religiose che
storicamente si sono affermate come tali e che hanno elaborato una speculazione
teologica finalizzata alla dimostrazione dell'unicità di Dio» Intendendo
in questa prospettiva sostanzialmente l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islām.
Di tutt'altro avviso è invece, ad esempio, Theodore M. Ludwig che nella
Encyclopedia of Religion nata dal progetto internazionale proposto da Mircea
Eliade include, sia nell'edizione del 1987 che nella seconda edizione del 2005,
nella voce Monotheism[44], altre religioni oltre quelle qui sopra citate come
lo Zoroastrismo, la Religione greca nella forma di alcuni culti e nel pensiero
di alcuni teologi greci, la Religione egizia del culto di Aton, il Buddhismo
nella forma della Terra Pura, l'Induismo in alcune sue particolari
manifestazioni e il Sikhismo. Panteismo Modifica
Il termine Panteismo (dall'inglese pantheism a sua volta dal greco παν pan +
θεός theós = tutto Dio) letteralmente significa "tutto è Dio". Tale
termine fu derivato da analogo termine, pantheistic, utilizzato dal filosofo
irlandese John Toland (1670-1722) nel suo Socinianism Truly Stated. By a
pantheist (1705), ed ebbe larga diffusione in Europa durante le polemiche
inerenti al Deismo. Oggi il termine "Panteismo" occorre come
termine tecnico-descrittivo per individuare quei credi religiosi, o
filosofico-religiosi, che individuano una divinità che abbraccia ogni cosa,
ovvero Dio che compenetra ogni aspetto e luogo dell'universo rendendo così
sacro ogni aspetto dell'esistente, anche quello naturale[45]. Sono imparentati
ad esso i termini di "panenteismo", termine coniato nel 1828 da Karl
Krause per indicare una visione in cui Dio è sia immanente che trascendente. e
di "monismo", genericamente ogni dottrina unitaria che presuppone
un'unica sostanza, nella fattispecie la concezione di un unico Dio impersonale
ed ozioso [46]. Politeismo Modifica
Il termine "politeismo" è attestato nelle lingue moderne per la prima
volta nella lingua francese (polythéisme) a partire dal XVI secolo[47]. Il
termine polythéisme fu coniato dal giurista e filosofo francese Jean Bodin, e
quindi utilizzato per la prima volta nel suo De la démonomanie des sorciers
(Parigi, 1580), per poi finire nei dizionari come il Dictionnaire universel
françois et latin (Nancy 1740), il Dictionnaire philosophique di Voltaire
(Londra 1764) e, l'Encyclopédie di D'Alembert e Diredot (seconda metà del XVIII
secolo), la cui voce polytheisme è curata dallo stesso Voltaire. Utilizzato in
ambito teologico in opposizione a quello di "monoteismo"; entra nella
lingua italiana nel XVIII secolo[48]. Il termine polythéisme, quindi
"politeismo", è formato da termini derivati dal greco antico: πολύς
(polys) + θεοί (theoi) ad indicare "molti dèi"; quindi da polytheia,
termine coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone di Alessandria (20
a.C.-50 d.C.) per indicare la differenza tra l'unicità di Dio nell'Ebraismo
rispetto alla nozione pluralistica dello stesso propria delle religioni
antiche[49], tale termine fu poi ripreso dagli scrittori cristiani (ad esempio
da Origene in Contra Celsum). Tale termine indica quelle religioni che
ammettono l'esistenza di più dèi a cui destinare i culti. Non vi rientra
pertanto il Dualismo, che nella versione classica del Manicheismo vede il mondo
retto da due principi opposti in lotta tra loro, il Male e il Bene,
quest'ultimo destinato a trionfare alla fine dei giorni. Il termine Dualismo
viene inoltre esteso ad eresie quali gli Gnostici e i Catari, che nell'esaltare
la figura del male distinguono nettamente tra spirito e materia, ma trattandosi
di Cristiani, per quanto borderline, vanno inclusi tra i Monoteisti.
Religioni (in ordine alfabetico) con maggior numero di fedeli Modifica Buddhismo Modifica
Il Buddhismo nel mondo Il Buddhismo è una religione che comprende una varietà
di tradizioni, credenze e pratiche, in gran parte basata sugli insegnamenti
attribuiti a Siddhārtha Gautama, vissuto nel Nepal intorno al VI secolo a.C.,
comunemente appellato come il Buddha, ossia "il Risvegliato".
Le numerose scuole dottrinarie afferenti a questa religione si fondano e si
differenziano in base alle raccolte scritturali riportate nei Canoni buddhisti
e agli insegnamenti tradizionali trasmessi all'interno delle stesse
scuole. Le due grandi differenziazioni all'interno del Buddhismo
riguardano le correnti Theravāda, presente prevalentemente in Sri Lanka,
Thailandia, Cambogia, Myanmar e Laos, e Mahāyāna, presente invece prevalentemente
in Cina, Tibet, Giappone, Corea, Vietnam e Mongolia. Cristianesimo Modifica I cristiani nel mondo
per nazione Il Cristianesimo è la religione più diffusa nel mondo, in
particolare in Occidente (Europa, Americhe, Oceania). Le forme storiche del
cristianesimo sono molteplici, ma è possibile indicare quattro principali
suddivisioni: il Cattolicesimo, il Protestantesimo, l'Ortodossia e
l'Anglicanesimo. Oltre a queste quattro suddivisioni, esistono alcuni credi che
si riallacciano al Cristianesimo ma non sono classificati nelle quattro
categorie principali, tra cui Mormonismo e i Testimoni di Geova. Tutte
queste tradizioni cristiane riconoscono, seppure con piccole varianti, che il
loro fondatore, Gesù di Nazaret, è il Figlio di Dio, e lo riconoscono come
Signore. Credono altresì, a parte i Testimoni di Geova, i Mormoni e i
Protestanti Unitari, che Dio è uno in tre persone: il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo. Inoltre, tenendo presente che la Bibbia protestante ha 7
libri in meno della Bibbia cattolica, considerano la Bibbia un testo ispirato
da Dio. La Bibbia dei cristiani è composta dall'Antico Testamento, il quale
corrisponde alla Septuaginta, versione e adattamento in lingua greca della
Bibbia ebraica con l'aggiunta di ulteriori libri[50], e dal Nuovo Testamento:
quest'ultimo ruota interamente sulla figura di Gesù Cristo e del suo
"lieto annuncio" (Vangelo). Induismo Modifica
Induismo nel mondo L'Induismo è un insieme di dottrine, credenze e pratiche
religiose e filosofico-religiose che hanno avuto origine in India, luogo dove
risiede la maggioranza dei suoi fedeli. Secondo la tradizione, questa religione
è eterna (Sanātana dharma, religione eterna) non avendo né un principio né una
fine. L'Induismo fa riferimento ad un insieme di testi sacriche per
tradizione suddivide in Śruti e in Smṛti. Tra questi testi occorre ricordare in
particolar modo i Veda, le Upaniṣad e la Bhagavadgītā. Islam Modifica
Presenza musulmana nel mondo L'Islam è la più recente delle tre principali
religioni monoteiste originarie del Vicino Oriente. Ha come principale
riferimento il Corano considerato libro sacro. Il testo in lingua araba, una
raccolta di predicazioni orali, è relativamente breve rispetto ai testi sacri
ebraici o indù. Il termine Islam significa letteralmente
"sottomissione", intesa come fedeltà alla parola di Dio. L'Islam
condivide con l'Ebraismo e il Cristianesimo gran parte della tradizione
dell'Antico Testamento, legittimando il riferimento biblicosecondo cui Isacco
(progenitore degli israeliti) e Ismaele (progenitore degli arabi) erano
entrambi figli di Abramo. Riconosce la vita e le opere di Gesùritenendolo però
un profeta. La figura di riferimento dell'Islam è Muhammad (Maometto), vissuto
nel VII secolo nella penisola arabica, di cui la Sunna raccoglie gli aneddoti.
Le due suddivisioni principali di questa religione sono l'Islam sunnita e
l'Islam sciita. Altre religioni Modifica
Altre importanti religioni, diffuse soprattutto in Asiasono: Animismo
Bahá'í Confucianesimo Culti sincretici africani Ebraismo Ermetismo Esoterismo
Giainismo Gnosticismo Manicheismo Mitraismo Shintoismo Sikhismo Taoismo
Zoroastrismo Nuovi movimenti religiosi Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Nuovo movimento religioso. Bambini di Dio Chiesa
dell'unificazione Meditazione trascendentale Movimento raeliano Neopaganesimo
Organizzazione Sathya Sai Pastafarianesimo Rajneeshismo Rastafarianesimo Sahaja
Yoga Scientology Testimoni di Geova Wicca Note Modifica
^ a b Religione, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 settembre 2020. ^
Sull'etimologia di "religio" si possono vedere gli studi di Huguette
Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine,
Saint-Amand, Ch.A. Bedy, 1963, pp. 172-179 e Godo Lieberg, "Considerazioni
sull'etimologia e sul significato di religio", Rivista di Filologia
Classica, (102) 1974, pp. 34-57. ^ a b Jean Paulhan, Il segreto delle parole, a
cura di Paolo Bagni, postfazione di Adriano Marchetti, Firenze, Alinea
editrice, 1999, p. 45, ISBN 88-8125-300-3. ^ ««le fait de se lier vis-à-vis des
dieux», symbolisé par l'emploi des uittæ et des στέμματα dans le culte.»
(( FR ) Alfred Ernout e Antoine Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine - Histoire des mots ( PDF ), ristampa della IV edizione, in nuovo
formato, aggiornata e corretta da Jacques André (1985), Parigi, Klincksieck,
2001 [1932] , p. 569, ISBN 2-252-03359-2. URL consultato il 24
luglio 2013.) ^ Michael von Albrecht, Terror et pavor: politica e religione in
Lucrezio ( PDF ), su basnico.files.wordpress.com, ETS, 2005, 238-239. URL
consultato il 5 giugno 2017. ^ cfr. anche ( EN ) Robert Schilling, The Roman
Religion, in Claas Jouco Bleeker e Geo Widengren (a cura di), Historia Religionum
I - Religions of the Past, vol. 1, 2ª ed., Leiden, E. J. Brill, 1988
[1969] , p. 443, ISBN 978-90-04-08928-0. URL consultato il 5 giugno 2017.
^ Polibio, Storie, VI 56. ^ Concetta Aloe Spada, “L’uso di religio e religiones
nella polemica antipagana de Lattanzio”, in Ugo Bianchi (ed.), The Notion of
«Religion» in Comparative Research. Roma: 'L'Erma' di Bretschneider, 1994, pp.
459-463. ^ Retractationes I, 13. Anche se in De civitate DeiX,3 Agostino segue
invece l'etimologia offerta da Cicerone: «Eleggendo quindi Dio, o
piuttosto rieleggendolo (da cui verrebbe il termine religione) avendolo perduto
per nostra negligenza» (Agostino. La città di Dio. Milano, Bompiani,
2004, pag.462) ^ Cfr. anche Giovanni Filoramo. Che cos'è la religione. Torino,
Einaudi, 2004, pag.81-2. ^ Giovanni Filoramo. Op.cit. 1993. ^ Giovanni
Filoramo. Op.cit. 2004 pag.82 nota 2; Op.cit. 1993, pag. 624; Le scienze delle
religioni. Brescia, Morcelliana, 1997, pag.286 ^ Cfr., ad esempio, Paolo
Scarpi. Grecia (religione) in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni
Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, p. 350. ^ Dialetto ionico. ^ Questo tuttavia
al di fuori del dialetto attico, cfr. in tal senso e per una più approfondita
disamina dei termini Walter Burkert, La creazione del sacro, pp. 491 e sgg. ^
«Tutti questi dati si intrecciano e completano la nozione che la parola
thrēskeia evoca di per sé stessa: quella di 'osservanza, regola della pratica
religiosa'. La parola si ricollega a un tema verbale che denota l'attenzione al
rito, la preoccupazione di restare fedeli a una regola.» Émile Benveniste. Il
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, voll. II. Torino, Einaudi, 1976,
p.487. ^ «Per i Romani religio stava a indicare una serie di precetti e di
proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine,
venerazione e timore degli dèi.» (Mircea Eliade. Religione in
Enciclopedia del novecento. Istituto enciclopedico italiano, 1982, pag.121) ^
Enrico Montanari. Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo).
Torino, Einaudi, 1993, pag. 642-4 ^ Enrico Montanari. Op.cit., pag. 642-4 ^ Va
precisato tuttavia che gli epicurei non negavano l'esistenza delle divinità
quanto piuttosto affermavano la loro lontananza e il loro disinteresse nei
confronti degli uomini. ^ Si riferisce ad Epicuro. ^ Michel Despland.
Religione. Storia dell'idea in Occidente, in Dictionnaire des Religions (a cura
di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano:
Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pagg. 1539 e segg. ^ I
Apologeticum XLVI, 3 e 4. ^ Tra questi Giustino cita esplicitamente Socrateed
Eraclito: «Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani, anche se
sono stati considerati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eraclito, ad altri simili,
e tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misael, Elia, e molti altri ancora,
dei quali ora non elenchiamo le opere e i nomi, sapendo che sarebbe troppo
lungo. Di conseguenza coloro che hanno vissuto prima di Cristo, ma non secondo
il Logos, sono stati malvagi, nemici di Cristo e assassini di quelli che
vivevano secondo il Logos; al contrario coloro, quelli che hanno vissuto e
vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e
turbamenti» (Giustino. Apologia I, 47,3 e 4. Traduzione di Giuseppe
Girgenti in Giustino Apologie. Milano, Rusconi, 1995, pagg. 125-7) . ^ Cfr. a
titolo esemplificativo Agostino d'Ippona. De vera religione 1-3. ^ «Nel XIII
sec. una religione è un Ordine religioso» (Michel Despland. Op.cit..) ^
Antonin-Dalmace Sertillanges. La philosophie morale de saint Thomas d'Aquin.
Parigi, 1947. ^ a b Michel Despland. Op.cit.. ^ F. Brown, S. R. Driver, Ch. A.
Briggs. A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament. Oxford, Clarendon
Press, 1968 ^ Dāta' nella Encyclopædia Iranica. ^ «DlN, I. Definition and
general notion. It is usual to emphasize three distinct senses of din: (i)
judgment, retribution; (2) custom, sage; (3) religion. The first refers to the
Hebraeo-Aramaic root, the second to the Arabic root ddna, dayn (debt, money
owing), the third to the Pehlevi dēn(revelation, religion). This third
etymology has been exploited by Noldeke and Vollers.» (Louis Gardet.
Encyclopedia of Islam, vol.2. Leiden, Brill, 1991, pag.253) ^ Melford E. Spiro.
Religion: problems of definition and explanation, in M. Banton (a cura di)
Anthropological Approaches to the study of Religion. London, Tavistock, 1966,
pag. 90-1. ^ Benson Saler. Conceptualizing Religion: Immanent Anthropologist,
Trascendent Natives, and Unbounded Categories. Leiden, Brill, 1993, pagg. 28-9.
^ Karl Marx, "Introduzione" alla Critica della filosofia hegeliana
del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, Torino, Einaudi 1969. ^
(traduzione italiana Einaudi 1992) ^ Kees W. Bolle. Animism and Animatism. Encyclopedia
of Religion vo.1. NY, Macmillan, 2005 (1987) pagg. 362 e segg. ^ Dictionnaire
des Religions (a cura di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de
France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007,
pag. 60. ^ Carlo Prandi. Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni
Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.37 ^ Giancarlo Bascone, Manualetto di
storia religiosa: introduzione ^ Hans Küng, Ciò che credo, Rizzoli: cap. 6 ^ La
sua etimologia è del tutto simile a quello di "Teismo" derivando
quest'ultimo dal greco théose il primo dal latino deus. ^ Encyclopedia of
Religion, vol.4. NY, Macmillan, 2005, pag. 2251-2 ^ Friedrich Max Müller.
Selected Essays on Language, Mythology and Religion, vol. 2, Londra, 1881. ^
Theodore M. Ludwig. Monotheism, in Encyclopedia of Religion vol.9. NY,
Macmillan, 2005, pagg. 6155 e segg. ^ H. P. Owen. Concepts of Deity. Londra,
Macmillan, 1971. ^ Maria Vittoria Cerutti, Storia delle religioni, EDUCatt: 2.
4 ^ Paolo Scarpi, Politeismo in Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi,
1993, p. 573. ^ Alberto Nocentini, L'Etimologico, Firenze, Le Monnier, 2010
edizione elettronica ^ Gabriella Pironti. Il "linguaggio" del
politeismo in Grecia: mito e religione vol.6 della Grande Storia dell'antichità
(a cura di Umberto Eco). Milano, Encyclomedia Publishers/RCS, 2011, pag.22. ^
Da tener presente che la Bibbia protestantecontiene una differente raccolta di
libri rispetto a quella, ad esempio, cattolica. Bibliografia Modifica
Ugo Bianchi (a cura di), The Notion of 'Religion' in Comparative Research.
Selected Proceedings of the 16. Congress of the International Association for
the History of Religions, Rome, 3.-8. September, 1990, Roma, 'L'Erma' di
Bretschneider, 1994. Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni,
Roma-Bari, Editori Laterza, 1991. Walter Burkert, La creazione del sacro,
Milano, Adelphi, 2003. Yves Coppens, Origines de l'homme - De la matière à la
conscience, Paris, De Vive Voix, 2010. Yves Coppens, La preistoria dell'uomo,
Milano, Jaca Book, 2011. Alfonso Maria Di Nola, Attraverso la storia delle
religioni, Roma, Di Renzo Editore, 1996. Ambrogio Donini, Lineamenti di storia
delle religioni, Roma, Editori Riuniti, 1959. Mircea Eliade, Trattato di storia
delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Giovanni Filoramo, Storia
delle religioni, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994. GiovanniFiloramo, Maria
Chiara Giorda e Natale Spineto (a cura di), Manuale di Scienze della religione,
Brescia, Morcelliana, 2019. Voci correlate Modifica
Ateismo Antropologia delle religioni Credenza religiosa Critiche alla religione
Culto Dio Divinità Fanatismo religioso Fenomenologia della religione Filosofia
della religione Fede Homo religiosus Importanza della religione per stato
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Encyclopedia of Science Fiction. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti
Religione, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN )
Religione, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata ( EN ) Kevin Schilbrack, The Concept of Religion, in Edward N. Zalta
(a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Dale Tuggu, Theories
of Religious Diversity, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Centro Studi
sulle Nuove Religioni (CESNUR), su cesnur.org. Controllo di autorità Thesaurus BNCF 7544 · LCCN( EN ) sh85112549 ·
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Religione romana credenze del popolo romano Storia delle religioni Dio
entità divina, essere supremo e oggetto di fede Wikipedia Il
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Segui Modifica La religione romana è l'insieme dei fenomeni religiosi propri
dell'antica Roma considerati nel loro evolvere come varietà di culti, questi
correlati allo sviluppo politico e sociale della città e del suo
popolo[1][2]. Giove Tonante in una scultura risalente al 100 a.C.
circa. Le origini della città, e quindi della storia e della religione di Roma,
sono controverse. Recentemente l'archeologo italiano Andrea Carandini[3]
sembrerebbe aver quantomeno dimostrato di poter datare l'origine di Roma
all'VIII secolo a.C., saldando quindi le sue conclusioni, basate sugli scavi da
lui condotti nella zona del Palatino, all'età di fondazione stabilita dal
racconto tradizionale[4][5]. Le origini della religione romana vanno
individuate nei culti dei popoli pre-indoeuropei stanziati in Italia[6], nelle
tradizioni religiose dei popoli indoeuropei[7] che, probabilmente a partire dal
XV secolo a.C.[8], migrarono nella penisola, nelle civiltà etrusca[9] e della
Grecia[10] e nelle influenze delle civiltà del Vicino Oriente occorse lungo i
secoli. La religione romana cessò di essere la religione
"ufficiale" all'interno dell'Impero romano con l'editto di
Tessalonica e i successivi editti promulgati a partire dal 380 dall'imperatore
romano convertito al cristianesimo Teodosio I[11], il quale proibì e perseguitò
tutti i culti non cristiani professati nell'Impero, soprattutto quelli
pagani[12]. Precedentemente (362-363) c'era stato il vano tentativo
dell'imperatore Giuliano di riformare la religione pagana per contrapporla
efficacemente al cristianesimo, ormai ampiamente diffuso. Una religione
civile Modifica
L'espressione "religione romana" è di conio moderno. Il termine
italiano "religione" possiede tuttavia la sua chiara etimologia nel
termine latino religio ma, nel caso del termine latino, esso esprime una
nozione circoscritta alla cura nei confronti dell'esecuzione del rito a favore
degli dei, rito che, per tradizione, va ripetuto finché non risulti
correttamente eseguito[13], e in questo senso i Romani collegavano al termine
religioil vissuto di timore nei confronti della sfera del sacro, sfera propria
del rito e quindi della religione stessa[14]: (LA) «Religio est,
quae superioris naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque
effert» (IT) «Religio è tutto ciò che riguarda la cura e la
venerazione rivolte a un essere superiore la cui natura definiamo divina»
(Cicerone, De inventione. II,161) Pertanto, l'integrità e la prosperità di Roma
(monarchica, repubblicana, imperiale) erano la finalità dello Stato e, a questo
scopo, doveri civili e religiosi coincidevano: lo Stato si è attribuito il
diritto di stabilire e specificare qual è il sacro e pertanto la religione
romana è una religione civica, una religione che ha carattere pubblico e, di
conseguenza, nella organizzazione istituzionale di Roma è presente anche un
apparato religioso"[15]. La nozione moderna di
"religione" è invece più complessa e problematica[16] andando a
coprire un più ampio spettro di significati: «Le concezioni religiose si
esprimono in simboli, in miti, in forme rituali e rappresentazioni artistiche
che formano sistemi generali di orientamento del pensiero e di spiegazione del
mondo, di valori ideali e di modelli di riferimento» (Enrico Comba,
Antropologia delle religioni. Un'introduzione. Bari, Laterza, 2008, p. 3)
Precisare la differenza di "contenuto" tra il termine latino religio
e quello di uso comune e moderno di "religione" rende conto della
caratteristica unica dei contenuti religiosi del vivere romano: «La
religione romana (o più in generale greco-romana) può essere caratterizzata da
due elementi: è una religione sociale ed è una religione fatta di atti di
culto. Religione sociale, essa è praticata dall'uomo in quanto membro di una
comunità e non in quanto singolo individuo, persona; è squisitamente una
religione di partecipazione e nient'altro che questo. Il luogo dove si esercita
la vita religiosa del romano è la famiglia, l'associazione professionale o di
culto, e soprattutto, la comunità politica.» (John Scheid, La religione a
Roma. Bari, Laterza, 1983, p. 8) Ne consegue che per i Romani la religio non
aveva molto a che fare con quello che noi indichiamo come credenza religiosa
individuale in quanto è lo Stato a essere il tramite tra l'individuo e la
divinità[17]: «L'atteggiamento religioso del romano va [...] distinto dal
sistema della fede. Religio non equivale a credo.» (Robert Schilling,
Rites, Cultes, Dieux de Rome. Parigi, Klincksieck, 1979, p.74; cit. in John
Scheid, Op.cit., p. 8) Il sentimento religioso romano (pietas) verte dunque
nella forte volontà di garantire il successo alla respublica mediante la
scrupolosa osservanza della religio, dei suoi culti, dei suoi riti, della sua
tradizione, osservanza che consente di ottenere il favore degli dei e garantire
la pax deum (pax deorum)[18]. Tale concordia con gli dei determinata dalla scrupolosa
osservanza della religio e dei suoi riti è testimoniata, per i Romani, dal
successo di Roma nei confronti delle altre città e nel mondo. (LA)
«...sed pietate ac religione atque una sapientia, quod deorum numine omnia regi
gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus.»
(IT) «... ma è nel sentimento religioso e nell'osservanza del culto e
pure in questa saggezza eccezionale che ci ha fatto intendere appieno che tutto
è retto e governato dalla volontà divina, che noi abbiamo superato tutti i
popoli e tutte le nazioni.» (Cicerone, De haruspicum responso, 9;
traduzione di Giovanni Bellardi, in Cicerone, Le orazioni vol. III, Torino,
UTET, 1975, pp. 302-305) Il che fa concludere a Cicerone: (LA) «Et
si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam
inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores.»
(IT) «E se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle
popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni
altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la
religione, cioè il culto degli dei.» (Cicerone, De natura deorum. II, 8;
traduzione di Cesare Marco Calcante. Milano, Rizzoli, 2007, pp. 156-7) La
"mitologia" romana: le fabulae Modifica
La nozione di "sacro" (sakros) nella cultura romana Lapis niger stele
(modificato).JPG Qui sopra il cippo del Lapis Niger risalente al VI
secolo a.C. che riporta un'iscrizione bustrofedica. In questo reperto
archeologico compare per la prima volta il termine sakros (Forum inscription
(dettaglio).jpg: sakros es)[19]. Dal termine latino arcaico sakros originano
due successivi termini latini: sacer e sanctus. Lo sviluppo del termine sakros,
nel suo variegarsi di significati procede, per quanto inerisce al sanctus per
via del suo participio sancio che è collegato a sakros per mezzo di un infisso
nasale[20]. Ma sacer e sanctus, pur provenendo dalla stessa radice sak,
possiedono dei significati originari molto diversi. Il primo, sacer, è ben descritto
da Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) nel suo De verborum significatu dove
precisa che: «Homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque
fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidii non damnatur». Quindi, e in
questo caso, l'uomo sacro è colui che portando una colpa infamante che lo
espelle dalla comunità umana deve essere allontanato. Non lo si può perseguire,
ma non si può perseguire nemmeno colui che lo uccide. L'homo sacer non
appartiene, non è perseguito, né è tutelato dalla comunità umana. Sacer è
quindi ciò che appartiene ad 'altro' rispetto agli uomini, appartiene agli Dei,
come gli animali del sacrificium (rendere sacer). Nel caso di sacer la sua
radice sak inerisce a ciò che viene stabilito (quindi ciò che è sak) come non attinente
agli uomini. Sanctus invece, come spiega il Digesto, è tutto ciò che deve
essere protetto dalle offese degli uomini. È sanctaquell'insieme di cose che
sono sottomesse a una sanzione. Esse non sono né sacre, né profane. Esse non
sono comunque consacrate agli Dei, non appartengono a loro. Ma sanctus non è
nemmeno profano, deve essere protetto dal profano e rappresenta il limite che
circonda il sacer anche se non lo riguarda. Sacer è tutto ciò che appartiene
quindi a un mondo fuori dall'umano: dies sacra, mons sacer. Mentre sanctus non
appartiene al divino: lex sancta, murus sanctus. Sanctus è tutto ciò che è
proibito, stabilito, sanzionato dagli uomini e, con questo, anche sanctus si
relaziona al radicale indoeuropeo sak. Ma col tempo, sacer e sanctus si
sovrappongono. Sanctus non è più solo il "muro" che delimita il sacer
ma entra esso stesso in contatto col divino: dall'eroe morto sanctus,
all'oracolo sanctus, ma anche Deus sanctus. Su questi due termini, sacer e
sanctus, si fonda un ulteriore termine, questo dall'etimologia incerta,
religio, ovvero quell'insieme di riti, simboli e significati che consentono
all'uomo romano di comprendere il "cosmo", di stabilirne i contenuti
e di mettersi in relazione con esso e con gli Dei. Così la città di Roma diviene
essa stessa sacra in quanto avvolta dalla majestas che il dio Iupiter ha
consegnato al suo fondatore, Romolo. Attraverso le sue conquiste, la città di
Roma offre una collocazione agli uomini nello spazio "sacro" da essa
rappresentato. La sfera del sacer-sanctus romano appartiene al sacerdosche, nel
mondo romano unitamente all'imperator[21] si occupa delle res sacrae che
consentono di rispettare gli impegni verso gli Dei. Così sacer divengono le
vittime dei "sacrifici", gli altari e le loro fiamme, l'acqua
purificatrice, gli incensi e le stesse vesti dei "sacerdoti". Mentre
sanctus è riferito alle persone: i re, i magistrati, i senatori (pater sancti)
e da questi alle stesse divinità. La radice di sakros, è il radicale
indoeuropeo *sak il quale indica qualcosa a cui è stata conferita validità
ovvero che acquisisce il dato di fatto reale, suo fondamento e conforme al
cosmo[22]. Da qui anche il termine, sempre latino, di sancire evidenziato nelle
leggi e negli accordi. Seguendo questo insieme di significati, il
sakrossancisce un'alterità, un essere "altro" e "diverso"
rispetto all'ordinario, al comune, al profano[23]. Il termine latino arcaico
sakros corrisponde all'ittita saklai, al greco hagois, al gotico sakan[24]. La
presenza di una mitologia romana che prescindesse da quella greca è stato
oggetto di dibattito fin dall'antichità. Il retore greco Dionigi di Alicarnasso
(I secolo a.C.) ha negato questa possibilità attribuendo a Romolo, fondatore
della città di Roma, l'espressa intenzione di cancellare qualsivoglia racconto
mitico che attribuisse agli dei le condotte sconvenienti degli
uomini[25]: (GRC) «τοὺς δὲ παραδεδομένους περὶ αὐτῶν μύθους, ἐν οἷς
βλασφημίαι τινὲς ἔνεισι κατ´ αὐτῶν ἢ κακηγορίαι, πονηροὺς καὶ ἀνωφελεῖς καὶ ἀσχήμονας
ὑπολαβὼν εἶναι καὶ οὐχ ὅτι θεῶν ἀλλ´ οὐδ´ ἀνθρώπων ἀγαθῶν ἀξίους, ἅπαντας ἐξέβαλε
καὶ παρεσκεύασε τοὺς ἀνθρώπους {τὰ} κράτιστα περὶ θεῶν λέγειν τε καὶ φρονεῖν
μηδὲν αὐτοῖς προσάπτοντας ἀνάξιον ἐπιτήδευμα τῆς μακαρίας φύσεως. Οὔτε γὰρ Οὐρανὸς
ἐκτεμνόμενος ὑπὸ τῶν ἑαυτοῦ παίδων παρὰ Ῥωμαίοις λέγεται οὔτε Κρόνος ἀφανίζων τὰς
ἑαυτοῦ γονὰς φόβῳ τῆς ἐξ αὐτῶν ἐπιθέσεως οὔτε Ζεὺς καταλύων τὴν Κρόνου
δυναστείαν καὶ κατακλείων ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ τοῦ Ταρτάρου τὸν ἑαυτοῦ πατέρα οὐδέ
γε πόλεμοι καὶ τραύματα καὶ δεσμοὶ καὶ θητεῖαι θεῶν παρ´ ἀνθρώποις»
(IT) «Censurò tutti quei miti che si tramandano sugli dèi, in cui erano
offese e accuse contro di essi, ritenendoli empi, dannosi, offensivi e non
degni degli dèi e neppure degli uomini giusti. Prescrisse inoltre che gli
uomini pensassero e parlassero riguardo agli dèi nel modo più rispettoso
possibile, evitando di attribuire loro una pratica indegna della loro natura
divina. Presso i Romani infatti non si racconta che Urano fu evirato dai figli
né che Crono massacrò i figli per paura di essere detronizzato, che Zeus pose
fine alla supremazia di Crono, che era suo padre, rinchiudendolo nelle carceri
del Tartaro, non si raccontano neppure guerre, né ferite, né patti, né la loro
servitù presso gli uomini.» (Dionigi di Alicarnasso, II, 18-19; traduzione
di Elisabetta Guzzi, p.94.) Calco in gesso della fronte del
"Sarcofago Mattei" (III secolo d.C.), conservato presso il Museo
della civiltà romana (Roma). L'originale del calco è murato nello scalone
principale di Palazzo Mattei in Roma. Questa fronte del sarcofago intende
raffigurare una delle fabulae fondative della civiltà romana: il dio Mars
(Marte) che si avvicina a Rhea Silvia (Rea Silvia) addormentata[26]. I gemelli
Romulus (Romolo) e Remus (Remo) saranno il frutto della relazione tra il dio e
Rhea Silvia, figlia di Numitor (Numitore), questi discendente dell'eroe troiano
Aeneas (Enea) e re dei Latini. Allo stesso modo il filologo tedesco Georg
Wissowa[27] e lo studioso tedesco Carl Koch[28] hanno diffuso in età moderna
l'idea che i Romani non avessero in origine una propria mitologia. Diversamente
il filologo francese Georges Dumézil in varie opere aventi come oggetto la
religione romana[29] ha invece ritenuto di considerare la presenza di una
mitologia latina e quindi romana come diretta eredità di quella indoeuropea, al
pari di quella vedica o di quella scandinava, successivamente il contatto con
la cultura religiosa e mitologica greca avrebbe fatto dimenticare ai Romani
questi loro racconti mitici basati su una trasmissione di tipo orale. Lo storico
delle religioni italiano Angelo Brelich[30] ha ritenuto di individuare una
mitologia propria dei Latini che, seppur priva di ricchezza come quella greca,
è comunque parte autentica e originaria di quel popolo. Lo storico delle
religioni italiano Dario Sabbatucci[31]riprende di fatto le conclusioni di Koch
quando individua nei Romani e negli Egiziani due popoli che hanno concentrato
nel "rito" religioso il contenuto "mitico" non estraendone,
a differenza dei Greci, il racconto mitologico. Più recentemente lo storico
delle religioni olandese Jan Nicolaas Bremmer[32] ritiene che i popoli
indoeuropei e quindi di eredità indoeuropea, tra questi anche i Latini e i
Romani, non abbiano mai posseduto dei racconti teogonici e cosmogonici se non
in forma assolutamente rudimentale, la particolarità della mitologia greca
risiederebbe quindi nel fatto di averli elaborati sull'impronta di quelli
appartenenti alle antiche civiltà orientali. Allo stesso modo Mary Bread[33] ha
criticato le conclusioni di Dumézil sulla presenza di una mitologia
indoeuropea, collegata all'ideologia tripartita, presente anche nella Roma
arcaica. Di certo a partire dall'VIII/VII secolo a.C. si osserva la
penetrazione di racconti mitici greci in Italia centrale con i reperti archeologici
che li raffigurano[34][35]. Nel VI secolo a.C. l'influenza greca emerge in modo
decisamente impressionante con la costruzione del tempio a Iupiter Optimus
Maximus al Campidoglio[36]. Andrea Carandini ritiene di individuare una
precisa cesura tra la mitologia originaria del Lazio e quella successiva
determinata dall'influenza greca: «Ma a partire da un certo momento la
creatività mitica originaria si esaurisce e gli ulteriori sviluppi cominciano a
perdere autenticità, per cui viene a prodursi una cesura. Questa cesura cade a
nostro avviso nel Lazio al tempo dei Tarquini quando avvengono manipolazioni
del mito indigeno ed intrusioni di miti greci paragonabili a un grosso
intervento chirurgico nella cultura del tempo.» (Andrea Carandini, La
nascita di Roma, p. 48) Le mediazione etrusca all'epoca dei Tarquini, per mezzo
della quale entrano nella religione romana anche nozioni mitiche proprie dei
Greci, era già stata evidenziata da Mircea Eliade: «Sotto la dominazione
etrusca perde di attualità la vecchia triade costituita da Giove, Marte e
Quirino, che viene sostituita dalla triade formata da Giove, Giunone e Minerva,
istituita all'epoca dei Tarquini. È evidente l'influenza etrusco-latina, che
del resto apporta alcuni elementi greci. Le divinità hanno ora delle statue:
Juppiter Optimus Maximus, come d'ora innanzi sarà chiamato, è presentato ai
Romani sotto l'immagine etruschizzata dello Zeus greco.» (Mircea Eliade,
Storia delle idee e delle credenze religiose, vol. II, p. 128) Se quindi già a
partire dall'VIII/VII secolo a.C. i racconti mitologici greci, questi
decisamente influenzati dal contatto della civiltà greca con quelle orientali,
segnatamente con la civiltà mesopotamica[37], penetrano nell'Italia centrale
determinando la successiva e decisiva influenza della mitologia greca sulle
idee religiose latine, resta che alcuni racconti di natura mitica, alcuni dei
quali anche di possibile eredità indoeuropea, possano essere appartenuti alla
cultura orale latina arcaica e poi ripresi e in parte riformulati dai letterati
e dagli antichisti romani dei secoli successivi. L'accezione moderna del
termine "mito" inerisce a racconti tradizionali che hanno come
oggetto dei contenuti di tipo significativo[38], il più delle volte afferenti
al campo teogonico e cosmogonico[39], e comunque inerente al sacro e quindi del
religioso[40]: «Il mito esprime un segreto proprio delle origini, che
conduce ai confini tra gli uomini e gli dei.» (Jacques Vidal, Mito,
in Dizionario delle religioni(a cura di Paul Poupard). Milano, Mondadori,
2007, p. 1232) «Il mito si distingue dalla leggenda, dalla fiaba, dalla favola,
dalla saga, pur contenendo in varia misura, elementi di ciascuno di questi
generi letterari. [...] Tutti questi tipi di racconto hanno in comune il fatto
di non essere portatori di quei contenuti di verità che rendono il mito
profondamente coinvolgente sul piano esistenziale e religioso» (Carlo
Prandi, Mito in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo),
Torino, Einaudi, 1993, p.494) Il termine moderno "mito" risale al
greco μύθος (mýthos)[41] laddove, invece, i Romani utilizzano il termine fabula
(pl. fabulae) che possiede origini nel verbo for, "parlare" di
contenuti religiosi[42]. Se fabulaper i Romani è quindi il "racconto"
di natura tradizionale circondato da un'atmosfera religiosa, esso possiede
l'ambivalenza di essere anche il "racconto" leggendario che si oppone
a historia[43], il "racconto" fondato storicamente. Ne consegue che
il fondamento di verità di una fabula è lasciato all'uditore che ne stabilisce
il criterio di attendibilità, questo stabilito dalla tradizione. Così Livio, in
Ad Urbe Condita (I), ricorda che tali fabulae fondative non si possono né
adfirmare (confermare), né refellere (confutare). Le fabulae fondative di
Roma si riscontrano sostanzialmente coerenti in una letteratura che prosegue
per circa sei secoli[44]. Tali fabulae narrano di un primo re dei Latini, Ianus
(Giano), cui segue un secondo re giunto esule dal mare, Saturnus (Saturno), il
quale condivise con Ianus il regno. Figlio di Saturnus fu Picus (Pico), a sua
volta padre di Faunus (Fauno) che generò il re eponimo dei Latini, Latinus
(Latino). A partire da Ianus, questi re divini introdussero nel Lazio la
civiltà, quindi l'agricoltura, le leggi, i culti, fondando città. Evoluzione Modifica Lo
sviluppo storico della religione romana passò per quattro fasi: una prima
protostorica, una seconda fase dall'VIII secolo a.C. al VI secolo a.C.,
contrassegnata dall'influenza delle religioni autoctone; una terza
contraddistinta dall'assimilazione di idee e pratiche religiose etrusche e
greche; una quarta, durante la quale si affermò il culto dell'imperatore e si
diffusero le religioni misteriche di provenienza orientale. Età
protostorica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Fondazione di Roma. Nell'età protostorica ancora
prima della fondazione di Roma, quando nel territorio laziale c'erano solo
tribù, nel territorio dei colli si credeva nell'intervenire nella vita di tutti
i giorni di forze soprannaturali tipicamente magico-pagane. Queste forze non
erano tuttavia personificate in divinità ma ancora indistinte e solo col
rafforzarsi dei contatti con altre popolazioni, tra cui i Greci (nell'VIII
secolo a.C. poi nel IV-III secolo a.C.), i Sabini e gli Etruschi, tali forze
cominceranno a essere personificate in oggetti e, solo a Repubblica inoltrata,
in soggetti antropomorfi. Sino ad allora erano viste come forze chiamate numen
o al plurale numina, grandi in numero e ciascuna avente il suo compito nella
vita di tutti i giorni. Età arcaica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Età regia di Roma. La fase arcaica fu
caratterizzata da una tradizione religiosa legata soprattutto all'ambito
agreste, tipica dei culti indigeni mediterranei, sulla quale si inserì il
nucleo di origine indoeuropea. Per la tradizione romana si deve a Numa
Pompilio, il secondo re di Roma, la sistemazione e l'iscrizione delle norme
religiose in un unico corpo di leggi scritte, il Commentarius, che avrebbe
portato alla definizione di otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i
Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici[45].
Busto di Giano bifronte, culto istituito da Numa Pompilio[46] Gli dei
principali e più antichi venerati nel periodo arcaico, la cosiddetta
"triade arcaica", erano Giove(Iupiter), Marte (Mars) e Quirino
(Quirinus), quella che Georges Dumézil definisce invece “triade
indoeuropea”[47]. Proprio a Iupiter Feretrius (garante dei giuramenti) è
dedicato il santuario cittadino di più antica consacrazione: stando a Tito
Livio era stato proprio Romolo a fondarlo sul colle Palatino[48], così come fu
responsabile della creazione del culto di Iupiter Stator (che arresta la fuga
dai combattimenti)[49]. Tra le divinità maschili troviamo Liber Pater,
Fauno, Giano (Ianus)[46], Saturno, Silvano, Robigus, Consus (il dio del silo in
cui si racchiude il frumento), Nettuno (in origine dio delle acque dolci, solo
dopo l'apporto ellenizzante dio del mare[50]), Fons (dio delle sorgenti e dei
pozzi[51]), Vulcano (Volcanus, dio del fuoco devastatore[52]). In questa
fase primitiva della religione romana è riscontrabile la venerazione di
numerose divinità femminili: Giunone (Iuno) in diversi e specifici aspetti
(Iuno Pronuba, Iuno Lucina, Iuno Caprotina, Iuno Moneta)[53], Bellona, Tellus e
Cerere (Ceres), Flora, Opi (l'abbondanza personificata), Pales (dea delle
greggi), Vesta[46], Anna Perenna, Diana Nemorensis(Diana dei boschi, dea
italica , introdotta secondo la tradizione da Servio Tullio come dea
lunare[54]), Fortuna (portata in città da Servio Tullio, con vari culti entro
il pomoerium), la Dea Dia (la dea “luminosa” del cielo chiaro[55]), la dea
Agenoria (la dea rappresentante dello sviluppo). Frequenti sono le coppie
di divinità legate alla fertilità poiché essa era ritenuta per natura duplice:
se in natura esistono maschio e femmina dovevano esserci anche maschio e
femmina per ogni aspetto della fertilità divina. Ecco così Tellus e Tellumo,
Caeres e Cerus, Pomona e Pomo, Liber Pater e Libera. In queste coppie il
secondo termine rimane sempre una figura secondaria, minore, una creazione
artificiale dovuta ai sacerdoti teologi più che alla reale devozione[56].
Il periodo delle origini è caratterizzato anche dalla presenza di numina, divinità
indeterminate, come i Larie i Penati. Età repubblicana Modifica Magnifying
glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Repubblica romana. La mancanza di un
"pantheon" definito favorì l'assorbimento delle divinità etrusche,
come Venere(Turan), e soprattutto greche. A causa della grande tolleranza e
capacità di assimilazione, tipiche della religione romana, alcuni dèi romani
furono assimilati a quelli greci, acquisendone l'aspetto, la personalità e i
tratti distintivi, come nel caso di Giunone assimilata a Era; altre divinità,
invece, furono importate ex novo, come nel caso dei Dioscuri. Il controllo
dello Stato sulla religione, infatti, non proibiva l'introduzione di culti
stranieri, anzi tendeva a favorirla, a condizione che questi non costituissero
un pericolo sociale e politico. Nel II secolo a.C. furono ad esempio proibiti i
baccanali con Senatus consultum de Bacchanalibusdel 186 a.C. perché durante
tali riti gli adepti praticavano la violenza sessuale reciproca (sodomia
compresa), specialmente sui neofiti, e ciò era in contrasto con le leggi romane
che impedivano tali atti tra cittadini, pur permettendole nei confronti degli
schiavi, mentre il culto dionisiaco fu represso con la forza. Età alto
imperiale Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Alto Impero romano. L'imperatore
Commodorappresentato come Ercole La crisi della religione romana, iniziatasi
nella tarda età repubblicana, s'intensificò in età imperiale, dopo che Augusto
aveva provato a darle nuovo vigore. «[Augusto] ripristinò alcune antiche
tradizioni religiose che erano cadute in disuso, come l'augurio della Salute,
la dignità del flamine diale, la cerimonia dei Lupercalia, dei Ludi Saeculares
e dei Compitalia. Vietò ai giovani imberbi di correre ai Lupercali e sia ai
ragazzi, sia alle ragazze di partecipare alle rappresentazioni notturne dei
Ludi Saeculares, senza essere accompagnati da un adulto della famiglia. Stabilì
che i Lari Compitali fossero adornati di fiori due volte all'anno, in primavera
ed estate.» (Svetonio, Augustus, 31.) Le cause del lento degrado della
religione pubblica furono molteplici. Già da qualche tempo vari culti misterici
di provenienza medio-orientale, quali quelli di Cibele, Iside e Mitra, erano
entrati a far parte del ricco patrimonio religioso romano. Col tempo le
nuove religioni assunsero sempre più importanza per le loro caratteristiche
escatologiche e soteriologiche in risposta alle insorgenti esigenze della
religiosità dell'individuo, al quale la vecchia religione non offriva che riti
vuoti di significato. La critica alla religione tradizionale veniva anche dalle
correnti filosofiche dell'Ellenismo, che fornivano risposte intorno a temi
propri della sfera religiosa, come la concezione dell'anima e la natura degli dei.
Un'altra caratteristica tipica del periodo fu quella del culto imperiale. Dalla
divinizzazione post-mortem di Gaio Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto si
arrivò all'assimilazione del culto dell'imperatore con quello del Sole e alla
teocrazia dioclezianea. Età tardo imperiale Modifica Magnifying
glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Tardo Impero romano. Nel 287 circa Diocleziano
assunse il titolo di Iovius, Massimiano quello di Herculius[57][58]. Il titolo
doveva probabilmente richiamare alcune caratteristiche del sovrano da cui era
usato: a Diocleziano, associato a Giove, era riservato il ruolo principale di
pianificare e comandare; Massimiano, assimilato a Ercole, avrebbe avuto il
ruolo di eseguire "eroicamente" le disposizioni del collega[59].
Malgrado queste connotazioni religiose, gli imperatori non erano
"divinità", in accordo con le caratteristiche del culto imperiale
romano, sebbene potessero essere salutati come tali nei panegirici imperiali;
erano invece visti come rappresentanti delle divinità, incaricati di eseguire
la loro volontà sulla Terra[60]. Vero è che Diocleziano elevò la sua dignità
imperiale al di sopra del livello umano e della tradizione romana. Egli voleva
risultare intoccabile. Soltanto lui risultava dominus et deus, signore e dio,
tanto che a tutti coloro che lo circondavano fu attribuita una dignità sacrale:
il palazzo divenne sacrum palatium e i suoi consiglieri sacrum
consistorium[61][62]. Segni evidenti di questa nuova qualificazione
monarchico-divina furono il cerimoniale di corte, le insegne e le vesti
dell'imperatore. Egli, infatti, al posto della solita porpora, indossò abiti di
seta ricamati d'oro, calzature ricamate d'oro con pietre preziose[63]. Il suo
trono poi si elevava dal suolo del sacrum palatium di Nicomedia.[64] Veniva,
infine, venerato come un dio, da parenti e dignitari, attraverso la
proschinesi, una forma di adorazione in ginocchio, ai piedi del
sovrano[62][65]. Nella congerie sincretistica dell'impero durante il III
secolo, permeata da dottrine neoplatoniche, e gnostiche, fece la sua comparsa
il cristianesimo. La nuova religione andò lentamente affermandosi quale culto
di Stato, con la conseguente fine della religione romana, da ora indicata
spregiativamente come "pagana", sancito, nel IV e V secolo, dalla
chiusura dei templi e dalla proibizione, sotto pena capitale, di professare
religioni diverse da quella cristiana. Flavio Claudio Giuliano,
discendente del cristiano Costantino I, tentò di restaurare la religione romana
in forma ellenizzata a Costantinopoli, ma la sua morte prematura nel 363 pose
fine al progetto. Teodosio Iemanò nel 380 l'editto di Tessalonica per la parte
orientale, rendendo il cristianesimo unica religione di Stato, poi nel 391-92
con i decreti teodosianicominciarono le persecuzioni ai danni dei pagani
nell'Impero romano; infine nel 394, i decreti furono estesi alla parte
occidentale, dove stava avvenendo specialmente a Roma una rinascita
pagana. A partire dal XX secolo emersero correnti neopagane, come la Via
romana agli dei e il neo-ellenismo. Organizzazione religiosa Modifica Magnifying
glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Sacerdozio (religione romana). Secondo la
tradizione, fu Numa Pompilio a istituire i vari sacerdozi e a stabilire i riti
e le cerimonie annuali[66]. Tipica espressione dell'assunzione del fenomeno
religioso da parte della comunità è il calendario, risalente alla fine del VI
secolo a.C. e organizzato in maniera da dividere l'anno in giorni fasti e
nefasti con l'indicazione delle varie feste e cerimonie sacre[66].
Collegi sacerdotali Modifica
Augusto nelle vesti di pontefice massimo La gestione dei riti religiosi era
affidata ai vari collegi sacerdotali dell'antica Roma, i quali costituivano
l'ossatura della complessa organizzazione religiosa romana. Al primo posto
della gerarchia religiosa troviamo il Rex Sacrorum, sacerdote al quale erano
affidate le funzioni religiose compiute un tempo. Flamini, che si
dividevano in tre maggiori e dodici minori, erano sacerdoti addetti ciascuno al
culto di una specifica divinità e per questo non sono un collegio ma solo un
insieme di sacerdozi individuali[67]; Pontefici[66], in numero di sedici, con a
capo il Pontefice massimo, presiedevano alla sorveglianza e al governo del
culto religioso; Auguri[66] , in numero di sedici sotto Gaio Giulio Cesare,
addetti all'interpretazione degli auspici e alla verifica del consenso degli
dei; Vestali[46] , sei sacerdotesse consacrate alla dea Vesta; Decemviri o
Quimdecemviri sacris faciundis, addetti alla divinazione e alla interpretazione
dei Libri sibillini; Epuloni, addetti ai banchetti sacri. Sodalizi Modifica
A Roma vi erano quattro grandi confraternite religiose, che avevano la gestione
di specifiche cerimonie sacre. Arvali, (Fratres Arvales), ("fratelli
dei campi" o "fratelli di Romolo"), in numero di dodici, erano
sacerdoti addetti al culto della Dea Dia, una divinità arcaica romana, più
tardi identificata con Cerere. Durante il mese di maggio compivano
un'antichissima cerimonia di purificazione dei campi, gli Arvalia. Luperci,
presiedevano la festa di purificazione e fecondazione dei Lupercalia, che si
teneva il 15 febbraio, il mese dei morti, divisi in Quintiali e Fabiani.
Salii[66] (da salire, ballare, saltare), sacerdoti guerrieri di Marte, divisi
in due gruppi da dodici detti Collini e Palatini. Nei mesi di marzo e ottobre i
sacerdoti portavano in processione per la città i dodici ancilia, dodici scudi
di cui il primo donato da Marte al re Numa Pompilio, i restanti copie fatte
costruire dallo stesso Numa per evitare che il primo venisse rubato. La
processione si fermava in luoghi prestabiliti in cui i Salii intonavano il
Carmen saliare ed eseguivano una danza a tre tempi (tripudium)[68]. Feziali
(Fetiales), venti membri addetti a trattare con il nemico. La guerra per essere
Bellum Iustumdoveva essere dichiarata secondo il rito corretto, il Pater
Patratus pronunciava una formula mentre scagliava il giavellotto in territorio
nemico. Dal momento che, per motivi pratici, non era sempre possibile compiere
questo rito, un peregrinusvenne costretto ad acquistare un appezzamento di
terreno presso il teatro di Marcello, qui fu costruita una colonna, Columna
Bellica, che rappresentava il territorio nemico, in questo luogo si poteva
quindi svolgere il rito. Feste e cerimonie Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Festività romane. Suovetaurilia, Museo del
Louvre Delle 45 feste maggiori (feriae publicae) le più importanti, oltre a
quelle suddette, erano quelle del mese di dicembre, i Saturnalia, quelle
dedicate ai defunti, in febbraio, come i Ferialia e i Parentalia e quelle
connesse al ciclo agrario, come i Cerialia e i Vinalia di aprile o gli
Opiconsivia di agosto. Sulla base delle fonti classiche si è potuto
individuare quali tra le numerose festività del calendario romano vedevano
un'ampia partecipazione di popolo. Queste feste sono la corsa dei Lupercalia
(15 febbraio), i Feralia (21 febbraio) celebrati in famiglia, i Quirinalia(17
febbraio) celebrati nelle curie, i Matronalia (1º marzo) in occasione delle
quali le schiave venivano servite dalle padrone di casa, i Liberalia (17 marzo)
spesso associata alla festa familiare della maggiore età del figlio maschio, i
Matralia (11 giugno) con la processione delle donne, così come i Vestalia (9-15
giugno), i Poplifugia (5 luglio) festa popolare, i Neptunalia (23 luglio), i
Volcanalia (23 agosto) e infine i Saturnalia (17 dicembre), la cui vasta
partecipazione di popolo è attestata da numerose fonti[69]. Durante le
cerimonie sacre spesso venivano praticati sacrifici animali e si offrivano alle
divinità cibi e libagioni. La stessa città di Roma veniva purificata con una
cerimonia, la lustratio, in caso di prodigi e calamità. Sovente anche i giochi
circensi (ludi) avevano luogo durante le feste, come nel caso dell'anniversario
(dies natalis) del Tempio di Giove Ottimo Massimo, in concomitanza del quale si
svolgevano i Ludi Magni. Pratiche religiose Modifica «Cumque
omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum
sit, si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes
haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi
mihique ita persuasi, Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta
iecisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum
inmortalium tanta esse potuisset.» (Cicerone, De natura deorum, III, 5)
Tra le pratiche religiose dei Romani forse la più importante era
l'interpretazione dei segni e dei presagi, che indicavano il volere degli dei.
Prima di intraprendere qualsiasi azione rilevante era infatti necessario
conoscere la volontà delle divinità e assicurarsene la benevolenza con riti
adeguati. Le pratiche più seguite riguardavano: il volo degli uccelli:
l'augure tracciava delle linee nell'aria con un bastone ricurvo (lituus, vedi
Lituo), delimitando una porzione di cielo, che scrutava per interpretare
l'eventuale passaggio di uccelli; la lettura delle viscere degli animali:
solitamente un fegato di un animale sacrificato veniva osservato dagli aruspici
di provenienza etrusca per comprendere il volere del dio; i prodigi: qualsiasi
prodigio o evento straordinario, quali calamità naturali, epidemie, eclissi,
ecc., era considerato una manifestazione del favore o della collera divina ed
era compito dei sacerdoti cercare di interpretare tali segni. Lo spazio sacro Modifica Edicola dedicata ai Lari
nella Casa dei Vettii a Pompei Lo spazio sacro per i Romani era il templum, un
luogo consacrato, orientato secondo i punti cardinali, secondo il rito
dell'inaugurazione, che corrispondeva allo spazio sacro del cielo. Gli edifici
di culto romani erano di vari tipi e funzioni. L'altare o ara era la struttura
sacra dedicata alle cerimonie religiose, alle offerte e ai sacrifici.
Eretti dapprima presso le fonti e nei boschi, progressivamente gli altari
furono collocati all'interno delle città, nei luoghi pubblici, agli incroci
delle strade e davanti ai templi. Numerose erano anche le aediculae e i
sacella, che riproducevano in piccolo le facciate dei templi. Il principale
edificio cultuale era rappresentato dall'aedes, la vera e propria dimora del
dio, che sorgeva sul templum, l'area sacra inaugurata. Col tempo i due termini
diventarono sinonimi per indicare l'edificio sacro. Il tempio romano
risente inizialmente dei modelli etruschi, ma presto vengono introdotti
elementi dall'architettura greca ellenistica. La più marcata differenza del
tempio romano rispetto a quello greco è la sua sopraelevazione su un alto
podio, accessibile da una scalinata spesso frontale. Inoltre si tende a dare
maggiore importanza alla facciata, mentre il retro è spesso addossato a un muro
di recinzione e privo dunque del colonnato. Note Modifica
^ «“Roman religion” is an analytical concept that is used to describe religious
phenomena in the ancient city of Rome and to relate the growing variety of
cults to the political and social structure of the city.» (Robert
Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman Religio, in Encyclopedia of Religion,
vol.12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) ^ Sul considerare la
"religione romana" strettamente collegata alla città di Roma:
«Although Rome gradually became the dominant power in Italy during the third
century BCE, as well as the capital of an empire during the second century BCE,
its religious institutions and their administrative scope only occasionally
extended beyond the city and its nearby surroundings (ager Romanus).»
(Robert Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman religion, in Encyclopedia of
Religion, vol. 12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) Ma anche: «La
religione romana esiste solo a Roma o là dove stanno i Romani» (John
Scheid, La religione a Roma. Bari, Laterza, 1983, pp. 13-4) ^ Cfr. Andrea
Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all'alba di una
civiltà. Torino, Einuadi, 2003; Milano, Mondadori, 2010. ^ La datazione al 753
a.C. risale all'erudito romano Marco Terenzio Varrone (I secolo a.C.). Altre
datazioni come quelle proposte da Catone, Dionigi di Alicarnasso e Polibio non
si discostano molto. Fabio Pittore indica il 748-747, Cincio Alimento il
729-728, Timeo si spinge fino all'814-813. ^ Per una sintesi, cfr. Cristiano
Viglietti, L'eta dei re in La grande storia dell'antichità -Roma (a cura di
Umberto Eco), vol. 9, pp.43 e sgg. ^ Così Mircea Eliade in Storia delle idee e
delle credenze religiose, vol. II, p. 111: «orbene, l'etnia latina da cui è
nato il popolo romano, è il risultato di una mescolanza fra le popolazioni
neolitiche autoctone e gli invasori indoeuropei scesi dai paesi transalpini»;
diversamente Georges Dumézil, in La religione romana arcaica, p. 69-70: «A
differenza dei greci che invasero il mondo minoico, le diverse bande di
indoeuropei che discesero in Italia non dovettero certamente affrontare grandi
civiltà. Coloro che occuparono il sito di Roma probabilmente non erano neppure
stati preceduti da un popolamento denso e instabile; tradizioni come il
racconto su Caco inducono a pensare che i pochi indigeni accampati sulle rive
del Tevere siano stati semplicemente e sommariamente eliminati come lo
sarebbero stati, agli antipodi, i tasmaniani dai mercanti venuti dall'Europa.»
^ Per un'introduzione alle religione degli Indoeuropei cfr. Jean Loicq,
Religione degli Indoeuropei in Dizionario delle religioni (a cura di Paul
Poupard). Milano, Mondadori, 2007, pp. 891-908; Renato Gendre, Indoeuropei in
Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993
pp.371 e sgg.; Regis Boyer, Il mondo indoeuropeo in L'uomo indoeuropeo e il
sacro, in Trattato di antropologia del sacro (a cura di Julien Ries) vol. 3.
Milano, Jaca Book, 1991, pp. 7 e sgg. ^ André Martinet, L'indoeuropeo. Lingue,
popoli culture, Bari, Laterza, 1989, pp. 78-79; Francisco Villar, Gli
Indoeuropei, Bologna, il Mulino, 1997 p. 480. ^ Per le decisive influenze della
cultura religiosa etrusca su quella romana cfr. Marta Sordi, L'homo romanus:
religione, diritto, e sacro, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro., in
Trattato di antropologia del sacro (a cura di Julien Ries) vol. 3. Milano, Jaca
Book, 1991, pp. 7 e sgg. ^ Per quanto attiene alla decisiva influenza della
mitologia greca sulla religione romana si rimanda alle conclusioni di Georges
Dumézil in La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 63 e sgg. ^
Cfr. al riguardo Salvatore Pricoco, in Storia del cristianesimo (a cura di
Giovanni Filoramo) vol. 1, Bari, Laterza, 2008, pp. 321 e sgg. ^ Gli editti
contro gli eretici e gli apostati furono in seguito raccolti nel sedicesimo
libro del Codice teodosiano del 438. ^ «Per i Romani religio stava a indicare
una serie di precetti e di proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida
osservanza, sollecitudine, venerazione e timore degli dèi.» (Mircea
Eliade, Religione in Enciclopedia del novecento. Istituto enciclopedico italiano,
1982, pag. 121) ^ Enrico Montanari, Dizionario delle religioni (a cura di
Giovanni Filoramo, Torino, Einaudi, 1993, pag. 642-644 ^ Pietro Virili, La
politica religiosa dello Stato romano, Nuova Archeologia (inserti),
marzo/aprile 2013. ^ «Ogni tentativo di definire il concetto di
"religione", circoscrivendo l'area semantica che esso comprende, non
può prescindere dalla constatazione che esso, al pari di altri concetti
fondamentali e generali della storia delle religioni e della scienza della
religione, ha una origine storica precisa e suoi peculiari sviluppi, che ne
condizionano l'estensione e l'utilizzo. [...] Considerata questa prospettiva,
la definizione della "religione" è per sua natura operativa e non
reale: essa, cioè, non persegue lo scopo di cogliere la "realtà"
della religione, ma di definire in modo provvisorio, come work in progress, che
cosa sia "religione" in quelle società e in quelle tradizioni oggetto
di indagine e che si differenziano nei loro esiti e nelle loro manifestazioni
dai modi a noi abituali.» (Giovanni Filoramo, Religione in Dizionario
delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.620)
^ In tal senso Pierre Boyancé, Etudes sur la religion romaine, Roma, École
française de Rome, 1972, p.28. ^ Deum al posto di deorum per l'arcaicità del
genitivo. ^ Cfr. Julien Ries in Saggio di definizione del sacro. Opera Omnia.
Vol. II. Milano, Jaca Book, 2007, pag.3: «Sul Lapis Niger, scoperto a Roma nel
1899 vicino al Comitium, 20 metri prima dell'Arco di Trionfo di Settimio
Severo, nel luogo che si dice sia la tomba di Romolo, risalente all'epoca dei
re, figura la parola sakros: da questa parola deriverà tutta la terminologia
relativa alla sfera del sacro.» ^ Cfr. Émile Benveniste: «Questo presente in
latino in -io con infisso nasale sta a *sak come jungiu 'unire' sta a jug in
lituano; il procedimento è ben noto.», in le Vocabulaire des institutions
indo-européennes (2 voll., 1969), Paris, Minuit. Ed. italiana (a cura di
Mariantonia Liborio) Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino,
Einaudi, 1981, pag. 426-7. ^ Qui inteso come ricolmo di augus, o ojas, dopo
l'inauguratio, ovvero pieno della "forza", della "potenza",
che gli consente di avere relazioni con il sakros, quindi non nell'accezione molto
più tarda riferita prima al ruolo militare e poi politico di alcune personalità
della Storia romana. ^ Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, in Grande
dizionario delle Religioni (a cura di Paul Poupard). Assisi, Cittadella-Piemme,
1990 pagg. 1847-1856 ^ Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, Op.cit.. ^
Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, Op.cit. ^ Dionigi di Alicarnasso,
II, 18-19 ^ Questa versione della fabula è in Ovidio, Fasti, III, 11 e sgg. ^
Religion und Kultus der Römer, 1902 ^ In Der römische Jupiter del 1937. ^ Una
riassuntiva è La Religion romaine archaïque, avec un appendice sur la religion
des Étrusques, Payot, 1966, edito in Italia dalla Rizzoli di Milano con il
titolo La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa
romana. Con un'appendice sulla religione degli etruschi; in tal senso cfr. p.
59 edizione del 2001. ^ In Tre variazioni romane sul tema delle originidel 1955
con revisioni fino al 1977, Roma, Editori Riuniti, 2010. ^ Ad esempio in Mito,
rito e storia, Roma, Bulzoni, 1978. ^ Insieme a Nicholas Horsfall in Roman Myth
and Mythography, University of London Institute of Classical Studies, Bulletin
Supplements S. No.52, 1987. ^ Cfr. ad esempio Early Rome, In Religions of Rome
I vol. (con John North e Simon Price), Cambridge, Cambridge University Press,
1998, pp. 14 e sgg. ^ In tal senso cfr. Mauro Menichetti, Archeologia del
potere. Re, immagini e miti a Roma e in Etruria in età arcaica, Roma,
Longanesi, 1994 ^ Da ricordare che la stabile presenza dei Greci nelle colonie
italiane è databile fin dall'VIII secolo a.C. ^ «The most impressive testimony
to early Rome’s relation to the Mediterranean world dominated by the Greeks is
the building project of the Capitoline temple of Jupiter Optimus Maximus (Jove
[Iove] the Best and Greatest), Juno, and Minerva, dateable to the latter part
of the sixth century. By its sheer size the temple competes with the largest
Greek sanctuaries, and the grouping of deities suggests that that was
intended.» (Robert Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman religion, in
Encyclopedia of Religion, vol.12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) ^ In tal
senso e ad esempio cfr. Charles Penglase, Greek Myths and Mesopotamia:
Parallels and Influence in the Homeric Hymns and Hesiod, Londra, Routledge,
2005. ^ «Myth is a traditional tale with secondary, partial reference to
something of collective importance.» Walter Burkert, Structure and History in
Greek Mythology and Ritual. Berkeley, University of California Press, 1979, p.
23. ^ Per il livello teocosmogonico cfr. Carlo Prandi, Mito in Dizionario delle
religioni (a cura di Giovanni Filoramo), Torino, Einaudi, 1993, p.492 e sgg. ^
Come "fondamentale indicatore religioso" e come "irruzione della
dimensione del sacro" cfr. Carlo Prandi, Mito in Dizionario delle
religioni (a cura di Giovanni Filoramo), Torino, Einaudi, 1993, p.494 ^ Da
considerare che il termine "mito" (μύθος, mýthos) possiede in Omero
ed Esiodo il significato di "racconto", "discorso",
"storia" (cfr. «per gli antichi greci μύθος era semplicemente
"la parola", la "storia", sinonimo di λόγος o ἔπος; un
μυθολόγος, è un narratore di storie» Fritz Graf, Il mito in Grecia Bari,
Laterza, 2007, 1; cfr. «"suite de paroles qui ont un sens, propos,
discours", associé à ἔπος qui désigne le mot, la parole, la forme, en s'en
distinguant...» Pierre Chantraine, Dictionnaire Etymologique de la Langue
Grecque, p. 718). Un racconto "vero" (μυθολογεύω, Odissea XII, 451;
così Chantraine (Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, 718: «"raconter
une histoire (vraie)", dérivation en εύω pour des raisons métriques».),
pronunciato in modo autorevole (cfr. «in Omero mýthos designa nella maggior
parte delle sue attestazioni, un discorso pronunciato in pubblico, in posizione
di autorità, da condottieri nell'assemblea o eroi sul campo di battaglia: è un
discorso di potere, e impone obbedienza per il prestigio dell'oratore.» Maria
Michela Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino, Boringhieri, 2009,
p.50), perché «non c'è nulla di più vero e di più reale di un racconto
declamato da un vecchio re saggio»(Giacomo Camuri, Mito in Enciclopedia
Filosofica, vol.8, Milano 2006, pag.7492-3). Nella Teogoniaè μύθος ciò con cui
si rivolgono le dee Muse al pastore Esiodo prima di trasformarlo in
"cantore ispirato" (cfr. 23-5: Τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον)
^ Deriva *for, il suo valore religioso è messo in evidenza da Émile Benveniste
(in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Torino,
Einaudi, 1981, p.386). Dall'arcaico *for deriva anche fatus e fas ma anche fama
e facundus; il suo corrispettivo greco antico è phēmi, pháto, ma manca
completamente in indoiranico il che lo attesta nell'indoeuropeo di parte
centrale (vedi anche l'armeno bay da *bati). ^ Termine e nozione di eredità greca.
^ Angelo Brelich,op.cit. p. 83; per un'esaustiva rassegna dei testi Brelich
rimanda ad Albert Schwegler, Römische Geschichte, Tübingen, 1853, Vol. I, pp.
212 e sgg. Cfr., comunque, Virgilio Eneide, VII 45 e sgg. 177 e sgg.; VIII, 319
e sgg. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 63-73. ^ a b c d Floro,
Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.3. ^ George Dumezil, La
religione romana arcaica, p. 137 segg. ^ Tito Livio, 1, 10, 5-7 ^ Jacqueline
Champeaux, La religione dei romani, p. 23 ^ Jacqueline Champeaux, p. 32 ^
Jacqueline Champeaux, p. 32-33 ^ Jacqueline Champeaux, p. 33 ^ Jacqueline
Champeaux, p. 25-26 ^ Jacqueline Champeaux, p. 37 ^ Jacqueline Champeaux, p. 44
^ Jacqueline Champeaux, p. 29 ^ Aurelio Vittore, Epitome 40, 10; Aurelio
Vittore, Caesares, 39.18; Lattanzio, De mortibus persecutorum, 8 e 52.3;
[1]Panegyrici latini, II, XI, 20. ^ Bowman, "Diocletian and the First
Tetrarchy" (CAH), 70–71; Liebeschuetz, 235–52, 240–43; Odahl 2004, pp.
43-44; Williams 1997, pp. 58-59. ^ Barnes 1981, pp. 11–12; Bowman,
"Diocletian and the First Tetrarchy" (CAH), 70–71; Odahl 2004, p. 43;
Southern 2001, pp. 136-137; Williams 1997, p. 58. ^ Barnes 1981, p. 11; Cascio,
"The New State of Diocletian and Constantine" (CAH), 172. ^ Aurelio
Vittore, Caesares, 39.4. ^ a b E.Horst, Costantino il Grande, p.49. ^ Aurelio
Vittore, Caesares, 39.2-4; Eutropio, IX, 26; Zonara, XII, 31. ^ . ^ Aurelio
Vittore, Caesares, 39.2-4; Eutropio, IX, 26; Eumenio, Panegyrici latini, V, 11.
^ a b c d e Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.2. ^
Jacqueline Champeaux, p. 39 ^ Jacqueline Champeaux, p. 43 ^ Jörg Rüpke. La
religione dei Romani, Torino, Einaudi, 2004, p. 210 ISBN 88-06-16586-0.
Bibliografia Modifica
Risorse bibliografiche Santiago Montero, Sabino Perea (a cura di), Romana
religio = Religio romanorum: diccionario bibliográfico de Religión Romana,
Madrid, Servicio de publicaciones, Universidad Complutense, 1999. Fonti
primarie Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I. Tito
Livio, Ab Urbe condita libri. Fonti storiografiche moderne R. Bloch, La
religione romana, in Le religioni del mondo classico, Laterza, Bari 1993 A.
Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Editori Riuniti, Roma
2010 J. Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, Bologna 2002 R. Del
Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica,
ECIG, Genova 1985 R. Del Ponte, La religione dei romani, Rusconi, Milano 1992
G. Dumezil, La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano, 2001 D. Feeney,
Letteratura e religione nell'antica Roma, Salerno, Roma 1998 K. Kerényi, La
religione antica nelle sue linee fondamentali, Astrolabio, Roma, 1951 U. Lugli,
Miti velati. La mitologia romana come problema storiografico, ECIG, Genova 1996
D. Sabbatucci, Sommario di storia delle religioni, Il Bagatto, Roma, 1985 D.
Sabbatucci, Mistica agraria e demistificazione, La goliardica editrice, Roma,
1986 D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Il Saggiatore, Milano, 1989 J.
Scheid, La religione a Roma, Laterza, Roma-Bari 2001 Voci correlate Modifica Mitologia romana Via romana agli
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CORRELATE Flamine floreale Palatua Flamine pomonale Wikipedia Il contenutoGrice: “The Italians take ‘natural theology’ for
granted; at Oxford, as Webb pointed out in his very first Wilde lecture on
natural theology, things ain’t that easy, and they are not meant to be easy by
the lecture founder, Dr. Wilde. Webb analyses Wilde’s letter in some detail.
There’s naturalism and natural theology, there’s revealed theology, but there’s
also civil theology, and it’s nice Webb’s main source is Varro!” Grice: “Most
of the best Italian philosophers have been very much ANTI-ROMA; in part
influenced by classical culture, but more so by the German protestant movement,
which also had affinities with the Italian passion for ‘l’antico’” “Ironically,
Roma is considered hardly a representative of romanita!” Cf. the neo-paganism
of Evola, which is meant to represent romanita. -- Luigi Maria Epicoco. Epicoco.
Keywords: Wilde readership in natural religion. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Epicoco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762667478/in/dateposted-public/
Grice ed Ercole – difesa della metafisica – transnaturalia
-- esologia, essologia, e sinautologia – filosofia italiana Luigi Speranza (Spinazzola).
Filosofo. Grice: “I like it when Ercole emphasizes that bit in De
Interpretatione which I love – every ‘logos’ is ‘significant’ (significativo,
semantikos, -- adds Ercole quoting from the Greek) of this or that – even a
prayer!” -- Grice: “I must say I love Ercole; for one, he expands on my idea of
the longitudinal unity of philosophy, being an Oxfordian Hegelian, almost, he
thinks history can be regarded LOGICALLY: scepticism has to follow dogmatism –
this is pretty interesting; for another, he tutored for years on the very same
topics I did, notably “De interpretation” and “Categoriae” – The former being a
theory of semiotics, of course!” – Studia a Napoli. Si interessa per Hegel. A
Berlino si perfeziona sotto Michelet, Trendelenburg, e Mommsen. Adere anche
alla "Società filosofica hegeliana". Insegna a Pavia e Torino. Dall'hegelismo
iniziale, con l'affermarsi del positivismo, passa a posizioni di adesione
all'evoluzionismo di Darwin e di Spencer. Polemizza con il teismo, giudicato
contraddittorio e illusorio, manifesta interesse per la riforma del liceo
classico secondo Pestalozzi (Ercole attaca Pestalozzi e defende Fröbel. Altre
opere: Alcune proposte di riforma nella istruzione secondaria, Pavia,
Stabilimento tipografico Successori Bizzoni); “La pena di morte e la sua
abolizione dichiarate teoricamente e storicamente secondo la filosofia hegeliana,
Milano, U. Hoepli); “Il teismo filosofico cristiano. Teoricamente e
storicamente considerato, con speciale riguardo a Tommaso e al teismo italiano”
(Torino, Loescher); “L'educazione del bambino secondo Pestalozzi, Fröbel e
Spencer” (Roma, Tipografia della Reale Accademia dei Lincei); “L'origine del
pitagorismo” (Roma, Tipografia Terme Diocleziane di G. Balbi); “La filosofia
della natura di Ceretti” (Torino, Unione tipografico-editrice); “La panlogica
di Ceretti” (Torino, Fratelli Bocca); “L'esologia di Ceretti”; “L’essologia di
Ceretti”, “La sinautologia di Ceretti”, “Cerettiana”; La logica aristotelica,
la logica kantiana ed hegeliana e la logica matematica (Torino, Vincenzo Bona),
“La logica algebraica”. Dizionario Biografico degli Italiani. Il Ceretti fino a pochi anni fa era un uomo
quasi del tutto sconosciuto. Io mi consolo immensamente a vedere come egli mano
mano venga non solo conosciuto ma anche apprezzato, giacchè merita davvero e
l'uno e l'altro. È probabile che parecchi di quelli, cui capiti nelle
mani questa Sinossi dell' enciclopedia speculativa conoscano ancor poco, o
fors’anche men di poco, l'autore della medesima. Io non posso certamente in questa
Introduzione entrare nelle particolarità della sua persona e degli scritti
suoi, si perché la natura e i limiti di uno scritto introduttivo non lo
permetterebbero, si perchè ho già pubblicata intorno a lui un'opera abbastanza
voluminosa (1), alla quale chi voglia può avere ricorso. Ciò non ostante,
non posso a meno di pur riferirmici brevemente, e riferirmi sopratutto al suo
general pensiere, ed ai suoi scritti; perchè, essendo egli passato (1)
Notizia degli scritti e del pensiero filosofico di PIETRO CERETTI, accompagnata
da un cenno autobiografico del medesimo, intitolato: < La mia celebrità »
per PASQUALE D'ERCOLE, Torino 1886, pp. ccccx-187. per diverse fasi di si
fatto pensiere, non si potrebbe, senza tal ricordo, convenientemente collocare
e giudicare questa sua Sinossi. Quanto alla persona, tanto da invogliare
a conoscerla chi ancora non la conosca, mi limiterò a ricordarla con pochissime
parole. Nato ad Intra nel 1823, educato nella puerizia e nell'adolescenza da
preti e gesuiti, usci, dall'educazione e istruzione loro, l'uomo meno informato
allo spirito de'medesimi. Più che coll'opera altrui si è istruito coll'opera
propria: sì che può dirsi ch'egli è stato il vero autodidattico. In
giovinezza viaggiò, e per anni, quasi tutta l'Europa a piedi, da una parte,
studiandone le diverse genti ne’loro costumi e prodotti scientifici e
letterari, dall'altra, vedendone la natura nelle sue diverse forme e
manifestazioni. Ed è, certo, da tal visione ch'egli acquistò un grande
amore agli studi naturali, ne'quali riesci a procacciarsi vaste e profonde
conoscenze. I predetti viaggi gli furono tanto più fruttuosi, in quanto egli,
accanto allo studio de'costumi e delle scienze e lettere de'moderni popoli
europei, ne studiava, apprendeva e parlava anche le lingue. Le quali lingue
moderne, congiunte ad antiche è classiche, ch'ei pure conobbe (sanscrito,
ebraico, latino e greco), divenner poi una mirabile, solida e fruttuosa base
pe'suoi studi d'ogni sorta, specialmente filosofici. Ebbe mente assai varia,
cioè poetica, filosofica e letteraria, e fu indubbiamente un'alta e cospicua
individualità, segnatamente dal lato del pensiero filosofico. Egli è stato,
infatti, un fortissimo pensatore e ad un tempo un fecondissimo scrittore. Ha
scritto una quantità veramente sorprendente di opere (1), appunto di contenuto
filosofico, poetico e letterario. Nel letterario comprendo anche un certo
numero di opere sociali, le quali son tra filosofiche e letterarie, e sotto
forma di romanzi, commedie, biografie, ecc., propugnano una riforma sociale
basantesi su principii filosofici. In una dozzina d'anni, dal 1854 al
1866 circa cominciò a pubblicar qualcuna di tali opere, e propriamente, di
contenuto poetico, un poemetto intitolato: Il Pellegrinaggio in Italia ed
alcune Liriche, e di contenuto filosofico, i tre primi volumi di un'opera
scritta in latino intitolata : Pasaelogices specimen. Gli scritti poetici
pubblicò sotto il pseudonimo di Alessandro Goreni, lo scritto filosofico sotto
il pseudonimo di Theophilus Eleutherus; e, quel che più importa, si de' primi
che del secondo non ne mise in pubblico (così comincia a comprendersi
l'oscurità del Ceretti) che pochissimi esemplari, quasi a scandagliar
primamente con essi la pubblica opinione. De' primi qualche giudizio, e
abbastanza favorevole, venne fuori, e poi non se ne parlò più; del secondo, che
io sappia, non se ne parlò punto, e credo che non lo lesse nessuno. L'autore
stesso, in una sua umoristica autobiografia, riferendosi specialmente a
questa (1) L'elenco compiuto di esse si trova nella mia citata Notizia,
ecc., p. xxvi SS., e tra grandi e piccole non sono meno di una
quarantina. opera filosofica, dice: « Tuttochè questi volumi non fossero
letti da nessuno, furono però variamente interpretati, e da taluni supposti
essere inintelligibili pel proprio autore; perciò mi guadagnarono la fama della
madre notte, che non lascia vedere cosa veruna » (1). Dopo questa prima, quasi
ignorata pubblicazione, non pubblico, anzi non volle pubblicare più nulla; e
cosi si finisce di spiegare la predetta oscurità. Singolare uomo!
rispetto a quest'ultima, più che dispiacersene, egli n'era contentissimo, e
quasi ne gioiva, avendosela persin proposta per scopo, secondo l'adagio (che
sovente ripeteva): Bene vive chi bene si nasconde. E meglio di lui veramente
non si era nascosto nessuno; giacchè nel suo oscuro e silenzioso recesso ei
volgeva ed agitava nella mente tutto un mondo vastissimo di idee poetiche,
filosofiche, storiche, sociali, umane. E, lavoratore infaticabile e costante,
queste idee veniva solertemente scrivendo, finchè ha potuto scrivere egli
stesso, e dettando, quando non potè più scrivere. Giacchè, colto nel 1874 da
una paralisi, da prima leggera, ma pur spietatamente progressiva, dovette a
poco a poco smettere lo scrivere e ridursi a dettare i pensieri, che ancor
sempre l'occuparono fino alla morte, avvenuta nel 1884. Quanto agli
scritti, omettendo di allegare i poeticoletterari, che non è qui il luogo e
l'intento, ricordo i principali filosofici. La citata opera latina doveva essere
(1) La mia celebrità, pag. 101, allegata alla mia citata opera. di otto
volumi, ma egli non ne scrisse che propriamente cinque e non ne pubblicò che
tre soli. Oltre ad essa e ad un'altra opera filosofica, intitolata : Idea circa
la natura e la genesi della Forza, e rimasta incompiuta, scrisse questa Sinossi
dell' enciclopedia speculativa; Sogni e Favole (il titolo par letterario, ma è
opera filosofica e voluminosa); Considerazioni circa il sistema generale dello
spirito e circa il sistema della natura entro i limiti della riflessione;
Insegnamento filosofico; Stramberie filosofiche, e parecchie altre
minori. Nella gran massa de'suoi scritti il pensiere del Cerelti non
rimase stazionario e inalterato, ma si mutò anzi non poco, e passò per diverse
fasi. Le quali (comprendendovi anche il pensiero poetico, sociale e letterario)
si possono riassumere in quattro o cinque, e sono la fase poetica; la fase
filosofica hegeliana; la fase filosofica di transizione; la fase utopistica e
riformativa sociale; e finalmente la fase detta del sistema contemplativo
(filosofica anch'essa). La fase poetica fu la prima della mente del
Ceretti, e la prima si per aspirazioni che per studi e produzioni. Ciocchè si è
notato rispetto alla generale evoluzione della sua mente, va notato anche di
questa specifica fase poetica, in quanto egli passò per varii stadii e varie
maniere di concezione e corrispondente produzione poetica, cominciando dalla
leopardiana e foscoliana, passando un po' per quella di Giusti e finendo con
una concezione e forma poetica umoristicofilosofica. Quanto alla fase
filosofica hegeliana, ella è dalla sua propria designazione indicata
chiarissimamente da se stessa. Il Ceretti ne' suoi svariati, larghi e profondi
studi filosofici giunse ad accogliere come risultato finale di essi la
filosofia hegeliana; e nell'alta Italia è stato, credo, il solo hegeliano, o
certamente il solo notevole hegeliano. Tanto più che egli non si limitò alla
pura e semplice riproduzione dell'hegelianismo, ma si allargò ed elevò ad una
propria produzione sotto il nome di riformazione del medesimo (1). Ma
ecco che il Ceretti nella fase filosofica in genere subisce di bel nuovo una
evoluzione, la quale passa per diversi stadii, ognuno de'quali è una specifica
fase filosofica. Egli stesso crede che questi stadii o queste specifiche fasi
sien due, l'una hegeliana, ch'egli designa come « speculazione hegeliana»,
l'altra di allontanamento da essa, ch'egli designa come di « divorzio dalle
idee hegeliane » 2). Io però (come ho ampiamente mostrato nella mia
citata Notizia), modificando e integrando l'istesso pensiere dell'autore, dico
che queste fasi specifiche del suo [ocr errors] (1) Nella prefazione alle
Grullerie poetiche, pubblicate in Torino in questi giorni pei tipi di Bona,
alla pag. ix, riferendosi ai suoi studi filosotici nella storia filosofica
passata e recente, dice: « Le ultime fasi della filosofia ellenica, del
neoplatonismo, dell'idealismo germanico, e soprattutto dell'hegelianismo,
guadagnarono il mio spirito, che indi prese le mosse per un ulteriore sviluppo
speculativo, e si costituì in proprio sistema ». (2) Vedi La mia
celebrità, pag. 92 e 107. pensiere filosofico son tre, cioè la hegeliana,
una seconda, che ho appellata di transizione, e finalmente quella del sistema
contemplativo. Or la Sinossi, che si pubblica presentemente, è un'opera
che cade appunto nella fase di transizione del pensiere filosofico di Ceretti;
e di ciò fra poco. Quanto al così detto sistema contemplativo cerettiano, che
non entra neppur esso nella considerazione e nei limiti della mia Introduzione,
rimando il lettore a ciocchè ne ho scritto nella mia Notizia, segnatamente a
pagina cccxxix ss. Qui mi limito a dir solo che esso è un complesso di
idee stoiche, pessimistiche e subbiettivistiche, ed il subbiettivismo poi (già
cominciato nella fase di transizione) è spinto a tale estremo da essere un
subbiettivismo più immaginativo che pensivo. In filosofia il Ceretti cominciò
coll’Idealismo assoluto hegeliano, procedè, attraverso l'Idealismo obbiettivo
di Schelling, verso l'Idealismo subbiettivo di Fichte (fase di transizione); e
questo Idealismo subbiettivo esagerò poi verso il sistema contemplativo nel
senso predetto. La fase utopistico-sociale è pure in grosso e chiaramente
designata dalla sua denominazione stessa. Infatti, il Ceretti in essa propugna
uno stato sociale e una relativa costituzione, che non sono lontani da quelli
della repubblica di Platone, ossia da una società civile addirittura
utopistica. Poste queste generalità, vengo allo scopo principale di
questa Introduzione, cioè quello di riferirmi in modo [ocr errors]
particolare alla Sinossi da me edita. Senonchè, come questa non s'intenderebbe
ed apprezzerebbe bene, se non mi riferissi all'antecedente pensiere filosofico
cereltiano, del quale ella è, in parte, continuazione, in parte, deviazione,
cosi comincerò da quest'ultimo. L'antecedente pensiere, che fu anche il
primo, come è detto, è stato l'hegeliano. Però è stato parimenti detto che il
Ceretti non accolse l'hegelianismo come un semplice riproduttore di esso, ma
come un riformatore del medesimo. Ora, che cosa pensava egli dell'hegelianismo?
pensava che, nella storica evoluzione filosofica il pensiere hegeliano
rappresentasse il momento culminante, il pensiere speculativo più puro, però
non ancora tanto puro, quanto è richiesto dal Logo assoluto (1). Da
questo modo di apprezzare il pensiere hegeliano, da lui accolto, seguivano due
cose. L'una che, benchè rispetto a tutto il rimanente pensiere, il pensiere
hegeliano fosse il più elevato e il più compiuto, pur non era interamente
compiuto, era ancora difettivo. L'altra, che bisognava correggerne i difetti ed
integrarlo. La correzione e la integrazione sono appunto la riforma
dell'hegelianismo, quale il Ceretti la intende; e la esecuzione di ciò costituisce
un proprio sistema filosofico, che è il sistema panlogico cerettiano.
[merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] (1) Logus hegelianus (aveva
egli detto nella citata opera latina, vol. I, pag. 685) est cogitationis
cogitatio magis pura quam omnis hactenus a philosophia prolata logica
cogitatio, nondum vero quantum logus absolutus requirit. Chi non ha l'edizione
latina confronti la traduzione italiana, vol. I, Prolegomeni, pag. 875.I
difetti, che il filosofo intrese trovava nel filosofo di Stoccarda si
estendevano a tutte le tre parti della filosofia di quest'ultimo, alla Logica,
alla Natura ed allo Spirito. Rispetto alla Logica ei trovava i seguenti.
Primo: la Nozione (ossia l'Idea) hegeliana si genera dialetticamente in sè
stessa in modo inconscio. Ora, il Ceretti trova giusto che la Nozione si generi
dialetticamente in sè e da sè; ma ritiene però vizioso ed irrazionale il
prodursi dialettico di una Nozione che non si conosce Nozione (di un'Idea che
non si conosce Idea). Secondo: la trattazione logica, nel suo processo
dialettico, è una astratta semplice esplicazione delle categorie, mentrechè,
per essere vera e concreta, dovrebb' essere, secondo il Ceretti, un processo di
esplicazione ed implicazione. Terzo: la predetta trattazione costituisce
piuttosto un logo astratto, che si esplica e riassume astrattamente in un
risultato, anzichè affermarsi in tutti i momenti del corso esplicativo.
Se questi difetti si guardino nel loro complesso e si esprimano in linguaggio
più comune, essi si riducono alla rimproverata incoscienza e astrazione (non
concretezza) del processo dell'Idea logica hegeliana. Il rimedio a questi vizii
(e questo è uno de' punti della riforma hegeliana) è per lui, primamente che la
Nozione o l'Idea logica sia accompagnata da coscienza, secondamente che il
processo dialettico logico fosse esplicativo ed implicativo ad un tempo, in
terzo luogo, che tal processo logico non lo si vedesse ed esprimesse in un
semplice risultato, ma che si veda, affermi e verifichi in ogni singolo momento
del suo corso. Rispetto alla Natura (e corrispondente filosofia), ei
trova il general difetto che il processo dialettico, che Hegel segue in questa,
è anche astratto (come nella Logica) e non locca le concretezza della Natura
istessa. La filosofia della Natura pel Ceretti non dev'essere, come per Hegel,
un’Idea raccoglientesi in sè stessa dal suo Esser-altro, ossia dalla sua
esteriorità, ma dev'essere anche e piuttosto un veramente naturare l'Idea
logica. L' emendazione a tal difetto s'intende bene che pel Ceretti consista
nell'effettuare il processo naturale della Nozione o dell'Idea in guisa che
questa realmente si obbiettivi e concreti nell'esteriore realtà.
Finalmente, rispetto allo Spirito, il filosofo intrese trova, lasciando da
banda qualche vizio secondario, due vizii principali. Il primo è che, nel
processo dialettico hegeliano, lo Spirito sorga in ultimo come un risultato,
invece di sorgere e costituirsi in tutta la serie evolutiva dello Spirito
stesso. Il secondo è che lo Spirito non raggiunga quella libertà, nella cui
essenza il filosofo tedesco lo fa massimamente consistere. Anche qui
l'emendazione consiste nel rimuovere i notati difetti, e però far sì che lo
Spirito si costituisca tale nella suc: cession graduale della sua evoluzione e
raggiunga veramente la libertà. lo qui allego senza discutere: qualche
vizio rilevato anche a me è parso reale, altri no: rimando per questo il
lettore alla mia opera sul Ceretti e lì, in una discussione piuttosto ampia in
proposito (1), veda e giudichi da sè stesso. Come effettua ora il Ceretti
la emendazione dei predetti vizii e la conseguente riforma
dell'hegelianismo? Come segue. Va innanzi tutto notato che egli
nella riforma non vuole uscire dall'hegelianismo istesso; e qui ha ragione, e
mostra uno sguardo filosofico veramente speculativo e profondo. Giacchè ei
pensa, e giustamente, che i sistemi filosofici tutti costituiscono e debbono
costituire tanti singoli, ma pur necessari momenti di un solo universale
Principio, di una sola universale Idea, di un solo universale Pensiere.
L'hegeliano è stato l'ultimo pensiere e l'ultimo principio, comprensivo di
Tutti gli antecedenti. Chi vuole, ora, seguire la catena storica della
filosofia deve riattaccarsi a quest'ultimo, e questo stesso, pur accogliendolo,
ulteriormente sviluppare in sè stesso. E cosi fa egli. Di fatto, oltre al
pensiere hegeliano or rilevato e da lui accolto del significato della storia
filosofica e de' sistemi che lo compongono, ha accolto anche il principio, pur
hegeliano, di tre generali forme di sistemi, vale a dire il sistema dommatico,
lo scettico e l'idealistico. Ha, inoltre, accolto il pensiere hegeliano
fondamentale della triplice forma del principio assoluto, forma logica,
naturale e spirituale, non che la conseguente triparti (1) Citata
Notizia, pag. ex ss. Vi troverà anche i corrispondenti luoghi latini dell'opera
del Ceretti, zione e trattazione di tutta la materia filosofica. Ha
parimenti accolto il concetto enciclopedico della filosofia, il metodo
dialettico con la nota tricotomia che lo accompagna, ed altri principii. Ma,
ciò non ostante, egli sviluppa ulteriormente, modifica e riforma
l'hegelianismo. Punti importanti della riforma son primamente l'Assoluto
ed il Logo: e chi è a notizia delle cose hegeliane, intende bene che con essi
il Ceretti non si colloca punto fuori dell'hegelianismo, ma si pone anzi nel
cuore del medesimo. Imperocchè l'Assoluto (già importantissimo in tutta la
filosofia tedesca) è, notoriamente, l’un capo della filosofia hegeliana,
mentre, d'altra parte, l’Idea, segnatamente logica (il Logo, insomma), ne è
l'altro. Assoluto e Logo dunque, ossia riunendo, e giustamente, i due, il Logo
assoluto diviene in Ceretti il Principio e pernio di tutta la sua concezione
riformativa. Questa concezione, s'intende, vien da lui sistematicamente
disegnata ed effettuata; e il sistema che ne risulta è un Panlogismo, ossia una
universale considerazione speculativa del Logo. Il Logo è cosi il nuovo
principio, che il filosofo intrese pone innanzi, modificando l'Idea hegeliana e
specialmente allargando, anzi addirittura universalizzando l'Idea logica di
Hegel. Se non che, accanto al Logo troviamo in Ceretti una seconda designazione
di tal nuovo principio, ed è quella di Coscienza. Come questa seconda
designazione comincia già ad essere importante nella prima fase filosofica del
Ceretti (nella hegeliana) e divien poscia prevalentemente determinante nella
seconda (in quella di transizione, in cui cade la Sinossi); cosi vuol essere
chiarito come la stia con questi principii, che apparentemente paion due (Logo
e Coscienza) e realmente sono il solo principio novello cerettiano. Si
noti che uno de' punti cardinali cerettiani della riforma è che l'Idea o la
Nozione logica sia non già inconscia, come in Hegel, ma conscia. Si pensi, d'altra
parte, che il principio cerettiano (sorgente dall'hegeliano e modificante
l'hegeliano istesso) è, come s'è visto, il Logo assoluto. Ora, tal Logo
assoluto (secondo il vizio antecedentemente rilevato e la relativa emendazione)
il Ceretti lo vuol conscio; ed allora è un passaggio più che naturale, è una
naturale esigenza che il Logo assoluto conscio sia e divenga in lui Coscienza
(non certo subbiettiva od obbiettiva, ma assoluta). In tal guisa Logo
assoluto e Coscienza pel filosofo intrese costituiscono in fondo un sol
principio, e sono il suo novello principio emergente dall'hegeliano. Dico
emergente dall'hegeliano, anche perchè, notoriamente, in Hegel, accanto
all'Idea, che è posta come principio assoluto, spicca come tale anche lo
Spirito (der Geist). Or lo Spirito è l'Idea conscia. Quando si vede la cosa
cosi, può dirsi che si in Hegel che in Ceretti spiccano due principii, almeno
due speciali denominazioni di un sol principio, che son poi in fondo un sol
principio. Cioè, in Hegel spiccano Idea e Spirito, che son poi (l'unico
principio) l'Idea spirituale, ossia conscia; e in Ceretti spiccano il Logo
e la Coscienza, che son poi (pur un unico principio) il Logo conscio, o
puramente e semplicemente la Coscienza. Che poi e come poi il Ceretti
colla Coscienza crede di porre innanzi un principio diverso dallo Spirito di
Hegel, o almeno più largo dello Spirito, lo vedremo più innanzi. Ora, pel
progresso del discorso, è necessario rilevare primamente un'altra cosa: ed è
che dei predetti due principii cerettiani (che in fondo son poi uno), il primo
o Logo assoluto è quello che dà più specialmente denominazione, concezione e
sistemazione alla fase hegeliana del Ceretti, ossia al Panlogismo: ed il
secondo, o la Coscienza (pur già appariscente nella predetta prima fase), è
quello che dà più specialmente l'intonazione, la concezione e la sistemazione
della seconda fase, cioè di quella di transizione, in cui cade la Sinossi. Il
che vuol dire, in altri termini, che il Logo informa prevalentemente il sistema
panlogico dell'opera latina, Pasaelogices specimen (prima fase), e la Coscienza
informa più particolarmente la presente opera italiana della Sinossi.
Diamo ora brevemente uno sguardo al sistema panlogico, che per me costituisce
ancor sempre il più poderoso, più originale e più speculativo pensiere
(1) (1) Per veder ciò, naturalmente, non bisogna limitarsi al
fuggevolissimo e magrissimo cenno che ne fo qui; ma bisogna leggere l'opera
cerettiana, alla quale un buon aiuto, mi lusingo di dirlo, è la mia citata Notizia.
del Ceretti: il quale sguardo ci agevolerà l'entrata nel pensiere della
presente opera sinottica. Il Logo per lui è tutto, è l'universale realtà,
è l'assoluta realtà; e la filosofia è la scienza che considera appunto il Logo
nella sua universalità ed assolutezza. Il Logo ha tre forme di esistenza, cioè
è Logo in sé, Logo fuori di sè, Logo per sè; forme, che pel Ceretti hanno anche
il significato e valore di essere il Logo nella sua Subbiettività, il Logo
nella sua Obbiettività (obbiettivazione, estrinsecazione), il Logo nella unità
di Subbiettività e Obbiettività. Si consideri l'Idea hegeliana e le sue
note forme, e si troverà che il Ceretti attribuisce al suo Logo quelle stesse
forme di esistenza che Hegel attribuiva alla sua Idea. Si pensi un'altra cosa.
L'Idea di Hegel è Pensiere ed Essere insieme: può dirsi però che essa è
prevalentemente Pensiere nella Logica, prevalentemente Essere nella Natura,
prevalentemente Coscienza nello Spirito. Il Logo di Ceretti è pur Pensiere ed
Essere, ma, starei per dire, colla prevalente anzi colla essenziale
caratteristica di Pensiere: il Logo é essenzialmente pensivo (senza cessare di
essere essente), e però è essenzialmente conscio, è essenzialmente Coscienza.
L'Idea logica di Hegel non è conscia; l'Idea naturale del medesimo non è
neppure conscia; conscia è soltanto la sua Idea spirituale. Il Logo cerettiano
invece è sempre Pensiere ed è sempre Coscienza in tutte le sue forme di
esistenza, che, come fondamentali, sono le tre predette. Queste tre forme
di esistenza, speculativamente considerate, costituiscono poi tre parti della
filosofia, ciascuna delle quali è una speciale considerazion del Logo. Le quali
parti, designate con nomi un po' singolari, ma, in fondo, pur veri, sono la
Esologia (da eis, és dentro), o dottrina del Logo in sè, del Logo considerato
dentro di sė, la Essologia da (85w, fuori) o dottrina del Logo fuori di sè, e
finalmente la Sinautologia (da cúv e aviós, con, stesso) o dottrina del Logo
con sè (1). A maggiore intelligenza di queste tre parti, rilevo che il
concetto e il relativo obbietto di esse son dal loro autore espressi in una
maniera, che è pur degna di considerazione, e che, del resto, discende
dall'anzidetto. Si è già visto come il Logo cerettiano, benchè genericamente
contenga in sè gli elementi dell'essere e del pensiere, pure prevalentemente e
più specificamente è pensiere. Conformemente a ciò, il filosofo intrese designa
il concetto e obbietto delle tre mentovate parti appunto dal lato del pensiere,
e dice che la Esologia è la considerazione speculativa del pensiere del
pensiere; la (1) Lo dice Logo con sè, ma la espressione ha quel medesimo
significato che ha in Hegel quella (del terzo momento) di in sè e per sè. Qui
il lettore può intender meglio ciocchè si è detto innanzi del significato ed
estensione del Panlogismo cerettiano. Infatti, queste tre parti, che sono
tutte, e le sole, dottrine del Logo, nel loro complesso costituiscono la
Panlogica (Pasaelogice o Pasalogice: titolo dell'opera latina); onde il
Panlogismo. Intende anche un'altra cosa, cioè, la relazione intima di queste
tre parti con le hegeliane, in quanto la Esologia corrisponde alla Logica
(Logik) di Hegel, la Essologia corrisponde alla filosofia della Natura
(Naturphilosophie) e finalmente la Sinautologia corrisponde alla filosofia
dello Spirito (Geistesphilosophie) del medesimo. Essologia, un'altrettale
considerazione del pensiere del pensato, e finalmente la Sinautologia è la
considerazione speculativa del pensiere del pensante. Sempre dunque
considerazion del pensiere: Il pensiere del pensiere esprime il pensiere nella
sua subbiettività; il pensiere del pensato è la considerazione pensiva del
pensiere come obbiettivato; e l'ultima è la considerazion del pensiere come
unità di subbietto e obbietto (di pensiere subbiettivo e pensiere
obbiettivo). Ciò posto, ecco ora come l'autore pensa e determina la
materia di queste tre parti: nel dir delle quali, dirò qualche cosa di più
della prima od Esologia, perchè essa nella susseguente Sinossi apparisce poco o
punto. Esologia. Questa è la logica cerettiana, nella quale la coscienza
logica, come Coscienza del Logo in genere, è essenzialmente pensante
(essentialiter cogitativa, come egli dice). La Coscienza logica è da lui
definita quale Coscienza di sè e di altro non ancora esteriore a sè stessa,
cioè, non ancora estrinsecata (non ancora divenuta Logo naturale,
Natura). Ei distingue ora l’Esologia in tre parti, che (sempre dal Logo,
che è in fondo ad esse) appella Prologia, Dialogia e Autologia. La prima
considera il Logo esologico nella astratta identità del pensiero; la seconda lo
considera nella differenza del pensiero istesso, la terza lo considera come
sintesi della identità e della differenza del pensiero. Queste tre
ultime, ragguagliate alle parti della Logica hegeliana, corrispondono alla
sfera del Concetto, a quella dell'Essere e a quella dell’Essenza. Il Concetto
in Hegel tien l'ultimo posto; invece, tiene il primo il Ceretti col nome di
Prologia. La Prologia cerettiana (vicinamente alla dottrina hegeliana del
Concetto) è dottrina della Proposizione, del Giudizio e del Sillogismo. Il
Ceretti comincia dalla Prologia, ed in questa dalla Proposizione, in quanto
pensa che il Primo prologico (come dice egli; noi diremmo in generale il Primo
logico) non è nè l'Essere di Hegel e Rosmini, nè l'Io di Fichte, nè la
schellinghiana Identità dell'Ideale e del Reale; ma è la Proposizione, ch'ei
pensa come qualcosa di più semplice e primitivo del Giudizio stesso. Non
entro nelle particolarità nè nell'apprezzamento della cosa; mi limito a far
risaltare soltanto il pensiero cerettiano. Non posso però a meno di richiamare
l'attenzione del lettore sulla triplicità che pervade (come già in Hegel) la
trattazione filosofica cerettiana, la quale triplicità, come si scorge qui,
cosi segue in tutta la susseguente trattazione. È inutile dire che, trattando
di questa parte, l’autore entra nelle particolarità della teoria si della
proposizione, si specialmente del giudizio e del sillogismo. La Dialogia
è la dottrina dell'Essere e considera questo (come già Hegel) siccome distinto
ne' subordinati principii o momenti di Qualità, Quantità e Modalità (1),
ne'quali, alla lor volta, vengono suddistinti e (1) La Modalità è la
misura hegeliana (das Maas): già Rosenkranz l'avea appellata anche Modalità.speculativamente
considerati altri principii subordinati, come qualcosa, il limite, il quanto,
la realtà, la sostanza, la essenza, la necessità, ecc. Chi è pratico
delle cose hegeliane, si accorge che il Ceretti anche in questa seconda parte
ha fatto degli spostamenti, trasportando e trattando sotto la sfera dell'Essere
principii (e persin l'essenza stessa), che in Hegel ricorrono sotto quella
dell'Essenza. La cagion di ciò, a mio credere, è che il Ceretti tratta tutta la
materia logica (anzi tutta la materia filosofica) secondo i tre momenti della
Posizione, della Riflessione e della Concezione. Così facendo, ha potuto
accogliere i principii o momenti hegeliani dell’Essenza (la quale,
notoriamente, è la sfera della riflessione) sotto il proprio Essere, considerato
appunto secondo il momento della riflessione; ossia ha potuto accoglierli sotto
l'Essere riflesso. L'Autologia finalmente, che è pensata come unità della
Prologia e della Dialogia, tratta de'tre principii del Sapere, Volere, Agire.
S'intende bene che anche in questi vengono distinti, rilevati e trattati altri
momenti subordinati come Sapere immediato, mediato e assoluto, Volere
subbiettivo, obbiettivo, ecc. I tre principii predetti pur ricorrono nella
Logica hegeliana, ma in una guisa e sfera subordinata, mentre qui abbracciano
una intera sfera logica per sè, e costituiscono il punto culminante ed unitivo
di tutto il pensiere esologico (ossia logico). Questa parte del sistema
panlogico cerettiano non rimane poi così magra ed astratta, come potrebbe sembrare,
ma si addentra nella storia, e viene additata in questa la evoluzione di tutte
le categorie logiche (esologiche) trattate. Io qui naturalmente non posso
entrare nelle particolarità: di più ho detto nella mia Notizia degli scritti e
del pensiere filosofico di Ceretti; ma anche in questa fui piuttosto scarso.
Ora si è pubblicata in italiano questa parte della filosofia cerettiana sotto
il nome di Esologia, ed essa sola comprende ben mille e dugento pagine. Io
cercherò un'altra occasione in cui discorrere più lungamente di quest'opera e
paragonarla con la Logica hegeliana, dalla quale prende il general pensiere e
il generale andamento, ma della quale vuol essere, e in parte è, una
modificazione. EssOLOGIA. La Natura è il Logo obbiettivato: però la dice
anche Non-Logo, ossia l'opposto (il negativo) del Logo subbiettivo. La designa
parimenti come Coscienza in forma d'Incoscienza, ossia, in fondo, di Coscienza
ancora inconscia. Che la dice Coscienza, dopo tutto l'anzidetto, s'intende
benissimo; perchè la Coscienza non è che il Logo conscio in genere, salvo poi a
passare per diversi gradi della Coscienza, cominciando dalla incoscienza.
Questo stato ancora inconscio della Coscienza della Natura è incluso nella
mentovata designazione, che, cioè, questa sia Coscienza in forma di
incoscienza. Qualche cosa di consimile egli esprime, quando la designa anche
come Coscienza dormente. Distingue la Natura (alla hegeliana) in
meccanica, fisica, organica o, come anche si esprime, in Logo meccanico, Logo
fisico e Logo organico; e la tratta speculativamente in queste tre forme. Il
punto culminante della Natura è la Vita, il cui Logo supremo, dice egli, è
l'organo sensorio. Col senso poi (che è funzione e manifestazione di
quest'organo) si esce dalla sfera della Natura propriamente detta e si entra in
quella dello Spirito, ossia della Coscienza del Logo conscio, e però del
pensiero del pensante, la cui speculativa trattazione è la SINAUTOLOGIA.
Il concetto della sinautologia dall'anzidetto è chiarissimo e si riassume in
questo, che il pensiero del pensante da essa considerato esprime la concretezza
del pensiero istesso, cioè la Coscienza altuosa di quello Spirito (di quel
Pensiero), che nella Esologia e nella Essologia era ancora inconscio. Le
parti in cui si suddivide la Sinautologia sono l'Antropologia,
l’Antropopedeutica e l'Antroposofia. Queste stesse tre parti sono ulteriormente
divise in altre subordinate, trattandosi in ciascuna in grosso quei principii
che nell' hegelianismo fan parte dello Spirito e della filosofia dello Spirito.
Nelle particolarità io rinunzio di entrare, tanto più che la maggior parte di
esse entrano nella Sinossi, che si presenta ora al pubblico. Con ciocchè
è detto, che io lascio senza apprezzamento, è stato certo il lettore messo nel
caso di conoscere quelle antecedenze, delle quali la Sinossi, da una parte, è
continuazione, dall'altra, ulteriore modificazione, e veniamo dunque alla
presente opera sinottica. Rispetto a questa vi sono due punti a cui mi
riferirò: l'uno è quello dell'opera da me prestata nella pubblicazione di essa:
l'altro è quello di dare una idea generica del suo contenuto e di rilevare
alcune cose che mi paiono degne di nota. Per ciò che concerne il primo
punto, il manoscritto che mi fu consegnato, di indicazioni del contenuto e
dello scopo dell'opera non portava che soltanto il titolo generale di essa,
cioè Synossi dell'Encyclopedia speculativa. Non aveva prefazione od altra
indicazione di sorta, ma cominciava subito col primo paragrafo, e così
senz'altro continuava in sussecutivi paragrafi fino all'ultimo. Or bene,
io ho creduto utile di fare innanzi tutto due piccole innovazioni: primamente,
di ammodernare l'ortografia dell'autore; secondamente di fornire l'opera di
intestazioni. Quanto all'ortografia, il Ceretti era un uomo, dirò cosi,
stampato sul classico, e però rispetto ad essa ha ancora ritenuto le forme
latine e greche. Gli è per ciò che, conformemente al saggio ricorrente nel
titolo predetto, egli scriveva analysi, systema, sympathia, philosophia,
abysso, e via dicendo. Adduceva anche le ragioni di ciò, e, in una scrittura
umoristica (1), riferendosi a questo punto, pregava che lo « si lasciasse
spropositare a suo agio, perchè la sua crassa ignoranza di orthographia
italiana non gli permetteva di fare altrimenti ». Senza che io mi
distenda su questo punto, il lettore intenderà che al nostro tempo una tale
ortografia non poteva trovar favore presso il pubblico. L'autore stesso,
(1) Nella Prefazione ai Sogni e Favole (ancora inediti, ma che si
pubblicheranno fra non molto). del resto, non l'aveva seguita neppur egli
in tutte le sue scritture italiane. Per esempio, non l'aveva seguita nè in una
sua prima opera filosofica italiana, rimasta incompiuta (intitolata Idea circa
la genesi e la natura della Forza), nè in qualche opera letteraria de' primi
tempi (poniamo, nelle Lettere d'un profugo): in generale poi non l'ha mai
seguita nelle sue opere poetiche italiane. Io poteva dunque senza scrupoli
innovarla. Quanto alle intestazioni, mi sono parse utilissime anch'esse.
Il Ceretti è uno scrittore molto difficile, è sovente oscuro. Leggere una sua
opera senza intestazioni di sorta, tranne quella del titolo generale, è una
cosa che non invoglia il lettore. Gli è perciò che, ad agevolare a questo
l'intelligenza e la lettura della medesima, ho diviso innanzi tutto l'opera
nelle grandi e generali parti che la costituiscono, e ho dato loro le
rispettive intestazioni; poscia ho fatto lo stesso coi paragrafi, dando, sia ad
un solo sia a più insieme, la intestazione corrispondente al pensiere da essi
espresso. Per la giusta lezione del testo mi son dato tutta la cura
possibile. Non una, ma ben molte volte sono intoppato in difficoltà: tanto più
che il manoscritto era scritto da un amanuense. Nelle difficoltà ho fatto fare
scrupolosi raffronti coll'originale, nei quali la figlia dell'illustre
filosofo, tuttora amorosamente intenta alla pubblicazione delle opere paterne,
mi ha prestato valido aiuto (1). Ma, (1) Ad onor del vero, mi piace di
far noto che l'opera della figlia verso il padre non è soltanto di riconoscenza
filiale, ma di intelligente ad onta del buon volere e degli aiuti, mi è
rimasto qualche scrupolo, che in questo o quel luogo qualche mancamento od
inesattezza vi sia rimasto. Quanto a mancamento, mi cade in acconcio di
potere affermare siccome una verità, che, per chi conosce le opere filosofiche
cerettiane, quelle che susseguono l'opera latina in genere si risentono un po'
tutte di qualche mancamento rispetto all'ordinamento e all'integrità del
pensiere. Questo, secondo me, proviene da più cagioni: l’una, che, avendo ogni
scrittore un momento culminante nella sua attività intellettiva, il Ceretti lo
ha avuto nell'opera latina: l'altra che, avendo egli, dopo la pubblicazione de'
tre primi volumi di questa, fermamente deliberato di non pubblicar più nulla,
ha creduto che le sue opere rimanessero inedite; e con tal credenza la cura di
esse è minore: una terza, che negli ultimi dieci anni di vita (in cui cadono
quasi tutte le opere filosofiche italiane, compresa la Sinossi) egli fu
travagliato dalla mentovata infermità. Continuando a dire dell'opera da
me prestata, rilevo che, per l'accennata difficoltà e talvolta anche oscurità
del pensiere dell'autore, vi ho pure aggiunto delle note illustrative, ove mi
son parse necessarie od almeno utili. E finalmente, un po' per la ragione
ora detta, un po' per continuare a far conoscere la persona é gli scritti del
Ceretti, un po' per agevolare al lettore l'entrata nel prestazione, come
ha anche dimostrato, benchè ella lo abbia taciuto, nella mentovata
pubblicazione delle Grullerie poetiche, non che delle Poesie giovanili, apparse
contemporaneamente ad esse. pensiere della Sinossi, vi ho preposta la
Introduzione che sta ora leggendo. Per ciocchè concerne il secondo punto,
quello del contenuto, comincio col richiamare innanzi tutto l'attenzione del
lettore sul principio costitutivo della Sinossi, cioè, la Coscienza; principio,
come ho già detto innanzi, che l'autore crede distintivo della propria
filosofia da quella di Hegel, il quale, invece, pone in genere l’Idea, e più
specificamente l'Idea conscia, ossia lo Spirito. Ebbene, dal poco che ho
detto, antecedentemente e da altro che ho qui taciuto, posso affermare che la
differenza che il Ceretti vuol vedere tra la sua Coscienza e lo Spirito di
Hegel a me non pare così essenziale, certo, non così grande, come egli pensa. E
che la cosa sia cosi lo voglio confermare con le stesse parole dell'autore.
Nella sua Autobiografia, opera interessante e ricca di notizie sul corso
de'suoi pensieri, egli stesso dice: « In quel tempo io seppi (1) che l’Assoluto
è la Coscienza, e la Coscienza nel suo svolgimento è, correttamente parlando,
una storia, ma fui lontano dal distinguere la Coscienza dallo spirito e
considerare lo spirito come un momento storico della Coscienza. Per me la
Coscienza era un ente, piuttosto che il termine generale, la cui distinzione
costituisce gli enti ». È chiaro dunque che una distinzione vera dei due
principii non l'aveva ancor fatta. Però qualche cosa di (1) La mia
celebrità citata, pag. 89. Il tempo di cui parla è verso il 1870, certo, dopo
la pubblicazione de' tre primi volumi dell'opera latina, pubblicazione che
cessò il 1867, distintivo cominciava ad andargli pel capo. Di fatto, egli
afferma in altro luogo dell'opera, che verso quel tempo di cui si sta parlando
« principiava a balenargli l'idea di una Coscienza più generale dello spirito,
Coscienza, della quale lo spirito fosse uno storico momento. Quest'idea gli era
balenata molto tempo prima, ma piuttosto come un'imagine dell'idealità che come
una categorica avvertenza, la quale avvertenza principiò in questo tempo ed
ebbe il suo categorico fondamento anzitutto nell'infinito nulla, sopra il quale
riposa la nostra cogitabilità » (1). Da questo luogo, che conferma il
primo, non solo emerge ulteriormente che la distinzione ei non l'aveva ancor
veramente fatta nell'opera latina, ma fa capire che in questa (ov'egli pure
aveva cominciato a parlare di tal distinzione) la distinzione era come un primo
baleno di pensiere presentatosi alla mente e intraveduto, non però ancora
veramente visto, compreso' e consciamente fermato. È questo veramente un punto,
che io non aveva neppur nella mia Notizia così determinatamente ancora indicato
e, sopratutto, documentato; son lieto, che mi si è presentata l'occasione di
farlo qui. Ora, è nella Sinossi che il Ceretti è veramente conscio di tal
distinzione, ed è in essa che la Coscienza predomina e spicca come l'universale
e fondamentale principio (1) Loc. cit., pag. 104. Può parere strano che il
Ceretti faccia poggiare la cogitabilità sull'infinito nulla. Lo strano
sparisce, quando si pensa che per lui l'infinito nulla è uno de' modi di
designare l'essere indeterminato. Ora, il pensiere è appunto o una
determinazione dell'essere indeterminato, o una ulteriore determinazione
dell'essere già determinato. di tutto l'Essere e di tutto lo Scibile
(Pensiero). E la ragion principale della distinzione, come si scorgerà dalla
lettura dell'opera, consiste per lui specialmente in ciò: Che, giusto perchè la
Coscienza è l'universale ed assoluta realtà, l'unico universale essere, ella
accoglie sotto di sè l'istesso spirito come uno de' propri momenti, una delle
proprie manifestazioni e forme di esistenza (1). Ad intendere ciò, e in
generale la larghezza della Coscienza cerettiana, allego volentieri il seguente
luogo, nel quale ei dice che il filosofo speculativo « considera l'animale come
un momento definito nel sistema della Natura, la Natura come un momento nel
sistema spirituale, e lo Spirito come un sistema nel sistema della Coscienza »
(2). Ora può meglio comprendere il lettore, perchè io, nel dividere la
Sinossi in Tre Parti e nel dare a ciascuna di esse la relativa intestazione, ho
sempre fatto entrare la Coscienza. Del resto, l'istesso autore dice che: « la
Coscienza, sendo il termine più generale, che possibilita l'essere e
l'esistenza, deve necessariamente essere il termine più generale, nella cui
distinzione si distingue logicamente l'Enciclopedia speculativa » (3).
Volendo ora con un breve cenno introdurre il lettore nel contenuto della
Sinossi, rilevo innanzi tutto che le tre grandi Parti, nelle quali ella è
divisa, sono la Coscienza universale, ossia i Principii logici o
logico-metafisici, che (1) Vedi in questo stesso volume appresso $ 21,
pag. 10. (2) Si confrontino specialmente il g 164 e la mia relativa nota,
non che il S 203. (3) Sinossi, $ 163, pag. 124, voglian dirsi
(Logica); la Coscienza naturale, ossia i Principii naturali (Natura); e la
Coscienza spirituale o Principii spirituali (Spirito). Quanto alla
Coscienza universale e ai corrispondenti principii logici, l'autore non entra
in particolarità, anzi non ne espone addirittura la dottrina. Si limita
soltanto ad indicare innanzi tutto le forme dello scibile e le corrispondenti verità;
poscia a designare alcune verità logiche supreme; indi ad accennare in genere
la natura della speculazione logica; e finalmente ad una divisione del pensiere
sistematico logico. Rispetto alle forme dello scibile (ch'ei distingue in
a) scibile estetico e religioso; b) scibile empirico-induttivo, e c) scibile
speculativo), pone che la forma speculativa, che è l'unica e vera filosofica, è
quella « che non con: tiene se non verità necessitate dal pensiero in sè
stesso, indipendente da qualsivoglia autorità esteriore ». Queste verità
necessitate poi ricorrono propriamente, od almeno in modo speciale, nella
Logica. E delle tre indicate Parti e corrispondenti discipline filosofiche ei
pensa che « la scienza veramente speculativa è la Logica, e le discipline della
Natura e dello Spirito non possono contenere verità speculative, ossia
necessarie, se non in quanto siano ridotte alla loro radicalità logica », vale
a dire, alla forma o tipo logico. Quanto alle verità logiche supreme,
elle si concentrano nel mentovato principio della Coscienza. E, di fatto,
ei pone come verità prima e radice di tutte le altre verità, e ad un tempo come
« verità generalis sima della speculazione », questa, che a è contenuta
nella proposizione: L'assoluto è coscienza ». E pone quindi come a verità più
particolare, ma non meno necessaria », quest'altra, « la quale è nella
proposizione: La verità assoluta è nella coscienza pensante » (1). A queste due
proposizioni se ne può aggiungere una terza, che, benchè ricorra in fin
dell'opera, pure è con esse intimamente legata; ed è che a nulla è e nulla può
essere fuori della Coscienza » (2). Quanto alla natura della Logica, ei
l'indica, e mi pare eccellentemente, siccome il « sistema generale della
cogitabilità », o, come anche dice, « della pura cogitabilità ».
Finalmente l'autore, non entrando nelle esposizioni di tal sistema, ma
limitandosi alla partizione di esso in tre cicli, designa il primo siccome « la
categoria pura dell'Essere indefinito, l'essere generale qualitativo e
quantitativo v: il secondo come « l'Ente, ossia l'Essere finito, per il quale
il pensiero si definisce in pensieri particolari reciprocamente differenziati
ed opposti »: il terzo come a l'unità del pensiero infinito col pensiero
finito, nella quale unità il pensiero s'individualizza » (3). Questa
individuazione, soggiunge, estrinsecandosi, genera la Natura. (1) La
Coscienza pensante è per lui la Coscienza razionale o concettiva, com'ei la
dice, a differenza delle forme inferiori di Coscienza, cioè la Coscienza riflessa
e la Coscienza sentimentale (quest'ultima abbraccia la Coscienza estetica e si
estende alla religiosa). (2) Sinossi, S 203, pag. 218. (3) Vedi
Sinossi, pag. 1-12. [blocks in formation] Passando a trattare della
Coscienza naturale o Natura, ne dà una definizione, in cui si sente l'influsso
fichtiano, definendola, cioè, siccome «l'Idea scissa in due termini, che hanno
l'apparenza della separazione », e che sono a l’lo e il Non-Io » (1). Quanto
alla partizione però, divide ancora hegelianamente la Natura in a) meccanica,
b) fisica, c) biologica (organica). Cominciando a dir della prima, tocca
innanzi tutto della considerazione estetica della Natura istessa, di quella
considerazione, che attribuisce ai corpi celesti vita e persin coscienza. Tocca
parimenti della considerazione riflessa (o empirico-induttiva), la quale,
oppostamente alla prima, considera la Natura come disanimata e puramente
meccanica. Son due considerazioni ch'ei tiene per egualmente false, ritenendo
invece per unicamente vera la considerazione speculativa. Conformemente a
quest'ultima, piglia le mosse da’ principii primitivi e condizioni prime della
Natura, che sono lo Spazio, il Tempo, il Movimento, la Forza; quattro principii
che nella loro unità costituiscono poi la Materia. Questi principii ei riunisce
in guisa da ricordare addirittura la consimile unione di Spencer, la quale, del
resto, prima che spenceriana, è stata già hegeliana. Si addentra poscia
vieppiù nella Natura, e la considera nella vita e nel movimento dei corpi
celesti. Ribatte la considerazione estetica, che attribuisce a « Vita e
Coscienza analoga all’umana », siccome questi (1) Sinossi, $ 28,
pag. 13. [ocr errors] fantastica. Rispetto alla Vita di essi, rileva
egli, la speculazione (e considerazione speculativa) a ritiene giusto » che « i
corpi celesti.... debbano possedere necessariamente la propria vita, dalla
quale abbiano il proprio movimento, la propria forza e le proprie fasi formali
ma respinge interamente che « detta vita possa essere analoga all'animale ed
alla vegetale » (1). Passa quindi a considerare, secondo la speculazione,
la Coscienza nei corpi celesti; e, anche qui, pur ammettendo una generica
coscienza ne' medesimi, dice che « la Coscienza propria de' corpi celesti non
può sotto verun rapporto somigliare a quella degli animali e delle piante ».
Ritiene però che « l'armonia generale de’loro rapporti cinematici e
induttivamente anche dinamici prova evidentemente che sono regolati non solo
dalla coscienza, ma anche dalla coscienza pensante e razionale » (2).
Allontanandosi, ciocchè qui dice l'autore, non poco dalle comuni intuizioni, è
bene di rilevare e determinare ulteriormente il suo pensiere e la ragione del
suo pensiere, non che la ragione, per la quale egli respinge anche la
considerazione riflessa della Natura (che è poi in grosso la considerazione
delle scienze naturali). Riattaccandosi a quest'ultima, dice che, se la
considerazione estetica attribuisce vita e coscienza agli astri, sbagliandosi
nel modo dell'attribuzione, la riflessione spegne (1) Sinossi, § 41, pag.
22 e seg. (2) Sinossi, $ 42, pag. 23. addirittura l’una e l'altra.
Imperocchè essa, nella concezione e considerazione della natura, è dominata «
dalla cardinale irrazionalità » di considerare il pianeta terrestre « come un
ente meccanico e fisico, e non mai come un organismo planetario vivente e
cosciente di vita e coscienza propria, altra dalla vegetabile ed animale » (1).
L'autore attribuisce alla riflessione l'errore della « diremzione (scissione)
della Natura e della Coscienza », per cui « deve necessariamente considerare i
singoli fenomeni come altri da quelli della Vita e della Coscienza o (2).
Diversa poi, a senso dell'autore, è la speculativa considerazione si della
Natura in genere, che dell'ordine terrestre. In quanto che « la speculazione,
ponendo il principio generale, che la Natura e l'Idea della Natura sono
reciproci fattori, deve conchiudere necessariamente che una Natura qualsivoglia
non può esistere se non come viva e cosciente. Le diverse specifiche nature
sono appunto differenziate dalle differenze specifiche della loro vita e
coscienza ». E, conformemente a ciò, rileva i diversi gradi di vita e coscienza
de' corpi celesti, de' minerali, delle piante, degli animali. « La
speculazione (aggiunge egli) concepisce che nessuna esistenza è possibile se
non in quanto sia Coscienza, e nessuna Coscienza è possibile se non come un
sistematico svolgimento dall’una nell'altra determi (1) Sinossi, $ 49,
pag. 30. (2) Sinossi, $ 52, pag. 32. nazione, locchè è Vita
». Mette però in rilievo che « Vita e Coscienza nella speculazione non sono
menomamente limitate all'analogia del processo vegeto-animale; epperciò,
dicendo che i corpi celesti, il globo terrestre e le materie terrestri sono
vive e coscienti, non intendiamo dire che un numero finito di organismi
componga un tale organismo, ma semplicemente che tutta la natura è organica,
viva e cosciente, e conseguentemente ogni organismo è principio e fine di altri
organismi, cosi nel proprio totale, come in ciascuna minima particella divisibile
all'infinito » (1). Non men lontano dalle comuni intuizioni è ciocchè
segue sotto il titolo di anatomia, fisiologia e psicologia del globo. Si badi
però che a si fatte denominazioni il Ceretti non attribuisce il significato che
lor comunemente corrisponde. La ragione, per la quale egli ha adoperate le
predette denominazioni è ch'ei considera il globo siccome un organismo vivo e
cosciente. Di fatto ei dice: « Considerando il globo come un individuo organico
vivo e cosciente, si conchiude necessariamente che vi sia un'anatomia, una
fisiologia ed una psicologia del globo ». Avverte però ch'egli « usa questi
vocaboli in un significato più generale che non in quello della vita
vegeto-animale » (2). E quanto all'espressione di psicologia del globe, che è quella
che più delle altre urta le comuni intuizioni, egli ne giustifica e
chiarisce (1) Sinossi, $ 53, pag. 29 e seg. (2) Loc. cit., $ 59,
pag. 36. il significato come segue. « Dobbiamo per prima cosa notare,
dic'egli, che non intendiamo parlare di psicologia nel significato analogo a
quello dell'animalità, ma usiamo questo vocabolo nel significato amplissimo di
coscienza vivente. Cosi, per es., la bestia pratica, nell'uso della sua facoltà
locomotiva, esattamente le regole matematiche della statica; ma questo non vuol
dire che la bestia possegga qualche nozione di matematica e di meccanica
razionale; ella non possiede veruna nozione riflessa, ma semplicemente il senso
regolativo della statica, requisito della pratica della locomozione; ma non è
una regola teorica; ossia una Coscienza riflessa della medesima. In questo
significato generalissimo di coscienza la terra possiede la sua psicologia, non
altrimenti che ogni individuo vivente » (1). Da tutto ciocchè il Ceretti
dice intorno a coscienza degli astri in genere e a coscienza e corrispondente
psicologia della terra in ispecie, se ne deduce ch'egli attribuisce sì ai primi
che alla seconda quella coscienza ch'egli nel luogo ultimamente allegato chiama
coscienza vivente, cioè una coscienza che si caratterizza e risume nella vita,
una coscienza che potrebbe chiamarsi inconscia. E questa è quella coscienza che
antecedentemente io stesso ho designata come generica, non già come specificata
e molto meno come individuata. Ad intender ciò, si pensi che per Ceretti il
principio universale della realtà (qui nella Sinossi) è appunto la (1)
Sinossi, $ 74, pag. 47. Coscienza come universale ed assoluta. In quanto
la Coscienza è universale ed assoluta, è già Coscienza la Natura stessa, che è
una delle forme di manifestazione ed esistenza della Coscienza. Se è così, è
ben naturale ch'ei pensi come cosciente (genericamente, non individuamente gli
astri tutti, anzi le cose tutte. Ma la Coscienza della Natura, nelle formazioni
siderali della medesima, non si è ancora individuata, soggettivata , ossia è
una coscienza che non è ancora presente a sè stessa, non è consapevole di sè
stessa, è una Coscienza ancora inconscia. Ora, il Ceretti pensa che tutto
il processo della Coscienza naturale o, come comunemente diciamo, della Natura,
consiste appunto nella graduale individuazione e soggettivazione di questa
Coscienza. Nella terra ed in genere nella natura minerale tale individuazione,
almeno tal vera e reale individuazione non è ancora avvenuta e ne cerca e segua
i relativi gradi evolutivi. « Il primo esordio, secondo lui, della Coscienza
verso una propria individuazione, oltre l'individuazione planetaria, appare
nella vita vegetativa» (1). E questo esordio è, a tal riguardo, si poca cosa,
chè, benchè la pianta abbia « un'individualità distinta dall'individualità
planetaria, quest'individualità si manifesta tuttavia equivocamente nella vita
vegetabile » (2). E di questa equivocità arreca varie ragioni. (1)
Sinossi, $ 80, pag. 52. ' (2) Sinossi, $ 85, pag. 55. Additata
l'individuazione nella pianta, passa ad additarla nella ulteriore e superiore
forma di esistenza della animalità. È primamente nell'organismo animale che,
secondo il Ceretti, avviene la compiuta individuazione, la quale, si noti, non
è ancora soggettivazione in tutta l'animalità. La soggettivazione, che è il
grado supremo dell'individuazione, da una parte, « si palesa progressivamente
nelle specie superiori », dall'altra, si manifesta nella sua vera compiutezza
soltanto nell’uomo; il quale nella serie zoologica è a l'ultimo frutto, ossia
il massimo sviluppo psichico dell'animalità » (1). « Quando l'animale,
dic'egli, arriva definitivamente alla soggettivazione della propria Coscienza,
ossia al suo Io distinto categoricamente dal Non-Io, entra categoricamente
nella Coscienza spirituale. Questo passaggio costituisce la creazione
dell'uomo, e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può
significare un soggetto umano » (2). Con l'antecedente esposizione il
Ceretti, nella Evoluzione della Coscienza, esce dalla Coscienza naturale ed
entra nella Coscienza spirituale, cioè nella terza parte dell'opera. In questa,
cominciando colla distinzione di senso e pensiero, vien subito all'additamento
delle forme, 0, com'ei le dice, fasi dello spirito, le quali per lui sono il
sentimento, l'intelletto ed il concetto. Il concetto è la facoltà razionale, a
distinzione della intellettiva, secondo (1) Loc. cit., $ 96, 106, 107,
pag. 61 e seg. (2) Sinossi, $ 115, pag. 76. che ciò s'intende
nell'hegelianismo. Il sentimento è da lui inteso in senso più largo del senso,
tanto che designa come momenti del sentimento l'attenzione, la memoria e
l'immaginazione. Così inteso, il sentimento viene ad esser come una funzione
media tra il senso e l’intelletto, quella funzione che costituisce come il
passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante (1), e che perciò somiglia
quella che i tedeschi chiamano facoltà rappresentativa
(Vorstellungsvermögen). Segue l'evoluzione della Coscienza spirituale in
quelle forme che, secondo la terminologia hegeliana, fan parte dello spirito
soggettivo, come linguaggio e suoi stadii; stato primitivo dell'uomo (primitiva
coscienza umana); sonno, sogno e veglia ; temperamento; specifiche disposizioni
mentali, tra le quali piglia di mira anche il genio nella sua distinzione
dall'ingegno; carattere e criterio. Dopo di ciò passa alla considerazione
di quei principii che possono designarsi come costitutivi della Coscienza
oggettiva (oggettivata), che corrispondono a quelli del cosi detto spirito
oggettivo hegeliano, e che il Ceretti in questa Sinossi risume ne' tre di
Morale, Diritto, Ragione. La Morale regola i rapporti sociali degl'individui
consociati, ma soltanto siccome regola interiore alla Coscienza. Il Diritto,
facendosi indipendente dalla interiorità della Coscienza morale,
statuisce (1) Ei dice di fatto: « La Coscienza che dalla sensazione si
svolge nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla
umanità ». Sinossi, S 128. una legge che divien comune e normativa nei
rapporti esteriori del corpo sociale. La Ragione concilia le esigenze della
Morale e del Diritto, cioè dell'elemento soggettivo e dell'elemento oggettivo
della civile società (1). Continuando, l'autore segue l'evoluzione della
Coscienza spirituale nella sua costituzione sociale. Da prima rileva e
determina i gradi evolutivi di questa ultima nel regime patriarcale, strategico
(militare) e politico. Poscia viene alla determinazione della ragione, la quale
è « come il fattore essenziale del buono e del giusto contenuto » nelle
organizzazioni sociali. Alla ragione disposa la coltura, in quanto l'una e
l'altra si suppongono e svolgono insieme. « La ragione, com’ei si esprime,
reclama un libero svolgimento della coltura e la coltura è il corpo della
ragione; questa e quella sono reciproche esigenze, epperciò non si possono
reciprocamente realizzare se non in quanto concorrono nell'unità del proprio
sistema » (2). Termina questa parte con la distinzione, la determinazione ed il
rapporto dello scibile delle discipline finite e dello scibile
speculativo. Assolta questa parte della Coscienza spirituale, passa
all'ultima e suprema della medesima, che è quella che si riferisce all'Arte,
alla Religione ed alla Filosofia, o, che vale lo stesso, alla Coscienza
artistica, religiosa, filosofica. Ciascuna di queste tre ei considera non
solo (1) Sinossi, § 139, pag. 96 e seg. (2) Sinossi, S 134, pag.
113. nel suo principio, ma anche nella sua storica evoluzione. Gli stadii
di si fatta evoluzione sono in genere l'asiatico, il pagano, il cristiano; e
quindi arte, religione e filosofia asiatica; arte, religione e filosofia
pagana; arte, religione e filosofia cristiana. Quanto all'arte, egli
accenna non solo all'arte in genere, ma anche alle diverse forme di arte,
additandone l'evoluzione appunto ne' predetti stadii asiatico, pagano e
cristiano. Il medesimo fa per la religione, e qualificando la religione e
le religioni asiatiche per naturalistiche, la religione e le religioni pagane
per antropomorfistiche, la religione e le diverse forme religiose cristiane per
spiritualistiche. E finalmente, quanto alla filosofia, rilevato il
generale concetto di essa e il suo legame coll'arte e colla religione, viene a
toccare della sua storica evoluzione. Comincia dalla filosofia asiatica, nella
quale dà importanza alla filosofia indiana, essendo questa nell’Asia « la sola
che si possa considerare come un tentativo di speculazione esordiente. Ella si
distingue in tre grandi periodi, di cui il primo è teologicamente ortodosso,
epperò armonizza colla religione costituita; il secondo ed il terzo consistono
di sistemi teoretici, che però non negano il principio fondamentale della
religione, alla quale contradicono » (1). Passa alla filosofia pagana, la
quale si risume essen (1) Sinossi, S 191, pag. 188 e seg. zialmente
nella greca, e nella quale la speculazione non s'ispira, come l'indiana, alla
teologia, ma « si sente perfettamente libera da ogni prestatuto, da ogni
estrinseco alla speculazione » stessa. E ciò si mostra fin dall'inizio della
filosofia greca, nella quale « i primi filosofi furono fisici non teologi ».
Ella « si distingue in tre grandi cicli. Nel primo è speculazione
naturalistico-noologica. Nel secondo è speculazione etica. Nel terzo è
speculazione pneumatologica » (1). Termina colla filosofia cristiana,
nella quale, secondo lui, « le speculazioni dei teologi, la così detta
filosofia scolastica, non appartengono positivamente alla filosofia, ma
piuttosto a quello che si direbbe teologia speculativa », Più vicina al punto
di vista filosofico própriamente detto, come poggiante sulla ragione, è la a
nuova speculazione », o quella del Rinascimento. Questa « esordi con una
semplice rinnovazione della ellenica filosofia ); ma in alcune speculazioni« si
distingue per la forma delle nuove filosofie », come in Giordano Bruno, in
Giacobbe Böhm e in qualche altro. Quello però che fonda la filosofia
cristiana propria mente detta è Cartesio, al quale poi si riattaccano i
posteriori moderni filosofi per ulteriormente svilupparla. « La filosofia cristiana
differisce dall’ellenica; perocchè questa si svolse nel piano dell'Idea fisica
o metafisica e della sua identità realizzata nel mondo, quella si svolge nel
piano dello Spirito concreto, ossia (1) Sinossi, $ 195, pag. 192 e
seg. unità distinta dell'Idea in sè stessa (metafisica) colla Idea fuori
di sè stessa (Natura). Questa concreta unità prima è realizzazione dei suoi
termini separabili, che astrattamente si svolgono in astrazioni fisiche o
metafisiche; poscia è concreta unità dei suoi termini indirimibili e distinti »
(1). Questa è la tela del pensiere filosofico della Sinossi
dell'enciclopedia speculativa. Ora, a complemento della cosa, credo ancora
utile di rilevare alcuni punti ed alcune opinioni dell'autore, che mi sembrano
degni di nota. Primamente mi riferisco al punto concernente le idee
cerettiane sugli astri in genere e sulla terra in ispecie, e propriamente
riguardo all'animazione e persin coscienza che l'autore ha vedute in
essi. Innanzi tutto allego un luogo di un'altra opera di lui: in questo
si dice chiaramente come egli intende l’evoluzione planetaria, la quale poi non
è altro che l'evoluzione di ciocchè si nella Sinossi, si in questa mia
Introduzione si è appellata la Coscienza naturale. « La mia astronomia,
dic'egli, ossia perlustrazione de' corpi celesti, non somiglia punto alla
disciplina finita (cioè all'astronomia de' naturalisti) di questo nome, ma si
riferisce semplicemente alle più arrischiate ipotesi circa la genesi di quei
corpi. L'idea fondamentale è che le varie età di un corpo celeste corrispondono
alle varie qualificazioni di nebulosa, sole, pianeta, e cosi oltre, e
conseguentemente anche i vari fenomeni sulla superficie di esso appartengono
a (1) Sinossi, $ 199, pag. 204 e seg. vari momenti della sua età.
Cosi, per es., la vita fitozoica e la storia umana sarebbero una fenomenale
momentaneità della vita planetaria sopra il globo, che oggidi dagli uomini si
chiama Terra » (1). Or qui si dice che la vita non solo vegetale ed
animale, ossia vegeto-sensitiva, ma la stessa vita pensiva umana è una
manifestazione planetaria, che si concreta sulla terra: il che è come dire in
altri termini che nella terra vi sono fenomeni sensitivi e pensivi. In
conseguenza di ciò il Ceretti ha parlato di vita e coscienza degli astri, vita
e coscienza del pianeta terrestre; come, d'altra parte, conformemente a ciò, ha
parlato di anatomia, fisiologia e psicologia della terra. È indubitato
che queste ultime espressioni suonano un po'stranamente, e più stranamente
ancora suonavano alcuni decennii addietro. Però, a misura che si fa strada
nella scienza il realismo e l'evoluzione, quelle espressioni van mano mano
perdendo non poco della loro stranezza. Siam giunti a tale, che leggiamo, e
senza meraviglia (io almeno non me ne meraviglio, (simiglianti cose in libri
seriissimi, che veggono la luce negli stessi nostri giorni. Uno di siffatti
libri (che io credo seriissimo e raccomando a chi no'l conosce ancora), è, per
esempio, il « Cosmos die Wellentwickelung nach monistisch-psychologischen
Principien auf Grundlage der exakten Naturforschung dargestellt von D. Hermann
Wolff. Leipzig 1890. Zwei Bände ». (1) La mia celebrità già citata, pag.
66 e seg. Ebbene, il Wolff parla anch'egli non solo di psicologia
animale, ma anche di psicologia della pianta e psicologia della cellula.
Notoriamente, di quest'ultima ha parlato e scritto Ernesto Haeckel, seguito poi
da altri. Ma con ciò siamo nella natura organica. Il Wolff va ancora più
innanzi e parla anche di fisiologia della natura inorganica (si badi bene,
inorganica) (1). E non si arresta neppur qui: parla persino di segni di
manifestazioni psichiche nella natura inorganica: e, dopo avere additati questi
segni, anche coll'appoggio di Copernico, Herschel, Haeckel, Schopenhauer, viene
alla conclusione che nella natura inorganica c'è un fondo psichico (einen
psychologischen Hintergrund der anorganischen Natur) (2). Siffatte
manifestazioni, secondo il Wolff, « non sono però segni di una esistenza
individuale animata, ma comuni manifestazioni di specie » o generi (3). Anche
il Ceretti pensa la cosa in grosso allo stesso modo; giacchè la sua Coscienza
degli astri e della terra non è individuale, ma generica come ho fatto innanzi
rilevare. Fo considerare, inoltre, come ora si parli non poco di
Panpsichismo: chi è a notizia della recente letteralura filosofica, lo sa. Lo
spirito universale di Hegel (der Weltgeist), lo spiritualismo assoluto del
medesimo sono imparentati con si fatte intuizioni. Non vi è meno imparentato
l'Inconscio del vivente filosofo Eduardo di Hartmann; giacchè l'Inconscio
contiene in sè un ele (1) Vedi dell'Opera citata del Wolff, vol. I, pag.
239 e seg., 245 e seg, (2) Loc. cit., specialmente a pag. 334. (3)
Al secondo volume di detta Opera, pag. 145, mento pensivo e spirituale che,
foss’anche inconsciamente (e, del resto, nella natura dev'essere cosi), si
manifesta ed agisce nel mondo materiale. Altra intima parentela con
queste intuizioni ha l'attuale e assai generale Monismo; perchè col Monismo si
ha un solo principio superiore, che è spirituale e materiale, conscio ed
inconscio insieme, e che è presente ed agente così nell'animale e nell'uomo,
come anche nella pianta e nel minerale. Sicchè dunque bisogna guardare e
giudicare con sentimenti amichevoli ed indulgenti ciocchè il Ceretti dice
intorno all'animazione e coscienza degli astri. L'aver testè ricordato il
nome di Eduardo di Hartmann accanto a quello di Hegel, mi fa andar per la
mente, che accanto a questi due va collocato immediatamente il Ceretti, e
propriamente, da una parte, come contrapposto a quello, dall'altra, come unito
a quello nella comune provenienza da Hegel. È indubitato che entrambi
provengono da questo, ma si noti, che vi provengono, propugnando ciascuno un
principio opposto a quello dell'altro: Eduardo di Hartmann, propugnando
l’Inconscio, Ceretti la Coscienza, ossia il Conscio. È questo un punto assai
degno di considerazione, ma che meriterebbe uno sviluppo, il quale non può
entrare in questa Introduzione. Prego però che gli rivolgano la mente coloro
che ora conoscono il Ceretti, fino a poco fa sconosciuto. Cercherò un'altra
occasione, nella quale ritornerò su di ciò. Un altro punto, che si
collega ai precedenti e pure degno di rilievo da parte del Ceretti è il
dichiarare e ribatter ch'ei fa come assurda la « supposizione d'una natura
meramente inorganica, cieca e macchinale » (1). Con questa dichiarazione egli
si fa, sia direttamente, sia indirettamente, oppugnatore del Positivismo e
dell'Evoluzionismo, in quanto meccanici. E in ciò bisogna unirsi interamente a
lui. Io non ispregio punto, anzi pregio moltissimo le dottrine positivistiche
ed evoluzionistiche: e persin dichiaro novellamente (l'ho già fatto altra
volta) che accolgo l'evoluzionismo disposato all'hegelianismo sotto il generale
concetto e processo di evoluzione finale. Ma ritengo immensamente irrazionale
l'evoluzionismo meccanico, col quale non solo non si possono spiegare i
prodotti superiori della realtà, l'arte, la religione, la scienza, la vita
domestica e sociale ecc., ma neppure la vita animale e vegetale, e diventano
inesplicabili gli stessi prodotti minerali nelle ordinate formazioni dei
medesimi. Già l'antichità al meccanismo atomistico e in genere
naturalistico aveva giustamente contrapposta la finalità, specialmente nelle
scuole platonica ed aristotelica. Il principio finale, che fu accolto ne' tempi
e filosofi posteriori, è stato nell'ultima filosofia accentuato specialmente da
Schelling ed Hegel, che han visto ed affermato nella natura un finale,
razionale e progressivo organizzarsi della medesima in tutte le sue
maravigliose forme. L'evoluzionismo con Spencer ha assai progredito
a [blocks in formation] riguardo de’due grandi filosofi tedeschi in
moltissimi rispetti; ma, d'altra parte, col meccanismo ha immensamente
regredito rispetto ad essi. Chi sarà l'uomo ragionevole che potrà pensare che
la scienza si possa costituire meccanicamente ed automaticamente? Ebbene è
proprio cosi che dee pensarne la costituzione e formazione chi accetta il
meccanismo comtiano e spenceriano; giacchè da’principii comtiani e spenceriani
riguardo alla scienza non ne discende altra conseguenza. Innanzi a una tale
assurdità o debbon cadere senz'altro il Positivismo e l'Evoluzionismo, o
bisogna, come io penso, integrarli colla finalità. Per ciocchè concerne questo
mio pensiere, sono lieto d'incontrarmi nella stessa idea con un uomo assai
rispettabile e favorevolmente noto nella scienza, col Vacherot. Il quale, pur
movendo dall'hegelianismo, è giunto (nel Nouveau spiritualisme) per altra via a
quella conclusione (all'Évolution finale), cui songiunto anch'io(1).
Altro punto che voglio rilevare è quello dell'opinione del Ceretti rispetto
all'origine e natura della specie; e lo fo volentieri, perchè si tratta di cosa
oggi tanto dibattuta. Rispetto a questo punto parrebbe che egli si discostasse
tanto da Hegel quanto da Darwin; ma a me sembra che, in fondo, ei riesca alla
stessa idea di quest'ultimo. Il Ceretti dice: «È assurdo supporre che una
specie si (1) Vedi Le nouveau spiritualisme del VACHEROT, Paris 1884,
specialmente il capitolo intitolato l'Évolution finale, pag. 359. Nell'istesso
anno 1884, nel mio Teismo filosofico cristiano, senza che io sapessi nulla del
filosofo francese, ho sostenuto (vedi pag. 414 in nota) lo stesso principio,
con la stessa espressione di evoluzione finale. tramuti in un'altra come
tale, perocchè le specie sono mere distinzioni teoriche del nostro intelletto.
La natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum » ecc. Con ciò
parrebbe quasi quasi che non ammettesse vere specie di sorta e non si accordasse
col darwinismo. Ma, d'altra parte, ei soggiunge: « La vera trasformazione della
specie non si deve investigare nelle specie come lali, ma piuttosto ne'minimi
termini della specie, ossia nelle variazioni individuali. Queste variazioni,
tuttochè lentissime, modificano col volgere de' secoli le specie » (1).
Ora a me pare che l'opinione cerettiana si converta colla darwiniana: perchè
secondo i darwinisti le modificazioni alle specie provengono e non possono
d'altronde provenire che dagl'individui. Un altro punto non meno
dibattuto e controverso è ai di nostri quello della religione; e mi piace di
rilevare l'opinione cerettiana in proposito. Innanzi tutto egli è contrario ad
ogni religione filosofica o scientifica che voglia dirsi. « Provate, dic'egli,
a istituire un culto, ossia una pubblica credenza filosoficamente ragionata; e
voi fallirete senza dubbio al vostro scopo, perocchè la Coscienza pubblica non
è disposta a un filosofico sistema ». E per tal rispetto può dirsi ch'ei
si oppone al positivismo, a dir vero, non a quello del fondatore del medesimo,
perchè Comte ammetteva la ragion di essere della religione, ma al comunale
positivismo, che vuol sostituita la religione colla scienza. E, venendo poi ad
esprimere (1) Sinossi, $ 185, pag. 174 e seg. il suo pensiere su
tale importante argomento, ei dice: « La religione che conviene al nostro tempo
e alla nostra civiltà non può essere una religione di miti e di misteri. Non
può essere una rivelazione miracolosa d'un tempo e d'un luogo, epperciò non può
essere una religione autorizzata da un codice e da una tradizione. Il solo
fondamento religioso, tuttavia reale del nostro spirito, è l'idealismo
trascendentale, per es., la credenza in una Coscienza e Ragione generale che
governa il mondo: è questa il nostro Dio superstite come Dio, possibile oggetto
d'una credenza religiosa » (1). Probabilmente il lettore troverà che
anche questa religione proposta dal Ceretti (e che abbastanza generalmente, e
da un pezzo, la si propone ed anche coltiva da filosofi, scienziati e uomini
colti) senta un po' del filosofico anch'essa. Io, per parte mia, penso
lo pensava anche il filosofo intrese) che la religione in genere sorge
dalla coscienza popolare. E siccome questa non è nè può essere mai filosofica o
scientifica che dir si voglia; così una religione scientifica, quale la
vogliono i predetti comunali positivisti, è una chimera e, per giunta,
assolutamente contraria alla coscienza del popolo, che costituisce
qualitativamente e quantitativamente la larga base e la gran massa de'
credenti. Questi sono i punti principali e le relative opinioni
dell'autore, che io voleva in ispecial modo rilevare: altri tralascio.
(1) Sinossi, $ 108, pag. 71 e seg. Prima di terminare questa già lunga
Introduzione, non posso a meno di rivolgere ancora l'attenzione del lettore
sulla posizione della Sinossi nel complesso e nel corso del pensiere filosofico
dell'autore, non che sulle ragioni che hanno consigliata la pubblicazione
dell'opera. Quanto alla posizione, ho già detto che essa rappresenta una
fase o momento di transizione dall'idealismo assoluto hegeliano (già accolto
dall'autore ed espresso, pur già con modificazione, nella sua opera latina) ad
un assoluto idealismo subbiettivo, o ad un assoluto subbiettivismo, assai
vicino a quello di Fichte. Ho pur già detto che tal passaggio segue attraverso
dello schellinghianismo, del quale son visibili alcuni vestigi nella presente
opera. Il lettore che leggerà attentamente questa ultima, scorgerà la cosa da
sè stesso. Se non che io voglio ulteriormente rilevare che questo punto io l'ho
già rilevato nella mia opera sul Ceretti, e, per non tornare a dir lo stesso,
rimando il lettore a questa (1). Quanto alle ragioni della pubblicazione
(oltre al desiderio, anzi volere della figlia del filosofo, la quale crede
dovere filiale di cooperare a far conoscere e pregiare il suo genitore), elle
son varie. L'una è che, benchè ella sia un'opera indubbiamente inferiore alla
latina, ciò non di meno, con tutta la stessa sproporzione che ha nelle tre
parti che la costituiscono, è pur sempre tale da meritare di essere conosciuta.
Una seconda è che, (1) Alla più volte citata notizia, e propriamente alle
pagine clxxx e seg., CXCIII e seg. siccome essa rappresenta una delle
fasi di transizione del pensiere filosofico cerettiano, cosi, per conoscer
questo tutto intero, era necessaria la pubblicazione di essa ; tanto più che
essa, tra le opere filosofiche che si riferiscono a tal fase, è una delle
migliori. Una terza ragione è questa, che, accanto all'Enciclopedia filosofica
latina, è bene che se ne conosca di lui anche una italiana. Una quarta è che,
essendo rimasta incompiuta l'opera latina, specialmente per la parte che
concerne la filosofia dello spirito, era opportuno di pubblicare la Sinossi,
che si estende anche a questa parte. A dir vero, le idee sulla filosofia dello
spirito nell'opera latina sarebbero state più vicine alle hegeliane, ma un
generico fondo hegeliano v'è in grosso anche nella Sinossi. Un'ultima ragione è
questa che, come nella pubblicazione dell'opera latina in traduzione italiana,
assai probabilmente non si andrà più in là del secondo volume (dell’Esologia, o
logica del Ceretti), perchè il terzo (la Essologia o filosofia della natura) è
rimasto incompiuto, così la Sinossi si adatta ad esser come la continuazione
della stessa opera latina tradotta. E si adatta tanto più, in quanto questa
giunge, come abbiam detto, fino alla logica, che è trattata ampiamente; e la
Sinossi, invece, appena accennando la logica, tratta più estesamente la
filosofia della natura e quella dello spirito, specialmente quest'ultima. E non
è improbabile che il Ceretti stesso, per avere appunto largamente trattata la
logica nell'opera latina, ne abbia poi fatto appena un piccolo cenno nella
Sinossi, che fu scritta dopo. Termino esprimendo il voto, che una così
eminente individualità filosofica, poetica e letteraria, quale fu il Ceretti,
venga sempre più conosciuta ed apprezzata. Per conoscerla però ed apprezzarla
degnamente, non bisogna arrestarsi ad una sola delle sue opere, ma bisogna
abbracciarle tutte; giacchè, essendo stata la sua individualità assai varia e
complessa, bisogna vederla e conoscerla nella varietà e nel complesso delle sue
opere. Dividerò e tratterò in "varii punti la quintuplice forma
di Logica enunciata nel titolo. Il primo punto è che questa
quintuplice forma di Logica si riattacca nel modo più intimo al mio
scritto già pubblicato ed intitolato: L'Essere evolutivo finale come
tentamento di una nuova concezione ed orientazione del pensiero filosofico
uscente dal- l' Hegelianismo. E si riattacca in guisa che la concezione,
la posizione e la soluzione delle indicate forme logiche dipendono in
tutto e per tutto dal medesimo. Il secondo punto concerne la
importanza della trattazione delle enunciate forme logiche.
La importanza, quanto alla Lo gica aristotelica, è addirittura imm ensa,
in quanto sì fatta Logica conta ormai 24 secoli di esis tenza, di
ammirazione e di attuazione nel pensiero umano in genere e nel pensiero filosofico
in ispecie. Per ciocché concerne la importanza della Logica
kantiana, benché questa, rela- tivamente al tempo, conti poco più di un
secolo di esistenza, pur la sua importanza è assai grande, in quanto, da
una parte, continua ed ulteriormente esplica la Logica aristotelica,
dall'altra, prepara la via, l'indirizzo e la stessa materia alla
susseguente Logica di Hegel. Quanto poi alla Logica
hegeliana, se la sua importanza rispetto al tempo è immensamente minore
della aristotelica, e, relativamente, della stessa kantiana, con- tando
appena circa un secolo di vita, pur non di meno, considerata come entit à
del fatto logico in se stesso, è grandissima anch' essa. Giacché, la
Logica hegeliana, da una parte ; riattaccandosi e contrapponendosi com e_
reale od ontolog ica alla aristotelica ritenuta e detta formale, e,
dall'altra, sviluppando, integrando e realizzando in un compiuto
organismo dialettico il tentativo ontologico kantiano, è divenuta il più
impor- tante fatto e pensiero logico de' tempi nostri.
102 PASQUALE D'ERCOLE 2
Quanto alla importanza della cosi detta Logica matematica, tale
importanza rispetto al tempo è di bel nuovo assai minore non solo della
24 volte secolare ari- stotelica, e della poco più che secolare kantiana,
ma della stessa secolare hegeliana. Giacche la Logica detta matematica
conta soltanto pochi decennii di vita, ed anzi, nella sua ultima
determinata forma, appena una ventina d'anni. E da ultimo, per
ciocche concerne la importanza della Logica indiana, tale impor- tanza è
grandissima anch'essa; in primo luogo, perchè la Logica indiana è una
reale e vera forma logica distinta dalle altre, e pensata ed esercitata
da un popolo anti- chissimo tuttora pensante e logicante con essa; in
secondo luogo, perchè, rispetto alla universale evoluzione della Logica
in genere, la Logica indiana è la prima ma- nifestazione, avente ragion
di essere come le altre. A queste ragioni essenziali potrei aggiunger
l'altra di opportunità ; ed è che essa è assai poco conosciuta, ed è
invece degnissima di esserlo, il che avverrà coll'accenno mentovato della
medesima. Un'ultima considerazione rispetto alle predette forme
logiche, e specialmente rispetto alla sequela storica delle medesime, è
la seguente. Che, cioè, benché la indiana sia la prima in ordine di
tempo, pur non nuoce, anzi giova di esporla, e trat- tarla in ultimo,
perchè essendo essa di un tipo abbastanza dissimile dalle altre enun-
ciate, sarà più agevole di intenderne ed apprezzarne la natura dopo aver
esposte quelle che rappresentano lo sviluppo maturo e razionale rispetto
ad essa. Il terso punto concerne lo scopo della trattazione delle
predette Logiche. Il quale scopo è quello di determinare quale è la vera
natura di ciascuna di esse, consi- derandole sì dal punto di vista
storico, epperò evolutivo, sì dal punto di vista teoretico.
Di tutti questi punti dunque tratterò separatamente, cominciando dalla
Logica aristotelica. I. La Logica
aristotelica. Aristotele è stato detto il Padre della Logica.
Sorge subito la quistione : Ma non_cI è_ un' altra_ L ogica prima _della
sua ? e se ce n'è un'altra, in qual relazione sono quest'altra e la
aristotelica, da una parte, dal punto di vista della anteriorità e della
posteriorità, dall'altra, dal punto di vista della evoluzione storica
dall'una all'altra ? La risposta a tal quistione sarà più
opportunamente fatta e compresa dopo la trattazione e giudicazione di
tutte le predette Logiche. E veniamo alla Logica ari- stotelica. Innanzi
tutto è bene di allegare le Fonti della nostra esposizione e trattazione.
Tutti intendono che la prima ed essenzial Fonte è Aristotele stesso e
questa noi avrem sempre presente nel testo originale. Aggiungiamo solo
che, come Aristo- tele, specialmente attraverso del Medio evo e del
Rinascimento, è stato ripensato e riferito nella famosa traduzione latina
" interpretibus variis „, riconosciuta come LA LOGICA
ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.
103 giusta interpretatrice del grande filosofo greco,
cosi noi ci serviremo anche di questa, allegandola persino ordinariamente
accanto al testo greco. La edizione de' due testi che noi abbiam
presente e seguiamo è quella della « Academia Regia Borussica, Berolini,
1831-1836 „ fatta da Emanuele Becker e da Cristiano Augusto
Brandis. Altre Fonti importantissime sono le seguenti:
Severino Boezio (l'infelice e insigne filosofo, condannato a morte e
fatto uccidere dal re Teodorico). Egli è uno de' più benemeriti della
Logica aristotelica come tradut- tore e illustratore degli scritti logici
di Aristotele: Arist. Stag., Organimi, Boethio Sever. interp. età,
Venetiis, 1547. Geschichte der Logik etc, von D/ Cari Prantl, che è
un'opera addirittura mo- numentale nel suo genere. System der
Logik und Geschichte der Logischen Lehren von D. r Friedrich Ueberweg, 4
e Àufl., Bonn, 1874: opera eccellente anche questa, dovuta al merito e alla
giusta fama di quell'uomo, che ha lasciato durevole traccia di sè anche
nella Storia della Filosofia. Aristotelis Organon etc, edidit
Theodorus Waitz Philos. Dr. Lipsiae, MDCCCXL1V: importantissima e
stimatissima opera in due volumi contenenti il testo greco e il commento
di lui al medesimo. D. r Eduard Zeller, Die Philosophie der
Griechen etc, nella quale (zweiter Theil, zweite Abtheilung) vi è un
volume speciale, di quasi un migliaio di pagine, trattante di
Aristotele. Dello stesso Zeller è fonte anche preziosa il suo
Grundriss der Geschichte der griechischen Philosophie, specialmente nella
10 a edizione del 1911 (Leipzig) elaborata (bearbeitet) dal D. r Franz
Lortzing. Trendelenburg, Elemento logìces Arist., Berolini, 1836,
9* ediz. 1892 : notissima e importante operetta.
Barthélemy Saint-Hilaire, Logique d'Aristote, traduite, ecc. 4 voi.
Alle Fonti già indicate, che son le più importanti, aggiungerò quella del
nostro Galluppi che ha due' opere sulla Logica, luna quella degli
Elementi di Filosofia, in cui ha- una lunga trattazione della Logica
pura; l'altra, amplissima, quella delle Lezioni di Logica e metafisica;
e, occasionalmente, forse anche qualche altra Fonte, per esempio quella
di Ruggiero Bonghi. E ora vengo alla indicazione ed esposizione
degli scritti logici aristotelici. Gli scritti logici o V Organo (tò
òqyavov) della filosofia aristotelica. È opportuno riferire una
osservazione che fa il Waitz [Arist. Org., II, 293 ss.), e che accoglie e
riferisce anche il Zeller (nel suo terzo volume precitato, pag. 187, nota
3), sulle denominazioni di Logica ed Organo. Questi cioè dice che 8 presso gli
« espositori greci fino al sesto secolo „ non si trova ne l'una nè l'altra di
queste deno- minazioni come l'espressione tecnica e generalmente
accettata degli scritti logici di Aristotele : ma che però più tardi
questi vengono " già denominati organici {òqya- « vmd), perchè essi
si riferiscono all' òqyavov (ovvero sM'ÒQyavixòv fiégog) tpOo- ■ aotplag
». 104 PASQUALE D'ERCOLE
4 Ciò posto, gli scritti logici costituenti l'Organo
sono: 1° Le Categorie (KaziqyoQiaì); 2° De Interpretatione
{LTeoì c EQH7]vslag) ; 3° I Primi Analitici (due libri) :
'AvaÀvzixà nqózEQa ; 4° 1 Secondi (o Posteriori) Analitici:
'AvaXvzmà vazEqa; 5° I Topici (8 libri): Tomxd; 6° 8U
Elenchi Sofistici (De Sophisticis elenchis): Uocpiozixoì "EÀsyxot.
Le Categorie. Questa prima parte degli scritti logici aristotelici è
importantis- sima, perchè essa costituisce come un anello di congiunzione
tra la Logica e la Me- tafisica di Aristotele. Il lor significato e la
loro estensione appartengono e si allar- gano ad entrambe queste parti
del pensiero filosofico aristotelico. Il significato è che essi
esprimono i supremi pensabili, cioè, i supremi concetti sotto cui cadono
e si aggruppano nel nostro pensiere gli ogge tti della universale
realtà. Il numero di tali supremi pensabili, ovvero delle
categorie, secondo Arist., è, notoriamente, di dieci: infatti, egli dice
(Kateg., cap. 4, all'inizio): zwv xazà firjóe- filav ovfMiÀoxrjv
Xeyofièvoìv è'xaozov tfzoi oiaiav ar\\iaivu ?} noaòv ^ noìbv fj tiqóq zi f}
nov ^ note f} xeìo&cu è'xEiv fj noietv ^ nda%Eiv. La traduzione latina
men- tovata di questo luogo suona : " Eorum quae sine coniunctione
dicuntur, unumquodque " aut substantiam significat aut quantum aut
quale aut ad aliquid aut ubi aut quando " aut situm esse aut habere
aut agere aut pati „ ■ Il predetto numero e la denominazione delle
Categorie son anche riferiti in modo chiaro e preciso nei Topici (I, 9,
al principio) come segue: è'azi óè zavza (scilic. zà yévrj %&v xazr}yoQiùv)
%òv àoid-fiòv déxa, zi èazi, noaòv, noiòv, JiQÓg zi, nov, nozè,
xeìo&at, e%eiv, noisìv, nào%siv (1). Per lo scopo che io mi
propongo non posso entrare in tutte le particolarità, nelle quali entra
la maravigliosa mente analizzatrice di Aristotele. Ma come rias- suntivo
dell'essenziale a tal riguardo allegherò il seguente luogo del Zeller
(loc. cit., pag. 267). " Fra le singole Categorie, dice
questo, la più importante è di gran lunga la * SQstg^za, della quale in
seguito dovrà parlarsi più diffusamente. La Sostanza, in " senso
stretto, è sostanza singola. Ciocche si lascia dividere in parti è un
Quanto " (ein Quantum) ; se queste parti son divise (getrennt), il
Quantum è discreto, una ■ Moltitudine (Menge); se esse sono insiem
congiunte, il Quantum è una Grandezza; " se sono in una determinata
posizione (&éoig), la Grandezza è spaziale; se poi le " parti
son soltanto in un ordine (zd^ig) senza posizione, allora la Grandezza non
e (1) Vedi pei due luoghi greci Zeller, 3° voi, citato, pag.
259; e nel testo greco stesso, vedi Arist., KaTijy., cap. 4° e Tonino, al
luogo indicato. » Secondo il gusto e l'uso de' versi memoriali,
queste 10 Categorie furono espresse dal seguente distico :
Àrbor sex servos calore refrigerat ustos ; Cras ruri stabo, sed
tunicatus ero. LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED
HEGELIANA, ECC. 105 spaziale (ist eine
unràumliche). L'Indiviso (das Ungetheilte) o l'Unità, per mezzo di cui
vien conosciuta (erkannt) la Grandezza, è la Misura della Grandezza
stessa; ed è questa appunto la nota distintiva della Grandezza, che essa
è misurabile, che ha una Misura. Come la Quantità spetta (zukommt) al
Tutto sostanzialmente di- visibile, così la Qualità esprime le
distinzioni mediante le quali vien diviso il Tutto. Giacché per Qualità
in senso stretto Aristotele non intende altro che la nota distin- tiva, o
la determinazione più vicina, in cui si specifica un dato Generale. E
come le due specie principali delle Qualità egli designa quelle che
esprimono una deter- minazione essenziale, e quelle altre che esprimono
un movimento od attività. In altro luogo egli novera quattro
determinazioni qualitative come le principali; ma - queste però si
lasciano sottordinare a quelle due. Siccome nota propria della Qua- ■
lità vien considerato il contrapposto di Simile e Dissimile. Del resto,
l'istesso Ari- * stotele è imbarazzato nel conterminare questa
Categoria verso altre. Al Relativo " appartiene tutto ciò, la cui
propria natura o essenza (Wesen) consiste in un deter- « minato
comportarsi verso altro; e come tale il Rektivp_è quella. Categoria cui
* corrisnonde la minima realtà. Aristotele distingue di esso tre specie,
le quali però « si lasciano" ridurre a due. Ma in ciò egli non
rimane eguale a sè stesso ; ed ancor * meno sa evitare più di una
miscela (Vermischung) con altre Categorie, ovvero ot- * tenere una
nota sicura di quella costituente il Relativo. Le altre Categorie furono
* da Aristotele sì brevemente trattate nello Scritto delle Categorie, che
anche noi " non possiamo trattarne più diffusamente „. E
basti di ciocche concerne le Categorie, e passo a dire del secondo scritto
del- l'Orbaco, cioè del " IIeqì èqiirivtiac, „, o De
Interpretatiom. Rispetto al tempo in cui fu composto questo scritto, è
bene di rilevare, che esso fu composto dopo gli Analitici, come lo stesso
Aristotele dice chiaramente ed esplicitamente al cap. 10 di questi.
L'oggetto di questo piccolo trattato dell' Ermemia è la £rojosizione, e
non . nel senso di pura e semplice pr oposizione grammatica le, ma di
proposizione logica od esprimente un pensiere logico.
Aristotele, analizzatore per eccellenza, comincia coll'esaminare e
stabilire ^li elementi della proposizione stessa, i quali non sono altro
che i nomi delle cose. E comincia a farlo con una osservazione
importantissima intorno al nome (tò ovo/ia) e al verbo (tò §fj/ta), la
quale è che i nomi prima della loro unione, sia tra loro sia col verbo,
non esprimono nulla di vero e di falso. Ed anzi, secondo lui, quando si
dice nome (dvo/ia) in senso lato, vi si comprende anche il verbo IIzqì
yàg (die' egli al Capo I dell' Ermeneia) oév&EOiv k<xì
òia'iQEoiv èan tò ipsvóog xal tò àAy&és (nella corrispondente
traduzione latina: * nam in compositione et divisione est ve-
" ritas aut falsitas „). Quando poi col collegamento e
colla divisione delle parole,, Qffàa d<jLnomi, co- mincia la verità e
la falsità, allora il noma, come specificamente logico, è propria- mente
Uyog. Uno scrittore che ha rilevata bene la differenza di òvofia e di
Myog e il Biese {Die Philosophie des Aristoteles, Berlin, 1835, I Bd., p.
55 e 90), dicendo che " Uyog designa la parola in quanto è
espressiva del pensiere „. In altri termini, kóyog è la parola logica per
eccellenza. 2 . D'Ercole. 106
PASQUALE D'ERCOLE 6 Altra
cosa notevolissima è che, secondo Aristotele (IIeqì 'Eq^veiag, c. 4),
ogni discorso, Àóyog, è significativo di alcun che (arjfiavxixóg) ; ...
ma non ogni discorso è enunciativo, giudicativo (dnotpavxixóg), sì bene
quello che ha che fare {imdq%£i) col vero e col falso. E soggiunge, ad
esempio, che la preghiera {eb%<t\, deprecatio) è certamente un
discorso, ma non è nè vera nè falsa. Son dunque la verità e la falsità
che costituiscono la proposizione logica, o il giudizio, il quale senza di
esse non sorgerebbe nè verrebbe ad esistenza. Che il g
iudizio sia da Aristotele così concepito, ha una importanza straordinaria
rispetto alla quistione della Logica formale e della Logica reale od ontologica.
Comunemente si dice che la Logica di Aristotele è formale. Ciò è vero in
certi limiti e non in tutto e per tutto. Infatti, il dire che un giudizio
è tale soltanto rispetto alla verità ed alla falsità, vai tanto quanto
dire che un giudizio è vero o falso se- condo che esso è conforme o non
conforme alle coso, ossia alla realtà. Per forma che un giudizio non
potrebbe neppure aver luogo, se, a così dire, non sorgesse ed anzi non
fosse prodotto dalle stesse cose reali. Il Trendelenburg, autorevolissimo
in tal materia, dice (1): " Senza un tal rap- " porto alle cose
non v'è alcun giudizio ». E, conformemente a ciò, lo stesso Tren-
delenburg ne' suoi Ehm. logie. Arisi., p. 63, aggiunge: Aristotelem, qui quidem
enun- ciationis naturam in rerum peritate positam esse voluit etc. Del
resto, già in antico aveva pensato ed espresso lo stesso Boezio (nel cit.
Arisi. Stag. Organum, etc. pag. 6) dicendo: " Sed denominationes
istae (seilic. categoriae) ex rebus pendent etc. „ Ciò posto,
passiamo a dire del giudizio, o, che vale lo stesso, della proposizione'
logica. E per l'esposizione di questo punto, ne' limiti dello scopo che ci
proponiamo, ci varremo degli stessi Analitici, i quali furon composti
prima dell'Ermeneia, e nei quali Aristotele ne aveva appunto trattato.
La Proposizione (Ilqóxamg) (2). La definizione che ne dà Aristotele è la
seguente : Ilqóxamg [tèv odv èaxl Zóyog xaxatpaxixòg fj dnocpaxixòg xivòg
xaxd xivog : cioè: " La ; proposizione è un discorso affermante o
negante alcunché di alcunché „. E la fa- mosa traduzione latina ha:
" Propositio igitur est oratio affirmans vel negans aliquid "
de aliquo „. Subito appresso, determinando l'estensione e la
specifica natura della proposi- zione, o del predetto discorso, dice:
otixog de f xa&óÀov $ èv fiéqei j} dòióqiaxog. Àéyo) de xad-óÀov fiev
xò navxì i) (irjóevì fmaq%£iv, èv fiéqei de xò xivl % (irj navxì
iindqxeiv, àdióqiaxov òh xò Ò7iàq%eiv | fifj vnàq%eiv dvev xov xa&óAov, 1}
xaxà fiéqog, oìov xò xCùv èvavxiav slvai xrjv ctvxrjv èniax^firjv $ xò xrjv
^dovijv fifj eìvai dyadòv. Cioè, nella traduzione latina: " Haec
(scilic. oratio) autem aut est universalis, aut " in parte
(particolare), aut indefinita, universale appello omni aut nullo inesse,
in * parte vero, alicui aut non alicui aut non omni inesse, indefinitum
autem, inesse " aut non inesse absque universali aut particulari
nota, veluti contrariorum eandem t esse scientiam, aut voluptatem non
esse bònum „. (1) In Erlauterungen zu den Elementen d.
aristot. Logik, 2 e Aufl. Beri., 1861, pag. 6. (2) In Waitz,
Aristotelis Organon etc, voi. I, pag. 368, vi è una interessante nota sulla
voce jiQÓiuais e le corrispondenti in Cicerone, negli Stoici ecc.
„ T ™< T* *ma*m Tf ATJTTANA ED HEGELIANA, ECC. 107 7 LA
LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA K.AIS IIAJNìv E qtì ad ulteriore
intelligenza della eosa, debbo ricordare al lettore la famosa finzione
dello quattro forme di posizioni ohe rappresen ano una parte „ levan e
nella funzione del Sillogismo, cioè la Svenale affermativa, la umversaU nevai m
la 7er 9 ouóle colle uote iniziali di a, e, i, o, prendendo « ed i
da afnrnro ed e ed o da "^Urliamo egualmente l'attenzione del
lettore su di un'alt» parlar ^ricor- rente poco appresso nel luogo stesso
e riattaccante* a ciocche e teste detto che ZTu dire di una cosa ohe è
interamente in un'altra vai tanto quanto due che essa interamente
attribuita ad un'altra «-** -W*? « «• ohe il re che una cesa non è
in alcun modo frrt nHj B ™ lta °' uanto dire che essa non è in alcun modo
attribuita all'altra. Tott, ricenoscerann TelTe due espressioni de. e del
«* la ^ oorrisnondente espressione latina del Didum de amni et de
nullo (2). . Tvendo testò detto che nel trattare della Logica
aristotelica m sare, limitato ai punti fondamentali, Ve *V^SJS!^^^^^1
tale e che non posso a meno di riferire. Onesto concerne le regole della
conversione t esse e ricorre (ibid.) al paragrafo secondo; e per migliore
intelligenza ed appre - zam nt'o le allego nella sua integrità. Però
nell'allegarie, s> perche e comunemente neTa la lingua Francese, si
per la grande autorità che ha un traduttore delle opere aristoWi'he,
quale è il B~mv ok S^-H^rna, mi valgo della tradu- ZÌ °" Oomte
tonte proposition (eoa, quest'ultimo) exprime quo la obese est sim-
■ moment ou quelle est nécessairement, en qu'elle peut étre; et que dans
tonte •I pTee d'attributien, les prepesitions sont afflrmatives ou
negative*: comme, de - plus les prepesitions afflrmativee et négatives
sont tant6t nmverselles, tentot par • Mières tantot indéterminées,
il y a necessitò ,ue la proposto simple umver- • et privative
pnisse se eonvertir en ses prepres termes; par exemple, s, neon ■
nWsir Test un bien, il faut nécessairement anssi qu'aucun bien ne soit un
plaisir. ■ Crepo tion afiirmative doit anssi se convertir, non pas
en umverselle, ma, • L narticulière; si, par exemple, tout plaisir
est un bien, il faut anssi quo qnelqne . U sl un piparmi les prepesitions
particella, ,'afnrmative se cenver • nécessairement en particulière
; car si quelqne plars.r est un • „ue quelqne bien soit un plaisir.
Mais il n'y a pas de couversion necessaire peur • a prTpositien
privative: en effet, si homme n'est pas attrihnable qnelqne animai, . il
ne s'ensnit pas qne animai ne soit pas attribuable à qnelqne homnie.
■ La règie (cosi ibidem, al paragrafo terzo) sera la meme encore pour les
p.o (1) Notoriamente in queste Ufiene delle Scolo, si
esprime™ ciò, dicendo: A.serit a, no B »t «, veruni universiditer
«mbo: Aisorit i. nogut o, Ter™ particulantei ambo. (2) Il
si.eiao.to di „..t. ».'*. & — « * "»» 6 <* e
"""" PASQUALE D'EECOLE
" positions nécessaires, c'est-à-dire que l'universelle privative se
convertii en uni- ! vergelle, et que chacune des deux affirmatives se
convertit en parti culière... Quant ' à la P r oposition particulière
privative elle ne peut ici non plus se convertir, par " la mème
raison que nous avons dite plus haut. ■ Pour les propositions
contingentes, comme contingent se prend dans bien des " sens,
puisque nous disons que le non-nécessaire et le possible sont
contingente, * la conversion de toutes les propositions
affirmatives se fera ici de la mème ma- 8 niòre... La règie change pour
la conversion des négatives; mais elle est encore la * mènie P° ur
les Propositions où les choses sont dites contingentes, soit parce que
" nécessairement elles ne sont pas, soit parce qu'elles ne sont pas
nécessairement. *! Par exemple, si l'on dit que l'homme peut ne pas ètre
cheval, et que la blancheur [ peut a ' étre à aucun vètement, de ces deux
choses lune nécessairement n'est pas, " l'autre n'est pas
nécessairement. Ici donc la convertion a lieù de la mème ma- " mete.
En effet, si ètre cheval peut n 'appartenir à aucun homme, ètre homme peut
* n'appartenir aussi à aucun cheval; et si blancheur peut n'ètre à aucun
vètement, ' vétem ent aussi peut n'ètre à aucune blancheur. Autrement,
s'il n'y a nécessité que '• vétemen t soit à quelque blancheur, blancheur
aussi sera nécessairement à quelque * véfcemen t- C'est ce qu'on a
démontré plus haut. Au contraire, pour les choses que " l'on dit
contingentes, parce qu'elles sont le plus habituellement et naturellement
" de telle facon, ce qui est la définition que nous donnona de contingent,
il n'en * sera plus de mème pour les conversions négatives. Ainsi
la proposition unìversèlle " privative ne se convertit pas, et la
proposition particulière se convertit. Ceci de- ! viendra évident quand
nous traiterons du contingent. Bornons-nous ici à constater, " a P
rès tout ce <l ui précède, que pouvoir n'ètre à aucune chose ou pouvoir
n'ètre' " pas à quelque chose, ont la force d'affirmation. C'est que
le verbe pouvoir est " place dans la proposition comme le verbe
ètre; et que le verbe ètre, à quelques * attributions qu'on
l'ajoute, forme toujours et absolument une affirmation : par *
exemple, ceci est non bon, ceci est non blanc; ou, d'une manière toute
generale, « ceci est non cela. Du reste cotte théorie sera reprise et
confirmée plus loin. Mais, " quant aux conversions, ces propositions
contingentes seront comme les autres pro- " positions „.
E ciò basti per lo scopo propostomi, delle proposizioni, e passo a dire
dell'ele- mento del termine. Il Termine (8qo S ). Questo è definito
da Aristotele (ibidem), così: "Ogov óè xalib rig ov diaAvztai $
7tQÓ%aai Sì oìov %ó re xaTiryoQoépevov xal %ò xaWoi xait]yoQel-rcu f]
nQoa'uèefiévov % òuuQovftévov %ov elvai mei elvai. Ossia: Io chiamo
termine quello in cui la proposizione si scioglie, cioè l'attributo, e
quello a cui si attribuisce, sia che si aggiunga sia che si separi
Tessere o il non essere (nella traduzione latina: « Terminum vero appello
in quem dissolvitur propositio, ut attributum et id cui at- ■ tribuitur,
sive adiiciatur sive separetur verbum esse vel non esse „). L'attributo e
quello a cui si attribuisce sono ciocche comunemente chiamiamo il predicato ed
il soggetto. Ciocche è qui allegato intorno al termine
concerne il concetto e la definizione del medesimo. Ma vi sono altre
particolarità essenziali che si riferiscono ad esso. LA
LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.
109 Se non che, come queste si riferiscono più
direttamente al Sillogismo, e si inten- dono meglio dopo aver detto di
questo, così io passo a dir prima di questo. Il Sillogismo
(avUoy^óg). - Prima di venire ad Aristotele stesso, è bene ricordare un
importante luogo di Boezio, il qual luogo è tanto più importante, m
quanto si riferisce alla natura non solo del Sillogismo, ma anche degli
Analitici, che sono la teoria del Sillogismo stesso. "
Duo sunt, dice Boezio (1), in syllogismo, tamquam in homine corpus et
animus. « In corpore est materia et dispositio ac ordo partium: in animo
vis et vita et « actio. In superiorità Analyticis (Primi Analitici)
Aristoteles velut de syllogismi « praecipit corpore, hoc est, de
partibus, deque illarum nexu et compostone : ideoque « priora nominantur.
In his autem posterioribus, hoc est, interionbus, et magis re- « conditis
de anima ipsa syllogismi, nempe de demonstratione , de vi et efficacia «
rationis. Analytici libri sub Aristotelis nomine multi olim circumferebantur,
sed hi « quatuor ex orationis filo, totiusque praecipiendi rationis modo
ac facie, Aristoteli " sunt adiudicati, caeteris reiectis „. _
Veniamo ora ad Aristotele stesso, e primamente alla stupenda definizione
che egli dà del Sillogismo, la quale è e rimarrà sempre una delle più
belle, più precise e più espressive della vera natura del medesimo.
SvUoyiOfiòg èé hon Xóyog (2) èv § Ts&évwv tivùv foeqóv fi wv
^ifiévcov ég àvdyxyg ov^aivzi *$ mvw rfvai. Cioè (in italiano): Il
Sillogismo è un discorso, nel quale, posto alcun che, segue
necessariamente qualcosa d'altro da quel che e posto, perciò solo che è
posto. E la corrispondente traduzione latina ha: " Syllo- « gismus
autem est oratio, in qua quibusdam positis aliud quiddam diversum ab us
" quae posita sunt, necessario accidit eo quod haec sunt „. A
spiegar meglio il modo e la necessità della consecuzione, Aristotele
(nella predetta traduzione) soggiunge subito in continuazione: '< Dico
autem eo quod haec " sunt, propter haec evenire, ac propter haec
evenire intelligo, nullo esterno ter- " mino opus esse ut sit
necessaria consecutio Il caso della consecuzione necessaria senza bisogno
di altro termine esteriore è poi quello che costituisce il Sillogismo
perfetto (léAeiog ovXXoyiafióg), come Aristotele lo appella. Che il
Sillogismo imperfetto (cheftfc) si possa poi ridurre al perfetto coi
mezzi da Aristotele indicati, è cosa a tutti nota, che occorre appena di
rilevare. Invece è bene di rilevare intorno al concetto
aristotelico del Sillogismo alcune cose degnissime di attenzione. La
prima è che il rapporto delle proposizioni o de* -iudizii sillogistici ed
il procedimento de' medesimi son tali che costituiscono una necessaria
connessità. Il che importa che il Sillogismo non è un fatto accidentale,
ma è tale che ha una necessaria ragion di essere. La seconda è che la
conclusione non è una ripetizione e riproduzione delle due premesse, ma
esprime altro da quel che è espresso da esse: insomma, esprime un
principio nuovo. Questa seconda cosa è tanto più importante, in quanto in
tempi posteriori ad Aristotele è stata messa (1) In Abist.
Stag., Organum, già mentovato, pag. (2) Dic'egli subito all'inizio
dei Primi analitici. 110 PASQUALE
D'ERCOLE 10 innanzi la opinione (1) che
nella conclusione non si contenga un novello principio, ma soltanto la
ripetizione del contenuto delle premesse. Una terza cosa è che la parola
conclusione è a prendere ed intendere nel vero" significato di inclusione
di uno de' termini negli altri due : per forma che la conclusione esprime
addirittura il vero chiudersi de' termini l'un nell'altro. E
giacche si è accennato al concetto del Sillogismo, è hene di accennare
anche al concetto del Sofisma, il cui concetto è proprio l'opposto di
quello del Sillogismo. Infatti, il concetto di quest'ultimo, come si è
visto, è costituito da ciò, che le due premesse conducono ad una
necessaria conclusione. Il concetto del Sofisma (tò oó- <piafia) (2),
al contrario, è costituito da ciò, che la conclusione è in contraddizione
colle premesse, che, cioè, queste non concludono rettamente, e però concludono
fal- samente. Ma del Sofisma si dirà più ampiamente in seguito.
Ora è opportuno di ritornare alla esposizione dei Termini, ad
integrazione di ciocche di questi è stato teste detto. I Termini di un
Sillogismo son tre, e non pos- sono essere più di tre (Sqol tQsìc;). I quali
tre hanno un contenuto od estensione diversa; e sono il termine maggiore
(fist^ov àxqov), il minore (è'Àanov) e il medio (%ò \ièaov). Aristotele
li designa anche puramente e semplicemente coi nomi di primo (tò
TiQ&'cov), ultimo (tò ia%a%ov) e medio (tò [aégov). Il numero
di soli tre termini non vien contradetto neppure dal caso del Poli-
sillogismo, nel quale vi possono essere più medii. Perchè i più medii son
ciascuno sempre il medio di un solo Sillogismo nei varii Sillogismi
costituenti il Polisillo- gismo stesso, cominciando dal cosidetto
Prosillogismo e terminando coll'Episillogismo. Indicata la
denominazione e l'estensione de' Termini, la maravigliosa e precisa mente
aristotelica passa alla definizione di essi, che è la seguente: *
Aèyoy de fisl^ov \iev àxqov èv tò fièaov èativ, e'àccttov de tò imo tò
fièaov òv... KaÀà) óè fièaov fièv o xal aèxò èv àÀÀ(p xal écÀAo èv
to-ùto) èativ, 8 xal %f\ &éoei yiyvEtai fièaov. axqog oh tò aè%ó te
èv dAÀq> ov xal èv & àXXo èaiiv (3). Cioè (in italiano): Chiamo
(termine) maggiore quello in cui è (contenuto) il medio; e
(termine) minore quello che è accolto nel medio Chiamo termine medio
quello il quale è esso stesso in un altro, e nel quale è alla sua
volta un altro, che divien medio anche per posizione. Chiamo poi estremi
sì quello che è in altro, sì quello in cui è altro. E la nota traduzione
latina ha : " Maius extremum appello, in quo medium " est,
minus autem quod est sub medio... Voco autem medium quod et ipsum est
" in alio, cum aliud in ipso sit, et positione quoque sit medium. Estrema
autem " appello et id quod est in alio, et id in quo est aliud
„. L'esser medio per posizione vuole uno schiarimento, che fa
comprendere come questa espressione aristotelica nella dizione greca è
perfettamente esatta. Infatti, nella prima Figura sillogistica (che è
quella del Sillogismo perfetto) noi diciamo: B (l'uomo) è A (mortale); C
(Pietro) è B: dunque C è A. Aristotele, invece, nella dizione greca
dice: A vale di B; B vale di C; dunque A vale di C.
(1) Opinione già espressa dagli antichi scettici, e poi ripetuta ne'
tempi moderni. (2) Amst, Top., 8, 11. (3) Ibid.,
paragr. 4. Sicch, dna,a, U medio -» nt .a vera
Ma questa popone medtana non e q»> ^ ^ come la
conclusione. ; Qfflntfismo Aristotele ne fa cadere Però, ooanto a
-amerò * che ne. Sillogismo non tatto il poso «olle promesse, e
penano m p u» Ae e dimostraai(m e ed ogni vi sono ohe A»
proposizioni. E dopo aver dette ^consta, e ogn Siilogismo di soli
tre termini (nella tradazmne '^^Zm^J^,: ■ 8 iCplan.mestotiams y llo
S ismnmoe„stareexdaabas propos t,on » ^ p preponi ohe 4 »i sono
indahhiamen e ^ ^ adsu . • mini sunt doae propomtiones (o. yaQ r?«S
»v » 3ec nndnm pria- ■ ma t„r, at i„i,i.dictnmest,adper a eiendos
«J**»^^^^, Lia ■ eipa.es pro^ositiones ^ * -^J^TlC^ » —
: ffs :^^r^ti~ - *U-r + — - ? dimidia pars propositionum „. _
. . , , q:ii ft „i Bm0 la Logica aristo- ::' "re S?- " —
""• seguenti otto (ricorrenti in tutte le Logiche delle
Scuole). Termina esto triple*, medius, maiorque, minorque;
Latius hos quam praemissae concludo non vult; Nequaquam medium capiat
concludo oportet; Jtot semel, mot iterum medi™ generalità esto;
Utraque si praemissa neget, mail inde sequetur; Ambae affirmantes
nequeunt generare negantem; Nil sequitur geminis ex particulanbus
unquam; Peiorem sequitur semper conclusio partem. ki igiene
di ,neste rogo.e si a^ «ohe ^ le cosi dette diverse forme di Sillogismo,
cerne sono 1 Enhmema, V pag. 95 seg.), ne allego £££££ oviaiano: .
SOTV are potai: perderò Dd»~~ _«* ^^tldolo .11. forma sillogistica
di tre prepo- " an possim, rogas „ ? & lo spiega, nuu
taPP itit:::v:c: o u^^ 112 PASQUALE
D'ERCOLE 12 lettore ne trova in tutte le
Logiche che vanno per le Scuole; e passo a dire delle Figure
sillogistiche pur ricorrenti negli Analitici, e intimamente connesse col
Sil- logismo. Le Figure (%à affiliata) sillogistiche.
Secondo Aristotele il Sillogismo è di tal natura che si distingue in tre Figure
sillogistiche, delle quali la prima {o%i\fia jiqùxov) poggia sul Sillogismo
perfetto, la seconda e la terza (axVP® devtegov e o%ruia tohov) poggiano
sul Sillogismo im- perfetto. E qui è necessario di rilevare
una cosa, che a primo aspetto pare di poco mo- mento, ma che è invece
importantissima. Ed è che Aristotele nella esposizione e dimostrazione
delle predette tre Figure si serve come simboli delle lettere dell'Al-
fabeto greco, specialmente delle prime tre del medesimo a, /?, y.
Il significato dell'adoperamento di tali simboli, specialmente per
l'applicazione di queste alle Matematiche, sarà detto tra poco.
Tornando alle Figure, è bene avvertire che Aristotele per esse si vale in
com- plesso degli stessi esempi allegati per triplicità di termini,
dovendo ciascun di questi rappresentare uno de' tre termini
sillogistici. Così, per darne una idea, nella prima Figura (ove
adopera i simboli alfabetici a, p, y) si vale de' termini piacere - bene
- animale ; animale - uomo - cavallo ; scienza - linea - medicina; bene -
abito - sapienza ; bene - abito - ignoranza; bianco - cigno - neve.
Nella seconda Figura (ove adopera i simboli alfabetici <5, e, £, ecc.)
si vale di questi esempi, animale - cavallo - uomo ; animale - inanimato
- uomo ; animale - scienza - animale selvaggio; corvo - neve -
bianco. Nella terza Figura (ove adopera i simboli alfabetici n, q,
o) si vale di bel nuovo degli stessi esempi, che ricorrono nella prima e
nella seconda. E, per essere quanto è possibile esatti, soggiungo
che nelle stesse due Fi- gure seconda e terza, oltre agli indicati
simboli alfabetici, si vale anche dei primi tre a, /?, y. La
conclusione cui giunge Aristotele nelle indicate operazioni è che " tutti
i * sillogismi imperfetti diventan perfetti mediante la prima
Figura (nel famoso testo * latino : perspicuum est omnes
imperfectos syllogismos perfici per primam figuram) „ . La
maravigliosa analisi di Aristotele intorno al Sillogismo non si arresta a
ciò, ma si estende alla considerazione e determinazione di altre forme
del medesimo, quali sono il Sillogismo per Analogia, il Sillogismo per
Riduzione all'impossibile, quello per Induzione, per Ipotesi, per
Verisimiglianza, ecc. Ma noi non possiamo entrare anche nella
considerazione di queste forme speciali sillogistiche, e passiamo a
consi- derare la seconda delle tre predette cose. Questa
seconda è quella concernente la diretta relazione delle Scienze matema-
tiche colla prima Figura, o, che vale lo stesso, col Sillogismo perfetto : il
qual punto è da Aristotele trattato nel Primo degli Analitici
Posteriori. Prima di riferire da questi ciocche concerne le
Matematiche, rilevo che Aristo- tele anche per queste, come ha fatto per
le altre discipline, si vale di esempi per chiarire e determinare la
cosa. Se non che gli esempi che egli arreca per esse sono
13 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED
HEGELIANA, ECC. 113 sopratutto di natura
matematica. Infatti (nel paragrafo 5 ibid.) allega i seguenti esempi
tratti dal punto, dalla linea, dal triangolo, ecc.: K Triangulo, dio'egli
nella ■ famosa traduzione latina, inest linea et lineae punctum; ed
anche: Triangulo, * qua est triangumm, insunt duo recti, quia per
se triangulum est aequale duobus " recti s, etc. ». Ed
è, inoltre, oltremodo importante per la determinazione della natura delle
Scienze matematiche, che per lui (ibid., paragr. 13) Me Scienze matematiche
versano " intorno alle forme, perchè le cose matematiche non sono in
alcun soggetto „ (" etenim " scientiae mathematicae circa formas
versantur, quia res mathematicae non sunt in * ullo subiecto „)
(1). Ciò posto, venendo alla considerazione della diretta relazione
delle Scienze mate- matiche col Sillogismo e colle Figure sillogistiche,
dice (ibid., paragr. 14): « Delle 8 Figure la prima è attissima a
produrre la scnenza; imperocché le Scienze matematiche \ "
effettuano le dimostrazioni .mediante tal Figura, come V aritmetic a, la
geometria^ e | « l'ottica „ (nel testo latino: " Ex figuris autem
prima est ad scientiam gignendam * aptissima ; nam mathematicae
scientiae per hanc figuram demonstrationes afferunt * ut
arithmetica et geometria et optice Passo alla terza ed ultima delle
tre cose predette, a quella, cioè, concernente la formazione della
conoscenza. La qual formazione è dal grande filosofo (al paragr. 19,
ultimo degli Analitici Posteriori) espressa come segue: " Dal senso si
genera la " memoria Ma dalla memoria, formatasi dalla ripetuta
riproduzione della stessa * cosa, si genera l'esperienza; giacche
molte memorie costituiscono una sola esperienza. * Se non che,
dalla esperienza si genera il principio dell'arte e della scienza;
' dell'arte, se spetta alle cose della generazione (2); della scienza, se
spetta a ciocche «è,; (nella traduzione latina: " ex sensu igitur
fit memoria ex memoria vero * saepe eiusdem rei facta fit
experientia; multae enim memoriae numero sunt una * experientia; at
vero experientia fit principium artis et scientiae, artis, si per-
* tineat ad generationem, scientiae, si pertineat ad id quod est „)
(3). La considerazione dell'arte è ciocche con stupenda
designazione poco appresso è denominato <5ófa, mentre la
considerazione della scienza è appellata Àoyiafióg (4). Ed ora è
tempo che veniamo a determinare quale è in Aristotele il significato
dell'adoperamento dei simboli alfabetici come espressione del Sillogismo e
delle Figure sillogistiche. Ebbene, tal significato, brevemente indicato
nella sua genericità, è che le proposizioni del Sillogismo (le premesse e
la illazione) in tutte le Figure sillogi- stiche di questo vengono intese
e adoperate in Forma universale, ossia in forma estensibile ed
applicabile a tutti gli elementi della Realtà. Ora, questi elementi
sono tre, il quantitativo, il qualitativo, e l'unità di entrambi, ossia
il modale (il modo, la misura). Che questo triplice elemento sia
costitutivo (1) E subbie tto ...vai. qui obbietta, cioè,
singola e determinata ,_cosa_del_la realtà. (2) La generazione
concerne il sorgere e perirò delle cose. (3) " Id qnod est „
nel corrispondente greco rò.Sv, e ciocche nell'Hegelianismo, e
propriamente nella Logica hegeliana, è stato designato come das Sein an
und fiir sich. (4) Anche questa denominazione di Àoyurpós è degna
della più grande considerazione, perche Aristotele ha già con essa
additato e determinato l'elemento logico come elemento scientifico per
eccellenza, lasciando all'arte il carattere di elemento soltanto
opinativo. D'Ercole. 3 114 PASQUALE
D'ERCOLE 14 della Realtà, emerge indirettamente
dalla stessa tavola aristotelica de' giudizii, cioè de' giudizii
quantitativi, qualitativi e modali, come più chiaramente si sono
appellati nelle posteriori Logiche aristoteliche delle Scuole.
Qui basti l'avere accennato di ciò; le importanti applicazioni che ne
derivano rispetto alla Scienza matematica e alla voluta corrispondente
Logica matematica le faremo, quando giungeremo alla esposizione e
giudicazione di quest'ultima; e ritor- niamo per ora all'argomento delle
Figure sillogistiche, per prendere in considerazione, da una parte, i
Modi, dall'altra, il Numero di esse. Quanto ai Modi, è di bel nuovo
il caso di dire che essi sono comunemente al- legati e discussi in tutte
le Logiche aristoteliche delle Scuole. Fra i tanti uomini autorevoli che
potrei citare a tal riguardo, rimando il lettore alla citata Logica e
Storia della dottrina logica di Friedrich Ueberweg, che ne tratta ampiamente
a pp. 296-344. Ma, per un breve ricordo di questo punto della
Sillogistica, mi varrò invece del nostro insigne Galluppi, il quale,
nelle Lezioni di Logica e Metafisica, Milano, Voi. I, pp. 358-385, espone
tal dottrina con la solita sua lucidezza e preci- sione. Della sua
esposizione e discussione di questa materia, io riferirò brevemente 1 essenziale.
" Il Modo del sillogismo (dice egli, p. 36) consiste nella
disposizione delle tre * proposizioni secondo le loro quattro
differenze A, E, I, 0 „. Ora, * secondo la dottrina delle
combinazioni, quattro termini quali sono A, E, " I, 0, venendo presi
tre a tre, non possono diversamente disporsi in più di 64 ma- *
niere ; ma di queste 64 maniere, 54 sono escluse dalle regole generali
sillogistiche „ che sono state innanzi allegate: " restano perciò
soli dieci Modi concludenti „. Ma ciò non vuol dire " che solo
dieci sieno le specie de' Sillogismi, perchè un " solo di questi
Modi può formare diverse specie „, secondo la varia disposizione de' tre
termini innanzi detta. E qui il nostro Galluppi dispone addirittura
i tre termini secondo le possibili combinazioni, e ne risulta una tavola
di 64 Modi, emergenti dalle quattro Figure sillogistiche, delle quali
egli indica anche brevemente le diverse regole. A questo breve
cenno aggiungo però volentieri due cose: l'una, alcuni versi memoriali
dei Modi delle quattro Figure: l'altra, un esempio di Sillogismi secondo
i predetti Modi. I versi memoriali, fra i tanti, li allega
Federico Ueberweg, loc. cit., p. 343 seg., come segue:
Barbara, Celarent primae, Darii Ferioque. Cesare, Camestres,
Pestino, Baroco secundae. Tertia grande sonans recitat Darapt,
Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Quartae Sunt Bamalip,
Caleraes, Dimatis, Fesapo, Fresison. Dinanzi a queste parole
stranissime e non additanti per se stesse alcun senso, il buon Galluppi
fa la seguente sensata osservazione: " Queste formole (dic'egli,
" ibid., p. 368), di cui la prima cominciava infelicemente con barbara,
sembreranno in " effetto oggi molto barbare. Esse hanno ricevuto più
ingiurie in un secolo, che onore " in mille anni; esse hanno
terminato col cadere in un intiero obblio; coloro che
15 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED
HEGELIANA, ECC. 115 * oggi le volgono in
ridicolo non si hanno sempre dato la pena di meditarle... Il filo- *
sofo che riflette con attenzione sulle regole dell'antica Logica è sorpreso nel
vedere " sino dove gli autori avevano portato l'analisi del
ragionamento. Colla più severa * imparzialità alcuno non può
impedirsi di convenire che ciascuna di queste regole * era di una
rigorosa esattezza, e che il loro insieme era sì completo che una sola ■
delle forme possibili del ragionamento non era loro sfuggita. Aristotele, senza
dubbio u non aveva sovente il soccorso dell'esperienza : era questa la
disgrazia del secolo, nel * quale egli nacque; ma egli è stato
forse il pensatore più profondo, il genio più * eminentemente
didattico che si sia mostrato sull'orizzonte della filosofia. Io dubito 8
che siensi innalzate dopo teoriche sì belle come quelle di cui egli ci ha
lasciato il * modello „. Quanto alla profondità e
genialità di Aristotele, il Galluppi ha perfettamente ragione, e queste
due doti spiccano di tale luce e verità proprio nella sillogistica
aristotelica e ne' Modi della medesima, che i posteri non hanno avuto ad
aggiungervi nulla, o nulla d'importante. Solo che, contrariamente al
Galluppi, che accoglie il pensi'ere, da non pochi seguito, delle quattro
Figure, il grande Stagirita non ne ammette che tre con tre soli corrispondenti
Modi (1). Ma del Numero delle Figure e de' Modi fra poco. Un esempio,
intanto, del ragionare e concludere secondo le quattro Figure, è pel
Galluppi il seguente: (1) La tavola aristotelica dei Modi,
quale ricorre in Waitz, Arisi. Organon, voi. I, pag. 385 (rilevando le
espressioni tecniche di nata navtòg, **** m óevòg ecc., sia colle
corrispondenti De omm et de nullo ecc., sia colle note quattro iniziali
A, E, I, 0), è la seguente: I. a', tò A xatà jiavTÒg tov
B, tò B %mà navTÒg tov P, tò A narà navtòg tov P.
IL tì'. TÒ A xatà fAfi&svòg zov B, tò A xatà navzòg zov
P, rò B xazà fiydevòg zov P. y'. tò A xatà /^ijóevòg
zov B, zò A xazà Tivòg tov P, zò B xatà Tivòg tov P ov.
III. tò A xazà navzòg tov P, tò B xazà navzòg zov V,
zò A xazà zivòg zov B, y' . zò A xazà zivòg zov P, zò B
xazà navzòg tov P, zò A xazà Tivòg zov B. e', zò A xazà
zivòg tov P ov, tò B xazà navTÒg zov P, tò A nata zivòg tov B
oli §. tò A nata ^ijóevòg zov B, tò B xarà navTÒg tov
P, tò A xazà /^tjdevòg tov P. /5'. rò A xazà navzòg tov
B, tò A %aTà j^rjÒEVÒg zov P, tò B naia fA,t]devòg zov
P. 5'. tò A xazà navzòg tov B, zò A xazà zivòg zov P
off, tò B xazà zivòg zov P oi!. zò A xazà [A,t]Sevòg
tov P, tò B xazà navzòg tov P, tò A xarà zivòg tov B
ov. ò". tò A nata navTÒg zov P, zò B xazà zivòg tov
P, tò A xazà Tivòg tov B. zò A xarà fifiòsvòg zov
T, tò B xazà zivòg tov P, tò A xatà tivòg tov B oil.
116 PASQUALE D'ERCOLE
16 I Figura (avente il medio come sogg.
del magg. e predio, del minore) Ogni sostanza pensante è
semplice, L'anima umana è sostanza pensante, L'anima umana è dunque
semplice. II Figura (avente il medio come predicato de'
due estremi) Niun corpo è una sostanza pensante, L'anima umana è
una sostanza pensante, L'anima umana dunque non è corpo. Ili
Figura (avente il medio come soggetto de' due estremi) Ogni
sostanza pensante è semplice, Ogni sostanza pensante è
indistruttibile, Dunque qualche sostanza indistruttibile è
semplice. IV Figura (avente il medio come predio, del
maggiore e sogg. del minore) Qualche essere semplice è sostanza
pensante, Ogni sostanza pensante è attiva, Dunque
alcune sostanze attive sono esseri semplici. Il numero delle Figure
e de' Modi. — Il lettore ha visto a pie' di pagina le tre Figure e i tre
corrispondenti Modi aristotelici allegati dal Waitz. Del Waitz riferisco
volentieri una osservazione concernente la seconda e la terza Figura, nelle
quali ei dice (loc. cit.): " ultimum modum secundae et quintum
tertiae Figurae non demonstrari nisi 8 deductione facta ad absurdum
„. Galluppi, come si è visto, ha opinato doversi ammetter come
valida anche la quarta figura e i corrispondenti Modi. Ma, francamente
detto, il Sillogismo, ch'egli ne arreca ad esempio, da una parte, cammina
stentatamente, dall'altra, è di difficile comprensione. In generale,
potrebbe dirsi che la mente umana nel suo naturale proce- dimento logico
non ragiona in quel modo. E un ragionamento logico che contraria la
natura nè può considerarsi come il migliore, nè deve ammettersi come buon
proce- dimento logico. À conferma di tale osservazione rilevo
che in generale i grandi filosofi si son tenuti alla aristotelica
triplità di Figure e di Modi. Notoriamente, è stato il famoso medico
Claudio Galeno di Pergamo (1) quello che ha così " legato il suo
nome alla Dottrina del Sillogismo (2), che apparisce in " quasi
tutti i compendii della Logica, anche ne' più triviali. Galeno, cioè,
secondo * l'espressione comune, ha accresciuto il numero delle tre
Figure aristoteliche del Sillo- " gismo categorico coll'aggiunzione
di una quarta, nella quale il concetto (o termine) " medio è
predicato della maggiore e soggetto della minore „. Soggiunge che "
la * notizia di tale innovazione „ " non si trova in tutta la
Letteratura greco-romana „, (1) Zellek, Grundriss d. Gesch.
d. Griechischen Phiìosophie, nella citata 10" ediz. del 1911 del
Loktzing, pag. 298, come anni di nascita e di morte 131-201 d. C.
(2) Così Prantl, Gesch. der Logìlc, età, I Bd., pag. 570 s.
ECC. 117 17 LA LOGICA ARISTOTELICA,
LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, e che proviene da fonte arabica, e
propriamente da Averroe. Il quale Averroe, per Giunta ne fa menzione
proprio nella confutazione che fa della quarta Figura. Alcune altre
particolarità importanti tanto rispetto ai Modi, quanto rispetto alle
Figure sono le seguenti. Quanto ai Modi, Aristotele, per
ognuna delle tre Figure da lui ammesse e cor- rispondentemente alle
possibili combinazioni delle loro proposizioni secondo le indi- cate
lettere A E I 0, ha trovato che i Modi valevoli, perchè non contrarli alle
otto regole sillogistiche, sono 4 per la prima Figura, 4 per la seconda e
6 per la terza, in tutto dunque quattordici. Galluppi, che
(con Galeno) ha ammesso la quarta Figura, ha anch'egli esaminato le
combinazioni e Modi che son possibili e valevoli in questa; ed ha trovato
che, accanto ai molti Modi contrarli alle otto regole sillogistiche, ve
ne sono però 5 validi; sicché il nostro filosofo napoletano, invece di
14, ammette 19 Modi validi. Quanto poi alle Figure, va considerato
un ultimo punto importante, cioè, quello della riduzione della 2* e 3 a
Figura, che danno sillogismi imperfetti, alla l a che sola li dà
perfetti. , Ora, tal riduzione, secondo Aristotele, avviene per
mezzo di conversione: Azi yaq ytyvstai òià %fjs dvvunqof^g ovUoyiGfióg,
dic'egli, Anal. Pr., I, cap. 7. Inoltre, la conversione può
avvenire in due modi, cioè, o estensivamente, ovvero per riduzione all'assurdo
òemtix&$ % tov àòvvàiov). E da ultimo, secondo lui, "
tutti i sillogismi, quando sono rettamente convertiti, « si riducono a
sillogismi universali della prima figura „ {tpaveQÒv ovv fot 7zdv%eg
àva%Sf\aov%ai eig rovs & %<$ nqcbto? oxfipan xa&óXov
ovMoyiopovg). Di quest'ultimo punto, a maggior intelligenza e a
complemento della cosa, allego la solita traduzione latina non soltanto
de' passi corrispondenti a quelli da me alle- gati in greco, ma anche
della rimanente parte, che è dimostrativa e illustrativa dei medesimi La
traduzione suona così: « Semper enim fit syllogismus per conversionem, «
praeterea manifestimi est pronuntiatum indefinitum prò attributivo
particulari « acceptum efficere eundem syllogismum in omnibus figurili,
item perspicuum est « omnes imperfectos syllogismos perfici per primam
figuram. aut enim demonstratione " aut per impossibile perficiuntur
omnes: utroque autem modo fit prima figura, ac « demonstratione quidem si
perficiantur, fit prima figura, quia sic omnes perficie- « bantur per
conversionem: conversio autem efficiebat primam figuram. si vero per «
impossibile confirmentur, adhuc fit prima figura, quia posito quod falsum est,
syl- " logismus conficitur in prima figura, ut in postrema figura si
tò a ac tò p omni y, « probatur tò a inesse alicui p. nam si tò a insit
nulli 0 ac tò § omni y, tò a « inerit nulli y. sed antea positura erat
omni inesse, similiter fit etiam in alns. licet • etiam reducere omnes
syllogismos ad syllogismos universales primae fìgurae. nam » qui fiunt in
secunda figura, sine dubio per illos perficiuntur, non tamen omnes «
eodem modo, sed universales converso pronuntiato privativo, particularmm
autem « uterque per deductionem ad impossibile, particulares autem primae
fìgurae perfì- » ciuntur quidem per se ipsos, sed licet etiam secunda
figura eos confirmare ducendo « ad impossibile, ut si tò a inest omni |3
ac tò p alicui y, tò a inerit alieni y. nam » si nulli insit, omni autem
fi insit, certe nulli y tò § inerit: hoc enim scimus per « secundam
figuram. similiter enim in privativo syllogismo erit demonstratm. nam
118 PASQUALE D'ERCOLE 18 * si zò a nulli | ac %b 0
alicui y inest, tò a alicui y non inerit. etenim si omni ■ insit ac nulli
§ insit, zò § nulli y inerit: hoc enim erat media figura, itaque cum
" omnes sillogismi mediae figurae reducantur ad syllogismos universales
primae 1 figurae, particulares autem primae ad syllogismos secundae,
perspicuum est etiam " syllogismos particulares primae figurae
reduci ad syllogismos universales primae " figurae. qui vero fiunt
in tertia figura, terminis quidem universaliter acceptis statim "
per eos syllogismos perficiuntur, terminis autem in parte sumptis perficiuntur
per " syllogismos particulares primae figurae. hi vero ad illos
reducti sunt: quapropter " ad eosdem reducentur etiam syllogismi
particulares tertiae figurae. perspicuum " igitur est omnes reduci
ad syllogismos universales primae figurae „. E ora, ritenendo di
aver detto a sufficienza della Sillogistica aristotelica, passo a dire
del quinto scritto dell'Organo, cioè di quello de' Topici. I
Topici {Tonino). — Di questo scritto del grande Stagirita Boezio (loc. cit., p.
7) dà la seguente notevole informazione e giudicazione: " Topica:
hoc est, loci, unde " ducuntur argumenta. Opus est octo voluminibus
distinctum, varium sane, hoc est, " multae eruditionis et
observationis rerum diversarum. Sed ut illa omnia primus " ipse
pariebat, non potuit tam multa simul edere, simul expolire : itaque relieta
est " velut ingens quaedam materia et dives, ad extruendum
pulcherrimum aedificium Questo giudizio di Boezio, primamente, è
vero, come il lettore stesso se ne convincerà dal cenno che noi faremo
de' Topici; secondamente, ha grande importanza anche per l'influenza da
Boezio esercitata nell'insegnamento logico delle Scuole cri- stiane
medioevali (1). Accanto al giudizio di Boezio debbo riferirne un altro
vera- mente acuto e profondo di Trantl {Gesch. d. Logik im Abendlande,
t** Bd., 1855, Leipzig, pag. 341) sulla grandezza speculativa della mente
di Aristotele. Prantl dice che ■ la superiorità {Ueberlegenheit) della
mente di lui era capace di esaminare secondo " il concetto
{begrifflich) e di costruire teoricamente secondo concetti adeguati anche
■ campi (Gebiete) ed aspirazioni che sono al di sotto della speculazione
propriamente " detta », come sono il campo e la materia de'
Topici. Rispetto a' Topici riferisco volentieri anche una
circostanza rilevata dal Zeller (2), che cioè, ■ il 5° libro de' Topici
rimastoci non provenga da Aristotele, come dimostra " Pplug, de Ar.
Topicorum libro V (1908) „. Ma, ciò nonostante, noi ne accenneremo
egualmente. Cominciando dal Libro I, Aristotele subito nel primo
paragrafo indica lo scopo de' Topici in genere, il quale scopo è quello
di trovare il metodo di argomentare di ogni problema proposto dajrobabili
je£ èvóófrv), e disputarne in guisa da non dir nulla di ripugnante. Nella
traduzione latina il predetto scopo è indicato così: * Propositum huius
tractationis est invenire methodum per quam possimus argumentari
(1) Tale influenza viene attestata da tutte le parti; la confermano, tra
gli altri, Friedrich Ueberweg-Heinze nel Grundriss d. Gesch. d.
Philosoph., 8° Aufl., das Alterthum, Beri., 1894, p. 213. (2) Nel
Grundriss d. Gesch. d. GriecMsohen Philosophie della citata ediz. 10% 1911 del
Loetzino, pag. 174. 19 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA
LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 119 « de omni proposito
problemate ex probabilibus, et ipsi disputationem sustinentes
" nihil dicamus repugnans „ (1). _ E soggiunge doversi
innanzi tutto dire " che cosa sia il Sillogismo „, estenden- dosi
intorno a questo ed indicarne le diverse specie, ecc. E non ha torto di dire
del Sillogismo, della sua natura, delle sue specie, ecc.; perchè, se lo
scopo della tratta- zione de Topici è quello di trovare il metodo di
argomentare, foss'anche da' probabili, l'argomentare è un sillogizzare, e
quindi bisogna conoscere come si sillogizza, ecc. Ed in generale il
lettore vedrà che in questi Topici si tratta di una grande quantità di
cose di cui si è già trattato nelle Categorie, nell'Ermeneia e negli Analitici
tanto Primi quanto Secondi. Intanto Aristotele, sempre
preciso, dice subito ivi stesso che cosa debba inten- dersi per
probabile. E lo determina dicendo (nella traduzione latina): "
Probabile « autem sunt ea quae videntur omnibus vel plerisque vel
sapientibus, atque his vel « omnibus vel plerisque vel maxime notis et
claris „. Nel secondo paragrafo investiga e determina « a quante e
quali cose sia ntite « questa trattazione , de' Topici. E statuisce che
ella sia " utilis ad tna, ad exerci- « tationem, ad congressi, ad
philosophicas scientias. quod igitur ad exemtationem « sit utilis, ex his
perspicuum est, quoniam hanc methodum habentes facile de omni « re
proposita poterimus argumentari, ad congressi autem, quia multorum
opmiombus » enumerata, non ex alienis sed ex propriis singulorum
sententns poterimus cum « eis a-ere refellentes quod non recte dicere nobis
videtur. ad philosophicas autem « scientias, 'quia cum poterimus in
utramque partem dubitare, facile in smgulis per- " spiciemus
veruni et falsum „. Il predetto metodo, soggiunge egli nel terzo
paragrafo, sarà perfettamente pos- seduto, quando lo si adoprerà nella
retorica e nella medicina, come fanno l'oratore e il medico.
Ho rilevata volentieri questa circostanza della retorica e dell oratore,
perche tutti sanno come questa materia trattata ne' Topici è passata
realmente, se non m tutto certo in buona parte nella Retorica: Retorica,
che specialmente noi vecchi abbiamo studiata, con qualche profitto sì, ma
anche con non poca pedanteria d'in- \ segnanti e d'insegnamento.
Sono stato piuttosto diffuso nella indicazione di queste generalità del
1° Libro de' Topici per dare una idea della trattazione e del modo di
trattazione de' mede- simi. Ma ora procederò più speditamente e più
brevemente, fermandomi però alquanto di più ne' punti di maggiore
importanza. Nel paragrafo 4 continua ad occuparsi di sillogismi e
di proposizioni, ma con riguardo ai principii comuni ad entrambi, come
sono il genere, il proprio, l'accidente, Indifferenza, la definizione,
ecc.; e nei seguenti paragr. 5 e 6 determina e illustra siffatti principii.
Nel paragr. 7 pone il quesito: 11 Quot modis idem dicatur , ; e lo
risolve dicendo: (1) Quanto alla materia de' problemi
proposti, anch'essa, secondo l'uso delle Scuole, fu espressa nel seguente
verso memoriale: Quis? quid? ubi? quibus auxilds? cur? quomodo? quando?
120 PASQUALE D'ERCOLE 20 ' Videri autem possit idem,
ut typo expìicem, tripertito distributum esse, aut enim ■ numero
aut specie aut genere idem soliti sumus appellare, etc. Più avanti
al paragr. 9 si propone di definire i generi delle Categorie, e di indi-
carne il numero, che è di dieci; e il relativo luogo è stato già
riferito. Nei paragr. susseguenti determina la natura della
proposizione dialettica, del sillogismo dialettico, della tesi
(determinata al paragr. 11 come " sententia alieuius * nobihs
philosophi , ut dicebat Antisthenes ,). Nel seguente paragr. 12 si
propone di " esplicare quot sint rationum dialecti- « «tram species
„; e in seguito si occupa ancora de 3 generi delle proposizioni, per
quindi occuparsi nel paragr. 17 della somiglianza (e propriamente della «
similitudo ■ consideranda in iis quae sunt in diversis generica „).
E con ciò si chiude la consi- derazione del 1° Libro. Il
lettore che consideri bene la trattazione aristotelica deve convenire
nell'acu- tezza e giustezza del giudizio di Boezio intorno ai
Topici. Libro II. Nel primo paragrafo di questo, Aristotele torna
ad occuparsi de' pro- blemi, in quanto « alia (scilic. problemata) sunt
universali», alia particularia „ ; e si fa a considerarli ne' diversi
rispetti della generalità e della particolarità. Nei paragrafi
immediatamente susseguenti torna a considerare i varii modi secondo cui
alcunché si dica, sia quantitativamente sia qualitativamente. Ma
nel paragr. 7 passa a considerare un punto importantissimo, e
propriamente quello concernente: La Opposizione e il
Principio di contraddizione: il qual punto è da lui considerato ne più
minuti casi ed aspetti, con relative distinzioni, suddistinzioni ecc.; e noi
ne riferiremo con qualche ampiezza. ' Q uoniam au * em
contraria (dic'egli, nella traduz. latina) sex modis inter se *
coniunguntur, contrarietatem autem efficiunt quattuor modis coniuncta,
oportet " accipere contraria prout expedit evertenti et adstruenti.
sex igitur modis ea coniungi " manifestum est. aut enim utrumque
utrique contrariorum iungitur, atque hoc bi- " fariam, ut de amicis
bene mereri et de inimicis male, vel contra de amicis male ■ et de
inimicis bene, autem ambo de uno, et hoc quoque bifariam, ut de amicis '
bene mereri et de amicis male, vel de inimicis bene mereri et de inimicis
male. " aut autem de ambobus, et hoc quoque bifariam, ut de amicis
bene et de inimicis • bene, vel de amicis male et de inimicis male,
primae igitur duae coniunctiones " quas dixi, non faciunt
contrarietatem : de amicis enim bene mereri et de inimicis " male
non sunt contraria, cum ambo sint optabilia et eorundem morum effectus „
(badi il lettore alla circostanza e corrispondente espressione del morum
effectus, che net testo greco suona: d/upóreQa yÙQ aÌQ£%à Hai zoì) av%ov
ij9ov S ). « neque item contraria ■ sunt de amicis male et de
inimicis bene mereri. nani et haec sunt ambo fugienda " et eorundem
morum effectus „. E Aristotele nelle dette distinzioni e
suddistinzioni non si arresta neppur qui, ma procede ad altre, che noi
omettiamo di riferire. N Se non che, continuando a parlare de'
contrari!, passa a considerarli da quel rispetto, che è stato appellato
i\ principio di contraddizione, sostenendo: " fieri nequit " ut
contraria simul eidem subiecto insint „ (cioè, nel corrispondente testo
greco: àòvvaiov yàq tàvavxia djia t$ ai>%$ òndgxeiv).
21 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED
HEGELIANA, ECC. 121 E trattandosi di un
principio tanto importante, che, per giunta ha avuto poste- riormente una
rigida e non sempre bene intesa applicazione, voglio allegarlo anche
nella forma più compiuta in cui ricorre in Metaph. Iti, 3; cioè: xò yàg afixò
djm ■bjia,Q%Eiv xe xal [ir] vnaQxeiv àóvvaxov %(p avxòì uaì xaxà xò avx ó
(nella traduzione latina: " idem enim simul inesse et non inesse
eidem et secundum idem impossibile " est „). E soggiunge poco
appresso che questo è il più certo di tutti i principii: avxr\ ài]
naa&v èaxl ^E§aioxdxmj xcov àq%(àv (traduz. latina : " hoc autem est
omnium prin- " cipiorum certissimum „). Noti però il
lettore che, per non fraintendere il principio aristotelico di contrad-
dizione, si deve aver presente ciocche Aristotele ha detto teste, che, cioè gli
opposti non sono contraddittorii, epperò non escludentisi (poniamo, come
amici e nemici) quando siffatti opposti sono morum effectus, ossia
effetto della natura di essi. L'uomo, per chiarire ancor meglio
l'esempio, ha nella propria natura umana l'essere amico ed anche l'essere
nemico, come per sua natura può esser buono e può essere anche cattivo.
Non sarà l'una e l'altra cosa ééfia, nel medesimo tempo; ma l'uomo è però
pur sempre il medesimo soggetto, che .ora è amico ora nemico, ora buono ora
cat- tivo: ed inoltre, è amico e buono ne' tali e tali uomini, ed è
nemico e cattivo ne' tali e tali altri uomini. E basti di
questo importantissimo punto. Ne' paragrafi immediatamente
susseguenti si continua a parlare dell'opposizione, si accenna anche alle
simiglianze, e non ricorre altro di rilevante. Passo a dire del
Libro III. Aristotele apre questo Libro col quesito di ciocche sia
migliore e più desiderabile, e, per giunta, di esaminare e a tal riguardo
" sermonem instituere * (paragr. 1) non de iis quae longe inter
se distant et magnam differentiam habent..., " sed de iis quae
vicina sunt „. E risolve la quistione dicendo che " quod est
diuturnius * et constantius, magis est eligendum quam quod est
minus tale „. E nella elezione è certo anche di peso " quod eligat
vir prudens, aut lex recta..., ■ aut ii qui in uno quoque genere
scientes sunt „. Ne' due seguenti paragrafi continua in grosso
l'esame e soluzione dell'istesso quesito, per poi venire, ne' paragrafi 4
e 5, a prendere in considerazione i luoghi utili a conoscere ciocche
debba eleggersi e ciocche fuggirsi. E statuisce (paragr. 5): *
Sumendi sunt loci de eo quod magis vel maius est quam maxime universales.
sic ■ enim sumpti ad plura problemata utiles erunt „. E
questa è la sostanza della ricerca e soluzione del quesito proposto in
questo Libro. Passo al Libro IV. E qui posso essere ancora
più breve di quel che sono stato nell'an- tecedente Libro. Giacche in
questo IV si torna a discorrere " de iis quae ad genus " et
proprium pertinent „, colla considerazione di differenze, specie, distinzioni
e suddistinzioni di casi, di esempii, di applicazioni (anche al principio
di contraddizione), che servono ad illustrare e confermare il proposto
quesito. E si giunge così al Libro V (che, come è detto innanzi,
non proverrebbe da Aristotele). Ma in questo stesso Libro V non vi
sono altri argomenti veramente nuovi, ma si torna a trattare di quelli
antecedentemente trattati. Infatti questo Libro comincia così:
" Utrum autem proprium sit necne id quod * est propositum, ex
his locis quos deinceps exponemus considerandum est „. E D'Ercole.
4 122 PASQUALE D'eBCOLE
22 prosegue dicendo: * Proponitur autem proprium vel
per se et semper, vel per com- " parationem cum altero et interdum
„. E passa ad investigare e determinare, quando il proprio è per sè,
quando per comparazione, ecc. E ne' seguenti paragrafi 2, 3 e 4
continua ancor sempre il discorso intorno al proprio ne' suoi più diversi
aspetti e rapporti : ne' quali aspetti e rapporti non manca la
considerazione de' principii contrarii (fatta nel paragrafo 6), e de' principii
con- trarli relativamente al proprio, per scorgere " an contrarium
sit contrarii proprium „ etc. In grosso è lo stesso nel paragrafo
7, in cui " ex casibus refellitur, si ille casus " non est
illius casus .proprium „ etc. E finalmente, nel nono ed ultimo
paragrafo, " refellitur, si quis potestate proprium " tradidit,
etiam ad id quod non est rettulit illud potestate proprium, cum potestas
" rei quae non est, inesse nequeat „ etc. Rispetto alla
predetta opinione di Pflug accennata dal Zeller, dico rispetto a tale
opinione, non contro ad essa, mi permetto di fare una personale
osservazione. Ed è che, leggendo e considerando attentamente questo V Libro,
la materia, il modo di pensarla, ordinarla, distinguerla e
suddistinguerla ne' suoi varii rispetti e rapporti, si mostra, da una
parte, interamente simile a quella degli antecedenti Libri topici,
dall'altra, interamente conforme alla mente di Aristotele. Ed ora
vengo al Libeo VI. Questo si inizia coll'argomento delle
definizioni, e si continua tutto con esse ; ma queste stesse vengono di
bel nuovo considerate ed esaminate con rife- rimento al proprio, al
genere, alle differenze, ecc. Trattandosi di un argomento che ha della
importanza, e che si addentra nella natura delle definizioni e nelle
diverse parti costitutive di esse, allegherò un lungo luogo, in cui ciò è
effettuato. Della trattazione dunque * quae ad definitiones
pertinet quinque sunt partes. " vel enim definitio reprehenditur,
quia omnino non vere dicitur, de quo nomen, 14 etiam oratio, quandoquidem
oportet hominis definitionem de omni homine vere " dicitur. vel quia
cum sit aliquod genus, non collocavit rem definitam in genere " aut
non collocavit in proprio geuere, quoniam debet is qui definit, cum in
genere " definitum collocaverit, differentias adiungere, si quidem
eorum quae in definitione " ponuntur, maxime genus videtur rei
definitae essentiam declarare ; vel quia oratio " non est propria
(nam oportet definitionem propriam esse, quemadmodum et supra u fuit);
vel quia, cum omnia quae dixi perfecerit, tamen non definivit, nec dixit
" quidditatern rei definitae. reliquum est praeterea definitionis vitium,
si definivit " quidem, non tamen recte definivit. an igitur de quo
nomen dicitur, non etiam " oratio vere dicatur, ex locis ad accidens
pertiuentibus considerandum est. nam ibi 8 quoque omnis consideratio in
eo consistit ut intelligatur utrum sit verum an non " verum. cum
enim disserendo ostendimus accidens inesse, dicimus esse verum. cum
" autem ostendimus non inesse, dicimus non esse verum. an autem non in
proprio " genere posuerit, vel non propria sit oratio tradita, ex
dictis locis, qui ad genus " et ad proprium pertinent considerandum
est. reliquum est ut dicamus quomodo " disquiri debeat an non sit
definitum, vel an non recte sit definitum, etc. „. Nel susseguente
paragr. 2 vien la considerazione dell' omonimo, del simmetrico, con le
corrispondenti definizioni. Qui stesso Aristotele si fa a considerar la
definizione in rapporto al sillogismo, e se in tal rapporto essa sia
fatta chiaramente od oscuramente ecc. 23 LA LOGICA
ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 123 Ne'
paragrafi 3 e 4 continua sempre l'argomento delle definizioni. Nel para-
grafo 5 si considera la definizione del corpo, determinandolo (come si è poi
sempre ripetuto e si ripete tuttora, meno il caso presentemente
considerato da Zollner ed altri, della cosi detta 4 a dimensione) siccome
« id quod habet tres dimensiones „. Nel paragr. 6 Aristotele fissa
l'attenzione alle differenze, in quanto in esse ' considerandum est an
generis differentias dixerit „. Se tali differenze non sono state
indicate e precisate, non vi sarebbe stata vera definizione. Nei
susseguenti paragrafi continua sempre lo stesso argomento delle
definizioni, con esemplificazioni intorno all'abito (paragr. 9), alla
simigliala (paragr. 10), e si termina con la considerazione della
composizione delle cose, della quale, per avere una giusta definizione,
bisogna indicare tutti gli elementi che la costituiscono. E così si passa
al Libro VII. — Gli argomenti di questo Libro sono anch'essi
suppergiù i medesimi di quelli trattati negli antecedenti Libri con
speciale riguardo all' Oratoria, la quale naturalmente vien congiunta coi
modi e forme di sillogizzare, obbiettare, ecc., col consueto riguardo ai
generi, specie, differenze, opposizioni, casi tali o tali altri.
Ecco, infatti, come al principio del Libro è enunciata la materia da
considerare in essa : " Utrum autem id de quo agitur sit idem an
diversum, secundum eum modum * qui inter modos supra de eodem
expositos est maxime proprius, nunc dicendum « est. dicebatur autem
maxime proprie idem esse quod est numero unum, considerare « autem
oportet atque argumenta sumere ex casibus et coniugatis et oppositis. nam
« si iustitia est idem quod fortitudo, etiam iustus est idem quod fortis, et
iuste idem " quod fortiter. similis ratio est oppositorum etc. J.
Qui stesso vien la volta di pren- dere in considerazione anche il sorgere
e perire " ortus et interitus „ delle cose. Poco appresso ricorre un
riferimento anche alle cose che accadono : " nam quae " alteri
accidunt, etiam alteri accidere debent „. E ciò vien messo ivi stesso in
rela- zione anche colle Categorie, in quanto " videre oportet an non
in uno categoriae ' genere ambo sint, sed alterum qualitatem, alterum
quantitatem vel ad aliquid * relationem declaret „. Al
paragrafo 3 vien la considerazione della definizione e del sillogismo,
pur con riferimento ai generi, alle specie, alle differenze, non che ai
contrarii, alle diffe- renze contrarie, ecc. Al paragrafo 4
si ritorna sui luoghi atti a disputa, oratoria, ecc., ma con riferi- mento
all'aiuto della memoria. Infatti statuisce : " Maxime autem locorum
omnium » apti sunt ii quos nunc dixi, necnon ex casibus et coniugatis.
Ideoque maxime me- « moria tenere et in promptu habere oportet hos locos
(utilissimi enim sunt ad « plurima problemata), atque etiam ex ceteris
eos qui sunt maxime communes, quo- " niam inter reliquos sunt
efficacissimi „. Nel seguente ed ultimo paragrafo 5 ricorrono
ulteriori considerazioni pur attinenti a definizione, sillogismo, a
genere, proprio, ecc.; e con esse si chiude il Libro. Libro Vili. —
L'argomento principale di questo Libro de' Topici è la disposi- zione
della materia del discorso, con riguardo speciale ad interrogazioni,
risposte, e ritrovamento (inventio) di quegli argomenti che spettano ed
importano al dialettico, al filosofo. E quale argomento conduce
naturalmente Aristotele a connettervi, come d'ordinario, i modi di
argomentare, sillogizzare, ecc. Ma sentiamo Aristotele stesso.
124 PASQUALE D'ERCOLE 24
Egli indica (nella traduzione latina) lo scopo e la materia della
trattazione con queste parole : " Post haec de dispositene, et
quomodo interrogare oportet, dicendum " est. primum autem debet is
qui interrogaturus est, locum invenire ex quo argu- s mentetur, deinde
interrogare et disponere singula ipse per se, tertio et postremo "
haec dicere contra alterum. ac loci quidem inventio aeque ad philosophum et
ad " dialecticum pertinet, eorum autem quae inventa fuerunt
dispositio et interrogatio " dialectici est propria, quoniam hoc
totum adversus alterum est : philosopho autem " et ei qui ipse secum
veritatem inquirit, curae non est, si vera sint et nota ea ex "
quibus efficitur syllogismus, nec tamen ea ponat is qui respondet, propterea
quod " propinqua sint quaestioni ab initio propositae ac provideat
quod eventurum sit. " quin immo fortasse dat operam ut axiomata sint
maxime nota et problemati pro- * pinqua, quandoquidem ex his Constant
syllogismi qui scientiam pariunt ,, Sillogismo senza proposizioni
intanto non si dà ; perciò Aristotele rivolge la sua attenzione a queste.
Di queste ve n'ha di necessarie ed anche di non necessarie. "
Necessariae autem „, dic'egli, * dicuntur eae ex quibus syllogismus conficitur.
quae ■ vero praeter has sumuntur, quattuor sunt : vel enim sumuntur
inductionis causa, " ut detur quod est universale, vel ut
amplificete oratio, vel ut celetur conclusio, " vel ut magis
perspicua sit oratio etc. „. Nell'anzidetto si contiene il pensiere
aristotelico di questo Libro, e s'intende che ciocche segue non può
essere che l'ulteriore e più ampia esplicazione di ciò con applicazione a
singoli casi e quesiti ed a singole corrispondenti soluzioni. A
conferma di ciò, nel paragrafo 2 si pone che nel dissertare " utendum
syllo- " gismo apud dialecticos potius quam apud multos ; contra
inductione apud multos " potius „. Si fanno di ciò, ad
illustrazione, applicazioni a casi vari, poniamo al caso della salute,
valetudo, della malattia, morbum, ecc. Quanto alla natura della proposi-
zione dialettica e al corrispondente elemento dialettico, si dice poco appresso
: " Pro- " positio enim dialectica est, ad quam respondere
licet etiam aut non „. Al paragrafo 3 si prendono in considerazione
le hypoiheses, le captiosae argu- mentationes con riferimento ai
principia ultima, da cui tutte le dimostrazioni e tutti i principi
subordinati traggono origine e ragione probativa. " Nam cetera
(scilic. " principia) per haec probantur, ipsa vero per alia probari
non possunt „. Nel paragrafo 4, riferendosi all'interrogare e
rispondere, dice: " De responsione " autem primun determinandum
est, quod eius sit officium qui recte respondet, quemad- " modum
eius qui recte interrogai est autem interroganti^ ita disputationem deducere,
" ut respondentem cogat maxime incredibilia dicere ex iis quae praeter
thesim sunt ■ necessaria ; respondentis vero, ne sua culpa videatur
evenire quod absurdum vel ■ praeter opinionem est, sed propter
thesim „. L'istesso argomento dell'interrogare e rispondere viene
svolto nei paragrafi 5, 6 e seguenti con ulteriori considerazioni di
altri casi e rispetti. Ma più innanzi nel paragrafo 11, a proposito
della reprehensio argumentationis, ricorre l'accenno ad argomentazioni
false e vere nel senso ed intendimento di ciocche si è discorso ed
esposto negli Analitici ; e il corrispondente luogo, relativo a molti
modi di argomentazione, è degno di essere riferito e suona così : " Qui
vero „, dice Aristotele, " ex falsis verum concludunt, non possunt
iure reprehendi, quoniam falsum " quidem semper necesse est ex
falsis concludi, sed verum licet interdum etiam ex 25 LA
LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 125
" falsis concludere : hoc autera est perspiciram ex Analyticis.
quando autem argu- ■ mentatio quae dieta est, alicuius rei est
demonstratio, si quid aliud sit quod nihil * cum conclusione
probanda commune habeat, profecto non erit ex eo syllogismus. * sin
autem videatur, sophisma erit, non demonstratio. est autem philosophema
syllo- * gismus demonstrativus, epicheirema vero syllogismus
dialecticus, sophisma syllo- * gismus contentiosus, aporema
syllogismus dialecticus contradictionis „. Per ragione del
tecnicismo di queste ultime espressioni della Logica aristotelica, allego
quest'ultima parte del luogo nel testo greco, il quale suona così : "Eati
òe (piloaócprifia (lèv ovÀÀoyiafiòg ànoòeimixóg, km%eiqrnia òè
avlkoyiofiòg òiaXemmóg, oóqjiofia òè cvAZoyiofiòg ègiormóg, ànóqrifia òe
ovZAoyiofiòg òialemwòg àvwpdoewg. Nel seguente paragrafo 12 si
stabilisce come massima che 8 argumentatio est " perspicua uno modo,
eoque maxime vulgari, si ita concludat ut nihil amplius opor- " teat
interrogare „. E dopo altre consimili considerazioni si conclude il Libro
Vili con quest'altra massima di carattere generale : - oportet paratas
argumentationes " habere adversus eiusmodi problemata, in quibus cum
paucae argumentationes " suppetant, adversus plurima problemata
utiles erunt. hae vero sunt argumenta- " tiones universales, et quas
assumere ex rebus passim obviis difficile est „. Dopo siffatte, se
non diffuse, certo sufficienti indicazioni sulla materia, sullo scopo e
sul modo di trattazione de' Topici, passo a dire degli Elenchi Sofistici.
JUeqì t&v ooyiauxwv èÀéy%ù)v. — Anche per questa parte, come ho fatto
per le altre, della Logica aristotelica comincio coll'allegare un
notevole giudizio di Boezio, il quale (loc. cit., p. 7) dice: * Elenchus
multa significai sed hoc loco prò redar- 14 gutione sumitur. Libri sunt
duo, ad cavendas sophisticas captiones, et ne in disse- " rendo
falsa prò veris per ignorationem colligamus, aut admittamus. Huic operi *
initium dedit Plato in Euthydemo : ostenduntur illic pauci quidem doli
disputatoris " captiosi : Aristoteles autem rem omnem, ut solet, a
primis initiis complexus, " digessit in ordinem et formulas „.
A questo giudizio di Boezio si unisce Prantl. il quale colla sua autorità
in tal materia, lo allarga ed integra con altre importanti osservazioni.
La qual cosa egli fa nella pagina 346 della sua citata opera Gesch. d.
Logik, età, voi. I, primamente, osservando come questi Elenchi Sofistici
si colleghino intimamente ai Libri topici in genere ed al Libro Vili in
ispecie ; e secondamente, esponendo in un breve e succoso cenno la
materia e lo scopo de' medesimi. Ma vi è stato in Italia un uomo,
che, riattaccandosi ai due nominati scrittori, ha fatta una traduzione
eccellente de' primi 14 capitoli degli Elenchi, facendovi pre- cedere un
elaborato ed illustrativo proemio, corredando i capitoli stessi di
sommarli ragionati abbastanza diffusi, estendendosi a dar sommarli anche
de' rimanenti venti capitoli, e, per giunta, a confermare ed illustrare
il tutto con note amplissime e dottissime, nelle quali è abbracciata
tutta la parte storica dell'argomento, fino al secolo XIII
inclusivamente. Quest'uomo, veramente sommo e a tutti noto, è
Buggero Bonghi, il quale non solo mostrò vastità di dottrina in questo
speciale argomento della Logica aristotelica, ma ha allargato ed
approfondito i suoi studi nella traduzione e illustrazione delle opere di
Platone e della Metafisica di Aristotele, traducendo ed illustrando quasi
tutte le opere del primo, e i primi sei Libri della Metafisica del
secondo. E, per giunta, 126 PASQUALE
D'ERCOLE 26 fortificò i suoi studi
filosofici, oltre che collo studio della Storia della Filosofia fino agli
ultimi tempi inclusivamente, anche colle sue amplissime conoscenze di
Storia di tutti i tempi, e con un'ampia erudizione nelle altre discipline
dello scibile. La esposizione che io, per assolvere il mio scopo e
compito, farò di questi Elenchi, consisterà in tre diversi cenni : il
primo, quello di valermi della traduzione italiana stessa e delle
corrispondenti illustrazioni del Bonghi ; quale migliore e più sicura
guida nell'adempimento del mio scopo ? il secondo, nell'allegamento di un
brevissimo luogo del Boezio, riportato in nota dallo stesso Bonghi, luogo che
ser- virà alla indicazione delle espressioni latine de' sofismi trattati
da Aristotele ; il terzo, nell'allegamento di un luogo importantissimo
dell'Ueberweg, nel quale, in breve e succoso cenno, sono distinti e
illustrati tutti i sofismi con le relative denominazioni greche. E vengo
alla esposizione. Cominciando dal Bonghi, è bene ed utile di
rilevare alcune importanti afferma- zioni e considerazioni di lui in
riattaccamento a Boezio, a Prantl, allo stesso sorgere e costituirsi
della Sofistica, ed anche a Socrate, Platone ed Aristotele in quanto
riferentisi alla medesima. Per ciocche concerne il sorgere e
costituirsi della Sofìstica, benché egli ricordi cose note, pur voglio
ricordar le parole di lui. Prodico, Gorgia e Protagora (dic'egli nella
prima parte dell'Introduzione alla traduzione dell' Eutidemo, pag. 15) "
per i " primi accettarono i nomi di sofisti e fondarono la sofistica
„. E, come essa 8 è il " principio e il fondamento dell' 'eloquenza
e il più grande stimolo e sprone di coltura, " essi furono maestri
di eloquenza, e diffonditori di cultura in tutta la Grecia ».
Senonchè, pur troppo la sofistica degenerò in eristica. Ora, Platone
(ibid., pag. 18) " si oppose a questa perversione di giudizii „ :
tanto più che " non si sarebbe potuto " mai far intendere il
valore di Socrate, fino a che questa confusione avesse preoccu- "
pato le menti „. Si aggiunga a ciò, che quando " in Grecia si moltiplicò
il numero " di quei professori o maestri che si ripromettevano
d'insegnare al cittadino la miglior " maniera di condursi per se e
per gli altri nello stato „, nacque una gran " contra- " rietà
d'opinioni ne' nuovi metodi d'insegnamento „. E da questa, e dal " nome
di 8 uno degli Eristici che vi discorre „ trasse origine YEutidemo di
Platone. Vengo ora alle Confutazioni Sofistiche.
Nell'avvertenza alle Confutazioni Sofistiche, come Bonghi traduce il
trattato jieqì %ùv oocpMmxcòv èÀéyx<op (1), egli dice di essere stato
indotto alla traduzione * dal " pensiero, che avrebbe potuto
riuscire di molto interesse e utilità il vedere come una " mente
così sottile, investigatrice, sistematica (come quella di Aristotele) abbia
per " la prima volta messo ordine e luce in una materia per sè così
complicata e buia, " com'è questa del ragionamento usato a inganno
altrui. Neil' Eutidemo Platone aveva " rappresentata l'arte ; nelle
Confutazioni Sofistiche Aristotele, che vi ricorda tante volte " l'
Eutidemo e Platone, ne dette la teorica „. Soggiunge, Aristotele
" non esser facile in nessuno suo scritto; e questo è uno " di
quelli ne 1 quali è più difficile „. Indicando la ragione, i limiti e il modo
come ha (1) Vedi Dialoghi di Platone, trad. da Ruggero
Bonghi, voi. IV (continuaz.), Eutidemo, 2* ediz.; Aristotele, il primo
Libro Delle Confutazioni Sofistiche, ecc. Torino-Roma-Firenze, Fratelli Bocca,
1883. 27 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED
HEGELIANA, ECC. 127 condotto la propria opera, dice essergli •
mancato il tempo „ di condurre a termine la traduzione ; ma che, ciò non
ostante, " la trattazione teorica de' sofismi è ne' primi " (14
capitoli) compiuta „ essendo 8 nei seguenti (venti capitoli) solo indicate le
vie « praticamente utili a cavarsene fuori „ ; e che, per giunta, come si
è detto, anche per questi ultimi ha aggiunto " lunghi sommari! „ ;
sì che il lettore finisce per aver conoscenza di tutta la materia
dell'ultimo trattato logico di Aristotele. Ora ecco i punti sostanziali
di questo. Aristotele nel Primo Capitolo, paragrafo 1, di questo
dice che "prende a • discorrere.... delle Confutazioni
Sofistiche e di quelle che paiono bensì confutazioni, " ma sono
paralogismi e non confutazioni , . E nel seguente paragrafo 2 fonda
questo suo giudizio con questa osservazione : " Che de' sillogismi
alcuni son veramente tali, altri paiono e non sono, è manifesto ; "
chè come questa apparenza ha luogo nelle altre cose per una cotal
simiglianza, • così accade ancora nei ragionamenti. E difatti, la
persona, che altri hanno aitante, ■ altri col gonfiarsi e
acconciarsi.... paiono averla.... E delle cose inanimate è del "
pari ; chè di queste quale è argento e oro davvero ; quale non lo è, ma pare
al « senso ; per mo' d'esempio, d'argento quelle di stagno e di piombo ;
d'oro quelle * tinte di giallo „. E allo stesso modo, sillogismi e
confutazioni, quali sono, quali non sono, ma paiono per
l'imperizia. « Dappoiché (continua egli nel paragrafo 3, indicando
la ragione dottrinale della * differenza di sillogismo e
confutazione, ossia di sofismo) il sillogismo si compone " di alcune
premesse per modo, che di necessità per via di esse proposizioni dica
■ qualcosa di diverso dalle proposizioni ; e confutazione è sillogismo in
cui si con- " traddice la conclusione „. Nel paragrafo
4, cominciando ad enumerare le cause, dice che di queste « una "
fonte è più copiosa e comune di tutte, quella per via di vocaboli I
vocaboli « sono finiti di numero e i ragionamenti altresì ; dove
gli oggetti sono infiniti ; sicché " è necessario che un solo
ragionamento e un unico nome significhi più oggetti „. Nel paragrafo
5 fa ulteriori esemplificazioni sulla sofistica, che si intendono e spie-
gano con ciocche è detto innanzi. Ma nel seguente Capitolo Secondo,
passando ad indicare ,! le specie de' ragiona- menti sofistici „
Aristotele, nel paragrafo 2, dice che di quelli " che occorrono nel
■ conversare, v'ha quattro generi: didascalici, dialettici, pir astici ed
eristici. Sono: « Didascalici (insegnativi) quelli che si
sillogizzano da' principi propri di ciascuna " disciplina e non
dalle opinioni di chi risponde ; (chè chi impara, deve credere) :
" Dialettici (discorsivi) quelli che da proposizioni probabili
sillogizzano la con- " tradittoria: " drastici
(tentativi) quelli che lo fanno da proposizioni ammesse da chi risponde
" e necessarie a sapere da chi ha la scienza (e in che modo si è chiarito
altrove): " Eristici (contenziosi) quelli che sillogizzano o
paiono sillogizzare da proposi- " zioni ammesse solo in apparenza,
ma non in realtà », Nel paragrafo 3, ricordando che " de'
ragionamenti apodittici (dimostrativi) s'è " discorso negli
Analitici, de' dialettici e de' pirastici altrove „, dice doversi "
discorrere " al presente degli agonistici (garosi) e degli eristici
„. E ciò fa nel Capitolo III. — Aristotele, proponendosi in questo
" di fermare quante sono le 128 PASQUALE
D'ERCOLE 28 " mire di quelli che
gareggiano e si puntigliano nel ragionare „ , dice che queste * son
cinque di numero : confutazione, falsità, paradosso, solecismo, e quinto il
far " cianciare chi conversi teco (e questo è il costringerlo a dire
più volte il medesimo) ; " o non la realtà, ma l'apparenza di
ciascuna di queste cose „. E, spiegando nel paragrafo 3, le
predette cinque cose, dice che * quello che " sopratutto si
propongono, è di parere di confutare ; in secondo luogo, di mostrare
" che uno dica il falso in qualcosa ; terzo, di tirarlo a un paradosso ;
quarto, di " fargli commettere un solecismo ; e questo è, il fare
che chi risponde, per effetto " del ragionamento, barbarizzi; per
ultimo, il fargli dire più volte la stessa cosa „. Capitolo IV. —
In questo Capitolo, venendo alla indicazione " dei modi di con-
" futare „ , dice esservene " di due sorte ; gli uni stanno nella
dizione, gli altri fuori " della dizione „. Nel
paragrafo 2, indicando 8 i motivi che per effetto della dizione generano
un " falso vedere „, dice che di essi * ve n'ha sei; e sono
l'equivocazione, l'anfibologia, " la composizione, la divisione,
l'accento, la figura della dizione. E la prova di ciò s'ha " per
induzione „. E ne' susseguenti paragrafi chiarisce e illustra con esempi i
pre- detti sofismi della dizione. Capitolo V. — In questo
Capitolo passa il nostro filosofo alla designazione de'" paralogismi
fuori della dizione „ e ne novera " sette specie, una dell'accidente,
" la seconda dal dirsi una cosa in assoluto o non in assoluto^ ma per un
certo modo " o posto o tempo o rispetto ; la terza dall'ignoranza
della confutazione ; la quarta dal " susseguente ; la quinta dalla
petizion di principio ; la sesta dal porre la, non causa " come causa
; la settima dal fare di più interrogazioni una sola „ . E anche
per questi paralogismi Aristotele fa nei seguenti paragrafi illustrazioni
ed esemplificazioni. Notevole è in questo Capitolo ciocche
Aristotele statuisce, al paragr. 11, intorno all'ultimo de' sette
paralogismi allegati, cioè intorno a quelli che * nascono dal fare
* di due interrogazioni una sola „. Rispetto a questi, " quando
resti nascosto che son " più, e come se fossero una sola, le si dia
una unica risposta „ ; benché rispetto a tal caso riconosca che " in
alcune è facile scorgere che son più, .... ma in altre meno
Capitolo VI. — In questo Capitolo, al paragrafo 1, pone l'alternativa che
" o " s'hanno a distinguere così i sillogismi e confutazioni
apparenti „, come si è detto e fatto negli antecedenti paragrafi, "
o a ridurre tutti all'ignoranza della confuta- * zione, ponendo per
principio questa : che v' è modo di risolvere tutti i modi che " se
ne son detti, nella definizione della confutazione „. E l'alternativa e
corrispon- dente soluzione proposta vien discussa a proposito degli altri
ultimi paralogismi allegati. Capitolo VII. — In questo
Capitolo si continua a prendere in considerazione altri degli allegati
paralogismi, come quelli dall'equivocazione, dall'anfibolia, dalla
composizione e dalla divisione, dall'accento e dalla figura della dizione,
dall'accidente, ecc., e si indica il modo di conoscerli e
confutarli. Capitolo VIII. — 8 Poiché sappiamo (si dice nel
paragrafo 1) per quante vie " si generino i sillogismi apparenti,
sappiamo altresì per quante si possano generare " i sillogismi e le
confutazioni sofistiche „. " E dico (paragrafo 2) sillogismo e
confutazione sofistica non solo il sillogismo 29
LA LOGICA AKISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA,
ECC. 129 * o la confutazione che appare e
non è, ma anche quello che è bensì, ma proprio della * cosa appare
soltanto. E cotesti sono quelli che non confutano secondo la cosa, e *
non mostrano che altri l'ignora, che era il caso della Pirastica. Ora, la
Pìrastica " è parte della Dialettica; e questa può sillogizzare il
falso per ragione dell' igno- * ranza di chi rende ragione. Invece,
le confutazioni sofistiche, quando anche siilo- * gizzino la
contradizione, non fanno manifesto se altri ignora ; poiché anche chi sa,
* impacciano con siffatte argomentazioni „. " E che gli
otteniamo (paragrafo 3) collo stesso metodo, è chiaro ; dappoiché *
per quante vie appare a chi ascolta, che si siano sillogizzate appunto le proposi-
* zioni di cui gli s'era fatta interrogazione, per altrettante potrebbe
altresì parere * a chi risponda ; sicché per queste, o tutte o
alcune, verran fuori sillogismi falsi, " che quello che uno non
interrogato crede d'aver conceduto, interrogato lo conce- *
derebbe. Eccettochè in alcuni paralogismi succede insieme che si dimandi
quello * che manca, e la falsità si chiarisca, come in quelli dalla
dizione e dal solecismo „. Si fanno, ne' paragrafi seguenti, consimili
considerazioni intorno ad altri para- logismi, come quelli risultanti
dall'accidente, dal conseguente, ecc. Capitolo IX. — In questo
Capitolo, nel paragrafo 1, Aristotele statuisce che * da quanti
luoghi si traggano confutazioni di quelli che son confutati, non bisogna
« provarsi a determinarlo senza la cognizione delle cose tutte. Ora, ciò non è
di * nessun'arte ; stantechè le scienze sieno infinite forse,
sicché è chiaro che anche " le dimostrazioni son tali „.
" E di confutazioni ve n'ha anche di vere; stantechè quante cose
v'ha luogo " a dimostrare, tante v'ha luogo a confutare a chi
asserisca il contraddittorio del " vero ; p. es., se uno ha asserito
commensurabile il diametro, altri lo confuterebbe col * dimostrare
eh' è incommensurabile. Sicché bisognerà essere scienti d'ogni cosa, ecc.
„. " Però (paragrafo 2) , anche le confutazioni false saranno
del pari infinite ; chè * v'ha secondo ciascuna arte il sillogismo
falso; p. es., secondo geometria il geo- 8 metrico, secondo medicina il
medico ; e dico secondo ciascun'arte quello secondo* " i principi di
essa ,. E ne' seguenti paragrafi, su questi stessi principi stabiliti, si
fanno consimili considerazioni. Capitolo X. — In questo Capitolo si
pone in discussione e si risolve la seguente importante quistione intorno
a ragionamenti relativi al vocabolo e al pensiero : " Non * v'
ha ; dic'egli, tra i ragionamenti la differenza che taluni dicono ; alcuni
ragiona- * menti riferirsi al vocabolo, altri al pensiero ; chè è
assurdo il pensare, che altri " sono i ragionamenti che si
riferiscono al vocabolo, e altri quelli al pensiero, e * non già i
medesimi „. " Poiché (paragrafo 2) , che è egli mai il non
riferirsi al pensiero se non quando * uno non usi del vocabolo nel
senso cui l'interrogato ha consentito, credendo che * fosse quello
che avesse nella interrogazione? Ora, questo stesso è riferirsi al voca-
* bolo. E riferirsi al pensiero è, quando l'altro pensi quello cui egli
ha consentito, ecc. „. E ne' paragrafi immediatamente seguenti
viene confermando ciò con ulteriori non meno acute illustrazioni ed
applicazioni, delle quali voglio rilevare l'applicazione che ne fa alle
Matematiche, che attirano in modo speciale la nostra attenzione per la
trattazione della così detta Logica matematica. " I ragionamenti nelle
matematiche, * dice infatti Aristotele al paragrafo 7, si
riferiscono al pensiero o no ? E se ad uno D'Ercole. c
130 PASQUALE D'ERCOLE g „ I t " ang03 °
SÌgDÌfichÌ PÌÙ C0S6 ' 6 non ha che esso sia la figura flì della
quale s'è concluso, che son due retti rnWn , ■ ! tì g ura 0)>
" al pensiero di questo o no? ' '«Wonamento s'è egli diretto
=' a ™a (Paragrafo 2) ,1 comune a piii cose secondo ciascuna è
dialettico- eh «ut 71 m aPPa T a ' è ^ - D °" d6 " »
ritornare suìl' TZ a h W * ^conducono , so/fe « stessi, ehe .
preflggm(Iosi vinler a „ S ni ■nodo, sappiano a tatto „ come
appunto • fauno gli eristici 8 SousUcTche "f T" Ò SOt ' ile,
Se,Tat °' ""-*»■*' » mesta m at"eria degli Elenchi ci : lc
n T' ° ^ *S C, ' eata SÌCC ° m8 ** * "' Ksta ^ r te 8 log I '
ehe alcuno di! f!l , P m08trare (dic ' e S li . iafatti, al paragrafo 1)
cacca adatta a co ; che quelli che parlano a caso, errano di più ' e
parlano a caso, quando non si siano proposto nulla P P &
• e il" TJIZTJ''J!T S ^° " a "' abbatteraÌ 1 " na
Wsita ° a » paradosso ' dir r„Zo s are ' er v 7 T°" Pr ° P0SM0M 0gge
"° ^ mt.rroga.iene, ma • d'attacco ! ' S ° ,mParare ; daF P°
Ì<!hè ^ acquisizione dà „,„do di £ r:i n ~:ir che A "
istotek abbk ~— « -** • lnog„ A Lelirr t (COntÌ , n ° a ArÌ8t °
tele " Paragraf ° 4 » Cle "no dica falso, è proprio luogo
quello aojsfco, ,1 menare a tali cose, che s'abbia contro osse copia di
aL m „ta z ,o„, ; e ,„esto vi sarà modo di farlo bene e non bene, seconTs
l So ed ™2 Z deÌTuak 8 ; £S* '"T ** *" relali ™
alla ' luto f, i " '' lJeVa " lat ° Paradossastico come
segue - ■ Il (1) La qual S gu ,a, se lo noti i, lettore,
rappresenterebbe qui Trento del vocabolo. 81
LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.
131 * essere cosa bella secondo legge, ma
secondo natura non bella. Sicché bisogna chi * parla secondo
natura, affrontarlo secondo legge ; e chi secondo legge, menarlo alla a
natura; giacche vi sia luogo a dir paradossi ne' due modi „.
Capitolo XIII. — In questo Capitolo si tratta di un argomento che par
futile, cioè quello del cianciare; eppur questo dà luogo a una acuta e
teorica disamina della sofìstica da parte di Aristotele.
Prima di allegare le parole del grande filosofo, allego una osservazione
inter- pretativa che fa il Bonghi in proposito, e che è questa : Col
cianciare, cioè, dice quest'ultimo, " si passa al quarto fine del
sofista, che è il forzare l'avversario a dir " più volte la stessa
cosa, che torna al cianciare o infilzar parole senza senso. Il ■
presupposto di tali sofismi è che il vocabolo è tutt'uno colla sua definizione
e quello " non differisce in nulla da questa, sicché si può in una
proposizione surrogare l'uno * all'altra. P. es. doppio si definisce
doppio di metà : ora, se la definizione può essere 8 surrogata al
definito, noi possiamo definirlo : doppio di metà di metà ; e da capo 41
doppio di metà di metà e così in infinito „. Ciò posto, ecco
ciocche dice Aristotele (al paragrafo 2) intorno al discorrere per puro
cianciare : * Tutti i siffatti discorsi vogliono far questo ; se non
differisce " per nulla il dire il vocabolo o la definizione, doppio
e doppio di metà è tutt'uno; se adunque è doppio di metà, sarà doppio
di metà di metà ; e di novo, se in luogo " di doppio, si ponga
doppio di metà si sarà detto tre volte : doppio di metà di metà " di
metà(l). Ed evvi egli il desiderio del piacevole? Ora, questo è appetito
del * piacevole; dunque, desiderio è appetito del piacevole del piacevole,
ecc. „. Capitolo XIV. — L'argomento di questo Capitolo è il
Solecismo e la sofistica- zione in cui può incorrersi con esso.
Aristotele (al paragrafo 2) parla e ragiona in questo modo : 8 Questo
(cioè il Solecismo) v'è luogo a farlo e a parere senza farlo, e a non
parere facendolo; " siccome diceva Protagora, se ò fiijvig e ò
s**Pff sono un mascolino ; giacché chi " dice oi)Aofiévt]v solecizza
secondo lui, ma agli altri non pare ; chi ovÀó/ievov pare ■ bensì,
ma non solecizza „ (Si noti che firjvig e JvfjÀrji son propriamente
femminili). " Sicché è chiaro (paragrafo 3) che uno potrebbe
ad arte far questo ; per il che molti ragionamenti pur non sillogizzando
un solecismo paiono di sillogizzarlo, sic- * come nelle
confutazioni „. * I solecismi apparenti (paragrafo 4) hanno
occasione pressoché tutti dal vóde, * e quando la desinenza non
manifesta né maschio nè femmina, ma il di mezzo. Difatti ofirog significa
maschio ed a%%r\ femmina ; ma tomo vuole bensì significare il di
" mezzo, pure spesso significa anche l'uno o l'altro di quelli : p.
es. , che è %ov%o ? Calliope, legno, Corisco. D'altronde, del maschile e
del femminile le desinenze de' casi (1) Qui mi par di vedere
Aristotele (senza menomare la fina osservazione e interpretazione del
nostro Bonghi) riferirsi al famoso dialettico Zenone eleate, del quale uno
degli argomenti famosi, quello cioè del non potersi andare da un punto
all'altro dello spazio, era pensato e condotto appunto in tal guisa:
cioè, di non potersi percorrere l'intero spazio senza giungere alla metà
di questo, non potersi giungere a questa metà senza percorrere la metà di
questa metà, e così non potersi giungere a questa seconda senza
percorrere la metà della metà della metà, ecc. in infinito, il che era
impossibile a fare in un tempo finito. 132
PASQUALE D'EtiCOLE 32 "
differiscono tutte, ma del genere di mezzo quali sì, quali no. Ed ecco che
spesso, " essendosi lor concesso %ov%o, sillogizzano, come se fosse
stato detto %ov%ov ; e del " pari una desinenza in luogo d'un'
altra. E il paralogismo si genera perchè il tóóe * è comune a più
desinenze ; giacche tomo significa quando ovzog quando zovxov. 8 Però
deve significare quando l'uno e quando l'altro ; con è oixog, con essere
iqviqv, 8 per es., è KoQioxog, essere Koqioxov. E nei vocaboli femminili
del pari ; e in quelli, " che son bensì d'utensili, ma però hanno
appellazione femminile o maschile. Dap- 8 poiché tutti quelli che
terminano in o e in v, hanno soli l'appellazione da utensili, 8 come
^vkov, o%oiviov ; ma quelli che non così, l'hanno maschile o femminile,
di 8 cui applichiamo alcuni agli utensili ; p. es. daxòg è vocabolo
maschile, xÀhrj fem- " minile. Per il che anche rispetto a questi
differirà del pari l'è e l'essere „. " E in un certo modo
(paragrafo 5) il solecismo è simile alle confutazioni tratte 8 dal
prendere per simili cose non simili. Giacché come a queste accade di
sole- 8 cizzare sulle cose, così a quello su' vocaboli ; chè uomo e
bianco sono e cosa e 8 vocabolo „. 8 Sicché è manifesto
(paragrafo 6) che da simili desinenze bisogna sforzarsi di "
sillogizzare il solecismo. " Le specie, dunque, de' discorsi
contenziosi e le parti delle specie e i modi son 8 quelli che si son
detti „. Con questi quattordici Capitoli finisce la parte teorica
degli Elenchi Solistici, e che, come si è detto, nei seguenti venti
Capitoli si espone e fa l'applicazione dei primi quattordici. Io ometto
di esporre anche questa parte applicativa, ritenendo suffi- ciente pel mio
scopo la conoscenza della teoria. Passo perciò al secondo punto del
triplice cenno che io voleva fare degli Elenchi predetti, cioè alla
indicazione latina de' paralogismi o sofismi, secondo la indicazione di
Boezio. Questi infatti (vedi Bonghi, nota 129 alle Confutazioni Sofistiche,
pag. 529) indica le tredici denominazioni sofistiche di Aristotele così :
1° Aequivocatio ; 2° amphi- bolia; 3° compositio; 4° divisto; 5°
accentus; 6° figura dictionis; 7° propter accidens; 8° propter id quod
simpliciter vel non simpliciter ; 9° propter redargutionis ignorantiam ;
10° propter consequens ; 11° propter id quod est in principio sumere ; 12°
propter id quod non est causa ut causam ponere, ovvero, propter non
causam ut causam; 13° propter phires interrogationes unam facere.
In questa stessa nota 129 il Bonghi ha un notevole accenno ad Alberto
Magno, che pure scrisse degli Elenchi Sofistici. E altri accenni non meno
notevoli ha nella nota 160 per Alfarabi ; nella nota 161 per S. Tommaso ;
e nella nota 163 per Duns Scotus, il cui tractatus logicae è l'ultimo
nella Scolastica, e che è intitolato De sillo- gismo sophistico sive
fallaciis. Ed ora pongo termine alla mia esposizione
coll'allegamento dello stupendo e comprensivo luogo dell'TJEBERWEG (Syst.
d. Logik u. Gesch. d. Logischen Lehren, citato, pag. 370), che suona come
segue: " Aristotele nel suo scritto tisqì xtbv ao(pia%iKù>v
èXèy%(àv si è fatto guidare 8 nelle diverse parti del medesimo dallo
speciale riguardo ai sofismi molto disputati " al suo tempo. Egli
definisce (Top. Vili, 11) il oócpiofia come avÀÀoyia/iòg EQiatixóg,
" e divide i Sofismi in due Classi principali : naqà tìjv As^iv e è'^co
vrjg Àé^ecog. " Alla Prima Classe principale novera (De Soph.
Elench., c. 4) come appartenenti 33 LA
LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.
133 " sei specie: ófihìvvfila (aequi vocatio),
àfMpifioXia (ambiguitas) , ovv&soig (fallacia a 8 sensu diviso ad
sensum compositum), diaigeoig (fallacia a sensu composito ad sensum
" divisum), jiQoacpòia (accentus), a%f[na vf/g Aé^sojg (figura dictionis)
: de' quali Sofismi " però il terzo ed il quarto (la confusione del
senso distributivo e del collettivo, " ovvero la confusione di
ciocche vale in modo speciale di tutti i singoli od in ogni "
singolo rapporto, e di ciocche vale della generalità come tale), in quanto
appar- " tenenti alle fallaciis secundum dictionem, si lasciano
aggruppare (subsumere) sotto " il concetto dell'anfibolia nel senso
indicato di sopra. (Per ayfifiaza zfjg Aé^scog " Aristotele intende
qui le forme grammaticali de' nomi e de' verbi, e, secondo " Poet.
c. 19, in modo speciale le proposizioni grammaticali fondate sui diversi
rap- 8 porti di Predicato con Soggetto : proposizioni grammaticali, alla
cui espressione " servono in parte i Modi verbali, come Comando,
Preghiera, Minaccia, Enunciazione, " Domanda e Risposta).
" Alla Seconda Glasse principale, cioè ai Sofismi è'^oy xfjg Àé^eag,
Aristotele novera " come appartenenti le seguenti sette specie :
naqà tò avfi^s^rjìióg (fallacia rationis " ex accidente), tò
ànX&g fj [lì] àicl&g (a dicto simpliciter ad dictum secundum
quid), " fj tov èXéy%ov àyvoia (ignoratio elenchi), naqà tò
èuó/À,evov (fallacia rationis ex * consequente ad antecedens), tò
èv àQ%fj Aafifiàveiv, aheìa&ai (petitio principii), " tò /li]
ahiov Ti&épai (fallacia de non causa ut causa), tò tó tiàeiù) èqo)%fji4,ma
ev " noielv (fallacia plurium interrogationum). Se non
che questi errori sono in parte errori di dimostrazione (Beweisfehler ;
" ved. appresso paragr. 137). Degli errori indicati adduce Aristotele
stesso esempi " nel suo scritto tieqì %<òv ao<pianxò)v
èXéy%(av ; si può paragonare con esso il Dialogo " di Platone (o di
un platonico) Eutidemo. Antiche e moderne esemplificazioni, però *
in gran parte già fatte, dà il Fries {System der Logik, paragr. 109). Una
diffusa ed * esatta disamina di Sofismi si trova in Mill, Log.
trad. da Schiel, 2 (e 3) Ediz., " pag. 398-432. Rispetto al
carattere nebuloso e confuso di parecchie moderne spe- * culazioni,
e rispetto ad innumerevoli sofismi, per mezzo de' quali, dato
l'insolvibile " compito di derivare il pieno dal vuoto, si è creduto
di ottenere l'apparenza di una * soluzione, ha detto il
Trendelenbtjrg (Eri. su den Ehm. der Arisi. Log., 1842, p. 69) " con
ragione : * Sarebbe tempo di tradurre secondo il tempo moderno (iris
Moderne) " lo scritto aristotelico degli Elenchi Sofistici „. Questo
compito è stato risolto sol- " tanto in modo unilaterale mediante Y
Antibarbarus logicus von Cajus, 1851 ; 2 a Ediz., " 1° fase, 1853,
comunque il suo autore nel campo del pensiero filosofico sappia "
esercitare con destrezza di Polizia certe funzioni (polizeiliche) di vigilanza
s . Chiudo la mia considerazione ed esposizione della Logica
aristotelica, e concludo dicendo che questi punti fondamentali del
pensiero logico aristotelico e la corrispon- dente legislazione del
medesimo sono addirittura una immortale creazione, che non i soli 24
secoli passati han già confermata e glorificata, ma che continueranno a
confermare e glorificare anche i secoli venturi. Una più specificata
illustrazione e determinazione di tal giudizio verrà data in
seguito. Ed ora vengo alla Logica kantiana.Grice: “How can people speak of ‘mathematical logic’ when Russell says
that mathematics rests on logic?!” – logica aritmetica, aritmetica logica – His
exposition of ‘logica aristotelica’ is impressive, and overlaps with
Grice/Strawson’s seminars on Categoriae and De Interpretatione. His editorial
work on Ceretti is excellent. He has written on some other Italian
philosophers, too. Pasquale D’Ercole. Ercole. Keywords: difesa della
metafisica, panlogica, esologia, essologia, sinautologia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ercole” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690276800/in/photolist-2mKGbqY-2mKBEmt-2mKBBHH-2mJ4GHU-28JguMC-GuJA5G-GUC8Z8-Guv9WS-FZ7Kws-GUCp7T-Guvagu-FZd4Ka-GRC81o-GNEbxc-GuviMY-FZd4Zi-GNEika-Guv9zu-GUCpfZ-GuviZb-GUCps2-GRC7Zw-FZd4Hg-FZd4wp-FZ7KKJ-GNEior-GRBWqA-FZ7ykj-GNE2Lp-GNEiw2-FZ7L1J-FZddTR-FZ7KbC-FZddSD-FZ7KmC-FZd4An-GLjTPy-GLk2q5-GUCoZt-GNE2hD-FZ7Kbh-Dw1w1R-DndBhH-Cntjci-FZddBP-GLjUhY-GNEbSF-Guv1bq-GRC1UW-GUCpnc
Grice ed Esposito – il Sistema
dell’in/differenza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piano di Sorrento). Filosofo. Grice:
“I like Esposito; of course, his ‘origine della filosofia italiana’ owes a bit
to the historians of Roman literature and that infamous embassy of the very
best of Grecianism: Carneade, Critolao, and Diogene!” 599 ab urbe condita!”. Parte
dalla constatazione dell'esaurirsi del tradizionale lessico della politica e
dalla consapevolezza della necessità di una sua diversa formulazione. Su questo
presupposto, si incentra sulla ripresa e sulla rielaborazione di questa
tradizione all'interno di nuove esigenze, a partire da una re-interpretazione
delle categorie classiche della filosofia. A tal fine nelle sue opere lascia
interagire saperi e linguaggi differenti, dalla filosofia alla letteratura,
all'arte, alla poesia, all'antropologia, alla teologia. Dopo i primi studi su Vico e Machiavelli, il
suo lavoro si è concentrato intorno a quattro nuclei tematici. L'impolitico
viene inteso come rovescio impensato dalla politica. Le riflessioni su questo
tema sono confluite in “Categorie dell'impolitico” (il Mulino, Bologna), Nove
pensieri sulla politica (Bologna, il Mulino), “L'origine della politica” (Roma,
Donzelli). La filosofia della comunità e
biopolitica sono confluite in una trilogia. “Communitas: origine e destino
della comunita” (Einaudi, Torino)” è un tentativo concettuale di ridefinire il
concetto di comunità, al di fuori di ogni riferimento ai comunitarismi passati
e presenti, privilegiando piuttosto gli filosofi da Rousseau a Kant, da
Heidegger a Bataillein cui prevale una concezione della comunità in quanto
legge comune dell' “essere insieme”, ma anche la coscienza tragica di ciò che
contiene di irrealizzabile da un punto di vista politico. “Immunitas:
protezione e negazione della vita” (Einaudi, Torino) è una lettura biopolitica
dei conflitti in seno al corpo sociale. “Immunitas” persegue il lavoro di scavo
teorico cominciato in Communitas e pone la categoria dell'immunità al centro di
questa riflessione sulle contraddittorie strategie di difesa della società
rispetto ai rischi, reali e immaginari, che la insidiano. In questo senso
l’immunizzazione è allo stesso tempo una protezione e una negazione della vita
che rischia sempre di diventare una sorta di malattia immune del corpo sociale.
“Bios: biopolitica e filosofia” (Einaudi, Torino) è una rilettura, a partire di
Foucault, della storia del pensiero biopolitico alla luce del concetto d'immunità.
Essendo l'immunitas una protezione negativa della vita, la biopolitica che ne
incorpora le procedure è sempre a rischio di trasformarsi in tanato-politica.
Ciò non toglie che possa profilarsi una, sia pur problematica, nozione
affermativa di bio-politica. Al concetto
di persona e di impersonale ha dedicato “Terza persona: politica della vita e
filosofia dell’impersonale” (Einaudi, Torino) e “Due. La macchina della
teologia politica e il posto del pensiero” (Einaudi, Torino) e “Le persone e le
cose” (Einaudi, Torino). A partire da una critica del concetto, giuridico
romano di persona, inteso come un dispositivo che separa la vita umana da se
stessa, l’impersonale è inteso come la forma di una possibile ri-unificazione
tra corpi. e persona. Nel dittico
costituito da “Pensiero vivente. Origine a attualità della filosofia italiana”
(Einaudi, Torino) e “Da fuori. Una filosofia per l'Europa” (Einaudi, Torino) ha
ricostruito i caratteri prevalenti della tradizione filosofica italiana, a
partire da Machiavelli, Bruno e Vico, fino a quella che viene definita Italian
Theory. Essi riguardano la connessione tra le categorie di storia, politica e
vita. Altre opere: La politica e la storia. Machiavelli e Vico (Liguori, Napoli);
Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica (Mimesis, Milano); “Politica
e negazione: per una filosofia affermativa” (Einaudi, Torino); “La filosofia
italiana come problema: da Spaventa
all’Italian Theory, "Giornale Critico di Storia delle Idee"; “Protezione
e negazione della vita (Einaudi, Turin), più largamente, documenti di tutti gli
interventi ripresi, con le risposte dell'autore).Politiche della vita sul
margine pericoloso dell'impersonale, di Ciccarelli per il «Centro per la
Riforma dello Stato». Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. The
category of applicational generality relates to Esposito’s concept of the
im-PERSONAL. La terza persona is not a person like “I” and “thou”. Grice uses ‘person’ generally, “Someone (i.
e. I) is hearing a noise). “Someone” is (Ex) with the addition of ‘person’. A
sock is not a someone; a rose bush is not a someone – a dog is not for Grice a
someone. But then ‘someone’ is a solecism.
Esposito considers the communication and community alla Tonnies. Grice
knows the connection community and communication, when he criticizes Stevenson
for trying to define the Anglo-Saxon ‘meaning,’ circularly, in terms of
‘communication. – The problem of the third person is fascinating. Obviously a
grammarian’s mistake – a grammarian usually not knowing anything about
philosophy, used philosophical concepts – such as person – first person for “I”
is ok, second person for “Thou” is okay – when it comes to verbs, and pronouns,
“The chair is comfy” (La sedia e comoda.) – there is nothing personal about a
chair being personal. It is not true that someone is comfortable (jemand). –
there’s nothing personal about this. Since Homer, prosôpon [πϱόσωπоν],
etymologically “what is opposite the gaze,” has designated the human “face” in
particular, and then, metaphorically, the “façade” of a building, and
synechdochically, the whole “person” bearing the face. Another remarkable
semantic extension is that of the theatrical “mask” (Aristotle, Poetics
1449a36), leading in turn to the meaning “character in a drama” (Alexandrian
stage directions for dramatic works regularly included the list of the prosôpa
tou dramatos [πϱόσωπα τоῦ δϱάματоς]), and then to a narrative. Its Latin
equivalent, persona, refers in its turn to the mask that makes the voice
resonate (personare), before it designates a character, a personality, and a
grammatical person (Varro). The meaning of the compound prosôpopoiein [πϱоσωπо-πоιεῖν]—“to
compose in direct discourse,” that is, to make the characters speak
themselves—clearly shows that the dramatic meaning of prosôpon had a
particularly great influence on the history of the word. In any event, it seems
quite likely that when grammarians adopted prosôpon to designate the
grammatical “person,” they were thinking of the dialogue situation characteristic
of the theatrical text, which makes use of the alternation “I-you”: the
face-to-face encounter between person(age)s is rooted in the category of the
“person” (see SUBJECT, Box 6). Whereas terms like “tense” (chronos [χϱόνоς])
and “case” (ptôsis [πτῶσις]) are attested before they appear in strictly
grammatical texts, this is not the case for prosôpon used to refer to the
“person” as a linguistic category. On the other hand, in the earliest
grammatical texts, and in a way that remains perfectly stable later on,
prosôpon is adopted to describe both the protagonists of the dialogue and the
marks, both pronomial and verbal, of their inscription in the linguistic
material. In fact, the main difficulty encountered by grammarians regarding the
notion of prosôpon seems to have been how properly to articulate reference to
real persons occupying differentiated positions in linguistic exchange
(speaker, addressee, other) with reference to the person as a grammatical mark.
This difficulty occurs notably in a quarrel about definition. In the Technê
attributed to Dionysius Thrax (Grammatici Graeci 1.1 [chap. 13, p. 51.3 Uhlig =
57.18 Lallot]), the verbal accident of prosôpon is defined as follows: Prosôpa
tria, prôton, deuteron, triton; prôton men aph’ hou ho logos, deuteron de pros
hon ho logos, triton de peri hou ho logos [Пϱόσωπα τϱία, πϱῶτоν, δεύτεϱоν, τϱίτоν·
πϱῶτоν μὲν ἀφ’ оὗ ὁ λόγоς, δεύτεϱоν δὲ πϱὸς ὃν ὁ λόγоς, τϱίτоν δὲ πεϱὶ оὗ ὁ
λόγоς]. There are three persons: first, second, third. The first is the one
from whom the utterance comes, the second, the one to whom it is addressed, the
third, the one about whom he is speaking. This minimal definition clearly sets
forth the two protagonists of the dialogue, distinguishing them by their
position in the exchange, and introduces without special precaution a third
position, characterized as constituting the subject matter of the utterance.
The parallelism of the three definitions—a simple pronoun for each
“person”—masks the lack of symmetry between the (real) first and second persons
and the third person; the latter, as Benveniste pointed out (Problèmes de
linguistique générale, 228), may very well not be a “person” in the strictest
sense. This definition, which remained canonical for several centuries, was
attacked by Apollonius Dyscolus, who completed it as follows (I adopt the
formulation in Choeroboscos [Grammatici Graeci 4.2 (p. 10.27 Uhlig)], a
Byzantine witness to the Alexandrian master): Prôton men aph’ hou ho logos peri
emou tou prosphônountos, deuteron de pros hon ho logos peri autou tou
prosphônoumenou, triton de peri hou ho logos mête prosphônountos mête
prosphônoumenou [πϱῶτоν μὲν ἀφ’ оὗ ὁ λόγоς πεϱὶ ἐμоῦ τоῦ πϱоσφωνоῦντоς, δεύτεϱоν
δὲ πϱὸς ὃν ὁ λόγоς πεϱὶ αὐτоῦ τоῦ πϱоσφωνоυμένоυ, τϱίτоν δὲ πεϱὶ оὗ ὁ λόγоς μήτε
πϱοσφωνοῦντος μήτε πϱоσφωνоυμένоυ].) The first person is the one from whom the
utterance comes meaning me, the speaker, the second, the one who to whom the
utterance is addressed meaning the addressee himself, the third the one about
whom the utterance speaks and who is neither the speaker nor the addressee.
Apollonius’s arrangement contributes useful explanations: (a) each “person,”
including the first two, can be the subject of the utterance; (b) the third is
defined negatively as being neither the first nor the second (which implicitly
opens up the possibility that it is a “person” only in an extended sense,
insofar as it does not need to be competent as an interlocutor); (c) the
overlap of enunciation and enunciated is explicit: there is a first person when
the utterance refers to the enunciator-source, a second person when it refers
to the addressee, and a third when it refers to someone or something else.
Despite the incontestable advance represented by Apollonius’s revision, it
nonetheless leaves an ambiguity regarding the designatum of prosôpon: are we
talking about extralinguistic entities, “persons” engaging in dialogue or not,
or are we talking about linguistic entities, “accidents” of the conjugated verb
and the pronomial paradigm (personal pronouns)? Apparently the former, which is
surprising coming from a grammarian who prides himself on correcting another
grammarian. In fact, there is hardly any doubt that in Apollonius, the
ambiguity I mentioned is still attached to the term prosôpon. Consider the
following text, taken from Apollonius’s Syntax 3.59 (Grammatici Graeci 2.2 [p.
325.5–7 Uhlig]): Ta gar meteilêphota prosôpa tou pragmatos eis prosôpa
anemeristhê, peripatô, peripateis, peripatei [τά γὰϱ μετειληφότα πϱόσωπα τоῦ πϱάγματоς
εἰς πϱόσωπα ἀνεμεϱίσθη, πεϱιπατῶ, πεϱιπατεῖς, πεϱιπατεῖ]. The persons who take
part in the act [of walking] are distributed into persons: I walk, you walk,
he/she walks. We can interpret this to mean that in a group of
persons—extralinguistic entities— who are walking, every utterance concerning
the walk will elicit the appearance of verb endings distributing the walkers
among the three grammatical persons: such is the alchemy of Apollonius’s
prosôpon. Jean Lallot BIBLIOGRAPHY Benveniste, Émile. “Structure des relations de
personne dans le verbe.” Chap. 18 in Problèmes de linguistique générale,
225–36. Paris: Gallimard, 1966. Translation by M. A. Meek: Problems in General
Linguistics. Coral Gables, FL: University of Miami Press, 1971. Grammatici
Graeci. Edited by A. Hilgard, R. Schneider, G. Uhlig, and A. Lentz. Leipzig:
Teubner, 1878–1902. Reprint, Hildesheim, Ger.: Olms, 1965. Lallot, Jean. La
grammaire de Denys le Thrace. Paris: Le Centre National de la Recherche
Scientifique. Wikipedia Ricerca Liberté, Égalité, Fraternité motto della
Francia Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione
sull'argomento società non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono
insufficienti. Liberté, Égalité, Fraternité (in italiano Libertà, Uguaglianza,
Fratellanza) è un celebre motto risalente al Settecento e associato in
particolare all'epoca della Rivoluzione francese, divenuto poi il motto
nazionaledella Repubblica Francese. Testo esposto su un cartello
che annunciava la vendita dei biens nationaux, ovvero di quei possedimenti e
domini della Chiesa (edifici, oggetti, terreni e foreste) che furono confiscati
dopo la Rivoluzione francese (1793). All'epoca, il motto fu talvolta mutato in
Libertà, Egualità, Fraternità, o Morte: ma quest'ultima parte fu poi abbandonata
perché troppo fortemente associata con il regime del Terrore LibertàModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Libertà. La
prima parola del motto repubblicano francese è "Liberté", che fu
all'inizio concepita secondo l'idea liberale. La Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino (1789) la definiva così: «La libertà consiste nel
potere di fare ciò che non nuoce ai diritti altrui». «Vivere liberi o morire»
fu un grande motto repubblicano, adottato nello stemma originale del Club dei
Giacobini. Sotto il governo giacobino-montagnardodel Comitato di salute
pubblica, di cui Maximilien de Robespierre fu il leader più importante
(cosiddetto regime del Terrore), divenne famoso il motto: «Nessuna libertà per
i nemici di essa». UguaglianzaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Uguaglianza sociale. Timpano di una chiesa
con un'iscrizione risalente al 1905, anno della legge sulla separazione tra
Chiesa e Stato Secondo termine del motto repubblicano, la parola
"Égalité", significa che la legge è uguale per tutti e le differenze
per nascita o condizione sociale vengono abolite (egualitarismo); ognuno ha il
dovere di contribuire alle spese dello Stato in proporzione a quanto possiede. Il
principio teoricamente era già presente nel concetto di Stato di diritto, ma
con la Rivoluzione Francese venne praticamente messo in atto.
FratellanzaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Fraternità. Nella Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino,
parte integrante e iniziale della Costituzione dell'anno III (1795), la parola
"Fraternité", terzo elemento del motto repubblicano, è definita così:
"Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi"
(cosiddetta etica della reciprocità) Origini e usoModifica I primi
contenuti riferibili al motto Liberté, Égalité, Fraternité sono presenti nel
saggio pubblicato nel 1774 a Londra da Jean-Paul Marat, Work wherein the
clandestine and villainous attempts of princes to ruin liberty are pointed out
("Opera in cui s'illustrano i sotterranei e scellerati tentativi dei
prìncipi di cancellare la libertà"), che egli pubblicherà poi in francese
col titolo più noto Les chaînes de l'esclavage("Le catene della schiavitù"),
dove si anticipavano i temi dell'azione politica: una violenta presa di
posizione contro il dispotismo a favore della sovranità popolare e
dell'uguaglianza. Successivamente, nel libro La Costituzione, o Progetto di
Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 vengono ripresi e
perfezionati gli ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza che verranno
progressivamente adottati a motto e simbolo. La prima formulazione del motto è
attribuita a Camille Desmoulins (l'inventore anche della coccarda tricolore francese)
per la Festa del 14 luglio 1790, anniversario della presa della
Bastiglia.[1] Sebbene Liberté, Égalité, Fraternité sia un motto nato
dalla Rivoluzione francese e usato nella Prima repubblica, occorre attendere la
IIIe République (Terza Repubblica) perché venga adottato come simbolo
ufficiale: prima di allora il motto subisce una battuta d'arresto, insieme ai
principi fondanti della Repubblica. L'Impero e la Restaurazione trascurarono la
valorizzazione legislativa del motto, che ritorna alla pubblica ribalta solo
nel 1848 grazie alla penna di Pierre Leroux, all'epoca rappresentante del
popolo in seno alla Assemblée Nationale (Assemblea Nazionale). Egli partecipa
attivamente al percorso di riconoscimento del motto come principio costituente
della Seconda Repubblica. Nell'ambito di una repubblica a cui sovente si
pospone l'aggettivo "operaia", il motto acquista significati più
ampi: l'adozione del suffragio universale estende a tutti la Liberté di scelta
politica. La Commission du Luxembourg (Commissione del Luxembourg), nel
promuovere le Associazioni Operaie (antenate delle cooperative di produzione),
estende l'Égalité ai domini specifici dell'economia e della società. Infine,
per mezzo di uno Stato che assegna la sovranità al popolo, la Fraternité esprime
il senso della solidarietà e modera i potenziali ardori estremisti delle altre
due sorelle. Mentre in passato si tendeva a privilegiare l'Égalité o la
Liberté, questa fase storica vede la Francia percorrere la strada della
democrazia con un maggiore equilibrio. Tuttavia, ancora una volta, la
Repubblica si divide: la repressione popolare del giugno 1848 e il ritorno
dell'Empire rimettono in vigore la filosofia e la portata sociale del triplice
motto. È necessario che trascorrano ancora dei decenni per arrivare a vedere,
nel 1880, la celebre massima incisa sui frontoni di tutti gli edifici pubblici.
Poi, le Costituzioni del 1946 e 1958riconoscono autorevolmente il valore che il
triplice motto ha per la storia del Paese d'oltralpe. Liberté, Égalité,
Fraternité rappresentano un valore così grande da travalicare i confini della
Francia, sono simboli che hanno portata e rilevanza universali. Questo motto,
nato dalla fucina d'idee della rivoluzione francese, è un caposaldo
irrinunciabile della moderna cultura dell'Occidente. Alcune repubbliche
sorelle della Francia rivoluzionaria come la Repubblica Cisalpina napoleonica e
la Repubblica Napoletana adottarono un motto simile ("Libertà
Eguaglianza" e "Libertà e Uguaglianza"). Note Modifica ^ Yannick Bosc,
«Sur le principe de fraternité», 19 janvier 2010. Voci correlateModifica
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Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (IT) Il
motto della Repubblica francese - Il sito ufficiale della Francia ( FR )
Liberté, Égalité, Fraternité, su Les symboles de la République française,
Présidence de la République - Élysée.fr. URL consultato il 9 giugno 2010
(archiviato dall' url originale il 4 aprile 2010). Portale
Francia Portale Rivoluzione francese Ultima modifica 4 giorni fa di
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diritto e sociologia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici
puntuali. L'uguaglianza sociale - che si applica ai diritti e ai doveri della
persona, considerati in termini di giustizia- è un ideale che dà ad ognuno,
indipendentemente dalla sua posizione sociale e dalla sua provenienza, la
possibilità di essere considerato alla pari di tutti gli altri individui in
ogni contesto. Si tratta di un ideale presente, almeno come tale, in tutti i
paesi civilizzati, come rivendicazione di pari dignità individuale e sociale
per tutti. Luigi Taparelli d'Azeglio Mentre il concetto di
giustizia sociale può essere ricondotto alla teologia di sant'Agostino e alla
filosofia di Thomas Paine, il termine "giustizia sociale" iniziò ad
essere esplicitamente utilizzato negli anni '80 del 1700. Al sacerdote gesuita
Luigi Taparelli viene tipicamente riconosciuto l'aver coniato il termine, che
si è poi diffuso durante i moti rivoluzionari del 1848attraverso le opere di
Antonio Rosmini.[1][2] StoriaModifica Studi antropologici su siti
archeologici indicano l'esistenza di una sostanziale uguaglianza nelle società
di cacciatori-raccoglitori mentre con l'avvento dell'agricoltura si rilevano
gli inizi delle disuguaglianze[3]. Concetti di baseModifica L'uguaglianza
sociale è una situazione per cui tutti gli individui all'interno di società o
gruppi specifici isolati debbano avere lo stesso stato di rispettabilità
sociale. Come minimo, l'uguaglianza sociale comprende la parità di diritti
umani e individuali secondo la legge. Esempi sono la sicurezza, il diritto di
voto, la libertà di parola e di riunione, e dei diritti di proprietà. Tuttavia,
essa comprende anche l'accesso all'istruzione, l'assistenza sanitaria e altri
basilari diritti sociali, ed inoltre pari opportunità e obblighi. Genere
sessuale, orientamento sessuale, età, origine, casta o classe, reddito e
proprietà, lingua, religione, convinzioni, opinioni, salute o disabilità non
devono tradursi in una disparità di trattamento. Un problema aperto è la
disuguaglianza orizzontale, la disuguaglianza di due persone della stessa
origine e capacità. Nel mondo contemporaneo, poi, "i confini dell’uguaglianza
sociale si spostano in avanti: dopo le importanti conquiste dei diritti
sociali, legate alle lotte di emancipazione dei lavoratori e alla costruzione
dei moderni welfare state, si apre oggi un piano di azione per una
emancipazione ulteriore, che ha caratteristiche più sottili e insieme più
profonde: quelle della agibilità effettiva dei diritti sociali formalmente
sanciti e del pieno dispiegamento delle capacità individuali ancora compresse o
sotto-utilizzate per una larga parte della popolazione. In questi termini
appare evidente la natura «universalistica» delle nuove politiche, come
politiche per la promozione delle capacità e l’empowerment di tutti i
cittadini. Il principio universalistico dunque è costitutivo dell’approccio di
queste nuove politiche"[4]. In filosofiaModifica L'uguaglianza in
termini aristotelici è l'analogia delle parti da attribuire a soggetti uguali
rispetto a qualche caratteristica specifica (eguaglianza proporzionale) o la
pura uguaglianza matematica. Ci sono diverse forme di uguaglianza relative alle
persone e alle situazioni sociali. Per esempio, si può considerare la parità
tra i sessi per quanto riguarda l'accesso al lavoro; le persone interessate
sono di sesso opposto, la cui situazione sociale comune è l'accesso
all'occupazione. Allo stesso modo, la parità di opportunità, in senso generale,
implica l'idea che le persone dovrebbero essere nelle stesse condizioni di
partenza nella vita, ovvero che tutti dovrebbero avere pari opportunità
indipendentemente dalla loro nascita e successione. Peraltro, una
perfetta uguaglianza sociale è una situazione ideale che, per vari motivi, non
ha riscontro in alcuna società odierna. Le ragioni di ciò sono ampiamente
dibattute: circostanze concrete, addotte per il perpetrarsi della disuguaglianza
sociale, sono comunemente ritenute l'economia, l'immigrazione/emigrazione, la
politica estera e gli altri vincoli di cui soffre la politica nazionale.
Storia delle ideeModifica L'uguaglianza sociale è un obiettivo politico
soprattutto dei partiti di ispirazione socialista in tutte le sue variegature
storiche. Il concetto di uguaglianza anche in massoneria è estremamente
importante, divenendone uno dei cardini unitamente alla tolleranzaed alla
fratellanza[5]. Le battaglie in questa direzione hanno avuto un apice con
l'abolizione dei privilegi della rivoluzione americana del 1791. La prima parla
di Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, versione francese del
1789, comincia così: Les hommes naissent et demeurent libres e lala7 en
droits (Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti). In
antitesi vi è il concetto di gerarchiameritocratica tipico della destra, mentre
un sincretismo può considerarsi il "comunitarismo". Un controesempio
di uguaglianza sociale è stata ritenuta la disuguaglianza sociale dell'Europa
medievale. MedioevoModifica Il concetto di uguaglianza tra le persone si
riscontra anche in epoca medievale. Si tratta di un concetto ereditato
dall'epoca della cavalleria (che raggiunse il suo apice durante il XII secolo),
dove grande importanza aveva l'ideale secondo cui la vera nobiltà sgorgava dal
cuore delle persone, i quali quindi sarebbero stati al fondo tutti
uguali. «...tu vedrai noi d'una massa di carne tutti la carne avere, e da
uno medesimo Creatore tutte l'anime con iguali forze, con iguali potenzie, con
iguali virtù create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo
iguali, ne distinse;» (Boccaccio, Decameron) Tra gli studiosi dell'epoca
medievale c'è chi (si può citare Huizinga) rintraccia in quei documenti che
testimoniano la diffusione di questo principio i presupposti per poter parlare
dell'esistenza di un ideale egualitaristico già in epoca medievale.[6] Se così
fosse, nonostante la grande diffusione nella letteratura di corte dell'epoca,
andrebbe comunque sottolineato come questo primitivo concetto di uguaglianza si
limiti tuttavia a una mera considerazione di natura morale, senza che sia
minimamente avvertita la necessità, da parte di chi abbraccia tale ideale
(nella fattispecie i membri della nobiltà), di attivarsi per operare
attivamente sulla società per ridurre le disuguaglianze esistenti. Ciò si può
anche spiegare in base al fatto che durante il Medioevo dominava nella cultura
popolare e nobiliare una visione della società divisa in classi, regolate da
rapporti gerarchici ben precisi secondo un ordine che non poteva essere messo
in discussione, in quanto emanazione diretta della Divinità[7]. Rimanendo
nell'ambito di questa interpretazione, l'unica nozione diffusa relativa
all'uguaglianza tra le persone, al di fuori dei già nominati ideali nobiliari,
è l'uguaglianza di tutti di fronte alla morte. Nella Costituzione
italianaModifica In Italia il principio è riconosciuto nell'art. 3 della
Costituzione il quale afferma che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza,
di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali» (eguaglianza in senso formale) Quest'articolo esprime il
principio di uguaglianza in base al quale non devono essere attuate
discriminazioni di alcun genere tra i cittadini. Tale principio può apparire
scontato ma ci sono state, anche in tempi recenti, situazioni in cui esso non
era assolutamente riconosciuto. Concludendo, poi, che: «È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana» (eguaglianza in senso sostanziale)[8]
Note Modifica
^ Thomas Paine, Agrarian Justice, Printed by R. Folwell, for Benjamin Franklin
Bache. ^ J. Zajda, S. Majhanovich, V. Rust, Education and Social Justice, 2006,
ISBN 1-4020-4721-5 ^ Kohler,et al., Greather post-Neolithic wealth disparaties
in Eurasia than in North America and Mesoamerica , Nature, 2017, 551, 619-622,
in Chiara Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza,Introduzione,
2019, ed.Laterza, Bari, ISBN 978-88-581-3415-3 ^ M. Paci e E. Pugliese (a cura
di), Welfare e promozione delle capacità, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 25-26.
^ Domenico V. Ripa Montesano, Vademecum di Loggia, Roma, Edizione Gran Loggia
Phoenix, 2009, ISBN 978-88-905059-0-4. ^ L'autunno del Medioevo, p. 82. ^
L'autunno del Medioevo, p. 77. ^ Tra i contributi alla stesura di questa
parte della norma costituzionale si ricorda quello di Massimo Severo Giannini,
offerto su richiesta del costituente Lelio Basso. Ritenendosi da parte
socialista che fosse “un tradimento fermarci all'enunciazione dell'uguaglianza
formale”, ma non essendo “pensabile una norma di garanzia dell'uguaglianza
economica e sociale, che presupponeva un tipo di Stato allora e anche oggi
inesistente”, Giannini propose due soluzioni alternative: la prima più spinta,
che impegnava la Repubblica a offrire a tutti i cittadini “uguali posizioni
economiche e sociali di partenza”; l'altra che corrispondeva al testo poi
accolto. E senza una minima carica retorica noterà che “non avevamo intenzione
di fare del nuovo, ma solo di affermare un principio di dinamica dell'azione
dei pubblici poteri per una società più giusta” (Cesare Pinelli, Lavare la
testa all'asino, in Mondoperaio, n. 11-12/2015, p. 36). BibliografiaModifica
Carlo Crosato, L'uguale dignità degli uomini. Per una riconsiderazione del
fondamento di una politica morale, ed. Cittadella, Assisi 2013. Huizinga,
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contratto sociale, in Universale economica, traduzione di Jole Bertolazzi,
introduzione di Alberto Burgio, 12ª ed., Milano, Feltrinelli, 2019
[1762] , ISBN 9788807901027. Alberto Burgio, Eguaglianza, interesse,
unanimità. La politica di Rousseau, Napoli, Bibliopolis, 1989, ISBN
9788870882094. Accademia nazionale dei Lincei, Disuguaglianze e classi sociali:
la ricerca in Italia e nelle democrazie avanzate, in Atti dei convegni lincei,
Roma, Bardi, 2020, ISBN 9788821812026. Voci correlateModifica Differenziazione
sociale Disuguaglianza sociale Distribuzione della ricchezza#Disuguaglianza
Egualitarismo Potere Stratificazione sociale Società (sociologia) Pari
opportunità Femminismo Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote
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CORRELATE Egualitarismo dottrina politico-sociale che propone la parità di
diritti e opportunità degli individui Una teoria della giustizia
Uguaglianza di genere in Azerbaigian Wikipedia Il contenutoeguaglianza
Condizione per cui ogni individuo o collettività deve essere considerato alla
stregua di tutti gli altri, e cioè pari, soprattutto nei diritti civili,
politici, sociali ed economici. L'eguaglianza di tutti davanti alla legge è,
assieme alla libertà, un diritto fondamentale dell'uomo e una delle regole-base
di una convivenza democratica. In Italia l'eguaglianza è garantita
dall'articolo 3 della Costituzione. Le costituzioni democratiche assicurano
inoltre l'eguaglianza dei cittadini attraverso la libera partecipazione alla
vita politica e mirano a garantire pari opportunità nella vita sociale, cioè a
offrire a tutti le stesse possibilità di crescita e di affermazione personale e
professionale. eguaglianza formale e politica ADVERTISING Di
eguaglianza si parla in molti sensi: innanzitutto come eguaglianza formale e politica.
La prima consiste nel fatto che tutti i membri della società sono assolutamente
eguali nei diritti e nei doveri senza distinzione di sesso, origine, razza,
ricchezza, convinzioni religiose o politiche, e non devono subire
discriminazioni. L'eguaglianza politica, invece, sta nel fatto che ogni
cittadino ha uguale diritto di voto e può a sua volta essere eletto. Questi
ideali di libertà e di eguaglianza si sono venuti affermando in Europa e negli
Stati Uniti alla fine del Settecento, dopo una lunga lotta contro i regimi
monarchici e assolutistici (e contro la Gran Bretagna per le colonie americane)
che riconoscevano, tra l'altro, privilegi e differenze di status giuridico alle
classi aristocratiche. Gli ideali di eguaglianza hanno trovato espressione
nelle dichiarazioni dei diritti della storia inglese (a cominciare dalla Magna
charta libertatum, 1215) e soprattutto nella Dichiarazione d'indipendenza
americana (1776) e nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
approvata dall'Assemblea costituente francese nel 1789, in cui l'enunciazione
di tali principi gettava le basi di un nuovo ordine politico.
APPROFONDIMENTO di Stefano De Luca Entrata nella cultura occidentale con
lo stoicismo e soprattutto con il cristianesimo (che considera tutti gli uomini
dotati della stessa dignità, in quanto figli di un medesimo Padre), l'idea che
gli uomini siano eguali tra loro ha giocato un ruolo decisivo nelle vicende
sociali e politiche soltanto a partire dal Seicento. I principali pensatori
politici del 17° e 18° sec. (da T. Hobbes a J. Locke, da J.-J. Rousseau a I.
Kant) partono dall'ipotesi che gli uomini siano liberi ed eguali e di
conseguenza pongono l'origine dello Stato in un accordo volontario (il patto o
contratto) stipulato dagli individui stessi. Mentre per Platone e Aristotele
esisteva una gerarchia 'naturale' (fondata sull'intelligenza e sul sapere) tra
chi è adatto al comando e chi è adatto all'obbedienza - gerarchia che durante
il Medioevo si irrigidì nel criterio ereditario, fondato sulla nascita - per i
moderni pensatori contrattualisti gli uomini dispongono di eguali diritti e di
conseguenza l'ordine sociale e politico è qualcosa di 'artificiale', che gli
individui costruiscono tramite accordi. Queste idee troveranno
spettacolare applicazione nelle due grandi rivoluzioni moderne, quella
americana e quella francese, i cui più famosi documenti si aprono con un
solenne richiamo all'idea di eguaglianza. All'inizio della Dichiarazione
d'indipendenza americana (1776) troviamo un elenco di 'verità' autoevidenti, la
prima delle quali è "che tutti gli uomini sono creati uguali"; e nel
primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789)
troviamo proclamato il principio secondo cui "gli uomini nascono e
rimangono liberi e uguali nei diritti". 1. Diverse interpretazioni
di una stessa idea Il principio dell'eguaglianza si rivelò ben presto
suscettibile di varie interpretazioni: esso poteva infatti essere invocato sul
piano civile, come eguaglianza di fronte alla legge e nei diritti di libertà
(garanzie giudiziarie, libertà di coscienza, libertà di iniziativa economica);
oppure sul piano politico, come eguale partecipazione al potere tramite il
diritto di voto; oppure, sul piano sociale, come eguaglianza nel possesso di
risorse economiche. La richiesta dell'eguaglianza civile ha caratterizzato, tra
18° e 19° sec., i movimenti politici di ispirazione liberale, la cui principale
preoccupazione era la tutela della libertà individuale da ogni forma di potere
collettivo; l'eguaglianza politica - con la connessa richiesta del suffragio
universale - è stata invece, nella seconda metà del 19° sec., la ragion
d'essere dei movimenti democratici, i quali consideravano la partecipazione di
tutti al potere politico (cioè l'autogoverno collettivo) la forma più alta di
libertà; l'eguaglianza sociale, infine, è stata la bandiera dei movimenti
socialisti, che hanno teorizzato - sino alla metà del 20° sec. - la scomparsa
della proprietà privata e del libero mercato, nella convinzione che la vera
libertà potesse scaturire soltanto dall'eguale possesso delle risorse
economiche e non dal possesso di 'diritti astratti'. Tra questi diversi
tipi di eguaglianza, la differenza più grande è quella che separa l'eguaglianza
formale da quella sostanziale. L'eguaglianza nei diritti civili e politici è
un'eguaglianza formale, perché riguarda la sfera dei diritti e non quella dei
beni; di conseguenza, è compatibile con un grado più o meno ampio di
diseguaglianza sociale. Il fatto di essere eguali di fronte alla legge e nelle
libertà individuali significa che ogni individuo non subisce discriminazioni e
che dispone delle stesse facoltà: ma quanto ai risultati, sul piano sociale,
questi dipenderanno dal suo impegno e dalla sua abilità. Anche l'eguaglianza
politica non incide direttamente sulla sfera sociale, sebbene la partecipazione
di tutti al voto (e quindi, indirettamente, alle decisioni legislative) possa
far prevalere politiche di ridistribuzione della ricchezza. L'eguaglianza
sociale, invece, è un'eguaglianza di tipo sostanziale, giacché non riguarda i
diritti, ma i bisogni, e si traduce nell'eguale distribuzione dei beni: poiché
si tratta di una forma radicale di eguaglianza, in questo caso si è soliti
parlare di egualitarismo. 2. Diritti sociali e pari opportunità Se per
gran parte del 19° sec. lo scontro è stato soprattutto tra liberali e
democratici (divisi dal tema del suffragio universale), nel secolo successivo
lo scontro è stato tra liberali e democratici da un lato e socialisti e
comunisti dall'altro, divisi dal tema dei diritti civili, dei diritti politici
e della libertà economica: dal punto di vista dei socialisti e dei comunisti,
infatti, l'eguaglianza civile e politica era soltanto una maschera degli
interessi economici della borghesia, i quali determinavano la più reale e
oppressiva delle diseguaglianze. Nel corso del Novecento, tuttavia, sono sorte
correnti di socialismo democratico o riformista, che non rifiutavano i diritti
conquistati da liberali e democratici, ma pensavano piuttosto a integrarli con
una serie di diritti e politiche sociali (diritti sindacali, istruzione,
assistenza sanitaria e pensionistica, assegni di disoccupazione, servizi
sociali), il cui scopo è correggere gli squilibri dell'economia di mercato e
ridurre le diseguaglianze sociali. Per altro verso, anche nel pensiero liberale
si è manifestata una maggiore sensibilità sociale, che si è concretata nel
principio dell'eguaglianza delle opportunità, che mira (attraverso le borse di
studio, i prestiti d'onore e altri strumenti) a dotare tutti gli individui
delle stesse possibilità, cioè ad eguagliare i punti di partenza. A
partire dagli anni Sessanta del Novecento, il tema dell'eguaglianza ha giocato
un ruolo decisivo nella questione femminile, ossia nella lotta per eliminare le
discriminazioni e le diseguaglianze tra uomini e donne sul piano dei rapporti
personali e dei ruoli pubblici. Il tema delle 'pari opportunità', in questo
ambito, ha avuto negli ultimi anni un grande risalto: sono sorte infatti
apposite istituzioni il cui scopo è garantire, per le donne, eguali possibilità
di carriera nel settore pubblico e privato e una maggiore presenza nella vita
politica (a livello locale e nazionale).egualitarismo Concezione
politico-sociale tendente a realizzare, accanto all’uguaglianza di diritto
sancita dalle norme costituzionali o legislative, una uguaglianza di fatto,
fondata sull’equa ripartizione dei beni e delle fortune tra tutti i membri di
una società. L’egualitarismo affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella
Rivoluzione francese e ha ricevuto particolare impulso dai movimenti
socialisti. 1. Egualitarismo salariale Tipo di politica sindacale
mirante a ridurre le differenze retributive tra le diverse qualifiche
nell’ambito di una categoria o nell’insieme dei lavoratori dipendenti. In
Italia si è parlato di egualitarismo salariale per gli aumenti retributivi in
cifra fissa previsti dai contratti collettivi di lavoro (1969-79) e per
l’unicità del punto di contingenza (1975-86).Roberto
Esposito. Esposito. Keywords: fascismo, il Sistema dell’in/differenza, Vico,
Spaventa, Machiavelli, Bruno. Tanato-ethics, tanato-politica, three features of
the conversational imperative: generality: formal generality, applicational
generality, conceptual generality. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Esposito” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702454844/in/photolist-2mQwYd8-2mQiU3r-2mPYYve-2mPQGvz-2mN35cA-2mMQbzj-2mLLAxf-2mLExs3-2mKHtgX-2mPpVqK
Grice ed Evola --romanità – l’implicatura
di Romolo – filosofia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Evola was
a bit of a linguistic philosopher; I enjoyed his rambling on the proper use of
“Latin” versus “Roman;” Evola notes that the implicatures differ. ‘Roman’ he
links with Spartan, and he opposes to the formation, ‘greco-romano’ o
‘classico’ – “Latin” he applies to “lingua romana,” as Orazio and Tacitus had
done!” – Grice: “If I had to think of the equivalent linguistic analysis by an
English philosopher, I can only think of DeFoe, and his satire on what
constitutes an Englishman! Later parodied by Gilbert and Sullivan and put to
good effect in “Chariots of Fire,” where Abrams is seen referred to as “HE IS..
an Englishman! For he himself has said it!” -- - Italian philosopher – Figlio di Vincenzo e Concetta Mangiapane, barone
di Castropignano. Studia a Roma. Manifesta un'opposizione a Roma, soprattutto
in riferimento alla teoria del peccato e della redenzione, del sacrificio
divino e della grazia. Studia filosofia. Entra in contatto con
alcuni esponenti del Futurismo quali Balla e Marinetti. Partecipa alla
esposizione futurista a Palazzo Cova, Milano. Rientra a Roma dopo il conflitto
ed attraversa una profonda crisi esistenziale che lo porta al bordo del
suicidio. Aderisce al Dadaismo ed entra in contatto
epistolare con Tzara. Fonda “Bleu” Esce un saggio sull'idealismo magico. Si
deve superare i limiti dell'umano per andare verso “l'oltre-uomo”.Studia la teoria
e fenomenologia dell'individuo assoluto. Nel “L'uomo come Potenza”
compare una concezione dell'io ispirata ai dettami del tantrismo e del
taoismo. Queste ultime opere segnano un'ulteriore svolta: passaggio da
una posizione filosofica di tipo teoretico ad una di tipo pragmatico. Cerca
infatti di individuare strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella vita
quotidiana la teoria dell'Individuo assoluto. Inizia un'intensa esperienza giornalistica:
partecipa alla redazione di Lo Stato democratico e collabora a riviste come
Ultra, Bilychnis, Ignis, Atanor e Il mondo. Frequenta i circoli esoterici
romani e partecipa alla vita notturna della capitale. Disumano qual è, gelido
architetto di teorie funambolesche, vanitoso, perverso, s'è trovato dinanzi a
me come a cosa tutta viva, tutta schietta, mentre aveva fantasticato chissà quale
avventura necrofila. E questa cosa tutta schietta l'ha turbato, l'ha commosso,
segretamente. Coordina “Ur”, che si occupa di esoterismo. Conosce Reghini.
Pubblica “Paganesimo.” Attacca violentemente Roma ed esorta a ritrovare la grandezza
della civiltà romana. Oserà dunque Italia assumere qui, qui donde già le aquile
imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare,
regale, oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione mediterrane?
Influenzato da Guénon abbandona in seguito le tesi estremiste a favore del
concetto di “tradizione" e fonda “La Torre” destinata a difendere principi
sovrapolitici, in realtà una tribuna di filosofi che si battevano per una
Italia più radicale e più intrepida. Critiche mosse ad alcuni personaggi del
Regime dalle pagine de La Torre, provocano l'intervento di Starace che prima
diffida Evola dal continuare la pubblicazione, poi proibisce a tutte le
tipografie romane di stampare la rivista la cui pubblicazione, alla fine, viene
sospesa. Viene sorvegliato dal regime in quanto accusato di affiliazione
all'Ordo Templi Orientis ed è costretto ad assumere alcune guardie del corpo
(come testimoniato da Massimo Scaligero). In Meditazioni delle vette, intende
l'alpinismo come pratica ascetica e meditazione spirituale: superamento dei
limiti della condizione umana attraverso l'azione e la contemplazione, che
divengono due elementi inseparabili, un'ascesa che si trasforma in ascesi. Successivamente
pubblica due saggi La tradizione ermetica e Maschera e volto dello spiritualismo.
“La tradizione ermetica” è una disamina dell'aspetto magico, esoterico e simbolico
dell'alchimia. “Il volto e la maschera” è un saggio critico su quella filosofia
che invece di elevare l'uomo dal razionalismo e dal materialismo, lo portano
ancora più in basso: spiritismo, teo-sofia, antropo-sofia e psicoanalisi. In “Rivolta
contro il mondo” traccia un affresco della storia letta secondo lo schema
ciclico tradizionale delle quattro età: oro, argento, bronzo e ferro nella
tradizione occidentale. Analizza le categorie qualificanti l'uomo della
tradizione e le anticha "razza divina” Esamina a fondo Il mistero del
Graal e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni dei diversi periodi
storici, impostando tutta la sua disamina sul concetto di "tradizione
ghibellina dell'impero", cercando di svincolare il Graal e la sua portata
simbolica da Roma. Collabora attivamente con la Scuola di mistica da Giani,
tenendo alcune conferenze e figurando nel comitato di redazione della rivista
Dottrina. La maggior parte degli interventi di Evola in conferenze e scritti,
riguardano principalmente il concetto di “razza divina”, argomento che trova
appoggio da parte di Giani. Il concetto di “mistica” rappresenta
un'incongruenza potendo parlare, al più, di “etica.” Questo perché in realtà la
dottrina non affronta il problema dei valori superiori, i valori del sacro,
solo in relazione ai quali si può parlare di mistica. Evola ravveda nella
mistica un elemento rilevatore di una spiritualità lunare e del polo femminile.
E infatti il sottotitolo di Diorama filosoficola pagina prima mensile e poi
quindicinale curata da Evola nel quotidiano Il Regime è: Problemi dell’etica. Una
serie di scritti di Evola relativi alla scuola di mistica, sono stati
pubblicati dall'editore Controcorrente e aiutano in parte a chiarire le
posizioni assunte dal filosofo all'interno della suddetta corrente. Sia
in fatto o nell’ideale, esiste una opposizione fra l'uomo ariano e tradizionale
europeo e l’altri. L’ariano e capace di concepire e di realizzare un'armonia
fra corpo ed anima (“La civiltà occidentale”, Augustea). In “Mito del Sangue
ricostruisce le concezioni sulla razza dalle civiltà fino alle teorie di Gobineau,
Woltmann, de Lapouge, e Chamberlain. L'ariano (da "Arya") appartiene
al corpo e lo spirito. Si esprime negativamente sul colonialismo giudicando
l'Etiopia conquistata dall'Italia nient'altro che una contraffazione
degenerescente di un organismo tradizionale. Critic ail materialismo zoologico.
Ha una concezione dell'uomo come essere costituito da corpo, anima e spirito,
dove lo spirito deve avere il primato sull’anima e il corpo. L’opportunità di
questa formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche
restando biologicamente pura, se lo spirito è diminuito o obnubilat, se ha perso
la propria forza, come presso certi tipi nordici. Un corpo di una data razza si
liga in un individio lo spirito di un'altra razza. Respinge ogni teorizzazione
del razzismo in chiave “zoologica”! ponendo il pensatore tradizionale tra
coloro che «imboccata una certa strada, la seppero percorrere, in confronto con
tanti che scelsero quella della menzogna, dell'insulto, del completo
obnubilamento di ogni valore culturale e morale, con dignità e persino con serieta.
Non è il solo a prendere le distanze dal razzismo zoologico. Altre note figure
della cultura del tempo, come Acerbo, e meno note, come Mazzei, se ne
dissociano. L'impostazione critica data da De Felice su questo passaggio del
pensiero di Evola è particolarmente apprezzata dagli autori filo-evoliani.
Anche Orano sviluppa, secondo taluni, una forma di razza divina etico-sociale
che rinvia a Il mito del sangue di Evola. Primo, in ordine di tempo fu Orano. Dietro
di lui, con una vena più scadente, comparvero Romanini ed Evola. C’e tre ordini
di razza: corpo, anima, spirito. Dunque, Evola riprende, seppur in maniera meno
esplicita, alcune delle teorie del de Gobineu che cercano di identificare una
gerarchia ideale nei gruppi delle razze umane. Cio non impedisce ad Evola di
avere una "doppia affiliazione" ed essere pure membro della
Massoneria. Evola non aderisce al Partito e tale mancata adesione gli impedisce
di arruolarsi come volontario contro l'Unione Sovietica nel corso della Seconda
guerra mondiale. Critica del germanismo tuttavia l'incompletezza
nell'attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e aderente ai
principi della "Tradizione".Per esempio una difesa della razza e improntata
giuridicamente e il potere e derivato dal popolo e non un potere regale di
origine divina come nell'ideale società ario-germanica delle origini. Teorizza
dunque il tradizionalismo puro, ideale e radicale, capace di attuare i propri
principi e di far trionfare la cultura romana pagana delle origini -- un impero
europeo e pagano sotto la guida egemonica della Roma di Cesare. Fa ritorno
nell'Italia liberata solo al termine della guerra. Essendo rigorosamente
contrario all'abrogazione della Monarchia e alla trasformazione dell'Italia in
una Repubblica, intraprende tentativi di influenza.Si occupa di studiare e
combattere le trame occulte e antitradizionali della massoneria. Pubblica
“Impero”.Scrive Evola: “Io potevo aver difeso e potevo continuare a
difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di
fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo
stesso banco degli accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del
De Monarchia e via dicendo.” Si tenta di effettuare una "doppia
lettura" dei suoi testi: una lettura palese per il volgo ed una "esoterica"
per gli "iniziati". Pubblica “Gli uomini e le rovine” che esercita
grande influenza negli ambienti della destra italiana nel quale spiega la
decadenza del mondo moderno in seguito alla distruzione del principio di
autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l'affermarsi del
razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della tradizione. In
“Metafisica del sesso” tratta la forza magica e potentissima dell'atto
sessuale, attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose tradizioni. L'«Operaio»
in Jünger. “Cavalcare la tigre”. Scrive sul concetto metafisico ed immanente di
tradizione, come Il Ghibellino. “Gli uomini e le rovine” e “Cavalcare la tigre”
sono considerati due testi fondamentali grazie ai quali c'è una fattiva
adesione al ribellismo anti-sistema”Pubblica Il cammino del cinabro, la sua
autobiografia, e L'arco e la clava. Assiste alla costituzione dei
“dioscuri”, sodalizio dedito al ripristino della cultualità romana ed italica,
di cui è uno degli ispiratori, attraverso i suoi scritti sulla romanità, il
paganesimo e le idee imperiali, oltre che attraverso un particolare rapporto di
intimità con i dioscuri. Solstitivm. Evola è propugnatore del
Tradizionalismo, un modello ideale e sovratemporale di società caratterizzato
in senso spirituale, aristocratico e gerarchico. Tale modello si riscontra, da
un punto di vista storico, in la civiltà romana. La civiltà romana non si basa
su criteri economici, materiali e biologici, ma e suddivisa e gestita in base a
criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e spirituale. Ogni
azione che avviene durante la vita biologica (il divenire) rispecchia
direttamente una medesima azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque
imperitura e sovratemporale. Il cammino dell'uomo avviene attraverso un
percorso di tipo circolare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio,
nella teoria delle *cinque età* (dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli
eroi, del ferro). La civiltà romana, ritenuta superiora da Evola si basa dunque
su una più elevata dimensione metafisica e spirituale dell'esistenza, anziché
su criteri di ordine materiale. L'uomo ha la possibilità di elevarsi alla sfera
divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e l'iniziazione),
utilizzando determinati strumenti (l'azione e la contemplazione) all'interno di
contesti sociali predeterminati (la casta, l'impero). Non esiste differenza
quantitativa tra l'uomo e il dio. Ogni uomo è un dio mortale. Ogni dio un uomo immortale.
La razza e "spirituale". Rifiuta una visione zoological, in favore di
un patrimonio di tendenze e attitudini che, a seconda delle influenze
ambientali, giunge rebbero o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza
a questa razza spiritual si individuerebbe dunque sulla base dello spirito, e
in seguito del corpo, diventandone col tempo questo ultime il segno visibile. E
un concetto metafisico di razza. La romanita spirituale del quale parla Evola
parte appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo zoologico, rozzo e
deterministico, per sublimarlo e portarlo a pieno compimento sul piano dello
spirito – non romano, ma romanita --, ossia sul piano metafisico. Intendeva
potenziare e nobilitare la romanita, avvolgendolo in una nebulosa
filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido zoologismo. Vengono
ritrovate sette lettere da Evola a Croce (più una indirizzata all'editore
Laterza. Evola invia inizialmente a Croce la richiesta di intercedere presso Laterza
per la pubblicazione dei “Idealismo magico” e “Teoria dell'individuo assoluto”.
La seconda e una cartolina postale di Croce ringraziandolo per il giudizio di
apprezzamento sul lato formale dei due manoscritti dell’Idealismo magico e
Teoria dell’individuo assoluto. Laterza, nonostante l'appoggio favorevole
di Croce, Laterza scrive una lettera in
cui precisa di volersi riservare la massima libertà di decidere anche nei
riguardi di autorevoli amici. Evola scrive a Croce chiedendo aiuto per “La
tradizione ermetica”, un saggio sull'alchimia. In una quarta lettera, Evola
ringrazia Croce per l'interessamento. “La tradizione ermetica” esce per i tipi
dell'editore barese. Evola invia quattro lettere a Gentile. Nonostante le
marcate divergenze sul piano filosofico Evola si discosta dall'attualismo
gentiliano in favore di una rigida codificazione teoretica (l'idealismo magico)
il pensatore tradizionale cerca un confronto con uno dei massimi esponenti del
mondo accademico. Tale confronto non produce risvolti interessanti sotto il
profilo speculativo in quanto i due filosofi sono su posizioni eccessivamente
distanti, ed anche i presupposti dottrinali sono inconciliabili. Il
tentativo di Evola di aprire un colloquio costruttivo rimane un fiore che non
sboccia. Evola cerca di costruire, pur senza risultati apprezzabili, un punto
di riferimento culturale alternativo al gentilismo. Nel Cammino dei cinabro
tenta di spiegare così le ragioni di questo mancato incontro.“Ogni riferimento
extra-filosofico di cui il mio sistema filosofico e ricco sirve come un comodo
pretesto per l'ostracismo. Si poteva liquidare con un'alzata di spalle un
sistema che accordava un posto perfino al mondo dell'iniziazione, della
"magia" e di altri relitti superstiziosi. Che tutto ciò da me fosse
fatto valere nei termini di un rigoroso pensiero speculativo, a poco sirve.
Però anche da parte mia vi e un equivoco, nei riguardi di coloro ai quali, sul
piano pratico, la mia fatica speculativa posse servire a qualcosa. Si tratta di
una introduzione filosofica ad un mondo non filosofico, la quale posse avere un
significato nei soli rarissimi casi in cui la filosofia ultima avesse dato
luogo ad una profonda crisi esistenziale. Ma vi e anche da considerare (e di
questo in seguito mi resi sempre più conto) che i precedenti filosofici, cioè
l'abito del pensiero astratto discorsivo, rappresentano la qualificazione più
sfavorevole affinché tale crisi potesse essere superata nel senso positivo da
me indicato, con un passaggio a discipline realizzatrici.” Gentile tuttavia
riconosce ad Evola una certa competenza in campo esoterico-alchemico ed infatti
chiede al filosofo della tradizione di curare la voce “atanor” per
l'Enciclopedia Italiana. Anche alcuni allievi di Gentile riconoscono ad Evola
una certa stima, in particolare Calogero. Giuli successivamente riporta altre
informazioni, relative al carteggio Evola-Gentile, reperite all'interno della
"Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici", occupandosi
dei saggi che Evola invia con dedica a Gentile. Invia sette lettere a
Schmitt che mette in luce da una parte alcune amicizie e conoscenze in comune
tra i due pensatori (Jünger, Mohler e il principe di Rohan), dall'altra il
tentativo di proporre la pubblicazione in italiano del saggio di Schmitt sul
tradizionalista Cortes.Tale tentativo non va in porto, così come fallisce anche
il secondo progetto di pubblicare un'antologia schmittiana. Di rilievo,
all'interno dello scambio epistolare, le due divergenti visioni rispetto al
ruolo dell'uomo politico e la sua autonomia. Evola interpreta il concetto di
dittatura incoronata come «necessità di un potere che decida assolutamente, ma
ad un livello di una dignità superiore, indicata dall'aggettivo incoronata. Per
Schmidt, invece, esiste prima di tutto un passaggio significativo che porta dal
concetto della legittimità del regnare a quello della dittatura. La dittatura
incoronata significa solo un pis-aller pratico mai ha concepito questo
espediente pragmatico come una forma di salvezza. E in questo caso così come
già ampiamente esposto in Rivolta contro il mondo moderno, il costante rimando di
Evola ad un fondamento trascendente dell'ordine politico rimane quell'ineliminabile
discrimine che non può essere in alcun modo occultato o minimizzato. L'epistolario
assume rilievo in relazione al tentativo di fornire di solidi contrafforti
ideologici e culturali il mondo conservatore che, nel dopoguerra italiano, si
trovava a combattere la sua battaglia politica. Entra in contatto epistolare
con Benn, appartenente alla cosiddetta Rivoluzione conservatrice. Il primo incontro
risale durante la tappa berlinese di un viaggio che Evola effettua in Germania.
Da quell'incontro scaturisce una recensione-saggio di Benn alla versione di “Rivolta
contro il mondo moderno” che appare in “Die Literatur di Stoccarda”. Nel
presentare “Rivolta contro il mondo moderno”, Benn espone le sue teorie
convergendo con la visione del mondo di Evola. Si ha rintracciato tre lettere
da Evola a Benn. Le lettere sono importanti in quanto chiariscono la comunanza
di vedute dei due autori rispetto al tema della tradizione e di una visione del
mondo conservatrice, oltre al fatto che entrambi non si riconoscono nel
establishment. “Sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e
realizzare senza compromessi di sorta una tradizione spirituale e aristocratica
non rimanga purtroppo, oggi e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a
meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario». E un tentative di riprendere,
nel dopoguerra, i rapporti con i filosofi conservatori. Invia lettere a Tzara. Si
tratta di una trentina di documenti tra lettere e cartoline. Molte tappe del
cammino artistico del filosofo romano sono già note prima del rinvenimento
della corrispondenza con Tzara: in parte perché lo stesso Evola ne parla nella
sua autobiografia, in parte perché dedotte dai critici e dagli studiosi nelle
partecipazioni, in qualità di articolista, che ha in alcune riviste d'arte
dell'epoca: Noi, Cronache d'Attualità, Dada e Bleu. Ciò che invece non è noto
prima del rinvenimento della corrispondenza, sono le modalità dell'avventura
evoliana nella sfera artistica, ovvero come essa si attuò, come fu vissuta, a
che mirava. L'archivio della corrispondenza tra i due artisti ha, inoltre, il
pregio di colmare il vuoto di un periodo poco conosciuto di Evola. Questo vuoto
si colma sia attraverso la ricostruzione di tappe cronologiche (il recupero di
alcune date, partecipazioni a mostre, riviste, incontri) sia attraverso il
recupero di tappe più specificamente psicologiche. In particolare quelle che
portano Evola ad annunciare il proprio suicidio e che raccontano di un uomo
colto nel pieno male di vivere, di una sperimentazione del travaglio interiore
che l'artista vive, dove la sofferenza acuta si alterna alla disperazione. Altre
opere: “Arte astratta, posizione teorica” (Roma, Maglione e Strini); La parole
obscure du paysage intérieur, Roma-Zurigo, Collection Dada); Saggi
sull'idealismo magico, Todi-Roma, Atanòr);
L'individuo e il divenire del mondo, Roma, Libreria di Scienze e
Lettere); “L'uomo come potenza, Todi-Roma, Atanòr, “Teoria dell'individuo assoluto,
Torino, Bocca); “Imperialismo pagano, Todi-Roma, Atanòr); “Fenomenologia
dell'individuo assoluto” (Torino, Bocca); “La tradizione ermetica, Bari,
Laterza); “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Torino, Bocca);
“Rivolta contro il mondo moderno, Milano, Hoepli); “Tre aspetti del problema” (Roma,
Mediterranee); “Il mistero del Graal, Bari, Laterza); “Il mito del sangue,
Milano, Hoepli); “Indirizzi per una educazione” Napoli, Conte); “Sintesi di
dottrina” (Milano, Hoepli); La dottrina del risveglio, Bari, Laterza); “Lo Yoga
della potenza, Torino, Bocca); “Orientamenti, Roma, Imperium”; “Gli uomini e le
rovine, Roma, Edizioni dell'Ascia); “Metafisica del sesso, Todi-Roma, Atanòr);
L'«Operaio» in Jünger, Roma, Armando); “Cavalcare la tigre, Milano, Vanni Scheiwiller);
Il cammino del cinabro, Milano, Vanni Scheiwiller); “Saggio di una analisi critica” (Roma, Volpe);
“L'arco e la clava, Milano, Vanni Scheiwiller); “Raâga Blanda, Milano, Vanni
Scheiwiller); “Il taoismo, Roma, Mediterranee); Ricognizioni. Uomini e problemi,
Roma, Mediterranee); Lao Tze, Il libro della via e della virtù, Lanciano,
Carabba, Cesare Della Riviera, Il mondo magico de gli heroi, Bari, Laterza, René
Guénon, La crisi del mondo moderno, Milano, Hoepli, Emanuel Malinski, Léon De Poncins, La guerra
occulta, Milano, Hoepli, Gustav Meyrink, Il Domenicano bianco, Milano, Fratelli
Bocca Editori, Gustav Meyrink, La notte di Valpurga, Milano, Fratelli Bocca
Editori); Johann Jakob Bachofen, La virilità (Torino, Bocca); Gustav Meyrink,
L'Angelo della finestra d'Occidente, Milano, Fratelli Bocca Editori, Mircea
Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell'estasi, Milano, Fratelli Bocca
Editori, Ur, Introduzione alla magia come scienza dell'Io, Torino, Bocca, Otto
Weininger, Sesso e carattere, Milano, Bocca, Oswald Spengler, Il tramonto
dell'occidente, Milano, Longanesi,
Eduard Erkes, Credenze religiose della Cina antica, Roma, IsMEO, “Pitagora
I Versi d'Oro” (Todi-Roma, Atanòr); Lao Tze, Il Libro del Principio e della sua
azione, Milano, Ceschina, Gabriel Marcel, L'uomo contro l'umano, Roma, Volpe, E.
Jünger, Al muro del tempo, Roma, Volpe, Hans-Joachim Schoeps, Questa fu la
Prussia, Roma, Volpe, Erik Von Kuehnelt-Leddihn, L'errore democratico, Roma,
Volpe); Theodor Litt, Le scienze e l'uomo, Julius Evola, Roma, Armando, Pascal
Bewerly Randolph, “Magia Sexualis”, Evola, Roma, Mediterranee, K. Loewenstein,
La Monarchia nello Stato moderno, Julius Evola, Roma, Volpe) Robert Reininger,
Nietzsche e il senso della vita” (Roma, Volpe); Arthur Avalon, Il mondo come
potenza, Roma, Mediterranee, Daisetsu Teitarō Suzuki, Saggi sul Buddhismo Zen
1, Roma, Mediterranee, Lu Tzu, Il mistero del fiore d'oro, Roma, Mediterranee, Lu
K'uan Yû, Lo Yoga del Tao, Roma, Mediterranee, Come “Carlo d'Altavilla”: Theodor
Litt, Istruzione tecnica e formazione umana, Roma, Armando, Gustav Meyrink,
Alla frontiera dell'Aldilà, Napoli, Casa Editrice Rocco, Theodor Litt, Eduard
Spranger, Enrico Pestalozzi, Roma, Armando, Franz Hilker, Pedagogia comparata: storia,
teoria e prassi, Roma, Armando, Jacques Ulmann, Ginnastica, educazione fisica e
sport dall'antichità ad oggi, Roma, Armando, Karlfried Graf Dürckheim, Hara: il
centro vitale dell'uomo secondo lo Zen, Roma, Mediterranee, Bernard George,
L'ondata rossa sulla Germania dell'Est, Roma, Volpe, Erik von Kuehnelt-Leddihn,
L'errore democratico, Roma, Volpe, Hans Reiner, Etica, teoria e storia, Roma,
Armando,Stephan Leibfried, L'università integrata: l'istruzione superiore nella
Repubblica federale tedesca e negli Usa,
Roma, Armando, Ernst Cassirer, Saggio sull'uomo: introduzione ad una
filosofia della cultura, Roma, Armando, Walter Wefers, Basi e idee dello Stato
spagnolo d'oggi, Roma, Volpe, François Gaucher, Idee per un movimento, Roma,
Volpe, Donald Edward Keyhoe, La verità sui dischi volanti, Milano, Atlante,
Altre: I saggi di "Bilychnis", Padova, Edizioni di Ar, I saggi della
"Nuova Antologia", Padova, Edizioni di Ar, L'idea di Stato, Padova,
Edizioni di Ar, Gerarchia e democrazia, Padova, Edizioni di Ar, Meditazioni
delle vette, La Spezia, Edizioni del Tridente, Diario, Genova, Centro Studi Evoliani,
Etica aria, Genova, Centro Studi Evoliani, L'individuo e il divenire del mondo,
Carmagnola, Edizioni Arktos, Simboli della Tradizione Occidentale, Carmagnola,
Edizioni Arktos, La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra,
Roma, Fondazione, Considerazioni sulla guerra occulta, Genova, Centro Studi
Evoliani, Le razze e il mito delle origini di Roma, Monfalcone, Sentinella, Il
problema della donna, Roma, Fondazione Julius Evola, Ultimi scritti, Napoli,
Controcorrente, La Tradizione di Roma, Padova, Edizioni di Ar, Due imperatori,
Padova, Edizioni di Ar, Cultura e politica, Roma, Fondazione Julius Evola, Citazioni
sulla Monarchia, Palermo, Edizioni Thule, L'infezione psicanalitica, Roma, Fondazione
Julius Evola, Il nichilismo attivo di Federico Nietzsche, Roma, Fondazione
Julius Evola, Lo Stato, Roma, Fondazione Julius Evola, Europa una: forma e
presupposti, Roma, Fondazione Julius Evola, La questione sociale, Roma,
Fondazione Julius Evola, Saggi di dottrina politica, Sanremo, Mizar, La satira
politica di Trilussa, Roma, Fondazione Julius Evola, Scienza ultima, Roma,
Fondazione Julius Evola, Spengler e il "Tramonto dell'Occidente",
Roma, Fondazione Julius Evola, Lo zen, Roma, Fondazione Julius Evola, I tempi e
la storia, Roma, Fondazione Julius Evola, Civiltà americana, Roma, Fondazione Julius
Evola, La forza rivoluzionaria di Roma, Roma, Fondazione Julius Evola, Scritti
sulla massoneria, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, Oriente e occidente, Milano,
La Queste, Un maestro dei tempi moderni: René Guénon, Roma, Fondazione Julius
Evola, Julius Evola, Filosofia, etica e mistica del razzismo, Monfalcone,
Sentinella d'Italia, Monarchia, aristocrazia, tradizione, Sanremo, Casabianca, I
placebo, Roma, Fondazione Julius Evola, Gli articoli de "La Vita
Italiana" durante il periodo bellico, Treviso, Centro Studi Tradizionali, Dal
crepuscolo all'oscuramento della tradizione nipponica, Treviso, Centro Studi
Tradizionali, Il ciclo si chiude, americanismo e bolscevismo, Roma, Fondazione
Julius Evola, Il Cinabro, Julius Evola,
Il problema di oriente e occidente, Roma, Fondazione Julius Evola, Fenomenologia
della sovversione in scritti politici, Borzano, SeaR, Julius Evola, Scritti
sull'arte d'avanguardia, Roma, Fondazione Julius Evola, Esplorazioni e
disamine, gli scritti di " fascista,” Parma, Edizioni all'insegna del
veltro, Julius Evola, Esplorazioni e disamine, gli scritti di "
fascista", Parma, Edizioni all'insegna del veltro, Lo Stato, Roma,
FondazioneEvola, La tragedia della Guardia di Ferro, Roma, Fondazione Julius
Evola, Julius Evola, Scritti per "Vie della Tradizione" Palermo,
Edizioni Vie della Tradizione, Carattere, Catania, Il Cinabro, L'idealismo
realistico, Roma, Fondazione Julius Evola, Idee per una destra, Roma,
Fondazione Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Roma, Mediterranee, Evola, Il
"mistero iperboreo". Scritti sugli Indoeuropei, Roma, Fondazione Julius
Evola, Critica del costume, Catania, Il Cinabro, Julius Evola, Augustea, La
Stampa, Roma, Fondazione Julius Evola, Anticomunismo positivo. Scritti su bolscevismo
e marxismo, Napoli, Controcorrente, ulius Evola, Il Mondo alla Rovescia (Saggi
critici e recensioni), Edizioni Arya, Genova, La scuola di mistica fascista.
Scritti di mistica, ascesi e libertàm Napoli, Controcorrente, Julius Evola, Le
sacre radici del potere, Edizioni Arya, Genova. Evola, Civiltà americana.
Scritti sugli Stati Uniti, Napoli, Controcorrente, Evola, Scritti sulla
Massoneria volgare speculativa, Edizioni Arya, Genova.Julius Evola, Par delà
Nietzsche, Torino, Nino Aragno Editore, Evola, Fascismo Giappone Zen. Scritti
sull'Oriente, Roma, Pagine, Julius Evola, Ernst Jünger. Il combattente,
l'operaio, l'anarca, Passaggio al Bosco,, Rigener Azione Evola, Evola, Il
Fascismo e l'idea politica tradizionale, Documenti per il Fronte della
Tradizione Fascicolo n. 7, Raido,
Julius Evola, Mussolini e il razzismo, Documenti per il Fronte della
Tradizione Fascicolo, Raido, Evola, Le SS. Guardia e Ordine della rivoluzione
nazionalsocialista, Documenti per il Fronte della TradizioneFascicolo, Raido, Julius Evola, I "Castelli
dell'Ordine" e i nuovi Junker, Documenti per il Fronte della Tradizione
Fascicolo Raido, Il significato di Roma
per lo spirito "olimpico" germanico, Documenti per il Fronte della
Tradizione Fascicolo, Raido, Julius
Evola, La Dottrina aria di Lotta e Vittoria, Documenti per il Fronte della
Tradizione Fascicolo, Raido, Etica AriaOrizzonte Tradizionale, Edizioni Arya,
Genova. Raccolte di lettere e carteggi Julius Evola, Lettere di Julius Evola a
Girolamo Comi, Gianfranco De Turris, Roma, Fondazione Evola, Lettere di Julius
Evola a Tristan Tzara, Elisabetta Valento, Roma, Fondazione Julius Evola,
Lettere a Croce, Roma, Fondazione JEvola); La biblioteca esoterica. Evola Croce
Laterza. Carteggi editoriali, Antonio Barbera, Roma, Fondazione Evola, Lettere
a Carl Schmitt, Roma, Fondazione Julius Evola, Lettere a Gentile, Roma, Fondazione
Julius Evola. Julius Evola, La Torre. Foglio di Tradizioni varie e di
espressione una, Marco Tarchi, Milano, Il Falco, Claudio Mutti, Julius Evola sul
fronte dell'Est, in Quaderni del Veltro, Gianfranco De Turris, La
corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn, su centrostudilaruna, Gianfranco
De Turris, Profilo di Julius Evola, in Julius Evola, Rivolta contro il mondo
moderno, Roma, Mediterranee, Registro degli atti di nascita di Roma, Archivio
di Stato di Roma Registro degli atti di
nascita di Cinisi, Archivio di Stato di Palermo
Registro degli atti di nascita di Cinisi, Archivio di Stato di
Palermo Registro degli atti di matrimonio
di Cinisi, Tribunale di Palermo Registro
degli atti di nascita di Roma Archivio di Stato di Roma Il Barone Immaginario Il Barone
Immaginario, Gianfranco De Turris, Ugo
Mursia Editore, Milano, Catalogus Baronum,
pagina Vanni Scheiwiller, Nota dell'editore, in Julius Evola, Il cammino del
cinabro, Milano, Scheiwiller); Julius Evola, Il cammino del cinabro, Catalogo
della mostra con tutte le opere in:
Grande Esposizione Nazionale Futurista, Milano, Le Presse, Claudio
Bruni, Evola Dada, in Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Roma,
Mediterranee. Julius Evola, Il cammino
del cinabro. Egli prende la terra come terra, pensa alla terra, pensa sulla
terra, pensa 'Mia è la terra' e si rallegra di ciò: e perché? Perché egli non
la conosce, dico io. L'estinzione vale a lui come estinzione, allora egli deve
non pensare all'estinzione, non pensare sull'estinzione, non pensare 'Mia è
l'estinzione', non rallegrarsi dell'estinzione: e perché? Perché impari a conoscerla,
dico io.” Lettere a Tzara, Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola, Carlo
Fabrizio Carli, Evola pittore tra futurismo e dadaismo, su juliusevola. Claudio
Bruni, Evola Dada. Per un approfondimento: Vitaldo Conte, Maschere di Evola
come percorso controcorrente, Atti del convegno di studi "Julius Evola e
la politica", Alatri Emiliano Di Terlizzi. Luciano De Maria, Introduzione
a: FT. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori,Per un
approfondimento sulla produzione pittorica di Evola si rimanda a due cataloghi:
Evola e l'arte delle avanguardie. Tra Futurismo, Dada e Alchimia, Roma,
Fondazione Julius Evola, e Vitaldo Conte, Julius Evola. Arte come alchimia,
mistica, biografia, Reggio Calabria, Iriti, Julius Evola, Il cammino del
cinabro. Poi ristampati sotto forma di antologia: Gruppo di Ur, Introduzione
alla magia come scienza dell'Io, Torino, Bocca, 1955. Per una trattazione esaustiva dell'argomento
si rimanda a Renato Del Ponte, Evola e il magico gruppo di Ur, Borzano, Sea R, Evola,
Il cammino del cinabro. Francesco Lamendola, Alcuni aspetti del pensiero
filosofico di Julius Evola. Fenomenologia dell'Individuo assoluto, Roma,
Mediterranee, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti, Bologna, Il Mulino,
Giuseppe Gangi, Misteri esoterici. La tradizione ermetico-esoterica in
occidente, Roma, Mediterranee, Evola, Renato Dal Ponte, Meditazioni delle
vette, La Spezia, Edizioni del Tridente, Francesco Demattè, Julius Evola,
Meditazioni delle vette, in Secolo d'Italia, Gianfranco De Turris, Biografia,
in Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Julius Evola, Fascismo e Terzo
Reich, Alain de Benoist, Julius Evola, reazionario radicale e metafisico
impegnato, in Julius Evola, Gianfranco De Turris, Gli uomini e le Rovine e
Orientamenti, Roma, Mediterranee, La scuola di mistica fascista. Scritti di
mistica, ascesi e libertà, Napoli, Controcorrente, Il fascismo quale volontà di
impero e il cristianesimo, in Critica Fascista, Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della
Repubblica Sociale Italiana, Milano, Rizzoli, Roberto Vivarelli, Fascismo e
fascismi, in Nuova storia contemporanea, Evola stipendiato dal Duce, in
Avvenire, Marco Tarchi, Evola e il fascismo: note per un percorso non
ordinario, in Cultura e fascismo.
Letteratura, arti e spettacolo di un ventennio, Firenze, Ponte alle Grazie, Giuseppe
Parlato, Fascismo, Nazionalsocialismo, Tradizione, in Julius Evola, Fascismo e
Terzo Reich, Roma, Mediterranee, Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani
sotto il fascismo, Il Fascismo, saggio di un'analisi critica dal punto di vista
della Destra, Volpe, Roma, Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico
sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, Pino Rauti e
Rutilio Sermonti, Storia del fascismo, Roma, Centro Editoriale Nazionale, Giuseppe
Parlato, Fascismo, Nazionalsocialismo, Tradizione. Cfr. anche, sulla critica
allo stato educatore, Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Evola, Fascismo e
Terzo Reich, Fascismo e Terzo Reich.
Gianfranco De Turris, Nota del curatore, in Julius Evola, Fascismo e
Terzo Reich, Per un elenco completo delle collaborazioni giornalistiche:
Gianfranco De Turris, Biografia, in Gianfranco De Turris, Testimonianze su
Evola, Julius Evola, Il mito del sangue, Milano, Hoepli, Evola, L'esposizione
antiebraica di Monaco, "Il Regime fascista", Julius Evola, I testi
del Corriere Padano, Padova, Edizioni di AR, Franco Cuomo, I Dieci. Chi erano
gli scienziati italiani che firmarono il manifesto della razza, Milano, Baldini
Castoldi Dalai, Julius Evola, Il mito del sangue. Julius Evola, Il mito del
sangue. Il cammino del cinabro. Evola, Il cammino del cinabro, Franco Rosati,
Un pessimismo giustificato? Intervista a Evola, in La Nation Européenne, Renzo
De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, Renzo
de Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, Gianfranco
De Turris, Testimonianze su Evola, Roma, Edizioni Mediterranee e Vanni
Scheiwiller, Note dell'editore in Julius Evola, Il cammino del cinabro. Tale è
l'opinione di un'importante testata giornalistica italiana del tempo: Il
Giornale d'Italia (l'articolo è firmato
da Adone Nosari). Il rif. si trova in: Renzo De Felice, Storia degli ebrei
italiani sotto il fascismo, opAttilio Milano, Storia degli ebrei in Italia,
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l'antisemitismo e il nazionalsocialismo, Torino, Bollati Boringhieri, Alberto
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le destre, in Avvenire, Furio Jesi. Luca Leonello Rimbotti, Linea, Massoneria e
fascism: dall'intesa cordiale alla distruzione delle Logge: come nasce una
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traditore dello spirito, in Corriere della Sera, Gianfranco De Turris, Elogio e
difesa di Julius Evola. Pino Tosca, Il cammino della Tradizione, Rimini, Il
Cerchio, La via romana, Centro Studi sulle Nuove Religioni. Julius Evola,
Statuto della Fondazione Julius Evola, su juliusevola, Riccardo Paradisi, Gli
Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio, in Giovanni Conti, Evola
tascabile, Roma, Settimo Sigillo, Amalia Baccelli, Ricordo dell'uomo, in
Civiltà, //lastampa// edizioni/ aosta/la-nostra-
fuga- dagli-sul- monte-rosa- per- seppellire- le-ceneri-di-evola- Julius Evola,
Franco Freda Orientamentiundici punti,
Padova, Edizioni di Ar, Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Enzo Collotti,
Il fascismo e gli ebrei, Bari-Roma, Laterza, Alessandro Barbera, La biblioteca
esoterica. Carteggi editoriali Evola-Croce-Laterza, Roma, Fondazione Julius
Evola, Cesare Medail, Julius Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della
Sera, Cfr. la prefazione del testo
Lettere di Julius Evola a Benedetto Croce, pubblicato dalla Fondazione Evola. Guglielmo Savelli, Cronache di un incontro
mancato. Gli ardui rapporti tra l'attualismo e l'idealismo magico, su
italiasociale.org, Stefano Arcella, Gentile amico e nemico, "L'Italia
Settimanale", Margarete Durst, Il contributo di Julius Evola
all'"Enciclopedia Italiana", in Il Veltro, Guido Calogero, Come ci si orienta nel pensiero
contemporaneo? Sansoni, Firenze, Alessandro Giuli, Evola-Gentile-Spirito:
tracce di un incontro impossibile, in Annali della Fondazione Ugo Spirito. I
volumi sono: Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto,
Imperialismo pagano e Fenomenologia dell'individuo assoluto. Alberto Lombardo, Caro conservatore ti
scrivo, su centrostudilaruna, Si tratta del saggio Donoso Cortes in gesamteuropäischer
Interpretation, poi pubblicato in Carl Schmitt, Donoso CortésInterpretato in
una prospettiva paneuropea, Milano, Adelphi, Julius Evola, Ricognizioni. Uomini
e problemi, Roma, Mediterranee, C. Schmitt, Donoso Cortes Interpretato in una
prospettiva paneuropea, Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Giovanni
Damiano, Evola e l'utonomia del politico, Atti del convegno di studi "Evola
e la politica", Alatri, Emiliano Di Terlizzi, Antonio Caracciolo, Due
atteggiamenti di fronte alla modernità, in Antonio Caracciolo, Lettere di
Julius Evola a Carl Schmitt, Roma, Fondazione Evola. Essere e divenire, in
Julius Evola, Rivolta contro il mondo modern. Evola, infatti, oltre a Benn,
scrive a Guénon, Eliade e Schmitt e Jünger. Julius Evola, Il cammino del
cinabro, Lettere a Tzara, Roma, Fondazione Evola, Elisabetta Valent. In italiano Adriano Tilgher, Giulio Evola, in Antologia
dei Filosofi Italiani del dopoguerra, Modena, Guanda, Gianfranco De Turris, Omaggio a Julius Evola,
Roma, Volpe, Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Roma, Mediterranee,Maura
Del Serra, L'avanguardia distonica del primo Evola, in Studi Novecenteschi, Pier
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Modernità e tradizione nell'opera evoliana, Palermo, Edizioni Thule, Philippe
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Veneziani, La ricerca dell'assoluto in Julius Evola, Palermo, Edizioni Thule, Gian
Franco Lami, Introduzione a Julius Evola, Roma, Volpe, Marcello Veneziani, Julius Evola tra filosofia
e tradizione, Roma, Ciarrapico editore, Roberto Melchionda, Il volto di
Dioniso, Roma, Basaia, Giovanni Ferracuti, Julius Evola, Rimini, Il Cerchio, Anna
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Evola e le vicende processuali legate ai Far (1951-54), in Nuova Storia Contemporanea,
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De Turris, Evola. Un filosofo in guerra, Milano, Ugo Mursia Editore, Rene
Guenon, Lettere a Julius Evola, edizioni Arktos, Heliodromos, Speciale Evola,
Catania. Documentari Dalla Trincea a Dada di Maurizio Murelli. DVD dalla Società Editrice Barbarossa di Milano,
della durata di 101 min., che ripercorre il periodo artistico di Evola. Con
musiche di: Ain Soph, Kaiserbund, Roma, Wien, Zetazeroalfa. Pio
Filippani Ronconi, Reghini, Parise, Pitagorismo Tradizionalismo, Paganesimo,
Via romana agli dei, Fondazione Julius evola.
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Rigenerazion Evola, Centro Studi La Runa. Vatimmo, “Evola, un filosofo scomodo
per tutti”; Approfondimenti sul pensiero Francesco Rosati, Intervista a Evola,
su juliusevola, Giovanni Monastra, Evola tra la seduzione e l’aristocrazia. Michele
Ognissanti, Luci ed ombre su Evola, su salpan.org, Alberto Lombardo, Da Rivolta
contro il mondo moderno a Gli uomini e le rovine. Mario Polia, Linee per una
critica al concetto di tradizione in Evola, Giano Accame, Evola e la Konservative
Revolution, Luca Lionello Rimbotti, Evola così com'era, Vitaldo Conte, Maschere
di Evola come percorso controcorrente, Aleksandr Dugin, Astrazione e
differenziazione in Julius Evola, Opere dadaiste, futur-ism. 2artericerca. 29
dicembre. Interviste Intervista a Julius Evola, su youtube 29 dicembre.
Intervista a Salvatore Tringali, su youtube Intervista a Gian Franco Lami, su youtube
Quando Evola intervistò il conte Kalergi, su rigenrazione evola. GIULIO
EVOLA S \T0 A ROMA IL 19 MAGGIO 1889. | Evola parie
dall’idealismo: il mondo è per lui ■fa rappresentazione dell’Io. Ma
poiché l’Io subisce Kfa rappresentazione del mondo come nn limite e
wLffrc in essa la sua passività, s’impone all’Io l’ob- blitpi pratico di
sciogliere la sua passività in atti- vità riducendo il mondo sotto il
comando suo, [a- j rendo di esso l ' atto dell’Io. La tecnica di questo
pro- gresso di risoluzione del mondo nell’Io è data dal- l’Occultismo
magico. Dall’innesto dell’Idealismo clas- sico con la Magia nasce
/'Idealismo Magico di Evola. irò I; r„
Opere principali — Saggi sull’Idealismo magia - L’uomo come potenza -
imperialismo pagano, To- di, Atanor; Teoria dell’Individuo assoluto -
Feria- menologia dell’Individuo assoluto - Maschera e voi. to dello
spiritualismo contemporaneo, Torino, Boc- ca; L’indivìduo e il divenire
del mondo, Roma, Li- breria di Scienze e Lettere; La Tradizione
ermetica Bari, Laterza; Rivolta contro il mondo moderno Milano,
Hoepli. — Ha diretto le riviste Ur e La Torre.
Dall 'idealismo assoluto all’idealismo magico.
1) La Grande Solitudine. Una volta che l’Io si sia costituito a
prin- cipio a sè, a centro distinto di autoriferimen- to. il fatto
stesso che egli possa comunicare con qualcosa di altro da lui, il fatto
stesso che egli possa in generale conoscere, appare come un
singolare mistero. E poiché è evidente che posto il soggetto da una
parte, l’oggetto dal- l’altra non vi è più alcun modo di intendere
come quella lor congiunzione, in cui consiste il conoscere, sia
possibile; e poiché d’altra parte l’Io ha preso ormai coscienza di sè
e 75 non può più tornare a quello stato di ingem
)4 adesione, di compenetrazione con le cose cli f era appunto
condizionato dal suo non esser.! si ancora posto; resta aperta una sola
via al problema della conoscenza, e cioè: negar,, che l’idea di una
realtà esistente in sè stessa abbia un qualunque senso, affermare che ]
a sostanza delle cose consiste semplicemente nel loro venire
rappresentate o pensate dal. l’Io, intendere dunque che l’intero
sistema mondiale, nella ricchezza sterminata delle sue forme, con i
suoi oceani, i suoi soli e ] t . sue vie lattee, non è che un fenomeno,
una ap- parizione che è di questo Io e per questo Io, fuori dal
quale non gli si saprebbe coeren- temente garentire alcuna consistenza.
Lungo una tale via l’uomo vede dunque venir me- no progressivamente
tutti quegli appoggi e tutte quelle naturali evidenze su cui prima
riposava — tutto gli si fa ora dubbioso, pro- blematico, contingente.
Tutto ciò che sa, è che egli ora si trova così e così determinato,
che questa è la sua attuale esperienza, queste le leggi e le
categorie secondo cui egli si trova costretto a pensarla. Ma circa il
fondamento di tale determinatezza, di tali leggi e di tali
categorie, egli non sa nulla, e così nulla sa- prebbe garentirgli che le
cose, se così sono ed anche sono state nei casi osservati, non
possano ad un tratto cambiare, che ogni uni- L rI )iilà cd
ogni costanza non sia astratta e precaria, c h e , fondato su una
radicale contin- g c,lZ za , questo sistema di
fenomeni e di cate- ti» 1 ' j e non sia che un
episodio fugace, disper- mia incoercibile, imprevedibile vicenda.
in Se, dopo di ciò, l’individuo cerca ancora „ n
punto fermo, egli soltanto nel suo « Io » può
Irovarlo. — Il mondo è una rappresenta- r joiie, sta bene: ma si
può forse parlare di Ljpprescnlazione, senza nello stesso punto
resupporre resistenza di un « rappresen tall- ite». di un soggolo cioè
che la rappresenti? [n mondo è un sogno: ma ogni sogno non im-
Iplica forse un sognatore? Si può chiamare f a | S o, illusorio, non esistente
l’insieme dell’e- sperienza — ma colui che sperimenta e affer- ma
cotesta falsità, illusione, non esistenza non può essere, lui, falso,
illusorio, non esi- stente. Di là dall’obliquità e dalla
fluttuazio- ne delle « cose che sono e non sono » vi è dun- que una
sola certezza: 17o. Soltanto qui l’in- dividuo, con un possesso, ha una
realtà asso- luta ed in sè stessa evidente. Di tutto il resto _
dell’oceano sterminato dei nomi, delle for- me e degli esseri — non vi è
reale certezza: parvenza, contingenza, violenza di un bruto,
irrazionale « esser là », tali ne sono i princi- pi. * lo solo sono — il
resto è mia rappresen- tazione » : in ciò si può dunque intendere
la conclusione del secondo stadio della storia della
coscienza. Prima di passar oltre, occorre rilevare v
necessità che questo momento critico deli storia ideale dell’individuo
sia portalo e vk suto sino a fondo. Non prima che egli abbj a di
tutto dubitato e tutto negato, non prima eh,, egli abbia fatto intorno a
sè il deserto, noft prima che di ogni realtà abbia sofferta I’j N
realtà, di ogni evidenza la precarietà, di ogi,, luce l’oscurità: non
prima che egli abbia di- strutto ogni appoggio e ogni rifugio ed abbj
a realizzato il punto della «grande solitudine» — non prima
di ciò l’individuo può chiamar- si veramente tale, non prima di ciò egli
è un essere autonomo ed autocosciente. E’ quest,, atto negativo,
questo assoluto strapparsi da quanto prima gli dava consistenza — che
ora lo fa essere. Così come secondo l’energico del- to dello
Stirner, l’Io non è tutto, ma ciò che distrugge tutto; per questa
assoluta negatività albeggia nell’uomo quel principio tragico che
— come fu distintamente visto dal buddhismo — lo fa superiore
all’insieme della natura ed allo stesso regno degli « dei ».
Si può precisare il luogo di un tale Io co- me segue. Ogni
esperienza è inseparabilmen- te accompagnata dalla nota, implicita o
espli- cita, di essere una mia esperienza. Uautorife. rimento,
l’ahamkàra della metafisica indiana, è la condizione elementare, senza di
cui non è concepibile alcuna realtà, giacché la sola
78 Il 11 di cui posso concretamente parlare è
iella che, in un modo o nell’altro, si risolve r eal |:l
in ull a mia esperienza. Ora è possibile stacca- fe
cpiesto principio di autoriferimento dai particolari contenuti delle
esperienze per ri- legarlo in un certo modo su sè stesso. Allo- ra
s i ha: IO — IO, cioè una nuda esperienza, un possesso, qualcosa di
semplice e di ineffa- bile. Questa nuda esperienza si presuppone,
,|i fatto e di diritto, a qualsiasi altra esperien- za si può dire che
essa è come la tela sul- i a quale poi tutte le particolari esperienze
si ritagliano: qui si ha quel «veggente che non -, mai veduto »,
quel « conoscente che non è ina i conosciuto », quel punto di centralità
pu- ra di cui parlano le Upanishad, e rispetto a cui ogni
particolare esperienza, fenomeno o pensiero è un « posterius », qualcosa
che vie- ne dopo e che sta alla periferia. Si badi: qui non si
tratta nè di un Io « superiore », nè di un Io « inferiore », nè di un Io
« empirico », nè di un Io « trascendentale », — semplici no- mi e
astrazioni concettuali — bensì del mio I>>, di quella assoluta
presenza che sono nella profondità del mio essere individuale. Ora
che un tale Io sia qualcosa di immoltiplicabi- lr, qualcosa che è « solo
e senza un secondo », è troppo evidente. Parlare di altri Io da
que- sto livello è infatti contradizione in termini. Gli altri Io,
in quanto sono « altri », non so- no « Io », bensì dei
particolari contenuti p P senti nella mia esperienza — dunque degl;
oggetti, dei « conosciuti », al più il concett di un conoscente e di un
soggetto, non il So getto, non il conoscente quale è in sè stesso
(cioè: come autoesperienza), che, come t a |^ esso è unico e
incomunicabile. Fenomeni pJj tieolari in questo grande fenomeno, che è
il mondo a cui, come individuo, mi sveglio, « altri Io » ne
partecipano la contingenza, so- no qualcosa il cui principio mi sfugge,
di cui non ho alcuna reale certezza (forse che ara che i sogni non
mi presentano la parvenza di altri esseri simili a me? E non potrebbe
essere la cosidetta esperienza reale un sogno più po. tenie e
costante impresso in me, come lo sup- pose la scepsi cartesiana, da un
qualche spi- rito?), che cadono fuori da quel centro che, solo, può
costituirmi una terra ferma nel gran mare dell’essere. E’ questo un punto
su cui occorre richiamare particolarmente l’attenzio- ne: colui
che, o per preoccupazioni morali e sentimentali — a dir vero
riconnettentisi al- la precedente fase dell’evidenza naturale — o
per insufficienza di riflessione critica, non sia giunto ad estendere il
dubbio sulla realtà stessa degli altri soggetti, epperò a
concepirli come null’allro che mie rappresentazioni, quegli non ha
veramente condotto a fondo quel distacco, di cui poco fa si è parlato,
ep .SO però non ha ancora perfettamente
realizzala la pura essenza dell’individuale. Costui non è ancora
maturo per il passaggio alla terza epoca giacché di nulla può avere
assoluta I certezza quei che prima non ha saputo di tul- io
dubitare. 2) La uia della Potenza. Passando dunque alla
terza fase, diciamo subito che in essa si ha un superamento del
lato negativo connesso all’adergersi dell’indi- vidualità. Come chi una
avversa vicenda aves- se gittato sur una isola deserta incalzato,
di là dal primo sgomento, dalla volontà di vive- re, va a cercare
ed a creare mezzi per una nuova esistenza, così 1 individuo, che si sen-
te ormai solo con se stesso nell’intero ambito del mondo, può essere
portato a trarre dal proprio interno un principio che sappia fis-
sare una nuova realtà di là dall’ordine della parvenza e della mera
rappresentazione, in cui ogni cosa ormai è andata sommersa. Que-
sto principio è: LA POTENZA DI DOMINIO. L’Io, infatti, non è una cosa, un
« dato », un «fatto», ma, essenzialmente, un centro pro- fondo di
volontà e di potenza. Come lo dice il Fichte, egli non è, che in quanto
si pone — e soltanto un puro porsi è, a dir vero, il suo « essere
». Come tale si rivela, per un ul- c 8L
teriore autoapprofondimento, la natura di quel punto fermo, che si è
realizzato nel se- condo stadio. Ora questo punto fermo può
comunicare la propria consistenza a quel che non ne ha, e ciò
evidentemente quando si va- dano a riprendere secondo il rapporto
pro- prio ad una affermazione incondizionata dcl- l’individuale i
vari ordini di quella realtà, che prima appariva irrazionalmente, in
bruta con- tingenza, senza partecipazione della volontà dell’Io —
quasi come in un sogno. Resta da procedere ad una determinazione di
questo stadio, tale che si definisca l’oggetto della presente
trattazione, e cioè il rapporto del- l’individuo al divenire del mondo.
Nel frat- tempo si può dire quale sia il criteiio di cer- tezza che
si impone a questo punto. Esso è espresso dal principio: « Vi è assoluta
certez- za — ed è postulatile realtà — soltanto di quelle cose,
dell’essere o del non essere, del- l’essere cosi o dell’essere altrimenti
delle qua- li l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il principio o
la causa', delle altre, solamente nella misura di ciò che in esse
soddisfa ad un tale criterio». Queste cose dipendendo infatti
interamente dalla potenza dell Io, partecipa- no dell’intrinseca evidenza
che è inerente al nudo principio di questo. Volendo dunque
sviluppare la posizione assunta dalla coscienza nel terzo stadio,
si 82 ■ ns idererà l’unica vera obbiezione
incontra- W dall 'idealismo assoluto. Nell’idealismo as- P 0lulO si
ha la dottrina che cerca di trasfor- I re in qualcosa di positivo quel
lavoro ne- 1 ,ivo di critica e di scepsi che definisce il Secondo
stadio; e ciò cessando di intendere I il inondo come un fenomeno, come una
sem- jj cC apparizione (unica legittima conclusio- I „ e
dell’indagine critica) per intenderlo invece [ come qualcosa di posto, di
creato dall’Io. Per- Bianto quando si parla non più di rappresenta-
la bensì di porre e di creare, entra in giuo- Ico il concetto di una
libera volontà, ed allo- I rii sorge questo problema: lo posso ben
ri- B durre il mondo alla mia ruppi esentazione, nui fino a che
punto posso ridurlo anche alla mia volontà ed alla mia libertà?
Qui bisogna porre un punto fondamentale, e cioè intendere
l’essenziale differenza che in- I lercorre fra spontaneità e volontà. Si
ha spon- taneità là dove il possibile essendo identico al reale
ossia dove quel che è essendo ciò che soltanto poteva essere, l’atto ha
la forma di I una inconvertibile compulsione, di un bruto accadere
e scatenarsi, ed è passivo, impoten- te rispetto a sè stesso. Invece
nella volontà vi f è una eccedenza del possibile sul reale, non si
passa cioè dal possibile al reale immediata- mente, ma un punto di
autarchia, di « pote- stas», domina l’atto come l’estrema, incondi-
zionata ragione del suo essere o del suo i 1(Jll essere, del suo
essere così o del suo essere altrimenti come alto che è solamente uno c|
e j possibili, anzi dei compossibili. E’ importante notare che
tanto la spontaneità che la volontà possono dirsi libere: però mentre
nella spoj,. taneità si tratta di una libertà affatto ncgatj. va,
di una libertà cioè che vuole semplicenieji. te dire: «non essere
determinato dall’ester- no», nella volontà si ha una libertà
positiva, una libertà cioè che significa assoluta assen- za di
condizioni, siano esse interne che ester- ne, e quindi contingenza, o, se
si preferisce, arbitrarietà dell’atto. Una volta compresa
questa distinzione, che non poggia tanto su concetti e sottiglicz-
ze intellettuali, quanto piuttosto sur un dato immediato di coscienza,
sur una evidenza in- terna che o si ha o non si ha, quando l’idea-
lista assoluto di contro al sistema della realtà afferma essere stato
l’Io a porlo, è evidente che egli si riferisce non ad una volontà,
ma ad una spontaneità. Egli si riferisce infatti a quell’attività
onde le cose vengono percepite e rese intime al nostro Io, a
quell’elementare « assenso » onde ci si accorge di esse — as- senso
che se è condizione necessaria per ogni realtà, in quanto realtà
sperimentata dall'Io (e di altra realtà noi non possiamo coerente-
mente parlare), è ben lungi dall’essere anche 84 r
^dizione sufficiente. Infatti nel rappresen- c , il reale non è
dominato dal possibile, l’Io passivo rispetto al proprio atto — non
tanto Lff ernia le cose, quanto piuttosto è come se i L » cose si
affermassero in lui. Come la passio- ne e l’emozione, la rappresentazione
è sì qual- , sa di mio, qualcosa che io traggo dal mio proprio
interno (e fin qui arriva la legittimi- tà dell’istanza dell’idealismo,
del resto soddi- sfatta sin dal Leibniz), ma non è me, giacché jo
non posso darla liberamente a me stesso, giacché io non sto in rapporto di
signoria alle determinazioni di essa, onde mi si dispiega lo
spettacolo della realtà che è questa realtà, |l0) i la realtà che io
voglio. Conseguentemeu- i c; in tanto l'idealista può dire di essere
stato [lo a « porre » la natura, in quanto egli ridu- ce l’Io a
natura, cioè in quanto di quelVlo, che. c libertà, non sa nulla, o, per
meglio dire, fa come se non sapesse nulla, e, con evidente
paralogismo, mutua il concetto di Io con quel- lo del principio di
spontaneità. — Posso dire di essere stato io a porre la natura, ma io
in quanto sono spontaneità, non in quanto sono propriamente un Io,
e cioè libertà e domina- zione. — E questo è il primo punto.
I! realista, riferendosi propriamente al punto della reale
individualità, avanza dun- que una istanza che è interamente
legittima. Egli ci pone dinnanzi ad una qualunque con-
85 tingenza dell’esperienza, per es. dinnanzi a ,| una
tempesta, e ci domanda se possiamo ( |j. re di essere stati noi a « porla
». Mentre q U j l’idealista risponderebbe con l’affermativa
e ciò perchè, come si è detto, per lui « porre > significa
semplicemente rappresentare C o a « libera necessità » — noi invece,
riferendoti ad un porre che il principio del dominio <•
dell’incondizionata libertà comandi, rispon- deremmo: « Ciò, in verità,
non è posto dal- l’Io ». Altro non chiede il realista per dire su-
bito: « Poiché ciò non è posto dall’Io, vi deve essere un “ altro ” a
porlo » — ed inferisce ad una causa reale o esistente in se stessa
del- le rappresentazioni, quale Dio, la materia, il noumeno, ecc.
Qui sta invece l’errore e il pun- to su cui ci si permette di richiamare
tutta l’attenzione del lettore. — Dire che io, come lo, cioè come
principio sufficiente e libero, non posso riconoscermi come causa
incondi- zionata delle rappresentazioni, non vuole af- fatto dire
che queste rappresentazioni siano causate da « altro » e abbiano per
substrato delle cose reali o esistenti in sè stesse, ma vuole
semplicemente dire che io sono insuf- ficiente ad una parte della mia
attività, la quale è ancora spontaneità, che una tale par- te non è
ancora MORALIZZATA, che l lo co- me libertà in essa soffre una
PRIVAZIONE. Tutto ciò su cui non posso, tutto ciò che re- 86
5 j e a iia mia volontà, non è che una priva- tone di questa
volontà stessa, qualcosa di ne- (ivo, non un essere, ma un non-essere.
Per- il realista va respinto par ime fin de non ecevoir : egli nel
suo riferirsi ad un « altro » ____ Dio, noumeno, sostanza, ecc. — fa del
non- ^sere un essere, chiama reale ciò che essen- j 0 solamente una
privazione della mia poten- za , essendo nuH’altro che una negazione
ed ’ vuoto nel corpo immoltiplicabile della mia attività, si
dovrebbe invece, secondo giustizia, dire irreale. Così conferma questa
privazione slcssa __ così {ugge-, all’atto che, dominando- le,
possedendole, annulla le cose (1) e redime la privazione, egli invece
sostituisce l’atto che le riconosce e che dà loro
superstiziosamente un essere e una realtà autonoma. Proprio al
primo atto si appunta invece il criterio di cer- tezza della terza delle
fasi indicate: esso chie- de cioè che l’Io libero e nudo
dell’individuo possa veracemente affermare il principio del-
l’idealismo assoluto, epperò dire: « In verità, io sfesso son la causa ed
il Signore di questo mondo, in cui mi vivo ». Ma quando sarà pos-
sibile affermare ciò? Evidentemente quando Tindividuo abbia redento in un
corpo di li- ti) Naturalmente: le annulla in quanto sono al-
tre, per affermarle invece come gesti di una vulon- U) potente.
87 berla l’oscura passione del mondo, quando abbia
fatto passare la forma secondo cui egli vive l’attività rappresentativa
(quell’attività cioè per cui si forma in lui lo spettacolo del-
l’universo), da spontaneità — da coincidenza di possibile e reale — a
nuda, incondizipnata causalità, cioè a: volontà potente (1).
Ora che soltanto in una tale veduta l’atto dell’individuo abbia un
valore cosmico, e che invece in quella del realismo all’attività
ven- ga tolto ogni vero senso e scopo, può risulta- re ad ognuno
chiaro. Infatti l’attività ha ve- ramente un senso ed un valore soltanto
là do- ve vi è da far reale qualcosa, che già non e tale. Questo
caso si verifica appunto là dove P « altro » — ossia ciò che rispecchia
il limite (1) Come questa trasformazione, che affermiamo
essere non un mito, ma possibilità reale, possa poi praticamente
compiersi, è un problema da noi trat- talo almeno nei limiti in cui sia
possibile pub- blicamente e genericamente trattarlo — altrove, c
che qui non trova posto. Si può dire soltanto che è un compito a cui nè
cultura, nè devozione, nè fi- losofia, nè arte, nè morale, nè nient’altro
di ciò che gli uomini chiamano «spiritualità», può porta- re il
menomo contributo. Quanto alla filosofia, il suo limite è l’idealismo
magico, in cui perviene a rico- noscere la propria insufficienza e a
postillare la rea lizzazione della potenza come ciò in cui i suoi
mas- simi problemi possono trovare l’unica assoluta lo- ro
soluzione. 88 Ella mia ,i,)erla — venga inteso non
come ■"f 1 realtà» bensì come una negazione ed un K » 0 -
allora il mondo appare come qualco- ' l \]i incompleto, come qualcosa che
chiede E u a integrazione a quell’atto dell’individuo, ILe 1«
necessità si faccia libertà, a quello f ii u pp° deirautoaffermazione
onde l’attua- le potente dell’Unico si estenda e riaffermi r q U
anto ne è la privazione. Se invece si po- f c i K . 1’ « altro » in
quanto tale — cioè pro- |Ljo come quel principio che limita la mia
|j!j )ert à — sia non una privazione e un non-es- bensì una positività e
una realtà — allo- ro tutto è già perfetto, tutto è già « essere »,
e „on occorre far altro. Ogni scopo ed ogni va- lore dell’attività
e del divenire, ogni respon- I «abilità vengono meno — giacché i vuoti
del ìmio essere non sono anche vuoti dell’essere in generale: l\
altro», con la realtà attribui- tagli- li riempie. Invece nell’altro caso
tutto il inondo appare come una oscura, dolorosa ri- chiesta all’Io
affinchè questi si dia a sè me- desimo secondo potenza e, in ciò, lo
attui nel- l'essere, in ciò lo redima dalla privazione, in ciò lo
faccia reale. E il divenire — ciò che io faccio — ha allora un valore, un
valore co- smico. Esaminando più da vicino la
posizione realistica, si vede che essa si fonda su que- sto
presupposto: che una attività imperfetta, una attività limitata da
per sè stessa non poJ sa venire concepita, che non appena sia p r
.ì sente una attività limitata si debba snjjju pensare a qualcosa
che sia causa di questa li. nutazione. Infatti così sta la quistione nel
p r() _ hlema della conoscenza: nelle cose vi è Utl aspetto per cui
esse indiscutibilmente dip,.,,. dono dall’attività dell’Io, aspetto che
si rif c . risce al loro venire in generale rappresentale o
sperimentate; ma vi è anche un secondo aspetto, che rappresenta un lato
negativo nel- l’attività dell’Io, riferentesi appunto aU’in 1J)(>
. tenza di percepire, non percepire o trasmutare la percezione come
si vuole. Ora su che cosa si basa il realismo? Appunto su ciò, che
à sente il bisogno di dare una spiegazione a questa limitazione,
che esso non vuole ammet- tere che una attività limitata, cioè una
attivi- tà incompleta, sia ciò che sta prima, e quindi sente il
bisogno di spiegare la limitazione con qualcosa di «altro»; si riferisce
dunque ad una realtà distinta dall’Io come causa delle
rappresentazioni. Ma un tale presupposto ilei realista è ciò che vi può
essere di più conte- stabile. La concezione a cui si rimette
è questa: che ciò che sta prima debba essere l’assoluto e che tutto
ciò che è particolarità e finitezza non sia concepibile altrimenti che
come una negazione operata da parte di un « altro » L Ila
pienezza di questo assoluto preesisten- tratta cioè della posizione
platonica e te -noziana, espressa dal principio: « Ciò che '
veramente, è l’universale; il particolare da 1 ' s è stesso non esiste,
cioè: in ciò che esso 1,0 . l’universale, e in ciò che è
propriamente Articolare non è, è fredda e piatta negazio- r s Ora
ad una tale concezione si può con- Lmporre l’altra, secondo cui non si va
a pre- ' apporre 1,asso,uto al finito e al P articolare ’ f.
aim nette invece che ciò che sta prima sia {«recisamente il finito e il
particolare, intesi *\ r ò non come qualcosa di in sè contraditto-
Ijjjo bensì come qualcosa di incompleto, non conni qualcosa che non
esiste da sè stesso, bensì come qualcosa che già in una certa mi-
sura possiede l’essere e rispetto a cui l’asso- luto non ne sarebbe la
negazione, ma lo svi- luppo- P unto in cui esso va a rentlere P er
' folto il proprio principio secondo un proces- so continuo dal
meno al più, dalla potenza all’atto, da un grado più povero ad un grado
pii, intenso di attualità e di essere. Ora in una tale concezione — che
si impone dovunque sviluppo, sintesi e divenire non siano un vuo-
to nome — a ciò che viene prima, in quanto viene prima, inerisce un certo
grado di « pri- vazione », il quale gli è naturale e in nessun modo
chiede di venire spiegato. La sua spie- gazione, se mai, non sta indietro
— in un as- soluto limitato dalla potenza di un « altro » —
bensì avanti — nel processo dell’incornpi^ to che si integra, della
potenza che arde nel l’atto, onde non vi è propriamente da spiega
re, ma da agire, da procedere in una più j, tensa affermazione (1).
(1) E’ importante notare la relatività del conte!, to di
privazione. Un dato elemento non è mai p ri . vazione in sè, ma sempre in
relazione al valore del- Pautarchia. Il passaggio ad un tale valore fa di
q ll( ,| che era positivo come spontaneità qualcosa di ne- gativo e
di «in potenza» rispetto al punto ulterio- re. Cosi pure per chi non
vuole passare dal punto di vista logico a quello della volontà il
concetto di privazione non è intelligibile — ma allora l’ideali-
smo astratto resta l’ultima istanza. — Quando si crede di superare la
presente dottrina spiegando la privazione con una realtà distinta, non si
fa un passo avanti ma un passo indietro, giacché si [ a uso della
categoria logica della causalità, con il chi- questa stessa realtà
diviene condizionata, logica- mente posta dall’Io. E il cerchio si
richiude e il li- vello critico resta il limite. Si passa invece oltre
per un assoluto positivismo. Quale è la differenza fra una cosa
reale ed una imaginata? Rappresentate, lo sono tutte e due egual-
mente; ma di là da ciò l’attività rappresentativa a cui corrisponde la
cosa reale è una attività rispet- to a cui sono impotente. Vi sono elementi
su cui non posso. Questo è tutto. 11 problema di interpretare
questo non-potcre non lo risolviamo, perchè non lo poniamo e anzi
tacciamo di intellettualistica, di astratta, di irrile- 92
Si può dunque contestare il presupposto lei realismo, si può non
concedere il concel- |. gpinoziano del finito come negazione su
: peso si basa. Poiché le cose sono, in quan- cu* ^ f
anzitutto sono rappresentate, cosi che un ole rispetto a ciò
che davvero importa a questo * unto ogni ricerca di tale genere. Questo è
un punto fondamentale: noi affermiamo che la spiegazione EL] fatto
che si è impotenti in certe situazioni con •| ricorso ad un « altro » —
cosa in sè, Dio, « Sto- ricità dello spirito» et similia — è una psendospie-
Laziorie, anzi un circolo vizioso per questo: che in noi il concetto di «
altro » trae il suo senso e il suo fondamento dal concetto di « non
potere », il quale l ciò che sta prima e di cui oggettività, cosa in
sè, ilio. ccc. non sono che tanti simboli e traduzioni
intellettuali. Le cosidette cose reali sono simboli ,1,1 mio non-potere,
della mia privazione. E’ per- ché sperimento una privazione che chiamo
reale una cosa c non viceversa. La privazione spiega il concetto di
una realtà oggettiva e non la realtà og- gettiva il concettò di
privazione. Segue da ciò una dichiarata professione di agnosticismo, un
arre- co dinnanzi al nudo fatto del non-potere con ri- nuncia a
spiegarlo come che sia*? Niente affatto. Ciò che neghiamo (non perchè non
ne possiamo dare una, ma perchè tali spiegazioni non ci servono e
non ci bastano ) è la pseudospiegazione intellettuale, che lascia i fatti
come sono, che non trasforma il rapporto reale della mia potenza con le
cose. (Si crede sul serio che la miseria e la contingenza che
dannano l’essere finito siano in qualche cosa ri- mosse quando le si
spieghino con la materia anzi- »3 grado di attività e
però di positività è già j n , plicito; poiché l’Io si può sperimentare
imme- diatamente come una energia, come un p r j n . cipio di
azione, come qualcosa che non chi e . de ad altro il suo essere; poiché
di diritto non esiste un limite inconvertibile per lo svilupp,, del
potere; non vi è alcuna necessità di t ra . scendere, in ordine al
problema del conosce- re, il concetto di una attività imperfetta (qu a
. le è la spontaneità rispetto alla volontà) che solo, ci viene
imposto da un esame positivo e spiegare la rappresentazione con il
riferi- mento realistico ad un « altro » che la causi e la
sottenda. In ciò si avrebbe non tanto una che con Dio. con l’ Io
trascendentale anziché con la materia, e cosi via, in simili cattive e a
buon mer- cato astrazioni?). La spiegazione che l’ idealismo mu-
gico esige è ben altra: è una spiegazione mediuntt l’azione, una
spiegazione risolutiva: è ex-plicare, os- sia attuare, rendere perfetto:
far passare in atto ciò che è in potenza, in perfezione ciò che è
imperfe- zione, in sufficienza ciò che è insufficienza, secon- do
un processo sintetico, originale, creatore. Que- sta è la sola, vera
spiegazione. Il resto è passatempo. Noi aspramente combattiamo
tutta la rettorica intellettuale e filosofica onde l’uomo si indugia
a discorrere intorno alla sua impotenza (ciò noi in- tendiamo
quando ci si parla di « verità », « raziona- lità », ecc.) anziché
balzare finalmente in piedi, im- pugnarsi e, ardendola, farsi ciò che in
sé è: un Dio, un costruttore del mondo. 94
Baione intellettuale, quanto piuttosto il Rfjsnia infingardo di colui,
che, insufficiente, dall’atto. ■perciò la concezione
che si presenta al ter- s tadio dello sviluppo dell’individuale è,
tj complesso» la seguente: un continuum di Eit’vità che ha per limiti da
una parte la spon- f c ità, dall’altra la volontà libera. La spon-
r c jtà è l’universale, la volontà libera l’indi- . i ua le. Questi
limiti stanno fra loro come po- I a a d atto: tutto ciò che
nell’esperienza è Eretti vità, immediatezza, necessità, è, rispet-
to al punto dell’individuale, il non-essere ine- [fcnte a ciò che è in
potenza — e qui si com- anderà forse a che cosa alludessero certi
fistici quando parlavano dell’ « oscura pas- sione del mondo », dell’ «
indicibile sofferen- za dell’esistenza » in cui il corpo dell’ «
Uomo I celestiale » è crocifisso. Di una tale tenebra, di una tale
privazione, la libertà è l’a//o e la Lm ma luminosa; e il mondo diviene,
si fa reale secondo realtà assoluta soltanto in e per questa
fiamma, cioè soltanto nella misura in cui l’individuo, affermandosi nel
punto della potenza e della dominazione, consuma, arde ! la sua
originaria natura, fatta di spontaneità. Da qui un punto fondamentale:
Solamente nell’ « Individuo assoluto », solamente nel- l'«Autarca»
il mondo diviene reale: la suf- ficienza che egli si dà a sè stesso dà
alla na- tura un essere, una consistenza, una
certe?*., e una ragione che essa, prima di lui, non p 0 . siede
già, ma chiede. Onde cercare la verità e la certezza nella natura è un
assurdo: <jj ac> che la natura in quanto tale è privazione axépTjotc
e la certezza e la verità non l’ha i n sè, ma nell’individuo, epperò in
tanto Pi la in quanto l’ individuo se la dia a sè stesso. // mondo
è, soltanto se egli è. Ma questo essere egli non potrà mutuarlo da nulla,
chè, avuto «la altro, esso non sarebbe più essere, essere essendo
soltanto ciò che è da sè stesso < xxil’ aùtó); se dunque egli non si
fa il salvatore di sè stesso, nulla mai potrà salvarlo. E’ così che
la spiegazione e la verità non stanno dietro, ma avanti — e non in un
dedurre, ma in un passare aH’atto. Tutta la natura, insieme di
esseri condizionati, insieme di esseri che si rimettono ognuno ad altro
da sè, gravita sul- l’individuo: quei che non ha bisogno di nulla,
quei che non si appoggia su nulla — è ciò di cui tutti gli esseri hanno
bisogno, su cui tutti gli esseri si appoggiano e con cui, nella
misu- ra in cui essi sono, sono uno. Egli solo, come colui che ha
in sè stesso il proprio principio, come colui che è « ente di possesso »,
clic è « persuaso », sostiene il peso del mondo: a lui, che
consiste, il processo universale si appen- de e in lui trova la sua
condizione, ciò per cui dall’eternità è, ed in cui ha la sua desti
96 1 nazione finale. Perciò solamente nel
punto in cui l’individuo si attua nella folgorazione jello potenza
sorge una finalità, una ragione f ii uno scopo nella natura: non prima ;
è lui che gliela dà. Essa la chiede al suo atto. Ep- però un solo
imperativo ha ormai l’indivi- ( | U o: «SII, fatti DIO, e in ciò fa
essere, SAL- VA H mondo ». 3 ) Il mondo, atto dell’Io.
A lumeggiare questo punto, connettiamo due ultime considerazioni,
riguardanti l’una il problema dell’essenza e dell’esistenza, l’al-
tra quello dell’uno e dei molti. Le cose sono essenza ed esistenza.
L’idea di cento talleri e cento talleri reali non sono
evidentemente la stessa cosa. Pertanto nei cento talleri reali, così come
lo ha mostrato Kant, non vi è logicamente compreso nulla più che
non sia nell’idea dei cento talleri. Ne segue che in tanto si fa
differenza fra gli uni c gli altri, in quanto ci si riferisce a
qualcosa ili irreduttibile all’elemento logico. Questo qualcosa è
1’ « esistenza », opposta all’ « essen- za » (o, più rigorosamente, 1’ «
esse existen- tiae » opposto all’ « esse essentiae »). — Ed ora un
secondo punto. All’essenza, al « che cosa è » di una determinata realtà
principio t)7 esplicativo è il concetto: quando una
realtà venga mediante il concetto geneticamente co- struita in
tutte le note che la individuano, l’istanza esplicativa nell’ordine dell
essenza è esaurita. Pertanto che un oggetto di cui si sia
interamente penetrato ciò che è, sia, il nudo fatto del suo « esser là »
come oggetto reale, ciò costituisce un punto che sfugge interamen-
te alla spiegazione razionale, è un àXcyov — e principio esplicativo ad
esso adegualo è non il concetto, bensì la volontà o, per meglio di-
re, la potenza. Infatti il puro essere delle cose costituisce per me un
mistero fin quando esso ha carattere di bruto dato, di qualcosa che
è là senza partecipazione del mio volere, im- ponendosi anzi
secondo violenza a questo; breve: come una privazione della mia
atti- vità. Mentre l’essenza posso pensarla e quin- di « costruirla
», l’esistenza semplicemente la patisco — e per questo mi costituisce una
oscu- rità. Si imagini invece una situazione in cui possa
connettere Tesserci delle cose al loro volerle incondizionatamente, cioè
in cui la mia volontà avesse valore di potenza creatri- ce: allora
la loro esistenza di fatto di là dal loro concetto cesserebbe di essermi
un miste- ro, essa al contrario mi sarebbe perfettamen- te
intelligibile — essa sarebbe spiegata. Es- senza ed esistenza hanno
dunque per rispetti- vi principi esplicativi la costruzione ideale
98 . opera del pensiero e la causazione reale
l"[ 0 pera della volontà. E questo è il secon- di punto.
‘ Il terzo punto è il seguente, che fra costru- F" nza
od esistenza — non vi è differenza di « nnlinnlo /lì errarlo I
.MHpa ò fTÌà 1111 ideale e volontà creatrice — quindi fra
atura. ma soltanto di grado. L’idea è già un
dell’affermazione reale; e la eosiddet- f* realtà oggettiva non è che
l’affermazione pii 1 intensa e completa di quella
potenza che. • forma elementare, determina la cosa sem-
liceinente pensata o rappresentala. La real- tà non è che l 'atto
dell’idea, ciò in cui questa individua ed esprime interamente sè, cosi
co- pidea non è che una realtà in potenza, os- sia U na realtà
semplicemente abbozzata o al- lo stato nascente. Fra l’una e l’altra non
vi è dunque salto, vi è invece progressività. Il pen- derò di cento
talleri e cento talleri reali non sono evidentemente la stessa cosa — ma
ciò n0 n qualitativamente (cosi come potrebbe pensare chi crede che
il pensiero, anziché un'Impotenza, sia l’imagine impersonale di una
realtà oggettiva) ma intensivamente, nel sen- so che i cento talleri
reali sono la più profon- da, intensa potenza, relativa propriamente
al- l’atto magico, dell’affermazione corrisponden- te ai cento
talleri pensati. Ed ora uniamo que- sto risultato a ciò che si è detto
poco la. Vi è una esistenza che è morte, privazione,
99 irrealtà — e tale è quella corrispondente spontaneità
rappresentativa, residuo .yl prima epoca, in cui l’atto è passivo rispep
^ sé stesso, die l’Io non domina come il SUo * gnore. Di questa
esistenza non vi è certeàjj vera: non dipendendo da me come la n»«
ne o 1 emozione, essendo un puro accade un principio di radicale contingenza
la ripr e i de. Vi è invece una seconda esistenza, che i quella che
una volontà elevatasi a pot eri2 può incondizionatamente produrre: sola
mi^ ! te questa è propriamente esistenza, realtà ajJ solida, e
solamente di essa — ove si trova L nn giunto soltanto con se stesso in un
possesso ed in un dominio — l’Io può avere una reale) certezza. Fra
l’una e l’altra di tali esistenze vi è l’attività mentale propriamente
detta. J In altre parole: di là dal limite ideale del re- gno della
pura necessità — della natura e della spontaneità — come di là dalla
sua « privazione », l’individuo fruisce nell’ordine razionale o
ideale di un primo grado dell’at- tualità sufficiente e della
libertà. Questo gra- do procede verso la sua perfezione nello svi-
luppo secondo cui la potenza si riafferma in livelli sempre più complessi
e profondi della spontaneità — dell’antica natura o dell’uni-
versale — fino a dominare lo stesso grado intensivo dell’esistenza reale.
Allora da oscu- ra passione e da feroce deserto fatto di pii-
100 Rione, il mondo si farà l'atto stesso
dell’in- Jjduo, ed in ciò sara redento e persuaso . . . Ji
l'Individuo Assoluto. Si può raccogliere insieme nel modo
se- dente quanto si è detto. Il punto di partenza è
l’universale, il qua- L nell’ordine della realtà non costituisce il
grado più ricco — come lo vuole il platoni- co — ■ ma invece il grado più
povero, non il punto di arrivo, il terniinus ad quem, ma il punto
di partenza, il terniinus a quo. In esso s j ha infatti il semplice stato
dell’essere che trova sè stesso, che è pura spontaneità, che nini
si possiede ma, semplicemente, è. Stato di pienezza e di luce per l’Io
non ancor nato, t presso al punto dell’individuale esso appare
invece come oscurità e morte: cosi in un pri- mo momento esso si dissolve
nel mondo della parvenza e della mera rappresentazione; in Jan
secondo momento viene sentito come pas- | suine infinita, come il dolore
cupo e muto del- la privazione, come l’indicibile crocifissione nel
mondo della necessità. Ma, nata da lui, questa morte l’individuo la
assume ora con (gioia: egli è sufficiente ad essa; egli sa
che soltanto il suo proprio, sovrannaturale valore I 1 essere fatto
di possesso» ne è la causa; 101 egli la riconosce
come la materia, dalla q„ a . lo soltanto egli potrà trarre lo splendore
<ij una vita e di una realtà assolute. Ed allora l’oscurità
gradatamente si illumina, allora dall’abisso della necessità sorge il
fiore ferri . bile dell’Individuo assoluto. Egli si erge lei,,
tissimamente nel cielo senza stelle, liacndosj dalla vampa di ciò che
egli divora nella sua potenza. Le cose e gli esseri muoiono
nell’i,,. tensità vertiginosa di lui che, gradatamente,
irresistibilmente, diviene — che, spaventevoh nella sua purità, è «
Signore del Sì e del K<> > <? Dominatore dei « tre mondi ». E
in lui, ente di possesso, ente che «arde e fiammeggi! », il
processo dell’universo avrà con il suo allo, la sua consumazione o
perfezione tinaie. I Questo è, ad un dipresso, il senso del
siste- ma che io sostengo; nel quale da una parte ho cercato di
fondere il problema gnoseologi co e il problema ontologico con quello
etico c della autorealizzazione o magico; dall’altra, di
rivendicare il valore dell’individuo e di far- gli nascere la coscienza
del suo compito e del- la sua dignità cosmica. j E’ ciò che
io riconosco come verità, o, per meglio dire, è ciò che io voglio come
verità (1). (1) L’individuo e il divenire del mondo, Roma,
Li- breria di Scienze e Lettere, 1 5)2(5, cap. I. Race and the Myth
of the Origins of Rome In his Life of Romulus (I,8), Plutarch writes: “Rome
would not have risen to such power had it not had, in any way, a divine origin,
such as to offer to th eyes of men something great and inexplicable.” Cicero
repeats the same thing (Nat. Deor. II, 3, 8) and then goes on to consider (Har.
Resp., IX, 19) the Roman civilisation as that which surpassed eveyr other
people or nation through sacred knowledge: omnes gentes nationesque
superavivums. For the ancient Romans, Sallust has the expression religiosissimi
mortales [the most religious mortals]. On the other hand, in our day all of
that is fantasy or superstition for many “serious” persons and “critical”
minds. The “facts” are the only thing that count for them. The mythical
traditions of the ancients have no value, or they have it only insofar as it is
supposed that, here and there, they are confused reflections of real events,
that is to say, tangibly historical. There is, in that, a fundamental
misunderstanding that was already denounced to a certain degree by our
Giambattista Vico, then by Schelling, still more recently by Bachofen and,
finally, by the most recent school of the metaphysical interpretation of myth,
and by those little known today (Guenon, W.R Otto, Altheim, Kerenyi, etc.).
According to all these writers, the mystical traditions are neither arbitrary
creations more or less on the poetic and fantastic plane, nor deformations and
transpositions of historical elements. Especially in regard to origins,
Bachofen correctly pointed out that symbols and legends, “If only in a
dramatised form, represent actually and truly the history of the beginnings of
a nation, but not the history of events occurring materially on earth, but
rather of spiritual processes that have given birth to a new people alongside
other people although different in culture and civilisation: history, so to
say, of its prenatal period. Legend and history, are tightly connected; the
former proceeds through interiorisation and is dispersed through images, while
the latter proceeds through exteriorisation as facts and events. These images
are the result of formative living forces, facts are organised by human
thought. In legends one is transported by formative forces; in the other, there
is premeditated organisation of facts. But the legend is the invisible part and
root of history; it is not poetry, rather it is a reality much vaster than
history itself. The threads of the destiny of a people that unravel visibly in
the most various ways in their historical development, go back to the impulses,
to the creative spheres, to which the heroes of its legends are connected.”
125 In a particular way, Bachofen revealed that even at the point in
which evidence, by being recognised as a myth, came to be rejected by profane
history, even when it is a positive witness to the spirit of a people. In that
way, a study of mystical traditions, using new criteria, can lead us to
interesting conclusions from the point of view of a theory of race that is not defined
by the material aspects of the issues, but also addresses the inner reality of
race. On the occasion of the current anniversary of the Birth of Rome, we want
to illustrate this interpretative method, applying it precisely to the exegesis
of the myth of our origins. The legends related to the birth of Rome
concentrate such a quantity of sensitive elements based on general meanings of
civilisations and mythologies of Aryan peoples, that a special work would be
necessary to analyse them and clarify them adequately. Therefore, we will point
out here only the most notable themes, among which are: the miraculous birth,
the theme of being “saved by the waters”, the “wolf”, the “tree”, the rival
pair of twins. The myth of the union of a god with a mortal woman, in the
present case, of Mars with Rhea Silvia, form which union Romulus and Remus were
born, recurs in almost all traditions in regard to the birth of “divine
heroes”. Zeus and Leto gave birth to Apollo, Zeus and Alcmene to Hercules,
Heracles being the symbolic hero of the Doric-Achaean Aryan peoples, and Apollo
having a connection with the land of the Hyperboreans and with the primordial
Nordic-Aryan races. An analogous origin, in properly Germanic traditions, is
attributed to the heroic peoples of the Volsungs, to which Siegfried belongs.
In the ancient royal Egyptian tradition - whose remove origin can with good
reason also be considered to be Aryan and Atlantic-Occidental - every sovereign
is thought to have been begotten by a god uniting with the queen: his tradition
in which the hidden meaning of the myth comes to the fore, inasmuch as a
miraculous birth without the help of a man, of a human father, was imagined.
Since the queen had her consort, the idea that her son was conceived by a god,
being awaken to life by her husband, could only indicate that he, not in his
moral part, but so to say, in that eternal and “divinatory” part, had to be
thought of as a type of incarnation of a decisive supernatural element that
came to confer a royal dignity on him. In the case of Rome, therefore, Mars is
such an element from above, that is, the divine representation of the principle
of warrior virility. Such a force stands therefore at the origins of the
Eternal City and at the basis of its secret origin, veiled by the legend: so
that in some traditions form the era of the Roman Republic itself, it will be
directly conceived as the “son” of Mars. And this “Mars” force is associated
with those who may be the guardians of the sacred flame of life; symbolically,
with a vestal (Rhea Silvia). 126 The twins Romulus and Remus are
abandoned to the waters and are saved from the waters. Here again is a symbolic
theme recurring in many traditions: Moses is saved from the waters, the
Indo-Aryan hero Karna is left in a basket in the river and is saved from the
waters, and so on. But the symbol contained in the most ancient Aryan tradition
is especially important, i.e., the Vedic tradition, in which ascetics are
depicted as “supreme natures who stand on the waters”. Analogous explanations
and, therefore, the hidden meaning of such a symbol, can be clarified as
follows: the waters have traditionally always depicted the current of time,
i.e., the basic element of mortal, unstable, contingent, passionate, fleeting
life. The weak man is taken from the waters and carried from the waters. The
seer or hero, the ascetic or the prophet is saved from the waters, or is
capable of standing on the waters, or of not sinking in the waters. Hence, in
the myth of the origins of Rome this symbol must again characterise the
“divine” element of the founders of Rome, their, so to speak, supernatural
dignity. The twins find refuge near the fig tree [Ficus Ruminalis] and are
suckeld by a She- wolf. The word Ruminal contains the idea of feeding: the quality
of Ruminus, related to Jupiter, alluded to the quality of “nourisher”, of the
“god who gives nourishment” in the ancient Latin language. But this is the most
elementary aspect of the symbol. In general, in the most ancient traditions of
the Aryan races, the tree is the symbol of universal life, it is the tree of
the world or the cosmic tree. If it is in the form of a fig tree as it appears
in the legend of Roman origins, precisely as a “fico indico” [Banyan tree] -
the ashwattha tree - it is depicted as upside- down in the Indo-Aryan tradition
to express that its roots are from above, in the “heavens”. The idea of a
mystical flood from the tree is an often recurring theme: the myth of Jason,
Hercules, Odin, Gilgamesh, etc. Naturally, according to the races and their
spirit, this then present diverse variations. We know from the Hebraic myth
that to pick and eat from the tree in order to make oneself like god is
considered as the principle of guilt, abuse of power, and a curse. Things are
conceived in a very different way in the myths of the Aryan races and even in
the paleo-Chaldean myth of Gilgamesh. Also, in the legends of the Ghibelline
Middle Ages, the heroic theme prevails and the tree often appears as that of
the universal empire, reaching it in the symbolic lands of the mysterious
Prester John means insuring the same dignity that the ancient Ario-Iranian
rulers associated with the title of “king of kings”. Returning to our main
subject, in the myth of the twins at the origins of Rome, we therefore have the
allusion to a supernatural food from the Tree - but also the She- Wolf. The
symbol of the She-wolf, considered in its entirety and in all the stories that
refer to it, has an ambiguous character. Lucian and Emperor Julian recall that,
in the ancient world, on the basis of the phonetic resemblance between the two
words, the idea of the wolf [lupo] and of light [luce] are often associated:
lykos, which in Greek means world, sounds like lyke, light. But there are also
figurations of the wolf a sa hellish animal, as a dark force. The Wolf thus
appears to us in the double aspect, symbol of a ferocious and savage nature and
also as the symbol 127 of aluminous nature. This duality is verifiable,
not only in Hellenic-Mediterranean prehistory, but also in the Celtic and
Nordic. In fac,t on the one hand in the Nordic- Celtic and Delphic cults the
“wolf” is connected to Apollo, i.e., to the Hyperborean, Nordic-Aryan god,
simultaneously conceived as the solar god of the golden age and significantly
associated by Virgil with Roman greatness. “Sons of the wolf”, on this basis,
was a designation for warrior and heroic peoples of Nordic-Germanic origins,
designations that persisted even up to the epoch of the Goths and Nibelungs.
Yet, on the other hand, in the Edda, the “age of the Wolf” signifies a dark
age, marking the epoch of the outbreak of savage and elementary forces, almost
of the power of chaos, against the forces of the “divine heroes”, or Aesir. Now
we can certainly also relate this quality to the principle that, according to
the legend of origins, “fed” the two twins insofar as we see it reflected in
their very nature, that is, in the antagonistic duality of Romulus and Remus,
as related to us in the myth. As others already noticed, so also the theme of a
single principle from which an antithesis is differentiated, whether depicted
by the antagonism of two brothers of twins or, in general, of a couple, is
found again in many traditions, and not rarely in respect ot particularly
significant moments for the origins of a given civilisation, race, or religion.
For example, we only recall that in the ancient Egyptian tradition Osiris and
Set are two brothers of discord - sometimes conceived as wins - and one
incarnates the luminous power of the sun, the other, a dark, “infernal”,
principle, whose generation is called the “sons of the impotent revolt”. Does
not something similar also show through perhaps in the Roman legend? Romulus is
the one who marks the contour of the city as the meaning of a sacre drite and a
principle of limit- of order, of law - having received the right of putting his
name to the city form the apparition of the solar number, of the twelve
vultures. Remus is instead the one who violates such a limit and is killed for
this reason. One could say that the primordial force of Roman origins thus are
differentiated and destroys the “dark” powers that contain din themselves,
affirms in its luminous aspect of order, Olympian denomination, purified
warrior force. There have been attempts to see in the contrast between Romulus
and Remus the reflection of the contrast between opposed Aryan racial forces,
or of the Aryan type, and non-Aryan or pre-Aryan types. Research of this kind
is without doubt interesting: problematic in its conclusions, if it intends to
remain exclusively on the plane of material facts, or archaeological and
anthropological evidence. It has greater possibilities if it also penetrates
the myth and legend in order to extract elements that integrate research in
other domains. Naturally, in order to accomplish that, it also needs to resolve
to outline general frameworks of various aspects of ancient Roman society,
considering, for example, with various writers, somewhat probable that the
social system of castes of ancient Rome had a racial substrate. 128 In
this totality, it is interesting to examine the link between the two
principles, whose symbolic figurations could well be Romulus and Remus, with
the two hills Palatine and Aventine. The Palatine is, as we know, Romulus’ hill
and the Aventine is Remus’. Now, according to the ancient Italic tradition, on
the Palatine, Hercules met the good king Evander (who significantly founded a
temple of the goddess Victoria on the same Palatine hill) after having killed
Cacus, son of the Pelasgian (pre-Aryan) god of the subterranean fire: and
Hercules conquered and killed in Cacus’ cave, located in the Aventine, and
erected an altar to the Olympic god, to whom he was allied according to the
Hellenic myth. Researchers like Piganiol, are of the opinion that this duel
between Hercules and Cacus - with the corresponding opposition of the Palatine
and Aventine hills - could be a mythic transcription of the battle waged by
peoples of opposing races. The mythic legend of the origins of Rome is
therefore saturated with deep meaning. The triumph of Romulus and the death of
Remus is the key to the origin hidden in Romanity - and the first episode of a
dramatic , outer and inner, spiritual, social and racial battle, in part known,
in part still enclosed in symbols or in events not yet penetrated with respect
to their most essential aspect - almost, we will say: with respect to the
“third dimension” Through this secular battle Rome rises gradually and asserts
itself in the world as triumphal manifestations of a principle of light and of
order, of an ethic and a vision of life that, in its original and uncorrupted
forms, is witness to the Aryan spirit. And we know what it is, according to the
most widespread tradition, the conclusion of the legend of origins: it is the apotheosis
of Romulus, Romulus deified, “He returned from the earth to heaven after his
mortal part was destroyed by means of the dazzling fire.” So what has been
treated is neither fantasy, nor poetry, nor rhetoric. Analogous explanations
recur in the traditions of all peoples, according to a uniformity that should
lead anyone to reflection. Also in regards to Romulus, the myth contains a
faith and a spiritual certainty: it is the meaning of a reality that, freed
from the person and symbol, was not once, but will always be, and will always
be present, in its greatness beyond history, the race that knows how to recall
the “mystery." EVOLA E LA TRADIZIONE COME RIVOLUZIONE
Julius Evola è stato il più importante teorico della «Rivoluzione
conservatrice» in Italia nel nostro dopo¬ guerra. Nei suoi scritti si
ritrova l'utilizzazione consa¬ pevole della espressione «rivoluzione
conservatrice», la base teorica e i limiti entro cui ha senso tale
definizione. Tuttavia in Evola la rivoluzione conservatrice si dis¬
socia nettamente dall 'ideologia italiana. La sua elabo¬ razione del
concetto di rivoluzione conservatrice è at¬ tinta direttamente dalla
konservative Revolution tede¬ sca, e ad essa si rifà espressamente, pur
con alcune spe¬ cifiche motivazioni. In secondo luogo l’idea di
rivoluzione conservatrice in Evola si situa in una linea fortemente
critica verso la tradizione teorica e storica italiana. A cominciare
dall’idea stessa di nazione, di cui Evola sottolinea l'eredità giacobina,
egli sottopone a una critica serrata tutte le stazioni più importanti
della ideo¬ logia italiana: la critica del Risorgimento, che pure è
ri¬ corrente in tutta l’ideologia italiana, è condotta da Evola non
più nel nome dell’inveramento del Risorgimento, inteso come
radicalizzazione o correzione di rotta, ma diviene rifiuto e negazione
del Risorgimento, visto co¬ me la traduzione nazionale della rivoluzione
francese, e rigettato come l'espressione di un liberalismo anti¬
tradizionale. Qui Evola accoglie l'eredità del pensiero
controrivo¬ luzionario e si situa nettamente nel solco della
tradizio¬ ne «reazionaria», pur non condividendo il riferimento
cattolico e cristiano che la sottende. Critiche non meno nette Evola
rivolge al processo unitario postrisorgimen¬ 198 tale
e a tentativi come quello crispino di generare una sintesi tra
nazionalpopulismo e autoritarismo. Ma la cri¬ tica di Evola non si
arresta nemmeno alle soglie del fa¬ scismo, a cui pure il suo nome è
solitamente associato. Quasi tutta la critica evoliana verso il fascismo
gravita proprio sul tentativo fascista di costituire una «ideolo¬
gia italiana» o di inserirsi nella tradizione «italiana», sia
verticalmente, cioè come recupero della storia «ita¬ liana», sia
orizzontalmente, come tentativo di integra¬ re le masse e tutte le
diversità in una comunità nazio¬ nale. Per Evola il fascismo
non avrebbe dovuto abdicare al suo ruolo di minoranza attiva, di
aristocrazia, avreb¬ be anzi dovuto accentuare la sua «diversità», da
quel che costituiva la linea «italiana» risorgimentalista. La
critica di Evola all'ideologia italiana, così impla¬ cabile,
sconsiglierebbe dunque di ritrovare nel suo pen¬ siero i lineamenti di
quella «rivoluzione conservatrice» che abbiamo indicato come il filo
rosso della storia ita¬ liana. Le sue scelte lo porterebbero, piuttosto,
nella li¬ nea di de Maistre e de Bonald o di larga parte del pen¬
siero mitteleuropeo. Ma a questo punto si dispiega uno dei maggiori
para¬ dossi della dottrina politica evoliana: quanto più Evola ha
teorizzato una tradizione radicalmente diversa dal¬ la modernità e
integralisticamente depurata da ogni scoria di «pseudo-tradizionalismo»
nazionalista e risor¬ gimentale, tanto più Evola ha coniugato l’idea
della tra¬ dizione con posizioni che appartengono al mondo della
rivoluzione. Rivolta, anomìa, anarchismo di destra, ni¬ chilismo attivo
sono ricorrenti espressioni del pensie¬ ro evoliano che segnano un
indubbio recupero della di¬ mensione «rivoluzionaria». Questo
dualismo, solitamente, è stato attribuito a due tappe differenti e
fondamentali del pensiero evoliano del dopoguerra, divise da un decennio
e identificate Lu¬ na ne Gli uomini e le rovine, 1 l'altra in Cavalcare
la ti¬ gre. 2 Ma, più vastamente, l’intera opera evoliana si di¬
spiega all’interno di un orizzonte antinomico, tra Rivo¬ luzione e
Tradizione, se si considera l'esperienza pitto¬ rica dadaista, fortemente
eversiva, il periodo filosofico, con sostanziali elementi rivoluzionari e
stirneriani, la valorizzazione del Tantrismo nel suo aspetto più
«di- 199
struttivo» (la
via della «Mano Sinistra»). Elementi che convivono nell’opera evoliana
con la ricerca e l'affer¬ mazione della tradizione, il primato dell'Essere,
il re¬ cupero della dimensione metafisica; o nel mondo poli¬ tico
con il richiamo a una concezione fondata sull'au¬ torità, l’ordine e la
gerarchia. Sul piano della dottrina politica, l'aporia può forse trovare
agevole soluzione se si tiene presente che in un mondo sconsacrato e
secola¬ rizzato la tradizione non può che rivelarsi come una ri¬
voluzione e attraverso la rivoluzione. Il ritorno alla tra¬ dizione, in
questo contesto, sarebbe infatti un evento di rottura, una radicale
inversione di rotta rispetto al¬ la realtà presente. La rivoluzione
sarebbe dunque per Evola il rigetto del presente nel nome del passato;
rivo¬ luzione-restaurazione, ovvero rivoluzione nel senso del¬
l'astronomia classica, come già ripeteva Evola. In uno scritto
divulgativo, tra gli ultimi di Evola, il pensatore tradizionalista
affermava: «Se si vuole, ci si può riferi¬ re alla formula, solo in
apparenza paradossale, di una "rivoluzione conservatrice”. Essa
concerne tutte le ini¬ ziative che si impongono per la rimozione di
situazioni negative, fattuali, necessarie per una restaurazione». 3
In linea di massima, si può riconoscere la coerenza di questa
posizione e il rigoroso uso dell'espressione «ri¬ voluzione
conservatrice». Tuttavia, soprattutto se si tie¬ ne conto dell'orizzonte
di pensiero in cui Evola utilizza questa definizione, i due piani di
rivoluzione e tradizio¬ ne non sembrano poi così nettamente delineati e
divisi. In Evola vi sono interpolazioni e attraversamenti: tal¬
volta la «pratica» rivoluzionaria finisce col rivoltarsi contro gli
stessi principi tradizionali e finisce con l'as¬ sumere valori autonomi;
1 ’anomìa finisce con Tessere una pericolosa arma a doppio taglio. E
dall’altra parte, soprattutto nell’ultimo Evola, il metodo
«rivoluziona¬ rio» risulta spesso alterato o addirittura
soppiantato da una scelta pratica di tipo conservatore, fondata sui
parametri del «salvare il salvabile», «preferire il male minore»,
«allearsi con i moderati per combattere la sov¬ versione»,
eccetera. A parte questi sconfinamenti, peraltro marginali se
si considera Titinerario evoliano nel suo complesso, Evola si pone
legittimamente come il teorico principa¬ le della «rivoluzione
conservatrice» vista da «destra». 200 almeno nel nostro
dopoguerra. Il suo pensiero è alle origini sia delTintegralismo
«di destra» che del modernismo «di destra» (in parte deflui¬ to da
destra). Non si potrebbe infatti comprendere il neotradizionalismo, anche
quello cattolico, senza tran¬ sitare per le opere di Evola imperniate sui
valori della tradizione. Ma dall'altro verso non si potrebbero com¬
prendere neanche i fermenti della cosiddetta «nuova cultura», della
«nuova destra» o i tentativi di andare «al di là della destra e della
sinistra», senza risalire a quel filo rosso che scorre dall’Evola
dadaista e iconoclasta all’Evola filosofo, al seguace del tantrismo e
soprattut¬ to all’autore di Cavalcare la tigre. Da entrambe le
posi¬ zioni, neotradizionaliste e moderniste, si sono staccate frange
opposte e simmetriche, che hanno parimenti ri¬ fiutato l'eredità
evoliana, l'una nel nome della tradizio¬ ne cattolica, l'altra nel nome
della modernità assurta a valore. Se il linguaggio non fosse improprio e
desue¬ to, si potrebbe dire che la sua opera abbia generato una
«destra» e una «sinistra» evoliana. È curioso osservare che i
«modernisti» di destra ri¬ percorrono, pur con specifici tratti, lo
stesso cammino già percorso da un certo radicalismo «di destra» che
aveva trovato in Evola elementi per fondare una scelta rivoluzionaria in
senso nazionalpopolare. Il cammino dei «modernisti» di destra si rivela
come la versione «de¬ bole» (e quindi più intellettualistica, più dolce
nel me¬ todo e più esitante) di quello stesso processo di moder¬
nizzazione del pensiero evoliano, la cui versione «for¬ te» è costituita
proprio dal rivoluzionarismo nazional¬ popolare. I vari
filoni dipartitisi da Evola ritrovano oggi sul lo¬ ro cammino gli stessi
incroci in cui si dibatteva il pen¬ siero evoliano:- trasgressioni e
fedeltà, soggettività e tra¬ dizione, organicismo senza statolatria,
ricomposizione comunitaria ed élitismo, rigetto dell’ideologia
italiana e insieme esigenza di radicarsi nel tessuto reale di que¬
sta società, e così via. Le contraddizioni, mutatis mu- tandis, sono
ancora le stesse. Per ripercorrere queste stazioni cruciali del
pensie¬ ro evoliano, sarà proficuo attraversare le principali in¬
terpretazioni critiche del pensiero di Evola che si pos¬ sono ricondurre
a quattro tesi fondamentali: in primo 201
luogo l'interpretazione di Evola come
maestro eretico del pensiero negativo; in secondo luogo Evola visto
co¬ me teorico di un neopaganesimo anticristiano e antitra¬
scendente; in terzo luogo Evola visto come un gentilia- no minore che
tenta invano di superare l'attualismo; in¬ fine Evola visto come
l'ispiratore del neo-nazifascismo. Evola maestro eretico del
pensiero negativo L’accostamento tra Evola e il pensiero negativo
si può far risalire al tempo della contestazione, quando qual¬ cuno
ravvisò impressionanti simmetrie tra il pensiero evoliano e il pensiero
di Marcuse. Simmetrie che lo stes¬ so Evola non ha mancato di
sottolineare, seppure rimar¬ cando la radicale divergenza di fondo.
Di quel parallelo aveva parlato qualche anno fa Gior¬ gio Galli,
soffermandosi soprattutto sulle sue valenze politiche . 4 Da
un punto di vista filosofico la collocazione di Evo- la nell'alveo del
pensiero negativo è stata recentemen¬ te proposta da Italo Mancini e da
Massimo Cacciari . 5 Entrambi scorgono in Nietzsche il crocevia del
pen¬ siero negativo. Dopo Nietzsche si potrebbe quasi parla¬ re di
un pensiero negativo di sinistra che coniuga Nietz¬ sche con Marx, Freud
e al limite Stirner, e che si espri¬ me, soprattutto, ma non solo, con la
triade francoforte- se Adorno, Horkheimer e Marcuse; e un pensiero
negativo di destra che coniuga Nietzsche con i valori tra¬ dizionali e
che si esprimerebbe tra gli altri con Evola, Junger e larga parte del
pensiero rivoluzionario-conser¬ vatore . 6 Quale sarebbe il filo comune
del pensiero nega¬ tivo? In primo luogo la critica radicale della ragione
e delle pretese sintetiche e costruttive della razionalità; in
secondo luogo lo smascheramento della civiltà moder¬ na e borghese e la
rivolta contro la nostra società; in ter¬ zo luogo lo sfaldamento della
fiducia nel progresso ma anche negli antichi appoggi; la crisi del
principio di iden¬ tità e di non contraddizione; indi, la concezione
conflit¬ tuale e catastrofica della storia. E scavando più a fondo
si giunge alla matrice del nichilismo: la morte di Dio, la perdita del
reale, del senso e degli scopi, l'incertezza esi¬ stenziale,
l'oscuramento della metafisica. 202 I due versanti
del pensiero negativo sarebbero dun¬ que compresi nell’alveo del
nichilismo. Soltanto che il versante destro del pensiero negativo, a
cominciare da Evola, per estendersi a buona parte della rivoluzione
conservatrice, tradirebbe Nietzsche, mascherando il ni¬ chilismo
nell'irrazionale e nella retorica dei valori. A questo punto le
conclusioni di un Italo Mancini con¬ ducono a una condanna senza appello
del pensiero evo¬ liano, le conclusioni di un Cacciari conducono
invece a un appello senza condanna agli evoliani: liberatevi dal
camuffamento irrazionalistico, liberatevi dalle vostre «certezze» che
reggono solo sulla «retorica», e proce¬ dete «con occhio sgombro» verso
un sapere senza fon¬ damenti, verso un nichilismo consapevolmente
vissu¬ to e accettato come destino finale. In fondo il
discorso ruota intorno a un’equazione tutta da dimostrare: l'equazione,
appunto, tra Evola e il pen¬ siero negativo. È necessario
dunque affrontare la differenza radica¬ le che allontana Evola dal
pensiero negativo. Una diffe¬ renza di provenienza e di approdi, di
metodi e di aper¬ ture. È certamente vero che il pensiero
negativo e il P en - siero evoliano nascono entrambi come filosofie
della crisi. Ma la crisi del pensiero negativo è la crisi di
una ra¬ zionalità che ha perduto la ragione, di una dialettica che
ha perso la possibilità della sintesi, di un materialismo che ha perduto
la materia, di un orizzontalismo che ha perduto orizzonti, di una rivoluzione
che ha perduto il progetto. La crisi da cui nasce il pensiero evoliano è
in¬ vece la crisi di una trascendenza che ha perduto Dio, di un
verticalismo che ha perduto il suo vertice, di un eroismo che ha perduto
gli eroi, di un Olimpo che ha perduto gli dei, di una tradizione che ha
perduto i suoi templi, i suoi riti e i suoi uomini. Da una
parte è Yorfanità della ragione che incita a ri¬ pensare i miti;
dall'altra parte Yorfanità del mito che spinge a cercare le ragioni. In
entrambe si assisto al «di¬ sormeggio della storia» secondo la suggestiva
espres¬ sione di Emil Cioran . 7 Da una parte in Evola la tradi¬
zione sembra smarrire gli anelli che la congiungono al presente;
dall’altra parte nel pensiero negativo il P ro_ 203
gresso si
separa daH'ottimismo e dal migliorismo sto¬ rico e scivola nella
catastrofe, nel vuoto. Ma differente è pure la reazione alla crisi:
il pensiero negativo diviene pensiero della liberazione trasgressi¬
va, sollecita a liberarsi dai vincoli della realtà e della ragione,
oppone la ragione distruttiva come risposta alla ragione
decretante. Opposta appare invece la reazione evoliana alla
cri¬ si: alla liberazione dal destino si oppone qui l'accetta¬
zione del destino, la fedeltà ai valori oscurati, l’azione nonostante i
frutti, la risposta eroica al nichilismo. Entrambe le vie
germogliano dunque dalla crisi: ma il pensiero evoliano induce a vivere
come se i valori esi¬ stano; il pensiero negativo induce a vivere come se
non abbia importanza avere valori. Evola scommette sui va¬ lori, il
pensiero negativo rigetta la scommessa come in¬ significante, fuorviante,
mistificatrice. Nel pensiero negativo il nichilismo è pensato e
vissu¬ to come esito finale; nel pensiero evoliano il nichilismo è
inteso come prova del fuoco, come deserto da attra¬ versare. L’esperienza
del nichilismo è rivolta in Evola a fortificare il bagaglio interiore, a
essenzializzare la vi¬ ta, a denudare i valori dalle incrostazioni, per
ricondurli alla nudità originaria. Il nichilismo, secondo questa
pro¬ spettiva che Evola coglie da Nietzsche, dovrebbe raffor¬ zare
ciò che non riesce a spezzare. Il pensiero evoliano ha Nietzsche
alle sue spalle, om¬ bra titanica che si allunga sul suo cammino; il
pensiero negativo trova invece Nietzsche davanti a sé, scoglio in¬
sormontabile per la ragione dialettica. Ciò che in Evo- la è punto di
partenza, che pure si allunga su tutto il percorso, nel pensiero negativo
è punto d'arrivo, oltre il quale non si può andare. Non è un caso, poi,
che il pen¬ siero negativo si definisca tale, laddove il pensiero
evo¬ liano si autodefinisce magico: il pensiero magico è per sua
stessa vocazione rivolto a comporre, a ordinare il mondo e non a
disfarlo, a rivelare la sua segreta armo¬ nia, a concepire la libertà
come attività produttiva e creativa. Il pensiero magico risale dal caos
al cosmos, dal conflitto all’armonia, ponendosi infine come pen¬
siero costruttivo, pensiero positivo. Il pensiero negati¬ vo al contrario
dissolve il cosmos nel caos, nell'armo¬ nia scorge il contrasto,
eternizza il conflitto e la cata¬ 204 strofe,
definendosi infine come pensiero distruttivo. Nel crocevia tra
magia e trascendenza, il pensiero evo¬ liano si inviluppa in alcune
contraddizioni: le forti apo¬ rie tra senso della trascendenza e
immanentismo volon¬ taristico che si esprimono nell'Autarca, le
tentazioni faustiane, il pericoloso velleitarismo di chi vuole tra¬
versare l'abisso, l'etica della disperazione che si risol¬ ve talvolta in
Evola in uno spiritualismo nobile ma cie¬ co, che rigetta i frutti e le
prospettive. Ma pur nella con¬ traddittorietà delle posizioni ciò che
distingue radical¬ mente Evola dal pensiero negativo risale a una
opzione di fondo: è la opzione della trascendenza che conduce Evola
alla riscoperta del sacro. La trascendenza resta una dimensione assente
nel pensiero negativo in virtù di una originaria opzione immanentistica
mai smentita. La f iducia in una «più che vita», la scommessa
sul- r immo rt alità, la certezza del sacro, il culto dell'invisi-
bil e e de fì'eterno, accend on o in Ev ola un bag lioré me¬
t afisico che non é flato tr ovare, n el pensi ero negativo. Alla
luce del sacro, la stessa concezione eroica esce dal campo del puro arbitrio,
della mera retorica, del vole¬ re autarchico, per farsi essa stessa segno
di quella cer¬ tezza metafisica e metaesistenziale, espressione e
testi¬ monianza che pure vacillando nel vuoto, la strada per¬ corsa
è quella che sale. Evola padre del neopaganesimo
anticristiano Occupandosi del radicalismo di destra, «Civiltà
Cat¬ tolica» ha individuato in Evola il principale ispiratore di
una nuova destra fortemente anticristiana e neopa¬ gana . 8 Le
argomentazioni condotte a rinforzo di questa tesi erano attinte quasi
interamente dalla lettura di Im¬ perialismo pagano . 9 Che in
Evola vi sia una forte ascendenza di tipo paga¬ no è certamente fuori
discussione: la grande valutazio¬ ne del mondo greco e romano, l’esaltazione
della spiri¬ tualità nordica, il risalto attribuito alla figura di
Fede¬ rico II, sono solo alcuni tra i segnali di questa ispira¬
zione «pagana» del pensiero di Evola. Tuttavia l’interpretazione di
Evola come padre di un neopaganesimo anticristiano, è semplicistica e a
tratti 205
fuorviante. Vi è in primo luogo una ragione metodolo¬ gica: non si può
valutare il pensiero evoliano sofferman¬ dosi sulla lettura di
Imperialismo pagano, un saggio che Evola scrisse non ancora trentenne nel
1928 e che in se¬ guito «disconobbe». Imperialismo pagano è un
pamph¬ let fortemente polemico che risente degli umori del tem¬ po
e che si inserisce nel dibattito preconciliare. Impe¬ rialismo pagano è
un'opera certamente minore rispet¬ to ad altre opere evoliane più mature
e di spessore ben più notevole: per comprendere Evola bisogna
transita¬ re almeno da altre cinque, sei opere ignorate da «Civil¬
tà Cattolica». In secondo luogo, il pensiero evoliano si alimenta
di correnti e torrenti che sarebbe improprio definire di ti¬ po
pagano: la tradizione gnostica e orfica, pitagorica, la metafisica
orientale, il buddismo. Se si vuol definire pagano, nel senso di
anticristiano, tutto ciò che non è cristiano, si finisce nel più piatto
ma¬ nicheismo. In terzo luogo, dal complesso dell'opera
evoliana non si può dedurre un orientamento anticristiano e ancor
meno un orientamento antitrascendente. Altrimenti non si comprenderebbe
in Evola la lettura dei mistici cri¬ stiani, l'influenza di certo
gnosticismo cristiano, l’atten¬ zione positiva verso pensatori come
Meister Eckart e San Giovanni della Croce, la grande influenza di
Carlo Michelstaedter che rivela profondissime tracce di cri¬
stianesimo. E non si comprenderebbe il carteggio evoliano con
pa¬ dre Clemente Rébora, il ritiro di Evola in un convento verso i
trent'anni, la sua difesa della Chiesa del Sillabo (se la Chiesa fosse
ancora quella del Sillabo — afferma Evola — non ci sarebbero esitazioni a
schierarsi dalla sua parte per affermare i valori della tradizione»),
10 ma anche della fede cristiana e del suo significato nella nostra
epoca «sconsacrata». E non si comprenderebbe infine per quali
misteriose ragioni la lettura di Evola sia stata per molti una sta
¬ z ione d i transito ve rso una riconversion e al cattoli
cesi- una ris coperta d el sac ro e del trascendente, del rito
e dell aJracE zionèr Sarà un paradosso^lha mòTti dfcoTo- ro che
hanno poi criticato il pensiero evoliano alla luce 206
del cattolicesimo tradizionale, devono a Evola la cono¬ scenza di
autori come de Maistre, Donoso Cortes, de Bo- nald. È poi significativo
che Evola condanni le franga moderniste[del cristianesimo , colo ro che
riducono la re¬ ligionenelForizzonte immanentistico de l messaggioso
. ciale, la stòricizzazione e l’umanizzazione del divino, la
tèòlogià dellà mòrte di Dio, la razionalizzazione dei prin¬ cipi e delle
tradizioni, l a confusione d el cr istianesim o conjun m oralistico
sentimentalism o bor ghese. ~In Evola permane, certamente, un senso
di estranei¬ tà al cristianesimo, ma non di ostilità; vi è un
differen¬ te tipo di spiritualità che trae alimento da differenti
tra¬ dizioni. Nel cristianesimo Evola denuncia la mancanza di
una dottrina esoterica che possa affiancarsi alla religione
fideistica e devozionale. Appare quindi improprio il ten¬ tativo di
demonizzare il pensiero evoliano come l'espres¬ sione di una rivolta
anticristiana con esiti immanenti¬ stici. Questa riduttiva interpretazione
del pensiero evo¬ liano rimanda a un'antitesi più vasta e insensata
quan¬ do pretende di essere assoluta: l’antitesi tra paganesimo e
cristianesimo alla cui radicalità mostrano di credere da un verso
«Civiltà Cattolica» e dall'altro verso alcuni esponenti della nouvelle
droite, a cominciare da de Be- noist. 11 L'antitesi autentica
e radicale della nostra epoca, in realtà, non è tra paganesimo e
cristianesimo ma tra sa¬ cro e nichilismo, tra vocazione alla
trascendenza e sfal¬ damento nell'immanenza. Per un autentico
spirito cristiano la santità è intesa come il culmine del sacro, è il
gradino supremo in cui il sacro si incarna nell'umano e si palesa nel
mondo; per una autentica religiosità di tipo pagano, la santità è
una delle più alte manifestazioni del sacro. Per entrambi
resta essenziale l'antitesi tra sacro e ni¬ chilismo. Per una
spiritualità di tipo cristiano il senso elèi sacro può dirsi quasi il
rosminiano « sentimento fon¬ damentale», quell'innata vocazione metafisica
sulle cui basi si eleva poi la fede cristiana. 12 Per una
spiritualità di tipo pagano, il sacro può in¬ tendersi non come la base
ma come il vertice verso cui convergono le religioni, il principio
metafisico di cui le religioni sono bracci, manifestazioni, assi di una
ruota. 207
Nel pensiero contemporaneo, la distinzione di
cam¬ po più rigorosa è senza dubbio quella tra pensiero ispi¬ rato
alla trascendenza e pensiero esaurito neH'imma- nenza, tra pensiero
fondato metafisicamente (proteso verso l'Essere) e pensiero senza
fondamenti o comun¬ que fondato storicisticamente, vitalisticamente e
ma¬ terialisticamente (risolto dentro il Divenire). In questa
distinzione di campo, il pensiero di Evola ritrova una identità molto
diversa da quella che gli vie¬ ne attribuita da «Civiltà Cattolica» e da
taluni esponenti del «neopaganesimo». Vi sono certamente
alcune «cadute» immanentistiche e superomistiche nel pensiero evoliano
che in un pen¬ satore come Guénon, ad esempio, non sono presenti:
ma il pensiero di Evola rischia l’impurità e talvolta l’incoe-
renza perché si cimenta con la crisi contemporanea. È una scommessa più
difficile quella di Evola, un cam¬ mino più arduo: attraversare il nostro
tempo. Questa sua scommessa può essere intesa come la sua
peculiarità più feconda e insieme come il suo limite più netto: ma, in
ogni caso, il.pensiero di Evola si incammi¬ na sul l a s trada, del
sacro. Evola «gentiliano minore» Un autorevole
filosofo come Antimo Negri ha recen¬ temente individuato in Evola un
«gentiliano minore» che tenta invano di superare l'attualismo. 13
L’interpre¬ tazione di Negri ripercorre i sentieri già solcati
negli anni Trenta da Spirito, Carlini e Sciacca che appunto a
Gentile avevano ricondotto il pensiero di Evola. 14 Che l’ombra
gigantesca di Gentile si allunghi su tut¬ ta la filosofia italiana del
nostro secolo, soprattutto ne¬ gli anni Venti, può essere difficilmente
confutabile. Per¬ sino lo spiritualismo cattolico o la filosofia della
pras¬ si di un Gramsci mostrano i segni di quella influenza. Ma che
vi siano specifiche e preponderanti tracce di in¬ fluenza su Evola è
largamente inesatto. Si deve anzi osservare il fenomeno opposto:
forse non è mai accaduto che due pensatori, vissuti nello stesso
tempo e nella stessa nazione, associati seppur generi¬ camente in uno
stesso indirizzo «filosofico» e in uno 208 stesso
ambiente storico-politico, siano stati così lonta¬ ni come Gentile ed
Evola. Alle sorgenti della formazione evoliana vi sono cor¬
renti e autori in larga parte estranei a Gentile. Manca a Gentile il
riferimento alla metafisica orientale, al pen¬ siero tradizionale e
legittimista, a Stirner, a Nietzsche, a Bachofen, a Weininger, a
Michelstaedter e a tutta la grande cultura mitteleuropea, a cominciare da
Spen¬ gler e Junger. E manca a Evola la lettura del pensiero
risorgimen¬ tale, l’influenza di Spaventa e di Mazzini, di Gioberti
e di Rosmini, il confronto con la filosofia di Marx e con lo
storicismo, che sono invece determinanti nella for¬ mazione di Gentile. I
riferimenti comuni si limitano a certi autori dell'idealismo
tedesco. In Evola l'idealismo è un episodio, seppure
notevole, inserito in un altro episodio, seppure importante, qua¬
le è il suo periodo filosofico. Se si prescinde dalle coor¬ dinate
extrafilosofiche, si è già lontani dalla compren¬ sione del pensiero
evoliano. Inoltre, va ricordato, della filosofia evoliana si
occu¬ pò Croce ma non se ne occupò mai Gentile, che non vi
riconobbe mai alcuna «parentela». E della filosofia gen- tiliana, Evola
se ne è sempre occupato in chiave criti¬ ca. I suoi rilievi, le sue
critiche alTattualismo sono no¬ tevoli, radicali e tutt’altro che
superabili. 15 Sul piano storico, Evola condannò del fascismo
quel che Gentile approvava o addirittura aveva egli stesso
ispirato. E le distanze con Gentile non si attenuarono nemmeno quando il
vento del Concordato condusse Gentile ed Evola a scontare una comune «emargina¬
zione». Come per Gentile, anche per Evola il fascismo era in¬
teso come una rivoluzione conservatrice, anzi una «re¬ staurazione»; ma
restaurazione non della tradizione ita¬ liana esaltata dal Risorgimento e
dalla filosofia na¬ zionale, come voleva Gentile, ma restaurazione
della tradizione romana e ghibellina. Ovvero una restaura¬ zione
così radicale che finisce con l'essere una ri¬ voluzione rispetto al
passato più prossimo. Nel momen¬ to in cui Evola superava Gentile in
radicalismo restau¬ ratore, lo superava al contempo in radicalismo
rivolu¬ zionario. 209
Va infine considerata l'evoluzione storico-politica
del pensiero evoliano in senso aristocratico e tradizionali¬ sta,
che diverge nettamente dall'evoluzione gentiliana verso l'umanesimo del
lavoro. hi definitiva, se è riduttivo chiudere il pensiero
evo¬ liano nell alveo dell'idealismo, è doppiamente ridutti¬ vo e
fuorviarne considerare la filosofia di Evola alla stre¬ gua di un
attualismo malriuscito, un tentativo velleita¬ rio di «superare» Gentile.
In Evola vi è ben altro. Evola ispiratore dell’attivismo
neofascista e neona¬ zista Per 1 j n ?,° tem P° EvoIa è stato
conosciuto come l'ispi¬ ratore dell'attivismo neofascista e neonazista.
Una de¬ finizione canonica che ha dominato per decenni nel gior-
nalismo e nella cultura politicante, che ha trovato la sua giusti!ic
aziope teo rica in studiosi come Furio Jesi ; 16 ma una definizione che
ancora resiste, come dimostra¬ no certi interventi al convegno di Cuneo
sulla cultura di destra o certe pagine di un recente volume
colletta- neo sulla «destra radicale». 17 In realtà, se vi è
stato un autore di destra che più ha contribuito à scongelare il
neofascismo dall’ibernàzio- n e nostalgica, questi è stato proprio Julius
Evola . Da fy^gla^ prima di ogni altro autore, la gioventù di
destra ha imparato a leggere il fascismo e il nazismo in chiave
critica, anche se la critica di Evola ai due fascismi é pur sempre
«daTpùnto di vista della destra». Leggendo il fascismo di Evola,Te
sueNoIelutTérzo Reich , 18 la sua critica al nazionalismo e alla
statolatria, al bonaparti¬ smo e al populismo fascista, al razzismo
biologico e agli isterismi del Fuhrer, all'idealismo gentiliano e al
senti¬ mentalismo cristiano-borghese, conoscendo le difficoltà che
Evola dovette affrontare durante il fascismo, il «ra¬ dicalismo di
destra» ha avvertito l'esigenza di rivedere il proprio patrimonio ideale
e storico. E leggendo Evola, quella gioventù ha cominciato a
co¬ noscere orizzonti più vasti, prospettive storiche e me¬
tastoriche più ampie, nel tempo e nello spazio. Ha co¬ nosciuto autori e
tradizioni che con i fascismi poco o nulla avevano a che vedere. Si deve
principalmente a 210 Evola, alle sue letture e alle
sue divulgazioni, alle sue traduzioni e ai suoi riferimenti, se quella
destra ha po¬ tuto conoscere ampi filoni della cultura
mitteleuropea, a cominciare dalla konservative Revolution, grandi
pi¬ lastri della sapienza orientale, solidi pensatori legitti¬
misti e tradizionalisti. In secondo luogo, se vi è stato un autore
di destra che ha meno sollecitato l'attivismo, questi è stato
proprio Julius Evola. Se un limite si deve individuare nella le¬
zione «politica» di Evola esso è piuttosto di segno con¬ trario: coloro
che si sono avvicinati a Evola si sono so¬ litamente allontanati
dall’attivismo politico. Ci si avvicinava a Evola alla ricerca di
fondamenti per la propria scelta politica: ma la radicalizzazione del
Po¬ litico è coincisa con il rigetto della politica. La
lettura del pensiero evoliano ha avuto infatti un esito generalmente
impolitico. Quando Evola richiama tradizioni lontane nello spazio e nel
tempo, remote età dell'oro, inaccessibili vette del Grande Passato di cui
non sopravvivono più neanche tracce e vestigia, né riti né fiaccole
viventi, la tradizione finisce di essere una radice per diventare
un'Idea, cessa di essere una tra¬ smissione di valori per convertirsi in
una rappresenta¬ zione concettuale, si estingue come pratica viva e
rituale per ridursi a un oggetto del puro pensare. Tradizione
è collegamento e qui diventa isolamento, è apertura verso il mondo e qui
diventa solipsismo, è anello di congiunzione e qui diventa rottura con
il tempo. Quando Evola definisce la tradizione «una discesa
del¬ l’Individuo Assoluto nella concretezza storica», 19 priva la
tradizione del suo significato metastorico e metafi¬ sico, riduce la
tradizione o travestimento dell'Io, a una volizione del soggetto. Non vi
è alcuna tradizione che possa ricondursi a una soggettività; ogni
tradizione si incarna e trascende i membri di una comunità. Altri¬
menti tradizione non è. Quando Evola ripropone la dot¬ trina tradizionale
dei cicli storici, delle quattro età, e ci ricorda che viviamo nell'età
oscura, ci conduce da¬ vanti a un paradosso insolubile: se aderisco
fedelmen¬ te alla dottrina, devo convincermi che io non posso mo- ■
dificare il corso metafisico delle epoche, e quindi inuti¬ le sarà la mia
azione politica, il mio impegno nel mon- 211
do; se viceversa
penso che gli individui possono cam¬ biare radicalmente il corso
dell'epoca, la dottrina per¬ de il suo vigore metafisico e la tradizione
si piega anco¬ ra una volta al soggettivismo volontaristico.
Quando Evola sostiene che il fascismo sia stato «ro¬ vinato» dalla
natura del popolo italiano, può avere ra¬ gione sul piano della pura
teoria, ma esprime un'osser¬ vazione impolitica, riduce il fascismo a una
pura cate¬ goria dello spirito, astratta dalle coordinate storiche
e temporali. La politica agisce in un dato tempo, in un da¬ to
spazio e in un dato popolo: se si dice che il tempo, lo spazio e il
popolo sono inadatti per quell'idea si fa dell’idealismo assoluto, e si è
decisamente lontani da ogni considerazione politica. Non può esistere una
po¬ litica sradicata dalla storia e dalla natura degli uomini su
cui vuole agire. Quando Evola sostiene che la nostra patria non
deve essere quella sancita dalla nostra appartenenza natu¬ rale e
territoriale, ma «la vera patria è l’idea», 20 ridu¬ ce la patria, e la
stessa tradizione, a un'essenza disin¬ carnata; riduce il radicamento,
architrave di ogni tra¬ dizionalismo, a puro convincimento intellettualistico.
Sulla scia di queste aporie ha serpeggiato tra molti evoliani una
forma di pessimismo assoluto, una specie di antiprovvidenza che vuole i
migliori sempre perden¬ ti, poiché il successo di un’idea, nel nostro
mondo scon¬ sacrato, sarebbe il segno del suo scadimento. Se la ve¬
rità è ciò che si oppone alla storia, è fatale che la via della verità
diventi la negazione della storia. Si è così insinuata una cultura della
disperazione, il mito dell’E¬ roe perdente, del Profeta inascoltato, del
Suicida veg¬ gente. Senza una adeguata mediazione, questi orienta¬
menti evoliani conducono fatalmente a un esito impo¬ litico.
E conducono a quei due opposti equivoci che inibi¬ scono oggi il
rapporto tra la cosiddetta «destra radica¬ le» e la politica: da un verso
lo sradicamento e dall'al¬ tro l'ibernazione. Da una parte
nasce il tradizionalismo immobile, che per inseguire il soprastorico
scivola nell'astorico, il tra¬ dizionalismo chiuso a ogni forma di attivo
impegno nel mondo e dunque un tradizionalismo senza tradizione
perché senza continuità effettiva. Ma dall'altra, più re¬
centemente, è nato il tentativo di disancorare la storia dalla
tradizione, di liberare l’impegno civile e politico da ogni punto fermo,
di emanciparsi da ogni appartenen¬ za radicata. I due
pericoli sono opposti nello sviluppo ma uniti nel¬ la genesi: entrambi
nascono dalla convinzione che vi sia una frattura insanabile tra il mondo
dei valori e il mon¬ do dei fatti, tra l’ideale e il reale, fra la tradizione
e la storia. Partendo entrambi dalla constatazione di questa
frat¬ tura, le strade poi divergono: i primi seguono la via del¬
l’imbalsamazione, del dogmatismo e fatalmente appro¬ dano all'isola
immobile dell’impolitico. I secondi scel¬ gono la via della liquefazione,
del relativismo e finiscono poi a inseguire il successo ad ogni costo,
prescindendo dai motivi di fondo per cui il successo avrebbe un
senso. I due comportamenti sono fondamentalmente con¬
trassegnati dall'individualismo e si rivelano letteral¬ mente
schizofrenici: nascono infatti da una dissociazio¬ ne di fondo tra
pensiero e atto, idea e realtà, essere e dover essere. L'esito dei primi
è segnato dall'idealismo, con la tradizione ridotta a pura rappresentazione
men¬ tale e soggettiva, disincarnata dalle sue forme visibili,
sensibili e comunitarie. L'esito dei secondi è il nomina¬ lismo, la
riduzione dei valori a strumenti di locomozio¬ ne, a convenzioni e
volizioni del soggetto. In questo senso va ripensata non solo la
frattura po¬ sta da Evola tra i valori della tradizione e gli
strumenti della modernità. Ma occorre rimeditare anche lo iato
sancito da Evola sul piano storico-politico tra rivolu¬ zione
conservatrice e ideologia italiana. Una frattura, quest'ultima, che ha
contribuito non poco a generare a destra quel rigetto della tradizione
nazionale e quella ricerca di autori e modelli attinti da altre
tradizioni e da altri paesi. Nell'opera in cui Evola teorizza
esplicita¬ mente i lineamenti di una rivoluzione conservatrice,
vale a dire Gli uomini e le rovine, è ribadita con forza la frat¬
tura tra «ideologia italiana» e rivoluzione conservatrice. Dopo
aver spiegato il senso in cui si può positivamente parlare di
«rivoluzione conservatrice», Evola aggiun¬ ge: «Pel vero conservatore
rivoluzionario è questione di una fedeltà non a forme e istituzioni di
tempi trascor¬ si bensì a dei princìpi». 21 Affermazione che già
presen- ta l’insidia del puro idealismo
ovvero il disancoramen¬ to della tradizione dalla storia; ma, al limite,
si può an¬ cora condividere soprattutto se si tiene conto del pas¬
saggio da una veduta integralmente tradizionalista, e quindi fondata
sulla continuità, a una veduta rivoluzio¬ naria conservatrice, e quindi
fondata sulla consapevo¬ lezza di una frattura verificatasi fra
tradizione e mo¬ dernità. E ancor più si può comprendere e
apprezzare il riferimento evoliano se si ha presente il contesto a
cui Evola si rivolge: riferendosi agli ambienti del neofasci¬ smo,
Evola invitava a non confondere la difesa di valo¬ ri con la nostalgica
difesa di regimi e istituzioni che non sono più presenti. Quello di Evola
era un passo forse troppo prematuro, per dissociare il mondo
rivoluzio¬ nario-conservatore di destra dal puro nostalgismo.
Ma Evola si spinge ancora ben oltre. Egli giunge ad affermare che
la componente «rivoluzionaria» presen¬ te appunto nella «rivoluzione
conservatrice», va intesa nel senso di fare tabula rasa della storia per lasciare
il posto alle pure idee. Grazie al carattere rivoluzionario le
forze attive «si presenteranno ad uno stato quasi pu¬ ro, con un minimo
di scorie storiche». E a questo Evola aggiunge: «Appunto perché
l’appoggio materiale con¬ sistente in un passato tradizionale ancora vivo
e con¬ cretizzato in forme storiche non del tutto scadute è da noi
inesistente, la rivoluzione restauratrice dovrà pre¬ sentarsi in Italia
come un fenomeno anzitutto spiritua¬ le ed avente come base la pura
idea». 22 Rispetto a quel che Evola intende per tradizione,
la sua conclusione è rigorosa quanto ineccepibile. Ma al¬ trettanto
evidente è l'esito impolitico e la separazione dalla storia che essa
sancisce. Il problema che si pone, in fondo, è questo; se si in¬
tende scegliere una strada esistenziale dissociata da ogni impegno
politico, il rigetto della ideologia italia¬ na, e della storia italiana,
è in linea di rigorosa coeren¬ za con le idee affermate da Evola e ha una
sua legitti¬ mità e dignità incontestabili. Ma se, viceversa, si
inten¬ de costruire una linea politica, se si intende davvero ado¬
perarsi per una rivoluzione conservatrice, allora è impossibile fare il
vuoto intorno e dietro a sé, reciden¬ do i ponti con la storia del
proprio paese e con la realtà del proprio popolo. Né si può disancorare,
in questa se- 214 conda ipotesi, l'idea di tradizione
dalla rappresentazio¬ ne storica che ha avuto. Occorre allora
rimeditare la storia italiana, almeno dal Risorgimento in poi, con
spirito critico, senza dub¬ bio, ma senza apocalittici dinieghi.
Né va trascurato il fatto che talvolta, a sostenere cau¬ se che
metastoricamente si possono definire negative, possono trovarsi uomini e
ragioni che hanno intrinseci tratti di giustezza, di nobiltà e di
dignità. Uomini giusti per cause sbagliate. Articolare i giudizi, dunque,
pur senza privarli della loro globalità, e risalire alle intime
ragioni di certi accadimenti. In questo senso la teorizzazione
evoliana di una linea rivoluzionaria conservatrice rivela tratti di
insufficien¬ za e di carenza sul piano storico-politico. Laddove
in¬ vece, nelle grandi linee metafisiche e metastoriche, il
pensiero evoliano risulta ancora di inesaurita ricchez¬ za e
fecondità. NOTE 1. J. Evola, Gli uomini e le rovine,
Roma 1972 (la prima edizione risale a vent'anni prima). 2. J.
Evola, Cavalcare la tigre, Milano 1961. 3. J. Evola, Essere di
destra, in «Roma», 19 marzo 1973, poi in Citimi scrit¬ ti, Napoli 1977;
cfr., Gli uomini e le rovine, cit., p. 17. 4. Di G. Galli su Evola
cfr. La destra in Italia, cit., p. 65; La tigre di carta ed il drago
scarlatto, pp. 193-97 e 236-37, Bologna 1970. 5. I. Mancini, Il
pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1984. p er m. Cacciari, i
riferimenti sono a una intervista da lui concessa a G. De Turris, Z//r-
razionale? E chi lo conosce..., in «Il Settimanale», pp. 72-74, n. 16,1980, e
all'ar¬ ticolo È una figura complessa su Evola, apparso sempre su «Il
Settimanale» n. 24, pp. 68-69, 1980. 6. Evola ha avuto un
ruolo importante per la conoscenza e la diff us j one in Italia della
konservative Revolution. Oltre ai suoi contributi, e ai numerosi
riferimenti sparsi nella sua opera, Evola ha tradotto in Italia II Tramonto
del¬ l’Occidente di Spengler, ha introdotto Anni decisivi dello stesso
autore, h a tra¬ dotto/!/ muro del Tempo di Junger (Roma 1965) e ha
scritto un’ampia sintesi dell 'Operaio (cit.), solo per citare alcuni dei
suoi contributi. 7. E. Cioran, Storia e utopia, Milano 1970. 8.
Il riferimento è a un editoriale anonimo ma attribuito aH’allora diret¬
tore della rivista, padre Bartolomeo Sorge, apparso nel fascicolo 3210 del
15 marzo 1984 di «Civiltà Cattolica», Il neo-paganesimo della Nuova
Destra. 9. J. Evola, Imperialismo pagano, Roma 1928.
10. Cfr. M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, pp. 63-64
Ro¬ ma 1984. 11. A tale proposito si veda di A. de Benoist
soprattutto Come si può essere pagani?, Roma 1984. 12.
Ibidem. 215
13. A. Negri, Evola e il superamento dell'attualismo in
appendice a M. Ve¬ neziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione,
cit., pp. 195-96. Negri si riferisce a Evola anche nel suo Sviluppi e
incidenze dell’attualismo, cit., p. 91. 14. I riferimenti a Evola
di Spirito, Carlini e Sciacca sono stati raccolti da G. De Turris in
Omaggio a Julius Evola, Roma 1973. 15. Cfr. Gentile non è il nostro
filosofo, in «Tradizione», II, n. 4,1965; Il filo¬ sofo G. Gentile, in
«Il Conciliatore», 1, 1972 (poi in Ricognizioni, Roma 1974). Si vedano
inoltre di Evola su Gentile: Saggi sull’idealismo magico, pp. 148-61,
Roma 1925; Il cammino del cinabro, cit., pp. 41-43; e gli scritti
Superamento dell’idealismo (18 gennaio 1935), Superamento dell'idealismo
(2 febbraio 1935) e L'equivoco dell'immanenza (10 maggio 1935) raccolti
in Diorama filosofico, cit. 16. F. Jesi, Cultura di destra. Il
linguaggio delle parole senza idee, Milano 1979. 17. AA.VV.,
Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, cit. Si veda anche
AA.VV., La destra radicale, Milano 1985. 18. J. Evola, Il Fascismo
visto dalla Destra. Con note sul Terzo Reich, cit. 19. J. Evola, Il
cammino del cinabro, cit., p. 91. A proposito della teoria evo- liana
sulla razza è da riferire quanto emerge dai Documenti segreti del Terzo
Reich pubblicati a Roma nel 1986 a cura di N. Cospito e H. Werner Neulen.
In uno scritto, una nota inviata dal dirigente dell’Ufficio politico della
razza della NSDAR, dr. Gross, al ministro tedesco per l’istruzione
popolare e propa¬ ganda, Evola viene accusato di elaborare una teoria
razziale «italiana», e fon¬ damentalmente antitedesca. Osservando che
Evola pone il primato dello spiri¬ to sul corpo, l’estensore della nota
rileva che Evola aderisce all’idea della su¬ periorità spirituale dei popoli
latini e asseconda «la favola della barbarie nor¬ dica in un altra forma»
(p. 130). Dopo aver accusato Evola di teorizzare un razzismo
«annacquato», privo di scientificità, antievoluzionistico, il redattore
afferma: «Dalla latinità dell’autore scaturiscono concezioni che
costituiscono un atteggiamento totalmente estraneo alle visioni
tedesche... Per questa ragio¬ ne colpisce in molti punti la sintonia con
il cattolicesimo mediterraneo» e pro¬ segue con alcuni esempi (pp. 130-31
dr. Huttig, Berlino, 9 settembre 1942). 20. Su tale idea cfr. Gli
uomini e le rovine, cit., p. 41; «Orientamenti», p. 17, Roma 1950. A tale
proposito cfr. M. Veneziani, Prefazione all'ultima edizio¬ ne di
«Orientamenti», Roma 1984 e in AA.VV., Testimonianze su Evola, Roma 1986;
Evola e la generazione del sessantotto ». 21. J. Evola, Gli uomini
e le rovine, cit., p. 19. 22. Ibidem, p. 23. The Germans do not have the concept of virility.
Evola’s concept of ‘maschio’ is very complex – vir sums up best. Julius Evola. “Giulio Cesare Andrea Evola”. Keywords: romanità,
virilità. pitagora, roma, origini di roma, romolo, romanità, virilità, pitagora
canti d’oro, ercole, male bonding, virilita, vir, Dioscuri, castore e policce,
Weininger, Buehler, homoerotic, intergenerational male bonding, tutor/tutee,
hero, Aryan, European – Roma, l’implicatura di Romolo. Refs.: Luigi Speranza, "Grice
ed Evola," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763019614/in/dateposted-public/
Grice e Fabri – lizii -- i peripatetici – filosofia
italiana – Speranza (Spinata di Brisighella). Filosofo. Grice:
“I like Fabri; especially the ardour by which he fought Duns Scotus – a
furriner! – and his malignant influence on the Continent – he was a thoroughbred
Aristotelian, like me!” Insegnò a Padova. Critica Pico e Galilei, in difesa di
Aristotele, dell'unità della metafisica e della separazione di matematica e
fisica. Altre opere: Disputationes theologicae de restitutione et extrema unction
(Venezia). “Adversus impios atheos” – PHILIPPI FABRI FAVENTINI ORD. MINOR.
CONVENT. Jn Universitate Patauina Olim Sacrae Theologiae Professoris
EXPOSITIONES, ET DISPVTATIONES In XII. Lib. Arist. MATAPHYSICORVM; QVIBVS
DOCTIRNA IO. DVNS. SCOTI Magna cum facilitate illustratur, [et] contra
Aduersarior omnes tam Veteres, quam Recentiores defenditur His Praeijt Auctoris
Vita a MATHEO VEGLENSI, Nunc Sacrum Theologiam in eadem Vniuersitate Publice
docente, Conscripta. Cum Duplici Disputationum, [et] Rerum Memorabilium Indice.
Ad EMINENTIS. ET REVERENDIS. PRINCIPEM D. Dominum FRANSCISCVM CARDINALEM
BARBERINVM S.R.E. Vicecancellarium. Il valore della "Metafisica" di
Aristotele e la distinzione delle scienze speculative. In: Innovazione
filosofica e università tra Cinquecento e primo Novecento. Filippo Fabri.
Filippo Fabbri. His comment on Aristotle’s metaphysics is a gem. It’s divided
in dissertatio – and chapters for each little unit. The following should serve
as kewyords. DISPVTATIO PRIMA. contrarium solution cap, il Yorum appetitus
addat aliquid supra facultatem, cuius De Structura Metaphysicorum est
appetitus, & idem de concupicibile, & irascibile. cap. III P. 22
BIECTIO ' Adversariorum Aristotelis contra scientiam Metaphy DISPVTATIO VIL
sicorum. Cap. I Excellentia Metaplıyl. explicatur. V trum inter omnes senſus
magis senſum visus Cap. 11 diligamus, o hoc quia vilusfaciat nos Excellentia
Merappyf. inductine din magis scire. scurrendo per diversas (ciencias, &
questa varia pub. Cap. III pag. Is Rationes, quibusallata propositio Aristoteli
videtur Adraciunes Adversariorum Arist. cap.1111 falla Declaratur alata
propositio, & soluuntur rationes DISPVTATIO II. adduciæ. cap. II DC
Inscriptione, Сар. Рnicит, DISPUTATIO VIII. DISPVTATIO II. Utrum in Brutis sit
prudential. Utrum. Metaphys. sit scientia subalternans, Cap. Quid sit dicendum
reiectis opinionibus contrariis, Рівіскі. cap. Vnicum. P. 34 DISPVTATIO IIII DISPVTATIO,
VINNI. De Subiecte Metaphysicorum. Utrum ex experimentis generetur ars, siue
scientia. Aliorum opiniones adducuntur, & reijciuntur, cap.1. Opinio Arist.
& Scoti cum suis fundamentis brevi. ter explicatiil'. cap. I P: 36 Vera
Opinio cap.nl p.21 Obiectiones contra opinionem Aristot.ex! Antiquis Heraclito,
Platone, & Avicenna, & earum con DISPVTATIO. V. futatio, & Solutio.
cap. II Obiectiones aliorum contra quædam dicta in 1. cap. Vtrum ens habeat
peras causas, principia. & eorum solutio Vtruy verum sit quod expertus non
habens artein, Quid sit dicendum. cap. 1 p. 22 nec scientiam certius operetur
habente, & scienti. Obiectiones aliorum præfertim contra distinctionem ang,
sed inexpertè, formalçın soluuntur. cap. I I p. 22 DISPVTATIO X. DISPVTATIO VI.
Vtrum AEtiones sint circa singularia. vide lib.7. Vtrum illa propositio Aristot.
Omnes homines Diput. natura scire dederant, sit vera, de quo auctitu DISPVTATIO
XI. Opinio Thomist. & quorumdam aliorum adducitur, Vtrum aliquis SENSVS
INTERNVS dividat, come & refellitur ponat, a discurrat, Opinio Scoti, &
eius Comprobatio, & rationum in P.38 Di OPERA 15 Opinietur. Opinio D. Tho.
ac Sectatorum refellitur, & Opinio Quid sit dicendum.c. vnic. 02 Scoti
explicatur.c. Vdic DISPVTATIO DISPVTATIO V. XII. Vtrum detur Regressus, yorum
obiectum per se sensus sit aliquid fub ra. tione singulariiatis. DISPVTATIO VI.
DISPVTATIO XIII. Vtrum sit ponere Stutum in omni genere catfitri... ptrum ad
Metaphyf. pertineat cognoscere omnes Quæ fine causæ essentialiter ordinatæ,
& quæ acci. quidditates rerum in particulari. dentaliter, & quæ per se,
& quæ per accidés.c. 1,93 Resolutio quæstionis secund. Scotum. c.2 Aliotum
Opiniones adducuntur, & refelluntur. Obiectiones contrarationes Scoti,
& Propoſitioné 49 Arift.& carundem folutio.c.3 Opinio Scoti explicatur,
& rationes in oppofitum Coluuntu. DISPVTATIO. VII. DISPVTATIO XIV. Vtrum
cauſæ ſecunde pendeant in sua causalitate ab aliis causis secundis
superioribus, vt Vtrum magis universalia sint difficiliora cogni agentia hæc inferiora
d cælo. DISPVTATIO Opinionibus Contrariis conſideratis, quid sit dicen X V. dum
Itatuitur. Quomodo Celum sit causa lucis, luminis, & caloris trum
metaphyſicæ sit scientia practica, vel Spe. permotum, vbi de generatione
caloris quoque culatiúl, ego idem de logica. agitur. c.2 Quid sit dicendum de
Metaphyſ. breviter explica- Quomodo Cçlu producat calore per lumé.c.z. SS Quid
sit dicendum de Logica DISPVTATIO VIII. SVPER LIBRVM SECVNDVM. Vtrum infinitum
possit à nobis cognolci. DISPVTATIO PRIMA. An poßit à nobis cognosci infinitum
esse in rebus Vtrum prima principia Complexa vel illud de quo- An intellectus
creatus poflit infinitum secundú quod libet perum est AFFIRMARE, VEL NEGARE, de
nullo infinitum cognoscere. Opinio Suarez cun fais amboſimul, sint nobis naturaliternota.
fundamentis Opinio allata reijcitur. Opinio Scoti explicatur, & ra Quid sit
dicendum. ciones in oppositum foluuntur.c.3 An A Genfus principiorum sit actus
distinctus ab apprehensione, & quædam alia dubia mota a Scoto SVPER LIBRVM
TERTIVM. in hac quæst.&non soluta, Coluuntur. DISPVTATIO PRIMA. DISPVTATIO
II. Utrum immobilitas sit causa efficiens, o finalis Vtrum difficultas cognoscendi
resfit ex parte intellectus, vel ex parte rerum cognoscibilium. Quid sit
dicendum breviter explicatur. cOpinio Averr. Thomist. & aliorum cum suis
fundamentis DISPVTATIO II. Opinio Scoti comprobatur, & allaræ refelluntir.
Vtrum genus prædicetur de differentia per se, Opinio Scoti explicatur,
&rationes Aduerfariorum Quid sit dicendum. Cap. Vnicum ſoluuntur DISPVTATIO
III SUPER LIBRVM QVARTVM rio. DISPVTATIO PRIMA. Utrum substantiæ abstracta
immateriales possint cognosci secundum suas quidditates ab Vtrum ens uni-voce prædicetun
de Deare creaturis intelle &tu nostro pro Aatu iſto. Opinio Thomist.
adducitur substantia, e accidente: vbiquæ ad hancmate, & refellitur riam
spe &tent quæq; tractata sint explicantur, Thomist. responsiones refelluntur.
quædam observanda adduntur. Opiniones Auerr.Themistij, simplicii, &
Platonicorum, ac Avicennæ adducuntur, & refelluntur Utrum ců Univocatione
entis stet ANALOGIA An Analogum mediet inçer UNIVOCVM, & æquivocu. Explicatur
Opinio Scoti, & rationes in oppositum DISPVTATIO IIII DISPVTATIO II.. Vtrum
Privatio, Negatio sit ens rationis, In quo sit felicitas, & summum bonum
hominis se iundum Aristotelem, alios Philosophos. Opinio Aucrc.D. Thoin, &
sectatorium.c Cap. 2 soluuntur Opinio untur.C.2 IX. E Opinio Scoti, &
solutio rationum pro Adversariis DISPVTATIO IX DISPVTATIO 111 Vtrum vniversale
pro prima intentione sit in solo intellectu, an in rebus, a quo fiat, ứ quid
sit. Vtrum cognitionem negatio habeat ab affirmatione diftinétamcuiformalitatem
opponitur., ca Status quæftionis aperitur, & opinio Nominal. addu citur,
& confutatur Quid sit formalitas Opinio Thomiſt. & multorum aliorum
adducitur, & Quomodo formalitas ſeù conceptibilitas negationis
refellicur.c.2 189 Te habeat ad formalitatein affirinationis Opinio Scoti Quomodo
privatio per affirmatione, & privatio An intellectus agens, vel possibilis
faciat universale, per positiuuin cognoscatur solutio trium quæftionum à
Porphirio excitata rum in Proemio Prædicabil. DISPVTATIO IV. Rationes pro aliis
opinionibus adductæ soluuntur. De ente rationis, e fecundis intentionibus. DISPVTATIO
X. An fir ens rationis, & quotuplex sit Quotuplex sit ens rationis, Aliorum
opiniones reijci Utrum verum ſit paſſio entis, & quid fit Opinio Scoti
explicatur, & rationibus primo capite DISPVTATIO XI. addictis reſpondetur Quid
fit ens rationis,& fecundaintentio. Opinio A. Vtrum bonum sit passio entis,
& quid sit liorum, & eorumdem confutatione Quid sit ens rationis, &
secunda intentio secundum DISPVTATIO XII. Scorú, & quomodo formatur,&
an formetur a voluntate, & fenfitiua potential Vtrum preter vnum, verum,
bonum den An: prædicametu undecimú debcat constitui, in quo tur aliæ passiones
entis entia rationis reponantur Quid sit dicendum breviter declaratur. c. vnic
DISPVTATIO V. DISPVTATIO XIII. virum ens habeat veras paſſiones, cproprietates.
Vtrum iftud principium,impoſſibile eſt id eniſimul Variæ opiniones cum eorum
fundamentis eſje; non efje fit firmiſſimim. Allara opinio refellitur Opinio
Scoti explicatur, & rationes Aduerſarlorum Veritas breviter explicatur,
& quædam obicctiones ſoluuntur soluuntur.c.vnic DISPVTATIO ATTO DISPVTATIO
VI. XIV Vtrum propria paſio distinguatur realiter vtrum hoc principium
inpossibile est idem fimulef à Juo subiecto. fes nonesse sit simpliciter primum
principi um, e prima omnium dignitatum. Opinio & Auerroiſt Nominal.
quorumdam. breuiter reijcitur cum fuis, & opinio fundamentis Thom.. Au
principiun iſtud ſit diuerſum ab alijs principijs, & explicatur.c. præſertim
ab illo, de quolibet verum eft affirmare 201 velnegare.c.1 Allata opinio
reijcitur, & opinio Scoti, quæ eft etiam Auert. Comprobatur Opinio
Allerentium primum principium ſimpliciter Rationes Aduerſariorum foluuntur elle
illud de quolibet verum ett affirinare,vel nega Rationes Aduerſariorum contra
diftinctionem for re, retellitur. malem inter ſubiectuin, & paflionem
adducuntur, ConGdecancur opinio Antonij Andreæ, obiectiones & foluuntur.C.4
176 Aduerfarioruin, & quæfituin reſolutur.c.3 204 DISPVTATIO V11.
DISPVTATIO XV. V trum vnü quod eft paffio entis, dicat quid poſitivi Vtrum
inter contradictoria detur medium. Opinio Auicennæ reijcitur, & opinio
D.Thom.& re. Quomodo vera fit hæc propofitio, & aſſertio, inter
ctatorum explicatur cum ſuus fundamentis.c.1.177 contradictoria datur mediam
explicatur, & ebie Opinio D.Thom. & ſectatorum refellitar.c.2 179
ctiones quædamin contrario foluuntur. C.1.206 208 Opinio Scoti explicatur,
& rationes pro Aduerſarijs Argumenta quædam contraria toimuntur.c.2.
foluuntur SUPER LIBRVM QVINTVM. DISPVTATIO VIII. DISPVTATIO I. De Vnitate
indiuiduali, seu de principio individuationis. Vtrum cauſæ ſint tantum quatuor.
Quierlain adduntur ad ea, quæ in Philoſopbia naturali Quæ fit diffinitio
propria principij, & caufæ, & quod dicta ſunt de principio
indiuiduationis contra Sua corum difcrimen. Suarez, & opinio Scoti magis
confir. Vtrum fint plura quá quatuor genera cauſarú,vbide caula XCII Di 202 D D
INDE X. 1 c. 308 299 -. caufi fine quanon,decauſa diſpoſitiua, obiectiva cxemplaridiecimur.c.
2 Vera explicatio difficultatis propofitæ,& rationen in oppofitum folutio. Verum
cauſa exemplaris fit genas diſtinctuin caufæ à quatuorgeneribuscaularum pofitis
ab Aristotelis. DISPVTATIO VIII. C. 3 DISPVTATIO II. Vtrum caufe ſint ſibi
inuicem cauſa. in quo conſiſtat cauſalitascauſamaterialis, forma. Quæſtio
breuiter reſoluitur, &quædam obiectiones lis, efficientis. in contrarium
foliuntur.c.vnico DISPVTATIO IX. Opinio aliorum.com 237 Allatæ Opinio opiniones
vera cuin luis refelluntur fundamentis, & folutio racionú verum neceſſaria
habeant caufam fui esse Aducrſariorum. DISPVTATIO X. DISPVTATIO III. Vtrum ens
diuidatur in decem prædicamenta per De cauſa finali. modos prædicandi, vel per
modos eßendi. Caula finalem ele caulam realem, & caulam caliſa- Quid
fitmodus rei, & quid modi intrinſeci, aliorum fum opinionibus
reiectis,explicatur.c. I 305 An finis caufct, & moueat fecundum fuum elle rea.
Opinio Scoti.c. 2 le, an secundum elle cognitum in inente, DISPVTATIO XI.
Antinis caulec Meraphorice,vel efficienter Viruin ratio formalis conftitutiua
finis in proxiina di ſpoſitione ad caufandam larbonitas tin:s,& Ancau
Vtrumſecunda diuiſio vnius, quæ eft in vnum nu lalitas tinis babeat lociun in
diuinis actionibus, in mero, unum specie, unum genere, & vnum propor mediis
relationibus prusacion.bus, & in naturali tione sit conveniens.bus DISPVTATIO
XII DISPVTATIO IV. Vtrum plura accidentia solo numero diucrſapoſfint De causa
instrumentali ere simul in eodem fubie& to Opinio D. Thomz, & Thomist.,
cum suis fundamen- Opinio Thoiniſt. cum fuis fundamentis Alaca opinio celicitur,
& opino Scoti explicatur, &
conriimtur Allaca opinio refellitur, & opinio Scoti explicatur Obectiones
quęd.ım ex Suarez adducuntur, & folur Vtrum inſtrumenta Artium habcant vim
activa n. tur, & ndiciva deeius speratione fertir Plures relaciones
diltiactis numcroelli dc facto in co Opinio Scoti adducitur,& rationes
Aduerſariorun, dei lubiecto contraaduerfarios prob cap.adductæ Coluuntur Rationes
Aduerfariorum primo capite adducte lol muntur DISPVTATIO V. DISPVTATIO XIII.
Vtrum onus effe &tus poſſit prouenire à pluribus caufis. V trum propria
ratio quantitatisſit diuiſibilitas. Quaeslio quoad criamembra, & tres
fenfus,breuitcr Diffinitio quantitatis explicatur cxplicatur Virum quantitas
molis fit entitas distincta à ſubstan. Vtrum idem effectus poflit effe fimul a
pluribus cull cia materiali, & qualitatibusillius ſis totalibus eiuſdeni
generis, & ordinis sive speci Viruin ratio menſuræ fit ratio torinalis
quantitaris.De principali quæfito, An divisibilitas sit ratio esé. DISPVTATIO
VI cutis quantitates Qienum fic excentio
in quanticate, & quomodo ina Anidem indiuiduum poſſit produci à diue'ſis
agen Ten yenda dit.c.s tibus, idem numero reproduci naturaliter. DISPVTATIO
XIV. An idem effectus poflit eſſe à pluribus saufis rotali bus divisim, seu
Anidem indiuiduum numeio por Vtrum punctum linea, superficies sint entia rear
fit produci à diuerſis agentib ila vel railonis, An idem numero tam in
fubftantia, quam in acciden te poflit reproduci naturaliter Opinio nominalium
negantiuneſſe entiz realia cum iuus fundamcntis. DISPVTATIO VII. Opin o alaia
reiicitur, & finul appo.iti, quod iint evtia rcalia, que elt com 10HS
comprobitiir Vtrum cauſa particularisin a&u, &ſuus effe &tius in aftuſimulfint,
& non fint:vel fub alio titulo. Opinio Sco: i, & folutio rationum in
oppoſituin. Vtrum caufa fitprior ſuo effectu Quorundam opiniones adducuntur,
&reijciuntur DISPV pas T Opinio Scoti cum fuis fundamentis. DISPVTATIO XV.
Rationes crietani contra hanc opinionem, & rationem Scoti so trum quantitas
discreta ſit proprieſpecies Opinio allata caietani cum suis fundamentis, &
re. quantiiati, sponſionibus refellitur Soluuntur rationes aliorum.c4 Opinio
negatiua cum fuis fundamentis Allata opinio refellitur & oppofita
comprobatur, DISPVTATIO XX11 Opinio Scoti, & communis explicatur, &
rationes Vtrum ad relationem realem tria fuffi in oppofitum foluunturçiant,
Virum in ſpiritualibus tie quantitas diſcreta, & in dili nis fit numerus Relationem habere cauſam efficientem, &
finalem, quæ sunt extrema & relationem multiplicari ad DISPVTATIO XVI multiplicationcm
fubicctorum, & potentialem el fercaliter diftinctam ab actuali. Vtrum
qualitas rectè diftinguatur in qua., De Distinctione fubiecti, & fundamenti
in relation tuor ſpecies ne.c.2 393 Vtrum fundamentum, & terminus in
relatione reali Proponuntur difficultatesquædam generales circa do neccfiario
diftingui debeant realiter. Vbi opinio ctrinam Ariftotelis de qualitatis
ipecicbus.c.de Gregorij, Auscoli, & Okan apperiuntur, & rejciuntur Quid
dicendum circa allatas difficultates DISPVTATIO DISPVTATIO XXIII, XVII. Vtrum
dentur Relationes extrinfecus ad V trum locus fit quantitas. menientes,
Explicatur quęnio 2. Q.101.b. Scoti, vbi de distin- Opin o Scoti explicatur cum
ſuis fundamentis ctione loci, de existenia duorum corporum in eo dein oco
difertur, & obicctiones Aducrtariorum Rationes aliorurn adduantur, &
rcfelluntur retelluntur Locum non cfle vacuum, quamuis vacuum poflit da Rationes
allaræ foluuntur leteffe ipeciem quantitates Solutio argumentorum conrra
fecundam, & tertiam opinionem DISPVTATIO XVIII, DISPVTATIO XXIV. Vtrum
motus, tempus fint species quantitatis.VNICUMI. Vtrum una relatio possit fundari
in alia keliiione. DISPVTATIO XIX Opinio D. Thomæ cum ſuis fundamentis
refellitur, Utrum relatio distinguatur à fundamento, vbi de distinctione reail,
mondo, contra hea Opinio Scoti, & folutio rationum pro præcedenti opi
cenciures un puitur. nioneadductorum Opinio eorum, qui aſſerunt relationein non
distingui DISPVTATIO XX a fundamento. Opinio præcedenci capite allata, &
doctrina de ditın Virum tres modi relativorum sint reétè clione reali Suarez
iciclisur. allignati ab Aristotele. Opinio alionum allerenijum relaciones non
diſting.is realiter à fundamento. Anomncs relationes fufficienter contineantur
in his Opinio alioulin aflerenuun relationes eſſe idenirea a b smodis Tejatiliorum.c.
I liter cuin fundamento, led dittingu rationc addu Vuum primus modus
relatiuorum Git ſufficienter ani citur, & refellilur. gnaliis Opiniones
aliorum foluuntur Yorum lccundus, & tertilis modus relatiuorum fic rectè
aſiignatus.C.) DISPVTATIO XX. SUPER LIBRVM SEXTVM. Vtrum omnis relatio
contineatur in predica mento relationis, an rerò aliqui fint DISPVTATIO PRIMA
Transcandentales. Per quid scientia speculatina distingua. Opinio aliorum qui
allerunt relationes rationis repo tur à Practica. nu in prædicamento relationis
adducitur, & reijci tul Adversariorum ſententiæ; An açtus intellectus sie
Que tint relationes prædicamentales, & quæ tran praxis adducuntur, &
refellunur scendentales. Opinio Thomittarun a quo habitus, & scientia di.
catur practica cum lius fundamentis DISPVTATIO XXI. Allaca opinio retellicur,
& rationes pro ça Coluuntur, Virum relatiuum terminetur ad ſuum
correlatiuum. DISPV Scou one CRUCI DI De conexione virtutum moralium acqui
ſitarum inter fe. Opiniones aliorum refelluntirr.c.i SOI Opinio D. Tho. &
aliorum refelluntur. Opinio Scoti, & dolutio rationuin sos DISPVTATIO X.
DISPVTATIO III. Utrum scientiam sit una qualitas simplex. Opiniones aliorum
refelluntur, & opinio Scoti ex plicatur Verum ſcientia: n totalis vt
Philoſophia naturalis, vel Mertaph fit vna nuinero fimplex qualitas Opinio D.
Thomæ Opinio Suarez Quomodo opinio nominalium Gt vera, Relponſio caierani
retellitur Pugna inter Suarez & Vaſquez
DISPVTATIO IV De connexione virtutum moralium cum prudentia, Opinio
Henrici, & aliorum reijcitur, & opinio Scou ti explicatur CI sog
Opiniones Aliorum refutantur, & opinio Scoti con firmatur. i foluuntur. 6.4 vtrum trimembris diuifio.ſcientia
ſpeculatiuæ in DISPVTATIO XI. Phisicam Mathematica, de methaphysicam, fut bona.
Vtrum necesse sit ponere charitatem creatam for maliter inherentem naturæ
Beatifica Rationes quibus prædicta diuifio Arist, non vide Diſput. merè Thologica,
cur conueniens Resolucio Difficultatis, & folutio rationum. cap.z. Homines
iuſtificari per iuftitiam inherentem animæ pag. 460 formaliter, non autem per
imputatiuain, contra hæ feticos breuiter probatur DISPVTATIO V. Opinio Magiſtri
adducitur, & refellitur. Opinio catholica explicatur, & comprobatur ex
Do Vtrumfit necefle ponerein habiturationem (trina Scoti. principi a &tiui
reſpectu actus Quid fit dicenduin deſententia Magiſtri quo ad fubftantiam.
Rationes pro opinione Magiftri adductæ coluntur cos 531 Duiz opinioncs adducuntur,
& refelluntur.c. Opinio D. Thomæ Aureoli, & Durandi' refellitur.
DISPVTATIO XI R. Opin o Scoti explicatur, & probatur. Utrum gratia fit
virtus, quæ eſt charitas. Obiectiones contra opinionem Scoti adducuntur, &
469 Exponitur opinio D. Thomæ Vaum habitusgeneretur per a & tus, &
quomodo opi Allara opinio reijcitur. nio alioruni.cos 474 Exponitur opinio
Scoti, &rationibus aliorum tisaltir. DISPVTATIO VI. DISPVTATIO XIII. Vtrum habitus
moralis in quantum virtusſit aliquo modo principium aétiuum refpectu bo Vtrum
gratia fit in eſentia animæ tamquam in ſur nitatis in actu, biecto vel in
potentys. Opinio Scoti cum ſuis fundamentis. Exponitur opinio illorum qui
dicunt gratiain effe in Obiectiones caictani,& ipfius Scoti contra fe: c. 2
effentiam animæ.c, I 540 480 Rationes in oppofitum foluuntur DISPVTATIO: XIV.
Rationes caietani, & aliorum adducuntur, & refeilun 484 Virum in patria
remaneat habitus fidei. DISPVTATIO VII. Opinio aliorum refellitur, & Scoti
explicatur. cap. SAS De ſubię to babituum, DISPVTATIO XV. Opinio Scoti
defenditur, & comprobatur, C. vnic. pag. 486 De connexione vtrum
intelleétualium inter fe, & Moralium cum Theologicis, Theolo DISPVTATIO
VIII. gicarum inter fe. De subiecto virtutum. Quod fit dicendum. In quo conueniant
Scoti D Tho. & alij. DISPVTATIO XVI. Opinio ai lara refellitur, &
fimulopinió Scotiproba 492 Vtrum an anıma dertur alij habitus preter virtue
Opinio Scoti explicatur, & rationes aliorum ſolaun tes morales
intelectuales, C Theologicas. vbi de damnis Spiritus Sanéti beatitudi nibus ex
fruitibus, pofiiis a Theo IX. Logis differitur, b 2 Opinio 1 pag. cur.c.4 vnic.
DISPVTATIO ill tio DIE llill. Opiniones aliorum
refelluntur Vtrum accidens in concreto primo ſignificet fubięz Opinio Scoti
explicatur.c.. čtum vt eft lub tali forina; & an accidens in abftrą cto Gt
ens incompletum. DISPVTATIO XVII DISPVTATIO IV. Utrum angumentum cum
intentionefiat fema per per ačtum intenfiorem. Vtrum ſubstantia fit prior accidente
tempore Opinio D.Thomæ. c.1. $ 57 Opiniones aliorum refelluntur Opinio Scou
explicatur. Opinio Scotiexplicatur, & aliorum ſoluitur DISPVTATIO XVIII.
DISPVTATIO V. De modo augumenti, & remissionis, & Utrum substantia
prior sit accidente diffinitione coruprionis -habitus Opinio Thomiſtarum
fefellitur.com ili Opinio aſſerentium in intentione habitus nihilpræ Opinio
Scou explicatum ibid. exiftentis habicusremanere, & eiuldem confutae DISPVTATIO
VI. Opino D. Thomæ, & aliorum refellitur Opinio Suarez ieiicitur. y trum
ſubſtantia fit prior accidente cognitione. Quomodo habitus dimmuttur, &
corumpitur.cap. Cina ini' 4: S75 Subſtanțiam,effe priorem cognitione accidentibus
DISPVTATIO XIX Vtrum de e ne per accidens detur fcientia, DUI SPYT A FIO VIL
Quid fit dicendum de ente per accidens quod prijat Dediuigone ſubſtantiæ in
primam, & ſecundam, & perlelden neut a.c. cil 577 diferentiam inter
prim.im fullt untiam, & ſuppoſi Deente per accidens quod contingenter non neceta
653 fio caulatur. De comparatione primæ subftantiæ ad suppositum, & ad
lubfiftçocian leu perionalitatem DISPYTAȚIO XX, Quomodo inteligaty wla
propofitio, actiones funç uppulitoruim.c.3 651 Vtruinens verum debe at ſeparari
a, confideratione Quomodo mielligatur Axioma illud, actiones fins Merhapbojica.
c.vnico lingubahuin.com SVPER LIBRVM SEPTIMYM, Rick SPVTATIO vill, DISPVTATIO
PRIMA. Vtrum formafit prior compoſito: V trạm inherentia ſit de eſſentia
accidentis. Aduerfariorum opinio fefélitur, & vera comproba. 664 Quid fit
dicendum de inherentia accepta pro per ſe Rationes in oppofitum ſoluuntur.c.2
666 Tignificato, ieu pro accidentalitate quæ circuit no nein piedicaincnta. DISPVTATIO
IX. Quud lii dicendum de accidente pro denominaco quod eit relatio. C.2 623
Vtrummateria ſitens, Vtrum inherentia actualis fit de ejentia ac, DISPY TATIO
cidentis abjoluti. V trữ quod quid est sit idein chillo cüius ejt.c.1.667
Opinio Scoti, & aliorum reiicitur.C.3 Inherenţiam actualem non ele de
jellentia acciden- Explicatur fenllis verus illius proportionis,c.2. 669
usabloluti DISPVTATIO XI, DISPVTATIO II. Vtrum genita ex putri, “ſemine ſint
eiufdem ratio y trum ens finitum Prima ſui diuiſione diuida. 672 tur in dccem
preurcamenta, o qualisfit bac diuifio, Ü eius analogia DISPVTATIO XII Opiniones
aliorum adducuntar Vtrum Cælum in generatione animalium ex putri Allara
opinioncs refeliuiiur, & opinio Scoti expli materia ſit principale a cris.
ibido Callir.c.2 633 Au rationes adversariorum DISPVTATIO XIII DISPVTATIO III
Vtrum compositum per se generetur Veritas questionis explicain & opinio
Scoti defendi Vtrum accidens in ſe confideratum fit ens. tur.C.2 673 Rationes pro
aliis opinionibus foluuntur, & opinio Veritas aperitur confutata opinione aliorum
Suare, & Zimaræ diluuntur.c.3 675 DISPV: IS 1 ** 31 tur hos 624 nis DISPVTATIO
XIII: Opinio quorundam refellitur. Allaca opinio refelitur, opinio Scoti
explicatur, & ra De Ideis platonis an ſint Admittende. tiones in oppofitum
foluuntur.c.2 720 Germina opinio Platonis. DISPVTATIO III. Rationes Arift.
contra Platonem, & solutio rationú in oppositum.C.2 691 De ſubie &to
accidentium. DISPVTATIO XV An hoc fit potentia qnæ lam paſſiua in. herens
(abſtantiæ. Vtrum forme niturales de potentia matteriæ educantur Opinio
Thomiſt. refellitur Opiniones illorum qui formas naturales produci ab Opinio quorumdam
aliorum.c.2 725 agence leparatu, velab intelligentia vel a Celo ale runt.C.2
688 Vtrum poum accidens poffit effe fubie &tum Opinio Sco.& Solutio
rationum alterius accidentis. DISPVTATIO XV I. Opinio Scoto, & folutio
rationum. C.3 Vtrum materia fit pars quidditatis re DISPVTATIO IV. rum
naturaliuin. Vtrum ad formationem prolis mater concurrat Quid sit dicendum. ci
vnic. 694 active DISPVTATIO XVII. DISPVTATIO V. 1 728 Vtrum fingulare ſitper ſe
a nobis cognoſcibile. Vtrum cælum fit compoſitum ex mate. rid, forni.
DISPVTATIO XVIII. Næc Celum, nec animam rationalem, nec Angelam eiſe compoſica
exmateria, & forma contra quoſ daw recentiores Scouſtas. C. Vnic. 731 Vtrum
conceptus generis fit alius à concept u diffe rentie, speciei.Thomiltarú, &
aliorú opinio, & confutatio Opinio Scoto, & folutio aliorun. DISPVTATIO
VI DISPVTATIO XIX. Vtrum omnis creatura fit compoſita ex materia, como foruba,
ex potentib, autu Virum differentia diuifiuig? neris inferioris inclu. Opinio
afferentium omnes creaturas eſſe compoſi. dat differentiam gencris juperioris
formaliter. tas ex materia, & forın potentia & actu refellitur & opinio
Scoti explicatur Opiniones alioruin. Obiectiones A tucrinorum contra doctrinam
alli Alata opinio retellitur, & vin statutis.c. 733 cam Scoti lefel iniur, DISPVTATIO
XX DISPVTATIO VII. Virum universale sit aliquid in rebus. DISPVTATIO Utrum ex materia, e forma fiat
unum per se. Aliorum opinionibus confutatis exponitur opinio Scou.c. Voici XXI
Utrum in compoſito ſubstantiali fint plures forme ſubſtantiales. 704 SVPER
LIBRVM NON VM. DISPVTATIO XXII. DISPVTATIO I. 1 Verum totum eſſentiale
diſtinguatur a luis partibus; De diuiſione entis in potentiam, actum, in ef fimulfunptis.
Seniamy w exiſtentiam, SVPER LIBRVM OCTAVVM. Vitum potentia, & actus
opponantur, &quaoppo tucione; vbi op.no Henrici de cflentia, & ex
DISPVTATIO PRIMA Itentia conturauir Opinio Thomiſt. de diſtinctione en is in
potentia, Vtrum in motu alterationis oporteat manere idem & actum retelitur,
& opinio Scoti explicatur. fubie &tum fiinpliciter ſub zeroq;
terminorum, 757 Rationes Aduerſariorum primo, &ſecundo capite Quid fit
dicendum, & reſoluțio objęđionum in con adductæ foluuntur Obiectio ex Saclano,&corundem
reiectio DISPVTATIO II. DISPVTATIO 11. Vtrum essentia, existentia in ente
creato actuanter onijiente distinguuntur. Utrum accidens sit compoſitum
intrixſece Eficntiam trariuin Blora afikas JIPEL " SI Essentiam, &
existentiam non realite, nec ratione c'tantum, sed formaliter distingui, &
opinionem Scoti elleveram defenditur. c. I Quid ſit exifteptia creaturæ, &
an habeat aliquas cau DISPVTATIO I. Tās, & causalitates, & quædam aliæ
quæstiones de existentia enodantur Utrum verum ſit illud Axioma,primum invnogue
que genere eft metrum, o menfura omnium, que DISPVTATIO III. ſuntin illo genere:
y trum potentia ſuficienter diuidat!ır in actiuam, Quid Ge menſura,& quæ
conditiones eius vbi de du o paſiuam, earum diffinitiones ſint ratione,de
æternitate, & to, & aliis inenfuris agi reita aſſignatæ. tul Verus
intellectus propofitiAxiomatis Obicctiones cótra vtráq; partem adducútur
Diuifionem potentiæ in actiuam, & pafſiuain eſte DISPVTATIO II.
difficientem, & diffiniționės vtriuſq; potenciæ ef de l'ecrè allignatas Vtrum
vnum, multa opponantur contrarie, vbi DISPVTATIO IV. de paſſionibus entis
agitur: 1 Firew.idem moreripoſſit à ſeipſo,velvt alij loquit Quomodo vnum lic
paflio ſimplex, & difuncta en tir', Vtrum potentia actiua, & paffiua
jem tis, qualis fit diuitio entis in vnum, & multa, & qua per ré, ú
ſubiecto differant. lis ipforum oppofitio.c.vbic, 819 Opinio Thomiſt. &
aliorum tenenrium parcein nega DISP V TATIO II.1 ) tiua,nimirú ide à feipfo
moueri non pofle Allata opinio refellitur V ti un,ptáralitas ſei diuifibilitas
fit prior Rationes pro Aduerfariis primo capite a iductæ ſol vno, jer
indiuiſibílı, oc. uunub. DISPVTATIO V. Quid fit dicendum breuiter aperitur.
c.vnic. Vtrum omnis potenti 1.fite tantum attina, veltātum DISPVTATIO paliud,vel
aliqua fit fimul actiua, o pajuna. V trum à priuatione ad habitum ſit poſibilis
Quedamquæſtiunculæ de potentia tractaræ à Scoto regreſſus jeù tranſmutatio: an
hoclibro Nono breuiter explicantur ic. i 784 Eamdem potentiam poffe efle
actiuam, & paffiuan Ruid fit dicendup. c.ynic, i $ 23 nedyn
selpecriducrforum,led relpectu tuijpfi us, & quomodo DIS P Y TATIO YA D'ISP
V TATIO VI. Vtrum identitas abſoluta, a relatiua fint eadem V tim potentia
paſina diuidatur in potentiã notu. entitas an distinci e realiter. i ralerno
upernaturalé,jei obediétialé,a violétă. Opinio Aduerſariorum refellitur cum
ſuis fundansé Diftinctionem allatam eſſe de potentia paffiua, non tis, &
opinio Scoti explicatur, & prob.c.ynic, 8.24 actina. L'orenciain
obedientialem acuvam non da. ri, & membra omnia fecundum doctrinam Scori
DISPVTATIO VI elle intelligenda. C. vnic. Vtrum idem, & diuerſuin habeant
inediú. c.vnic.DISPVTATIO VII. DISP V TATIO VII. V trum aétus ſit prior
potentia.. V triem media cõt: ariorū ſint cöpoſita ex terninis: 10 cuo ſenſu
ſit vera, & quid dicendum explicatur. Duæ contrariæ opiniones adducuntur in
propoſita DISPVTATIO VIII. questione, & an duo contraria poflint elle in
co. dem fubiecto.c.I 828 Vtrum actio fit in agente, vel in paflor 791 Quid fit
dicendum de vtraque, opinio allata, & opiu nio Scoti explicatur. DISPVTATIO
IX. Quodam alia adducuntur ad majorem declaratione; Kanduio contaria in fumino
de potentia Dei ab y trum differentia,quam alignat Philofophus inter ſoluta
pollint elle fimul. c.; potentias rationales, e irrationales fit conuenienter
poſita. DISPVTATIO VIII. Rationes contra allaraw differentiam aßignatam ab
Vtrum formæ ſubſtantiales formaliter repugnantes, Anttotele opponantur
oppoſitione contrarietatis. Resolutio quæstionis. Arguincita primo capite
adducta ſoluiuntur.C.3.794 Opinio aferens formas ſubstantiales eſſe contrarias cțiin
tus fundamencis. DISPVTATIO X. Fundamenta quædam pro veritate inueftiganda, vbi
de natura oppofitorum agitur. Utrum detur aliquis aétus malus in voluntate ſine
Solutio principalis dubitationis, & rationes pro pri vlla ignorantia in inielletin
maopinione DISPUTATIO IX. Obiectio quid tun'ex Scoto ipfo,& ex
recentioribus aduerſus ſecundam partem quartz conclufionis fit l'trum
corruptibile, e incorruptibile differant perius probatæ, probans rarionc
naturali pode de pluſquam genere monftrari Deum eſtepropriè omnipotentem,reij.
Citur SVPER LIB. VNDECIMVM. Alixrationes exrecentiotibiis ad idem adducuntur,
& foluuntur. DISPVTATIO PRIMA. An verum sit Deum posse saccreomze illud,
quot non implicat contradictionem. Vtrum primæ quatuor qualitates fint for, An
Deus ponit facere fimul omnia quæ poteft, & an me ſubſtancialeselementorum.
poſit facere in infiniçum Opinio affirmatiua cu niluls fundamentis DISPVTATIO
VIII. i Fundamenta pro opinione Græcorum.c Primaratio contra opinionem Græcoram
adduci- vtrum potentiæ in Deo diſtinguatur abtur.C.3 tia,&
voluntatealiquomodo,fie cius fcien Aliæ rationes ad idem. C.4 8.46 Intellectum,
&voluntatem detur potentia efe Quædam ali rationes ad idem.c.s 848 cutiua
in Dco, quid in Angelis. 0 Solutio rationum in oppoſitum Deopinione
Auerroes.c.7, s'agi ! 855 Opiniones aliorum cum fuis fundamentis.c.r924
Explicatio opinionis Scoti; & confutatio aliarum DISPVTATI II Vtrum
generatio, corruptio fiant in inftanti DISPVTATIO Opinio áfferentium
ſubſtantiam?ſucceſſiuélgenera. Quid comprahendati fub'obie & o omnipotentiæ:
ricum ſuis tuntamientis Opinio allata refellitur, & omnem generationem An
omnipotentia se extendar'adactis notionales ſe ſubſtantialem fieri in inſtanci
cum Arift.defendi cundum Theologos. cLimas. Anomnipotentia fe extendat ad
creationem Angelo Rationes aduerfariorun foluuntur. C32.862: rum, & quid
fit dicendum fecunduin Theologos, 00061: Jorcu & quid fecundum
Philosophos.c.2 SVPER LIB. DVODECIM VM. Lupe pie DISPVTATIO X. Disputatio Vtrum
Deusfit ſimplex, & omnis creatura ſit com DISPVTATIO IV. politan. Utrum
omnis productio, velindu &tio cuiufcumque DISPVTATIO XI. forma sit univoca,
ſoue à fuo ſimili perrun solum Deus sit inmutabilis. Quid sit dicendun
aperitur. Rationes in oppositum foluantur, & quomodo meti13 Deum in ſe ele
irmutabilem probatut rationibus fit caula caloris Philofophorum, &
Theologorum.co.Analiquid aliud á Deo habeat immutabilitatem, DISPVTATIO V IWA
quid lenſerincPhilofophi Obiectionescontradeterminata tisperivis, & opinio
Vtrum animarationalis it'immortalis. eorum, qui dicunt Deum agere libere ad
extraie cundum Philosophos, & endem confutatio DISPVTATIO VI Rationes pro'
opinione Philoſophorum, quod Deus Venum detur vnum primum ens infinitum, quod
eſt agat necefario ad extra,& quod dcntiraiiqua ca Deus,in qua
rationibusnaturalibus demonftratiuis tia ex fe neceffe eiſe,adducantur, &
eadein opinio proceditur, contra Atheiſtas. retelliill's Cof Quædam præambulæ
conclufiones ad probanda'n Deum effe immutabilem quoad intellectun, & volú
primamens ex triplici primitate prædicta elle in tatem, & quomodo. finitum
præmittunur. Rationes pro Philofophis foluuntur. Primum ens triplici primitate
præmiffa effe infinitú Quæ virtutes cx ijs que conſequentar voluntatein $ erat
fecundum principale intencū prob.c.7. 399 Tint in Deo. Rationes D. Thom. &
aliorum, quibus probant Deā elle infinitum,adducuntur, & reijciuntur.
DISPVTATIO XII DISPVTATIO VII. V trum dctur infinitum actu in permanenti bis, c
filceclivis. Vtrum Deum eſſe omnipotentem poſſit natnrali ratione, neceſjaria
demonſtrari. Status queſtionis, & rationes quaſdam recentiorü, quod mundus
non pocucrit elle ab æterno, non có Explicatur çitalis quæftionis, & quid
fit dicendan. cludcre oftendicar, c. 960 quoad demonſtrationem propter quid. Opmio
eorunqai affcrun dari infinitum aétu tam Quid dicendum quoad demonftrationem
quia, tam in permanentibus,gratia fuccelifuis adducitur, & fecundum
Philoſophos, quam fecundum Theolo reijcitur & quoinodo diſcrepent Philosophi
à Theolo. Pofitio Scoti, & folutio rationum in contrariain. gis DDISPVTATIO
XXVI. DISPVTATIO XIII. Vtrum attributa
diſtinguantur inter ſe, ab eſſentia Dei DISPVTATIO XIV, De voluntate Dei. Aſignantur
loca in quibus præcipuię difpufationes pertinentes ad voluntatem Dei ab Auctore
tracta. tur, & oftenditur Deum amare le, & alia extra ſe, & quomodo.
Caput Vnicum. i DISPVTATIO XXVII Utrum Deus fit Immenſus. DISPVTATIO X V. An voluntas
Dei semper implicatur DISPVTATIO XXVIII.
INDI Diſputatio primacontra Atheos. DISPVTATIO XVI. Diſputatio ſecunda contra
Atheos. DISPVTATIO XVII. An Deus contingenter velit, & eius voluntas abalie
quo determinetur. DISPVTATIO XXIX. Diſputatio tertia contra Atheos. De alijs fubjt
antiis.è prima distinctis. DISPVTATIO XVIII. Naturalitatione porce probari dari
ſubftantiasabſtra & tas, & rationes in oppofiuum efle nullas Diſputatio
quarta contra Atheos. DISPVTATIO XIX. Si Aristoteles demonstravit Mundum elle
æternum Devi DISPVTATIO XXX. DISPVTATIO XX. Utrum Angelus, Anima rationalis dif
ibi serant specie, OS Opiniones aliorum. Opinio Scoti, & AnimcellectualitasAngeli,
& Ani mæ rationalis ſpecie diſtinguantur, &An potentiç ſpecie diftinctæ
poflint veulari circa idem object. Utrum primum cælum moueatur immediate a primo
motore DISPVTATIO XXI DISPVTATIO XXXI.
Utrum Philosophus posuerit omnes intelligentias ejse vigoris infiniti. DISPVTATIO
XXII. Utrum Anima intellectiva in corpore habeat pro priumeße existentiæ
diſtincim ab elle compos Jiii, len vtaly ducuntsAn in corpore fubfiftatvel vt
quo, vel vt quod. Opinio D. Thomæ ratiqpibus Scoti confutatur, & eiuſdein
ſententia explicatur, cap.I Defenſio Thomiliarlim. cap. 2 Allata opinio
refellitar, cap.3 Virum Cælum ſit animatum. DISPVTATIO XXIII. Utrum Deus sit
invisibilis, incompræbensibilis, & ineffabilis. DISPVTATIO XXXII Nils An Deus
fit viſbilis oculo corporeo, & quid de his tribus attributis sit dicentum.
DISPVTATIO XXIV. Urum separatio Anime rationalis a corpor, cu Status animæ
rationalis exiia corpus violenter, an naturaliter.compeiani animæ rationali;. Opinio
Thomiftarum, & Sequaciun cum liris fun damnentis Opinio Scoti explicatur,
& præcedens refellitur. cap.2 V trum Dcus ſit ſubstantia viuens intellectua
lis, felicissima Attributa prædicta competere Deo probatur DISPVTATIO XXV. DISPVTATIO
XXXIII De scientia dei. Utrum omnes potentiæ animæ rationalis inſint anim &
icparita Quid Git dicendum de Vegetativa, & Sensitiva, reiecta opinione
affirmativa. cap. Vnic. Quomodo scientia
ponatur in Deo, quomodo Intellectus, Intellectio, & intellectuin in eo sint
idem An scientia sit de cilentia Dei in primo modo dicendi per se Vtrum
secundum Aristotelem Deus habeat cognitio nein aliarum rerum extra se. DISPVTATIO
XXXIV. De cognitione animæ separate. An anima separata cognoscat quidditates,
& res, quas coniuncta cognoscebat, & quid dicendum reiectis opinionibus
opposiris. Wikipedia Ricerca Liceo di Aristotele luogo della scuola di
Aristotele ad Atene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione –
"Peripato" rimanda qui. Se stai cercando l'antica strada alla base
dell'Acropoli di Atene, vedi Peripatos. Liceo di Aristotele Athens Lyceum
Archaeological Site 2.jpg CiviltàAntica Grecia Localizzazione StatoGrecia
Grecia ComuneAtene Altitudine 108
m s.l.m. Amministrazione Visitabile si
Sito webodysseus.culture.gr/h/3/eh355.jsp?obj_id=20744 Mappa di
localizzazione Wikimedia | © OpenStreetMap Il Liceo (in greco antico
Λύκειον Lykeion) era un luogo dove Aristotele fondò la scuola che fu chiamata
Liceo e anche peripatetica. Geografia ed etimologiaModifica Sito alle
pendici meridionali del Licabetto, era un luogo esteso tanto da essere adatto
alle esercitazioni militari. Pericle vi aveva fondato un
ginnasiosuccessivamente ampliato da Licurgo. Il nome della località derivava da
un santuario dedicato ad Apollo Licio. Nella mitologia greca
"Licio" era un epiteto attribuito ad Apollo o perché riferito al
termine «lupo» (λύκος) o al fatto che il dio appena nato era stato portato in
Licia, (Λυκία) o infine perché si voleva indicare la sua caratteristica di
divinità solare (dalla radice λευκ-, λυκ-«candore, luce»).[1] La
scuolaModifica Il Licabetto nel 1880 Quando nel 340 a.C. Alessandro
divenne reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla
cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che era intanto rimasto vedovo e
conviveva con la giovane Erpillide, da cui aveva avuto il figlio Nicomaco,
nell'ultimo periodo della sua vita tornò forse a Stagirae, intorno al 335 a.C.,
da lì si trasferì ad Atene dove si dedicò all'insegnamento della sua dottrina,
ormai matura e del tutto distaccata da quella platonica, che costituisce quasi
interamente il corpus aristotelicum a noi pervenuto.[2] Il nome
peripatetica della scuola aristotelica deriva dal greco Περίπατος, «la passeggiata»
(da περιπατέω «passeggiare», composto di περι «intorno» e πατέω «camminare»)
cioè quella parte del giardino dove era un colonnato coperto dove il maestro e
i suoi discepoli camminavano discutendo[3][4]. Secondo la pedagogista
Bianca Spadolini[5] il Liceo, come l'Accademia di Platone, non avrebbe avuto
nessuna finalità religiosa e i suoi discepoli erano divisi come in un tiaso tra
quelli che erano iniziati e frequentavano la scuola come interni (gli
"esoterici") a cui erano riservate le lezioni più specialistiche e
complesse e coloro che partecipavano come discepoli esterni
("essoterici"), uditori a cui era dedicata la parte divulgativa della
dottrina. Gli scavi Il piano di studi probabilmente si basava
sull'insegnamento: delle scienze teoretiche dedicate all'osservazione
degli enti e del loro divenire (fisica, zoologia, psicologia) e degli enti
immobili (metafisica e teologia); delle scienze pratiche, che dovevano guidare
all'azione (etica e politica); delle scienze poietiche (retorica e poetica). La
logica non compariva come scienza, ma come strumento propedeutico allo studio
di qualsivoglia scienza.[6] Alla morte di Aristotele, avvenuta nel 322
a.C., Teofrasto gli succedette nella direzione del Liceo. Nel 287 a.C., alla
morte di Teofrasto, la direzione fu assunta da Stratone di Lampsaco. Il
Liceo fu depredato da Filippo V di Macedonia e successivamente da Lucio Silla.
Il nome continuò ad essere usato per indicare la scuola peripatetica e in
seguito fu riferito a quei luoghi pubblici dove si tenevano dissertazioni
letterarie e filosofiche. NoteModifica ^ Dizionario di filosofia Treccani
(2009) alla voce "Liceo". ^ Enciclopedia Treccani alla voce
"Aristotele". ^ Vocabolario Treccani alla voce "Peripato".
^ Rebecca Solnit, Storia del camminare, Pearson Italia S.p.a., 2005 p. 16. ^
Cfr. qui. ^ Bianca Spadolini, Educazione e società. I processi storico-sociali
in Occidente, Armando Editore, 2004 p. 68. BibliografiaModifica ( EN ) The
Lyceum, in Encyclopedia of Classical Philosophy, Westport, Greenwood, 1997. John
Patrick Lynch, Aristotle's School: a Study of a Greek Educational Institution,
Berkeley, University of California Press, 1972. Voci correlateModifica Scuola
peripatetica Altri progetti Modifica
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(EN) The Lyceum da The Internet Encyclopedia of Philosophy.
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filosofo e botanico greco antico Scuola peripatetica scuola filosofica
fondata ad Atene da Aristotele Eudemo da Rodi filosofo e storico della
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peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele Lingua Segui
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filosofiche è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le
convenzioni di Wikipedia. La scuola peripatetica (in greco Περιπατητική Σχολή
Peripatetiké Scholé) fu una delle grandi scuole filosofiche greche, fondata da
Aristotele. I suoi membri erano detti peripatetici. La scuola di
Aristotele, di Gustav Adolph Spangenberg Denominazione Modifica La scuola
in origine deriva il suo nome Peripato(Περίπατος, Peripatos) dai peripatoi
(περίπατοι, "colonnati dei porticati") del ginnasio di Atene, dove i
membri si riunivano, che si trovava presso il santuario dedicato ad Apollo
Licio da cui deriva l'altro nome della scuola: il Liceo. Una parola greca
simile, peripatetikos (περιπατητικός) si riferisce all'atto di camminare e,
come aggettivo, "peripatetico" è spesso usato per indicare
itinerante, errante, in movimento. Dopo la morte di Aristotele, nacque la
leggenda che egli fosse un docente "peripatetico" - che camminasse
intorno insegnando - e la designazione Peripatetikos è venuta a sostituire il
Peripatos originale. StoriaModifica La scuola risale al 335 a.C. circa,
quando Aristotele intraprese l'insegnamento nel Liceo. Si trattava di un'istituzione
informale, i cui membri conducevano indagini filosofiche e scientifiche. La
scuola peripatetica diede inoltre grande impulso all'indagine storica come
strumento di indiscussa validità per la conoscenza e la comprensione delle
manifestazioni religiose, artistiche, poetiche e letterarie. Teofrasto e
Stratone, i successori di Aristotele, continuarono la tradizione di esplorare
teorie filosofiche e scientifiche, ma dopo la metà del III secolo a.C. la
scuola cadde in declino, per rinascere non prima del periodo romano. In seguito
i membri della scuola si concentrarono sulla conservazione e sul commento delle
opere di Aristotele, piuttosto che estenderle, e la scuola alla fine morì nel
III secolo d.C. Anche se la scuola si estinse, lo studio delle opere di
Aristotele fu proseguito da studiosi che vennero chiamati peripatetici
attraverso la tarda antichità, il Medioevo ed il Rinascimento. Dopo la caduta
dell'Impero romano d'Occidente, le opere della scuola peripatetica andarono
perse in Occidente, ma in Oriente furono incorporate nella prima filosofia
islamica, svolgendo un ruolo importante nella rinascita delle dottrine
aristoteliche nell'Europa medioevale e rinascimentale. Si riflessero nel doppio
filtro applicato all'aristotelismo dapprima da Alessandro di Afrodisia e poi
continuato nell'eredità spirituale di Al-Farabi, Avicenna e Averroè.
Scolarchi ed altri PeripateticiModifica Maggiori esponenti della Scuola
peripatetica NomeDate di riferimento Note
Aristosseno375 a.C. - ?Teofrasto371 - 287 a.C.II scolarca (322–288) Eudemo da
Rodi350 ? - 290 ? a.C.Prassifane di MitileneIII secolo A. C. ?Demetrio
Falereo345 - 282 a.C. Dicearco? - 275 a.C. Ieronimo di Rodic. 275
a.C.Stratone di Lampsaco335 - 269 a.C.III scolarca (288 – ca. 269) Licone (peripatetico)274?
– 254 a.C. IV scolarca (ca.
269 – 225) Aristone di Ceoc. 250 a.C.V scolarca (225 – ca. 190) Critolao156 ?
a.C.VI scolarca (ca. 190 – 155) Diodoro di TiroII secolo a.C. ?VII scolarca
(ca. 140) Cratippo di PergamoI secolo a.C.Andronico di RodiI secolo d.C.Boeto
di Sidonec. 75 - 10 a.C. Senarco di SeleuciaI secolo d.C.Ario DidimoI
secolo d.C. Nicola di DamascoI secolo d.C.BibliografiaModifica Marcello
Gigante, Kepos e Peripatos. contributo alla storia dell'aristotelismo antico,
Napoli, Bibliopolis, 1999. John Patrick Lynch, Aristotle's School: A Study of a
Greek Educational Institution, Berkeley, University of California Press, 1973.
Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, 2000 (tre
volumi). R. W. Sharples, Peripatetic Philosophy, 200 BC to AD 200. An
Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge, Cambridge
University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura di): Die Schule des Aristoteles.
Texte und Kommentare. 10 volumi e 2 Supplementi. Basel 1944-1959, 2. Edizione 1967-1969
(raccolta dei frammenti). Voci correlateModifica Liceo di Aristotele
Peripatetici antichi Peripatos Scolarca Altri progettiModifica Collabora a
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Modifica Questa è una lista dei filosofi peripatetici antichi in ordine
(approssimativamente) cronologico. NomePeriodoNote Secoli IV, III, II
a.C.Eraclide Pontico(385 a.C. – 322 o 310 a.C.)Wehrli lo ha inserito nel VII
volume della sua opera, ma si tratta di un discepolo di Platone Aristosseno di
Taranto(375 a.C.? – dopo il 322 a.C.)Uno dei principali allievi di Aristotele,
scrisse diverse opere sulla musica Teofrasto(371 - 287 a.C.)Secondo scolarca
del Peripato, autore di libri di botanica e logica Eudemo di Rodi(350? - 290?
a.C.)Collaboratore di Aristotele ed autore di opere di storia della geometria e
della teologia Dicearco da Messina(350 - 290 a.C.) Discepolo di Aristotele, autore di opere
filosofico-politiche e geografiche Cameleonte di Eraclea Pontica(c. 350 - 275
a.C.)Edizione: "Chamaeleontis Heracleotae fragmenta" a cura di David
Giordano, Bologna, Patron 1990 Fania di Ereso(IV secolo a.C.)Allievo di
Aristotele, filosofo e scienziato Clearco di Soli(IV - III secolo a.C.)Autore
di scritti sulle culture orientali e di un'opera Sull'educazione Prassifane di
Mitilene(III secolo a.C. ?)Allievo di Teofrasto, ebbe come discepolo Callimaco
Demetrio Falereo(345 - 282 a.C.)Oratore, scrisse opere di etica, retorica e
letteratura Stratone di Lampsaco(335 - 274 a.C.)Fu maestro di Aristarco di
Samo, importante la sua teoria del vuoto Licone (peripatetico)(299 – 225
a.C.)Autore di un'opera Sui caratteri. fu rivale di Ieronimo di Rodi Ieronimo
di Rodi(290 - 230 a.C.)Fu avversario di Arcesilaoe fondò una scuola a indirizzo
eclettico Sozione il Peripatetico(230 a.C. circa – 160 a.C.)Autore delle
Successioni dei filosofi di cui restano solo pochi frammenti Ermippo di
Smirne(III - II secolo a.C.)Seguace di Callimaco, scrisse le Vite degli uomini
illustri Aristone di Ceo(II secolo a.C.)Allievo di Licone Critolao(II secolo
a.C.)Scrisse sull'etica, avvicinandosi allo Stoicismo Diodoro di Tiro(II secolo
a.C.)Discepolo di Critolao Aristone il Giovane(II secolo a.C.)Allievo di
Critolao Stasea di Napoli (II
secolo a.C.)Il primo Peripatetico che soggiornò a Roma, secondo Cicerone
maestro di Calpurniano I Secolo a.C.Apellicone di Teo(? - 84 a.C.)Bibliofilo,
comprò i manoscritti di Aristotele che Neleo di Scepsi aveva ricevuto da
Teofrasto Aristone d'Alessandria(I secolo a.C.)Discepolo di Antioco di
Ascalona, aderì alla Scuola Peripatetica Cratippo di Pergamo(I secolo
a.C.)Amico di Cicerone, che ne parla nel suo De divinatione Erinneo(I secolo
a.C.)Secondo Paul Moraux Probabile scolarca del Peripato dopo Diodoro di Tiro
Tirannione il Vecchio(I secolo a.C.)Grammatico, noto per avere messo in ordine
la biblioteca di Cicerone I e II Secolo d.C.Alessandro di Ege(I secolo
d.C.)Insieme allo stoico Cheromonte fu maestro di Nerone Andronico di Rodi(I
secolo d.C.)Ha curato l'edizione del Corpus aristotelicum Boeto di Sidone
(peripatetico)(c. 75 a.C. - 10 d.C.)Discepolo di Andronico di Rodi Ario
Didimo(I secolo d.C.)Filosofo romano, insegnante di Augusto la sua opera è una
sintesi di stoicismo ed aristotelismo Nicola di Damasco(I secolo d.C.)Autore di
una Storia universale e di un'opera Sulla filosofia di Aristotele Senarco di
Seleucia(I secolo d.C.)Negò l'esistenza dell'etere Adrasto d'Afrodisia(prima
metà del II secolo)Scrisse sull'ordinamento degli scritti di Aristotele e
commentò alcune su opere Aristocle di Messene(II secolo d.C.)Scrisse
un'esposizione delle scuole filosofiche di cui restano alcuni frammenti
Aspasio(II secolo d.C.)Commentatore di alcune opere di Aristotele, in
particolare l'Etica nicomachea Ermino(II secolo d.C.)Allievo di Aspasio e
maestro di Alessandro di Afrodisia Sosigene(II secolo d.C.)Autore di uno
scritto Sulle sfere dei pianeti Tolomeo Efestione o Chenno(inizio II secolo
d.C. – metà II secolo d.C.?)La sua opera Storia nova è riassunta da Fozio di
Costantinopoli nella sua Biblioteca Alessandro di Afrodisia(II - III secolo
d.C.)Il più importante dei commentatori delle opere di Aristotele
BibliografiaModifica Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita
e Pensiero, 2000 (tre volumi). Robert William Sharples, Peripatetic Philosophy,
200 BC to AD 200. An Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge,
Cambridge University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura di): Die Schule des
Aristoteles. Texte und Kommentare. 10 volumi e 2 Supplementi. Basel 1944-1959,
2. Edizione 1967-1969. Voci correlateModifica Platonici antichi Stoici antichi
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di Mitilene filosofo peripatetico ed erudito greco antico Boeto di Sidone
(peripatetico) filosofo greco antico, peripatetico Wikipedia Il contenutoFilippo
Fabri. Filippo Fabbri. Fabbri. Keywords: lizii, accademici, i peripatetici, The
34 disputationes. Galilei, Pico, aristotelismo, anti-aristotelismo, platonismo,
l’unita della metafisica, distinzione tra matematica e fisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fabri” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762247093/in/photolist-2mS43G6-2mRxLkZ-2mRgKq7-2mQoQhs-2mQmZZv-2mPMBQM-2mN8Hgb-2mLNXjb-2mLP3hz-2mPrdWj-2mLznXk-2mPu6xB-2mPtp3t-2mPV6V9-2mPsUUV-2mPxhsE-2mKNjCv-2mKM3mC-2mKLGeD-2mKN88B-2mKC3nj-2mKDLrD-2mKCfz1-2mKjsJY-2mJq2uE-DvhhWW-DhRHD2-DndBhH-Cfbrxc-CcSX6Q-Ck5UQW-CcC1aL-xFwdxt-nSSg3U-nurrdd-nupnpX-nu4v1p-ncRvsK-jkLyDB-jkNtpy-jkDa7R
Grice e Fabro – Senone di Velia, l’innamorato di
Parmenide -- per la porta di Velia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Flumignano).
Filosofo. Grice: “I like Fabro; my favourite of his essays is on Giorgio Hegel,
“La dialettica,” which is really about Socrates and Alcibiades! My Athenian
Dialectic which I turned into Oxonian!”. Studia al seminario degli stimmatini.
Si laurea a Roma sotto Reverberi con “Il concetto di ‘causa’” e la critica di
D. Hume. Insegna a Roma. Si dedica quindi allo studio della biologia
filosofica. Pubblica “La partecipazione”. Insegna a Napoli e Perugia. Si inscrive
nell'alveo della neoscolastica, o, più precisamente, del neotomismo. Il suo
apporto più profondo alla metafisica classica, sulle orme di san Tommaso
d'Aquino, è la distinzione reale tra "essenza" e "atto d'essere”.
È questa tesi che lo porterà a riconoscere con sicurezza le debolezze e le
aporie dall'immanentismo del cogito cartesiano, che sfocia ineluttabilmente
nell'ateismo. Trova l'origine dell’ateismo in Cartesio e Spinoza, nasce nel
concetto di "immanenza" contro "trascendenza”.Critica Severino e
Rahner. Valorizza l’esistenzialisto anti-idealista di Kierkegaard. Altre opere:
“Partecipazione in Platone, Aristotele e Aquino, S.E.I., Torino); “Neotomismo”
Piacenza) “La fenomenologia della percezione, Vita e Pensiero, Milano); “Percezione
e pensiero, Vita e Pensiero, Milano), “L’esistenzialismo, Vita e Pensiero,
Milano); “Esistire” (Vallecchi, Firenze); “Dio” (Studium, Roma); “L'Assoluto
nell'esistenzialismo” (Miano-Catania); “L'anima” (Studium, Roma); “Dall'essere (essuto,
suto) all'esistente” (Morcelliana, Brescia); “Il Tomismo” (Desclée, Roma); “Hegel:
La dialettica, La Scuola Editrice, Brescia); “Partecipazione e causalità,
S.E.I., Torino); “Feuerbach-Marx-Engels. Materialismo dialettico e materialismo
storico (La Scuola Editrice, Brescia); “L’ateismo” Studium, Roma); “L'uomo e il
rischio di Dio, Studium, Roma); “Esegesi tomistica, Pontificia Università
Lateranense, Roma); “Tomismo” Pontificia Università Lateranense, Roma); “La svolta
antropologica di Rahner” (Rusconi, Milano); “L'avventura del progressismo”
Rusconi, Milano); “La fede di Kierkegaard” La Scuola Editrice, Brescia); “La
trappola del compromesso storico: da Togliatti a Berlinguer, Logos, Roma); La preghiera”
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “L'alienazione dell'Occidente. Osservazioni
sul pensiero di Severino, Quadrivium, Genova); Momenti dello spirito I, Sala
Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», AssisiS. Damiano; Momenti dello
spirito II, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», Assisi S.
Damiano); Aquino, Ares, Milano); La libertà, Maggioli, Rimini); Gemma Galgani),
Il sopra-naturale, Cipi, Roma); L'enigma Rosmini, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli); Le prove dell'esistenza di Dio, La Scuola, Brescia); Commento
al Pater Noster” Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino, Città del Vaticano);
Cristianesimo, L'Aquila, Japadre). Essere e libertà. Studi in onore di Cornelio
Fabro, Maggioli, Rimini); Giuseppe Mario Pizzuti, Veritatem in caritate. Studi
in onore di C. Fabro, Ermes, Potenza); Rosa Goglia, La novità metafisica in
Cornelio Fabro, Marsilio, Venezia); Federico Costantini, Fabro e il problema
della libertà, Forum, Udine); Elvio Celestino Fontana, Fabro all'Angelicum,
EDIVI, “Segni (EDIVI) Fabro e l'Esistenzialismo,
EDIVI, Segni. Rosa Goglia, Fabro. Profilo biografico, cronologico, tematico da
inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI, Segni,. Ariberto Acerbi, Crisi
e destino della filosofia. Studi su Fabro, EDUSC, Roma,. Note Goglia, Rosa, Fabro: profilo biografico
cronologico tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI, Kierkegaard Neotomismo Ateismo. Fondo Fabro
presso la Biblioteca della Pontificia Università della Santa Croce., su pusc. CAP. V. ZHNON EAEATH2. ZENO
ELEATES. J5. Z^vwv 'EXeaTTj;. xouxov 'A7toXXoo«pd'; ^Y)otv «T- i
25* ^ n0 Eleates. Hunc Apollodorus ait in Chronicis na- vat Iv Xpovixot;
^puoei piv TeXeuxaYopou , OsVet Si tura quidem Teleutagorae , adoptione autem
Parmenidis 20 IlapaEviSou. irspl xooxou xal MeXfoaou TCjmov cpyjol 2
filium. De hoc atque Melisso Timon haec ait : xauxa*
'AfxcpoTipoYXwacou xe {xffa ffOivcx; oux aXawaSvov Andpitis linguae vis
maxima cuncta secantis Z^vcdvo? rcavxtov smXiiTrxopoc ^Ss MeXiaaou,
Zenonis, qui corripit omnes, atque Melissi; TroXXwv
<pavTa<T|xwv Indvb), rcaupwv ft fiiv eiaw. plurima visa errant in summo ,
rara sed intus. 25 *0 §•?) Zr,vci)v Stax^xos IIap[ievi5ou xal
yeyovev autou 3 FjiimveroZeno Parmenidis auditor erat,abeoqueamatus est.
TzonBixa. xal eo^XTj? ^v, xa6a cpTjai nXarwv iv tw Fuit autem procerae staturae
, quemadmodum Plato in Par- IlapfAevCoTi, 6 8' auxb; Iv xw 4>a(5pw xal
'EXeaxixov menide notat, idemquein Phaedro ipsum Eleaticum Pala-
IIaX*jji^5yiv autov xaXel. {pr,dl 8' 'AptaxoxsXy,? Iv xw 4 medem vocat.
Aristoteles autem in Sophista auctor est in- 2otpiax7J eupex^v auxbv
yeveaOai ^taXExxiXTJ; , (ocircp ventorem ipsum fuisse dialectics , quemadmodum
Empe- 30 'EixweSoxXfia firixopiXT)?. (20) yeyove Si av^.p y^vvaio-
doclem rhetoric®. {26) Fuit et in philosophia et in republi- xaxo^ xal Iv
cptXoao^fa xal Iv 7roXixe(a* cpipexat youv ca vir sane nobilissimus : feruntur
nempe ipsius volumina auxou pi^Xta 7roXXrj<; ffWato*; YCfxovxa.
xaOeXsTv SI Oe- 5 sapientiae plenissima. Is quum Nearcbum tyrannum seu ,
ut Xifaac N^ap^ov xbv xupavvov — ot Se, Aiof/iSovxa — alii volunt,
Diomedontem imperio exuere voluisset, com- ouveX^cpOy), xa6d cp^atv
'HpaxXe^Tj; Iv x9j 2axupoo prebensus est, ut in Satyri epitome ait Heraclides :
quo 36 lirixopuj. 6xe xal l;6xa£o'[Aevoc xou<; auveiSoxa^ xal
7T£pl tempore quum de consciis et armis qua; Liparam ad vexerat, xwv
oVXmv 5v ^y 6V e ^ Aiirotpav, iravxa? Ip.>5vu«v au-
inquireretur,volensipsmndesertumdestitutumquereddere, xoo xooc cpiXou; ,
pouXo(X£vo<; auxov ^aov xaxaaxyjaar omnes illius amicos conjurationis esse
conscios dixit ; deinde •Txa 7cep( xtvwv efceiv e^ttv auxw wpbc xb
o3<; IXeye xal quum de quibusdam dixisset quiddam ipsi ad aurem loqui
xu^avxo? Saxwv xb wxiov oux av9jx£v Tok imwrffiri , velle, earn mordicus
apprehensam non ante dimisit quam \o
lautbv'AptoxoYeCxovtxtoxupavvoxxovwTraOtov. (27) Ar,u^- confoderetur ; quod
idem accidit Aristogitoni tyrannicidae. Digitized by
Google 234 biba. e, Q.
AEVKinnos. rpto? Se ^r,aiv ev xoi< ojawvuu.oi; xbv
puxxTJpa auxbv diroTpaYeiv. 'AvxiaOevrj; 5' ev xal; SiaSo^al? ^r,<jt
fJLExdc TO (JLTjVUffai XOU? <p(X0UC IpWX1f]09ivai 7TpO? XQU
XUpaVVOU e? ti? aXXo? eiYj • xbv 8i eiireiv, « au 6 xyfc woXews
aXi- 6 tiqpio^. » 7rpo; x£ xou$ 7capE<rcwxa; ©avai , « Oauuut£w
6fxwv r?)v SeiXCav, et xouxwv Ivsxev wv vuv e*Y&> ^Trofxe- vw,
SouXeuexe xw xupavvw* * xal xeXoc aitoxpayovxa tJjv yXwxx«v
7rpo<;7mj<iai auxw, xou? 8i TroXfxac 7rapop- (i.r,0£VTa<; auxixa
xbv xupavvov xaxaXsuaat. xauxa oe io oyeSbv of irXe(ou<; Xe'Youaiv.
"Epu.nnroc S§ <piQctv eU 6V fxov auxbv pXTjO^vat xal
xaxaxo7c9jvai. (2§) xal eU auxbv ^)(jlcT< efarofxev oSxciK*
*H8eXe<;, w Z^vwv, xaXbv ^OeXe< avSpa xupavvov xxe(va?
IxXuaai SouXoouvtjs 'EXe'av. 15 dXX' ISau-Ttf- 5^1 yap « Xa€u>v 6
xupavvos ev 5Xu.w xo^c. x( xouxo Xs*y<«> ; ffWfAa yap , ofyl 8s
«. yiyove Se xa t* £XXa aya6b<; 6 Zi^vwv, dXXa xal &ict
p- oicxixb? xwv (xtt^vtov xax' fcov 'HpaxXetxw* xal yap o5xo« xV
wpoxepov p.ev 'YeXTjv, (Saxepov 5* 'EXfov, <I>w 20 xaiwv ouaav
airoixtav, auxou Se 7raxp(Sa, ttoXiv eoxeXri xal |xo'vov
avSpacoYaOoucxpscpetv ^taxafjLEvrjv ^YaTrrjae |xaXXovx9i? 'AOTjvaiwv
iuyxXoLuyia^ oux iTriSYi^aa? xb icapaTrav Trpb? auxouc, aXX' auxd8i
xaxa&ouc [29) ou- xo? xal xbv 'Ax^ca irpwxo? Xoyov ^pwxTjffE-
<I>a6o>pT- 25 voc Se' <prjo-t napfX£v(Sr,v xal
aXXou<; cuyvouc. 'Aplaxet S f auxw xaSe* Koauou? eJvai xevo'v xe u^
eTvar Y £ Y 6 " V7j<r8ai Se x^,v xwv wavxwv <puatv ex Gep|AOu
xal ^u/pou xal fopou xal uypou, Xau.€avovxwv eU aXXrjXa x^v jxe-
xa€oXr,v • Y^vEdtv x' avOpo)7TO)v ix yr;? eTvai xal tfu^v 30 xpS{ia
&Trap/6iv Ix xwv 7rpo£ipT)asvwv xaxa |XYiSevb<; xouxcov
iTrixpaxTjaiv. xouxov cpaai XoiSopoutxevov aya- vaxxTJaat- aixiaaa|X£vou
8e xtvo<;, cpavai, « £av X01S0- poujxevo? (jl^j 7rpo<;Tcoiw(xai ,
ouS' ItuaivoujAEvoc ^aG^ao- (xat. » tf Oxt S£ Ysyo'vaai Zr,vo)V£<;
6xxw ^v xw KixieT 65 StetX^UEOa. fixiLOiZi oSxo; xaxa x9jv Ivax^v
xal £6$ou.Y)xo<rri:v 'OXujjLiriaoa. (27) Demetrius
vero in Cognominibus nasutu ei morsu abstuJfssc ait. Porro Antisthenes in
Successionibus ait il- ium, quum amicos tyranni detulis et, rogalum a
tyranno essetne alius quispiam, dixisse, Tu civitatis> pernicies.
Deintle astantibus ita locutumesse, Admiror equidem vestram so- cordiam,
si horum gratia quae nunc ego tolero , tyranno servire sustinetis.
Deniquc praecisam linguam in ora tyranni conspuisse, cives autem continuo
facto impetu lapidibus tyrannum obruifise. Usee ferme pleriquc
tradiderunt. Cc- terum Hermippus ilium in mortariuro injectum contusum-
que fuisse ait. (2f) Et in hunc nos sic diximus : Tentasti, Zeno,
crudelis canle tyranni Eleus ut populus libera turba foret.
At prensiim in pita te content articulatim iste : imo non te , sed
tua membra terit. 6 Praeclarus et in ceteris fuit Zeno
potentiorumque non secus atque Heraclitus quadam animi altitudine
contemptor r nam hie prius quidem Hyelen, postea vero Eleam
nominatam Phocaeensium coloniam suamque patriam , civitatem humi-
lem bonosque tantum virosnutrirc solitam, dilexitmagis quam Atheniensium
magnificentiara : ad quos nunquam 7 profectus est , domi assidue
commorans. (28) Hie etiam primus syilogismo usus est qui Achilles
appellatur, quam- 8 vis Favorinus Parmenidem et alios plures proferat.
Placent autem illi lieecce : Mundos esse plures et inane non esse;
naturam omnium re rum ex calido et frigido aridoque et humido fuisse
ortam , quum ista in se invicein commute n- tur. Generationem hominum e
terra esse , animamque ita ex his omnibus commixtam quae praediximus, ut
a nullo 9 eorum plus quam a ceteris obtineatur. Hunc aiunt
quum conviciis laceraretur, indignari solitum : et vituperante
quodam dixisse, Si maledicta me non tangunt , nee laudes I ome
delectabunt. Octo vero fuisse Zenones, quum de Citieo loqueremur,
diximus. Floruit autem hie Olympiade nona et septuagesima.
KE4>. Q'. AETRinn02. 80. AEuxtirircx; 'EXeaxTi;, w?
U xtve;, 'A6Sv)piti}C 9 I xax' lvtou<; bl MiiXio;. oSxcx; ^xouae
Ztivwvoc. "Hptdxs o* auxw dWpa fitvat xa uavxa xal ik aXXYjXa fxexa-
2 40 SaXXetv. x<^ xe Ttav Jvai xevbv xal TrXripec
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cpe'peffOai 8e xbv ^Xtov Iv fiet^ovi xuxXw wapa ^ B Tf^v
<ieX^vy|V t^v y^v ^ewOat Trepl *rb jieaov Stvouui- vvjv ffX^H^ f'
auxTJ? TujiTcavoetSe^ elvai. «pwxd< x' dxouou^ap/a?
uxwffx^aaxo.xalxecpaXaiwSwsfxiv xauxa* Zenone lleate. I.
Zenone eleate. Era costui, al dire di Apollodoro, a5 nelle Cronache , p«r
natura, figlio di Teleutagora, per adozione, di Parmenide. »
II. Di lui « di Melisso dice Timone queste cose : // prò ed
il contro a disputar potente, Zenone, invitto, riprensor di tutti;
E Melisso di molte fantasie Superiore, di poche inferiore.
Zenone fu veramente discepolo di Parmenide e suo bar- dassa.
III. Era grandissimo della persona, secondo che, nel Parmenide,
scrive Platone, che, nel Fediv , lo chiama anche eleatico Palamede.
IV. Afferma Aristotele , nel Sofista , eh 9 e 9 fu V in- ventore
della dialettica, siccome Empedocle della reto- rica ; che fu uomo e in
filosofia e in politica assai pre- stante ; e che vanno attorno suoi
libri pieni di molta a g sapienza. V. Volendo Zenone
rovesciare il tiranno Nearco - secondo alcuni Diomedonte - fu , al dire
di Eraclide , Epitome di Satiro, sostenuto} e quando lo si
inquisì Digitized by 2^6 CAPO V
circa i complici e V armi, eh 9 erano state portate a Li- para ,
affermò , onde colui rimanesse solo, che di tutto consapevoli erano i
suoi amici. Poscia soggiugnendo che intorno a taluno qualche cosa avea da
dirgli alP orec- chio , addentandoglielo , non prima il lasciò che
ca- desse trafitto ; lo che ebbe in comune col tirannicida
Aristogitone. Demetrio, negli Omonimi, afferma che gli 37 morsicò il naso
; ma Àntistene racconta , nelle Succes- sioni, che dopo di averne
denunciati gli amici, interro- gato dal tiranno, se alcun altro vi fosse,
egli rispose: Tu, peste della città ! e che dopo di aver detto agli
astanti : Meravigliomi della vostra codardia , se , in grazia di
ciò eh* io patisco, servirete al tiranno, spiccatosi final- mente la
lingua co 9 denti la sputò ad esso in faccia; e che i cittadini concitati
a quel fatto lapidarono il ti- ranno. Queste cose, presso a poco, si
vanno narrando dai più. Ma Ermippo asserisce che gettato Zenone in
un mortaio, vi fu pestato.- Sopra di lui noi parliamo così: Tu
volevi^ o Zenon, volevi torre, a8 Uomo egregio, la patria dal
servaggio, Il tiranno uccidendo. Ma cadesti Oppresso, Perocché
tosto il tiranno, Presoti , in un mortaio ti pestò. Che dico! Te
non già, ma il corpo solo. VI. Zenone , se in altre cose preclaro ,
il fu ezian- dio, al pari di Eraclito, nel guardare con ispregio i
più grandi; poiché egli, quella che prima fu Iele e da ultimo Elea,
colonia fenicia e sua patria, città meschina e solo
Digitized by Googk ZENONE ELEATE.
277 atta a nutrire uomini dabbene , amò di preferenza ai
vanti degli Ateniesi, per lo più non recandosi presso di loro , ma
abitando in essa. VII. Usò primo nelle dispute P argomento detto
29 V Achille ( sebbene Favorino dica ciò di Parmenide ) e molti
altri. Vili. Credette che vi fossero mondi, e non vuoto. - Che
la natura di tutte le cose venisse prodotta dal caldo e dal freddo * dal
secco e dall' umido mutantisi a vi- cenda. - Che la generazione degli
uomini derivasse dalla terra, e Vanima fosse una mescolanza dei prefati
senza prevalenza di alcuno. IX. Narrano che sentendo di
essere biasimato, se ne impazientò , e che taluno condannandolo disse ;
Se comporto le contumelie, neppure mi accorgerò <T esser
lodato. X. Che vi fossero otto Zenoni già è detto nella vita
del cizieo. - Il nostro fiorì nella settantesima nona Olim- piade. Cornelio
Fabro. Fabro. Keywords: per la porta di Velia, essere, e, essente, esuto, suto.
L’uomo allo specchio. Dialettica di hegel, tomismo, essere atto d’essere –
immanenza – trascendenza -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fabro” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762152843/in/dateposted-public/
Grice e Faggin – bei -- metrica filosofica – inno
orfico – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Isola Vicentina). Filosofo. Grice: “I like Faggin:
he is obsessed with love; he translated Fedro, he selected some passages from
the Roman philosopher Plotino and titled it, implicaturally “Dal bello al
divino,” but surely for Plotino, via hypernegation, the divine IS beautiful –
and finally, being an Italian, he became interested in “Dutch Protestantism” –
“il Pellegrino cherubico”!” Si laurea a Padova sotto Troilo. Insegna a Padova, Bassano
del Grappa, Campobasso, Vicenza.
Studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo,
commenta le Enneadi di Plotino. Altri suoi lavori riguardano Meister Eckhart e
la mistica medioevale, Schopenhauer, la stregoneria e l'occultismo
rinascimentale. Altre opere: “Van Gogh,
Padova, MILANI); Plotino, Milano, Garzanti); “Eckhart e la mistica” Bocca,
Milano); “Schopenhauer: il mistico senza Dio, Firenze, La nuova Italia); “Le
streghe: trentatré incisioni dell'epoca, Milano, Longanesi & C.); “Gli
occultisti dell'età rinascimentale, Milano, Marzorati); “Storia della
filosofia: ad uso dei licei classici, Milano, Principato); “Dal Rinascimento a
Immanuel Kant, Milano, Principato); “La filosofia antica” (Milano, Principato);
“Diabolicità del rospo” (Vicenza, Neri Pozza); “Dal Romanticismo alla scuola di
Francoforte, Milano, Principato); “Enneadi” Milano, Istituto Editoriale),
“Sulla libertà del volere”; “Sul fondamento della morale” (Torino,
Boringhieri); Eckhart, Trattati e prediche, Milano, Rusconi); Inni orfici,
Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā). Platone Fedro Edizione Acrobat
a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it) Platone Fedro
SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa
di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori
dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora,
seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle
passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di
quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in
città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco,
quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il
tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo
saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che
io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo
tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora!
SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice,
poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo,
sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un
amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante:
sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama.
SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che
un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno
bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero
urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se
facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5)
arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa
dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo
degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri
contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi!
Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco
Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra
cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una
volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e
quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è
bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti
bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è
stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il
discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è
avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la
malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di
avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad
accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si
è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche
a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro,
pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me,
veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace,
poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia
parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò
così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola:
ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali
lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non
ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però,
carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho
l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che
io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione
di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila!
Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove
vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo
l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A
quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei
sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi
nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8)
SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO:
Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una
brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE:
Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche
parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE:
Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci,
pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa
due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di
Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone Fedro
FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto
che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i
sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei
dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con
Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea
(oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da
là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma
proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato,
se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli
Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di
tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla
natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di
questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà
bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il
motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo
l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo
esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò
mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede
riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me
stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta
fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per
natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso,
amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto
frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed
essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il
platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può
sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un
luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e
molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro
delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in
dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi
perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo
eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero
strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e
non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi
sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io
sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla,
gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina
per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati
agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu,
tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai
in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l
momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste
persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più
assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a
essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che
chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro
che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma
trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla
cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli
amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver
avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro
chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per
quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro
amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti
sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà
in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto
che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di
quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché
essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti
l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere
molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno
fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati
si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto
starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche
dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare
una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non
all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di
distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a
lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se
non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli
né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i
vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti.
Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle
altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti,
poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro
benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli
amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro
ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta,
proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno
loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi
soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è
degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro
che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni;
non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri,
ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di
te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la
vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per
un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua
bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera
questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa
pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro
che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora
mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io
credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti
quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di
un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo
nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun
danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia
sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata,
interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato
pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro
che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da
qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In
qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire
cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me
niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo,
che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un
vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite.
FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi
riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo
proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno
diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime;
quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una
statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei
carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano,
abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza
degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è
necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a
chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la
disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da
lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di
maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a
Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio,
Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io
proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto
dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione
per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei
capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti
dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE:
Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi
argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO:
Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di
avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora
non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un
giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano
qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a
questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di
nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere
un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai
tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così
chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me
il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un
desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose
belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama?
Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci
governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato,
è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo
bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo,
talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro.
Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale,
la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori
di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato
dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte
membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a
chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né
meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che
tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro
quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi
che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è
ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato
fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è
assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il
desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è
retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato
vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso
nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23)
Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato
divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò
che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari
a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore
o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo,
danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie
alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia,
da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere
disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che
sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione
l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per
se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non
è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la
costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone,
dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà
seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole
ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta
invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti
altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a
ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto
essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in
tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e
gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere,
dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale
vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione
di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si
augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più
preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre,
parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima
compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli
penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato,
trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto
del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante
si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a
lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto
della 6 Platone Fedro sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma
un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per
esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha
comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare
come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno
per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato
la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di
tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si
diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli
stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche
il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è
pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto
che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando
uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di
giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo
conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere,
ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi
strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri
darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di
tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e
non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole,
per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con
esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi
e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili
se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e
indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è
innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà
inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a
malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in
virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso
da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé
ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto
di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia
accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di
parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori
resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato
un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la
dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la
temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non
addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un
fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode,
invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è
costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito
tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e
di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato;
altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di
carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per
la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione
dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior
valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere
bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla
benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli,
così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi
sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io
credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama,
dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne
derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato,
che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo
questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo
sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato
deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali
che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano
nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto
abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato
questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa
di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura.
Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma
restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco,
ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente
straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita
nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o
perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per
Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra
che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi
dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per
attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è
solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E
mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare
via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la
divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come
chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo
chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di
divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso,
e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei
confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono
reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7 Platone Fedro
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come
quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e
sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di
questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che
Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si
dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato
tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un
che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati
ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno
commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio
graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come
se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso
di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro
che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito
purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato
della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da
amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo
discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti
alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato
Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di
loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver
diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo
scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto
dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu
intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e
quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse
innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre
diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono
gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe
l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno
mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui
rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE:
Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros,
desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso
d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile
che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama.
FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio
dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un
altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai
quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il
ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non
conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie
parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu
voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di
prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che
mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque
parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza
di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è
in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda
a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più
grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la
profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da
mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati,
mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della
Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata
da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone
verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente
di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che
coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole;
altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la
quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò,
quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e
l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella,
secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo
aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci
asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato
di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando,
oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e
all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il
contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande
felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo
sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo
alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue
opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale.
Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da
altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò
che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di
muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose
dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che
tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia
origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe
più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche
incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né
altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così
principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né
nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico,
resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita
e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si
proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione
dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene
dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno,
cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è
così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di
necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto
a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia,
sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire
invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve;
parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza
costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli
aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono
misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due
cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è
contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda,
è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso
il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di
tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora
nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo,
se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a
qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che
per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto
di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale.
Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso
razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un
dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente
connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi
cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si
staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende
per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la
stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose
inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale;
da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado,
mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad
esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del
carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito
di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella
dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono
stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine
assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i
quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il
proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti
l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi,
procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri
degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri
invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e
piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene.
Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono
chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori
posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa,
mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di
quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La
cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero,
tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore,
senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto
timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza,
occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un
intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di
ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e
contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del
cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la
giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9 Platone
Fedro non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in
certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi
chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere;
e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono
e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno
alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla
mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare.
Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel
migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga
verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma
essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il
capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza
riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano
tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e
trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di
arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita
del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime
restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la
grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere
e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per
cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è
questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si
trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in
volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio,
abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e
se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non
riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente,
riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda
le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna
natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior
numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare
filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima
che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un
uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto
ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che
sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del
corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore
ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro
di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano
o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del
popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la
vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto
contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo
donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo
periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza
inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro
di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita,
rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano
indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca
loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di
espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla
Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente
alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre,
giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che
ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi
una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non
ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve
comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una
molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la
reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere
assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il
capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo
mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è
sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo
che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a
misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si
distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso
dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo
dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania,
quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera
bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace
guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così
subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine
questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva
dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è
chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha
contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente.
Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla
portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per
breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al
punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà
che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in
misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù,
restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano,
perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della
temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è
splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle
immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del
modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo
splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro
dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a
quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in
perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano
attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica
visioni perfette, semplici, immutabili e 10 Platone Fedro beate in
una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo
corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica.
Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio
delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza,
come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati
qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in
quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta
delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di
vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla
nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà
degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò
che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o
è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza
in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza
quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a
montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza
non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è
iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un
volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale
di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della
bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è
turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte
né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di
poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è
imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti,
riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento
presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di
sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di
madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue
sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a
servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più
vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in
colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A
questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini
danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo,
data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi
citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali
è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così :
I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere
l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la
causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da
Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso
del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e
giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire
qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il
proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro
era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta
incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e
ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra
i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli
edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I
seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro
dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e
quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia
effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del
genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile,
continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro
conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a
volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono
presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le
occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un
dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro,
e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono
nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro
che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno
per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno
degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio
fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano
essi stessi il dio e con la persuasione e 11 Platone Fedro
l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello,
ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato
con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più
completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e
l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano
nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga
conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è
conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione
in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di
cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un
punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no:
quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non
l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova
nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto
e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito
a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta
e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto,
grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il
pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e
vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli
speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in
tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei
pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a
freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso
all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta,
ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta
di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso
l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si
oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e
inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano
trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro
ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante
dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla
temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade
supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte
che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non
recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano,
l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro,
cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende
fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole
l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato
il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la
loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta.
Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo
rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad
accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono
vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li
trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa
impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira
indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina
la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo
dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa
più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito
dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza
accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore.
Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni
venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo
sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in
precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le
quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo
avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo
inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un
malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E
dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare
in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce
l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono
neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando
poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato
incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di
quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore,
scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne
è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da
corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della
bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura
arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti
delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima
dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di
cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli
occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si
accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di
questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo
stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza
d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore,
bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera
vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non
tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato
dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno
in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma,
gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante,
manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in
cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua
l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme
all'auriga 12 Platone Fedro si oppone a ciò, obbedendo al pudore e
alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che
guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di
quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati,
avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui
nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina
possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di
vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato
di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di
giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa
direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e
mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne
avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono
approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno
di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi
dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito
sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono
dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio
non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali
hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella
tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e
felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati
rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così
divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la
compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di
amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una
bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno
alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre
facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in
dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al
resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose
di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi
e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi
di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso
precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata,
attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da
simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello
Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma
dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici.
FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che
avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più
bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche
voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico,
un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua
critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione
dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e
quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al
minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto
proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu
conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima
reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti,
temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti
sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del
Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati
amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli
che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da
aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni
singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non
capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto
il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice
più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il
tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e
si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua
abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una
cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio.
SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se
invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di
scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è
chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO:
Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere
la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo
immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre
ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi
scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque
sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive
discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO: Non è verosimile, da ciò che
dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE:
Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO:
Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e
scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro.
SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario?
Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro
abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi
come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo
bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri
di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti
non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per
questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne
abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le
cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche
noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non
discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della
mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da
loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il
pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto
a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci
daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai
sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli
vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il
canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si
curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in
seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo
dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare
subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi
dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse
onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori,
rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e
così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana,
e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la
vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del
cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più
bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non
dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare
quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un
discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno
pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di
chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal
proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore
non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che
sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o
bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo,
non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò
che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono
valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto.
FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come?
SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo,
ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo
questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie
assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo
sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di
elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è
assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le
spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare
bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero
ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che
esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non
conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue
stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del
cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con
le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale
frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato?
FEDRO: Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon
amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del
dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la
realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò
che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di
cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico,
colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà
un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di
sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di
Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia
e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per
chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in
disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo
ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o
"argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo!
SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"?
Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto
gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE:
Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In
quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior
potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE:
Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto
con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le
forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella
in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso
un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna
cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle
due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E
allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure
no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe
stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un
danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei
beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a
causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso
ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero
insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che
dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio
di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo
discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà
unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine
tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti
sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che
ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che
cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando
supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato
quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia
testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone
il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano
state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che
per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un
altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo
scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu
sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale
lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei
troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo
così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso
dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così
da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del
tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce
in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida
il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare?
SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che
l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte
lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro,
come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo
o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE:
Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga
parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli
in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era
qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare.
FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva
che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore!
SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo
è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no?
FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da
malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete
abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina
in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo,
quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed
Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come,
rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un
che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso
non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con
parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo
signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un
discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in
esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode.
FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato
fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due
procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte
la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose
disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo
d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di
volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una
volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è
appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e
coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE:
Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle
loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla
maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano
la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo
unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi
procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi
indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E
lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia
da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire
grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e
al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le
prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo
da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i
discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO:
Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che
anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come
parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la
ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse
dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59)
FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo
tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle
cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la
povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo
d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi
nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e
potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci
sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni
danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare
per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli
argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da
aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena
di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto
in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e
quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del
popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro
trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri.
SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo
padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da
riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli
vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento
che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare
medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che
direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche
a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura?
SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi
ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che
chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto
queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi
di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere
aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non
hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa
condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno
creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di
averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli
debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste
cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera
da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del
genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per
iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come
e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica
e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della
retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri
campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto
d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità,
resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il
metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il
metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato
probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE:
Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla
natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre
tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre
alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo,
in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse
alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per
l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di
procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE:
In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento,
e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole
discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così
, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura
dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme?
FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63)
senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo.
SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con
quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente.
SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero.
Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa?
Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi
stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è
semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che
cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se
invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si
vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire
e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO:
Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti
somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una
qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che,
se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà
puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e
questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il
suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O
no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra
seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la
massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme
come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di
una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa
è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata
a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati
i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna
tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e
insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità
persuasa, quale invece non viene persuasa. 19 Platone Fedro FEDRO:
Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò
che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con
arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le
arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto
bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano
in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con
arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate
non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere,
se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del
discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è
necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di
svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri
di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta
sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per
questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da
discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un
altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi
vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione
queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto
pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà
intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava
quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale
genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi
della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di
quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di
fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per
persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti
questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e
quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e
l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre
forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e
compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando
parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia
persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la
pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei
discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un
lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare
tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più
facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per
una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se
hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun
altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una
prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io
riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste
cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto
riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE:
Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto
queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio
del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non
deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini
tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio
niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a
persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con
arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si
siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa
sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver
detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre
l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate,
proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti
nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato
brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si
occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio
Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di
diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto
questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se
un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha
portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno
dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato
percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che
erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io,
data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro
non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna
offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri
campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così ,
Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta
davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da
qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo
dire o no... FEDRO: Cosa? 20 Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O
Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che
questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa
abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le
somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo
ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè
che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in
grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in
un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a
un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad
essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con
gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa
in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i
compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli
antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome
della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti
e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi
intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu
pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E
pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel
tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato
che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità,
ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te
fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente
a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e
mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe.
SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua
volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di
chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente
il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più
del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per
la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di
fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in
venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti
anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se
domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo
qualcosa suona sempre e 21 Platone Fedro solo identico. E, una
volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra
le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da
spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso
e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non
è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche
queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un
altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per
sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e
come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la
conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e
sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente
e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire
un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha
senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli
stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli
crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa,
quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul
serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto,
sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli
altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle
cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue
sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente
nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di
difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la
verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a
quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li
scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso
giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa
orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri
giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi,
egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in
ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate,
rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi,
narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così
è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più
bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi
pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di
venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma
abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri
discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la
possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è
molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo
giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo
indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il
rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi,
quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e
ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così
almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE:
Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o
scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che
l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che
non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la
natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e
regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a
un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima
semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con
arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il
discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in
tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o
turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto
giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa...
FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o
scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o
scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande
solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o
meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto,
male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta
la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che
nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco
e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in
versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono
recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a
persuadere), 22 Platone Fedro ma che i migliori di essi siano
realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e
ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come
insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi
sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che
discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi,
innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi
quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo
nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti
saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io
ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto
ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo
scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi
alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci
ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi
altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a
chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi,
quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può
soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è
in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una
persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome
derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni
dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande
e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del
genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori
luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha
composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole
l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di
discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo
al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche
il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa
riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora
giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa?
SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi
di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci
sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai
discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si
sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio
divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo,
caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste
cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre
al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta
più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di
metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di
questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di
fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il
sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante,
possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da
parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per
me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23 Platone
Fedro NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto
secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che
gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo,
originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è
ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore
democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino
ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio
dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi
cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita
"salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano
caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre
vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9)
Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio
concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata
poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo
dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove
aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di
carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati
dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera
era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di
serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime
due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo
sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato
dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto
Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto
scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del
Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al
termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo
mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine
il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco
c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene
paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare',
'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la
famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C.,
autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in
nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e
parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del
sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro
intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21)
Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco
gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e
"ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico
è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del
canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e
"róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale
associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui
il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non
ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25)
L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una
parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un
colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire
o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge
l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli
interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale
del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro,
poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la
vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò
per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride
non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze;
questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non
avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà
una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio
dalle accuse che gli aveva mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in
Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca
della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di
Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di
Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla
di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike",
viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il
composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei
due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui
il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima
impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione
dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel
Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre
qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale,
come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e
bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a
quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti
opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione
di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella
cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era
immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le
divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34)
L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo
metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità
trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35)
Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione
del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene
qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi,
argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo
della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-",
radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi
nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero.
Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i
due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros"
(epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente
suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso
291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo
diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco
tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios",
solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le
sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo
frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli
dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41)
L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la
follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del
termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima
analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica,
più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere
nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e
fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta
tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio
legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in
giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di
discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale;
le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di
logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da
essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove
si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine,
un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è
derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu,
secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta,
annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593
a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei
cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485
a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue
è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. 25 Platone Fedro 48) Omero, Iliade libro 2,
verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice
la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i
discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei
guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e
soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe
che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia,
era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il
480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti
della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue
numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco
di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della
Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come
diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del
quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a
Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di
confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i
paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il
leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da
Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche
tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo
da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo,
uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu
maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica
siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della
sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il
celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di
Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei
protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere
di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora
di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età
periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato
soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per
empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di
tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di
Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo
nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito
da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di
un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista
ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis
portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le
sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse
per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate.
Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà
ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate
di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della
medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della
medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti
riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede
di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio
dell'invenzione,che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la
testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone
assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la
considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la
trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66)
«La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re
dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle
principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e
identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a
Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti
in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito
morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo
giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i
discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri
discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione
poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene
una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21
orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la
guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani.
70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon
greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo
era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del
luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera
conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della
sapienza. Wikipedia Ricerca Orfeo personaggio della mitologia greca
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Orfeo (disambigua). Orfeo DSC00355 - Orfeo (epoca
romana) - Foto G. Dall'Orto.jpg Orfeo circondato dagli animali. Mosaico
pavimentale romano, Museo archeologico regionale di Palermo. Nome orig. Ὀρφεύς
Specie umana
Sesso Maschio
Luogo di nascita Tracia
Professione cantore
e argonauta Orfeo (in greco antico: Ὀρφεύς Orphéus, pronuncia: [or.pʰeú̯s]; in
latino: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca[4].
Bassorilievo in marmo di epoca romana, copia di originale greco del 410
a.C., che rappresenta Ermes, Euridice e Orfeo. L'opera originale, probabilmente
di Alcamene, è andata perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo
archeologico di Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l'esito
negativo della catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo
voltatosi verso Euridice, le alza il velo, forse per verificare l'identità
della donna e quindi la perde. Secondo l'opinione di Cristopher Riedweg[1]
sarebbe infatti evidente che Ermes a questo punto trattenga per un braccio la
sposa di Orfeo, che volge quindi il piede destro per tornare indietro.
Orfeo ritratto in un kratēr (κρατήρ) attico a figure rosse risalente al V
secolo a.C. e oggi conservato presso il Metropolitan Museum di New York. Orfeo,
che siede a sinistra impugnando la lira (λύρα), veste un abito tipicamente
greco, a differenza dell'uomo che gli si pone in piedi davanti che invece
indossa un costume tracio. Questo particolare, unitamente alla presenza, a
destra, della donna che impugna una piccola falce, può rappresentare una delle
varianti della sua leggenda che lo vuole missionario greco in Tracia, ucciso lì
dalle donne in quanto escludendole dai suoi riti induceva i loro mariti ad
abbandonarle: «Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte,
perché aveva persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non
osavano passare all'azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi
di vino, attuarono la scellerata impresa. E da quel momento invalse per gli
uomini il costume di andare ebbri alle battaglie.» (Pausania, Periegesi
della Grecia, IX, 30, 5[2]) [3] Mappa dei luoghi che, secondo la
mitologia, Orfeo avrebbe visitato e legato a sé. Il nome di Orfeo è attestato a
partire dal VI secolo a.C., ma, secondo Mircea Eliade, «non è difficile
immaginare che sia vissuto 'prima di Omero'»[5]. Si tratta dell'artista per
eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni[6], ma anche di uno
«sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell'anima
lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore dell'Orfismo. I molteplici
temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico -
sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria,
filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi. Orfeo
e l'Orfismo Modifica
Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento 25
del lirico di Rhegion (Reggio Calabria) Ibico vissuto nel VI secolo a.C. nella
Magna Grecia, nel quale appare già "famoso"[9]. Attorno alla sua
figura mitica, capace di incantare persino gli animali[11], si assesta una
tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica, bensì la
psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro di Derveni,
rinvenuto negli anni 1960 vicino a Salonicco, offre un'interpretazione allegorica
di un poema orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i
morti[12]. Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i
quali rappresenta, da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia
l'elemento divino o "anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è
la figura centrale dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel
mondo occidentale, introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima
immortale[13]. Il mito Modifica
Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse, risalente al V secolo
a.C., oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la
morte di Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da
questo dio a lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l'ardore religioso
che il poeta conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte
Pangaio (anche Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva:
«[Orfeo] Non onorò più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò
anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa
aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò
Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico
Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna
separatamente; le Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato
Libetra.» (fr. 113 in Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto
Kern; traduzione di Elena Verzura. Milano, Bompiani, 2011, p. 99) Le origini Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti religione e mitologia greca
è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Secondo le più
antiche fonti Orfeo è nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto la
Pieria[14], terra nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata
l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei
morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci tra
l'altro di provocare uno stato di trance tramite la musica. Figlio della
Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro(o, secondo altre versioni meno
accreditate, del dio Apollo), appartiene alla generazione precedente degli eroi
che parteciparono alla guerra di Troia, tra i quali ci sarebbe stato il cugino
Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu il sesto discendente di Atlante e
nacque undici generazioni prima della guerra di Troia[14]. Egli, con la potenza
incantatrice della sua lira e del suo canto, placava le bestie feroci e animava
le rocce e gli elementi della natura. Gli è spesso associato, come figlio
o allievo, Museo. Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco:
come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge
le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle
arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un
rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di
decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva
e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per
il riscatto dagli Inferi di una fanciulla (Euridice nel caso di Orfeo e la
madre Semele in quello di Dioniso). Orfeo domina la natura selvaggia e può
addirittura sconfiggere la morte temporaneamente (anche se alla fine viene
sconfitto perdendo la persona che doveva salvare, a differenza di
Dioniso). La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche
in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da
rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo
di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli Inferi, Orfeo
abbandona il culto del dio Dionisorinunciando all'amore eterosessuale. In tale
contesto si innamora profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna
l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia,
seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono
e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle
Georgiche di Virgiliola causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira
delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di
Euridice. Le imprese di Orfeo e la sua morte Modifica Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo(1900)
di William Waterhouse. Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla
spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli
prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte
occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata
nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico
l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, addormentò il drago e
superò la potenza ammaliante delle sirene. La sua fama è legata però
soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide separato dalla
driadeEuridice, che era sua moglie. Come Virgilio narra nelle Georgiche, Aristeo,
uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo
amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a
che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise
col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi per
riportarla nel mondo dei vivi. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da
Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua
musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade.
Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato
condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato all'infinito:
Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare momentaneamente
la ruota, che, una volta che il musico smise di suonare, cominciò di nuovo a
girare. L'ultimo ostacolo che si presentò fu la prigione del crudele
semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope (antenato di Agamennone) per
dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini.
Qui, Tantalo è condannato a rimanere legato a un albero carico di frutta ed
immerso fino al mento nell'acqua: ogni volta che prova a bere, l'acqua si
abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami
si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira per far fermare
l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane immobilizzato e
quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A questo punto l'eroe
scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro,
e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono
degli Inferi, Orfeo incontrò Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina).
Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi[15]come Orfeo, per
addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Il discorso di Orfeo fece leva
sulla commozione, richiamando alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi
sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore
che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo assicurò anche che, quando fosse
venuta la sua ora, Euridice sarebbe tornata nell'Ade come tutti. A questo punto
Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato.
Paesaggio con Orfeo ed Euridice (1650-51) di Nicolas Poussin. Mossi dalla
commozione, che colse persino le Erinnistesse, Ade e Persefone acconsentirono
al desiderio. «Intonando al canto le corde della lira, così disse:
«O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi, dove noi tutti, esseri mortali,
dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le tenebre del
Tartaro o per stringere in catene le tre gole, irte di serpenti, del mostro che
discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva
calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore!
Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non so, ma
almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per questo immane
abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino
anzitempo infranto di Euridice! (...) Si dice che alle Furie, commosse dal
canto, per la prima volta si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero
cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e
chiamarono Euridice.» (Ovidio, Metamorfosi) Essi posero però la
condizione che Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino
fino all'uscita dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla
soglia degli Inferi, temendo che lei non lo stesse più seguendo, Orfeo non
riuscì più a resistere al dubbio e si voltò per assicurarsi che la moglie lo
stesse seguendo. Avendo rotto la promessa, Euridice viene riportata all'istante
nell'Oltretomba. Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai
limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando
gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo
Virgilio,[16]mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni.[17] Sa che non
potrà amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui.
Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del
Trace nei confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira
e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e
ne sparsero i resti per la campagna.[18] Un po' diversa è la
rivisitazione del poeta sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione
anti-femminile di Orfeo, coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore
omoerotico (questo elemento non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo
attestazione già nel poeta alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi
ripiegato sull'amore per i fanciulli, facendo innamorare anche i mariti delle
donne di Tracia, che venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono
dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben
più cruda di quella virgiliana.[19] Piatto con Orfeo circondato da
animali presso il Museo Romano-Germanico di Colonia. In entrambi i poeti si
narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente
a cantare, simbolo dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo Ovidio) fino
al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo
la protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III
secolo Filostrato nell'Eroico (28,8) racconta che la testa di Orfeo, giunta a
Lesbo dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e
aveva il potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore
sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra.
Tornando a Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse
inaspettato; Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla
senza più temere.[20] Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera,
perché sa che non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna
donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a
partecipare a un'orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia,
ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo
uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla
sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare
soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la
mette in cielo formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le
Fabulae di Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo
quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne
accolta nei Campi Elisi. Evoluzione del mito Modifica Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865),
di Gustave Moreau. «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e
che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di
rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi
"sia finita" e mi voltai» (Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare
Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947) Il mito di Orfeo nasce forse come
mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della
Kore e dello σπαραγμος (sparagmòs) al greco antico "corpo fatto a
pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare
la vita sulla terra dopo l'inverno. La prima attestazione di Orfeo è nel
poeta Ibico di Reggio (VI sec a.C.), che parla di Orfeo dal nome famoso.[21] In
seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce le prime informazioni
attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i riferimenti di Euripide,
che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccantirende manifesta la potenza suasoria
dell'arte di Orfeo, mentre nell'Alcesti spuntano indizi che portano in
direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto fine, sconosciuta ai più,
non si limita a Euripide, dato che è possibile intuirla anche in Isocrate
(Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio).[22] Altri due autori greci che si sono
occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il
filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio. Nel discorso di Fedro,
contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella schiera dei
sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità;
egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli
viene consegnato dagli dèi degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può
essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso
come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere antieroico poiché ha voluto
sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per
amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a
rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo
tramite le forme superiori dell'eros.[23] Apollonio Rodio inserisce il
personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche qui come un eroe
culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo attribuito a Orfeo
esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria
arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare
ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel
quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una
personale cosmogonia. Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione
philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si chiude al trascendente,
mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta l'attaccamento
ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo vedrà in Orfeo
un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli Inferi come
un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore come un trionfante
lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi, con El divino
Orfeo di Pedro Calderón de la Barca, 1634). Dante lo colloca nel Limbo, nel
castello degli "spiriti magni" (Inf. IV. 139). Nel 1864
compare la prima rivoluzionaria avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto
al secolo successivo: il respicere di Orfeo non è più frutto di un destino
avverso o di un errore, ma matura da una precisa volontà, ora sua, ora
d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del poeta inglese Robert
Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in quello sguardo
l'immensità del tutto, in una empatia tale da rendere superfluo qualsiasi
futuro. Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il gesto di
Orfeo sarebbe stato volontario. Come è d'uopo, i primi casi non sono italiani.
Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la propria parabola
artistica, nel 1925, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera
teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo
capovolge il mito; decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al
di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più
rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa,
ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del
proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice (1941). Nel dialogo
pavesiano L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò, 1947), Orfeo si confida con
Bacca: trova sé stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia
da ogni esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il
proprio destino. Euridice, al pari di tutto il resto, non conta più nulla per
lui, e non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle
fattezze ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più
l'infanzia innocente con cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene
un'esigenza ineludibile. «L'Euridice che ho pianto era una stagione della
vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che
Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto
le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi
il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e
ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla» Più cinico, l'Orfeo
delineato da Gesualdo Bufalino nel 1986[24] intona, al momento del
"respicere", la famosa aria dell'opera di Gluck (Che farò senza
Euridice?). La donna così capisce: il gesto era stato premeditato,
nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso una (finta)
espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità
artistiche. Opere in cui appare o è trattata la sua figura Modifica Letteratura Modifica
Simposio (discorso di Fedro) - opera filosofica di Platone. Argonautiche -
poema epico di Apollonio Rodio. Elegia n.1 Powell - Orfeo e Calais - elegia
contenuta ne Gli amori o i belli di Fanocle. Georgiche (libro IV) - poema di
Virgilio. Eneide (libro VI) - poema di Virgilio (Orfeo è tra gli spiriti dei
Campi Elisi; Virgilio lo chiama sacerdote di Tracia, senza dunque nominarlo)
Metamorfosi (libri X e XI) - poema di Ovidio. Fabula di Orfeo - Opera teatrale
di Angiolo Poliziano. Orfeo - idillio di Giovan Battista Marino. Euridice ad
Orfeo - epistola lirica di Antonio Bruni. Sonetti a Orfeo - raccolta poetica di
Rainer Maria Rilke. Orfeo, Euridice ed Hermes - poesia di Rainer Maria Rilke La
persuasione e la rettorica - saggio di Carlo Michelstaedter (il rimando al mito
di Orfeo è centrale anche nel ciclo di poesie A Senia, del medesimo
Michelstaedter). Canti orfici - raccolta poetica di Dino Campana. Orfeo Vedovo
- opera teatrale di Alberto Savinio. Tutte le cosmicomiche di Italo Calvino
(racconti Senza Colori, Il cielo di pietra, L'altra Euridice). Il ritorno di
Euridice (da L'uomo invaso) - racconto di Gesualdo Bufalino. Eurydice to
Orpheus - poesia di Robert Browning. Eurydice (da Collected Poems) - poesia di
Hilda Doolittle. Orphée - opera teatrale di Jean Cocteau. Eurydice - opera
teatrale di Jean Anouilh. Orfeo - poema di Juan Martinez Jáuregui. Racconto di
Orfeo - poema di Robert Henryson (o Henderson). Bestiaire ou Le cortège
d'Orphée - raccolta poetica di Guillaume Apollinaire. La presenza di Orfeo -
prima raccolta poetica di Alda Merini. Orfeo emerso - romanzo di Jack Kerouac.
La terra sotto i suoi piedi - romanzo di Salman Rushdie. Il lamento d'Orfeo -
opera teatrale di Valentino Bompiani. Dialoghi con Leucò - raccolta di racconti
di Cesare Pavese (Orfeo appare nel dialogo L'inconsolabile). La discesa di
Orfeo (Orpheus Descending), opera teatrale di Tennessee Williams. La Saga dei
Mitago - Il Tempio Verde - di Robert Holdstock. Orfeo africano - romanzo breve
di Werewere Liking. Lei dunque capirà - monologo di Claudio Magris. Orpheus -
opera teatrale di Giuliano Angeletti. "Schatten" Euridyke sagt -
opera teatrale di Elfriede Jelinek Poema a fumetti, (racconto per immagini del
mito di Orfeo in chiave moderna) di Dino Buzzati, Mondadori. La Musica, Orfeo,
Euridice – Il mitema e l'adeguamento al contemporaneo, di Francesca Bonaita,
Virginio Cremona Editore Orfeo sconsacrato. Viaggio nelle vite di Orfeo, Danilo
Laccetti, Jouvence, 2019 Musica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Orfeo (musica). Euridice (opera) - opere
teatrali su libretto di Ottavio Rinuccini musicate da Iacopo Peri e da Giulio
Caccini (1600). L'Orfeo - Melodramma di Claudio Monteverdi (1607). Orfeo
dolente - Opera musicale di Domenico Belli(1616). La morte di Orfeo - Tragicommedia
pastorale di Stefano Landi (1619). Orfeus und Euridice - Opera-ballo di
Heinrich Schütz (1638). Orfeo - Opera musicale di Luigi Rossi (1647). Orfeo
(Sartorio) - Opera musicale di Antonio Sartorio, su libretto di Aurelio Aureli
(1673). Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e Louis Lully (1690).
Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Christoph Willibald Gluck (1762). Orfeo
ed Euridice - Ballo di Florian Johann Deller(1763). Orfeo ed Euridice - Opera
lirica di Johann Gottlieb Naumann (1786). L'anima del filosofo ossia Orfeo ed
Euridice - Opera musicale di Franz Joseph Haydn (1791). Orpheus - Poema
sinfonico di Franz Liszt (1853-54). Orfeo all'inferno - Operetta di Jacques
Offenbach(1858). Orfeo - Mimodramma di Roger Ducasse (1913). Orpheus und
Eurydike - Opera lirica di Ernst Krenek(1926). La favola di Orfeo - Opera in un
atto di Alfredo Casella (1934) Orpheus - Balletto di Igor' Fëdorovič
Stravinskij(1947). Orfeu da Conceiçāo - Dramma musicale di Vinícius de Moraes
(1947). Orfeo 9 - Opera rock di Tito Schipa Jr. (1970). Orpheus - Canzone di
David Sylvian (1987) contenuta nell'album Secrets of the Beehive. Euridice -
Canzone di Roberto Vecchioni dall'album Blumùn (1993) Orfeo - Singolo di Carmen
Consoli (2000) contenuta nell'album Stato di necessità. Orfeo a Fumetti - Opera
da camera di Filippo del Corno (2001). Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus -
album del 2004 di Nick Cave and The Bad Seeds, che contiene la traccia The Lyre
Of Orpheus. Metamorpheus - Concept album dedicato al mito di Orfeo di Steve
Hackett (2005). Eurydice - singolo d'esordio del progetto Sleepthief(2006).
Orfeo Coatto - Mp3dramma di Francesco Redig de Campos 2009. Caliti junku,
canzone dell'album Apriti sesamo di Franco Battiato, 2012. Awful Sound (Oh
Eurydice) e It's Never Over (Hey Orpheus), canzoni dell'album Reflektor degli
Arcade Fire, 2013. King of Shadows - track 1 dell'album R-Evolution2014 -
Martiria featuring ex Black Sabbath Vinny Appice. Pittura Modifica
Orfeo morto - Dipinto di Jean Delville. Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo -
Dipinto di John William Waterhouse. Orfeo - Dipinto di Tintoretto. Orfeo
solitario - Dipinto di Giorgio de Chirico Orfeo all'inferno - Dipinto di
Rubens. La leggenda di Orfeo - Trittico di Luigi Bonazza. Ragazza tracia con la
testa di Orfeo - Dipinto di Gustave Moreau. Orfeo - Dipinto di Pierre
Marcel-Béronneau Scultura Modifica
La morte di Orfeo di Michele Tripisciano a Caltanissetta. Orfeo, Euridice ed
Hermes - Rilievo fidiaco. Orfeo, formella di Luca della Robbia per il Campanile
di Giotto. Orfeo ed Euridice, scultura di Auguste Rodin, New York, Metropolitan
Museum of Art, 1893. La morte di Orfeo scultura di Michele Tripisciano,
Caltanissetta, Museo Tripisciano di Palazzo Moncada, 1898[25]. Cinema Modifica Le sang
d'un poète, di Jean Cocteau Orfeo (Orphée, 1949), di Jean Cocteau Il testamento
di Orfeo (Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!, 1959), di
Jean Cocteau Pelle di serpente (The fugitive kind) di Sidney Lumet, dal dramma
di Tennessee Williams Orpheus Descending Orfeo negro (Orfeu Negro, 1959), di
Marcel Camus; dal dramma di Vinícius de Moraes. Harry a pezzi di Woody Allen
Tre colori - Film blu (Film bleu, 1992) di Krzysztof Kieslowski Al di là dei
sogni (Where dreams may come, 1997) di Vincent Ward Solaris di Steven
Soderbergh Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma Fumetti e
animazione Modifica Orfeo della Lira è un
personaggio del manga e anime Saint Seiya (I cavalieri dello zodiaco).
Orfeo è figlio di Sogno nei fumetti Sandman scritti da Neil Gaiman. Videogiochi Modifica
Orfeo (Orpheus) è il Persona iniziale del protagonista del videogioco Shin
Megami Tensei: Persona 3 Orfeo (Orpheus) compare anche nel viodeogioco
Hades come personaggio secondario, legato ad una questline che, riprendendo il
mito greco, coinvolge anche il personaggio di Euridice Note Modifica ^
Cristopher Riedweg, Orfeo, in Salvatore De Settis (a cura di), Storia Einaudi
dei Greci e dei Romani, vol. 4, Milano-Torino, Il Sole 24 Ore - Einaudi, 2008,
p. 1259, SBN IT\ICCU\TO0\1712319. ^ Pausania, Viaggio in Grecia, traduzione di
Salvatore Rizzo, Milano, Rizzoli, 2011, p. 243, ISBN 978-88-17-04635-0. ^ Anche
Conone, f. 45 (115 Frammenti orfici, nella edizione di Otto Kern). ^ «Orfeo,
fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce nell'Oxford Classical Dictionary
(trad. it. Dizionario di antichità classiche, Cinisello Balsamo (Milano), San
Paolo, 1995, p. 1521, ISBN 88-215-3024-8.), voce firmata da Nils Martin Persson
Nilsson, Johan Harm Croon e Charles Martin Robertson. La voce dell'Oxford Classical
Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di cantore nella mitologia greca
deriva dalle composizione nelle quali erano esposte le dottrine e le leggende
orfiche». In modo analogo la Encyclopedia of Religion ( NY, Macmillan,
2005 [1987] , pp. 6891 e sgg., ISBN 0-02-865733-0, SBN
IT\ICCU\UMC\0030411. ) avvia la voce Orpheus a firma di Marcel Detienne(1987) e
Alberto Bernabé (2005): «In the sixth century BCE, a religious movement that
modern historians call Orphism appeared in Greece around the figure of Orpheus,
the Thracian enchanter.». Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda
antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto
quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La
teologia dei primi pensatori greci, traduzione di Ervino Pocar, Firenze, La
Nuova Italia, 1982, p. 100, SBN IT\ICCU\UFI\0058276.). ^ Orfeo, Pitagora e la
nuova escatologia, in Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 2,
Milano, Rizzoli, 2006, p. 186, SBN IT\ICCU\RMB\0590138. ^ Marcel Detienne
(1987) e Alberto Bernabé, Encyclopedia of Religion, vol. 10, NY, Macmillan,
2005, p. 6892, ISBN 0-02-865743-8. «Thus, before he becomes the founding hero
of a new religion or even the founder of a way of life that will be named after
him, Orpheus is a voice—a voice that is like no other. It begins before songs
that recite and recount. It precedes the voice of the bards, the citharists who
extol the great deeds of men or the privileges of the divine powers. It is a
song that stands outside the closed circle of its hearers, a voice that
precedes articulate speech. Around it, in abundance and joy, gather trees,
rocks, birds, and fish. In this voice—before the song has become a theogony and
at the same time an anthropogony—there is the great freedom to embrace all
things without being lost in confusion, the freedom to accept each life and
everything and to renounce a world inhabited by fragmentation and division.
When representatives of the human race first appear in the presence of Orpheus,
they wear faces that are of war and savagery yet seem to be pacified, faces
that seem to have turned aside from their outward fury.» ^ Giulio Guidorizzi,
Il mito greco, vol. 1, Milano, Mondadori, 2009, p. 77, ISBN 978-88-04-58347-9. ^
La sapienza greca, traduzione di Giorgio Colli, vol. 1, Milano, Adelphi, 2005,
ISBN 88-459-0761-9. ^ (GRC) «ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν.» (IT) «Orfeo
dal nome famoso.» (Ibico 4 [A 1] a.[8]) ^ Orfici. Testimonianze e
frammenti nell'edizione di Otto Kern, traduzione di Elena Verzura, Milano,
Bompiani, 2011, pp. 60-61, ISBN 978-88-452-6688-1. ^ (GRC) «τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι
ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ κεφαλᾶς, ἀνὰ δ'ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος ἃλλοντο καλᾶι
σὺν ἀοιδᾷι» (IT) «Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli
e diritti dalla profondità dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo
bel canto.» (Simonides fr. 40; PLG III p. 408[10]) ^ ( EN ) Betegh, G.,
The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge, 2004. ^
Giovanni Reale, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia
greca e romana, vol. 1, Milano, Bompiani, 2004, pp. 62-3. ^ a b DK 1 A1. ^
vv.1-85. ^ Georgiche, libro IV. ^ Metamorfosi, libro XI. ^ Virgilio, cit. ^
Metamorfosi, libro XI. ^ Nel libro XI delle Met. Il mito è narrato nei versi
1-66. ^ S. Jacquemard e J. Brosse, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di
Dag Tessore, Roma, Borla, 2001, p. 7, ISBN 88-263-1375-X. ^ A. Rodighiero, Gli
autori e i testi, in M. G. Ciani e A. Rodighiero (a cura di), Orfeo. Variazioni
sul mito, Venezia, 2004, pp. 136-138, ISBN 88-317-8445-5. ^ Discorso di Fedro,
in Platone, Simposio, 179 E. ^ Siamo nel racconto Il ritorno di Euridice, ne
L'uomo invaso; per questo e tutti gli altri riferimenti cfr. A. Rodighiero,
cit., pp. 141 e ss.; per una panoramica dettagliata delle riprese novecentesche
della vicenda del cantore tracio cfr. M. di Simone, Amore e morte in uno
sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, 2003,
ISBN 88-8415-030-2. ^ AA.VV., Michele Tripisciano, su
storiapatriacaltanissetta.it, Caltanissetta, Società Nissena di Storia Patria,
Anno VII, n° 12. URL consultato il 22 settembre 2013. Bibliografia critica Modifica Jacques Brosse e Simone
Jacquemard, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma,
Borla, 2001, ISBN 88-263-1375-X. Andrea Cannas, Lo sguardo di Orfeo, Roma,
Bulzoni, 2004, ISBN 88-8319-960-X. Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero (a
cura di), Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2004, ISBN
88-317-8445-5. Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo
e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri liberi, 2003, ISBN
88-8415-030-2. Giulio Guidorizzi e Marxiano Melotti (et al.), Orfeo e le sue
metamorfosi, Roma, Carocci, 2005, ISBN 88-430-3348-4. Gilberto Lonardi,
Alcibiade e il suo demone. Parabole del moderno tra D'Annunzio e Pirandello,
Verona, Essedue Edizioni, 1988, ISBN 88-85697-22-4. Édouard Schuré, I grandi
iniziati, traduzione di Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1995, SBN IT\ICCU\BVE\0079473.
Charles Segal, Orfeo. Il mito del poeta, traduzione di Daniele Morante, Torino,
Einaudi, 1995, ISBN 88-06-12469-2. Reynal Sorel, Orfeo e l'orfismo, traduzione
di Luigi Ruggeri, Nardò, Besa, 2015 [2003] , ISBN
978-88-6280-146-1, SBN IT\ICCU\URB\0377948. Ediz. orig. ( FR ) Orphée et
l'orphisme, Parigi, Presses Universitaires de France, 1995, SBN
IT\ICCU\MIL\0277224. Voci correlate Modifica
Euridice (ninfa) Orfeo (musica) Orfismo Decapitazione Altri progetti Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote
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Commons contiene immagini o altri file su Orfeo Collegamenti esterni Modifica
Orfeo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Augusto Rostagni, ORFEO, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1935. Modifica su Wikidata ( EN
) Orfeo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su
Wikidata Controllo di autorità VIAF ( EN )
309825473 · CERLcnp00931153 · LCCN ( EN ) n2014043594 ·GND ( DE ) 118590278 ·
J9U( EN , HE ) 987007319025005171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN )
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greca Ultima modifica 8 giorni fa di 47.53.237.91 PAGINE CORRELATE Orfeo (nome)
prenome maschile Euridice (ninfa) driade della mitologia greca, moglie di
Orfeo Fabula di Orfeo Wikipedia Il contenutoGiuseppe Faggin. Faggin. Keywords:
metrica filosofica, Lucrezio, inno orfico, inni orfici, philosophy of the toad
– rospo – l’orfismo nella Roma antica; filosofia antica – l’antico nel
rinascimento italiano – occultismo – misticismo – protestantismo italiano –
Italia contro Roma. Fedro, ovvero del bellow, Dal bello al divino – Il
peregrine cherubico – l’arbero come simbolo – il fuoco come simbolo – la luce
come simbolo – canti orfici – sul bello -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Faggin” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762103188/in/dateposted-public/
Grice e Falciglia – senso e sensibilita -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Salemi).
Filosofo. rice: “I like Falciglia; for one, he took dialectic seriously, as any
Aristotelian does! So he wrote on sensus compositum, on ‘definitio,’ on
‘demonstratio,’ and he even ventured on moral philosophy – in a nutshell, the
perfect Aristotelite!” -- Studia a Salemi
per essere poi trasferito a Padova per proseguine negli studi sotto Paolo da
Venezia e Giovanni di Cipro. Insegna a Siena, Bologna, Rimini. Altre opere: “Statuta
pro conventu Parisiensi”; “De sensu composito”; “De medio demostrationis”, “De
sophistarum regulis, Terminorum moralium, tractatus singularis, Definitiones et
additions super constitutions, necnon formularium et privilegia ordinis -- Dizionario
biografico degli italiani. Grice: Falciglia’s “De sensu composito” should not be mistaken with “De sensu composito et
diviso” by another Philosopher – Paolo di Pergamo -- sensus compositus:
composite or compounded sense. The term has two applications. (1) A logical
application, as distinguished from a divided or isolated sense (sensus
divisus). In the composite sense (in sensu composito), a subject is understood
in necessary connection with or as conditioned by its predicates or attributes;
in the divided sense (in sensu diviso), the subject is understood in a
hypothetical or contingent relationship to its predicates or attributes. Thus
in the composite sense, it is necessary that a blind man cannot see or that a
man who is running is in motion; whereas in the divided sense, a man is now
blind, but it is possible that he could see; a man is now running, and it is
possible that he stand still. The sensus compositus can be used to indicate a
necessity of the consequent thing (necessitas consequentis, q.v.), while the
sensus divisus can be used to indicate a contingency, namely, a necessity of
the consequence (necessitas consequentiae, q.v.). And (2) a rhetorical or
exegetical application, also identified as the sensus literalis compositus:
composite or compounded literal sense; viz., either the literal meaning
understood as a figure or type, with the allegorical, mystical, or moral sense
embedded figuratively in the text as part of the literal meaning, or the
literal sense of a larger unit as distinguished from the sense of an individual
term, particularly in cases where one term is in itself unclear or subject to
multiple interpretations but capable of a clear, unitary sense in its context.
When the composite sense of a text rests on figurative meaning or on a type
that is fully understood only with a view to its antitype, the Protestant
exegesis stands in positive relation to the medieval quadriga (q.v.), albeit
capable of denying multiple meanings. sensus divisus: the divided sense;
i.e., the meaning of a word or idea in itself apart from its general relation
to other words of a text or apart from its logical relation to another term or
thing; the opposite of sensus compositus (q.v.). and fear of death.42
Thus physics is entirely subordinate to ethics, being merely the necessary
means whereby the ethical goal is achieved. This is a point which it is particularly
important to remember when reading the DRN, for although Lucretius is a
perfectly orthodox Epicurean and is not concerned with scientific inquiry for
its own sake,43 the great bulk of his subject-matter is scientific and he gives
no systematic account of Epicurean ethical theory. His reasons for
concentrating on physics will be considered in § 3. As Diogenes Laertius
(10.30) points out, Epicurus’ system “is divided into three parts: Canonic,
Physics, and Ethics.” The Canonic44 is his theory of knowledge. There are
three criteria of truth: sensation, preconceptions, and feelings. Sensation (αἴσθησις,
sensus) is the primary standard of truth (Lucr. 1.422-425). If an error is
made, that is not because the sensation is not true, but because the reason draws
a wrong conclusion from the evidence which the sensation provides (Lucr.
4.379-468). With the repetition of sensations, images of each class of things
accumulate in the mind to form a general idea or preconception (πpόληψις,
notities, anticipatio, praenotio) to which other examples are referred
(e.g.Lucr. 5.182, 1046-1049). Without these preconceptions, attainment of
scientific xxx knowledge would be impossible, for sensation by itself is
“irrational and incapable of memory” (Diogenes Laertius 10.31). As for the
third criterion of truth, “there are two feelings (πάθη), pleasure and pain,
which affect every living creature, the former being congenial to it, the
latter repugnant; it is through these that choice and avoidance are determined”
(Diogenes Laertius 10.34). Thus the feelings of pleasure and pain are the
supreme test in matters of morality and conduct, and since they are a part of
sensation, it is true to say that Epicurus’ ethical theory, like his physical
theory, is founded on the validity of sensation.45 Epicurus derived his
physical theory from Democritus (c. 460-c. 370), who had adopted and elaborated
the atomic theory invented by Leucippus. However, he made some important
alterations to Democritus’ theory, and differed from him in making physics
subservient to ethics. The first principles of Epicurean physics are that
“nothing is created out of nothing” (Lucr. 1.150-151, 155-156, 159-214) and
“nothing is destroyed into nothing” (Lucr. 1.215-264). In other words, Epicurus
shared the belief of other ancient physicists in the conservation of matter.
The universe (τὸ πᾶν, omne) consists of matter (σῶμα, corpus) and void (τὸ κενόν,
inane). These are the only ultimate realities: nothing that is distinct from
them can exist (Lucr. 1.430-448). That matter exists is proved by sensation;
and if there were no void, matter would be unable to move (Lucr. 1.335-345,
370-383, 426-428), whereas sensation tells us that it does move.
Mentre nella storia della filosofia la parola sensocompare, a partire
dalla αίσθησις di Aristotele[1], per indicare la facoltà di "sentire"
(cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le
origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni
dei sofisti. [1] Aristotele, De anima (II, 5, 416 b 33) aveva dato una
definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto
lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere umano
come caratteristica peculiare della sua individualità.Giuliano Falciglia. Falciglia.
Keywords: sensus, sentiment, sense and sensibilia, sentient, sensus divisus,
sensus compositum – philosophy of the ‘senses’ – the use of Roman ‘sensus’ in
Boezio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Falciglia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689559666/in/photolist-2mKCvfA-2mKyrnu
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