Grice e Carifi – ablativi relativi – Roman
implicata -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia).
Filosofo. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did
indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he
sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia
and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’
doesn’t!” -- Studia sotto Bigongiari,
tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino, profondamente influenzato dalle voci liriche
di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere
poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il
segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a
lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica
alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non
esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica
di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso
filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto
interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo
principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una
dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero:
Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si
alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E
conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica,
influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma anche
per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e
Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio
Tesi Editrice» Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la
sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due
antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi
diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo
quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile.
Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la
forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si
racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui
l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della
Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre,
proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare
al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un
momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al
buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su
«Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte
poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di
Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano);
Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco
Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda,
Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere,
Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre
poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti,
Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il
Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il
gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA,
Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo
d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna
(Raffaelli, Rimini ). Note Rainer Maria
Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La
notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione
di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per
competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la
sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi,
D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi,
Tibet, Le Lettere,. Da Pistoia in
parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini,
introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS,.
M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C.
Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per
relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di
Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M.
Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor
di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un
altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi,
Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli,
«L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello
Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il
Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il
luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la
carità duole, «Il Mattino», Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24
ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»; Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore
senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa ispiratrice la nostalgia,
«Avvenire», Classici pensosi versi,
«Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori
di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»;
D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli,
Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore
quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi,
«Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico
della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino,
«Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro
con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»;
Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio,
«Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi:
parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole
24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico
invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri», Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre.
Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno
stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»;
Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il
Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta
di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità
del figlio, introduzione a R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono,
maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier»,
D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G.
Colotti, Europa, «Il Manifesto»; La
religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza
dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat,
Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale», Per la sezione bibliografica questa voce trae
informazioni dalla inglese. Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via
del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL
PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su
sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto
Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su
«Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is the passive voice of
the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM – there was a specific
form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the passive voice. However, no
record was found of the passive voice, except by use of what I call an
‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and ‘have’ as
auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto – the house
given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the merchant,
the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the pluperfect,
strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an auxiliary
verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT. Pecunimam
mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should have given
money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative absolute
hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the ablative case.
Pecuniis mercatori datis cessit emptor , Money having been given to the
merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit emptor. Money
not having been given to the merchant, the merchant killed one of the buyer’s
slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form (dederat,
dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the
absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it
could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE
ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination.
Money Carifi. Keywords: ablativi
relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake
– l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme –
l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger,
conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775516699/in/dateposted-public/
Grice e Carle – le radici del diritto
romano – la legge romana – la natura romana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza -- (Chiusa
di Pesio). Filosofo. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his
Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only
that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of
‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his
essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on
cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente
del positivismo. La dottrina giuridica
del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della
Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte
generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca);
“Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a
base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La
filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione
Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario
biografico degli italiani. Positivismo: ius –
fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism –
giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE
STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA.
Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR.,
poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE
D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso, 216-217. Via Cerretapi, 8
DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, 12 Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al
Ros.°, 23 (N. Carosio ) (N. Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip. di S. M. Al
Rettore Magnifico della Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile
Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla
sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul
diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in
questa occa sione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di
aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella
gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei
Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo
studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la
storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno di quei libri, la
cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni
età offrono campo ad osservazioni, che prima erano sfuggite. Quegli studii di
giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle
istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere
cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero
irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per
spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del
medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi
elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere mag
giormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi
risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui
i Romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi
e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità
deve es sere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del
diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, VI - nė
l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i
rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero
alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di
rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto
delle parti colari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo
la formazione della città e lo svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e
private: conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida
della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che
uno stu dioso della Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal
sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non
di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato
con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e
storico, che governò la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi
esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con
quello più modesto di valermi deimateriali che furono raccolti con tanta
diligenza, sopratutto in Ger mania. Miaccinsi poi all'arduo compito con un
entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età,ma che ebbe il van taggio
di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella
gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le
grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre cambiarono in maestri dell'umanità
coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare
il pensiero di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu
rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore
benevolo: ed è che VII - il presente lavoro, cominciato forse coll idea, non
preconcetta,ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il
frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si
trovò il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I Romani,
cosi nel formare la propria città, come nel Pelaborare le proprie istituzioni
pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamerei di selezione; anziché
essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di
sottomet terli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della
loro città furono costruite coi massi più solidi delle co struzioni gentilizie:
cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, furono
trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia,ma trapiantati nella
città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in
altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando
alle esigenzedella vita civile e politica. Anche questo fu un processo
naturale; ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati
geologici, che si sovrappon gono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei
bassi fondi sovra cui si vengono precipitando,bensi il processo, che governa la
formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria,
si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente
secondo quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita,
che ildiritto romano non èuna produzione determinata esclusivamente
dall'ambiente e dalle condizioni esteriori; ma è già l'opera in parte
consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di
attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente
meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti
sociali ed umani, a modellarla in concetti VIII tipici, a svolgere i medesimi
in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere
cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica, che nel proprio
genere può essere paragonato ai capolavori dell'arte greca. Questo è il
risultato ultimo,a cui sono pervenuto: per la prova del medesimo invito
gli imparziali amici del vero a leggere il libro, nel quale, malgrado la
varietà immensa dei particolari, ho cercato di riprodurre quella coerenza
organica, che è la carat teristica dello svolgimento storico delle
istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni
delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i
varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende, da cui
appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un
carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto
infanzia, ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine
latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver
circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati
dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni delle
genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i varii
stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende, da cui appare circondata
la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un carattere singolare di
contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto infanzia, ma sarebbe stata
fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia,
condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città di
mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati dalle comunanze vicine.
Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato a Roma le sue istituzioni
pubbliche e private, mentre il suo successore le avrebbe data l'organizzazione
del culto, finchè da ultimo Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di
popoli e di genti diverse, avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile,
politica e militare per opera di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il
nome di secondo fondatore della città. Per tal modo la forza dapprima, poi
la religione e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta
dell'eterna città, e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una
creazione personale dei Re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino
distribuito il compito. Il suo fondatore è Latino, mentre invece è Sabino
l'organizzatore del culto, e da ultimo è probabilmente di origine etrusca
quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e
ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento
durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la stessa tradizione
circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di carattere
tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata, e fa
apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private,
che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto
suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa
apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza
storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle
origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini
delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a
noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg gende;madovette
poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo risultato, che le
istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come
l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere riguardate come il
frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore
di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gen
tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i risultati della critica moderna,
avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto
di origine ariana, avrebbe continuata quell'opera di formazione della
convivenza civile e politica, che era già stata iniziata dalle altre
popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che
è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed
italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di
Roma. 3. Secondo il computo più universalmente adottato, Roma è stata fondata
nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe com parsa fra popolazioni
diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione
gentilizia, e stavano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e
politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra (1)
Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma
fino all'anno 283 dalla sua fondazione, accompagnato da una critica finissima
per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero
più tardi, è da vedersi il BONGHI, Storia di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle
istituzioni poli tiche importa sopratutto il libro terzo, che si occupa appunto
della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio, da pag.
513 al fine. Milano, 1884. - 3 le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in
quella della loro prove nienza dall'Oriente (1), questo è certo che fra le
stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di
potenza le stirpi Umbro - Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente
(fatti nel 1874 e nel 1883) hanno dimostrato, che il sito occupato da Roma
doveva già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica.
Sopratutto fu scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza
dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena )
sarebbe esistita anche prima del periodo reale leggendario, e costituisce una
prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine
esclusiva mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad
attenuare l'influenza dell'elemento etrusco (2 ). (1) Tale provenienza delle
stirpi Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro, parentela colle
Elleniche, colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa,
salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della
razza Etrusca. Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra
zione di tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena,
1884, sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti
primitivi comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da
vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei
concetti di rita, themis e ratio, pag. 175 e seguenti. Quest'origine comune è
pure ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart,
1882, pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le
istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere
presso gli Arii dell'India, della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i
Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino, 1880, i cui
primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. (2) Sono a vedersi in
proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei.
Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi
ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome,
Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti
dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a
scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il
MOMMSEN, il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica
pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica, ninth edition,
Edinburgh, pag. 731, 1886, vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo
lavoro: Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886, pag. 45 e seg. Senza pretendere
di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna
influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che aveva già delle
città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che
diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente
non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica
della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per
quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria, avevano però dimen
ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di loro di ori gine, di
costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii; solo erano
ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove tacevano i
conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro
organizzazione sociale, esse, secondo l'opinione del Mommsen, del Leist, del
Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia
di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del
municipio. Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e gradazioni
diverse . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con un carattere pro
fondamente religioso; sono dedite ancora più alla pastorizia che al
l'agricoltura; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e
conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli
abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città, ma in
villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le
traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui pud trovarsi un
notevole esempio nella gens Claudia. Queste stirpi anche più tardi dimostrarono
poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come lo provano le
sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo Umbro-Sabellico
(1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita, per quel che riguarda
l'organizzazione sociale, le stirpi Latine. Il Lazio infatti appare diviso in
altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una
aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi; ma,
riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più
vasta, che costi (1) In ciò sono d'accordo il Mommsen, Histoire Romaine. Trad.
De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag. 140 e seg., ed anche il Lange, Histoire
intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er, pag. 13.
Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più conservatore che
non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas. Questa aggregazione
più vasta non solo aveva comune la lingua, il costume e la religione, ma
eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gli
attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune,
a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio, il quale centro
comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la circondava, nel cui
recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei momenti di pericolo, il
tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza, il luogo ove si ammini
strava giustizia, il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi
stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo,
erano piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano
sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti nazione. L'urbs era in
certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio,
come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali
porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che
le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in
numero di trenta, erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una
capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra come le popolazioni latine già
fossero abbastanza pro gredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur
continuando an cora a vivere nelle comunanze di villaggio, erano pero già
pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che
doveva poi svolgersi nella città e nel municipio. 6. Vengono infine le stirpi
Etrusche, la cui civiltà è ancora og. gidi celata nel mistero, perchè le
traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può
tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso
eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse
devano vere e popolose città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere
dedite al commercio si trovavano in comunicazione mag giore cogli altri popoli
e sopratutto coiGreci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento
religioso, come lo dimostra la sa pienza loro attribuita nell'arte augurale e
nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi
esistessero libri, (1) MOMMSEN, op. e loc. cit., pag. 44 e seg.; FUSTEL DE
COULANGES, La cité an tique, Paris, 1876, pag. 274. 6 - che determinavano i
riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui
la loro popolazione doveva essere ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto
anche l'antica costituzione della città etrusca, secondo il Mommsen, si
accostava nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in
essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione
muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto che le stirpi Etrusche, per
essere sopratutto dedite alla na vigazione eda nei suoi tratti generali a
quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione
patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto
che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione
ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di
preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere
esclusivamente rurale. I capi Etruschi avevano il nome di Lucumoni; la
popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in plebei, come pure
in tribù ed in curie, e se al disopra delle singole città apparivano eziandio
delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città,
che entravano a costituirle, non erano co si intimi e stretti come quelli
che esistevano fra le città della confederazione latina. Esse infine pure
presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già
alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la co
munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello svolgimento
dell'organizzazione sociale e della convivenza civile, che Roma compare nella
storia. Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa ab
biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco, questo è
certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di
uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses, guidati da Romolo e usciti
come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma
palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura, di cui sussistono
ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata (3 ). (1)
Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus prae
scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate
muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur,
exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem
pertinentia ». (2) MOMMSEN, op. e loc. cit., pag. 155. V. il LANGE, op. cit.,
pag. 14, ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae, che sarebbero secondo
lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma di provenienza
settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che apparterrebbero invece ai
Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È questa la Roma, il cui
pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24. Nulla vi ha di ripugnante
nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un
sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre
comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto
esercitò una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasformò in un
centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di
villaggio, che erano disperse in quell'antico septimontium, che ci è descritto
dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino,
il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio (1). Cosi
pure dovette presto entrare nella federa zione anche una comunanza di origine
sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le
tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma,
condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel
periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben
distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è
ancora che lo sta bilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che
già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una
tribù di origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa
già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi
accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed
agli esuli delle comunanze vicine (2 ). Più tardi invece questo nucleo agreste
di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in
alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini, e allora Roma
diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo
il con È pur nota la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero
collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che
fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium.
La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione dal
CARLOWA, Romische Rechtsgeschichte, Leipzig, 1885. Erster Band, § 8, pag. 59 e
seg., dove sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di
confine fra il territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON, op.
cit., pag. 45. (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE,
Iurisprudentiae anti- Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta, Lipsiae, 1879.
LABEO, n ° 14, pag. 111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 25: tuttavia non pare che il medesimo
consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù. 8 cetto latino,
ossia nella sede della vita pubblica di queste varie co munanze. Questi due
stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre
sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal
giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla
divisione della città in curie su bito dopo la fondazione di essa, ma vi
sarebbe invece addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate », cioè
quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel
l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune (1). 8. Gli elementi
primitivi, che secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della
comunanza romana in questo suo primo pe riodo di ingrandimento, sarebbero dalla
stessa tradizione ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella
dei fonda tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul
Quirinale, i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum,
come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme
e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella
infine dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum.
L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito, ove Roma fu edificata, Cosi intesa la formazione
di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione
delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo
assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però non toglie, ed (1)
POMPONIUS, L. 2 Dig. (1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere questa opinione
nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione
tripartita della città, che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle
tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella
storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di
nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacer dotali e
quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla 9
anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla
propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove genti di origine
latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo
esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo
dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle genti albane, quelle
relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed
all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della
gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe
preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa
analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una
analoga ripartizione dal territorio occupato, spiega il carattere che Roma ebbe
poi sempre a ritenere di città eminentemente latina, in quanto che gli
elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei
quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per mezzo di successive
federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non
aequum, in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una
condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva,
oltre all'essere di origine latina, fu anche foggiata sul modello delle città
latine, e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventò
fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro
della vita pubblica di varie comunanze di villaggio. È però naturale, che
questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere esclusivamente la sede
fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confe derazione,
abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di
munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste, che, secondo
Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più
gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano
esservi tre tribù, che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, Les
origines du Sénat Romain. Paris, 1883, pag. 13 e seg., e per l'opinione
contraria Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines. Paris, 1886, pag.
5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in iure è dai Romani
applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto
pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, §
1, Cod. Theod. 12, 1. « Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate
defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che
questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio dalla critica contemporanea;
ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era
ben naturale, essendosi estesa la co munanza colla federazione di altre
popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato
in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non
fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era
della città palatina (1). Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o
sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio della divinità
patrona comune siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gli edifizii
pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il
Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi
reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica; edifizii che al tempo
dell'Impero già erano considerati come una specie di museo, e come tali erano
divenuti oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di
una vita politica, che ormai aveva cessato di esistere. 10. A questo periodo
però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui
cominciò ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze
di villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa,
apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano
per una simile trasformazione. Conveniva anzitutto che alla distinzione delle
tre tribù primitive, che ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si
facessero sottentrare altre distinzioni, le quali so stituissero al vincolo
genealogico il vincolo territoriale, e che gli elementi diversi, che erano
entrati a far parte della stessa comu nanza politica e militare, fossero anche
stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora,
che, secondo la vigorosa espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il
sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per
costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti (2 ).
(1) Dion., II, 37. Cfr. MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 58. (2) FLORUS, III, 18:
« Quippe cum populus Romanus Etruscos, Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum
ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est ». -
ll - Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco, già
cominciano a delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio
Prisco già avrebbe tentato, secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù
alle tre primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma
erasi venuta formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure
sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito
conservatore del pa triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco
dovette li mitarsi a fare entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle
tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di aver raddop piato il
nu mero delle Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli
equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses, Luceres primi
le tre dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche
raddoppiato o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con
aggiungere ai patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è
ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei
lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta
Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già era
incominciata sotto Tarquinio Prisco. 11. L'una e l'altra opera fu poi
continuata da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte
anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri.
Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata
ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova
organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana
ricevette una nuova ripartizione in classi ed in centurie, e il suo territorio
venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera
gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i cui avanzi
formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimo
strano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi
re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger,
che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè
incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle plebs, ormai
già fatta numerosa, che con Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit.
e loc. cit., pag. 81 e seg. 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus
Romanus Quiri tium (1). È da questo momento che Roma appare chiusa e
fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di
una popo lazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di
estenderne ilpomoerium. È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore
del proprio diritto e della propria disciplina dome stica e militare, si mette
in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad
accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di fronte alla
Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia
dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua
unità compatta di fronte alle altre genti. Tuttavia, anche dopo Servio Tullio,
Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione, ma
soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù
rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo essa continua ancor
sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui mettono capo le
popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è
la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai
abbando nato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in
una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio, poi per
tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio dell'impero. 12. Se ho
insistito alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come
non possa accettarsi l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu
pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto
incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin
da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e
dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito
nella for mazione delle città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen,
ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii
inizii fu modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la
capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lasciò
che le genti e le famiglie con (1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI,
Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia. Gennaio 1887. -
13 tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di
villaggio, alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La
sua formazione pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un
processo di selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui
basterà il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva
conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè
universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice
aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città,
come ha fatto il Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà
di Roma fu una proprietà collettiva come quella delle gentes, ciò che è
smentito as solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso
autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di
Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile
e contradditoria la storia primitiva di quel po polo, che ha usato una maggior
logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si
dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come
una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo, che in
tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico, nell'intento di
combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento,
che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a
combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di
erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di
quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle
induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione,
mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi
scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via. È incredibile la quantità
di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta dal
Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè
volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste
fossero una divisione politica della città. Tutta la critica storica tedesca si
pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di
gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi
basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc. cit., pag. 77, ove
dice che le genti erano incorporate tali e quali nello Stato con tutti i loro
territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e che il gruppo della famiglia
e della gens continuava a sussistere nello Stato »; il LANGE, op. cit., pag. 37
e seg., ove con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol
trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano; 14 - 13.
Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai
più verosimili quello, che ebbe già ad esser iniziato dal Bonghi, di prendere
Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esa minate col sussidio della
critica. Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina,
è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine,
e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di
organiz zare, accanto alla vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica,
che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia
memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore
dell'organizzazione gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad
organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica
e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma
lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale;
solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere
pubblico, che prima si compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia, ed
è in tale intento che essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto
pubblico e privato. Una volta poi che quest'opera è iniziata, Roma, con quella
tenacità di proposito, che è sopratutto propria del popolo romano, non si
arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel
proprio seno una vita pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora
conosciuto in un complesso di città, di colonie, di provincie orga nizzate
tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di
un'unica città. La qual opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo
processo, a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per questo
motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni pubbliche
e private di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può
ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit, trad.
Courcelle Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una
aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per
dire che la città non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la
repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore
di una famiglia primitiva », il che certamente non può ammettersi. Del resto la
gravissima questione sarà trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando si
discor rerà della costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti
intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa
formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di
Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua
religione, del suo senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei
suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione
delle sue isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime
sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse
senz'alcun dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la
considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della
ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è il Rubino, secondo il quale
le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono
distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative alla costituzione
primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che sono collegati
con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere;
perchè trattasi (1) Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo
svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi
organico e coerente in tutte le sue parti. Ne derivò che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru zioni ardite, che si
vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intel ligenza di
Roma primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica,
della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi
mo. numenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni
giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa,
che vi sono autori che, se guendo soltanto il formarsi della sua religione e
dei suoi collegi sacerdotali, cerca rono di inferirne gli stadii della sua
formazione progressiva, come tentò di fare il Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de
l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des institutions romaines, Paris, 1886;
altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento
di un istituto particolare, come sarebbe quello del Senato, come il WILLEMS, Le
sénat de la république romaine, Paris, 1878, 2 vol., come pure il Blocu, Les
origines du sénat romain, Paris, 1883, od anche quello dell'or dine dei
cavalieri, come tentò di fare il Belot, Histoire des chevaliers romains, Paris,
1866, 2 vol. — Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella
vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come il Vico ed il Niebuur, ne
ricercarono la storia nelle lotte degli ordini, che entravano a costituirla e
nello svol gimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la
grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia
di un'epoca pre-romana. Esso formò il pensiero costante non solo dei sacerdoti,
dei patrizi, e dei giurecon sulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un
autore, il quale raccogliendo, come egli dice, <... disiecti membra poetae »
potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei
particolari minuti della sua procedura. Henriot, Maurs juridiques et
judiciaires de l'ancienne Rome, Paris, 1865, 3 vol. 16 d'un argomento che aveva
un carattere pressochè sacro per il po polo Romano, e in cui concentrava tutta
la propria vita, per guisa che esso continuò sempre a svolgere con pertinacia e
con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo
stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si riferi scono a
racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accom pagnate, a vicende di
uomini illustri, a quei particolari insomma che dånno vita ed attrattiva alla
storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda
popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla
vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva il Bonghi, che
anche nella prima parte possono essersi introdotte delle altera zioni, che
furono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori (1), ma
siccome trattasi di istituzioni, che ebbero un pro cesso storico non mai
interrotto, cosi egli è ben più facile di rista bilire la verità, che non
quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non
collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad
altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si
veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione
progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in
lotta nell'in terno della medesima. (1) È da vedersi al riguardo Bonghi, La
fede degli storici superstiti di Roma antica, capitolo desunto dalla 2a parte
del II volume, che anche ora non è pubbli cato, malgrado il desiderio che
l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che
egli solo è in condizione di compiere. Rirista storica italiana. Torino, 1886.
Fascicolo 1º, pag. 25 e seg. - 17 - CAPITOLO II. Il patriziato e la plebe in
Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più accertate della condizione di
Roma primitiva si è, che nella popolazione della medesima cominciò fin dai
primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patriziato e
la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo
avrebbe aperto un asilo, ove si potessero rifu giare coloro, che per qualunque
ragione avessero dovuto abbando nare la propria città. Ciò farebbe credere che
la distinzione fra il patriziato e la plebe fosse in certo modo nata con Roma,
quando non fosse certo, che cotale distinzione già esisteva in altre città, e
non vi fossero formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi
vocaboli di populus et plebes (1). Sembra anzi che le stesse tribù primitive,
che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già
avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe
rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di
Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di
affidare ai plebei la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e
l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela dei padri,
il che sarebbe anche con fermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo,
secondo cui i senatori sarebbero stati chiamati patres, in quanto che erano
incari cati di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone
(tenuioribus) (2). (1) La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora
in un documento im portantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è
ripetuta più volte la frase « quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve
iousisse » formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era
tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore delle
proprie leggi. Quella formola dimo stra che populus e plebes dovevano dapprima
essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza,
per qualche tempo ancora i due voca boli serbarono rispettivamente la primitiva
loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, pag.
51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887. (2 ) Quanto al testo di Dionisio, esso è
riportato in greco e nella traduzione latina nel Bruns, Fontes, pag. 3 e nota
2. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo che il patriziato e la plebe, anche
quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far
parte dello stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della
fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano sempre a costituire due
ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne
identità di istituzioni, nè comu nanza di tradizioni, nè il diritto di connubio.
— Mentre il patriziato si presenta colle tradizioni di un passato, le cui
origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e debbono forse essere cercate
nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si
mantengono ancora durante il periodo storico; la plebe invece presentasi
dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e diorigine
probabilmente diversa (1). Essa ha pochissima importanza negli inizii di
Roma,ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a
differenza del patriziato, può continuamente acco gliere nel proprio seno nuovi
elementi. Durante il periodo regio la plebe non sembra ancora essere in
condizione di affrontare la lotta col patri ziato, ma cominciando dalla
repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di
diritto pubblico che di diritto privato, e dalle discussioni, che seguono fra
idue ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a
distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si
ritenevano i fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la
plebe era un elemento, che trovavasi in condizione inferiore e che per la
maggior parte era sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del
patriziato, pretendere ad un pareggiamento completo. Quelli avevano
un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva
ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo: a Patres
senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus,
ac si liberis propriis ». V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello
di CICERONE, De rep., 2, 9: « Romulus habuit plebem in clientelas principum
descriptam » rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 59 ed il Padelletti, Storia del dir. rom.,
pag. 19, sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione
della città, ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di persone libere
nella cittadinanza e nel territorio dello Stato,avvenuta per atto pubblico e
accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare ».
PADELLETTI, op. e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd., pag. 10. 19 --
clientela (1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie dei proprii
antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e che niuno di
essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si deve credere
alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii, allorchè
trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere
il divieto dei connubii fra i due ordini, non conosceva ancora la famiglia or
ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui le
unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae nuptiae, nè
santificate dalla partecipazione al medesimo culto; ma erano semplici
matrimonia, in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto dalla
cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che
ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere una
comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di
Livio relative al plebiscito Canuleio: rogationem promulgavit, qua con taminari
sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da ultimo una
differenza importantissima consisteva anche in questo, che solo il patriziato
possedeva gli auspicia, cosicchè tutti gli atti, che lo riguardavano,
assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur avendo una
religione e feste (1) Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe quella parte
della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non insunt ». È poi
noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe (X, 8 ) gli
oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le
gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del patriziato: «
semper ista audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes
habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc. ». Pare
tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le
quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere
duplice; —o queste gentes potevano derivare dalle popolazionidelle città
latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie,
seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di
queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte della plebe, entrata
a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare l'organizzazione
gentilizia, il che cominciò ad es sere possibile dopo le leggi Licinie Sestie,
colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così Cicerone ci attesta, che la
famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De
Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una gens Minucia, che sarebbe stata
plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori recenti sull'ar gomento sono da
vedersi il Voigt, XII Tafeln, Leipzig, 1883, I, pag. 262 e seg. e il KARLOWA,
Röm., R. G., I, pag. 36 e 37. (2 ) Liv., Hist., IV, 1. - 20 popolari, non
possedeva gli auspicia, nè aveva un proprio culto gentilizio (sacra gentilicia
). Queste differenze erano tali, che sebbene le circostanze conducessero col
tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, era pero naturale, che
essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. 17. Dalle differenze sovra
enumerate questo intanto si può inferire, che in Roma primitiva la superiorità,
che si attribuiva il patriziato sulla plebe, trova sopratutto la propria causa
in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale, ed era
prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promi scuità
primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Esso
sapeva indicare i proprii antenati, aveva con servato gelosamente le proprie
tradizioni, ed era già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di
più erano le gentes, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù,
come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi
riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare
la città, in cui provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge,
espressione della volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza
della loro città del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche
le plebes cioè le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove
era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie, ma chi tenga conto
della umana natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata,
non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe
la massima: prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del
vantaggio, che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili
ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza
civile. Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la
quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo
di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN
nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica, pº Nobility, ove il
patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà
feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des
Romains. Paris, 1870, I, pag. 10, ove parla del patriziato come di
un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le
differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India. Cfr. Muir HEAD, op.
cit., pag. 5-8. - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi
organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della
proprietà quiritaria, riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e di
mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica, e perfino
l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del
diritto, che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei (1). 18.
Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e della
plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia
politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i
servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della
plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i
servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi
nell'organizzazione gentilizia. Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè
riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della
plebe, che è quella veramente, che sostiene e vince la lotta per il
pareggiamento giuridico e politico col patriziato. Quindi è che nè i clienti,
né i servi come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e
civile; poichè i primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici
salutatores, ed i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il
predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto. La questione
limitasi pertanto al patriziato ed alla plebe, ed è quindi l'origine di questi
due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma.
Cið non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione del patriziato e
la composizione della plebe, non pud certo affrontarsi il problema della
origine delle due classi. – Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che
verrà dopo, di osservare che le differenze, che esistevano fra di esse negli
inizii (1) Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte dal LANGE,
Hi stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218. I risultati poi della lotta
sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel cap. I, Le assemblee
elettorali, p. 1-135. 22 di Roma, la superiorità pressochè incontestata dei
patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei nei primi tempi della città
dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere
opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ebbe a
tro varsi; ma dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui
preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di orga nizzazione
sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una di stinzione, così
altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere
cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel
sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine Aria, sovra altre stirpi, che già
abitavano il suolo, sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni.
Essa è una distinzione, che deve certa mente rannodarsi ad una divisione ben
più antica, e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità,
che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi
pervenuti a sta bilirsi in un determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei
vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che
altri aveano prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e
fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi
granti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza
non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popo lazioni
germaniche invasero l'Impero Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori
ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza
della forza, che ci ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di
connubia more foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi
urgentissimo il bisogno di una prote zione giuridica e di una forte
organizzazione sociale (1). Dovettero (1) Sono sopratutto i poeti latini, come
interpreti delle primitive tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente
a questo stato primitivo, in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora
descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra
corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo,
in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in
proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche
la raccolta, che l'Henriot ebbe a fare dei testi dei poeti latini, che possono
avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo: Mæurs
juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris,
1865, 3 vol. I testi, che ram mentano la presunta età dell'oro, si possono
vedere nel tomo I, pag. 5 a 7 e quelli relativi all'imperio della forza da pag.
32 a 38. È poi notabile come tutti i poeti accennino al concetto di un diritto
naturale, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano
con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità
l'origine delle leggi. 23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei
cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono
questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un
aristocrazia territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo
ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa
aristocrazia, che comprese i padri nella famiglia, i pa troni nella gente e i
patrizi nella tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori
forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al
disordine ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta
formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine
inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa
aristocrazia po tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe
privilegiata e che meritava dapprima anche di essere considerata come tale; ma
accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata, i
cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione
gentilizia, in quanto che comprende i servi nella famiglia, i clienti nella
gente, ed i plebei, che cominciano a compa rire colla tribù. Per tal modo nelle
popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e
naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro, e mentre in
una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella
lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si cambiano
in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i servimano
messi dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti senza
patrono formano il primo nucleo della plebe. Padri, patroni e patrizi sono i
sedimenti successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle terre,
dei primi organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti ed i
plebei rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei
vinti, e di quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo
stabilimento delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati
ed escludere qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo
ed essere indi pendenti dal patriziato, appartennero probabilmente alla classe
dei servi e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac
certavano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il
patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che
giunse fino a dire, se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del
resto non era intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a
divinità i proprii antenati) (1); mentre la plebe, memore forse della servitù
antica, trovasi dapprima in una abbie zione pressochè servile, da cui non venne
a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di
famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd
fra le due classi vi ha questa differenza, che la prima tende a tir
coscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una
organizzazione così gerarchica, eome era l'organizzazione genti lizia, la quale
non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti; mentre la
plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad
incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa pud
accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gli emigranti che non
siano ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno delle
famiglie, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano
uniti, abbisognino di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro
ordine, la grande differenza è questa, che nelle origini solo il patriziato ha
una vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima cheuna posizione
di fatto. Il patriziato e il popolo da esso costituito è un ordine; mentre la
plebe non è che una moltitudine, una folla non ancora or ganizzata; quello ha
tradizioni militari, religiose, giuridiche, mentre questa non ha dapprima che
quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di
provenienza diversa e di for mazione del tutto recente; quello ha una religione
gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli antenati, mentre
questa non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbiso gnano di
ricevere una forma religiosa. Ben si comprende quindi, che la distanza era
grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella
stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad en
trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricer care
più particolarmente l'organizzazione già formata del patri ziato, e quella
ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la plebe. (1) Liv., X,
8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo
demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos ! ».
25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione gentilizia. sl.
Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai diversi gradi
della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato
primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da
quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la
comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi
quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre ,
in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine diversa poi
facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere
dissimili, e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse
apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione, che
vennesi ope rando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa
comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia, malgrado le differenze che
potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato romano, comunque fosse
originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di
un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione
gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti
sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di
privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia
stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata
altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il ehe
sembra essere più probabile; (1) L'enumerazione delle primitive genti patrizie
col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle
molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi nel
Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II, pag. 472 a 512. (2) Cfr.
MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determi nare
la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi alle varie stirpi. 26
questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di questa
organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere
diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul medesimo modello.
Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di
dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato
nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e
politico, dal quale è assai difficile sce verarlo. Ciò non ostante dalle
vestigia, che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito
eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che
l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in
gradazioni diverse, tutte stretta mente connesse fra di loro. Esse sono: la
famiglia fondata sull'a gnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla
clientela, e da ultimo la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la
distinzione fra il patriziato e la plebe (1). 21. Sarebbe certo cosa di grande
interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia
abbia prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente, o dalla tribù; ma ciò ci
recherebbe a quel l'epoca e a quel sito, in cui le stirpi Arie ponevano le
prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più
piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia (2 ). Qui perd non sarà
inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di con gettura, che dei varii
gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la
migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il
gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER
MAINE, Ancien droit, p. 121, ma non è invece quella seguita dal Leist, Graeco-
Italische R. G., § 18 a 36, il quale parmi non distingua sempre abbastanza due
cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e
l'organizzazione politica, considerando come altret tante divisioni del
populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. (2) Senza voler
quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso
però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve
ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia,
le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far
parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione,
anche oggi non defi nita, fra il SumnER MAINE, Early law and custom, London,
1883, c. VII, pag. 192 a 232 da una parte, ed il MORGAN ed il Mac-Lennan
dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER
Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie, II, pag. 317 a 348. 27 strato
dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso
ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet tere poi ai proprii
discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche
nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si
effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti (1). Mentre la famiglia è
il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una
vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi
costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che då giusta
mente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione genti lizia, perchè
di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gli altri, e che
può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La
gens infatti è più forte e nume rosa della famiglia, perchè continua a
stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono
anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della
tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di ori
gine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire
argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla.
La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam biarsi in una carovana in
migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche
raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa
mai sorgere questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi
debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che
tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella
gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le
genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, dånno origine
alla tribù, la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad
essere così di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi
tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si ven gono
sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul
medesimo modello, che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono
reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appa riscono come strati
diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr. Willems, Le droit public
romain, 56 édition. Paris, 1883, pp. 25, 30, 31 e 48. 28 conseguenza, che tutti
questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e
politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile, colla diffe renza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor
sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile
e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente pa
triarcale (1) 22. Cid premesso quanto ai caratteri generali della
organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze,
desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di
Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione
si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cid sarà
bene incominciare dalla famiglia, come quella che ebbe ad esser meglio
conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione
gentilizia. $ 2. La famiglia come parte dell'organizzazione gentilizia. 23. Per
quanto sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto
quiritario, sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi
tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse
di origine patrizia. Fra gli altri argomenti l'importantissimo è questo, che
una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione
ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una
organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò
una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle
origini il vocabolo di patres indicava sopratutto i capi delle famiglie
patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci (1) Quanto ai caratteri
comuni al gruppo patriarcale degli Arii, alla gens romana ed al révos dei greci
ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino, 1880. Lib. I,
cap. I, ed all'opuscolo: Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza
civile e politica. Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio
comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine Aria, oltre
le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm.
Königszeit, Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al
modo stesso che il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso
provano eziandio le nozze con farreate, certamente proprie del patriziato, che
nelle leggi attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui
si po tevano contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere
agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un
carattere originario, ma è una conseguenza della stessa organizzazione
gentilizia, di cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che in
questo periodo non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica,
diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e
le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a
ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul
vincolo del sangue. È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana
sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per
guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del proprio
capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella
potestà del padre, era una conseguenza logicamente inevitabile, che come il
padre prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia, cosi
l'agnazione, ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse prevalere
nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come ilnucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Essa
infatti ha una costi tuzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone,
che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il patrimonio, dipen dono
esclusivamente dalla potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi è un vero
e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè
infatti vive il padre, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un
vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che
vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi
il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono
ancora continuare a tenere (1) Dion., 2, 25 e 2, 63, il cui testo è riportato
dal Bruns, Fontes « Leges Re giae », pag. 6 e 9. 30 indiviso il patrimonio comune,
assecondando un antico costume ro. mano, che si esprimeva colle parole
conservateci da Gellio « ercto non cito » le quali significano in sostanza che
non si dovesse pro cedere alla divisione immediata del patrimonio (1). In tal
caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie
di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si
perpetui ancora l'esistenza della famiglia, e si ha così quella famiglia in
largo senso, di cui ci parlano ancora i classici Giureconsulti, che la
chiamavano « familia omnium agnatorum ». Questa indivi sione dovette certamente
essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la
famiglia nel vero senso della pa rola, che comprende tutti quelli che sono soggetti
alla patria potestà, venne delineandosi una famiglia più vasta, che è quella
degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà
del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un
tutto (consortium ), stante l'indivisione del patrimonio. Ciò però non toglie
che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cam biato e che si siano
compresi col nome di agnati tutti coloro, che (1 ) Mi fo lecito di mettere
innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche « ercto non cito » e ciò
in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpre tando questa
espressione, dice appunto, che essa significa « patrimonio vel hereditate non
divisa », Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes, pag. 403). Queste parole
furono poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in
virtù della quale, secondo l'attestazione di Gellio: comnes simul in cohortem
recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et
coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod
iure atque verbo romano appellatur cercto non cito ». - Che poi queste parole
siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva
la divisione immediata appare da ciò, che ercto deriva certamente da ercisco e
cito è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente ». Vedi BRÉAL e
Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris, 1886, pº Ercisco e Cieo. Che
poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per
quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo
citato dal KARLOWA, Röm. R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum
romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum
esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri,
propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent ». È questo
forse il motivo, per cui presso i Romani un heredium potera conservarsi integro
nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere
costituito per in tiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza
mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato nel seguente
capitolo ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >. della pro --
- - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli
che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima
gente (1). 25. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia
patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un orga
nismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo
più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che
giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà
limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal
consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i
temperamenti, chenon vi sarebbero nella natura del potere paterno, si
incontrano invece nel costume e nell'organiz zazione gerarchica, di cui la
famiglia entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che
toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero
l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il
testamento, che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione,
ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia,
devono essere fatti coll' intervento, colla testimonianza e perfino
coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a formare la gente e la
tribù; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei
primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione
legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio, in quanto che
l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso
o per causa di primogenitura, mirano però fino all' evi denza a conservare il
patrimonio e l'amministrazione di essa nella (1) Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De
verb. signif. (50, 16 ): « Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus
omnium agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias
habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae
appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt ». Qui viene ad essere
evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più favorire quella
indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conservò però sempre il
concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del
patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo
dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo
capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo del prof. SEMERARO, Enciclopedia
giuridica italiana, vº Agnazione, vol. I, parte 2*, pag. 720. 32 linea
agnatizia; il che può scorgersi ancora nella legislazione de cemvirale, la
quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere
pressochè intieramente il sistema di succes sione e di tutela, che dovevano
essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. — Quanto
al testamento, esso era certa mente conosciuto in questo periodo, ma collo
spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può affermare con
certezza, che esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli
anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per
sottrarre l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od
impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto è pure da
notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo
gentilizio, in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia un
numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli, dal
vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo; dal quale, secondo
Festo, sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium, che avrebbe
significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era (1) Da
quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a
suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo,
che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli durante la vita del
padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa
guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di cui è dal
novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli
impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi
un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entrava a
far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva certo essere
applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei
legassit, ita ius esto », ma doveva mirare sopratutto all'ercto non cito. Il
testamento esisteva,ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di
trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di
questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli
ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui memoria mando qui un
riverente saluto, nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: La saisine
héréditaire en droit ro main, Paris, 1880, da lui pubblicato nella Nouvelle
revue historique de droit fran çais et étranger, ove, combattendo il Maynz ed
altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti
dell'eredità, senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in
base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da
aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione genti lizia prima
esistente, idea, che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le pa role con
cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V.
Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od
urbano (familia rustica, familia ur bana) che la famiglia primitiva veniva ad
essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio
diede un carat tere speciale alla vita economica dell'antichità e cooperò a
dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte
le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota il Padelletti, di fare
in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il
corso del loro processo produttivo, perchè i servi erano impie gati non
soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei
prodotti. Per tal modo ogni famiglia tendeva a supplire a tutti i suoi bisogni,
e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere
ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e
intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia
affer marsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie
fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso
frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti
dall'industria pastorale (quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e
Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i
patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti (2 ). e (1)
PADELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella
famiglia primitiva è da vedersi il PERNICE, M. Antistius Labeo, Halle, 1873, I,
pag. 110 e seg., ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno
parte, sopratutto il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig, 1879.
Erster Theil, pag. 133 a 191. (2) Fra questi vocaboli basti citare quello, che
ebbe poi tanta parte nel vocabo lario giuridico, di agere, che, secondo il
BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare », e si
applicava sopratutto al gregge; quello di grex talvolta applicato al popolo;
quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era
distribuito per dare il voto nei comizii; i vocaboli di abgregare, adgregare,
congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale (Bruns,
Fontes, pag. 331); quelli di pecunia, di peculium, di peculatus, di ager
compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388
) finisca per esclamare: « Romanorum populum a pastoribus esse ortum, quis non
dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes
anti quissimum, quod est flatum, pecore est notatum ». Si vedrà invece a suo
tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza
in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù, e
poscia nell'ager pubblicus della città, la plebe invece fin dagli inizii diede
sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio
heredium o mancipium. Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34
27. Del resto quello, che qui importava, era sopratutto di mettere in evidenza
il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra le isti tuzioni
anteriori alla comunanza, è certamente quella che conservò più lungamente il
suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel
patriziato romano quelle stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose,
che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo
gentilizio. La sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei
padri del gruppo gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o
la testimo nianza dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi
devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome accade nelle
confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei
Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il
patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in
calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve
esposizione dei ca ratteri della famiglia del patriziato romano dimostri
abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto
pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla (1 ), in quanto che la medesima
già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa
della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia,
di cui era entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale
dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è
già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi
per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da
associa zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche
questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensi bile, se non
fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico
pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero lo SPENCER ed altri
sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pa
storale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di
quell'organizza zione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata
presso il primitivo patri ziato romano (V. SPENCER, Principes de sociologie,
Paris, 1879, II, pag. 338 e seg.). (1) Tale è ad esempio l'opinione del Sumner
Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER, op. e loc. cit. - 35 -
$ 3. La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia,
quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i
caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della
gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive
fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la
comunanza civile e politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza
civile e politica, ad essere sottoposta ad un processo di dissolu zione, in
quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un
carattere politico o militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a
poco assorbite dalla città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande
autorità del Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una
interpretazione che non può essere ammessa, pose gli investigatori della storia
primi tiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere
per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della
città (1). Per tal modo l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR, Histoire
romaine, trad. Golbery, Paris, 1830, Tome II, ove parla: des maisons
patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico,
avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie, pensò che queste
decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione
genti lizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha dominato le ricerche
contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che occorre pressochè
universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù, queste in
curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più
recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un
ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa
distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA, Röm. R. G., I, § 2, il quale
continua ad essere intitolato: Das Volk und seine Glie derungen (tribus,
curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes;
ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione, $ 23,
pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit public romain, Paris, 1883, pag. 36,
che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes. Questa
distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto
ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus
hominum, il che significa solamente, che nella composizione delle curie si
teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava
al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle
gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36 città venne ad essere confusa con
quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si
confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli,
ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le
conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in
una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che si
vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che
anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di
organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale
dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata
nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche (1).
Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per
circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle
sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo
carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte
trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di
ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto
alle dekádes di Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una
divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una
divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV, p. 96-104, 1874). Si può
infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si
dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive
degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei
Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali,
essendo un ampliamento della fa miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori
e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di aver richiamato
l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi
sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété primitive et
l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che
il primo che abbia, se non provata, almeno intuita questa organizzazione
patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per
compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle
istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib. II, ediz.
Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V, p. 269, ove parla dell'economia poetica e
dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali
prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già
erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto
dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non
solo presso i Greci,ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot,
Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti
gli Arii e quindi anche aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più
argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del
diritto, lib. I e II, e sopratutto a pag. 90 e seg.) i 37 esse più di tutte le
altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi
e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono
le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la
conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da
qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo
patriarcale, la gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta
può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è
talora indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato
origine a tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per
significare la gens nel se guente passo di Festo: « Familia antea in liberis
hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et
materfamilias; unde familia nobilium Pompi liorum, Valeriorum, Corneliorum
(Bruxs, Fontes, pag. 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt,
Die XII Tafeln, Leipzig, 1883, II, pag. 760. In ciò si ha una nuova prova che
la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i
due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è difficile trovare negli antichi
scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus, loro pare invece di
essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in
altrettanti capita. Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici,
che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un
complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di
una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della
gens Claudia, da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens
Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze
affrontare, secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa
militare, che in tristi circostanze ap pariva ardua alla intiera città. 30. Non
è dubbio tuttavia, che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio
dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla
familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una
quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha
dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la
patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio, probabilmente
chiamato here dium, che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona
del proprio capo. Di qui la conseguenza, che tutti i discendenti nella linea
maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio
e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo
costituivano la famiglia in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a
mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa
trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se
invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano
a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni
l'unità primitiva, in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui
ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima
gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il
proprio antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della
famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come
tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità,
allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag.
8 e segg. - 39 guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del
patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente
allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti
coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa
persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il
comune capo non fosse premorto. Non è quindi il caso di dover supporre col
Muirhead, che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela
legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale
per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di
genti. Gli artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si
creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è
quella, ad esempio, che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre
analoghe. Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad
una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa
naturale, come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo
sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento
dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello
più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da
uno stesso antenato, ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè
avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente
strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa
creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a
base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già
esistevano pre cedentemente (1). C (1) Che l'ordine degli agnati sia stata una
creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi
enunciati dall'illustre autore dell'Historical Introduction. Egli quindi
insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e
nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo
argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati, ove il
giureconsulto mentre dice che: lege duodecim tabularum testamentariae
hereditates confirmantur », usa invece, quanto alla successione legittima,
l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum
descendit », espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima.
È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo della successione
degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli
heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del
MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della
successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve 40 31. La gente
intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio
paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa
poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile, che si
staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una
sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad avere
lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano perd
darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di
persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche
allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle
diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo
modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono
seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio,
della gens Claudia, la quale già numerosissima conservava ancora una sola
denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina
diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo
cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della gens
Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui
anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cercava di
imitare l'antica or ganizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae
staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un
antico vincolo di clientela, che stringeva l'antenato, da cui parti la forma zione
della gente plebea, ad un'antica gente patrizia. 32. Bastano queste
considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle
dire il giureconsulto; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento
di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione
legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può
vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un
sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione
di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza
testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine
degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione
gentilizia; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di
gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è
fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò del resto sarà
meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della
successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai
caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 15 e
seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo, che, ad una compattezza pressochè uguale a
quella della famiglia, accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù,
sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di
propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che
guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in essa potessero anche
perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi
al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di
un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di
influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure
deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di fronte alla potenza
assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal periodo regio con
Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi secoli, sostennero in
poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi
sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto
larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati
loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per
consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che
si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio
fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli
onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra il fatto, che
essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius
imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza.
33. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono
raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti
italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei
particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè: 1 ° alla
discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel
sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a
costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi
mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è
quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio
Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da
Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte
alla plebe. Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di
privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas
era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue
non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la
conseguenza eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che
gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del
loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati
anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da
Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei
gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale,
parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude
certamente, ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi
aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è
pur confermata da ciò, che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii
se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però, che il
vocabolo patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui
intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini
romani avessero tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava
l'individuo, l'altra che era il vero nome (nomen) designava la gente, a cui
egli appar teneva in quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva
le diverse famiglie, e la terza infine (cognomen) designava la famiglia, in
quanto questa era una particolare diramazione, della gente (2 ). A queste
appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis: «
Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur ».
Bruns, Fontes, pag. 339; VARRO, De lingua latina, VIII, 4: « Ut in hominibus
quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut enim ab Aemilio
homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen
tilitates nominales ». Bruns, Fontes, pag. 389; Isiporus, IX, 2, 1: « Gens est
mul. titudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum,
id est a gi gnendo uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409; CICERO, Top. 6: «
Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt. Qui ab ingenuis oriundi sunt.
Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Qui capite non sunt deminuti ». V.
anche Liv., X, 8. (2 ) Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il
MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885; e sopratutto la trattazione
veramente magistrale del Mar QUARDT, Das Privatleben der Römer, Erster Theil, p.
7 a 25. Ivi egli nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen, come
gli Antonië, i Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13, not. 2. Quanto agli esempi
citatinel testo a pag.40, è pare a ve. dersi il Bonghi, Storia di Roma, I,
Appendice sulle primitive genti patrizie, nella parte, che si riferisce alla
gens Claudia e Cornelia, pag. 490-91. 43 uno o più soprannomi (agnomina), che
servivano a contraddistin guere l'individuo stesso o per essere egli stato
adottato da altra fa miglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le
suddistin zioni operatesi nella stessa famiglia (1). Può darsi che in antico
potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a
cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i sopran nomiprimitividi
Regillensis, Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb besi un indizio nel
fatto, che allora quando il territorio di Roma fu veramente distribuito in
tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le
denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo
particolare. Del resto questi caratteri particolari della gens sono anche com
provati dalla radice gen, comune alla gens latina e al révos dei Greci, che
significa generare e produrre; come pure da ciò, che i nomi gentilizii sono
nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius
hereditatis, il ius curae, il ius sepul chri sono di carattere eminentemente
privato. Così è pure dei sacra gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra
i sacra privata, che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra
pub blica, che si compiono invece a pubbliche spese (3 ). Solo sembra far
eccezione il ius decretorum; ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo
storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato, il medesimo pud
facilmente essere spiegato quando si consideri, che la gente aveva compiuto un
tempo funzioni politiche, che non po terono scomparire di un tratto anche colla
formazione della città (4 ). (1) Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius
Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius
Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT, op. cit., p. 15. (2 ) VARRO, De ling.
lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab
oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent ». BRUNS, pag. 387. (3
) FESTUS, p Publica: « Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt,
quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis
homi nibus, familiis, gentibus fiunt ». Bruns, pag. 358. (4 ) I casi ricordati
dalla storia, in cui le gentes si sarebbero valse del ius decre torum,
sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò ai suoi membri il celibato e la
esposizione degli infanti (Dion. IX, 22 ); la gens Manlia proscrisse il prenome
di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia quello di Lucius (Svet., Lib. I),
che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però fu il Senato, che
prese simili prov vedimenti, vietando il prenome di Marcus agli Antonië (Plut.,
Cic., 19), e quello 44 35. È invece assai più difficile l'argomentare quale
potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che
ne rimangono nel periodo storico. Non si può anzitutto accertare, se la gens
avesse sempre e costantemente un proprio capo (princeps gentis) (1), o se il
medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità
di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come
quando, ad esempio, Atto Clauso avrebbe abbandonato Regillo per recarsi a Roma.
Questo però è certo, che la gente dovette avere un consiglio di anziani o di
padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conservava e trasmetteva le
tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli ar bitri e gli
amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii
capi di famiglia, che appartenevano alla mede sima gente. Era questo consiglio
parimenti, che sull'ager gentilicius faceva degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente; era ilmede simo ancora, che poteva richiedere il servizio militare
non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche dei dipendenti da essa
(gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra intendeva alla
pubblica e privata condotta dei singoli capi di famiglia, preveniva e reprimeva
gli abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio che i capi di famiglia,
contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni (bona paterna
avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della
famiglia e che, potendo, dovevano trasmet. tere ai proprii eredi. Era la gente
infine che, in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a succedere al capo di
famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche provvedere alla
tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di
Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tac., Ann., III, 17). Partivano eziandio dalla
gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito
l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome, Paris, 1886, n. 114,
p. 97, dove dice che la gens conservò il suo sepolcro gentilizio, finchè si
mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin
sotto l'impero. Fu al lora che incominciarono i sepolcri di famiglia od
ereditarii. Secondo quest'autore ($ 118, pag. 99), mentre i liberti
partecipavano ai sacra gentilicia, e quindi proba bilmente anche al sepulchrum
gentilicium, essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale
avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In proposito del princeps gentis o
magister gentis è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 771 e seg., ove
parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45 - fani prima di essere pervenuti
alla pubertà, come pure doveva es sere essa, che facevasi vindice delle offese,
che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo
fra i membri della gente esisteva l'obbligo della reciproca assistenza, per cui
dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti
nelle loro controversie, e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati
(1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello
del sepolcro, sarà facile il comprendere come un gruppo così intimamente
connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte, nelle
cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze
contrarie che si vennero svolgendo nella città (2 ). Esso continud, durante il
periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie, come
lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di gentilicius, l'esistenza anche nel
periodo storico di un ager gentilicius, quelli dei sacra gentilicia, del
sepulchrum gentilicium, per modo che, anche prima del for marsi della città,
dovette svolgersi tutto un ius gentilicium, che governava appunto i rapporti
fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio. Esso
quindi non deve confondersi col ius gentilitatis, che indica il complesso dei
diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il ius civitatis indicherà
poi i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio, che il
vocabolo di iura gentium, che poscia ebbe a prendere un così largo svolgi
mento, dovette nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che
intercedevano fra le varie genti e i capi delle mede sime (3 ). (1) Quanto ai
poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il
Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 774. (2) La bibliografia copiosissima intorno
alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 7 in
nota, come pure nel WILLEMS, Le droit public romain, pag. 36, nota 4. (3) Fra
gli autori recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium, sono a
vedersi sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag. 35, il MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius
gentilicium, che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei
gentiles e quella dei dipen denti da essi o gentilici, il ius gentilitatis che
significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente
(gentiles), e i iura gentium, che governano i rapporti fra le varie gentes. -
46 $ 4. – Il patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia. 36. Fra
gli istituti di questo ius gentilicium, quello che più me rita di essere preso
in considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause
del numero e dell'importanza, a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I
clienti, durante il periodo storico, costituiscono una classe in feriore di
persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere
ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda
(1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate
coi vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo
l'opinione ora general mente adottata, deriva da cluere, che significa audire
nel senso di essere obbediente (2). Come tali, i clienti entrano a far parte
della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la
quantità di gentiles; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel
gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in una
posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei
famuli in seno dell'organizzazione domestica. Essi non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo
storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più
particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il
patrono ed il cliente, attribuendo l'istituto della clien (1) Cfr. Willems, Le
droit public romain, pag. 26. Non potrei però convenire in ciò, che egli
considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore,
perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di
diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico, che bastasse ad
attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale
qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono, mediante cui
poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come potessero essere
considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali
non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma
abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della
confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica. (2 ) V.
BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. (3 ) Cfr. MUIRHEAD, Encyclopedia Britannica,
vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo stesso Romolo; ma egli è
evidente, che anche la sua descri zione già altera alquanto le primitive
fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella
convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e si era svolta
nell'organizzazione gen tilizia. Secondo Dionisio, il cliente aveva delle
obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo
semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto; deve ac
compagnarlo alla guerra; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa sioni, come
nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se
siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di
giustizia, ed anche quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i
clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla
cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le
terre loro assegnate facevano parte dell'ager gentilicius, proprietà collettiva
della gente; il che non rende esatta,ma spiega l'antica etimologia as segnata
al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati « quasi colentes »,perché
avrebbero coltivate le terre dei padri (1). Infine Dio nisio parla perfino
dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale
dimostrerebbe come la clientela, adatta al gruppo gentilizio, veniva ad essere
un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica (2 ).
Alla sua volta poi il patrono doveva al cliente protezione e di fesa, e quindi
era tenuto a provvederlo diciò, che fosse necessario per il sostentamento di
lui e della sua famiglia, il che facevasi me diante concessione di terre, che
il cliente coltivava per suo conto. Esso doveva di più assisterlo nelle sue
transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio, apprendergli il
diritto (clienti promere iura ), ottenergli risarcimento per le ingiurie
patite, averlo in certo (1) È Servius, In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare
il vocabolo di clientes da quasi colentes in quanto che scrive: « Si enim
clientes quasi colentes sunt, pa troni quasi patres, tantundem est clientem
quantum filium fallere ». Bruns, op. cit., pag. 403. Parmi tuttavia che,
tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi
colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto
all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che
anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. (2 ) Diox.
2, 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispet tive
del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela
a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4. 48 modo
in considerazione di membro della gente, ancorchè in con dizione inferiore, in
quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente veniva bensì dopo gli agnati,
ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro
gruppo (1). Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuri
dica, erano collocati sotto la protezione del fas come lo dimostra la
legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione
certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus clienti fraudem fecerit,
sacer esto », ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii avevano un
carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi
allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione diversa, cosi Dionisio va
fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio,
condizione anche questa, che, consentanea al carattere dell'organiz zazione
gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica, ove
ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad
un'autorità, che accorda a tutti la propria protezione (2 ). 38. Basta questa
breve esposizione per dimostrare, come la clientela fosse un istituto nato e
svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continuò ancora per
qualche tempo a produrre i proprii effetti nella città, ove tuttavia si trovò
compiutamente disadatto, perchè ripugnava a quell'uguaglianza di posizione
giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla medesima cittadinanza.
Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a
trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che tro vansi in condizione
inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione
del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza,
che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di
loro si (1) MASURIUS SABINUS, « In officiis apud maiores ita observatum est;
primum tu telae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini ».
HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad
un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V,
13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è
affermato da Festus, yº Patronus. « Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus
sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter
domesticos quodammodo possunt >; Bruns, pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische
R. G., I, pag. 39. 49 attennero ancora strettamente alla propria organizzazione
e rappre sentarono in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella
medesima città; ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela
riusci solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto; senza più importare
quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un
tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano
il patrizio od anche l'homo novus nella piazza e nel foro e ne costituivano in
certo modo il corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia
non tolse, che il vocabolo cliente sopravvivesse alla istituzione da esso
indicata, e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al
patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi
uffici, che il patrono aveva certamente avuto verso il proprio cliente.
Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera
clientela già scompariva nei rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo
sopravvivere nei rapporti dei cit tadini Romani colle altre genti, in quanto
che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni
gen tilizie, col quale un individuo, un municipio, un Re od un popolo straniero
ricorrevano al patronato di un cittadino Romano per far va lere o avanti al
Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero
stati in caso di far riconoscere (1). Così pure nell'interno della città, la
clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre
ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo delle elezioni,
nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che
ricordano uno stato di cose ormai scomparso. (1) Accenna al ius applicationis
CICERONE, De orat. 1, 39, ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il
carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET,
vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. Les
institutions politiques de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso
converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma,
che rivestiva il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe
affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia. Le formole epigrafiche, da lui
citate in nota, si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già
stata creata a somi glianza di quella prima esistente. Del resto punto non
ripugna, che anche la clien tela potesse assumere un carattere contrattuale e
che la formola di essa potesse anche essere analoga a quella ricostrutta dal
Voigt. « Te mihi patronum capio. At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa
di analogo anche nella deditio. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50
39. Quanto alla clientela, fu sopratutto disputata ed ha veramente grande
importanza la questione intorno alla origine di essa. Si è sostenuto in
proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto
il patronato dei patrizii; che essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti
a vassalli; che fossero gli im migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da
Romolo; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione,
posta in nanzi dal Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli
obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si
mantengono durante il periodo storico a carico dei liberti verso il patrono (1)
Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella
sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere
dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i
primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un
lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati clienti
nel seno della gente, a cui apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo
naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che, se
cosi non fosse stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale
e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così
a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere
na turale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii
e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costu manza per cui coloro,
che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come
clienti o gentilicii nella gente. La clien tela in tal modo veniva a costituire
una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo, e si
comprende eziandio come la sua coabitazione in una famiglia potesse da una
parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro
gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di
servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, (1)
L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli
autori, che ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, Le droit public Romain,
pag. 28; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom., pag. 9. - - 51 - 40. È in questo
senso che il concetto del Mommsen può essere accettato; ma il medesimo vuol
essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo, che
è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta creata la
configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi usciti dal
seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi fare entrare in
essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo
abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro tezione o
difesa di esso. Come quindi era stato naturale, che il servo affrancato dal
capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso apparteneva, così
dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso,
giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi nella medesima anche
gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente, vincolandosi mediante il
ius applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono;
quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie
genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di
religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza; quelli, che erano
soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel
sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno
stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di terra e
riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma, che in
un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa presso la
gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo, riteneva di
poter accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando perd ai medesimi una
posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la clientela fosse una
istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale, poichè
serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si
sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di diritto, e quindi, mentre
da una parte accresceva il numero e la forza delle genti, dall'altra procurava
al cliente una protezione giuridica, di cui sa rebbe stato altrimenti privato.
In questo senso non è certamente (1) Questa più larga estensione data
all'origine della clientela,che, senza escludere l'opinione del MOMmsen, la
comprende, sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio, V, 13: «
Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt ». 52 destituita
di fondamento la potente intuizione del nostro Vico, il quale riteneva che la
clientela o come egli la chiama il famulato fosse un mezzo indispensabile per
giungere ai governi civili, in quanto che essa fu effettivamente il primo
mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono,
coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un
gruppo, a cui non appartenevano per nascita, senza tuttavia essere assorbiti in
tieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi (1). Non può
quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente
in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero
che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe
sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale.
Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia,
il com parire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica
in seno della tribù, donde la conseguenza che la città for mandosi soffocherà
la clientela, mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la
plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia. $ 5. La tribus come il
gruppo più ampio dell'organizzazione gentilizia. 42. Al disopra della gens
compare infine nella organizzazione delle genti Italiche un'aggregazione più
vasta, che è quella della tribú, come lo dimostra il fatto, che, secondo la
tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e
dei Luceres, che sarebbe uscita la città di Roma, allorchè essa cesso di essere
il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni
anteriori alla città, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive
fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni eser citate, era tra le varie
aggregazioni quella, che più si accostava alla città propriamente detta, così è
anche quella, che per la prima fu assorbita dalla medesima, per modo che il
nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non
l'avesse (1) Vico, Seconda scienza nuova, Lib. II. Della famiglia dei famoli
innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le città. Op.
comp. Ed. Milano, 1836, vol. V, pag. 296. 53 conservato la curiosità
investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia
nelle sei centurie degli equites (sex suffragia) composte dei Ramnenses,
Titienses e Luceres primi et secundi (1). 43. Gli è perciò che come fu assai
difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia,
cosi non è meno dif ficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi
la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda. Di questo
pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte
da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo
di una gente preva lente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome com
plessivo, il quale percið era ricavato dalla persona, che guidava la tribù, più
che dal luogo, ove questa era stabilita. Così, per arre starsi alle due tribù
primitive, la cui origine è meglio accertata, si può essere certi, che la tribù
dei Ramnenses ricava il proprio nome complessivo da Romolo e da Remo, che erano
a capo di essa, se condo la tradizione; il che è pure di quella dei Titienses,
il cui nome deriva da Tito Tazio capo della tribù sabina, stabilita sul
Quirinale; nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere
composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di
una gens Romilia, Titia è Claudia, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes
o Ramnenses, dei Ti ties o Titienses, e dei Claudienses. (2 ). Di qui pud
indursi, che la (1) Non mancano negli autori delle trattazioni anche
relativamente alla tribù; ma di regola essa suol essere considerata come una
ripartizione della città, nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che
sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città. Tutti però
concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul
vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio,
desunte invece dalle località, ove erano stabilite. Cfr. CARLOWA, Römische
Rechtsgeschichte, I, pag. 79 e seg. (2) Non può certamente essere accettata
l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. 55 (Bruns, pag. 378 ), il quale vorrebbe
in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro,
che sarebbe stato fra esse distribuito. « Ager Ro manus, primum divisus in
partes tres, a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum ». Infatti
l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da
Dionisio, che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località,
ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo
modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il 54
tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggre gazione di
gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza,
si raggruppano intorno al capo della stirpe pre valente fra di esse e mentre
conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un
nome, che desumono dal proprio capo. 44. Questa formazione novella viene poi ad
essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere
oc casione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú
- o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei
Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una
spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una vera e
propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita
sul Qui rinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso essa assume immedia
tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione di una divinità,
comune patrona, perchè fra le genti primitive non si pud comprendere
un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme
(1). Qui intanto l'unificazione del gruppo diventa indispensabile, anche per
l'intento che la tribù si propone di con seguire, e quindi viene ad accentuarsi
assai più che nella gente la figura di un capo, che potrà prendere il nome di
praetor o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire: « Ab hoc agro quatuor
quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana, Palatina, Esquilina,
Collina, etc. ». Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una
divisione dell'agro fra le tre tribù, dal momento che ciascuna continuava ad
avere il proprio terrritorio, salvo che si trat tasse, non di una ripartizione
di territorio, ma di una divisione meramente ammi nistrativa, come dovette
appunto essere. (1) Secondo il Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile
nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui
Pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses
sarebbe stato quello di Marte e Quirino; quello della tribù dei Titienses
sarebbe stato quello di Quirino e di Giano e quello infine della tribù de'
Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino
talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino,
come pure diGiove e di Giano. Si può aggiungere, che della triplice divinità
rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che erano quelli diMarte,
di Qui rino e diGiove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe indizi dei
diversi stadii, che Roma ebbe a percorrere nella sua formazione progressiva.
Institutions Romaines, pag. 477 a 494. 55 tator, se la tribù trovasi avviata ad
una spedizione; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una
comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito; dimeddix, come
accadeva presso gli Osci, ed infine anche di rex, sebbene questo vocabolo,
sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città
propriamente detta. Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora
designato di preferenza dalla nascita, che non dall'elezione; come lo dimostra
il fatto, che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe
regia e per essere gemelli debbono cono scere mediante gli auspicii quale di
essi sia chiamato a fondare la città, o meglio il primo stabilimento romuleo sul
Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo debba già
trasfor marsi in reggitore della civitas, formatasi mediante la confedera zione
di varie tribù, in allora, secondo Dionisio, sarà già necessaria l'approvazione
dei padri e la creazione del popolo (1 ). Però accanto al capo si mantiene
ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres, perchè è
effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già
viene data la deno minazione di senatus. Infine nella tribù già può avverarsi
la riunione (comitium ) degli uomini, che colle armi (iuniores) o col consiglio
(seniores) possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse; donde
la conseguenza, che già nella stessa tribù può ve nirsi iniziando il concetto
eminentemente concreto ed organico del populus, salvo che gli elementi per
costituirlo si ricavano ancora direttamente dalle varie genti (ex generibus
hominum ), cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un
carattere prettamente gentilizio. 45. Questa naturale formazione della tribù
dimostra, come la me desima corrisponda fra le genti Italiche a ciò che per
l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc o comunanza di villaggio, e
fra iGreci col vocabolo di dñuos (2). Essa costituisce in certo modo (1 ) Dion.
II, 3. (2 ) V. HAUSSOULIER, La vie municipale en Attique. Pref., 3. Devo però
far no tare che, secondo l'autore, il dñuos dei Greci sarebbe già una vera
associazione civile e politica e corrisponderebbe alla curia e più soventi al
pagus, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente
diverse. La curia infatti è una divisione politica delle città, mentre il pagus
sarebbe la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il
dñuos corrisponda a quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui pervenne
l'organizzazione patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il
modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già
si vengono elaborando quegli elementi, che, trasportati nella comunanza civile
e politica, finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è
quello della civitas, il quale più non dispiegasi nel pagus come la tribù, ma
bensi nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di
ricostruzione, che la tribù mal pud essere stata l'ultimo stadio
dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima
ripartizione della città; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si
consideri, che era dalla tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in
base a cui si costituiva la città, come lo dimostrano anche i vocaboli di
tribunus, tributum, tribunal, i quali tutti richiamano l'antica tribù, e quindi
era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni Italiche, che
l'edifizio novello della città si ripartisse nell'interno sul modello degli
elementi primitivi, che con correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le
tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già
genealogico come le tribù primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere per ora
trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è
certamente colla formazione delle tribù, il cui nucleo è ancor sempre composto
di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo
naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono
un capo, si venisse formando una comunanza plebea, che provvedesse al proprio
sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o
esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo
elemento poteva essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro
servi e coi loro clienti fossero organizzate in guisa da poter bastare da sole
a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso
svolgimento di questi varii elementi nell'India, nella Persia, in Grecia e in
Roma, vedi Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita so ciale.
Lib. I e II, come pure: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza
civile e politica, colle opere ivi citate. (1) La distinzione è fatta nettamente
da Dionisio (4, 15), il quale chiama la tribù primitiva qulai revikai e quelle
di Servio Tullo qulai totikaí. - 57 antiche formole, in cui parlasi di populus
et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si
chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti,
secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tra dizioni,
mentre invece si chiamd plebes dapprima e poscia plebs (da pleo, riempire)
quella moltitudine ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a formare con
clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal
gruppo gentilizio, potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e
molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle primitive istituzioni
sociali, che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive
è la forma zione di un nuovo gruppo; ma quando esso è formato e corrisponde
alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gli
elementi, che per questo o quel motivo si vengono stac cando
dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano un nucleo
novello a cui possano aderire. § 6. Sguardo sintetico ai varii gruppi
dell'organizzazione gentilizia. 47. Riassumendo questa lenta e faticosa
ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche anteriore alla
città, credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione
stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea
formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero
sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che formansi in
ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano in quelli che
vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della pro
venienza delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già re cassero con
sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto
quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle
genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e
vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono
la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi
dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di una potente
ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse 58
anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una
posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per
rendersi atta a sostenere i con. flitti cogli altri gruppi, si venne
concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra
quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice,
di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi.
Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in
servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due
classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per contrassegnare
in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel
carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della famiglia gentilizia,
che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla
medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti romani più non
ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La gente invece
continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè giunge ad
una concentrazione uguale a quella della famiglia; ma intanto, memore del culto
del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa
compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in
una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del
l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie,
dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù. Intanto però
anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia,
salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che
furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e vengono cosi a
trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un
carattere pres sochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così pure nella
gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a svolgersi un
elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale costituisce un
consiglio degli anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni,
che appartengono alla gente. Da ultimo nella tribu havvi pur sempre
un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente,
che predo mina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe
regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un capo, che è
il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il
consiglio degli anziani, che già mutasi in senato, 59 perchè è già composto dei
capi di genti diverse, ma intanto aggiun gesi l'elemento democratico o popolare,
che componesi di tutti gli uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono
valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cid però non toglie, che
continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che
accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della
comunanza gentilizia e ha percid più un'esistenza di fatto, che non
un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal
patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto
delle genti; ma cið non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia
alla città essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico
ordine di cose. Per tal modo si avverò nel periodo gentilizio una vera forma
zione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che
entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi,
mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e
gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base alla futura
città: Tantae molis erat romanam condere gentem. Non è già che questo processo
di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti Italiche, in quanto che
le traccie di essa ap pariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine Aria
ed anche presso quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna però giunse
a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e
precise delle stirpi italiche, e furono esse parimenti che, gettando nel
crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio,
seppero ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città. (1) Ciò è stato
provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 107 a 163. È poi
interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene facendo il
Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che vigeva presso
gli Egiziani nella sua opera col titolo: Cours de droit égiptien, Paris, 1884,
della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle
forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, La
condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886. - 60
CAPITOLO IV. La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti alla
medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia primitiva
di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive
di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo
quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà, che suol
essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne
ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior parte
dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano
presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte
infatti, anche dopo la formazione della città, si rinvengono ancora le traccie
di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il nome di ager gentilicius e di
ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si presenta fin dai
proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino
escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva.
A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci
dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizionitali da
concentrare nelle sue mani tutto il capitale (pecunia ) allora esistente, e
come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio,
dall'altra la tradizione parla di una ripartizione fatta da Romolo del
territorio Romano e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri (bina
iugera) ai capi di famiglia, che lo avevano seguito, il quale assegno avrebbe
co stituito il primo patrimonio (heredium ) del più antico patriziato, che era
quello della tribù dei Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di antichi
scrittori che si riferiscono all'argomento: VARRO, De re rustica, 10, 2: « Bina
iugera, quod a Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium
appellarunt». Plinius, Hist. nat., 18, 2, 7: « Bina tunciugera populo romano
satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus) ». Lo stesso Plinio
poi, 18, 3, 10 scrive: « M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem,
cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi post ex ictos
reges adsignata esto. Brons, Fontes, pag. 387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61
49. Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate
in direzioni compiutamente diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata
in Roma sia stata una creazione dello Stato, ma contro questa opinione si è
giustamente osservato, che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto
ignota ai Romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro
parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia
ne furono escluse (1). In senso contrario si fa perd notare, che non può
ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione
storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma
avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altri popoli
non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro
evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle
opi nioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente
alle seguenti. Vi ha l'opinione del Niebhur, del Mommsen, seguita anche da
molti altri, fra cui noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma,
come presso gli altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e
non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che
colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti
dallo Stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non
fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche
al patriziato. Per contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa,
appariscono fatti ai plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa
eccezione Cicerone, il quale direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini
l'agro pubblico conquistato sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De
rep. II, 14 », ma in ciò è contraddetto da Dionisio, il quale parla di una di
stribuzione da Numa fatta ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti
ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi
Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra
gli altri da Columella, De re rustica, 1, 3, 10, « Post reges exactos Liciniana
illa septem iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores quaestus
antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta ». Ho citato
questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi
di famiglia fu quello di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono
fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i
loro agri gentilizii. (1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con
annotazioni del prof. Cogliolo, Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza, e a
parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri
poteva bastare ai bisogni della famiglia, stante la coltura intensiva applicata
al medesimo. - 62 singoli cittadini (1 ); e vi ha quella invece, sostenuta con
ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa
origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima,
quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse
parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente pri vato ed avrebbe segnato
il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà (2). 50. È
poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle
proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in
quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle
proprietà, così la ricerca delle sue origini presso un popolo, le cui istituzioni
esercitarono tanta influenza sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il
carattere di un problema economico e sociale. Sonvi infatti coloro che, come il
Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento
collettivo della proprietà, vogliono trovare, anche presso (1) L'autore, che
primo approfondì i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è
certamente il Niedhur, Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra
partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà
privata, e che questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti
alla plebe. La sua opinione fu seguita dal Puchta, Corso delle Istituzioni.
Trad. Turchiarulo, $ 285, dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII,
pag. 189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti
articoli sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti
nell'Enciclopedia giuridica italiana, come pure nel suo precedente lavoro, La
gens in Roma avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op.
cit., pag. 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della proprietà
cominciò dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit, chap.
VIII, Histoire de la propriété primitive, pag. 231 a 288. Essa poi fu allar
gata dal Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives, dove si
oc cupa della proprietà presso i Romani da pag. 177 a 193. Di recente poi la
discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i
Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE COULANGES
all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli sostiene che
anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà famigliare e
privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson, l'AucoC e il
Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la proprietà e la
famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi Germani. Compte
rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885, 1er vol., pag.
705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE COULANGES, quanto
alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata già sostenuta in
modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of Land-holding among
the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie di una proprietà
collettiva,mentre altri, soste. nitori invece della proprietà privata ed
individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per
giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta. Il vero si è che
tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti,
quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente
collettiva, viene ad essere inesplicabile come un popolo, che suole procedere
così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche,
abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto
della proprietà. Dall'altra, se si sostiene che la proprietà Romana fu
senz'altro una proprietà asso luta ed esclusiva, non è men vero che il popolo
Romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà, quale
almeno sarebbe stata formolata da coloro, che si occuparono delle forme pri
mitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la
gravità e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non
potrà mai essere risolto, finché non si ricerchino le condizioni della pro
prietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le
trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio
alla comunanza civile e politica. 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella
ricerca, non sarà inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto
in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di
evoluzione sto rica, che governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole
opera sua, ha cercato di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge
storica, secondo cui la proprietà avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma
collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un ca rattere sempre più individuale,
lasciando così sottintendere, che l'u nico rimedio di ovviare a questa
individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare
l'istituzione ai propri inizii (1). (1) L'opera del LAVELEYE è quella già
citata col titolo: La propriété et ses formes primitives. Paris 1874, e la
legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo
capitolo, pag. 4,il che giustifica alquanto la censura fattaglidal PADELLETTI
di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE hanno
tro vato molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con
che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe
solo a veri ficarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo
gentilizio. Di più si potrebbe 64 Senza entrare ora nella discussione di questa
legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra
i quali lo Spencer, hanno già dimostrato, che una legge di questa natura non
pud essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si
trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale (1 ). Quindi è che
l'unica legge storica, relativa all'evoluzione della pro prietà, che allo stato
attuale degli studi possa formolarsi, sarebbe che la proprietà, essendo una
istituzione eminentemente sociale, ebbe in tutti i tempi ad assumere tante
forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale. Sopratutto
poi la storia delle isti tuzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che
le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della
fa miglia, cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si
consideri, che il primo bisogno della famiglia fu certamente quello di
assicurare il proprio sostentamento. Siccome perd la famiglia nel periodo, che
suole essere chiamato patriarcale, entra essa stessa a far parte di un
organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia, cosi anche la
proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i
gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei
popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle
origini sa rebbe prevalso il regime collettivo della proprietà, quali sarebbero
le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre
notare al LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che
l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione veramente primitiva, non si
potrà neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante
l'organizzazione gentilizia, sia la forma veramente primitiva. Quanto alla
letteratura copiosa sull'argo mento, può vedersi il dotto lavoro del VioLLET,
Précis de l'histoire du droit français. Paris, 1886, pag. 481 e 482. L'autore
ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente
antiche, ma che nella origine abbia avuta prevalenza la proprietà collettiva,
mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile
di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si sarebbe poi
venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in
quanto che la proprietà famigliare e privata avrebbe prevalso su quella più
estesa della tribù. L'autore però non spiega, come ciò abbia potuto
accadere,mentre il pas saggio può invece essere seguìto presso i Greci ed i
Romani. VIOLLET, op. cit., pag. 71 e 72. (1) V. SPENCER, Principes de
sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag. 717, ove egli parla « de la fausseté de
la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété
individuelle était inconnue aux hommes primitifs ». - - 65 ritorio, secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie; l'altra è lasciata a prato ed
a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di be stiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti (1). Or bene se la legge dell'evoluzione
storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini,
credo di poter af fermare in base ai fatti, che la storia della proprietà
romana non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece,
che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. § 2. – La domus, il
vicus ed il pagus e i loro rapporti colle varie forme di proprietà. 52.Non è
dubbio anzitutto, che presso i Romani le sorti della pro prietà e quelle della
famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro. Basterebbe a
dimostrarlo il fatto, che il Quirite, come si vedrà a suo tempo, entrò nella
comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di
proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i poteri
del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente
uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia, comprende
le une e le altre (2). A ciò si aggiunge che è un prin cipio, costantemente
applicato dai Romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di
organizzazione sociale, nè alcuna corpora zione anche di carattere sacerdotale
senza che le debba essere asse gnato un patrimonio, il quale, indicato col
vocabolo generico di ager, (1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap. II, V, VI, come
pure il SUMNER Maine, Village Communities. London, 1872; Early history of
institutions. London, 1875. Early law and custom. London, 1883. (2 ) Questa è
la significazione che il vocabolo « familia > riceve nell'antico diritto,
come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere, mancipio dare e
simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può
vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo
familia, coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi nel Roby,
Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, 1884. Notae ad Tit. « de
usufructu », pag. 48, vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 5
- 66 può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius,
compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili (1). Ciò prova fino
all'evidenza, che il Romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha
già il concetto profondamente radicato, che non possa quasi esservi la famiglia
senza una proprietà, che le serva di sede e le fornisca i mezzi di
sostentamento, e che questo con cetto fu da esso applicato a tutte le altre
corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia.
Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio
famigliare possa, presso i Romani, considerarsi come una creazione dello Stato,
ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già prima, se appena
fondato lo Stato, il primo atto che esso compie, secondo la tradizione, è
quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il
motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale
comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui Roma
si è formata. Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci
riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma; ma tuttavia
anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di questa
condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente seguito
dai Romani, anche nel periodo storico, che è quello di trasportare nel periodo
seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel periodo
anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del
l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che giunge a produrre un
nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente, viene ad essere
naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso
possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la sede esteriore della
civitas è stata l'urbs (2 ), così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii
sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli
certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf. De-RUGGERO,
Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Vol. I, Parte II“,
pag. 604. (2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal fatto, che già
nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può vedersi nel Pictet,
Origines Indo Européennes; Paris, 1877, II, pag. 305, come pure nel BRÉAL,
Dict. étym. lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è dubbio, che tutti questi
vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus è la sede del capo
famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un
cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo
ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno
antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche mancipium, perchè di
pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei
poteri al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i
liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si
staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce anche che di questo
dominium, il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte
più sacra, più preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separerà più a
malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continuerà sempre ad
essere riposta in quel nucleo primitivo, che costituiva l'heredium, e che nel
diritto quiritario prese poi il nome di mancipium. 54. La riunione poi delle
abitazioni di diverse famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio,
a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ),
viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia
suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto
e appar tengono alla medesima gente. Il vicus quindi ha ancora un carattere del
tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo:
che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano
ancora delle città, quali erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti
fra i campi (in agris); e che se essi già avevano un luogo di mercato, non
avevano però sempre un luogo, dove si am ministrasse giustizia, nè sempre
nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si
nominava invece nel pagus (3). Cid dimostra, che se il vicus poteva svolgersi
formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare
che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. (1)
Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi
raccolti dal Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 6 e 7, nota 2. (2 ) TACITUS,
Germania, XVI. (3) Festo, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che
suol fare per ognialtro vocabolo, la cui significazione siasi venuta
trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che ilmedesimo ebbe ad
assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi (in
agris), ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice « sed ex vicis
partim habent rempubblicam, et ius dicitur, partim nihil eorum et 68 talvolta
in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi
ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. Era poi
naturale, che come le singole fa miglie in esso avevano il proprio heredium,
cosi anche il vicus, sede della gente, fosse circondato dal proprio ager
gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti (1 ). 55.
Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per il mercato, ma che
contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia, sito, che
probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo stesso che in esso già
trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel
vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa
»; poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che comprende « id genus
aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque
distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt
distributa ». Tuttavia, anche nella città, il vicus indica ancora qualche cosa
di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni
contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1) L'interporsi di un elemento estraneo
nel seno del vicus era poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine
romana, per cui il fratello vendeva al fra tello, il vicino al vicino, il
consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota 1. Che poi esistesse veramente una
proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degli abitanti di esso
lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale persona giuridica fa contratti
di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin. I, 603; del resto anche il
Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30, 1). È
da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle
lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes, II, pag. 308. Quanto
al con cetto del vicus e delle vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM
W.Ross, Land holding among the Germans. Boston, 1883, pag. 46. (2) Il vocabolo
di forum è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine,
trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle
significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi
sappiamo da Festo, che forum significd il vestibolo di un sepolcro, ove
convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes,
pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, V, 145, che le genti
latine « quo conferrent suas con troversias et quae vendere vellent quo
ferrent, forum appellarunt »; infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua
consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis intellegitur; primo
negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones
haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum
civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.) Brons, loc. cit. Per
tal modo il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col
tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie
fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare tutte le cariche della città.
Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può rite
nere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il
complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è
dimostrato dal fatto, che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di
tanti pagi, che prima esistevano nella stessa località. Così pure, nota il
Lange, è dimostrato che il pagus Succusanus fu sostituito dalla tribus
Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure
vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus lanicu
lensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga
a quella, con cui si indicano le popolazioni, che com pongono le tribù (1). È
poi anche naturale, che questo pagus abbia pur esso un ager, certamente situato
a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che
questo ager chiamisi compascuus, e che comprenda talvolta eziandio, oltre il
sito vera mente destinato per il pascolo, anche delle siloae e dei saltus (2 ).
$ 3. L'ager privatus, gentilicius, compascuus. 56. Intanto da questa
configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che,
almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di
varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una
sull'altra. L'ager (1) LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr.
NIEBHUR, Histoire Romaine, III, pag. 112. Del saltus è da vedersi la
diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus potevano
essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed anche di
proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo saltus, allorchè già si
venivano formando i lati fondi permodoche, secondo Plinio, sei persone
possedevanometà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli
immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dall' Imperatore, sovra
cui dimorava una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipendeva
più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi
dell'Impero. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e
chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente nel 1880 una importante
iscri zione, che contiene una petizione della popolazione del saltus
all'Imperatore. Fondan dosi su di essa l'ESMEIN, sostiene che in questi saltus
abbia cominciato a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire
du droit et de critique. Paris, 1886, pag. 293 a 322. V. pure FUSTEL DE
COULANGES, Le colonat romain. Paris, 1885. - 70 si viene, per dir così,
atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo.
Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium, se nel con tado) colla
sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appar tiene alla famiglia
nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium, la familia, il
mancipium (1); ma siccome ogni capo di famiglia, oltre questa parte sostanziale
del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi
e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale, che accanto al concetto
dell'here dium si formi quello del peculium, accanto a quello della familia
quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium;
distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa
divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii(2).Che
veramente questa forma di proprietà già preesistesse alla comunanza romana
viene ad essere provato da cid, che fin dal primo formarsi di questa occorrono
i concetti di herus, di heredium, di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la
stessa origine di herus e scrivesi talvolta anche semplicemente eres, per guisa
che anche questo vocabolo in antico significava, se non il vero proprietario,
al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo, secondo la
quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur ». Non vi ha poi dubbio, che
con questi vocaboli ha eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di herctum
o erctum, che significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la
denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia,
comegià si accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto
non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso,
quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con
(1) Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo
lavoro, di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii
sull'antica Roma, col titolo, Die römischen Privataltertümer und römische
Kulturgeschichte, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft,
pubblicato dal Beck in Nördlingen, pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag. 772,
ritiene che l'heredium com. prenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il
pomatum, più tardi detto anche pomarium, e di più la casa, detta anche tugurium,
che comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova
citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la italiana, così
spesso trascurata. (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782, sembra accostarsi
alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza
però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e
peculium,mancipium e nec mancipium, 71 sorzii e delle società, che è quella fra
i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio (1).
Intanto la conseguenza viene ad essere questa, che i vocaboli di mancipium e di
manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gen
tilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium, l'atteggiamento diverso
sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia.
Diquesti vocaboli però quello che significava meglio il potere giuridico del
capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium, ed è questa
forse la causa, per cui il vocabolo, che prevarrà più tardi neldiritto
quiritario sarà quello di mancipium, al quale solo più tardi sottentrerà quello
di dominium ex iure Qui ritium. 57. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed
all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio,
non com preso negli heredia, che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del
vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su
quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali
però non avevano una vera proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro
assegnate a titolo di semplice precario (2). Dell'esistenza diquesto ager
gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il
periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso, e della sua
gente. Questi veniva di Regillo per porre la propria dimora nel territorio
stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che
egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che doveva certamente
essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca (1) Questa
induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium
agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro del POISNEL, Les sociétés
universelles chez les Romains, specialmente in quella parte ove si occupa del
pri mitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra
fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio.(Nouvelle revue
historique de droit français et étranger, 1879, I, pag. 443 a 462). È anche
degna di nota l'attinenza fra i vo caboli di consortium e di consors con quello
di sors, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V.
BRÉAL, Dict. étym. lat., vu Sors. Ciò è anche con fermato dall'antica
espressione di familia inercta nel significato di indivisa, ricordata da Paolo
Diacono 118, 8. Cfr. in proposito i passi citati dal Voigt, Die XII Ta feln,
II, pag. 112, nota 18. (2) Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione dell'Esmein,
Les baux de cinq ans en droit romain. (Mélanges d'histoire de droit, Paris,
1886, p. 222). - 72 della sua venuta a Roma, avrebbe, secondo la tradizione,
compresi ben cinque mila clienti. Questo è certo, che dal momento che egli
abbandonava la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano,
mediante la cooptatio, gli fu dato un tale spazio di ter reno oltre l'Aniene,
che egli potè assegnare due iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre
al che gli sarebbero ancora rimasti 25 iu geri per sè e la sua gente. Questo
assegno di territorio, mediante il quale fu la gente Claudia, chediede il nome
a quella tribù rustica, non impedi, secondo Dionisio, che fosse eziandio
assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove potesse
abitare egli e la sua famiglia (1). È facile il vedere, che qui occorrono i
concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche
la prova, che nell'organizzazione gentilizia era alla stessa gensod al con siglio
di essa, che si apparteneva di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche
gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le varie forme
della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le
altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo
stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager
gentilicius, che si ricavano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in
mancanza di eredi suoi,i quali possono in certo modo essere considerati quali
comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che
mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornino all’ager
gentilicius, cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. 58. Da
ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che
consideravasi come spettante alla intiera tribù, e che prendeva il nome di ager
compascuus, di compascua,di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite
alla pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria (2 ). Pud darsianzi,
che un ager compascuus potesse esservi già nello stesso vicus, come lo
dimostrerebbe la def finizione di Festo: compascuus ager relictus ad pascendum
com muniter vicinis; ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo com. pascuus
ager certo esisteva nel pagus e già dava origine ad una (1) Dion., V, 40. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 283, 84. (2) L'esistenza di questi compascua è
dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di
FRONTINO: « Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune,
propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro
indiviso ». Bruns, Fontes, pag. 334. 73 specie di pubblico reddito (vectigal),
consistente nel contributo, che dovevano dare gli abitanti, che ivi pascolavano
i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene poi ad
essere indicato col nome di scriptura (1). Una prova dell'esistenza di questi
pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pub
blico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo aver detto
che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da tutti gli
antiquarii, aggiunge questo particolare im portantissimo: etiam nunc in tabulis
censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc
solum vectigal fuerat (2 ); il che vuol dire in sostanza, che i Romani, in
questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col
vocabolo primitivo dei pascua, che costituivano la proprietà collet tiva della
tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del po. pulus, ossia
dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricavava qualche reddito. Del resto
l'esistenza di questo ager compascuus sarebbe anche accennata in quel
tradizionale riparto, che Romolo avrebbe fatto fra i Ramnenses, quando aveva
fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al
Re ed al culto; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia;
e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che fu anche la prima forma
di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente de dite ancora in
parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti (3 ).
i 59. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza: 1. Che, anche
anteriormente alla formazione della città, la proprietà già esi stesse in tante
gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione
gentilizia, per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare, una
proprietà gentilizia, e una proprietà spettante alla comunanza della tribù; 2º
Che di queste varie forme di proprietà, quella che predominava era la proprietà
gentilizia, perchè da essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia, come poi
erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento dei
compascua; nel che può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR, Histoire
romaine, III, pag. 212; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787; LANGE,
Histoire intér. de Rome, pag. 150. (2) Plinio, Hist. nat., 18, 3, 11. (3)
Dion., II, 7. Cfr. NIEBHUR, Hist. rom., III, pag. 211. - 74 - babile di quel
fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie
riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager
publicus, il quale nella città non è che una tras formazione ed un ampliamento
per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus (1); 3. Che queste
varie formedi proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo,
che si vengono tempe rando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere
giuridi camente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel co
stume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di tem peramenti,
che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia; 4º Che
quindi anche quel potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel
iudicium de moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna
avitaque, dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che
probabilmente appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare
queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium, che era
veramente de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a
quella più tardi adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del
diritto primitivo attinenti alla proprietà gentilizia. 60. Le cose premesse
intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole
alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano
primitivo. La prima di esse sta in vedere se gli antichi heredia, ossia quei
bina iugera, che Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui
Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano
o non ritenersi inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com
proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della
trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa
esclusione dei plebei dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della
Repubblica, è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali
di qualche autore più antico, « Quicumque propter plebitatem agro pubblico
eiecti sunt,, Bruns, Fontes, pag. 391; il che è pur confermato da un passo di
Sallustio, Hist. I, 9: « regibus exactos servili imperio patres plebem
exercere, agro pellere ». (2) Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag. 32, il quale
accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i
beni aviti. 75 privata colla formazione della città, noi possiamo perd
affermare con certezza; lº che questo concetto dell'heredium esisteva già anterior
mente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio; 2º che
l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa
alienazione non fosse stata possibile, non si comprenderebbe il concetto e
l'esistenza di un commercium, come pure non si compren derebbe l'esistenza
certo antichissima di un iudicium demoribus, di- a retto appunto ad impedire
l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio, che nel suo concetto
informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da
questi ai nipoti; 3º che tuttavia questa alienazione, durante il periodo
gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse
anche compiersi colla ap provazione o quanto meno colla testimonianza dei
notabili del vil laggio; 4º che infine nella primitiva organizzazione
gentilizia i figli si riputavano comproprietarii sopratutto di quella parte del
patri monio paterno che costituiva l'heredium, il che sarebbe in certo modo
indicato dal vocabolo heres, che in antico avrebbe significato comproprietario,
e che posteriormente continuò a significare la mede sima cosa mediante
l'espressione più completa di heredes sui (1). 61. Insomma nel concetto
primitivo il padre è come custode e deten tore del patrimonio famigliare nell'interesse
suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dovette
nei primitempi di Romaavere nulla di ripugnante almodo dipensare e diagire del
tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo, che ora a noi
appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che ap.
partiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere
considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od
acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del
capo di famiglia. Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente
della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed
intimità di vita, che do veva esistere nel costume della medesima; comunione ed
intimità di cui il diritto non si occupa, perchè non doveva occuparsene, ma che
sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia (1) Ciò è anche
confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui
ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo
dammodo domini existimantur ». 76 mano la memoria della primitiva famiglia,
governata dal mos pa trius, ac disciplina (1). Ad ogni modo la conseguenza
ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili
allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizza
zione gentilizia, per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne
ad essere libero cittadino di una libera città. 62. Intanto se si ammette che
nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente
è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la
proprietà pri vata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della
proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che il
sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per
cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzial mente per iscopo
di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima
potesse passare ad estranei. Si com prende pertanto, che in base al costume
gentilizio la proprietà vada ai figli, che ne sono comproprietarii, ed anche
agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma
appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non indivi
dualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la
comunanza gentilizia. Ed il motivo è questo, che se la legge di una città pud
favorire il riparto immediato fra gli eredi, il co stume invece di una
comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito,
come dicevano gli antichi Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei
patrimonii; perchè essa mira, non a favorire lo svolgimento dell'individualità
del capo di famiglia, ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo,
in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo
incontrastabile, che la successione, quale com pare nei primitivi tempi di Roma
e quale esisteva anteriormente, non ammetteva nè distinzioni di primogenitura,
nè distinzioni di sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere; ma
si può anche (1) Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco
scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas
clientelas Appius regebat et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem,
sed etiam imperium in suos; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes
habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina o. - 77 - essere
certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente, se non a
favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del
patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della
parte di sostanza, che loro apparteneva, potessero compromettere gli interessi
della gente. Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua, a
cui le donne erano soggette per parte degli agnati; tutela che aveva sopratutto
lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose, e
che col tempo diventò per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti,
trovarono modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico, di carattere
eminentemente romano, che è la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle
istituzioni dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che esse
dovettero certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche
anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che
compariscono compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei
frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento
non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più era ben naturale,
che il concetto dell'una e dell'altro dovessero presentarsi naturalmente a capi
di famiglia, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e
dall'altra erano fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che
continuasse il proprio culto genti lizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio
e come il testamento, erano acconcie e indispensabili ad una organizzazione
come la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non potevano nella
medesima ser vire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione
capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla per petuazione
della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù
della quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di
lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata
dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che
fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i
protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni
tutela. (2) Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 45 e 46. Potrà sembrare poco logico,
che io qui discorra, trattando della proprietà, anche dell'adrogatio, che ha
piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo
fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia
abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per
ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione
gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un
culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da
un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un
vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che
furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere
un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e
l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne,
che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se
questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si
operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione
del consiglio della gente, ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti
alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei
padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio
per ciò che si riferisce al testamento, ma se si considera, che in so stanza
anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea
delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie
dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito infor matore del testamento
in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello, che ispirava
l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo
per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria, così
può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella
riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla
legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la successione invalsa nel periodo
gentilizio, secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e
infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare
il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto
di vista gentilizio. L'uno di essi con sisteva nel diritto, che i figli avevano
di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali,
divisione che face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di
più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente
connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto
le istituzioni che le riguardano. 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro
era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana
femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del
patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi
da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia, che miravano
sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella
famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano
a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione
degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente
servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente.
Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del
patrimonio, usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per
la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per
scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che doveva essere
riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia
perpetuantesi nella linea mone della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa
coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona
che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da
lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137.
Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori,
anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per
liberarle da ogni tutela. (2) Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 45 e 46. Potrà
sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche
dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia,
ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa
che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è
incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era
una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una
famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole
maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa
sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba
giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella
comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge,
l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie )
conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi
nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul
ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva
forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece
fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva
certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe
lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si
considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis,
cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto
analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito
infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del
tutto analogo a quello, che ispirava l'adrogatio. Il testamento per sua natura
è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte,
l'impero di una volontà arbitraria, così può anche es sere ilmezzo per
impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza
di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è
certo, che la successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui
succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente
collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimoniu
nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista
gentilizio. L'uno di essi con sisteva nel diritto, che i figli avevano di
venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali,
divisione che face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di
più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente
connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto
le istituzioni che le riguardano. 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro
era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana
femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del
patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi
da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia, che miravano
sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella
famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano
a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione
degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente
servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente.
Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del
patrimonio, usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per
la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per
scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che doveva essere
riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia
perpetuantesi nella linea maschile. Si può quindi conchiudere, che per lo genti
patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzoper. disporre
liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di
ritto quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo,
che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non
patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento,
cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento
di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il
decoro e la dignità della famiglia. 66. Pervenuto a questo punto, parmi di aver
dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli
altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione della città,
già conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò perd
non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera
disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi
invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo
spirito dell'organizza zione gentilizia si informava tutto all'intendimento di
serbare in tegro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap
prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata
presso un popolo, di spirito 80 così eminentemente conservatore, una trasformazione
cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di
proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo gentilizio
alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al quale non
credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del l'idea
universalmente accolta sull'autorità delNiebhur e del Mommsen, che lo Stato
romano siasi formato mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e
tribù. Secondo questi autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo
modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio
nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore
dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli
au tori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a
citare il De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione
universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione
dello Stato esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale
apparteneva alla gens e non alle sin gole famiglie, viene alla conclusione
seguente: « Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più genti,
esso sarebbe « divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia,
« proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè * del
territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole « famiglie la coltivazione
e l'uso di alcuni terreni (fundi), rima « nendo gli altri proprietà comune;
cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà
(adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la
citta « dinanza (ager publicus) » (1). Di fronte ad una teoria così recisa,
conforme del resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare,
che anzitutto non è provato, che prima della formazione dello Stato non vi
fosse che la proprietà gentilizia, e che la gente non lasciasse alle famiglie,
che la coltivazione e l'uso di alcuni ter reni. I vocaboli certamente
preesistenti di herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicavano
al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata
già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella
Enciclopedia giuridica italiana, vol. I, parte 2*, pag. 604. Del resto queste
sono le idee che l'autore aveva già sostenute nell'opuscolo La gens avanti la
formazione del comune romano, Napoli, 1872, e che stanno pure a base del suo
dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia
giuridica italiana. 81 le genti del Lazio; poichè se così non fosse stato non
sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni
fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle
tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun individuo, che
seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che, tenendo conto del
carattere delle genti latine, in cui l'idea del mio e del tuo presentasi in
ogni tempo cosi profondamente radicata, non può essere probabile che le gentes
e le tribù, che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali
quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo, si siano
contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa, per
starsi paghe ai bina iugera, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la
fortuna del pa triziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri,
non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la
famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta, che siavi veramente
alcun autore antico, che accenni a questa specie di societas omnium bonorum,
per cui si sarebbero messi in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo
soltanto, che Romolo, in base ad un costumetradizionale fra le genti latine,
che doveva già esistere prima e che fu applicato anche più tardi in occasione
dell'impianto di colonie, divise il territorio da lui occupato in parte fra i
proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per ilculto, ed
un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che
parteciparono alla fondazione della città, dovettero continuare a te nere i
proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di
Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle
genti patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle
medesime. Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti
durante il regno stesso di Romolo, a favore del popolo Romano, coi quali questo
avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio,che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii,
e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1). Inoltre se Romolo, come
dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli
ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce
l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto
avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro prietà
avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non vi fu
mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii.
Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una
conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva
sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù; poichè
è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni
cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia.
Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e
privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza confini e senza
alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà quiritaria. Tutte
queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune romano,
a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito, non
assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire
fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre
terre, salvo in parte quelle, che da esso furono conquistate sul nemico. Quanto
alla divisione dell'agro fra le tre tribù, a cui ac cenna Varrone, la medesima
non potè essere che una divisione pu ramente amministrativa, con cui si riconobbe
alle varie tribù la parte del territorio, che già loro apparteneva, prima che
entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la
proprietà quiritaria, ed anche la famiglia, con cui essa appare stret tamente
congiunta, non possono essere che quella proprietà e quella famiglia, che già
esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia, salvo che le medesime,
staccate dall'organizzazione stessa, apparvero con un carattere di assolutezza,
che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato
certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro
alla vestale Gaia Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei
campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si
radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano
leggendarii; ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i
cittadini romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di
tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V °
Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it., pag. 609 e 610. Devo però di
chiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho
grandis sima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico
romano. 83 biente in cui si erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di
terre furono fatti ai singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di
Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri
delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza,
che di fronte alla nuova forma zione della convivenza civile e politica, mediante
una federazione fra le varie tribù, più non si trovarono di fronte che la
proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente col
lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto
gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a
misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire
il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali, ma
soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi terre; il
qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla
costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli
obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo. Del resto si dovrà
più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di
Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il
processo seguito nella for mazione della città, e per conseguenza anche nella
formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto
quiritario. § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di
proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto, prendendo le mosse
dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui,
cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento
del l'istituto della proprietà, che più tardi apparirà comprovato nell'or dine
dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti
a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano
intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro
residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul
Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella
fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro
stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso, per essere in caso di
difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a
stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e
pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è naturale che si cominci
dal ripar tirlo, secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e che con
tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove colonie (1).
Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro capo, al culto,
ai publici edifizi; l'altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in
altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere ritenuti
sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor
sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno
spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un orto; e l'altra infine
è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia, che possono
immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura),
che costi tuirà il primo reddito pubblico. — Fin qui però noi non abbiamo an.
cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul
Palatino. 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comu
nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili per
consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio capo, con vengano
sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di
proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È
naturale allora, che il centro e la (1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv.,
op. cit., pag. 603 e 604, ove considera appunto questo riparto attribuito a
Romolo « come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi
posteriori, poteva naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si
faceva posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al
fondatore e al legislatore di questo ». Ciò lascia credere che l'autore vegga
in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha
nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche le sue traccie nella centuria
in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE, una
invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di
questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma primitiva, come
veramente è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non
comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando
in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era conquistata
sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo,
anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager
pub. priv., pag. 604, nota 1: « Antiqui agrum ex hoste captum victori populo
per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt».
Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. - 85 fortezza dell'urbs si
trasportino in un sito, a cui possano avere facile accesso gli abitanti delle
varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino,
il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione
dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che per eseguire un simile
accordo, siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali
membri delle genti e delle tribù, così non sarà punto il caso, che si mettano
in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti
e le tribù erano prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra
cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a
poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto
l'urbs, in quanto essa comprende i pub blici edifizii, i templi consacrati alle
divinità, che la proteggono, non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare
la comune difesa. Intanto, di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro
ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di
famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im
portanza giuridica, politica e militare negli inizii della città, sono la
proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora,
procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri
in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti
universalmente riconosciuto, venga soggiogan done le popolazioni e
conquistandone il territorio; allora sarà na turale, che questa comune
conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un
ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima
apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti è il dualismo, che
domina tutta la storia economica di Roma. 69.Però, a misura che si accrescono
le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai
pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua
conquista, ne do mandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni
sul l'agro pubblico (adsignationes viritanae) sono fatti ai più poveri, i quali
sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà, che è
riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma poscia, di fronte
all'incremento sempre maggiore dell'ager pu. blicus, si comincia anche a
disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager, che
è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per
fondare una 86 colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per
somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'ager
privatus censui censendo, che è ritenuto necessario per far parte della vera
cittadinanza. — Un'altra parte invece sarà venduta ai pubblici incanti (ager
quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un
corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà
ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di
quella ricca ed agiata, che possiede già il ca pitale per acquistarlo; ed il
secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a
quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre- vendite,
dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine
dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere
sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori
nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia rite nuto opportuno di
mettere in vendita (1). Questa parte continua na turalmente ad appartenere
all'ager publicus e ancorchè immensa mente ampliata colle conquiste corrisponde
in certa guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù.
Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del
diritto che ave vano di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti
(compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo
abban donata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei
liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager
occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere
oggetto di proprietà privata, ma costituisce le cosi dette possessiones, le
quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè
giuridico e dånno occasione di (1) Tutto questo processo ci è attestato dagli
agrimensori romani, dei quali sap piamo, che avevano grande autorità anche
nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro
scritti, fu il NIEBHUR, che loro dedicò una speciale dissertazione, che può
vedersi nell' Histoire romaine, IV, pag. 442 a 474. Ora poi sta preparando un
lavoro di lena sugli agrimensores i l prof. Biagio Brugi. Quanto alle
affermazioni, che sono contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate
da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui
infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di
mettere in evidenza il processo, che i Romani ebbero ad applicare costantemente
nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste. 87
svolgersi alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium
l'istituto giuridico del possesso (1). 70. Intanto tutta questa parte dell'ager
publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una
sottrazione alle ripar tizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non
hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non
sa rebbero dal Senato autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a
cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad
esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare
nuovi riparti per impedire le occu pazioni e per limitare le occupazioni stesse,
che col tempo minac ciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni
ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una
usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo
conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione,
che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno alle leggi
agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la
insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca,
allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme
contro una plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi in una turba forensis,
e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta
a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni
di frumento. (1) Con cid non intendo però di ammettere l'opinione del Niebhur,
del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio
coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò a suo tempo, che la
possessio, come istituzione di fatto più che di diritto, avesse origini ben più
antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono
le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la
prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle
possessiones nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un
grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di
fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che
anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto
dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del
patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive:
< occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis,
ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag. 348, la qual deffinizione dimostra
che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il
quale perciò differisce dall'occupa torius. 88 71. Intanto è sempre da questo
ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle
colonie, alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse
provincie. Trattandosi di colonie, questi esemplari di stabilimenti che Roma
crea a somiglianza di sè stessa, traendone la popolazione dal proprio seno, si
applica quel medesimo sistema, che si applica per la popo lazione della città,
il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia,
ed hannosi così quegli agri, che gli agrimen sori chiamano divisi et adsignati,
i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia,
che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città
benemerita, a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di
soddisfazione ed un cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi
l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà
collettiva ad una città, non è determinato che nella sua generale misura.
Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del
territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei
fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pen dente, a quelle
indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad
indicare il territorio, che dalla natura stessa sembra essere segnato ai
singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager, che gli agrimensores
chiamano arcifinius (1). Infine anche nelle porzioni di agro pubblico, che sono
vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius,ager vectigalis), pos
sono esservidelle parti,che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare
da sole nè compratori, nè affittavoli, e in allora questi siti si aggregano a
quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum
compascuae », il che significa che essi, a somiglianza dei primitivi compascua,
si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra
quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una
specie di proprietà o dipossessione privata, con pertinenze consistenti in
pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione
a ques tioni fra i giureconsulti per vedere se, vendendosi od affittandosi il
fondo principale senza parlare del pascolo accessorio, anche questo debba
ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento, sul che (1) V. Frontinus,
De agrorum qualitate et condicionibus, lib. I, 1, 2, 4, 5. BRUNS, Fontes, pag.
411. 89 i giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti
dell'intenzione contraria dei contraenti (1). 72. Pongasi infine, e anche
quest'ultima supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del
Palatino,mutatasi poi nella città dei sette colli, divenga conquistatrice
dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo; ma
essa continuerà pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro
l'Italia e fuori di essa, nella proprietà e nel possesso, nel territorio
italico e nel suolo pro vinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle
proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un
periodo anteriore alla formazione stessa della città. Certo questi sono
svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati
sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia, che
le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e dånno anche un
esempio sensibile del pro cesso semplice, ma sempre logico e coerente, che Roma
ebbe ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a
tutto il territorio da essa conquistato,ma anche nell'estendere la sua
cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora cono sciuto.
Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in
proporzioni e in condizioni diverse sanno conse guire i grandi effetti. È
questo un esempio di quella dialettica po tente e pressochè celata, che senza
apparire negli scritti dei giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi
nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi tuttavia nei loro intelletti,
ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato. Più tardi non
mancheranno le occasioni di scorgere altre applicazioni di questo processo
dialet tico, che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza
meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana. (1) V.
Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca, propter asperitatem aut
sterilitatem, non invenerunt emptores; itaque in formis locorum talis
adscriptio facta est in modum compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque
possessores, qui ad ea attingunt finibus suis ». Bruns, pag. 414. Frontinus
poi, De controversiis agrorum, soggiunge: « Nam et per haereditates aut
emptiones eius generis (pascuo rum ) controversiae fiunt, de quibus iure
ordinario litigatur ». Bruns, pag. 415. È da vedersi a proposito di tali
controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli acces sorii a più fondi alienati.
Bologna, 1886. 90 - CAPITOLO V. I concetti fondamentali direttivi della vita
pubblica e privata durante il periodo gentilizio. § 1. Sguardo generale
all'argomento. 73. In una organizzazione come quella che ho cercato di
ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla, che nei territorii
che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle
norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero meritarsi il nome
di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo.
Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge e la
significazione sua propria alla convivenza civile e politica. Senza negare che
un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane
dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo
che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che
poi fu adottata da tutti gli altripopoli, significa ormai« l'espressione di una
volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà indi. viduali ». Esso
quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo Stato
organo ed interprete della volontà comune eimembri che entrano a costituirlo. È
quindi inutile cercare delle leggi, nel senso proprio della parola, in
un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni
domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la
di stinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure
quella fra la vita pubblica e la vita privata. 174. Siccome tuttavia qualsiasi
stadio di organizzazione sociale sup pone di necessità delle norme, che lo
governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare
nel periodo gen tilizio. Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme
di or ganizzazione sociale quella, che tende più di qualsiasi altra a strin
gere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita
esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la quale, essendo esclusivamente
fondata sulla eredità, finisce per trasmettere, di gene razione in generazione,
non solo il sangue degli antenati, non solo 91 il patrimonio e il territorio da
essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si
aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii
antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto, cosi anche le loro
tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di
cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto
anche meno importante finisce per acquistare una significazione re ligiosa. È
questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze gen tilizie a diventare
pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo
effetto fra le genti italiche, come lo pro dusse fra le genti indiane, che
appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un nuovo
focolare di vita, che fu quello che brucid nel tempio di Vesta, cambiatasi in
patrona della città (1). Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso
spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del
patriziato, non è che una trasformazione di questa ten denza naturale delle
comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando sono pervenute
a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse.
Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni
ele mento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla
religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i cui elementi
nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben
naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno
quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la
conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno
scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le
genti italiche (1) È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva
per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città aveva pur
essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del
focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare della
città. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al
locus Vestae hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del
Palatino presso il Foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare
sempre più, che la vera città, di cui doveva essere centro il tempio di Vesta,
non era già lo stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti,
che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua
altempio di Vesta dimorava, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae),
il quale, come custode della città, doveva pur trovarsi nel centro di essa.
Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 39. 92 dalle elleniche. Mentre
queste colla loro intelligenza acuta e pro fondamente critica, appena ebbero
analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso,
le abbellirono e trasforma rono colla propria fantasia e finirono per ridurle
in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più
tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica
varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse (1). 75. Questo intanto è
certo, che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive
delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia, ma sul
linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà, che sopratutto ci serbd
il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente, che tutte le loro
tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato,
hanno già assunto un carattere sacro e religioso. Una religione, per nulla
immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminente mente pratica ed applicata
con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi
della organizzazione gentilizia, per modo che le genti italiche, sempre
occupate da divinità, che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con
tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina.
Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche
dai piccoli incidenti della vita;mentre per i fatti di importanza mag giore per
il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul (1) Osserva
giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che mentre
l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di
chiudersi nella stretta veste delle formole legali; Roma invece possedette una
delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di
conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato ». Del resto il primo,
che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei
Greci e dei Romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine
uno. Proloquium. D'allora in poi il para gone non è più venuto meno. Lo fanno
gli storici, come il Mommsen, il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli
studiosi della giurisprudenza comparata, comeil MAINE, op. cit., il Freeman,
Comparative politics, London, 1873, l'Hearn, Arian Household, London, 1879, il
IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari in proposito
mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,.
ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due
popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al
diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap. I, pag. 85 e
seg. - 93 tata. Di qui quella osservazione antichissima del volo degli uccelli,
che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali
da sacrifizio, che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè
incomprensibile degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al
suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1). $ 2. Del
carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e del jus.
76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono la vita
pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi
al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche
mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in
forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione
determinata, la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota.
Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di fas e di jus, i quali
tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del
religioso e del sacro. Del mos infatti noi abbiamo una definizione conservataci
da Festo: mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime
ad religiones caerimoniasque antiquorum. Qui è nota bile anzitutto la
significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie
tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene
dopo, la quale, restringendo in appa renza il contenuto del vocabolo, indica in
sostanza che la parte (1) V. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans
l'antiquité, IV, p. 180-183; e lo stesso autore, Institutions romaines, pag.
533 a 540. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è
attestato da Servio, In Aen. I, 346: « Romani nihil nisi captatis faciebant
auguriis et praecipue nuptias », e da CICE RONE, De divin. I, 16: « Nihil fere
quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc
nuptiarum auspices declarant ». Per quello poi, che si riferisce agli auspicia,
alle varie loro specie, alla procedura so lenne, da cui erano accompagnati, ed
alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione,
che fu anch'essa un effetto della formazione della città, non ho che a
riferirmi alla trattazione magistrale del Mommsen, Le droit pubblic romain.
Trad. Girard, Paris, 1887, pag. 86 a 135. 94 prevalente nelle istituzioni dei
padri era sopratutto quella, che si riferiva alla religione ed alle cerimonie
di essa (1). Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato
quanto al vocabolo di fas; poichè il fas delle genti italiche è para gonato
dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo
vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo,
fini per significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso, che
si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto (2
). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali
il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso,
che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione
religiosa. Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi
poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito
più antico, vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che
egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3).
Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso
Festo, confermando il carattere religioso, comune al mos ed al fas, definisca
il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis sacrificiis ».
Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin, scrive: « Themin deam putabant
esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant,
quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag. 372. Lo stesso concetto ebbe ad
esprimere il poeta Ausonio, Edyl. 12: Prima deum Fas Quae Themis est Graiis...,
Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 102. È poi degno
di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase « secundum ius
fasque », la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche
l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in un suo articolo « Sur
l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin », pubblicato nella
Nouvelle revue historique de droit Français et étranger, 1883, pag. 603, la cui
conclusione è la seguente: « Pour nous résumer, le droit, qu'on a appelé la
création la plus originale du génie « latin, et qui a l'air de sortir tout
d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie épique de la tête
d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain; « il est inséparable
des premières idées religieuses de la race ». Questo è pure il concetto del
LEIST, Graec. Ital. R. G., pag. 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist. Introd., pag. 18,
segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare
abbandonare intieramente quella dalla radice sanscrita < iu, che significa
stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto
compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo, ad ogni modo, come nota
il Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti
pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati,
quali. 95 cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Greci quanto i Latini
attribuissero un carattere religioso e sacro al vóuoç ed alla lex, sebbene
questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ri tenessero la legge
come un dono degli dei; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie
occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in
dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. 77. Intanto
questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi
neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui
furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale
essidebbono perciò considerarsi come specifi cazioni ed aspetti diversi. Questo
concetto, secondo il Max Müller ed anche secondo il Leist, sarebbe stato dagli
antichi Arii significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine
che regge l'uni verso, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora
l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il
disparire degli esseri viventi (1). A questo vocabolo di rita corrispon dono
perfettamente i concetti del ritus, del ratum e della ratio dei latini, ed anche
quello, che essi indicano coll'espressione di rerum natura, per guisa che anche
il concetto di « ius naturale » nel senso che ebbe ad essergli attribuito da
Ulpiano di un « ius quod natura omnia animalia docuit » potrebbe rannodarsi a
questi primitivi con cetti (2 ). Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto
fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degli Arii associa
altri con sarebbero quelli di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e
simili. Una trat tazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico
diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII
Tafeln, I, cap. I, p. 97 a 125. (1) Leist, op. cit., pag. 187. (2 ) Ciò
confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin. II, 1, 12, « palam
est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura
prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et
magistratus creari,et leges scribi caeperunt ». Questo è certo poi, che a
questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i
poeti latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene
quindi indurne che il concetto di un diritto naturale cominciò in certo modo ad
essere sentito dall'universale co scienza, e solo più tardi diventò anch'esso
argomento di una elaborazione filosofica, che si operò sopratutto in Grecia. V.
in proposito la classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum et
ius gentium der Römer, 4 vol., Leipzig, 1856-76. - 96 - cetti, che sono
espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini,
due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla
Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos
dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma
già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex,
il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi (1). 78. Parmi tuttavia che la
parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente
spiegata, quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello
più astratto di ratio, si asso ciano talvolta al fas, al ius ed anche al mos.
Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio,
significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre
il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da
un'aureola religiosa, significherebbero i diversi aspetti, sotto cui si
manifesta questa forza o volontà operosa, che muove e regge l'u niverso (2 ).
Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei
fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il
significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del
culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà
divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere
contrattuale del « do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina,
ma non più in (1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal concetto
primitivo appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt», che Servio
commenta con dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem
fas, ad homines iura pertinent ». In Aen. I, 269 (Bruns, Fontes, pag. 405). La
parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal Leist con una
quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera: Graec. It. R. G. (3) Ciò
appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una
città nemica, per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE,
Iurisp. anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in proposito il
Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto romano era una
procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i
pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il
sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che
necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile,
se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume (rite ).
Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi Romani l'idea secondo la
quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni
argomento scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si rivela con segni, la
cui interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in quanto si palesa in
quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla
consuetudine. Infine il ius è sempre questa stessa volontà divina, ma in quanto
viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che ap
partengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della
medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma
siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro,
così è molto difficile il preci sare la significazione di ciascuna, sopratutto
nel periodo geatilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà
divina era l'au torità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. 79.
È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si
presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò,
che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con
quello di usus; ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per
lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità
sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste
nozioni dovet tero elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti
migranti dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione
di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non
possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi
venuti formando, non è tuttavia inoppor tuno di avvertire, che, nelle origini,
il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere
il mos, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno
delle co munanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si
trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e
religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una
distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione
religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre
ad avere un carattere puramentemorale e costituisce ciò che le genti latine
chiamano i boni mores. Intanto egli è certo, che le genti italiche si
presentano con questi varii concetti, già com piutamente formati, e che fra
essi ha già acquistata una incontesta bile prevalenza quello del fas. Fu il
fas, che primo ebbe a ricevere vera elaborazione e a concretarsi in certe
massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la
vo G.CARLE, Le origini del diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si
ritengono essere l'espressione. È poi sotto la. protezione del fas, che si
vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che
più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius
civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per
porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi
sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole,
che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale.
Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che
costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti ita liche, ci
preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne
svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos e la loro importanza nel
periodo gentilizio. 80. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, ciò
che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei
concetti di Themis,Nemesis, Adrasteia (1). Esso è l'espressione della volontà
divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica
in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie
azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai
riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle
norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per la
divinità non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie
genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei
rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse
potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che
determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua
protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso
parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospi
tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi
ricompare, come hospitium publicum, dopo la formazione (1) Per una più larga
prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, pag. 111, cogli
autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas che consacra le
obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente. È esso, che
condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso
giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità, e alle promesse, che
sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in
somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia,
quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù; donde la
conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra
il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne l'adempimento non trovò altro
mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercitava
tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore
delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi poimanchi a questo complesso di
norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende
gli uomini reca pure offesa alla divinità, e quindi deve espiare il proprio
fallo,me diante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel
ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano
formati sullo studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula,
e dovevansi anche fare, allorchè altri cadeva in fallo per semplice imprudenza
(imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui
rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie,
fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens,
prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza
(imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute
a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente,
sebbene più tardi il diritto quiritario abbia dovuto fare un passo in dietro,
come quello che doveva applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo
stesso grado di sviluppo (2). Che se il fallo sia tale (1) Sul carattere delle
leges sacratae è da vedersi la dissertazione del Lange, De sacrosanctae
tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae, 1883. Sono poi
diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora san
zione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò
serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico,
appare dal dili gente lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto privato
romano. Roma 1886, Cap. II, pag. 43 a 78. (2 ) Cid è dimostrato dal fatto, che
la distinzione fra l'omicidio commesso di pro posito e quello commesso per
imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite 100 da non potersi espiare
in questa guisa, in allora il reo viene assogget tato ad una specie di
espiazione sacrale, la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio. Questa
doveva essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il
colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica
religiosa e domestica, che lo stac cava dal gruppo gentilizio, di cui faceva
parte, e lo poneva in certo modo fuori delle leggi divine ed umane, per guisa
che sebbene il sa crifizio della sua vita non potesse essere accetto agli dei,
esso poteva perd essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il carattere
di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale pri mitivo di
Roma, durante il periodo esclusivamente patrizio, come pure i vocaboli e i
concetti di expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua
et igni, i quali confermano l'osser vazione del Voigt, secondo la quale le
primitive genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa alla
divinità, che non agli uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di
preferenza l'offesa e il danno materiale (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione
di coloro, i quali, suppo nendo le genti italiche in una condizione del tutto
primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto erano già
nella loro età matura, vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale pri
mitivo di esse le traccie della vendetta privata. Se cið intendasi nel senso
che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del
proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza
di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso.
Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero
spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più non può conciliarsi
col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a
Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente
in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres
iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola, i
fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla
piacularis hostia, quando fossero com piuti per imprudenza; mentre non
ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal
seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat., 6, 4, § 30: « Praetor, qui
diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia
piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse ».
Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., pag. 15. (1)
Voigt, XII Tafeln. I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe certo
affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in
cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza; ma l'organiz
zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per
uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve giu dicare dal diritto
primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le traccie, che rimangono in
esso della privata vendetta, nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo,
da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione, compenetratasi in
ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa
perfino la com posizione a danaro, almeno nella cerchia delle genti patrizie.
Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia
adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il ladro, egli
lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non
come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta. La
religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe,
che ancora si trovano le traccie della privata vendetta e della composizione a
danaro, le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione
decemvirale, come quella che era comune ad entrambe le classi (1). (1) Fra gli
autori, che cercano di dare una larga parte alla privata vendetta nel primitivo
diritto Romano, havvi il MUIRHEAD, Hist.introd., pag. 52. Egli argomenta da ciò,
che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza doveva fare l'of ferta
di un ariete agli agnati dell'ucciso; da ciò che il vendicare la morte di un
congiunto ucciso era un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui;
dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese
in adulterio unitamente all'adultero; dal taglione, le cui traccie ancora
rimangono nella legisla zione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore
di chiudere nel carcere privato il debitore, chemancasse ai proprii impegni.
Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza
dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto
decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la
quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il
taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain.
Trad. Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della giustizia
privata e delle forme, con cui essa era esercitata. Finchè quindi si dice, che
sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal
pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto,
di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile; ma ciò non deve più
confondersi coll'esercizio sregolato di una privata vendetta, che non prende
norma che dalla violenza della passione, dal mo mento che la religione e la
consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve
attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che
l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo di porre termine alla pri
vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù. 102 82.
Accanto però a queste regole dell'umana condotta, che già sono munite di
sanzione religiosa, sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume,
costituiscono, per cosi esprimerci, una specie di morale primitiva. Esse
vengono indicate col vocabolo di mos patrius, di mores maiorum, di boni mores,
e costituiscono un complesso di norme direttive della pubblica e privata
condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium demoribus, at
tribuito al Pretore, e sopratutto nel regimen morum, affidato alla custodia dei
censori. Anche questi mores maiorum si sono venuti formando durante il periodo
gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli,
a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti,
la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides, anche per quelle
promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte
anche ad uno straniero (1). Erano questi boni mores, che da una parte
contenevano in certi confini il potere delle varie autorità, le quali,
giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal l'altra
colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza
coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione
giuridica. Così, ad esempio, furono i bonimores, che ancora molto più tardi
condussero l'opinione pubblica dei citta dini Romani a condannare al disprezzo
quei prigionieri di Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del
ritorno, credettero di libe rarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare imme diatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la
loro (1) Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive:
Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem. Del resto sono diversissime
le guise, con cui i poeti esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle
promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del
foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione privata, il
concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in
quanto che.. immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trovò poi la
sua espressione giuridica nell' « uti lingua nuncupassit, ita ius esto ». Così
pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che
l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole:.....
coactus tua voluntate es;..... concetto che trovò pur esso forma nell'assioma
giuridico: « quae ab initio sunt vo luntatis; ex post facto fiunt necessitatis
». Per altri esempi può vedersi l'HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires, I,
pag. 439, e III, in princ. •. -- 103 promessa. Del resto è sempre questo
concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della
classica giurisprudenza,nella compagine soverchiamente rigida del diritto
civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che
talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai
sempre l'existi matio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione
dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una
configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui
sia incorsa una determinata persona (1 ). Al qual proposito non sarà
inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'ele mento esclusivamente
giuridico ed il morale, che tardò così lunga mente ad operarsi nella scienza,
presentasi invece con una meravi gliosa nettezza nel diritto primitivo di Roma,
il quale, dopo essersi separato dal fas e daiboni mores, continuò logicamente
la propria via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica
pressochè inumana, che solo più tardi fu temperato nella classica giurispru
denza, la quale di nuovo richiamò in esso quell'alito morale, da cui almeno in
apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto (2). 83. Intanto, per ciò che
si riferisce ai bonimores, non è più la religione, che si incarica di punirne
le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra
quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli
antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degli anziani nella
gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di
questa morale primitiva; mentre è poi la disistima generale della comunanza,
che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato
professioni ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del
potere loro spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che,
senza senza essere colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag. 31-34. Basta
leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per
scorgere la significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo di boni mores,
e come fosse altamente sentita l'im portanza di essi di fronte alle leggi e
l'impotenza di queste, quando quelli comin ciavano a venir meno. (2 ) Ciò verrà
ad essere largamente provato, allorchè si parlerà della formazione del ius
Quiritium, e si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad un ' astrazione
potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli
elementi affini. 104 dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella
disappro vazione generale. Se il modo in cui formasi questa generale opi nione
e l'influenza, che essa esercita, male possono scorgersi ancora in una grande
città, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece
essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una
comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere
in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla
riputa zione dei figli. § 4. – Le origini del ius nel periodo gentilizio. 84.
Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce
fino all'evidenza, che fu soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il
fas da una parte ed i boni mores dall'altra, che potè riuscire e farsi strada
quel ius, che doveva poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della
comunanza ci vile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di
agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per
acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi
in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos
propriamente detto, ma a quella for mazione giuridica, che viene poi ad essere
indicata col vocabolo ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo contiene
in sè la propria deffinizione (1). Colui che manca a queste regole non offende
solo la divinità e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad
obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appar tiene e si sottrae
cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali
viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in
seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere
evidente sopratutto l'offesa (1 ) Servius, In Aen. 7.601: « VARRO valt morem
esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus consuetudinem
facit ». Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere morale, in
consuetudine, che ha carattere giuridico, è indicato anche da molti passi dei
classici giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, Handlexicon
zu den Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va Mos e Consuetudo. - 105
alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli
altri membri della comunanza (1 ). Di qui la conseguenza, che comincia già ad
operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, comeuna specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere giuridico propriamente detto. Na
turalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi
una specie di sanzione coattiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a
svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza, i cui
precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già
cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico.
Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città,
limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi
ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e
viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a
sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo
concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un
danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un con cetto
profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere variamente
espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit., vol. III,
pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro: Multis minatur, qui uni facit
iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus; Omne ius supra omnem iniuriam
positum est; e quello di Orazio: « nam tua res agitur, paries quum proximus
ardet », come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una
persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con
formole, che hanno una precisione giuridica: « Obsecro vos, populares, ferte
misero atque innocenti auxilium », ovvero: Obsecro vestram fidem, subvenite
cives ». - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere
religioso e morale. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche
tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il suo
primitivo nutrimento. Quel carat tere pertanto di rigidezza, che suole
condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua
potenza ed energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto
a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli giose
e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai era
pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della
influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota, che anche
quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur
sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui
esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo
modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere
rivestito della forma di lex; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato,
dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque constituit),
creando cosi il ius legibus introductum. Intanto si mantiene sempre un altro
aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella
formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani conside ravano come
il frutto di una tacita civium conventio (ius moribus constitutum ). Ad
ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola, che il popolo
pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel costume, è pur
sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere
considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla
volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere
argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del
popolo, che chiamansi contiones; ma allorchè la - -- 107 legge viene ad essere
posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox
populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti
coloro, che cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso
contrario. Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben
presto un altro, per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce
all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte
invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli
individui, che entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si
forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi,
lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si esplica mediante
gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe; mentre
l'altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del
popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu reconsulti
più tardi. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti
diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo
modo il palladio, sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto
privato (1). 86. Insomma al modo stesso, che l'urbs fu il frutto di una lenta
formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gli
edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del
populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che
col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse
comune; cosi anche la formazione del diritto primitivo deve essere attribuita
ad una specie di elabo razione, che venne operandosi nella coscienza generale
di un po polo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo,
(1) È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, il
Savigny, Sistema del diritto privato romano, vol. 1', $ IX, trad. Scialoia, pag.
48 e segg. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato,
nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto (duae
positiones), e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricavò
dallo spirito del diritto romano, secondo cui « ius privatum sub tutela iuris
publici latet », De augm. scient., lib. VIII, proem. al trattato de iust.
univ., afor. 3. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del
diritto, è da consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln, I, pag. 115 a 124, come
pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig, III, A, pag.
347. 108 mediante cui da tutti gli elementi etici e religiosi, che già si erano
formati durante il periodo gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che
potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e
politica. La città insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii,
si venne però sempre ingran dendo a spese delle comunanze di villaggio, che
erano entrate a costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui
si get tarono indistintamente tutti gli elementi della vita patriarcale, per
sceverarne ed isolarne quella parte, che aveva un carattere essen zialmente
giuridico, politico e militare. Fu questa una specie di chimica scomposizione,
che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in
esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise,
venne in certo modo com piendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi
una grande verità il poeta coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica
privatis secernere sacra profanis (1); poichè tale veramente fu il compito
delle città primitive e quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi
precetti, di carattere esclusivamente giuri dico, fu dapprima assai scarso, e
si ridusse a quel poco che una città, ancora nei proprii esordii, poteva
sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la
sua vitalità ed energia. Poscia però col crescere della città, coll'estendersi
delle sue mura, col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a
costituirla, coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus, quel ius, che
prima aveva solo una posizione subordinata, si cambiò invece in tutore e
custode della vita pubblica e privata, e fu riconosciuto come sovrano nel seno
della comunanza civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria
forza e dell'ufficio, che gli era affidato, si riaccostò di nuovo a
quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui aveva dovuto disgiungersi,
allorchè nel periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida,
che una logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ). Di qui intanto deriva
la conseguenza, che Roma, pur ricevendo (1) HoR., Ars poetica. 109 le proprie
istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata
di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e
politica, e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia
può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo, ed anche nelle
distinzioni che comparvero in esso, in quanto che è stato veramente una
costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi «
rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente ». 88. Che questo sia stato
veramente il processo, con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi con
tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre
altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare,
quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere giuridico, e
quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó questo
primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura
domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la riverenza verso
il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza
confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di
parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che
può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ri correre al
diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cer casse di penetrare
nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come
una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità,
come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio, uccisore della sorella, allorchè
osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa la sorella (iure
caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi la moglie, i
figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e con
sacrati dalla religione, sarà il padre stesso, che sarà vindice dei loro (1 )
Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'o
pinione di coloro, i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai re, come
primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto.
V. CLARK's, Early roman law, pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a questo
riguardo col MuiruEAD, Histor. Introd., pag. 69 e seg., che la giurisdizione
criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla
giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole
genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a
costituirle. 110 falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando
trat tisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dovrà
circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne
sentito l'avviso. Allorchè poi l'azione, che recò danno altrui, sia stata
compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del
medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà essere
risolta, e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo
dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca, che
egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che
ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1).
Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi
fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il
danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa, mentre il
vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la
pena di esso; donde la espres sione di noxae deditio, la quale trovava poi una
larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia, quanto eziandio
nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del ius pacis
ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes, pag. 346).
Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia, nella sua
significazione primitiva, parmi di poter infe rire con fondamento, che nelle
origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa, che cagionava il
danno, e il danno, che derivava da essa, e che non dovette esservi distinzione
fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come
neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrat tuale od
aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto
primitivo, sopratutto romano, ed è solo col tempo, che in essi si osservano
quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni
giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto
primitivo si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo
di significazione mate riale, e poi gli attribuisce una significazione sempre
più estesa e perfino traslata. Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo rupere,
che nella sua significazione primi tiva dovette certo significare il rompere
materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una
significazione traslata, attestataci da Festo, per cuiru pere significa damnum
dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni
maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto primi tivo di
Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non
si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il
parrici dium ad ogni uccisione di un uomo libero, il che si vedrà più sotto;
così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad
essere configurato giuridicamente, passò poi ad indicare qualsiasi danno.
Rimando in proposito al dot tissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, La colpa
nel diritto civile odierno. Torino, 1887, 2 vol. Di quest'opera credo di poter
dire, senza offendere la modestia dell'a mico, che servirà a rimettere in onore
fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo conto
della posizione rispettiva, in cui in questo pe riodo si trovano due capi di
famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure,
che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un
esempio, quella del furtum lance lincioque conceptum, in cui abbiamo un capo di
famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare
nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cid a condizione di
fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in cui egli si
inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e
intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio ), che gli impedisca
di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione
domiciliare dovesse per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum
della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di deru bato vi
era stato nascosto (1). Del resto in questa primitiva condi grandezza della
giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una
configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista
nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle
vicissitudini delle legisla zioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere
richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale.
L'autore tratta dei concetti di rupere, di rupitias, di culpa nel primo volume
della 2a parte, cap. I, § 1°, della lex Aquilia, pag. 6 e segg. (1) L'Esmein in
un suo recente scritto col titolo: La poursuite du vol et le serment
purgatoire, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi
per il furtum lance lincioque conceptum, anche presso il popolo di Israele nel
fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi
nascosti sotto le coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure
nel fatto narrato da MACROBIO, Saturnalia, I, 1, cap. VI in fine, ove si narra
di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo
rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria
moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa,
fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura primitiva siasi
naturalmente formata presso popoli diversi; ma non potrei convenire
nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si
guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura; poichè
nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna
a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il
soprannome di Scrofa (V. Esmein, Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886,
pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto, tenuto fra
mani da colui, che ricercava la cosa derubata nel furtum lance lincioque
conceptum, ricorda in certo modo la liba zione propiziatoria ai lari e ai
penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è il Leist,
Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum lancie lincioque conceptum è da
vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum conceptum se condo la legge
delle XII Tavole. Bologna, 1884. - 112 zione di cose, mancando ancora
un'autorità, che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei
misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro, il marito
offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà
ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si incarichi
direttamente della punizione di questi e di altri misfatti (1). Che se la
riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, sarà anche naturale, che
impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi alle medesime le
genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi talvolta in un
conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse
entrano a far parte. 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri,
che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti fra il patrono ed
il cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la
protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me diante la pubblica
disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e del consiglio degli
anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella
gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che hanno una propria
familia, un proprio heredium, un proprio peculium; cosi comprendesi come nel
vicus già possano sorgere delle controversie di carattere giuridico fra i
diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite
dal vincolo stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono
alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di
qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad
un amichevole com ponimento; il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo
per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende
possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare
giustizia (2). Infatti il carattere esclusivamente patriar cale dei rapporti,
che intercedono fra i membri di essa, rendono (1) Ciò accade sopratutto, quanto
all' adulterio, che cominciò a formare oggetto di un iudicium publicum solo
colla legge Iulia, De adulteriis, che fu una di quelle con cui Augusto cercò,
ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. V. in proposito
l'interessante articolo dell'Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia,
De adulteriis (Mélanges d'histoire de droit, pag. 71). (2) Quanto al vicus e al
difetto, che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi
giustizia, vedi sopra pag. 67. 113 ripugnante l'idea di una vera e propria
lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia,
che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro
l'autorità dei proprii anziani. 90. Nella tribù invece, già si trovano di
fronte capi di famiglia, che appartengono a genti diverse e che più non
discendono dal mede simo antenato, nè partecipano allo stesso culto gentilizio:
quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'am
ministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di ca rattere
esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di
discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi probabilmente essere questa
necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia, che suggerì
l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus (magister
pagi), la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di
praetor, ed anche da quello di tribunal (derivato cer tamente da tribus), che
significava dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che
era chiamato ad amministrare giu stizia, e indicava così anche esteriormente la
posizione cospicua, in cui egli trovavasi di fronte agli altrimembri della
comunanza (1). Queste controversie intanto non possono naturalmente sorgere che
fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono
dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto, perchè sia necessario
che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno
piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie
ragioni e di conoscere il processo, che debbono seguire per ottenere giustizia,
senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il motivo, per cui presso
tutti i popoli primitivi la prima forma che giunse ad assumere il diritto fu
quella dell'actio, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si
debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrato: atti
e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e
coi riti (1) La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il
magistrato, perchè « sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit
animus prudens » trovasi soventi accennata dai poeti latini, come indizio della
dignità, a cui era assunto colui, che era chiamato ad amministrare giustizia.
V. Henriot, Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome, III, pag. 14
et suiv.). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che
un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia
simbolica dei varii stadii, per cuidovette pas sare l'amministrazione della
giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito
fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia. 91. Che se si volesse
spingere anche più oltre questa ricostru zione del diritto primitivo, che ebbe
a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza, che le due
prime figure di rei, contro cui la giustizia umana abbia dovuto associare i
proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale
opinione, do vettero essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti
è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per il carattere pa
triarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a
tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome
di fratelli (1), che è il grande misfatto contro le leggi divine ed umane, il
quale pudmettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche rimanere impunito,
quando l'autorità comune non si mettesse in movimento contro di esso. Nèripugna
al carat tere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida
acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accom pagnata da
certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico, e che
potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più
tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche tradizionali,
che anche oggi in parte sopravvi vono e non possono dirsi compiutamente
abbandonate anche presso le nazioni civili (2 ). Così pure dovette essere un
processo del tutto natu (1) Questa circostanza, che tutti i membri della
comunanza patriarcale si chiamino fratelli, è attestata dal Sumner MAINE quanto
al villaggio Indiano: The early hi story of institutions, pag. 238, e qualche
cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica, ove non vi ha
dubbio, che i capi di famiglia erano generalmente indicati col vocabolo di
patres; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma
primitiva. (2) È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata
ancora nella L. 9, Dig. (48, 9) Poena parricidii more maiorum haec instituta
est, ut parri cida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum
cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare profundum culleus
iactatur ». Qui il giurecon sulto lascia travedere, che la pena del parricidio
era stata conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale (more maiorum
). Essa pertanto dopo essersi man tenuta nel costume più che nella legge,
contro i parricidi in senso stretto, ebbe poi ad essere sanzionata dalla lex
POMPEIA, De parricidiis. 115 rale, che condusse l'opinione generale di una
comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che gettava la
perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di
essa; co sicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al
nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di perduellis.
Cið intanto darebbe una spiegazione molto proba bile e naturale del fatto, che
fece meravigliare gli stessi Romani, per cui Romolo prima e Numa dopo avrebbero
chiamato col nome di par ricidas anche l'uccisore di un uomo libero, non che di
quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi
sfatti in Roma primitiva avrebbero assunto il nome di quaestores par ricidii e
di duumviri perduellionis. Anche qui la legislazione della città avrebbe
cominciato dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già avevano
cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio, e a
questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione
appariva necessaria; madi ciò si avrà campo a discorrere lungamente in luogo
più opportuno (1). 92. Ma vi ha di più, ed è che nella tribù, come noi abbiamo
visto a suo tempo, già si incomincia la formazione di due ordini diversi di
persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei
quadri dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere
indipendenti dal patriziato, sebbene ancora si trovino in con dizione assai
inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine
servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la conget tura,
che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno
del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento dell'elemento
giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali;
in quanto che altro dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i
padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea
della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che
venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra
l'ordine superiore dei padri e quello inferiore della plebe, il quale non potè
a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che (1) La questione del
parricidium e della perduellio sarà trattata nel lib. II, di scorrendo delle
leges regiae. 116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in
cui sape vano di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste
due forme del diritto primitivo, le quali del resto trovano la loro base nelle
condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni
pri mitive del diritto romano, quali sarebbero quelle del mancipium, del nexum,
della manus iniectio e simili; le quali, a mio avviso, come dimostrerà a suo
tempo, sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti
fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i
patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non aveva
dapprima altra garanzia da dare che quella della propria persona, fosse co
stretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi
con quella severità, che era propria del nexum primitivo, e che il patrizio
insoddisfatto potesse mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo
carcere privato, mediante la procedura della manus iniectio; questi modi di
procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia
appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni
passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo fu
l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano sopratutto per iscopo di
gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello
per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di
trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi (1 ).
Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di
questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità
del tutto peculiari al diritto quiritario. (1) Lo svolgimento di questa teorica
può vedersi in questo stesso libro Capo X, ove si tratta appunto di alcuni
primitivi concetti del diritto quiritario. Di alcuni caratteri generali del
diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I giureconsulti classici col dire
che il ius hominum causa constitutum est, enunciarono una verità, che trova una
piena con ferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il diritto primi
tivo vennesi formando fra le genti del Lazio. Credo di aver dimostrato, che
finchè trattavasi di persone, che appartenevano al medesimo gruppo, il fas, il
mos e l'autorità pa triarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni,
potevano bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di
fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra
di loro; poichè in allora, mancando la comune discendenza e l'autorità
patriarcale di un capo, conveniva di necessità porre le reciproche obligazioni
sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri
importantissimidel diritto primitivo, che possono spargere molta luce sulla
formazione del diritto quiritario, e dileguare una quantità di sottigliezze,
che furono immaginate per spiegare quel diritto, senza cercarne la causa nelle
condizioni sociali, che ne determinarono la formazione. 94. Il primo di tali
caratteri sta in questo, che i rapporti giuri dici, nel vero senso della parola,
sorsero dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che
erano assorbiti ed uni ficati nel medesimo. Di qui le solennità, che dovevano
necessaria mente accompagnarne gli atti, come quelli che non riguardavano gli
interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si riferi vano
all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così avevano, per
usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu
pertanto amore di formalismo, che guido un popolo così eminentemente pratico,
come il romano, nella forma zione del proprio diritto; ma questo, nei suoi
esordii apparve ingombro di formalità e d i finzioni, solo perchè, dopo
essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, fu trapiantato
118 in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè
archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che
si erano formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole
modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in
esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e
politica (1). Nel che se guono un processo, che non abbandonarono neppure più
tardi; quello cioè dinon creare giammai una forma novella, finchè quella già
prima (1) Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto
primitivo di Roma. Si comprende quindi, che gli autori contemporanei se ne
siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit,
Chap. II, in cui si oc cupa delle finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING,
che ebbe a dedicarvi buona parte del III volume della sua opera: L'esprit du
droit Romain, da pag. 109 fino al fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti
questi autori, sarebbe,che questo forma lismo del diritto primitivo di Roma
debba essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento
esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e
proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza.
Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi
limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che
comparisca presso i popoli veramente primitivi;ma che esso compare soltanto, al
lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più
non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli primitivi non si
può dire, che essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di
esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e
quindi hanno una mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata,
tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni.
Quindi il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo primitivo, è invece
l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta forme create in un periodo
ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le
forme, che si conservano come tali, sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa,
che sono trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si
limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella
morale, nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se
diventò formalista, fu perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia
del passato e fare entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi
rapporti, che erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme
antiche, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla
conseguenza, per cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto,
avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la
parola al concetto; il che non impedisce perd, che più tardi, trasportandosi la
stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la
cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa. 119 esistente possa
ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di
Roma questo diritto fosse veramente disac concio, dal momento che allora
soltanto si usciva da una condizione di cose, in cui il padre rappresentava
effettivamente quel complesso di persone e di cose, che dipendevano da esso.
Quindi era natu rale, che per qualche tempo il diritto primitivo conservasse
quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo genti lizio;
solo cominciò a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali
il diritto primitivo di Roma, quando al padre si venne sostituendo il
cittadino, e più ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo libero. Del
resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in
cui sia veramente il padre, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da
lui rappresentato, per guisa, che esso sia padre quanto ai figli, padrone
quanto ai servi, patrono quanto ai clienti, e rappresenti il gruppo da lui governato,
ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo
padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gliscrittori di
cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto
l'aspetto esclusivamente giuridico; ma gli altri scrittori latini, allorchè ci
dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una grande famiglia, custode
geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e cieco, ad
esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui
servi, e sopra un nu mero grandissimo di clienti (1). Del resto anche il
diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale, che
circonda il capo di famiglia, come lo dimostrano le seguenti parole attribuite
ad Ascanio: « Moris fuit,unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae
per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid
de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus
damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare
all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico;mentre invece,
riportan doci al periodo gentilizio, questa figura primitiva presentasi anche
(1) Cic., Cato maior, II, 37. È poi sopratutto nei poeti latini, e specialmente
nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la
patria po destà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel
fatto. È da vedersi in proposito l'Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de
l'ancienne Rome, tome 1er, pag. 347 a 356. (2 ) V. Bruns, Fontes juris romani
antiqui. Edit. V, Friburgi, 1887, pag. 397. 120 più imponente col suo carattere
patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come
l'acceptum, l'expensum, lo spon sum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo
di famiglia si cam biassero in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore
(1). 95. Un secondo carattere poi sta in questo, che il diritto primitivo
presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse,
come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti
il suo impero non fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente, che
quello di ricorrere alla manuum consertio, la quale, allargandosi dalla
famiglia alle genti, e da queste alle tribů, manterrebbe le medesime in uno
stato di guerra permanente, i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di
generazione in generazione (2). (1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto
più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il
complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere
richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece
non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel
costume e nella consuetudine; ma cominciò dal comprendere quelli, che erano
resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. Fu in questo modo,
che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su pochissimi
concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi
trasformasi nel ius proprium civium romanorum; quindi assorbisce anche nella
propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da ultimo giunge ad
informarsi persino al iusnaturale; concetti questi che, se non avevano ancora
una configurazione scientifica, vivevano però già nella coscienza generale del
popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia. (2) Ciò mi conferma in
una antica convinzione, che ho già avuto occasione di esporre nell'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Lib. I, Cap. I, pag. 38
e seg., la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche pri mitive il
diritto non confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere
la forza e la violenza. So che questa opinione ebbe ad essere combattuta da
egregi giovani, che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri dallo
Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano 1885, pag. 31, e dal Puglia,
L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, pag.
42, nota; ma i fatti mi in ducono a persistere nella medesima. Non è già che io
neghi, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la
privata violenza: ma quando pre sentasi il diritto, esso non solo non
confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a
seguire certi processi, che ne impediscono le esagera zioni e gli eccessi. In
questo senso aveva ragione il poeta di scrivere: Nam genus humanum. Ex
inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque
iura. Lucretius, De rerum natura, Lib. V, v. 1144-46. 121 Cid è anche
dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assu mono le guerre in
questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia
primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da
qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi
estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza a
scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei
rispettivi loro territorii; scorrerie, che si sospendono mediante le induciae
nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente.
Ciò fece quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato
perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è contraddetto dalle
solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la
formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a
luogo più opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la
formazione del primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni
dei sin goli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti,
fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione
eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei
rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di
gruppo. Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui
fatti, che la formazione di un diritto, che governava i rapporti fra le varie
genti, dovette precedere la formazione del diritto privato propria mente detto:
il che è dimostrato anche dalla considerazione, che negli antichi scrittori si
discorre dei iura gentium, prima ancora che si discorra del ius quiritium e del
ius civium romanorum. Infatti: i iura gentiun, i foedera, le sponsiones fra i
capi delle varie genti erano già rapporti, che si erano svolti anteriormente
alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il
ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa città di Roma; il che
appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto
dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui mercati, ove comparivano
i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si potevano anche trattare
le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di un vero e proprio diritto;
il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenevano a genti diverse,
e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto, dovette necessariamente
essere dapprima piuttosto un ius gentium, che non un diritto, che - 122 potesse
chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col
trasportare fra i cittadinidella medesima città quelle forme, che si erano
prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e
famiglie (1). Si può quindi affermare, che anche quel diritto primitivo di
Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non
trovi sempre la pro pria origine nella forza, come molti sostengono; ma che in
parte abbia avuto invece un'origine essenzialmente contrattuale, come la città,
in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché
doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire
da uno stato di privata violenza, e se la forza continua ancora nei rapporti
fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi,
mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto. Fu solamente più tardi,
allorchè la città co minciò ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi
ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do
(1) Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire,
che si formò dapprima il ius gentium, che non lo stesso ius civile, e che il
ius quiri tium fu un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e
poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato
dai fatti e ne appari ranno man mano prove così evidenti, che mi sembra
impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo,
che mentre la famiglia poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti
interni; questo invece era indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e
fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel do minio delle induzioni,
aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura
naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il diritto nel suo
svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana
natura; poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più
tardi sarebbe comparso nell'interno della città. Esso insomma nei fatti seguì
un processo del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in
Roma; la quale cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad
abbracciare anche l'equità del ius gentium; e più tardi soltanto giunse ad
innalzarsi all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza, che i
iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana
natura, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra
le varie genti, imposte dalle necessità di fatto; mentre il ius gentium accolto
dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte, a
cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse
neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca,
più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto
allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho
scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag. 179 a
194, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate.
123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusi
vamente religioso e morale, imponendo un diritto, a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2. Il
connubium e il commercium nel periodo gentilizio. 97. I caratteri del diritto
primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono
eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una
portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium, di commercium e
di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente
alla formazione stessa della città. Infatti non può esservi dubbio, che tutti
questi concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la
comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè contrattuale, che esistono fra le famiglie, le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio, nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto. Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a
costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali,
sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come
questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica, abbiano
questo di particolare, che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal
modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad
essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab biamo una
persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra; nel commercium
abbiamo una persona, che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà,
addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di
cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico; nell'actio infine,
abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto
da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima,
appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita
sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può af
fermare con ragione che hominum causa constitutum est. Intanto ciascuno di
questi concetti è eminentemente sintetico e compren sivo per modo che ognuno
può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che
apparirà ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti
secoli, finirà per con chiudere, che: omne ius vel ad personas, vel ad res, vel
ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro come questa classificazione sia stata
di recente combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso
SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici
intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di
Gaio non aveva nè valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain.
Trad. Guexoux, Paris 1840, I, pag. 387 a 404. Parmi tuttavia, che chi consideri
la correlazione perfetta, che vi ha fra la classifi cazione teorica di Garo, e
i concetti, da cui il diritto quiritario ebbe a prendere le mosse, e tenga
conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della
giurisprudenza romana, malgrado i quattordici secoli, per cui durò l'ela
borazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il
SAVIGNY dice a pag. 390, dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che
come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece ha
valore storico ed in trinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la
giurisprudenza romana; in quanto che sarà facile il dimostrare a suo tempo, che
nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e
quindi alle persone non fu che uno svolgi mento del concetto primitivo del
connubium; tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal
concetto di commercium; e infine quella, che si riferisce alle azioni, non fu
che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto
primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle, De exceptionibus in iure Ro mano.
Torino, 1873, pag. 13. L'autore, che pose meglio in evidenza la correlazione
fra connubium, commercium ed actio, fu il LANGE, Histoire intérieure de Rome,
I, pag. 13, in nota. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di
queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento
dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del
diritto romano solo si pos sono spiegare, in quanto che la dialettica giuridica
non consentiva di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui
lecito di porre innanzi una conside razione, che potrà parere troppo filosofica,
non dubito di affermare, che nel con cetto romano la distinzione seguita da
Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua
larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine
violato affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente
del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto
personale, il diritto reale e l'azione, che serve a difenderli. 125 98. Fra
questi concetti presentasi anzitutto quello di connubium, che nella sua
significazione primitiva indica la facoltà, che appar tiene ad individui, i
quali appartengono a genti diverse, di impa. rentarsi fra di loro, mediante
quelle nozze, che dalle genti sono rico nosciute come giuste e legittime (1).
Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che
nell'alto concetto, che avevano le genti patrizie dei proprii an tenati e del
sangue, che correva nelle loro vene, questo dovesse essere un rapporto, in cui
tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che
appartenevano al medesimo nomen, fosse questo il latino, il sabino o l'etrusco,
avevano fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradi
zione, secondo cui, se i Ramnenses vollero avere il connubium coi Titienses,
dovettero ricorrere alla violenza ed alla forza; il che perd non tolse, che il
mescolarsi del sangue delle due tribù sia stata la causa del loro successivo
affratellarsi per formare una medesima città. Furono infatti le donne di
origine sabina che (secondo una tradizione, la quale se non è vera è certo ben
trovata ) si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad
affratellarli nella stessa città, dando perfino il loro nome alle curie, in cui
essa è ripar tita (2). Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che ap
partenevano allo stesso nomen e facevano anche parte della stessa tribù, il
connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui (1) È questa la
significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di
connubium fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. Fu solo nel
diritto quiritario, che il ius connubië passò a significare il diritto di
addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei
rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che
deriva la manus, che fonda la fa miglia; la patria potestas, che spiegasi,
allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale
si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e
si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. (2 ) Questa
tradizione è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata
dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a
noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist.
intér. de Rome, I, pag. 48. Ad ogni modo questa è una tradizione, che se non è
vera, è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dovette
avere un avvenimento che la rompeva col passato, e rendeva possibile il
connubium fra persone, che non appartenevano al medesimo nomen, preso nel senso
di stirpe e di schiatta. Fu questa prima mescolanza del sangue latino col
sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le
stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno
in origine rappresentava la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti.
Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i
patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie
gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva
confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere
anche più tardi per ac comunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe (1).
Intanto pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così
dire altrettante piccole potenze, riducevasi in realtà a staccare una donna da
un gruppo, di cui prima faceva parte, per trasportarla in un altro; il che
importava eziandio un cam biamento nel culto gentilizio, perchè essa
abbandonava quello dei suoi padri per diventare partecipe di quello del marito.
Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella
della confarreatio, a cui assistevano i capi di famiglia della gente e delle
tribù, a cui apparteneva lo sposo e la moglie, e che importava la comunione
delle cose divine ed umane (2 ). Di qui la conseguenza eziandio, che quanto era
dalla moglie recato con sè dovesse diventare (1) A chi chiedesse col linguaggio
ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'excogamia (V.
SPENCER, Principes de sociologie, II, Chap. IV, pag. 225 a 250 ), si dovrebbe
rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano
nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di paren tela, fra
quelle persone cioè, fra cui esisteva, secondo l'antico linguaggio, il ius
osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il
patrizio per scegliere la propria compagna non poteva uscire dalle genti, che
appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine
tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla
origine, furono anche in seguito i più facili a me scolare il proprio sangue
con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costitu zionale di Roma.
Torino, 1881, pag. 46. (2) Parmi allo stato attuale degli studii
incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio, come esclusivamente
propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi seguono tale opinione:
l'EsMein nella sua dissertazione: La manus, la pater nité et le divorce,
pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886; il Glasson, Le
mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180, e pare anche il
nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto romano,
Bologna, 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa origine patrizia
della con farreatio si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei dieci
testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù, e in ciò che le leggi
regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze
confarreate. V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si riferisce alla
famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto
romano. Padova, 1866. 127 proprietà del marito, o di colui, sotto la cui
potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per entrare nei quadri
del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di
famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che poteva esservi nella mede
sima, che era quella di figlia (filiae loco). 99. Viene in seguito il
commercium, il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di
diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato
di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi di famiglia,
appartenenti a genti diverse (1). Qui il rapporto è assai più superficiale, ed
è per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio per i con traenti.
Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il
patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile dalla coesistenza sul
medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che
anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai
commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti
e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto
sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi commerci, che vengono
ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti
neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse (conciliabula,
fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1) Anche qui la significazione primitiva
del vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi
circondata da popolazioni, con cui pratica il com mercium. È solo per opera del
diritto quiritario, che il concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi
una medesima città, dà origine al ius commercii,il quale poi, sviscerato negli
elementi, che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel ius emendi ac
vendendi, che in antico operavasi colla mancipatio; nel nexum, da cui deriverà
la teoria delle obbligazioni; e infine nella testamenti factio, che comprende
la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere
testimonio nel medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13.
Per tal modo nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione
legittima e la te stamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee
in quanto che la prima dipende dal connubium (V. sopra pag. 125, nota 1), e
l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la vera ragione della massima: «
Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse,
earumque rerum naturaliter inter se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50, 17). È
proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno separato due
ordini di idee, non li confondano più insieme, il che apparirà più chiaramente
altrove. (2) Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche
accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal
sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni
vicine; vantaggio, che fu una delle cause, per cui Roma, diventata ben presto
un emporio per il commercio delle popolazioni latine, potè esercitare sovra di
esse un'attrazione ed assimilazione potente (1). le antiche comunanze di
villaggio dell'Oriente; fra le quali esistevano degli spazii di terreno
neutrali, che servivano per trattare le paci e per il mercato (Village
Communities, pag. 188 e seg.). Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della
primi tiva associazione del commercio e della neutralità negli attributi di
Mercurio, dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il
dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il
patrono del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci.
Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel
medesimo sito si facevano gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra
le varie genti, derivò questa importantissima conseguenza, che come in
quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non
distinguevasi il diritto commerciale, da quel diritto, che ora si chiame rebbe
internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium, il che spiega
come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e
stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra
varii popoli. Non pud però esservi dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a
penetrare nel diritto romano, per opera del pretore, appare circoscritto ai
rapporti privati fra cittadini e stranieri, ed ha quindi un carattere
essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato dal Fusinato nel suo
accurato lavoro: Dei Feziali e del diritto feziale, pubblicato negli atti
dell'Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol.;
del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed
amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una
materia, che certo ne aveva grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità
sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc.
Leipzig, 1856-76; Vol. 4, dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente
del ius gentium. Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto
corre però questa differenza, che essi ri tengono il concetto ed anche la
denominazione del ius gentium, come opera riflessa dei giureconsulti; mentre
per me il ius gentium esisteva nel fatto e nella parola anche anteriormente e
solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra
tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium, e di iura
naturalia, mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius
naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata. (1) I1 MOMMSEN,
Histoire Romaine, I, Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione
eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa
comededita al commercio e Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha
combattuta tale opinione (Storia del diritto romano, pag. 17) e parmi in verità
che il fatto, per cui Roma diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa
essere spie gato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale;
poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei
propri inizii, po teva essere grandemente utile di essere in tal sito, da
richiamare il commercio - 129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone
appartenenti a co munanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni
più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre
anche la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma
era già divenuta una grande città. Solo deve avver tirsi, che questa compra e
vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano
a comunanze diverse, fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non
dovette naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche
più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e
svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere
riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e
più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono
eziandio queste fiere, che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che
anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva
nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza
della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5. (1)
Non può quindi, a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro, i quali
ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e
che la sponsio e la stipulatio, che certo già esistevano nei rapporti fra le
varie genti, fossero state invece importate di Grecia, per ciò che si riferisce
alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il
diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in uso presso i
romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento progressivo
del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid dal
comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex publica,
come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram, di facere
testamentum, nexum, mancipium secundum legem publicam. Quindi, ac canto al ius
quiritium, visse sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver rice vate le
forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche applicato nelle
controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor
pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e sopratutto da Plauto, che ne
dànno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non
risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile
per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato
nei trattati pubblici e nelle con venzioni private. Può darsi quindi, che le
genti italiche l'avessero comune colle el leniche, e che la espressione spondeo
fosse anche comune ai due popoli; ma i romani non ebbero certo bisogno di
apprenderlo dai greci, nè aspettarono ad adoperarlo solo verso la metà del V
secolo, come sostengono fra gli altri il MurueAD, Histor. Introd., pag. 227 e
228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte, p.465-470. Solo può
ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores,
la sponsio o stipulatio penetrò anche nello stretto diritto civile e fu
adottata come forma propria del medesimo. G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 9 130 dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in
poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più
frequenti per una popolazione agreste; delle quali formole alcune pervennero a
noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse
occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica (1).
È qui infine, che dovette prepararsi la formazione di un ius gentium primitivo,
che ha dapprima un carattere commerciale, come il commercium da cui esso
deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era
indispensa bile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia,
appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo
modesto ius gentium, formatosi sulle fiere e suimercati, richiami l'attenzione
del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute
soverchie del ius proprium civium romanorum (2): cid però non toglie, che le
origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale
di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga
anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di
osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso maestoso del fiume, che
ebbe a derivarsi da esse. $ 3. L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da
ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gen tilizio, dovette essersi
formato il concetto dell'actio, ma questa non significava ancora un mezzo
accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio
diritto, ma era, per dir cosi, il diritto stesso, che mettevasi in azione,
estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per
ottenere il proprio riconoscimento (3). (1) Il poco, che pervenne a noi delle
formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu SCHKE, Iurispr. anteiust. quae
supersunt, pag. 5, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a
sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo
in una formola tipica, che potrà poi servire per tutti i casi dello stesso genere.
(2 ) Cfr. sopra, pag. 128, nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio,
nella sua significazione primitiva, l'OR TOLAN, Histoire de la legislation
romaine, XI Edit., Paris, 1880, pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel
periodo decemvirale: « Action, sous cette période, est une dénomination
générale; c'est une forme de procéder, une procédure considérée 131 - È a
questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto primitivo di
tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di
azione e di procedura, che non come legge, che determini i diritti rispettivi
dei cittadini. Finché il capo di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa,
egli non ha bisogno, che la legge venga a ricordargli quali siano i suoi
diritti. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua
coscienza: quindi, se il medesimo venga ad essere violato, egli non può aspet
tare che uno Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere
la riparazione dal torto, che ebbe ad essergli arrecato. Come quindi è il capo
di famiglia, che vendica l'adulterio, che corre sui passi del ladro, che lo ha
derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati
dal costume e a cuiniuno oserebbe ribellarsi, perchè sono sotto la protezione
del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno
schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in
presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello
schiavo, quel figlio. Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la
prima manifestazione del diritto. Prima esso esisteva allo stato latente, ed
ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo.
Quest'azione tuttavia, non è an cora la legis actio; perchè in compierla l'uomo
offeso non ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al
senso in timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento
sopratutto, sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che
il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e
ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura
verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale,
mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del
proprio diritto, dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe
ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui
doivent la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio;ma se
noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma
semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un
modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle, La vita del
diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi
un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse; mentre facere si
adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per
così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto, l'occasione
non dovrà certamente essere trascurata. Sarà quindi prima il mos, che comincia
coll'additare la via consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol
far valere il proprio diritto; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e
dichiarera empio chi non segua quel determinato rito; ed infine sarà anche il
ius, che verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella
procedura, e obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis gratia
), per ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio violenta,
rozza, avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio,
consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per attutire le passioni
irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii
dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi
ritorno, quando la legge non fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a
mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle
norme procedurali nel primitivo diritto, e quindi anche nel romano, sia
prevenuto da ciò, che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La
ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle
origini stesse della convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in
ciò, che l'opera della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto
per assicurare il diritto, quanto per reprimere le reazioni violente, a cui
abbandonavasi colui, il cui diritto era violato. In questa parte diritto
privato e diritto penale seguirono analoghe vicende. Al modo stesso, che le
leggi penali non mirarono dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto
a porre dei confini alla privata vendetta, e resero cosi obligatoria quella
composizione a danaro, che dapprima dipendeva dall'accordo delle parti: cosi
anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
primitivi comprendessero più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più
urgente bisogno di una società, in via di formazione, era quello di impedire
fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ra
gioni (1). (1) Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione
privata, è da vedersi: Del GIUDICE, La vendetta privata nel diritto Longobardo,
Milano, 1876. Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura,
presso i popoli pri mitivi, alla prevalenza, che presso di essi ha la forma
sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions,
Lect. IX, ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive «
che in uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non vi ha forse nel
vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto filosofo e storico
una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di agere e di actio,
e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato.
Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere », questi
due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi abitatori del Lazio, che,
pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo
le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori e quasi alteri della propria
origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare
l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo (ius agendi cum
populo ), ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio
diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta, che dovette in quei
primi tempi essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie
ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed in
dipendente non dovette esser così facile il conseguire, che essi si
sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è
quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro apparire così importante, che
ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno
dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè sorgeva una controversia fra
capi di famiglia, ap partenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di
risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri
ed amichevoli compositori, che dovevano essere concordati fra le parti, come lo
dimostra un antico costume, che gli scrittori latini attribuiscono ai proprii
maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la
controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del
che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti
dall'ordine dei padri diritti ed idoveri sono piuttosto un'aggiunta della
procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri. »
(1) V. BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. (2 ) Cic., Pro Cluentio, 43: «
Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam, sed ne
pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios
convenisset ». Del resto, anche secondo la legislazione decemvi rale, sembra
che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componi menti, come
lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II, legge 14, se condo la
ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, p. I, pag. 696. 134 o senatori, e solo
dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il
partito degli ottimati e quello popolare, po terono anche essere scelti fra gli
equites (1). 104. La cosa però veniva a farsi più grave, allorchè i contendenti
non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di
ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul
fondo stesso o davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero
dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se
niuno di essi cedeva, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che
non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a
cui secondo Gellio fu poi sostituita la vis festucaria, e che si effettuasse
cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome dimanuum consertio
(2 ). È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due
persone sono cosi in lotta fra di loro, possa anche in terporsi fra di esse una
persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di
separarsi colle parole, che più tardi sa ranno pronunziate dal pretore nella
procedura quiritaria: « mittite ambo hominem ». Tace allora la lotta: i
contendenti, fatti umili dal l'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e
dallo stato stesso di violenza, in cui furono sorpresi (3), chiamano entrambi a
testimoni la divinità, che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia
mag giore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scom messa, la
quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al
giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di
sacramentum. Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la
persona autorevole, che si è in (1) La legge che trasportò dall'ordine dei
senatori a quello degli equites la ca pacità ad essere giudici fu la lex
SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dovette
però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle
leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito
ORTOLAN, Histoire de la législation Romaine, $ 283, pag. 228 e seg. (2) Aulo
Gellio, Noct. attic., XX, 10, $ 8 10. (3) Questo sentimento veramente sociale
ed umano del pudore, che guadagna colui che si appigliò alla violenza, trovasi
maravigliosamente espresso da OVIDIO, Fasto rum III: « Et cum cive pudet
conseruisse manus. » È però a notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore
alle violenze fra i cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra
cosa. - 135 - terposta, ad essere giudice non tanto della ragione o del torto
dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi;
sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba
ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la
medesima. Fin qui pertanto, non si ha che un processo di cose sociali ed umane,
di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dovette
certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi di
gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che
avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose
si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a
modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita
giuridica, e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta formando
quel l'actio sacramento, che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il
diritto quiritario, e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già
abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud ancora a
celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale
dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una
pantomina incomprensibile, nè di cam biare il popolo maestro al mondo nel
diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo; ma è il
caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a percorrere
l'amministrazione della giustizia, riportandola in quell'ambiente patriarcale,
nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze
(1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa
innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che fu poi anche divisa da
molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an (1) È già da
qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una spiegazione
naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono vedere degli
accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles, 1876. Introduction, $ 20,
Vol. I, pagg. 59 e 60; nel SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect.
IX; nel MUIRIEAD, Historical Introduction, pag. 191 e 192; nel BUONAMICI,
Storia della procedura romana. Pisa, 1866, vol. I, in princ. Non credo tuttavia
che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè
che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di
un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto XVIII, v. 690 a
705, descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una
procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136 tiche della
stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col
vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio, in quanto che le medesime
ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio
diritto (1). Lasciando per ora in disparte la pignoris capio, che ha solo una
importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu ammessa, importa anzitutto
notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due
significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale. Havvi
anzitutto la manus iniectio, a cui ricorre colui che, dopo aver invitato
inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato, gli pone addosso la
propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di
trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia, in cui egli si
trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio, ma solo
un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al magistrato.
Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis actio, consiste
nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus,
l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere privato, e
costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè
sia soddisfatto (3 ). (1) BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts,
Berlin, 1874-75, 2 vol. V. particolarmente vol. 1, pag. 18-74. Del resto un
tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit du droit
romain, Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che egli dà poi alla manus
iniectio, come legis actio, una significazione del tutto speciale. Vedi vol. I,
§ 14, e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio accennasi nella prima legge
delle XII Tavole: « Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito.
Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito., (3 ) Sonvi persino degli
autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa es sere considerata come
una vera legis actio, in quanto che essa non richiederebbe l'intervento del
magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi di esecuzione. Fu questo il
motivo, che indusse il JHERING, op. e loco cit., a dare una significazione
speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle
discus sioni, che di recente sorsero intorno alla questione, se la manus
iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio, è da vedersi il MUIRHEAD,
Histor. Introd., Sect. 36, pag. 201 e seg. Parmi tuttavia, che il dubbio non
possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha
il vocabolo di legis actio nell'antico diritto; nel quale esso indicava in
sostanza i diversi genera agendi in conformità di una les publica, per modo da
comprendere la stessa in iure cessio, allorchè ser viva per effettuare una
adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.
V. quanto alla manus iniectio il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 616. 137 Or
bene la manus iniectio, cosi intesa, non può certamente essere considerata,
come di formazione anteriore all'actio sacramento. Per verità mentre questa
contiene la storia delle varie peripezie, per cui passò lo stabilimento
dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca, in cui non eravi
amministrazione di giustizia; la manus iniectio invece, quale appare nelle XII
Tavole, suppone già stabilita una amministrazione della giustizia, in quanto
che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi ob
bligato colla solennità del nexum, o abbia confessato il proprio de bito
davanti al magistrato, o sia stato condannato al pagamento. Nè serve il dire,
che la manus iniectio primitiva, essendo un mezzo per il privato esercizio
delle proprie ragioni, dovette essere applicata anche in altri casi; mentre la
legislazione decemvirale l'avrebbe circoscritta ai casi da essa determinati,
nell'intento di im pedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente
rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può
comprendere una procedura solenne, come quella dell' actio sacramento, in cui
le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi
nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto
ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non è
un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto
egli possa essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che
siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio, e in seguito
l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al
cenno dell'altro, e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo
carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio
sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non
esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già
esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito mi fo lecito di
avventurare la congettura, che la manus iniectio dovette essere una speciale
forma di procedura, che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti
patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore
patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, comeun'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi
simili di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora
dimenticato l'o rigine servile. Quindi è, che la manus iniectio deve essere con
138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che
dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a
quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe
inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo
ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia lottato
cosi lungamente per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno
dell'antica sua sogge zione servile, come sarà dimostrato a suo tempo. Per
quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi
limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato corrisponde alla
vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la
vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette anche esservi un
tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle proprie ragioni.
Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo
dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di esse cosi
la pri vata vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie
ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii
sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza la
privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non
appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di
diritto. Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi
l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è
regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere
termine allo stato anteriore di privata violenza. Fin qui si considerarono
soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi
dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel
diritto, che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum
più tardi; ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra i varii
gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo
ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli
durante il periodo gentilizio. $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti
primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non
erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano
come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di
diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non
era però lo stato naturale di esse. Ciò sarebbe come dire, che due per sone che
non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto giuridico siano fra
di loro in lotta. Potrà darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che
stiano in guardia: ma non percid pud dirsi che siano in guerra effettiva fra di
loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto,
perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra (1). (1) Sarebbe qui
inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basterà
ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre primi volumi relativi
all'Oriente, Grecia, Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, I, il quale
attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche
nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non proviene
unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una nuova
forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le forze ed energie vitali
si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra dividere la stessa opinione
nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, 1884, « Atti della
R.Accademia dei Lincei », Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, vol.
XIII, Introd., Cap. I, al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia
completissima sul tema di questo capitolo. Egli tuttavia già trova, che il
popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo
punto, a differenza del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 67, 140
108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato
dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra hostis e
perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero, con cui non eravi rapporto di
diritto, e contro il quale il popolo romano si riservava piena ed intera la
propria autorità giuridica e la propria libertà di azione; mentre perduellis,
nella sua significazione arcaica, come lo indica lo stesso vocabolo, era colui
con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per mancanza di un comune diritto,
veniva ad essere necessità di appigliarsi alla guerra. Fu solo più tardi, che
il vocabolo di hostis assunse una significazione più dura e significò effet
tivamente il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti:
peregrinus chiamasi colui, col quale non havvi nè ami cizia, nè ospitalità, nè
alleanza; hostis quegli, con cuiRoma trovasi in guerra aperta; perduellis
infine colui, che nell'interno dello Stato cerchi di recare perturbazione e
conflitto, mettendosi in lotta coll'in teresse della patria sua. Questa
trasformazione si opera però lenta e note relative, il quale attribuirebbe al
popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli,per trattarsi di un
popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo. Per parte mia
ritengo, che i Romani in questa parte si governassero colle norme stesse delle
altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è
loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però
ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenessero in stato
naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso tutte le formalità
dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una commedia inesplicabile e in
contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto
agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella
primitiva significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. 5, § 2, Dig.
(49, 15 ). Del vocabolo hostis, si discorrerà più sotto, e quanto al passo di
PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri fossero nemici, dice anzi
espressamente che « si cum gente aliqua neque amicitiam, neque hospitium, neque
foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt ». Tuttavia
siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di « aeterna
auctoritas esto », donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro
mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei
romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una conseguenza dello stato
di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di di
ritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se
la guerra fosse lo stato naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE
abbia potuto scri vere: « nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus
repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit, et indictum », De off, I, II, e
De Rep., III, 23. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del
ritenere, che le cerimonie del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori,
il che certamente non dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti
venne ad essere introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione
decemvirale, che, come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro
significazione arcaica, il vo cabolo di « hostis », continua ancora sempre a
significare colui, col quale non esiste comunione di diritto, come lo
dimostrano le espres sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e
l'altra « adversus hostem aeterna auctoritas esto ». Del resto, che il vo
cabolo hostis negli esordii non suonasse nemico, nella significazione, che noi
siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche ad essere dimostrato
dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il
quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o
protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione »; donde anche i
vocaboli di hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei
rapporti, che intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte
della medesima tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro,
viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di
esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri
mitivo ius pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a
quella, che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di
famiglia. Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie
genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto
positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti
sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano
fra di loro. Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti
sia intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym. lat., Paris. 1886, vº
Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis
viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE, allorchè
scrive: « Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc peregrinum
dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim
recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret, re mansit ». De off., I,
12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V, I (Bruns, Fontes, p.
377). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che signi
fica e lo straniero ricevuto in protezione », come pure il fatto, che nelle
origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un tempo,
costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la
guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. Fu
solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di loro,
che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della
città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne. 142
zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e quello
di pactum ); al modo stesso che, accid siano in istato di guerra, occorre, che
siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che,
senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd l'impero del
fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis ac belli già
erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza romana, e che la
medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e a riti, i quali,
prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio
sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai rapporti, che
vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in tanto, derivd
la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale, essendo
stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale, acquistò
un carattere artificioso, che lo fece talvolta apparire come un ostentazione
puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si facessero per una
giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra.
Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui
ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad
essere determinata dalle condizioni, in cui si trova. vano le genti primitive.
Il ius pacis, ossia l'amicitia, l'hospitium, la societas nel periodo
gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si ven
gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in
sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi essi finiscono per
modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che
possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che
indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i capi delle varie
genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui
possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una
convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in
quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii
gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I
vocaboli, intanto, che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo,
sono quelli di amicitia, di hospitium societas. Prima presentasi l'amicitia,
che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede fra due genti diverse o
meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo
reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente amica è quella, a
cui si potrà, in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda
di intrattenere amichevole commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un
riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una
cosa venga a cadere in mano di una gente amica, questa non potrà appropriarsela;
il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse esistita fra di loro alcuna
comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci
commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al
sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che accompagnano i trattati di
amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato
col vocabolo di actio e specialmente con quello di reciperatio; il quale è
certamente bene appropriato per significare il rapporto, a cui intendeva di
accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso diede luogo. È
nota in proposito la definizione di Elio Gallo: Reciperatio est, cum inter
populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per
recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se
persequantur. La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio, quando diasi
al vocabolo di lex la sua significazione primitiva di con venzione e di patto;
interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di « lex
convenit ». È evidente infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima
fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di
permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere
rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città, con cui
trovansi in rapporto di ami cizia; come pure è evidente la correlazione, che
intercede fra questo vocabolo e quello di rerum repetitio, che costituiva, come
si vedrà fra poco, uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione
di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reci procare, il
quale, secondo Festo, significa « ultro citroque poscere » cioè far valere
rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva
l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che
chiamansi di reciprocità e direciprocanza. Ciò infine spiega eziandio, come si
chiamassero recuperatores quei giudici od arbitri, che erano chiamati a
risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli
stranieri. Infine si 144 viene anche a darsi ragione, come in una città come
Roma, che fu sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito
per essere una autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre
decideva le questioni con stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere
delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si
trattasse di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che
fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A
proposito dei re cuperatores, si è poi lungamente disputato se i medesimi
fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se
potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carat tere
pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra
comprendere le une e le altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle
cose tolte da un popolo ad un altro, e alla prose cuzione delle cose private.
Se quindi fosse lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere
probabile, che in quell'epoca, in cui ancora mal si distingueva la ragion
pubblica dalla privata, i recu peratores, che erano persone scelte fra le due
genti amiche, potes sero essere arbitri dell'uno ed un altro genere di
controversie, perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo.
Allorchè invece, al disopra delle genti, venne a formarsi la città, e per tal
modo cominciò a distinguersi la cosa pubblica dalla privata, i re cuperatores
ebbero circoscritta la propria competenza alle contro versie di carattere
privato. Fu in allora che i recuperatores si man tennero per le controversie di
indole privata, e che i fetiales furono creati invece per le controversie, che
insorgevano fra i varii popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu
ilmodo, con cui gli individui res privatas inter se persequuntur, mentre la
rerum repetitio di ventò un preliminare della guerra; fu allora infine che i
iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius
gen tium rimase ad indicare un complesso di norme, che governava i rap porti
diindole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu
adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città.
Anche qui insomma non si fece che applicare un processo, le cui traccie sono
evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere,
sacra profanis Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi
vocaboli sem. brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette
recare imbarazzo a coloro, che avevano operate queste distinzioni; ma che
complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi
sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo
stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il
quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a
far parte della famiglia; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra
dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa un
ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità
presso tutti i popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati
gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità,
oltre al fon darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e
se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere
ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia,
come lo dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano perfino,
se gli ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli verso il
cliente: nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della
recuperatio, HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup., pag. 97, n ° 13. Questa
congettura, che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere
parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius
naturale, gentium, etc., II, e dal Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale.
Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium, possa
presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd., Cap. I,
§ 1, pag. 463, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega
in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata
alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche
quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il Fusinato da una
parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza giudiziaria in
interessi di pubblica natura », Op. cit., Cap. V, § 2º, e il SelL ed il Rein da
lui citati, che sostengono invece un'opinione diversa. Credo poi chenon possa
essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra recuperatio e rerum
repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione,
poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa
il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di
appigliarsi alla guerra. Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae
datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il
diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato al Capo V, § 3º. Ciò
significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente
applicato in tutte le di stinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti
pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii
argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si
tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma an’autorità giudiziaria,
pressochè permanente, appare da ciò, che essi non erano ignoti alla stessa
legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi era chi collocava
prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente,
quindi l'ospite; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti
però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la precedenza sui
cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la congettura, che
l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione gentilizia due
istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro; colla differenza, che la
ospi talità importava solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la
clientela importava un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto
pertanto, si poteva dire che il cliente veniva prima del l'ospite; maquando
invece si consideri che la clientela importa subor dinazione e dipendenza,
mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia
l'ospite in un altro, ben si pud com prendere il motivo, per cui Masurio Sabino
concedesse sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in
quanto che l'ospite e l'ospitato erano in rapporto di uguaglianza fra di loro,
il che non accadeva del patrono e del cliente (1). 113. Così il concetto
dell'amicitia, che quello dell'hospitium, do vettero nel periodo gentilizio
avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. Fu solo posteriormente,
quando dalle genti e dalle tribù uscirono le città, che cosi l'amicitia come
l'hospitium subirono quella distinzione, che si operò in qualsiasi altro
argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che
anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dap prima
e del magistrato dappoi servì per accogliere gli ospiti del popolo romano; ma,
a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello Stato dalla persona
dei singoli cittadini, si dovet tero anche distinguere l'amicizia e
l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi fu un effetto della pubblica
amicizia, che il cittadino romano, quando era fatto prigioniero di guerra,
godesse senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel
territorio di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comin
ciava ad essere « pubblico nomine tutus » (2). Parimenti l'hospitium pubblicum,
allorchè fu accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di
una città, venne a cambiarsi in certo modo nella (1) V. sopra il passo di
Masurio Sabino a pag. 48, nota 2. (2) L. 19, $ 3 Dig. (49, 15 ). 147
concessione della civitas sine suffragio: il che rende non desti tuita di
fondamento l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur,
vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva
significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al vocabolo di
municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità,
presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia,
ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la 80 cietas
fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un acco munare le proprie
forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi,
che si possono ricavare dall'opera insieme associata. I patti e le condizioni
di questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa
alleanza difensiva ed offen siva delle genti, fra cui interviene, e una
conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre
l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare origine nel fatto e nella
consuetudine; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti
ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il con cetto
del foedus, il quale ebbe larghissimo svolgimento e diede luogo ad
importantissime conseguenze nel periodo gentilizio. $ 3. - N foedus e le sue
svariate applicazioni nel periodo gentilizio. 115. Per quanto sia dubbià
l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del foedus sta nella
fides, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il
medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio, a cui
adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia. Infatti, sebbene di regola
sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus, è
pag. 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79 e seg. Questa opinione fu
di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze, 1886, 8 31,
Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium
pubblicum e il municipium, nella prima delle significazioni che è attribuita a
quest'ultimo vo cabolo da Festo, vº Municipium, vuolsi però avere presente che
l'hospitium è isti tuzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone
già esistente e svolta la convivenza civile e politica. 148 però facile
l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dovet. tero avere
significazione diversa. Mentre infatti la societas indica il rapporto, in cui
entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di
preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere
stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di
carattere pubblico da quelli di carattere privato: cosi il vocabolo foedus si
presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e
stipulazioni private e, sopratutto nei poeti, significa persino quelle
convenzioni tacite, che sembrano strin gere tutti i popoli, che si trovino in
analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati
col vocabolo di foe dera generis humani, poichè il popolo che vi venisse meno
sem brerebbe in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali erano fra
gli antichi l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale sarebbe
stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non avevano fra di loro
comunione di diritto; tale era eziandio quel costume veramente umano per cui,
terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, acciò i due eserciti
potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più, anche nei rapporti fra
le genti, il foedus non significava soltanto la confederazione o l'al leanza;
ma poteva significare qualsiasi accordo, che venisse a seguire fra due popoli,
sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un
duello fra individui scelti negli eser citi che si trovavano di fronte, ed
anche quell'accordo, in base a cui si addiveniva alla deditio di un popolo ad
un altro e se ne fissa vano le condizioni. Il foedus insomma indica il momento,
in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie
genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gli
etimologi, non so trattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il
vocabolo di ius foeciale, con cui si indicava il complesso delle pratiche e
delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in
guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di ius foederale (1).
(1) Gli etimologi non possono accertare che foedus origini da fides, nè che
foeciale derivi da foedus: ma questo è certo, che le parole di fides, foedus,
foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una
strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo
il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius fetiale.
Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus è il
rapporto fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso
nell'organizzazione sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice
ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume
il carattere giuridico, in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù,
che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene
queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è
perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della
stipulazione giuridica, che le genti latine recarono non solo nelle con
venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura;
stipulazione che, a mio avviso, dovette probabilmente essere prima adoperata
per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato.
Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se
più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore,
che serviva per dargli il carattere di iustum, come lo dava al testamento, alle
nozze e a qualsiasi altro atto; questo è però certo, che le cerimonie, che
accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero
formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione. Non doveva
quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla
formazione dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da
essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette
anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi
la divinità in testimonio del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva
il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro
colui, che venisse meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con
un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità avrebbe col pito
il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso
che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli
individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola, che si riferì
dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli
uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato primitivo di foedus fu
presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò le re ligioni, le sepolture ed i
matrimonii i foedera generis humani. Il duplice significato pubblico e privato
di foedus occorre poi nel seguente passo di Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud
Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome sticum
pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data ». (1) Questo è
provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se 150 117. Questo
ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo
religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ebbe
certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dovette anche
prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il periodo.gentilizio.
Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di
guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al
medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è
probabile, che già, anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione,
di cui essa poi fece così larga ap plicazione fra il foedus aequum ed il foedus
non aequum. Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di
convenzione e di trattato, serviva, come ricorda Gellio, per dettare la legge
ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui
volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di
ossequio e di subordinazione verso quello che stava per vincere, il che
costituiva appunto il foedus non aequum e dava origine ad una specie di
clientela di un popolo verso un'altro, che nell'epoca romana fu poi indicata
coll'espressione « at maiestatem Populi Romani coleret »; altri infine, in cui,
essendo incerte le sorti della guerra, si poneva termine alla medesima con un
aequum foedus e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei
prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato (1). si poneva
118.Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e spon sio,
stata invocata qualche volta dai Romani, sembra che la mede sima costituisca
già un'applicazione, eminentemente giuridica, trovata dallo stesso popolo
romano e posteriore alla formazione della città. È noto in proposito, che i
Romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il ius foeciale, che è
quello relativo al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, DIONISIO ci
narra, che il medesimo fu solennemente stipulato, e che due cittadini eletti a
ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno
d'essi. Dion., III, 5. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 99. Ritengo poi
verosimile l'opinione del senatore Pantaleoni, ricordata dal Fusinato, Le droit
in ternational de la République Romaine, Bruxelles, 1885. Extrait de la Revue
de droit international, pag. 18; secondo cui il coltello di selce rimonterebbe
all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente
l'antico è ve ramente nel carattere romano. (1) Quanto alle varie specie di
foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio, XXXIV, 17. Esempii poi di
foedera non aequa possono vedersi in Gellio, Noc.att., VI, 5, e nello stesso
Livio, XXX, 15 e II, 25. 151 - stipulato coll'intervento del pater patratus e
colle cerimonie tutte del ius foeciale, mentre sponsio era la pace giurata
soltanto dal generale. Mentre il primo obbligava direttamente il popolo Romano,
l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato, obbligava solo a fare
la consegna del generale, che aveva giurato la pace. Ora è evidente, che questa
distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi
di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida
nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace
circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece
trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più
dirsi che rap presenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire
che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un vero trattato,
abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del
diritto feziale. Intanto perd, siccome il generale è colpevole per aver giurata
una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del
suo mandato; cosi il senato, che non ra tifica il suo operato, si appiglia alla
noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come
i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora
pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica,
stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei Romani: poichè per
essi il loro generale era anche il loro capo ef fettivo, e quindi poteva
obbligare direttamente il popolo da lui rap presentato (1). (1) Non parmi
quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distin zione, a
cui accenna il Mommsen, Le droit public romain, pag. 281, fra la semplice
sponsio del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè
è di chiarato abbastanza chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la
sponsio, se siano fatte iniussu populi, non possono obbligare il popolo Romano,
Livio, IX, 4, 5, 8. Quindi la vera distinzione viene ad essere questa: o la
convenzione è opera del solo capitano, iniussu populi ac senatus, che sono
quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio; o
invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il
vero foedus: donde la prova che la distinzione dovette essere un effetto del
passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizza zione politica. Cfr.
Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non
credo poi si possa ammettere col Mommsen, che sulla forma del foedus abbia
esercitata una visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel
foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come
quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per
contrarre le obbliga zioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che
esistevano già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno
e l'altra già si stipulavano con quella forma determinata, assai prima che i
giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fa cessero
applicazione alle convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione,
adoperata dai Romani nei rapporti colla divinità, nella formazione della legge,
nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata
accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per
guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni
private come di impor tazione greca. Il vero si è, che nel diritto primitivo
trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di
diritto privato; la quale deriva da ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli
uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme,
che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei
rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e
agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio, che sembrano aver
acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che
nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid è anche attestato da Gaio, che
chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata
alla sponsio del generale romano; poichè, se si venga meno al patto, non ex
stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur (1). (1) V. Mommsen, Le droit
public romain, pag. 281, il quale, secondo la tradu zione Gérard, di cui mi
valgo, scrive: « En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait
employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle était
considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des
obligations ». Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa
proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la
proposizione inversa. Infatti secondo il MUIRHEAD, Hist. Introd., pag. 227, e
molti altri, la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe
penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà del V secolo: epoca, in cui la
teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli, aveva
già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è che pur non ainmettendo
l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio fosse romana fino
dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120. Un'altra applicazione del
foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano anche non essere
in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti
potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega
difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata dal
foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ebbe ad esserci
conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù
e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i
capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità,
per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che
tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi
profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna
ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato
dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la
pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare: « dum coelum et terra
eandem stationem obtinuerint » (1). 121. Infine un'altra importantissima
applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale
più tribù, che possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra
di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad
una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la
formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra
cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è
importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii
ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che
fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza, non poteva
esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata
l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la
teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel
diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due
cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi
distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di
confonderle insieme(Gaius, Comm. III, 94). Da questa nasceva l'actio ex
stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. (1) Dion.,
VI, 95. 154 della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto
naturale, perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre
che la circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie
tribù, che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un
foedus (1). § 4. — Dei mezzi per l'annessione e per il distacco degli elementi,
che partecipano alla stessa comunanza. 122. Intanto egli è evidente, che
allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia,
in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a
pe netrare l'elemento federale e contrattuale, questo non può a meno di
attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza, che essa
prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto, che nel seno
della tribù e della città, costituita mediante la federazione di varie tribù,
cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza
un nuovo elemento, o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne
faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior
mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli
istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio, della
secessio e della colonia; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la
storia primitiva di Roma. 123. In virtù della cooptatio le genti, che già
entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono
accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte
in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè
Alba fu, secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata
eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso. (1) Questa origine
federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il
fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa
innanzi la pretesa, che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu
nione ed unità di governo; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal
Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due
popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr. WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad.
Bollati, Torino, 1851, I, S 85 e seg., pag. 108 ). 155 È poi questa
istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia,
la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente
considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile
all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui (1). Non pud poi
esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente
patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose;
perchè la gente, che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio
partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo
poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la
cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la
famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere
disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla
detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti
patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad
plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio
sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono
l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tri buno (2 ) È
poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai
collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti
dall'ordine patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa
ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata
l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi.
124. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora noi
vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della
civitas sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città vicina,
che venivano a prendere il (1) Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le
droit public romain, pag. 25; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 34.
(2) La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è
provata dal seguente passo di Servio, In Aen. 2, 156: « Consuetudo apud maiores
fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua
fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem, è da
vedersi Cic., Brut., 16, e Aulo Gellio, XV, 27. 156 nome di municipes (a munere
capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle
obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei
diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum. Fu con
questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale,
per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli
delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma,
che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una
propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in
sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle
sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza
delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò
però non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle
trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse,
che Festo attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui
veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas,
se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare
altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio
della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si
trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva
alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle
colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel
costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche,
sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che,
secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che
una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali,
collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione
di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e
colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi
iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con
dire, che le (1) I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla
colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier,
Introdution historique au droit romain, Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140; la
quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con
molta sagacia. 157 colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae
sunt ». Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la
lingua, le tradizioni della tribù o della città, dalla quale si stacca e si organizza
a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di
Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre
patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate, comequelle,
che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate
quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna, che le colonie nelle loro
origini siansi cosi chiamate a colendo; in quanto che può darsi benissimo, che
esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una
tribù, sta bilita sopra un territorio, per trasportarsi sopra un altro suolo,
quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera
popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto
della colonia, nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di
diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a
diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa, raccolta nella sola
città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare
pericolosa. 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla
differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito
religioso, sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e
plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad ogni modo la secessio, intesa in
largo senso, ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza,
trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi
altrove a porre la propria sede. Lasciando anche a parte i tentativi di
secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo, può
forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè dissimulato dalle tradizioni,
nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per
stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti,
lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza
romana (2 ). (1) Servio, In Aen., I, 12; Gellio, XVI, 13. L'importanza delle
colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Prima scienza
nuova, Lib. II, Cap. 42. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è
accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati, $
204-212. (2) Quanto alla tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di
Roma, I, pag. 418. 158 Alla secessio, che è volontaria, si contrappone invece
l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia; espul
sione, che per la intimità del vincolo, che stringe insieme i membri di una
medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel
nome, non escluso quel Tarquinio Collatino, marito a Lucrezia, il cui oltraggio,
secondo la tradizione, era stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione
patrizia e plebea ad un tempo, che condusse alla trasformazione del governo
regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia,
all'hospitium, alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e
so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in
gran parte avuto origine nel periodo gentilizio, dimostrano abba stanza come la
città, la quale era uscita dalla federazione e dall'ac cordo, potesse anche
subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi
diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla
stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia, potevano
bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac
colta o respinta dall'ordine patrizio, e cosi entrare od uscire dalla
partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero
insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei
medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio
civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o
sine suffragio. 127. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e
poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove;
mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui
popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria
amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare
alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al
suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in
tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi,
pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria
originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di
Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così
viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere
capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le - 159 popolazioni, ammesse
alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della
grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del
mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo (1). Solo più ci
resta a vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius
belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute
formando. $ 5. - Il ius belli durante il periodo gentilizio. 128. In proposito
già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché
universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato
naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une
alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso
che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di
pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia
uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere
considerate come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far
scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui
si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in
cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii,
i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere
frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di
più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o
gli uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano
commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così
pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti
a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e
dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di
Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra.
Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe (1) A questo proposito
però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu
l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere
parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere
la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella Repubblica Romana. 160 riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto
non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento
singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti
di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si
incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile
da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più
forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti
a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà
ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a
questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così
radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal
capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel
tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui
rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129. Per quanto questimodi di pensare e
diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella
guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano
una naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap
porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i
capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra
i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che
è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e
bellum, come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al
duellante significa già il pubblico nemico (2 ). Ciò spiega eziandio le
traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi
abbiamo quel mezzo, che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli
(1) È ovvio osservare l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con
quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si
arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del
culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla
trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il
BRÉAL, Dict. étym. lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è
analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per
guisa che come da duo derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del
resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini
e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores optimi ». - 161 - cato a
risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza
costituisce il processo inverso di quello, in cui il duello fra due individui
viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e
dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti
pubblici ai privati e viceversa. È nello stesso modo, che possiamo riuscire a
darsi ragione di quella analogia costante, che non può a meno di essere notata
fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che
accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo
infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed
ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare
una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che
accompagna appunto la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras
portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in
cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come
un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e
la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta
col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di
modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi
in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente
sentiti (1 ). 131. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii
del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero
svolgersi in un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti
alla medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i
raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate
sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie, ove descrive il processo
per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di
un'alleanza al cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la
solennità di esse, così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste
varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un
medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai
tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto
complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale,
Cap. 3, 4 e 5. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 11 162 esportandone
mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa, e il capo di essa,
che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di
famiglia, recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al
popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone
della sua comunanza, quella che protegge il confine e il fas, protettore comune
ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto, e questo ripete a
chiunque incontri per la via, e da ultimo sulla piazza del villaggio,
spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio,
da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e
repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che
eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno
compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio; ma
se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum, con cui chiede
in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo,
di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al diritto (populum illum iniustum esse,
neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di
guerra, in cui il capo del popolo offeso, dopo essersi consultato coi suoi,
dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo
territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole: « bellum
indico facioque », e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium
pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente
patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad
un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica
molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la
rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse
anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che trattavasi di fare;
ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive
fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama
pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo; tolgansi i feziali, che
erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo
románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al
diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna competenza intorno alla
giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o
all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio
rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio 163 deorum, quanto
infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il
carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero
seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le
procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure dell'actio
sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione
sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un collegio
sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica,
che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di
necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme, vuote di
contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo, che in
sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era venuto nel
proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto
feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse
destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne
l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo
spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in
onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i
depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. 133. Intanto non
pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella,
che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste
procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le
avrebbero ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero
seguire nella realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso
nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una
controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono
essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di
necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una
controversia fra due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani,
piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano
l'interposizione di una persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte
della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164
invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver
reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del
l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli
si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium ». Quello è il
processo, che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e
per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il
processo, che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra
(1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne
precedesse una dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il
consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo
gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè
uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era
guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le
for mole che ci furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle
stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare
a se il favore delle divinità del popolo, con cui era in guerra (2). Una volta
poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo
stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o
per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava
finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di
uno dei popoli in guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato
il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto
Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi
ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata, Cap. III,
§ 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza
dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto
feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà
dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette
in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si
potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com
piuto un ufficio diverso, potessero essere pienamente identiche fra di loro.
Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione
fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste
formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn., 3, 9, $ 8 6 a 13, il quale
dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam
Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate, scrittore di
diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp.
an teiust. quae sup., pag. 11. - 165 mancipio, cioè un perdere famiglia,
patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella
della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità, che l'avevano abbandonato,
e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in
quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei
vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo
diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio,
che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva
compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare astrazione dal tempo, che
egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico. 135. Sono queste dure
conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse essere profondo
il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei
vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di
reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione
gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per
ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei
patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti
italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la famiglia, le
istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto: dei veri
grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè
la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma se la
memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i
concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di
questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette
essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu
diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà
perd avere una gran parte nell'avvenire della città. (1) La formola della
deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono
anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua
potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere
sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale
della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam,
terminos, de « lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique
romani ditio « nem? – Dedimus. At ego recipio ». 166 CAPITOLO VIII. Le origini
della plebe e la sua prima organizzazione. 136. Le cose premesse intorno
all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono
finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della
plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii
della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante
dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è
certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si
comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed
abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra
i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di
Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco
Marzio sarebbe stata tras portata a Roma (2 ). Certo un tale avvenimento non
potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare
l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo
fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la
medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma;
cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per
l'ordinamento di essa. (1) L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine
della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel
Willems, Le droit public romain, pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di
pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano
dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, pag. 274;
opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli
studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi
della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la
plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui
nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è
dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure
seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte, I, § 9, pag. 62 e segg., -- --
167 Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente
costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri (1), in quanto che,
durante il periodo regio, la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da
impegnare la lotta col patriziato; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al
tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col
periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti
ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro, comeappare dai
richiamidella plebe contro la clientela, che costituiva la forza maggiore
dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con
siderare la plebe e la clientela, come due termini inconciliabili ed opposti
fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che
originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera
anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma
primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una osservazione
stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee.
Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 258, viene alla conclusione che i
plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi costituissero una
corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe,
si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La corporazione esercitava sui suoi
membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo
magistrato era il tribunus plebis; al modo stesso che i suoi giudici non
sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri, che sarebbero stati
tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente
il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi,
anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è
certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del
tribunato della plebe, che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella
costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione
decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto;
essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali
com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello
svolgimento della costituzione politica, che in quello del diritto privato di
Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19, e la
nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione
certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e
plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle
curie. (1) Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto,
è nella prima Scienza nuova, lib. II, Cap. XXXII, dove scrive: « che le prime
repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di
coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati,
gli si rivoltarono contro; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi;
onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in
ordini »: Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe
ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo
potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato; donde si può argomentare,
che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti,
che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della
clientela. Cosi stando le cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen,
che in qualche parte si accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo
primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di
clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione
della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia
l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la
plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio,
prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere
nella città. Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno
compimento nella teoria del Niebhur, il quale, tenuto conto del modo, in cui le
comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in
cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a
considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno
stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso, formasi
naturalmente una specie di comunanza plebea; la quale, senza partecipare
dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia, pud tut
tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e
la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni
diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur (1) MOMMSEN, Histoire
romaine, I, Chap. V, pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal
WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15. (2) Ritengo
che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute
più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i
quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a
Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli
è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece
del capitolo intitolato: « La commune et les tribus plébéiennes » della
Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga
della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad
accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione
delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù
primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal
patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di
clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., pag. 149). Tuttavia misia pur
lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere
169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di
abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di
fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si
comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che
fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste
considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il
fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella
sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già
preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere
dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche
invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero
dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti;
in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione
genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella
loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe
dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più
fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare
entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella
condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di
conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di
classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è
nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di
classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede
eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima
origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche
primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la
posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente
organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano
per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa
suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro
inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il
nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione
di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della
lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose,
e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170
138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le
varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed
organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e
costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano
delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio
delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio
il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee. Quest' ultime
naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas
sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei
forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende vano le popolazioni
superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla
medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio
diritto, cioè il ius nexi manci piique (1). Tuttavia, se ciò può esser vero
delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente un
buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad
uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione
gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del
patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che
tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo
affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla
condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la
storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag. 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno
alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie
tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed
altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi
di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione
gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che
era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a
sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di
origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri,
consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando
intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza
zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una
moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso
della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al
modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite
da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però
nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello,
mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed
acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano
spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi
staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi
attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che
non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi
religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di
vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che
si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori
di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle
circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od
inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima
accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai
forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome
era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo
perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi
la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese
nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante
l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a
scrivere: « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber
seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem
roboris fuit ». 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo
primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo
at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona
moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla
impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che
non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non
potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa,
che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le
loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè
divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la
diri gesse, nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis
comunione sociatus », e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra
populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per
essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in
tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di
quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città
etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali
sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per
quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria
gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più
tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano
trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne
facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di
necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere
belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca
almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe
collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di
farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi
facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era
Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito
l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da
essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione
gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è
costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna
nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli
esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi
cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia
mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia
di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per
comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè
forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze
diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione
come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione
gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa
preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di
Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela
venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare
un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi
della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore
organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a
rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia
gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo
questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge
all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso
dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione
gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità
arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per
una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che
abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del
proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per
il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la
formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non
dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un
appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti,
memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano
affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii
interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città
l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon
ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è questo il motivo, per cui noi
vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie
di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo, dopo
avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri,
e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo (1),
Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il
primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei
tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager
conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus; il
quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da questo momento, almeno
in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i
cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra
sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli
assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi
che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager
publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano
fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già un passo
importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi
delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione
diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro provvedimento,
ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello
per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2, 9: « Romulus postquam potiores ab
inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset
disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent,
plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent »
(Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi
ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la ripartizione si
sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi
fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per
quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col
KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica
attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, pag. 63 ). Ciò tuttavia pon toglie, che
la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re
il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al
lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come
patrono o la plebe come sua cliente. - 175 - stribuito quella parte della
plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni
diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove:
quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori,
dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre
professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che
questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli
altri dal Mommsen, e che probabilmente i collegi, la cui formazione si
attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel
vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella
plebe romana: ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere
alla plebe dedita alla coltura delle terre, cosi si cercasse di dare
un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni
diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva
precedentemente o che tro vavasi in via di formazione (1). Non è quindi il caso
di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti
tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto
leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur
più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero.
142. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma
cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin
dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad
una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e
mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi
infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli
possidenti, ed (1) PLUTARCO, Numa, 17: « De ceteris eius institutis maximam
admirationem « habet plebis per artificia distributio; haec vero fuit:
tibicinum, aurificum, fabrorum « tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum,
fabrorum aerariorum, figulorum; « reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis
omnibus fecit corpus; consortia et < concilia et sacra cuique generi
tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore, che sembrava
porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo
stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD,
Histor. Introd., pag. 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la
ripartizione stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di
artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale
della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una
proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al
sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma di avere
quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia patrizia.
A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa,
dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto,
che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono
indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud
essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi
in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva
fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla
medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le
altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra
organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione
commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di
mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i
giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i
provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che
apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin
d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si
formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la
censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già
erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando
sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza
all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la
potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo
avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della
popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella
del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di
Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui
conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale,
vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita
per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui
origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione
domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso
del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie
delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando
in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico
una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il
patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina
l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano
entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto latina la massa più
forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi
a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di
origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto
probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre questo innesto di
famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui
loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine
patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne assicurò
l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire
dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà
abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di
frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa
farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra.
Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie
comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o
l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa
rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad
essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il patto
quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due
popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di
popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le
sorti della guerra (1). (1) Questo intento della guerra Albana è messo in
evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella
concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento
Metto Fuffezio: « Quod bonum, faustum G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre
dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta, ed era
una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere: senza che
occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle
tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza
dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la propria
esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane
furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i
Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per
essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio
o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la popolazione
invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel
patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa, cioè la
più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco
Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla plebe
romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva
trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo
punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene
ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a
condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con
Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre
Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque,
Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare
plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere ». (1)
Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 35. (2) Questi fatti attestati
dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile
l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia
civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, pag. 97 a 113, Torino, 1881,
secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe
sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle
città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel
dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi
del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione
regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi
italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per
l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i
rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine
dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella
condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una
organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che
nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione
economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto
parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che
la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità
della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo
ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del
patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a
grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima
organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne
erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi,
avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe
e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali
fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui
entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla
plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti
gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange
e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le
elezioni e il bro glio, pag. 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata
nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto
sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità
italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli
onori in quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte ».
Di qui la conseguenza, a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione
romana, eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare
nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di
pochi ». - 180 CAPITOLO IX. La posizione giuridica della plebe di fronte al
patriziato. 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or
ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe
all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di
rispondere con una deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli
esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine
diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni
della città patrizia; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione
giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è,
come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul
suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora
quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della
organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini
della città patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus
chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare
anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte
quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res
mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar
tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda
in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è
quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di
esso, consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul
territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione
giuridica e politica di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui
si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra
il suo culto, sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra
il suo diritto, e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente
dell'universo, secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle
proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 -
procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano
tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una
sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei
cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed
in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente,
le quali cre. dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che
anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere
umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè
stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè
il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad
un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo
formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei
suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus
romanus quiritium, dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e
moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli, che non erano compresi
nei quadri della città romana. Di qui con seguita, che la definizione di
quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto, implica eziandio la
deffinizione negativa di quello, che ne costituisce il contrapposto. 147. Se
quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto, ne verrà
comeconseguenza, che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che
una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione,
finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa
troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare,
sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati
dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe insomma è un elemento, che ha
una posizione di fatto, e che si viene avviando alla conquista di una posizione
di diritto. Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli
Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non
saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del
Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale
concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova,
secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si
rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo ». Solo è a notarsi,
che i Romani ciò non facevano per ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a
se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana: mentre questi
ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece
alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico.
Qui, comenel resto, il processo della logica romana è sempre il medesimo;
incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città, e
che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere
tutto l'universo conquistato dalla eterna città. 148. Ciò premesso si può
comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso
la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di
fatto: ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche.
Tuttavia, anche considerate sotto questo aspetto, le istituzioni plebee non po
tevano certo avere fra di loro un ' analogia, che possa paragonarsi con quella,
che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più
intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica.
Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali,
che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi
vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal
patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una
larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente
le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle
cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini
plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso
di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per
l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che
appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a
manifestarsi non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene
luogo di essa. In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a
morire un capo di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi
congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da
esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio
pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era
coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione
quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui
predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato
dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto
ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di
origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto
il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il
motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere
giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e
prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più
tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso
possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle
condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un
patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme
e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano
almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza invece, composta di
individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente
formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati,
che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla
grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte
istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare
introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire
l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero
contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto
della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità.
L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di
fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega
eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo,
nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione, perchè
potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le
quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure si spiegano le
definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii
adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii », senza che
richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per
trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non la rendessero
pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e
consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione
della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium. Intendo però di
riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel
MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura
intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente
articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges
d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149.
Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui
trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme
solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie
patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai
bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera
propria pro tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune
plebea, che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il
motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere
ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1).
Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della
fiducia, il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al
proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa, che deve servirgli di malle
veria (2 ). Fu parimenti in essa, che dovette svolgersi quel modo aver
allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate, e
dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare
carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto
presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che
un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e
del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un
periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti, come l'emptio
venditio, la locatio conductio, e simili. Essi dovevano certamente esistere,
quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione, pag. XI, alla traduzione del
GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi
noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è
perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che
dimostra, che dovette essere determinata da comuni necessità, in quanto che la
vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze
diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato
pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e
dovette nascere nella comunanza plebea, perchè fuorusciti ed immigranti senza
posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il
largo uso, che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si
ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un
pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume
e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato
dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il
caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la
figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi
denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di
PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che ci venne più tardi ancora
de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire
più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram, per cui il
plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un amico il suo patrimonio e le
sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando
egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno
all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla
patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la fortuna di tornare in
patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè lo riporti a coloro,
che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine
di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi
senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso, che, mantenutasi per
certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto
civile romano, fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo,
perchè popu lare erat (1). Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia
patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù
dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a
perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad impedire che il patrimonio uscisse
dalla gente; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che
un atto di fiducia, un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui
accennanoGaio, Comm. II, 102, ed anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di
mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte
arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum,mancipio dabat, eumque
rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet ». Ciò indica che la prima
forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel
testa mento per aes et libram, fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà
che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile
romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto
dai peregrini questa istituzione del fedecommesso, che certo già esisteva nella
primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm. II, 285, scrive: « ut ecce
peregrini poterant fidem commissam facere et ferre: haec fuit origo
fideicommissorum »; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto
plebeo, di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette
compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a
compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè
non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel
costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il
seguente tolto dall'Andria di TERENZIO, I, 5: « Bona nostra tibi permitto et
tuae mando fidei ». È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid. et
judic., I, pag. 411 e segg. 186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto,
acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di
vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il
debitore in questo primitivo diritto plebeo. Sarebbe inutile cercarvi la forma
solenne dell'actio sacramento, che era nata e si era svolta fra capi di
famiglia, che sentivano la loro superiorità ed indipen denza; ma è più facile
che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio, ed anche quello della
pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie
patrizie, ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei
rapporti fra i capi famiglia, l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio
della pignorazione privata (1). Così pure è naturale, perchè conforme alle
condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della
privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno,
della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un
adulterio;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo
di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero
all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso, che era così fermamente
stabilita presso il patriziato (2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio
sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche
dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche,
come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII,
ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse
già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere
fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere
la significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso
ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i
debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. (2) Questa
varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni
sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio
sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi
può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del
fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un
individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di
formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno
materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia
(danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla
composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che
dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso
al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente
sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il patriziato già vi
scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che
colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni insomma, che non
presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno una storia nel
passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali
dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di
formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento, che si viene
aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non chiedansi alla plebe
nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le
procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia, che ad ogni
atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma solo chiedasi ad
essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà
anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine
di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto, che finirà
per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti
dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli inizii di Roma le
traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come
idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso
di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza
in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze, che
si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione
astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge, come direbbe il Vico,
l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta questo per dimostrare, come
anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio, che potè a
poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe
istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere, come usi,
da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto a spiegare come nel diritto
quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui
sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa
collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa
derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si
presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si
convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 434. 188
mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano
assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa ricostruzione a
particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni
fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la proprietà. 151. Se
noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia, quale è
giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei
semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le
loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual
proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune
delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual
rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia,
che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la spinge il Bachofen,
secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe,
avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca,
abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal
lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del
matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli
elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse
stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima
trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal
lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia
fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo, che
noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che
serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi
naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità. Ed è anche facile
trovare la ragione di questo fatto, la quale consiste in questo, che la
famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte
dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora potuto subire
quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario per una
famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo.
Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia
fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd., pag. 34 e 35; e il Bachofen,
Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo di
rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali
sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di
contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di
dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in
vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore
per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e
sentita da chicchessia. 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo,
male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia, fondata
sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto
essere preferita, abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data
sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere
almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere
facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in cui trattavasi di
entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi,
mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri; che quelli
avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo tollerati per la loro
posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che la plebe, sopratutto
quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione
domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare
anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee,
che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi tare perfino
l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già certamente
perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di
questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella
legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche,
che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad esempio, è
notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione
legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei
cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di
proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da
una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che
possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata,
la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1).
Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii,
non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la
umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia
naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo
modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo
riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo
indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e
del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè
colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela
legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia
della famiglia nel diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via
di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento
l'istituzione del testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi
alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al
concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una
piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai
mag giore di famiglie, e che col tempo, col dissolversi della organizza zione
gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello
poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile
che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia
cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei
venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia.
Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti
o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra
cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e
dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere
indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi
possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero
stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late
patentes, publici privatique, quia non mancipatione sed usu (1) Cfr. MUIRHEAD,
Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui
infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma
anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero
appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo
stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus
frequentari propriis, ab aliis occupatur (2), indicando cosi l'esistenza di una
consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne
sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi
in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che
presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto,
che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto
delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione
questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti,
presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una
comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi
altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli,
che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro
prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal
possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse:
dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei
vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec
protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com
prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era
costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente
il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni
per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare
con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà.
Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine
dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto
esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, pag. 354):
la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411).
(2 ) V. Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager
occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, pag.
348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 95. (3
) Paulus, L. 1, § 1, Dig. (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di
formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di
tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di
diritto. Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un
suolo incolto od abbandonato (possessio, da pedum quasi positio) aveva appena
tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure
quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi
quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come
legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un migliore sistema per po
polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di
famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla
grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e
tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ).
Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra
Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un
comune diritto. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni,
tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a
titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più
che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia. Intanto questo
piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al
mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col
patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto, che i
re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana,
anche per afforzare l'esercito della città patrizia, dovesse sorgere
naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di ammetterli alla
comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno spazio di terra,
sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi la plebe non
conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che ap (1) Trovo in
Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero
l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della
Repubblica: « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque
esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides quaedam in ea,
firmamentumque erat ». Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole
tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono
chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia, non
aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad
immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che
più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale
occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio; cosi
ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere riguardata
come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che
fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può servire a
spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli
agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo
più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui censendo, e dell'ager
publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe; mentre l'occupazione
dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato. Quindi
si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra,
il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che alienarla, e la
lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus,
che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto
siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa, erano gli unici
diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene eziandio a
spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un
carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare forzatamente
sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà più tardi. 156.
Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente, quanto ai
rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della
comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe
siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa
organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri
della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si
trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed
importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria
comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione.
Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica
riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se
stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì
una esistenza G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che
è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il
dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il
gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a
convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha
gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una
posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as
segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle
proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare
parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni
religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due
or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei
suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e
trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la
sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in
un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al
tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei
maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni,
e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi
genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò
si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della
plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da
ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia
come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior
concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico
noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto
l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte
al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero
delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 64. L'autore, che
ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto
privato di Roma, è quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto,
è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in
HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, pag. 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito
il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol.,
Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e
stretto nei vincoli del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni
di fatto, non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema
per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di
diritto, e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla
entrare nei quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel
fascio di tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era
gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la
logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi
meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne
formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro.
È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano
precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo
dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche
penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli
tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione
gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme
solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso
e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova
origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel
diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi
piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due
elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il
diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti
elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero
comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti
gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto
pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni,
di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in
certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per
guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce
per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è
formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare,
come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del
diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo
vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus Quiritium nei rapporti fra
patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi
ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del
diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un
carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione sfavorevole e
pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a
considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta
specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus
quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della
violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che
nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle
persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se
da una parte indica la forza e la potenza, che si impone; dall'altra può anche
significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che
da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro,
che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa
significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel
primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di
manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto della forza, (1) È
abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano
corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del
capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due istituti abbiano
rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si
riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du
droit français, Paris, 1886, pag. 412, cogli autori citati a pag. 447. Del
resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno
ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse
fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il
comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi
anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza
di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal
mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno
della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca
non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni
gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con
traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo
tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo
ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione,
possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più
sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale
importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle
istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei
rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle
genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero
invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti
fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non
governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti
alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti
organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di
origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii.
Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le
traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo
servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione,
a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che
questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di
loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il
primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a
formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche
parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i
conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e
dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli,
che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale,
abbisognavano perciò di protezione e di difesa. 198 160. Questo è certo che
anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra
Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora
l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac
sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius
nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra
Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento,
che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti
privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che
correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e
pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi
qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè
solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la
condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere
analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac
sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente
romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le
stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva
era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in
condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi
poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile,
che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e
che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai
forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega
eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario,
comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali
perciò, al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero
dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni
fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte
usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come
una popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra
due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due
ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era
dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza
dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura fondata
sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così
naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra
temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo.
Intanto, come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il
motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates,
poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato
della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe
romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare
condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai
forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu
assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln
von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII
Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, pag. 664), fosse così
concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto ». Questa lezione
stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag. 171, fu respinta dal
MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione
dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi
nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale potesse essere la
speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab.
XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e nexum mancipiumque, idem
quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che
sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così
minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe
accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto »;
il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i
forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo
riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che
la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già
ammessa in questi confini al commercium,ma non aveva ancora il connubium.
Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns,
Fontes, pag. 365; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 111, nota 12, ove
proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque
idem esto »; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che
altri abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di
questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il
quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca
di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di
violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto
diversa, in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla
formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in
uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano
nefario. Non può quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero
fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono
fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui
erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni
primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni,
quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i
cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius
qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono
formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per
richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del
Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli
uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori
della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con
genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della
loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di
quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto
il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare »
abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i
deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei
forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum,
pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed
umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi
inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui
una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento,
che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una
inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si
trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta
della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui
erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo
periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il
nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra
disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come
l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per significare il
potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone,
che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei
rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione
di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie
proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia
alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla
pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano,
non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad
espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che
atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva
moglie, figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la
famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta
contro le aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in
questo significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano
serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto (1)
Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è
avvolta in una forma fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler
conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che,
secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e
preceduto quelli, che egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a
considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla
prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche
non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se
riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la
fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del
diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, pag. 14 e segg.,
ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2)
Servius, In Aen., 3, 607: « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus
singulas corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei,
genda Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis
flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat ». 202 posti a
servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il
concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla
medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette
prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che
non nei rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo
irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna,
ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per
tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè
esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle
genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai
a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle
famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano
circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto
quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che
lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il
debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi,
che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap
partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia
fra la moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che
la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione,
cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia
della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da
curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di
quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che
abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii;
e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della
città (1). 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla
fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non
intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi
si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa
condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una
posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio,
quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che
quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non
paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi
alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del mancipium,
del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del
diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale, dovettero
significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che
entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto quel carat
tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro
inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono
talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e
cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa
significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è
ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle
lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti,
fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra
luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i
vocaboli, di cui si tratta. 164. Nella povertà del linguaggio giuridico
primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse,
che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò
(1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del
capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel
primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato
ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e
assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis;
infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il
complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di
famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo,
contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che
il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio
ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi
ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e
persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali
erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano
dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui
essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose
soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium.
Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine
essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di
famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua
ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera;
come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo (1
). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, pag. 214. Non
potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente
a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli
direbbe, che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del
manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli
deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum
capere (Histor. Introd., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe
veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo; parmi
eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo
vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva, la
quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa, che non il
potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che
mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum, habere potestatem,
habere dominium, i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel
senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205
Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al
capo di famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere
oggetto le cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione
vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium,
facere nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi
ha dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma
zioni profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli
inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la
presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di
questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex
eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in
quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al
vin citore (1). Cid però non tolse, che il concetto del facere mancipium si
applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio,
od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio.
Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi
a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare
protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il
mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui
significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia,
anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che
la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli
atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che
non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per
designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la
cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il
significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare
il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di
capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato
dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. (1) A
questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi
tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio
quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur »,
BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio
nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze,
1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella
medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette
essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in
base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi
nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra
vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla
stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come
lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur,
quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus.
Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può
conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal
diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario
noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per
trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato;
ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un
mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus
iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione
contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi,
cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris
confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro
coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie
applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che
ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento
dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta
certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa
credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta
attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente
di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle
istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il
patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166.
Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul
diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma (1) V.sopra, Cap. VI, §
3, n. 105-6, pag. 135 e seg. - 207 si può affermare con certezza, che essa
rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la
tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare
gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi della legislazione
decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi
confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal
Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei
rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si
riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche
dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria
della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere
spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo « ingens vinculum fidei »; ma parmiche il carattere vero di questa
istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause,
che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di
colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore,
obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione,
in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla
formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto,
non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a
mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di
dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva
sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto
fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non
attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che
il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme
esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili (1). 167. Quanto al
vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni
molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud
initium liber tatis factum est, quod necti desierunt »; e più sotto: « victum
eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom., III, pag. 375. Della
portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più
sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei
concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum nella
sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui
sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione
letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia
rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli
storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti
nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob
bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al
pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a
cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo
stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che
tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium,
dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali
trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde
delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima
fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate
nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di
connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le
varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto
quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio,
dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi
poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in
istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di
violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed
anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che
vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte
della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse
ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti
italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero
ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano
poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che
ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi
elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo
di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato
dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele
mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle
tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi
ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono
questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica,
servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero
naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al
senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in
pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le
basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti
patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e
dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti
fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva
elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a
poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e
lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè
solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato
so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua
forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato
poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo
già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del
patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e
primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto
uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del
capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del
nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi
convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È
quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di
rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando
l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima
trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il
quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà
per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che
erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si
riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare
internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano
elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più
importante fra tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva
somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica,
militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti,
traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia, della
concessio civitatis sine suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi
per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero. I
materiali quindi erano in pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale
Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che
in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne
lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto
privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre
arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere
accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo
risultato, sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che debbono
insieme con tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza infatti,
che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui
possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere
la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa tutte le
gradazioni del senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più sottili
e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità
del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più
completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente
sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e
politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente
patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171.
Nella storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore
influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia
alla comunanza civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza
approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro
popolo, che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito
nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* )
Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera
tura così copiosa, che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia,
che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro
è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e
politiche di Roma primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori,
di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali
si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una
traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto
alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di
storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto
romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del
Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio
quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns,
del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del
MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e
del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare
in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a
dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale.
A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si,
che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le
traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la
nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il processo
logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno
determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e
il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di quei
concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi
nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto,
come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua
distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e
clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto
dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o
fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si
introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di
arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior
parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un
ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un
ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un
edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre
sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a
diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi
insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in
un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli,
avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia
e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita,
ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza
civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia,
e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe
che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto
tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione,
che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli
anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione
delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad
una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i
territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto
sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si
trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle (1). Tale a un
dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire,
che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta
all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in
tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla
famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal
seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a
riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto,
il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e
redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece
scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente
militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere
sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere
la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da
conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da
quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus
romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di
lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano
le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già
raffazzonati secondo le esi (1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv. (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad.
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag. 121. (3) Lange, Histoire intérieure de
Rome. Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, pag. 37. 214 - genze di un
esercito; donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il
popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes
(1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta
dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata
la famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che
avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per
lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre
l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di
questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere
essen zialmente religioso (2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie
opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle
analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di
esse, collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare
in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva
di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non
può altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in
cui essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare
quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella
storia, senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener
conto delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono
di soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di
affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino
all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere
considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione
gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue
un indirizzo (1) V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris,
1880, I, $ 20, pag. 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere
militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò
anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si
accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, pag. 523. (2) FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a
notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul
carattere confederativo della città primitiva. Cfr. pag. 147. 215.
compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni
nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto, a
cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di
provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che
favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi
luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui le genti
convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano anche le
alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche
sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la
trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della
religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno
(comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non propria di
questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in questa
guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra
di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto
della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e riprovato in
varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di conciliabula, di
comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione
ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon
date e la loro popolazione doveva essere ripartita, assunsero un (1) Questa
idea, che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e
dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib. I, ai numeri 5, 14, 66,
99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo che ogni fondazione di città
ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose. L'urbs venne così ad essere
il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla
stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non
si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come
vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di
una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia,
si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che si riferisce alla vita pub blica.
Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di
vita pubblica, fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e
patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza,
che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta,
nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto
come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica
destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos
urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum ) ove si tiene il
mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono le riunioni
(comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia, il qual
vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone
che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele
menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione delle gentes
o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i
fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e
dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica; di
quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati
(iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle
deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di
una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli
edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui
fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo,
coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed
all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che
intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse
appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita
politica e militare. 175. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è
un 217 esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di
gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè
al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a
popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica
nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione
gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e
politica ad un tempo, si viene biforcando: mentre la vita privata continua a
spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità
del capo di famiglia, la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e
nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che
costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la
città, dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla, dalle
comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione
dell'organizzazione gentilizia, e sopratutto di quelle gradazioni di essa, che
prima compievano eziandio una funzione politica, quali sarebbero la gente, la
tribù e la clientela. Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono
ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i
due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per
richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e
la città dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende
ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che
possono conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le
due figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater
familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il
populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che
esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla
città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà
necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare
di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e
prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico,
che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi
conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello
della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in
senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo
dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una
stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e
intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello
della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un
processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi
diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma
tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri
aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè
confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano
alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia, per
quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia
deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come
una pro duzione naturale, come quella che è composta di gruppi uniformi, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur
sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene
già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto, della federazione insomma
di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita
politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa.
Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone, che si suppongono
derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una proprietà comune e
collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad
assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro
appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che
riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio
co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine
il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e
nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere
ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica,
appena essa compare, viene ad essere quello della capacità e dell'elezione.
177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato
presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze,
di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione
della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le cerimonie, che ne
accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso. È
cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei
due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città.
Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento
romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città; ma è piuttosto lo
stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza
alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella
medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora
eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i suoi anziani,
i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù; e
infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono
unite dal vincolo della comune discendenza, come lo dimostra la loro stessa
denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena
stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla
costituzione politica della città. Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la
guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito
Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un
carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti
continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle
proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza delle
varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel
sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il
locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle
curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo
il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta quindi che
le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie
terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di
essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi sarebbe stato un
breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero (Livio, I, 13; Cic., de
Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. « Novae curiae (scrive Festo)
proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a
Romulo factae ». Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a
compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag. 346 ). 220 regnato
contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato
la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città
primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione
gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città
si operò solo gra datamente. Intanto però la trasformazione viene ad essere
iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin.
colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo,
e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A
ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione
diversa da quella delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa
infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie
comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta
alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii
agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di
terra, ove avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal
guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa,
o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte
eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la
propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in
prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo
l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al
pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra
diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui
vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi
costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche
oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come,
durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus
aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia
stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le
abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta
Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi
la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato
romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le
mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle
proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi può dirsi
mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza, che Roma, in una
lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento,
che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa riusci a
sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro fano, la
vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed effigid
questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così
efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con
essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad effettuarsi fin dal
periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica
e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano
cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto
gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo
la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi
evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba
forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno
di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano
fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un
tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini
hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in
cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti stessi più importanti
della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento, possono farsi in guisa
diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace, o di soldati in
procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi mantiensi co stante
per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune
ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad
un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum
dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in
evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi
fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo il grande intento, a
cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti
latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione
del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla
confusione della cosa pubblica colla privata (1). È questo il dualismo
veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi,
con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi,
che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che
potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad
es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare,
come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era
il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si
svolga la civitas, la quale è il rapporto, che unisce coloro, che appartengono
alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra
liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad
acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi
pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che
comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un
medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non
comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed
ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al
governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto
della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di
una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica, il quale,
per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma
finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli
interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res populi). Intanto
così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le
governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus,
nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col
vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti (1) Per
dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il
pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia,
così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i
corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato.
223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non
toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e
partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che
è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel
diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin
dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e
precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo
il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto
pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso.
Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche
quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a
modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si
avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si
modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in
quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione
politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di
un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della
vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è
dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste
le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del
diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe,
incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla
formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il
diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto,
in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione
delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in
lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti,
mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del
popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono
a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si
rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più
volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104;
III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima
edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui,
fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII
Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei
crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla
distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne
deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui,
oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi
eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in
iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte
altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una
volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie
del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due
categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i
rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la
stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si
distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se
parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e
se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè
anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus
l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad
essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la
distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie
traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione
dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette
naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè
accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la
causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di
agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita
pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe
anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo
svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi
(1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo,
vu Publica sacra (Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº
3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata,
è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I,
pag. 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e
patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al
culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per
coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che
informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al
cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che
accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una
legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e
costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu
essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle
famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede
origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città,
da cui doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del
padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e
l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui
sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui
si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli
eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia
militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor
tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið
parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro,
che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano,
noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla
sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo
esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di
cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono
sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei
mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città
all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei
suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, pag. 94 e segg., e alla
dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po
litica. Torino, 1878. (2 ) Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia
Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita
sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno
di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere
esclusivamente privato. In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben
nota il Gentile, lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni
Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora
stretta da intimo vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che
trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta
potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni
sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed
il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto
direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori
dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1).
Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e
questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che
concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non badano
esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al
valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto
di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di
riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire
più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il
carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana, Milano, 1879, pag. 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli
elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido
svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse
hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva
dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da
quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono
evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e
quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia
questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle
cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione
novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi,
di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente,
riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e
potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta
incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che
talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella
storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente
preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria
destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si
potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di
Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti
si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione
di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo
essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra
in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia
dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si
esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del
nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera
comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo
collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe
riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di
isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che
si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie
naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con
Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat
romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi
di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le
sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come
vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo
comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato,
sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande
concetto. 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere
collocata in un sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi
così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la
prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle
tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a
stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno
parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a
tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente
sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò
si aggiunge la fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e
delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che
tutto aspettano dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non
increduli il suo rapido incremento. Anche lasciando in disparte il
provvedimento, che viene attribuito a Ro molo, di aver aperto un asilo ai
rifugiati delle altre città, era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un
asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso
CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca
romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri
consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis vagientem
relictum, sed adultum iam pene et puberem? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure
appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella
propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei
fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare
così la città, tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti
giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti
diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere
di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e
non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la
fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere «
quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo Romano», e per tal modo
anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto
alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio. I
concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente, possono
essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli
uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la
propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri.
Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono dalla stessa realtà
dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro
parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte
con rigore dialettico, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di
cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di
Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti
nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto di esse viene ad essere
determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città
si propone, esso è universalmente sentito, e quindi non è meraviglia, se la
nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si
dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta: cui
lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per
tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti,
e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile di rifare i diversi
stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è
un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia
preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno
svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di
villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica
destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la
popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col
consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un
vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita
pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il
complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il
complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al
medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica
(1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il
complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini,
considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com
plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di
partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa
debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto
perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che
quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama
pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si
reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità
e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo
invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si
fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata
dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella
gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è
restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 )
dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive,
quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis
populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat,
et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare », Qui però
il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella
che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium. - 231 individui
vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città.
Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. —
Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora
circondare la formazione della città; maanche questa religione non deve più
confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento
supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges (1);
ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova
comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i
suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si
contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole
genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189.
Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono
come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto
alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più
da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e
che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene
ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů,
trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come
una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una
ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per
qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi
in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi
riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce
per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare
di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza
di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla
pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria
sede nel territorio dell'altra? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique,
liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re
tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi
ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che
dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto
apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in
una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà
ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla
discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi
conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In
questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della
discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto (1). 190. La
distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per
cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato
circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è
soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si
ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente
ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an
teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti
latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la
base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si
mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una
suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad
un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis );
un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel
um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di
comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa
divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo
preordinato, che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling. lat.,
IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione
piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 31, il
quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si
applicherebbe di preferenza agli equites. (2) Niebhur, Histoire Romaine. Trad.
Golbery. Paris, 1830, II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto
parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28 e seg. e nelle note
relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un
ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto
possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di
Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e
questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae).
Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli
gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti
ex generibus homi num (1); ma le curie sono già composte di uomini scelti, di
viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi
limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto,
salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È
quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali
comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato,
senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della
curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle
famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto
quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed
alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri,
dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro
pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in
decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere
confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può
essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel
contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le
centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes
Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai
comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum
Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: « cum ex
generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate,
centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa ». Fu anche fondandosi su
questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero
in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso
suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a
quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla
discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e
quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano
ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites)
nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle
curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se
niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce
il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto
il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato,
nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta
l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce
veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi
ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno
delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della
città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di
cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per
ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae.
Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse
vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile,
che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può
dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione
primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una
ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e
dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e
militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito,
cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto
un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un
carattere sacerdotale, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano
confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites
e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò,
che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il
che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast.,
III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi
turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum
fiebant » (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de
curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che
erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot,
His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152; e il Bloy, Les origines du
Sénat romain. Paris, 1883, pag. 102-105. 235 - che serbarono più a lungo,
allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da
ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo
è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti
zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi
della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse
ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. § 3. — Il
pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum
auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua
composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc
ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme
esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè
il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed
ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere
tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa
parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi,
che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la
città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti
più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare
intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva
l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico,
l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva
ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero
trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato
rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del
potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città;
ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re
infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur
dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una
moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un
esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini
di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei
comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca
il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al
vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia,
poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora
quello di imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare
più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la
propria ge neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione
del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere
del magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo
(populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può
anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas
insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in
tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che,
contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche
assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (1)
Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli
altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il
voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il
MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e
quello di impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio
corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est,
dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur ». Le droit public romain,
I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in
un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso
ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I,
pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione
di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di
potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium
usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora
per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di
famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era
indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che
questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè
la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui
figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una
significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti
primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono
diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre
essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237
- più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma
siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella
indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli
atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli
di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di
auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas,
che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque
constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma
intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia
scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi
anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere
del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè
dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano
ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa
miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di
imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più
efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono
l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del
re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di
regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli
antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin
zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est ».
De le gibus III, 12, § 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii
di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: « vidit singulari imperio
et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi
cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas », nel qual passo il
potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del
senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. (2) Magistratus,
scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una
magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le
droit public romain, I, pag. 8 ); e aggiunge poi a pag. 10, che il magistrato,
quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci
dentro la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che
simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non
so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso
Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli
scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare,
magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal
fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le
scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo
di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia
degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri
spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi,
che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces)
indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere
collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti
ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo
a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene
ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al
littore « col liga manus », il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196.
Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe
certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba
essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente
sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto
della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare,
che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del
capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del
magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere
religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una
sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere
primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si
vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali
sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore (1). Fu solo
l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare
anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare
scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare
funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia,
anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi
potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente
per un atto di minima (1) Mommsen, Op. cit., pag. 5 e 6. 239 importanza, viene
ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e
sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum
auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas,
presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata, e che trovasi
applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato.
Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo
auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli
attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia,
che si arreca o si assume per un determinato atto. Tale è la significazione
fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di
usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del
venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit
dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo
di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita
l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit; mentre il
senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato,
dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni
del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il
loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi,
senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e
dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere
l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera zioni del popolo
ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione. Finchè dura il
periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato; ma
durante il periodo repub blicano quest'autorità, essenzialmente consultiva,
riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi
argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu
(1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente
espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: « Itaque hoc consilio et quasi
senatu fultus ». De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato
esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll'
auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare
una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che
viene dall'età e dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico
interesse. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 47. 240 solo opera della fortezza
del suo popolo, nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza
del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e
l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in
quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa,
fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum
auctoritas: col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri
invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa
trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi;
mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei
senatori esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa
essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia
presente che, in una lunga evoluzione storica, quale è quella della
costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di
tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo
regio, il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio
l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano
chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia
costituivano il populus e l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè,
accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed
anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente
comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei
patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una
propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una
delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e
credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un
medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una
medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono
vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, pag.
208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag.
16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande
chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma
nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, 1884, pag. 297 a 395. Così pure
ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., pag. 42 a 48; il quale
finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas
patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la
conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd
di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva
già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a
raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio
(patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire
acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora
dell'ele mento patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni,
che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato
da ciò, che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores
fiunt ». Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente
l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la
necessità della patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi
talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione (1). (1) Nella
gravissima questione, che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente
saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum,
durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che
l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio, relativo
all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che
i senatori. Hist. I, 17, ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto,
attribuisce l'auctoritas al senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò
senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche
tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da
Livio, XXXII, 6; IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum
plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a
questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii
auctores sopratutto da Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex,
o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7,
17, 42, 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e
quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea
delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla
formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che
erano la vera riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte
nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum
auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu
una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla
introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della
costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi
il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto
dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed
anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea
esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie;
mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva
seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a
questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della
costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di
ogni altro potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro
pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come
fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi
considerano come una specie di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la
genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma,
coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium, il vero potere legislativo
viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie
conserva l'auctoritas patrum, la lex curiata de imperio, e la proposta
dell'interrex. Certo è una congettura anche questa, ma mentre essa non
contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della
costitu zione primitiva, in cui ogni organo politico deve aver parte nella
formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano,
che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per
riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto
si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una
vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una
semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio,
che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere
negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe.
Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo
dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello dell'interregnum.
Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno
probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per patrum auctoritas
l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia
coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem
produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile
col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre
l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione,
il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni
analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che
fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in esso, aveva già
le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in
questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è
dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge
decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto », dove il vocabolo patres
non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal
fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum, la cui
intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia
abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare
il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che
il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che
indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il
popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2,
7, 17 dice: « omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo romano
243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del
pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola
religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato
romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al modo stesso, che
la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si
forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che
è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia,
che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione
religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se
questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico interesse, possa essere
o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono
considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato
di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal
fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re
deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai
padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano
quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare, quando si
trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se
ai patres tornano gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare
il magistrato, che debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la
tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è
solo dopo il conferimento dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de
imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi,
possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a
questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale
riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è
indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che
esso è quello al quale « a populo dabatur imperium ». Malgrado di ciò convien
dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza
presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano
però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd. au cours de droit romain.
Bruxelles, 1876, nº. 6, pag. 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e
giusta mente, a parer mio, che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo
per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità, riguardano ancor
sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità ».
244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe
l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse
infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio, anche
prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che servirebbe
ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si
è, che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della
costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere
supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il
magistrato, che prima di entrare in ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo,
che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i
diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire.
Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per
parte del patriziato, in quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace
e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere
daimedesimi le scuri, come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si
erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale
concetto, di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il
concetto, che il potere supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun
modo affievolire l'imperium: poichè al modo stesso che il popolo doveva
ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in
ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex curiata de
imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: « consuli, si
legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria,
II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: « sine lege cu riata nihil agi per
decemviros posse » (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto
dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium, non
si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex
curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e
meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la
lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione
Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero
conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito
l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II, 10, 17,
18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi
re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla
costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde
della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico
ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e
a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso
doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per
mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace
ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a
sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il
potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini,
finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della
costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni
(logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella,
che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di
ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva
costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della
medesima. § 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del
periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è
certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo
anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister
populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e
concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con
cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del
potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di
partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo
repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex
nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la
somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa
pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite
nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di
fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha
dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli
possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la
propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la
vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso
della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della
vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al
pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima
un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche
il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce
quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le
meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei
re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di
ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano
abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re,
ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato
quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale
dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un
popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso,
militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché
dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe
rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo
di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure
sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il
fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare
soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in
qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla
religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex
sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo
romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi
trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus
e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre
gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano
tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è, che già fin dal periodo regio
noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è
opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna
partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1,
a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: « inde foedus ictum inter duces,
inter exercitus salutationem factam ». - - 247 sercizio del pubblico potere; ma
sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle
tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da
cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione
legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma,
per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che
appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo
regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum,
dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non
sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza,
che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei
littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo
può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al
tribunus celerum o al praefectus urbis (2). È quindi vero, che colla creazione
del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le
manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo
svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e
politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina
l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso
incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi
nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi
nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che
compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che
l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che
può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di
imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a
compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione
del (1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto
a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, § 2º. (2) Secondo il
LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 115, sarebbe, valendosi di questo
potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino,
quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei
Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali
non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio
uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono
distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i
vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si
appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche
deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da
questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia
privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri,
ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle
cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare
se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium
domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si
perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i
Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e
vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai
fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo,
compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la
provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere
la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il
magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù
dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in
tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe
il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della
cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso
nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio
militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In
virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato;
amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della
cittadinanza; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I
pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e
del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e
l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit.,
I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag. 135 e
157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia
sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i
senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più
sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i
quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi
vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in
base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i
giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re;
mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde
la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine,
e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè
l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið
l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione
fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie;
correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites
si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si
arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato
costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites,
i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio
voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più
tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere
ai pubblici spettacoli (1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella
costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed
intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I,
35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova
questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del
popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso
Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo,
ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano
poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere
militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a
tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi
attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del
senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la
tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi
seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte
esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il
primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii
ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre
riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a
quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della
formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una
nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore
al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o
a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi
della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il
constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri
mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come
quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che
furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora
assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo
del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. §
5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere analogo può
riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella costituzione primitiva di
Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza
dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è certamente quello di patres, che fu
dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente
avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio, che il primo concetto del
senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava
talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli
anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente. Questo ad ogni modo è
fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca
rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un
concetto, che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in
ciò, che tanto il regis imperium, quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero
di un ritegno in quell'autorità, che viene ad essere attribuita dall'esperienza
e dall’età (1). Di qui conseguita, che la patrum auctoritas, allorchè
comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità, i cui limiti
siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica, che potrà
col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il
concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non
potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad esercitare sulle sorti di
Roma; solo si conosce la funzione che, in base al proprio concetto informatore,
è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città. Saranno poi
gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in
cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui dovrà forzare il proprio
ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione
dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere
una fun zione intermedia, ha per sua natura una indeterminatezza molto
maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così ne viene, che i poteri
del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un
carattere vago ed indeterminato, che dipenderà dall'influenza effettiva e reale,
che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare
sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi dei consigli che, per le
persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano
accompagnati dalla formola « si eis videbitur »; al modo stesso, che possono
esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui
partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia consentito di
appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono
esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè lasciato in
disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio
dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia potuto, senza romperla
affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla
Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per
guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi; (1)
Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE,
de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a
concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non
era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è
proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di
Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore,
che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità
di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi
in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato,
e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore
allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e
sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius
auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei
creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si
mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e
nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico
della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad
essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda,
sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che
qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della
persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova
nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi
nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto
da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e
politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò
in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno
scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio
sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani
seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in
quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa
nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò
opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii
senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità
di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un '
autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come
lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti
Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che
tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli
inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più
libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere
lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia;
il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le
condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o
fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte (1). 208. L'incertezza
invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente
esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere
di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non
potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta,
dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla
funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che
le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con
sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i
senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe
inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la
punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la
giurisdizione sui più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al
carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato,
fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere
degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che
poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e
limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti
avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè,
durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè
onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil
senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella
influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo, V °
Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2, 12, 14, il cui
testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5. 254 -
contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal
medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei
sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto
Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi
inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo
non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare
un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata
dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni
anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così
custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori,
potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di
cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla
logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze
intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi
vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare
i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano (1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che
appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in
guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento.
Di più (1) Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o
meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse
solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati
centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, pag. 535. 255 l'Aventino, che
sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza
plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta
Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie
si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre,
che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere
al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie,
che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse
appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione
gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un
contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve
venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si
disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero
accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero
ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a
costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul
time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana,
nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei
componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche
accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del
senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al
numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione,
e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato
questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al
partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si
avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie.
Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero
prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi,
siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento:
così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche
il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non
contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. 210. Come e quando
siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma
avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive,
direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses,
gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres:
la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto
si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle
tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè
una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi
di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione
appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento
sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel
numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più
verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella
stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che
costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di
trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo
fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di
sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che
sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono
due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città
esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato
romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba,
in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già
notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza
infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la
république romaine, Paris, 1878, I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du
Sénat romain, Paris, 1883, pag. 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse
opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio
farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca
anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione
delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da
CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi
Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257
tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far
parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti
patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir
accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora
l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti
dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto,
senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le
testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette
aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver
duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di
aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut
tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che
Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a
trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo
e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri
cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo
centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non
può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera
di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo
dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro
nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato
quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212.
Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri (1) LIV., I, 30;
Dion., III, 29. (2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres
legit »; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit,
qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant ». (3) PANTALEONI, Storia civile
e costituzionale di Roma. Appendice III, pag. 645 a 672. G. CARLE, Le origini
dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel
modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero
dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che
anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere
ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai
quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di
Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori.
Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è
ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella
comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo
senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono
che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali,
a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco
corrisponde rebbe a Lucius (1); ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi
derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana,
non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da
essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano
esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual
fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone,
secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni
Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già
compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede
razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state
forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti,
da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di
origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al
seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la
leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto
avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare
e da ottenere colle (1) PANTALEONI, op. cit., pag. 660. (2 ) L'opinione di
VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: « nam
constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem
contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde
quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est ». Del
resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres
primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la
dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente
romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e
quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium;
quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle
medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza.
È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il
proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati
erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu,
e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra,
che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene
indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in
appli care il principio: « prior in tempore, potior in iure ». 213. Le genti
insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle
stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva
dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano
potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in
Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi
accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una
rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a
trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad
essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero.
D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la
città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a
rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e
le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli
altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire
della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione
della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato,
perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto,
la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da
richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di
proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra
le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi
260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo
gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei
cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che
nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere
simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci
prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del
senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta
dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale
all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano
talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non
sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono
allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito
dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum
gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il
quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che
in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè
deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della
cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non
erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che
l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello
svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini,
sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che
l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del
l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie;
poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della
costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione
(1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la
République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain, pag. 46,
sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a
misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione
trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio
Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio
il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex
primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè
il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione
correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati
esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra i
magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di
cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi
per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto.
Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa
trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener
luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già
pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia,
poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta
ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor
tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro,
che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano
desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. § 6. – I
comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono
l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente
patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva
di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza
e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può
quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però
non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero
foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi,
allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si
circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro
comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel
senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi
delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del
senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie
dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale
inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che
corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli
attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (1).
Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea
patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi
con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo
però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la
popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia
coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica.
Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza,
alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare
le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono
noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che
fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del
quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi
inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è
chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere
qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra
i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei
comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du
droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: «
comitia curiata, qui rem militarem continent », e da un altro di Cicerone, De
lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia
ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem
attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di
quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome
stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere
perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza
questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il
carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una
semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia
o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle
curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che
si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale
viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono
i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal
pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari.
Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con
una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ,
Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, pag. 6 e 7, e il BourgeaUD, Le
plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag. 39. (3) Cfr. PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag. 617. 263 quali, il
Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città
sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono
per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia
mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua
sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire
il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti
significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere,
che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il
medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi
appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle
curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i
patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le
quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze,
in (1) NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal
WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che
il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci
è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: « Quirites autem, dicti post
foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam
indicant ». (2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 29. Inering, L'esprit
du droit ro main, 1, $ 20, pag. 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non
è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini
delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata
curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii,
tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un
esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium
(1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano
primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue
transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere
e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole
la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più
non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: « quod
lingua nuncupassit, ita ius esto ». È in questo senso soltanto, che deve essere
inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè
discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o
respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as
solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste
ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che
ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse
pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro
(2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se
la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si
stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi
templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle
pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto
alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, pag. 49.
È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo,
ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal
seguente passo di Paolo Diacono: « Contio significat conventum; non tamen alium,
quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur ».
Ciò pur conferma Liv., 39, 15. (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente
seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm.
R.G., pag. 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva
nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera
il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i
membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale
il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto
complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che
stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che
non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui
appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa
organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo, che
aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina
del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un
organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina questa,
che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei
tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto
anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso
del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico,
in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen );
donde la denominazione di curia principium, che viene ad essere imitata anche
negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle
delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali
fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai difficile,
in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima
piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale
talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma,
sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo,
avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la
cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la
cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il
magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci
pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea
delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il
potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una
costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione,
che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti,
mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia,
come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che
l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti,
che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è esso che,
secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo
potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di
esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio
ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata,
secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore della propria sorella.
220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere,
che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in
conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia
competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto un certo aspetto, è
ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei
pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie, e del loro
culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente
politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della
città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte
egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù, (1) DION., 2, 14,
scrive in proposito: « populo vero haec tria concessit,magistratus creare,
leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset ».
(2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la
costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui
discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione
gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e
che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è membro del populus,
e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente
sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto
». Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle
riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii,
convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose
attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal
pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli
atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei
primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il
magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei secondi
invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti si ra
dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi,
che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure è in
essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo
l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in
questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona
sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia
sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo
culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in
essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al
proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come
pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ,
che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a
costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien
detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti
patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le
norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla
trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che
il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per
porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde
l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto
cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati,
siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come relativi ad
argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa con dire,
che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges
publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza,
che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti
continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi
sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica,
ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non
prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a
darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che
viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio,
relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia
calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il
quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla
ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è
attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. (2) Vedi libro I, cap. IV,
$ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a
adrogatio per rogationem populi fit », ed è riportata la formola, che è quella
della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis,
iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita
vos, quirites, rogo ». 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata
nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il
tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban
donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii
centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i
proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte
all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria
testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis
comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i
quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium
mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum
furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia
dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui
la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora
degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni
importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta
littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero
perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la
questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della
assemblea delle curie; ma (1) Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione
sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia
dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe
cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si
introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata
da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i
quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in
essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione
periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e
che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria
testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis
potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si
riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo
opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di
determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin
d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie (1 ). $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma.
222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli
svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo
opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo
sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in
cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni
della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad
epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente.
Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e
forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea
del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso
e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus
romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva
esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che
ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo,
intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in
senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e
secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta
dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al
culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e
sacerdotale, e (1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo
stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia
anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap
presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non
entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla
centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono
sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero
populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie;
perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del
censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti
pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus,
cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati
la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi
dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai
patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de
imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della
loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di
carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento
della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più
malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare
un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia
plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la
sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius
connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa
l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il
patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a
diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un
certo riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si
contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero
reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori.
La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il
tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi,
quanto all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, § 3º, n° 198, pag. 240 e
seg. colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio
interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali
dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto,
fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente
a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e
politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi
alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli è
impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni
sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e
perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che
ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe
mettere a repentaglio l'avvenire della città (1). L'unico partito pertanto, che
rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di
riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei
quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i
concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio
tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie,
ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana.
È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il
quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i
suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere
che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere
obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a
pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti
obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria
-Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne
pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per
tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La
proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni
della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto, pacionem, quam
volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die
Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di
analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: « ubicumque multitudo esset, ibi
et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse »; ed è
questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare
potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus
plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui
passò la risoluzione del gravissimo problema (1). 224. Giungesi cosi ad un
periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi
tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi
vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e
sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si
riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e
diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi
sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo
romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere
militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme,
che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il
quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea
tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria
iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere
di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la
nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè
serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre
maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di
grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la
dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti
delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i
quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere
presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le
cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii
centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e
questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli
serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio,
fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1)
Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se
guente § 2º, n ° 232 e seg. dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto
alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi
il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag. 593, ove parla
dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della
costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia,
a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati
ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e
circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia
plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo
col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le magistrature
esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota, che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente.
Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione
così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono
intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito,
come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine,
III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe
più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium
tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155)
sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute: l’una
patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium
plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta, ma limitando
le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo,
quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere
legisla tivo, elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali
soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr.
BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 57 a 76; Karlowa,
Röm. R. G., pag. 118; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris, 1886,
pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La primitiva costituzione di Roma nelle sue
principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima. e 225. La
costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia, si
presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe
più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a
far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita,
rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città
esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa,
che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in
ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii
disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta
tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della
plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so
vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma
venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore
della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in
quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano
associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno
pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per
sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della
primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi,
che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò
si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla
coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero
organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad
adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si
completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere
al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione
dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas
del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e
dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa
populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni
della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun
aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio
concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune,
senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione
politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica,
aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava
rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere (1); ma se altri poi la
consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi
caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi
potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere
tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per
modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di
essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi
elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti
gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere
impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde
l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio,
la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale
intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma
iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima
magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio,
Histor., lib. VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto
dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare
dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain,
pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che
l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di
svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano
potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva
già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto
che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse,
pud 277 damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora
apparisce conservatrice fino allo scrupolo, ed ora invece diventa operosa ed
intraprendente fino all'audacia, secondo che essa abbia o non l'appoggio
dell'opinione generale. 227. Intanto quando trattasi della res publica, ossia
di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono
chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex,
interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando
trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro gare, quando importa di
ottenere l'approvazione di qualche proposta; l'imperare, allorchè nei pericoli
di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui
possa essere capace. E invece al senato, che si appartiene il consulere, quando
trattasi di dare il proprio avviso al magistrato, o di richiamare l'attenzione
di lui su qualche imminente pericolo, « ne res publica detrimenti capiat »; e
l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del
popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi
di una lex, sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva
del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome
queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per
costituire un atto compiuto, cosi niun elemento pud da solo prendere un
provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto
appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura, interessano
l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione
del magistrato, e l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono
le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio
nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò
il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum,
alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio,
non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum,
perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo
viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., (1) Ho già insistito
su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della
primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del
diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato
di Roma, Torino, 1886, pag. 13. pag. 317. 278 del potere sovrano nella città
antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere
giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare
in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma,
dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che
dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex
nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel
considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum
creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si
presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più
individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a
distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento
dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò (1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che 279
vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma
intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di
più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la
quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano
le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la
reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma
primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui alcuni
autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della legge,
anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto
da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si
vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli
auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della
stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo
il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo
tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e impotente a
sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con
ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si
vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando perd sempre
una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti
». (1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere, suole appoggiarsi
al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum
latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice
nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è
vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che
il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di
scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia
al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale
certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da
cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict.
étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e
larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt,
sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia
obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse
ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex
romana (1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli
auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già
l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto,
che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che
propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il
concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione
politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere
considerata come una « communis rei publicae sponsio ». Essa sarà ancora
riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce facoltà
d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al
culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu
nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: « lex est, quod
populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit », può già essere
applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa definizione
più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia
era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla
legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto
prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade
unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza
politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il
solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si
cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo carattere,
eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale
della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo delle genti
patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello
Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo (1)
V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap.
XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans
l'antiquité, Paris, 1887, pag. 91 e segg. Quest'ultimo nega il carattere
contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe
obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che
l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al
maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò
a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità,
che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che
questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus
maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre
l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio
che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione
della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres;
donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta
dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal
senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la
distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas,
ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa,
perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del
patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono
facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse
e l'una e l'altra (1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio
diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag
giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex
inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è
l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis,
in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di
diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di
essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose
viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare
nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa,
allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus,
quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi
scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa
occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre
leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra
essere identico (ut plebiscita (1) V. sopra capitolo II, § 3, n ° 198, pag. 240
e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto
sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione.
La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che
anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che
presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio, essere supe rata,
quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma,
secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi
politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno
304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino
tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 );
ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto
informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere,
allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite
tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse (1) Così si esprime il Soltau,
die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin, 1888, pag. 107. La bibliografia sulla
questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris,
1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo
una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi
dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito
e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva
l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è
che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i
patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti
non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii
tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste
nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent »,Gaio,
Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i
plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii
poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia
le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti,
e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex
tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa
legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe,
che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge
Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi
adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem
populum teneret (Römische Forschungen, I, pag. 164-5 ). Non parmi, che questa
opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il
pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge
Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di
plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma
piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome
alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum:
tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate.
Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe
potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare
tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi
essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo
dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere
l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e
altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a
cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione
di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che
è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che
la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però
evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in
virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più
essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende
probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo
periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della
plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i
tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per
ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233.
Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso
Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il
WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente
a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit.,
pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite,
pag. 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione:
Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia », Torino,
1884, pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi,
citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores,
mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile
il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere
accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico
interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare
opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta
aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas.
V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag.
240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento,
finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad
una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio, uscito
dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della
città, che ripete pur sempre la stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la
necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio,
l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent,
potestas autem eadem esset (1) ». Fu neces saria una secessione e ci volle un
dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio
avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una
rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex,
quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in
quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti
gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento,
la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo
più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi
ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la
nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si
valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri
buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono
anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della
plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che
doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si
adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo
momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum
parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la
patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che
erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L.
2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive: « pro
legibus placuit et ea plebiscita observari », e aggiunge al $ 12: « plebiscitum,
quod sine auctoritate patrum est constitutum », con che accen nerebbe
all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio, Comm.,
I, 3: « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum
tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: «
sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges,
coeperunt ». Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc. Att., X, 20 e XV, 27; come
pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN, Histoire de la
législation romaine, pag. 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État romain,
trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente
i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla
plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene
a for mare l'elemento riformatore, ed attivo nell'organizzazione dello Stato.
Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati
patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o di elezioni dimagi strati minori.
Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis: ma si
limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di
magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo
politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad
essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era
più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in
questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo
sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare
l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere
condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che
cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno
i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica
inerente all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente
per far valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i
giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse
»; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente
esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione
non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei
magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica
opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene
poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A
questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig,
L'État romain, I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il
PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge
Ortensia (Cursus der Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag
giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo
concetto di lex, e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo
per parte dei singoli organi politici dello Stato. (2 ) ULP., L. 8, Dig. (1, 3
). 286 grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del
l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre
tutti gli elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare,
che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È
per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più
copiosa, durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di
magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo
modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i
giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di
leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano
pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà
mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e
grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà
invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la
distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un
edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni
cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi
tura del popolo, legis habet vigorem (1). Questo sguardo allo svolgimento
storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero
prefissi, deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto
alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come
lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento.
(1) Ulp., L. 1, Dig. (1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem;
utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum
omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex, che era un
tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai
l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente
di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta,
relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in
Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle lotte
fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: « Ita in civitate
nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod
sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis
actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate
patrum est constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium
nascitur; aut senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine
lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps
constituit, pro lege servetur », L. 2, 12, Dig. (1, 2). 287 $ 3.- L'elezione
del rex, l'interregnum, e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si
riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si
informa la primitiva costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è
immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè
l'imperium, indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È
questo concetto, che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è
questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati
annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono
ancora gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può
somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione
dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che,
introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e
colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che
in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite
elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel
l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, « un capo lavoro di
casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani
» (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione
architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova
del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più
verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si
compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a
conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano
l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re,
come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il
concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima
avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano
parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886,
pag. 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al
l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la
comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato.
Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale,
che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e
consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de
imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come
capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche
considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione
sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano
ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa
istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere
considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente
formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione
gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e
solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli,
che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere
gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e
memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo
comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più
anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente
ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità,
accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia
avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che
uno di essi « regni occupandi consilium iniret ». Era naturale parimenti, che
la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più
anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza,
che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che
fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto
esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è
l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli
auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve
intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante
la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce
l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola
quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale
di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si
trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero
adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo
casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale
conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla formazione
di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria parti
colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura
solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora
con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei
col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle
decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le
insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I
padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il
partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il
potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta
la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento
capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È
l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a
crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create:
deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio,
che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della
lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e
ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza,
che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che
egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio
farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: «
hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta »,
cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso,
accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re (1) (1) Livio, I, XVII;
Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a
queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione
del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di
tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra
magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso
essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il
periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant
auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi
e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad
essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei;
del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di
patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato,
divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o
patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia.
Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere
esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di
origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex,
come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum »,
« patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole
tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum
auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata
da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di
ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199,
pag. 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., pag. 52 e 82 e segg., il
quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto
colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt» e simili, e ciò
perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex
primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo
della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra
i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum
interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est »
(1). Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico
sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con
certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale
modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre
istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti
riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas
per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la
proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti,
durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che
conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres
sunt»; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un
interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento
dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai
patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci
afferma Cicerone che « curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt »,
come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una
imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap
presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per
XXX lictores) (2 ). Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii
centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad
essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha
sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi
o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria
auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che
lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio,
per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14. (2) CICERO, De lege agraria, II, 11, 27
e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto
atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se
non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva
costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono
i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur
essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce
però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma.
Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma
piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza
dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta
dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di
riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva
costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando,
alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum
au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono
spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker,
Röm. Alterth., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum
auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra
alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public
romain, pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas
la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la
proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm.
R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di
patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad
essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine
quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire
qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei
magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie,
e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni,
che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie,
che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e
delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora
tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità
passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è
l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum
nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, pag. 297 a 395). Se
guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella
soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico
concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che
tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio
(BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas
(WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo,
che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto
sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli
antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato
(1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la
plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono
ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un
magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii
delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati,
esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe,
che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si
rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si
viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii
centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii
tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di
quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato
maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si
confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del
l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è
ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono
nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati
di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano
pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei
romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso
che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella
città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie,
prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati
dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni
furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere
come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del
patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei
suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le
curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è
con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma, pag. 593 e segg. Non parmi tuttavia, che si possa far
rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della
plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa
è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri
comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi;
mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i
concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma
(1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. § 4.
– L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la
provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ) (2). Senza pretendere di volere risolvere
le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad
osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene
il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo
svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni
primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la
potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il iudicium,
per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices, gli
arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in
materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà
quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai
comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che
svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere
giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius
dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si
parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano
proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit
public romain, I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15,
pag. 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa
razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può
essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che
quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al
popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che
sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo
riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di
qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma
zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non
assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie
di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e
militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così
anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni,
che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di
famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per
lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione
propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi
di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono
ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle
famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato
da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato
fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica,
che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo
concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle
genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti,
cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il
re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle
offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è
incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae,
che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui
addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i
singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain,
n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la
sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri
sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il
concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come
lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che
da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella
cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che
la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten
dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da
persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia
produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della
giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova
eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della
giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le
discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che
attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei
romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto:
cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il
giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non
si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur
ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi
formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi
infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze
patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà
quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai
capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che
appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, pag. 60, e MOMMSEN,
Le droit public romain, I, pag. 187: « Magistri (scrive Festo, po magisterare),
non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum,
equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi
a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, pag. 109
e nota relativa. (2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo
modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des
actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, § 29. Cfr. Carle, De
exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il
BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297
custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che
questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta
un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale
si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione
domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a
lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta,
siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio,
l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la
questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in
questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che
la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui
repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che
risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: « concilio populi advocato:
duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » (1).
Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di
carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere,
se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà
accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà
di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una
speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà
nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è
perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il
diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma
soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e
gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere
la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata
l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso
particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle
leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa
affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I,
26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la
questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era
una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si
trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317.
298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores
parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od
anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia
civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al
magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie
maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti,
il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori;
come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così
anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio,
che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti,
che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da
un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il
Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per
se ipsum exercebat ». Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo
del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza
patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che
il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale
puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei
centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui
la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita
pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che
dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come
nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere
amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa
contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al
tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa
(2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49.
Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: « de gravioribus
delictis ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può
inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca
pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., pag. 54. (2 ) Liv., I,
49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una
assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi
tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di
certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un
misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso
le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece
diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od
anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già
si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo
di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della
tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità,
che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal
quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio,
fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come
si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una
giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e
patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione
se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem
publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un
arbiter per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione
della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in
ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di
procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state
introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di
famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una
medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate
legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge
pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci
resta a discorrere di una istituzione, che era (1) Quanto all'origine
gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib.
I, n. 104. (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una
delle più antiche legis actiones, Comm. IV, § 12, sebbene poi il manoscritto di
Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla
medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197, e il BuonamiCI, Storia
della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a
ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è
indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli
scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed
alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del
popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli
affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che,
augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i
libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ).
Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas,
durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso
dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo « clemente
legis interprete », parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto
di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto
valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero
esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se
l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini
dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose
premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale
negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di
loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il
populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè
del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe
dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una
tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di
tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale e
logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter
ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la
provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex
horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri
perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato ». Era
poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio,
venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic.,
De Rep., II, 35: « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii
libri, significant nostri etiam augurales », 301 legale, che viene appunto ad
essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che
ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri,
che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti
all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e
l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo
aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus,
trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva anche
passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex animi
sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio,
«admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente
nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de
provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale
fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano
(unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè
il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e
quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse
solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso
anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa
istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva
esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che
essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare
una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in
definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche
qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo
interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i
patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai
concilia plebis. Fu (1) Liv., I, 26. (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione
del KarlowA, Röm. R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le
leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe
inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE
parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma
vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale,
cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la
legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii
centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non
impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il
proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e
per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la
conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi
il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i
comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene
pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per
legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones
perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di
delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la
coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio,
come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si
foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa
fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la
costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum, nec
una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus », era tuttavia riuscita
superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei
filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica
tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore
all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso
Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in
genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia
complecterentur, sine rerum usu ac vetustate (3). Veniamo ora alle leges
regiae. (1) Cic., De leg. 3, 4: « De capite civis nisi per maximum comitiatum
ne fe runto », disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la
quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e
contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia
plebis. (2 ) Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de
adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, pag. 71 et suiv. (3
) Cic., De Rep., II, 1. -- 303 - CAPITOLO IV. La legislazione regia durante il
periodo esclusivamente patrizio. $ 1. - Del contributo delle varie stirpi
italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire
la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era
naturale, che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non
potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente,
che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra
di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche.
Che anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la
ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire,
che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione
politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione
del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere
nei seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis
sulla figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto
per cui « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent »
(Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che
non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto
ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua
esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del
credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se
occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto,
che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus
caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul
debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a
schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza
generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio,
IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga,
di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto
all'influenza latina: « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il
matrimonio, il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e
partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero
evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a
ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si
sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti
transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima
quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e
delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e
privata » (1). Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe
giureconsulto appare come una verosimile congettura, quale del resto è
annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la
stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato
nello svolgimento delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa
ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la
tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con
tutta la reverenza all'opinione di un insigne, crederei che questa
ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure
come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e
il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero.
248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi
in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da
quella stirpe. In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città
primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine,
Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad
una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che
sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina, la quale fu anzi
concepita sopra un'unità cosi organica e coerente, che non può essere
riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re,
senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi
elementi si aggiungono, il re potrà sce (1) MUIRHEAD, Historical introduction
to the private law of Rome, Edinburgh. 1886, pag. 4. (2 ) In questa parte
divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro «
che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella
sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in
uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino
pelasgiche ». A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo
fondarono e diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle
linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono
assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, pag. 54. Questa
opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia
Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di
una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei
cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi
sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re
sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del
collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già
attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce
all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che
già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem
(1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie
a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre
ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli
parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2).
Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei
contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca,
poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla
fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui,
secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si
aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un
privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che
attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo
strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti
ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di
gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si
conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine
non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al
concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di
provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto
dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus
quiritium (1) Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, pag. 6 ). (2) Che questo sia un
carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione
patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe,
nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge
schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le
migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato
nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di
quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti,
che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e
più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle
singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto
dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che
probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel
medesimo stadio di organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di
ritto privato, salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere
essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui
prevaleva il carattere religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e
cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione
sociale; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli
istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare
con certezza, dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto
primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo,
chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che
diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che
erano già possedute dalle varie genti, fu anche, quanto al diritto privato, la
stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città; il che punto non
tolse, che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il
concetto della divinità, patrona comune della città, e si ammettessero man mano
anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece
anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover
affermare, che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma,
appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui
Roma ebbe la sua prima origine. Per verità, anche prima della fondazione di
Roma, le popolazioni latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto
il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive,
e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri
elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle
istituzioni degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di
Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi,
quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso;
l'elemento sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato
nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno
favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co
munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi
Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro
civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè
estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il
patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel
processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di
sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso
modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra (1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già
eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la
dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che
contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del
popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota
letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi,
nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche
questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione
gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca
della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi
uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla
formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma
continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti
alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli
pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era
naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna
dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune
diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che
a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli
si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta
del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche
primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già
certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta,
come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della
città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce
dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio,
in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le
avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le
genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al
concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta
alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e
quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto
l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche
in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un
centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. (1) Tale difficoltà
occorre al MUIRHEAD, per esempio, allorchè a pag. 50 parla del. l'opinione di
coloro, che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli
immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non
parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva.
Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione
progressiva e gra duata, così della città, come del suo diritto civile e
criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. 309 sarà
facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e
privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina,
che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica, sia poi venuta
lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel
periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero
conciliarsi coll'impronta primi. tiva, che essa aveva data al suo diritto.
Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella
trasformazione del suo diritto privato; nè, conoscendo ormai per prova la sua
costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia
dovuto esordire nella stessa guisa. § 2. Della esistenza di vere e proprie
leggi (leges rogatae) durante il periodo regio. 251. Intanto questo modo di
considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la
legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere
generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella, che, ci
verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti, dopo
aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol
essere indicata col nome di regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera
dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni
anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a
Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio
avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto
della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu
dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita
domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il
frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che
governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita
civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale:
quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici,
già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali,
ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto,
che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò
siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le
genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma
avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano
prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del
di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un
diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in
parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che,
leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella
convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella
selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una
città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città
in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad
iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare
alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella,
destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il
capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria
famiglia o gente, e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico
energico e potente abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo.
Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le
grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come
eguali nella città, do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle
genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro
ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto
mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva
governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo.
Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si
comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera
legislativa, che era una con seguenza inevitabile della formazione della città
(1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des
röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta
la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova
ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op.
cit., pag. 309; il KARLOWA, Röm. R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist.
Introd., pag. 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste
sopratutto nella nota espressione di Livio: « vocata ad concilium multitudine,
quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat,
iura dedit ». Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una
piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano
patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra
elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande
avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re,
padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche
formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di
comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era
la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e
Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente
quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in
tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera
mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe,
e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non
dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione
primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto,
che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la
solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere,
appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che
erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere
indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la
vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle
proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero
una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a
dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad
essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit,
adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di
iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo
dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita «
quae, tribunis plebis ferentibus, accepta sunt». Si aggiunge che Livio in
quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare
elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani
significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal
popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca
anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo
patriarcale di una tribu militare, si comprende che egli potesse iura dare;
mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù
entrarono a partecipare alla medesima città. 312 253. La loro caratteristica
prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera, ma piuttosto
quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso
giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi fra le facoltà
affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà intellettuali è
una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto
umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia
dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due qualità queste, l'una pratica e
l'altra teorica, che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano
come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante
delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino
alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la
conseguenza, che tanto nella politica, quanto nel diritto,Romanon procedette
maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè
apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare
nei quadri del proprio edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta,
per cosi esprimersi, un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni
anteriori del periodo gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute
presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri
elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico, e questa selezione
e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254.
Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi
dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo
romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente
religioso; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore
superstizioso della divinità, che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in
essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti,
doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza. Si aggiunge, che questa
carattere religioso, finchè Roma fu esclusivamente patrizia, era co mune a
tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e
tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di
una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato, a cui si
giunse in Oriente, di fare preponderare per modo l'elemento religioso da
soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico. Quanto alla differenza,
sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito
pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva:
quello cioè di Roma esclusivamente patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un
popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli
auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e
quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo
secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi: l'una, poco
numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle
civili e politiche; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è
nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di
ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in
questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a
cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato, il
quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse. È solo allora
che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le
cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini,
viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo
incaricati della custodia e della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e
questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città,
allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i
capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al
populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella,
che suole generalmente essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a
determinarla, importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i
collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto.
l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti
nell'opera: « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale », pag.
92, n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito
il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII
e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la
religion. 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla
formazione del diritto primitivo. 255. La caratteristica di Roma è una mirabile
coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della
propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto
di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la re ligione
pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e
delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato di una
selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio
culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il quale alla
sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed
ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è
dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani,
quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove,
di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il
fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi
coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca (1). 256. Intanto
una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo
concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice
massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato
supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un
carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito
esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali
sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un
carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad
un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di
essere i custodi e gli interpreti delle tra (1) La triade di Giove, Marte e
Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti
i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv.,
I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò
sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto
che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e
Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315
dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di
quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata
come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia furono
lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere
sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri
sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii
religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur
sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli
del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie
tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto
l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria
rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di
tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il
numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un
posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio,
mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi
es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di
contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano
concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo,
contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo.
Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di
questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo
dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di
fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di
sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle
tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere,
che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si
effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti,
sotto cui il diritto può essere considerato (1). (1) Non ho creduto qui di
dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè
questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per
la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che
erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta
influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del
con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose
degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op.
cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24. 316
257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano
costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe
stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale.
Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le
deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono
cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii
privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di
consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e
delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È
indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie
tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a
cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione
originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo
spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al
collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli
auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che
potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni
dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del
templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse
spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati;
delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla
scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere
edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati
dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni
augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il
quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser
citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico
interesse (3).Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 )
Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. — Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta
in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde
l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. (3 )
Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag. 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di
riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente,
allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande
autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un
potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta
inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La
loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale
scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum
auctoritate coniunctum », e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i
comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi
tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere
presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di
fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli
auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono
il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi,
solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso.
259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del
ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il
fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era
comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione
del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco
Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché
Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui
istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti
della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti
pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi
riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo
sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove,
che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli, che
primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di naturale
formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis, che
costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, pag.
139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il
porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di lui
» (1). Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice
della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e
l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali
sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative
al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere
civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle
questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito
delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura
(2). I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la
cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus
nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus
fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così
l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in
ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più
pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù;
dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole
componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i
fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della
parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le
quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a
che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza
civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo,
che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il (1)
Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79. (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal
FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei
venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può
forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai
Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non
apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già
si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente
patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli,
che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è
un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra
l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè
sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate
specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla
politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze
vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo,
che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica
seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non
si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le
popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla
tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto
opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene.
Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione
della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare
istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando
alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran
dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè
trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche
gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare
dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai
municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione
di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una
cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ).
Intanto però anche qui è (1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I,
Cap. VII, nº 118. (2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di
Tarquinio il Superbo: « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui
peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum
primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat ». (3) Inteso in questa
guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema
stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di
interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa
dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più
vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap.
VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad
un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel
repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo
nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella
continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la
storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei
feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre
genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai
pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare
applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini
erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto
feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di
colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1). 261.Non vi ha poi dubbio,
che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città
patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che
riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a
differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè
composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal
pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in
quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il
pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo
anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da
esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in
cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito (2). Il collegio dei
pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione
religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso
costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e
poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i
sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da
un altro (1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua
dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883.
(2) Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel
des Instit. romaines, pag. 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei
ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non
siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in
quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei
proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia
solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti
patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai
pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie
delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso
parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del
popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante
il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a
quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola
conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio
doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di
dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto
dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano
alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la
superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni
costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche
eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce
alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia
l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che
questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al
mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima
elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i
loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par
tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet (1) Questa
funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che
sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio,
I, 20: « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis
subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque
adsciscendo, turbaretur ». Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al
testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I,
Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II,
nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo
periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono
in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati
dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad
unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse.
Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei
pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero
potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che
potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i
custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il
populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche
ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum
), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la
legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1).
Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto
la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a
credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura
sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa
scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei
pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti
dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi
pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei
giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre
quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur (1)
Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della
Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu
rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono
raccolti dal Rivier, Introd. histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il
considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome,
come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo
Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare
come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o
quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano
tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza
dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp.
anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a
misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei
giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente
restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che
già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne
poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile
strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi
del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della
repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo
ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo
aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a
combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella
legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae ». § 4.
Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza
noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di
un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva
di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la
storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi
attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di
tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare
o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva
nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente
religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e
attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come
opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN:
Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo
oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è
divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in
qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR,
dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a
molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma
intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della
storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi
spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria
formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non
fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una
necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone
appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non
è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e
conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato
a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in
base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza
civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu
solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette
divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua
religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione
e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale,
elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata
dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come
l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio,
allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che « nulla re, nisi
legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset ». Era solo a questa
condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani,
potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo
diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire
un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era composto di
persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di
fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a voler anche
ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha un carattere
esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata
intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo,
che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico
ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della
costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e
proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura
regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al
modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua
parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in
contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano
alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo,
osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non
fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e
proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a
cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa
primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia
continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume,
dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra
le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che
doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si
chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e
politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo
primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai
bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus
et necessitate exigente »; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere
fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma
dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine,
limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità
facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi
svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di
questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma
il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far
sì, che essi mutassero carattere. 266. Se intanto potesse essere
lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi
il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla
formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle
seguenti leggi fondamentali: (1) Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di
questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti
venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far
trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei
concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e
specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte
nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il
commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro
capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle
solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto
primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire,
poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima
erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto
di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario
ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi
concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i
quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno
svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e
cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius
quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze
delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium,
nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono
in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia.
Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie
gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e
del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure
l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti,
nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome
eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si
manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra
mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza
conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito
quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328
consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo
staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai
vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo
svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse
si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere
sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii
della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere
un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo
considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli
incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus)
attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi
stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater
familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis
sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in
qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino
dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di
Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento
dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni
istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che
costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità
sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii
esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione
da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali
perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate dapertutto,
perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo
processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che i Greci furono
per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione
della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di
darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè
trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito, ma non
insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica -
varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una logica istintiva
e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio
scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze. 329 267.
Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi
divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi
argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di
una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue
fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere senz'altro
respinta, come una creazione di tempi posteriori (1). Essa porta in sè
un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del
tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le
cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del
che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami,
che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al
diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5. – La famiglia e la
proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato
l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle
leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi
in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad
essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione
gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche
parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè
incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei
varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne
ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio,
la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può
benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il
matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto
all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: « uxorem,
quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente
alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore
della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il
contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si
presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in
condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle
leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem
cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum ». Noi ab biamo qui il matrimonio
primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa;
esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci
testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù
primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in
certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però
non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che
appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due
fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può
riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli
deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una istituzione
eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento
della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto che non potrebbe
compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da
esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie
difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause
determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole, la
sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie
per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla
moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere
immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla
moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie
religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono
ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi
per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1)
Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci
furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns,
Fontes, pag. 6. (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium,
è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente
l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico
matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel
senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della
moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in
una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag. 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: « paelex aram Iunonis ne
tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito »: la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo, secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice
appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una
piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della
patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta
la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di
venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge
un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar
reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane,
più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole
maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto
minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima
essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato;
disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita
patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed
in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri
chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in
istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse
estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta
verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono,
secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1)
Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono
vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, § 2º, pag. 8.
(2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da
Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata
da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag.
7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8):
mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene
doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8
13, pag. 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico
della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in
quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a
cattivi trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto
dovuto all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in
cui incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che
venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1). 270.
Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa
il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio
attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo
Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di
terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che
la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in
questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive,
sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno
della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della
proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine,
che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle
varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i
quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio
heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii
gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle
divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione
quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti
quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono
consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da
un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ). (1) Così,ad
esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7, nota 6, una legge,
attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer
verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus,
sacra divis pa rentum estod. » Per i divi parentum si intendono poi i diï
manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7, pag. 41. (2) Dion., II, 9; Cic., De rep., II,
9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74; Festo, pº Termino.
Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag. 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di
legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle
tradizioni; ma punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni
nei partico lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare
argomento di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal
re, appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione
religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si
tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce
allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano
rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano
le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma
patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare
svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede
occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e
specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la
legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto,
dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono
tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un
lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza
civile e politica. Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel
carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro
gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è
poi sopratutto un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito
(dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla
consecratio bonorum; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza
(imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia
alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del
delitto e della (1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo,
che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi
attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella
relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti
termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di
peso nel seno della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a
cui accennano le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè
dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente
preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti
fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges
publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato
alla pubblica giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a
lasciarli alla prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche
tradizionali, formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una
consacrazione religiosa (1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati
nelle leges regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che
possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra
questi quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini;
altri, che sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e
l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi
crimina publica, in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità
incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi
ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di
famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico;
come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso,
comela capitis sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la
religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che
alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in
questo periodo, avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più
larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del
collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle
tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto
che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è
creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi,
agnatis eius in contione offerret arietem ». Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per
ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag.
64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., pag. 54 a 55. 335 - tefici, ma è
un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora
nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione
criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella
relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della
patria potestà, di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi
i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo
Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un
delitto, che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la
ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea
la Vestale, nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi
seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si
facevano sacrifizii di purificazione per la città. Da questo caso in fuori non
trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai
pontefici; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal
momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una
magistratura sacerdotale (1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare
come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso,
che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità
sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma
quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece
estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte
alla giurisdizione domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo
accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi
misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di
parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero
istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum
viri perduellionis; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i
primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere
nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag.
187. (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto
dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re,
mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº
Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis
capitalibus quaererent ». 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e
all'altro misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma
anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli.
È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium
l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio
(1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di
antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali
emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e
poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per
ricavarne il processo logico e storico, che dovette essere seguito nella
configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i
pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia,
per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur
rite nuto possibile il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse
poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur
fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis
hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto ». Quanto poi alla
perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da
perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che
il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche
tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere indicato
special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le perturbazioni ed i
sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno, per i quali era
specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però
abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa
di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi,
« sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal
rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme
antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » (2 ).
Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che
provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion., III,
22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio, I, 26. (2) Liv., 1, 26; Bongai, Storia
di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg. 337 inizii col vocabolo ili parricidium
sarebbesi indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori
in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora
quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono
degne di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer,
ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori
tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere
paricidium, cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari
o di un eguale (2 ); quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui
il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un
congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina
dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe
dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle
genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi
uomo libero (4 ); e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal
Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente,
ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De
iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi
citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, pag.
137, $ 1138. (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu
il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, pag. 64, § XI, il quale si
fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes
homines esse aequales. » L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il
CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi
il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die
leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa
fu seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, pag. 258.
Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas
esto » significasse « capital esto », cioè condannabile a morte; ma tale
opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa
innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte.
Casellae, 1839, pag. 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer.
Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con
grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER
in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux
parricidii », letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis
scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è
anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: « De parricidii
notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna,
che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e
significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la
pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale (1). 275. Or bene
con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito
degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa
adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il
paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma
l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si
tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta
parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a
fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come
conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari
uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in
condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si
comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un
con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo,
che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche
di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad
essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum
manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione
della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi
cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si
passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una
concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto,
che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi
scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri,
che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle
doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui
occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal;
quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure (1) Questa
opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI,
8 766, vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $
18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die
perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, pag. 10-14. 339 dei
codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano
cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero
è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano
accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che,
allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione
nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello
stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo
primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari
ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis
excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che
poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche
per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me
desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium
avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla
parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva
del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata
piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in
cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre (2 ). Lo stesso è a
dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della
città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più
tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione,
sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più
probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non
contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum
nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium.
Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino,
che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso,
sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: « parri cidium et
homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus
pares »; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del
vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile
all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN,
Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit., §
10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium
ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo
la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare
l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione
sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e
perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più
gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che
soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e
comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da
espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto
primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si
svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono
perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due
vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per
formare la figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso,
mentre, per formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella
dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava
nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla
privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per
duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale,
trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in
esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col
nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278.
Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in
Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si
tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che
percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù,
vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che
prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti
interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso
punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato (1)
PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già
presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della
perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo,
senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato
ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo
stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si
deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad
un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè
in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili
trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta
hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad
un altro; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns,
Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli
ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che
quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a
misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano
sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores
parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il
vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi
i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto
alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium,
potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei
misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un
figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come
negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto,
se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che
cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare
l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab
bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso,
prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella
legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli
tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione
di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far
rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium
abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un
parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa
trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia,
che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei
quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento
delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della
diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui
solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum ». Non sarebbe poi qui il
caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio,
ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma
ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile,
allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano
talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit
public romain, pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il
vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad
assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente
giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato
il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col
proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro
per l'umanità (1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo
de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po
tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual
parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto
dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere
molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera,
e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra
l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio
vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui
inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della
patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato
un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva
operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra
delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il
vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in
base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel
iudicium, viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In
darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per
trattarsi di un misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua
figlia; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e
quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude: « duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio ». Dura era la legge relativa al
perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che
parla di parricidium patriae, civium, e scrive: « sacrum, sacrove commendatum,
qui clepserit rapsitve parricida esto ». Cfr. CARRARA,Op. cit., § 1139. 344 «
intra pomoerium vel extra pomoerium ». Il tenore della legge era quindi tale,
che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore «
colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in
memoria del fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene
esclamando fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia
l'Orazio, anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde
l'erezione del tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette
anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva
il caso di un omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio
del dubbio, che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il
passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto,
e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio
involontario (1). 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più
verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale
in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel
medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I
concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso
che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo
conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti
quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un
nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le
genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132,
nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui
sostenuta: « Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque
caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam
adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur ». Osserverò
poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato
come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico
esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione
forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse
dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena,
con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti
fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della
stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno
si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la
perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma
al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co
struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che
il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese
contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la
perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando
questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen
lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di
stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si
sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati
politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la
sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi
i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà
poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse
bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una
giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione
criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità
pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi
pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano
nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate
cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche
nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza
sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della
costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi
del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il
diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente
selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore
orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di Roma sono
altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di
scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente. Ora
più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di
diritto pubblico, che di diritto privato. - 346 CAPITOLO V. La condizione dei
clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose
premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica
di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque
re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si
riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali,
trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a
prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a
determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica
delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente
distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si
riferisce ai clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio
della città, non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi
continuano sempre ad apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi,
per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi
fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli
stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il
periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma
continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri
gentilizii; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni
davanti al magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e
degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo
primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene
un gran numero di autori (2 ). Le curie sono (1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si
espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, § 3º, pag. 46 a 52. (2)
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, pag. 46 e seg. e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg., nota 2. Il prof.
COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del
Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri,
il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere
state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in
condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse
stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto,
avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in
occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi
dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente
dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non
possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla
elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che
abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana,
che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e
militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in
proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei
comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze
dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le
votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana
fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla
organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a
fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui
starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio
della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono
poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le
pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è
assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di
Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i
primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del
diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di
Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi (1) Che
le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re
cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente
passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per
patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius
». 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po
tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che
essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città.
Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle
fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far
parte dell'assemblea delle curie (1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo (1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX,
pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti
in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua
autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto
al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera,
col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio
delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo
storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come
l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio
delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro
ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo,
che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che
la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi
anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata
alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è
sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi
fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del
tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o
suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva
indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti
primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno
sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che
quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento
completo del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano
circondati. Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva
essere am messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale
trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a
credersi, che il patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per
generosità accordare spontaneamente cid, che era ancora in condizione di
negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto
più improbabile, in quanto che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo,
era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si
riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro
esclusivamente propria; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda
ancora alla gente, da cui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a
far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano
350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La
lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due
elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e
non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono,
per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare
a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo
stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii
tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori,
agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di
cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in
parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente
spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito
ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del
patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine
plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla
repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie.
Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far
parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai
ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am
messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal
fatto venne certo ad essere possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli
inizii, è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e
l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del
patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa;
mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni,
che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare
nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un
ca rattere religioso, ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo
delle classi e delle centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e
si fondavano sulla proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a
ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono
la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che
dovette arruolare più tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la
proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne
deri varono fra essa e il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la
costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad
un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria,
che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la
plebe, esso può essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo
caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del
resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari
di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni
versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la
plebe, finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla,
allorchè essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle
centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della
storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in
questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il
qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto,
come il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema
di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che
entrambi, a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di
diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al
primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare
con certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra
loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di
fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione
quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe
sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei
ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti
della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è
quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius
commercii (1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può
darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il
processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso
diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga
significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di
comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium,
suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede.
Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere
compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che
riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di
eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium,
ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi,
ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de
Rome, I, pag. 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le
conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la
supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere
riconosciute. Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella
città, il nexum ed il mancipium, come accadde anche in tutto il resto,
cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le
circondava, per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi
concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi
vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi,
apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario
furono sostituiti da altri (1). Non può dirsi pertanto, che in questo periodo
siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un
concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere
un diritto proprio delle genti patrizie, che parteciparono alla formazione
della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che
governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale
si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo
il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la
sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo
del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare,
che influi potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più
tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. (1)
Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi
nel Lib. I, Cap. X, nº 160, pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui
enunziate apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione
Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO III. Il diritto
pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII Tavole. CAPITOLO I.
La costituzione di Servio Tullio. § 1. – Cenno degli avvenimenti che la
prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima
una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle
tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli
storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie
degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria. Fino a
quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città,
avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra
le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo; mentre i Luceres non
avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto nella formazione dei
primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la
gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per
clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato,
che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile
ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio, ne guadagna
per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o
ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale
un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio del G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri: « eum,
scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit » (1). Nè sembra
essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa
immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la città di
Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini
avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono in
concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con
tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla
patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle
costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità
e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più
verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a
quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il
quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi
famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove
miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di
Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove
genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già
sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire,
dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei
pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa
già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la
nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio
e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo
(3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i
segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua
popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare
alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la
dominazione dei Tarquinii (1) Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. (2 ) Müller O., Die
Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, pag. 134, ove si
impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme
a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel
numero dei senatori. Lib. II, cap. II, § 5, nn. 212 e 213, pag. 258 e segg. 355
Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio,
un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca
Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione
fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che
potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio
avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero
costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin
gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali,
essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie
mura (2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri
mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero
altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la tradizione avrebbe pur
tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo
dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la primitiva città erasi fondata
mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione
dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare
il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di
conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che
serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses,
e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si
chiamarono patres minorum gentium; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e
degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei
libri sibillini i duoviri sacris faciundis, i quali, portati poscia a dieci e
più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale, che
sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo
trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica, ci fu
serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale l'avrebbe tradotto da un latino
arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv.,
I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la
cinta, che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72.
(4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è
attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo
svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il
Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris, 1882, IV, pagg. 286-317,
come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886, pag. 545 e segg.
356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento, ma in
proposito fu giustamente osservato, che la religione, importata da questa
immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole
essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca,
come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1); il che
sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca,
potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione
sarebbe stata Corinto (2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma
si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac
cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca
dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di
uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la
plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra
patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento
indispensabile per rafforzare l'esercito, e la cooperazione della plebe urbana era
anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la
caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural
mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla
medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della
città, anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi
comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza,
ed affezionata al suolo da esso col tivato, poteva avere interesse
all'incremento e alla difesa della città. Fu questa l'opera, che la tradizione
ha attribuito a Servio Tullio; altro re, che appare come trasfigurato dalla
leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera
di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e
delle nuove energie e forze operose, che vennero a (1) Questa osservazione è
del PANTALEONI, op. cit., p. 149. (2) È noto che, secondo Livio I, 34,
Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia
figlio di un Demarato Corinzio. (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il
regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der
römischen Staatsverfassung. Leipzig, 1884, I, pag. 32 e segg. 357 scaturire dal
nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di
Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio: mentre la tradizione latina,
unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che
una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina, una tradizione
invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore
Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca, e
gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è
concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo
che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa, o alla
tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa corrisponde a un graduato
sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città. Essa chiude
il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina ancora la discendenza e la
nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i due ordini, dopo essere
entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo, finiscono per
avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico. Può
darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga, come, ad
esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra,
che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte,
abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo. Ben è vero, che anche
per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un
tentativo di tirannide; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e
il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne
aveva poste a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano
dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel
Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel
senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito
nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni
relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di
nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni
degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma
indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche,
sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag. 201, nota 14. (2) Quanto
alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le
condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a
consultarsi il GROTE, Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome
IV, chap. 4me, pag. 137 a 216, come pure l'appendice allo stesso capitolo, in
cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358
al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui
venne allora a trovarsi la città. L'interruzione però non impedì che, superata
la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso, a cui erasi
arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo
l'elaborazione del diritto pubblico, ma ancora quella del privato. Fu il non
averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso, ha impedito di dare una
spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di
Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che
servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che la formazione della
città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma
teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di
selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico
e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte
essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre
parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare ugualmente nella costituzione
serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano,
come si è veduto, in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle
entrare a far parte della stessa comunanza civile, politica e militare. Il
fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro.
era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii,
erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole
istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo
inte resse, che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere
insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano
essere le basi della loro partecipazione alla medesima città: quindi è che la
costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un
elemento, che era escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base
più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile
e politica. Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso,
l'organizzazione gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo
invece, che esce dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi
di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo
esercito, e più tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola
considerazione del censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di
quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in
certo modo essere paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver
diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad
essere considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere
all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha
nulla a fare colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati
gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere
negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la
parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto
l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva
mente dal censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti
patrizie è lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge
un nucleo novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per
richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo
alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È
questo il motivo, per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in
guisa compiutamente diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la
descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più
elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe (2). Essa era tale, che da
una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò,
che era esclusivamente suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito,
più ricco il proprio erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le
magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe,
perchè essa, ancorchè sulla base esclusiva del censo, veniva (1) Che questo
fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio,
XVI, cap. 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque «
familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque
« in patriam fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Il paragone poi della
comunanza quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di
azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. (2 ) Il
diverso apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce
da Cic., De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il
Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione
giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di
un'aggregazione sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare,
poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione
adeguata al pro prio valore. Questo è certo, per quanto appare dalla
tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la
costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono
re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto, che non di
diritto; tantoque consensu, quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus
(1). Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico
concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata
all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima: interesse,
che si ritiene dover essere misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene
incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono
sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione
del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e
l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie; istituti questi,
che abbozzati negli inizii da mano maestra, dovranno poi ricevere dalla logica
tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 293.
Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di
edifizii, aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui
mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia
buona parte di tali comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità
grande di abitazioni pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana
di fronte a quella del contado; il contatto fra il patriziato e la plebe
diviene più intimo e frequente, e la vita della città concorre così a dissol
vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto
stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città
intanto, chiusa e fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui
contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo
pressochè militarmente organizzato, assume anch'essa un carattere più
decisamente militare e apparisce (1) Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle
popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento, che la vita fra le
stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi,
fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a
formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori
della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa;
poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il
Quirinale, il Celio, il Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni
fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non
dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli
incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi
però osservare, che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al
tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba
ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la
sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa
continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la
città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni,
che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa
trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si
eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare
alla plebe; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero
continuare a ritenere le proprie terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in
una città cosi concepita diveniva necessario, che all'antica distinzione
fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente militare della
cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose
militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare
alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle
fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia », 1887, fascic. 10. (2 )
Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib.
I, cap. I, nº 10, pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg.
« L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che
confidava nella eternità e negli alti destini della città, e che aperse la via
ai suoi futuri progressi o. Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da
Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora
da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: « agrum publicum di « visit civibus
romanis, qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa, ser viebant
». e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter
ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po
polazione, che vi avesse la propria residenza, e per fissare il tributo, a cui
dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il
territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche
ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località,
e chiamansi così Suburana, Esquilina, Collina e Palatina: mentre le rustiche
continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie, quali
sarebbero l'Emilia, la Cornelia, la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia,
Papiria, Pollia, Sergia, Romilia, Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata
la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla
località. Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi
tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è
ben noto, ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche
comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero, che la ripartizione, anche
del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della
costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede
occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio,
che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La
cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la
storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio
conduce alla for mazione di nuove tribù, fino al numero di trentacinque, che
poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò, che Roma non abbia fatte
nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare
nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale, si mutarono
cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere (1) Mentre Livio, I, 43
attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro
tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza di Fabio, gli
attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero
complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare
comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di
20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella
data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di
varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena.
Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero aggiungendo le altre
tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le
droit public romain, pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de
Rome, Paris, 1886, p. 71 e segg. 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza
tener conto della effettiva residenza dei medesimi (1). 295. Sopratutto poi il
concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del
censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad essere determinati i
diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente, che nel censo
di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa
miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà altrui possono
giuridicamente essere considerati come padri di famiglia, ancorchè in realtà
non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice,
cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da lui dipendono; donde
provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose,
dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto indistinto, che
suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il padre di
famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà
altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare anzitutto, ex
animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del
padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto, l'età, il nome della
moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio,
che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che appartenga alla sua
gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli appartiene ex iure
quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in significa zione più
ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo
modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli
autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni
di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo
cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il
decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il
loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della
ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il
contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio
non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe
costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe
obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo «
addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent »; il che fa
credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi,
che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op.
cit., pag. 57 e seg., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al
carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo.
Sarà poi in base a questo censo, che sarà designata la classe del popolo, a cui
deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di
diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue
obbliga zioni sotto l'aspetto politico, militare e tributario ad un tempo (1 ).
296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza,
che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa
natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il
Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto. Per la città serviana la
formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di
carattere mercantile la determinazione del contributo, che altri deve arrecare
alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di
base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare
ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli
e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza.
In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel
censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa
triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse
comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre
forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte,
cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni
relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la
circostanza, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose,
che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di
familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as
sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un
tempo. Cid non accadeva già, perchè si confondessero persone e cose, ma perchè
le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona.
Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il
fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie
del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag. 2 e quella del Voigt, Die XII
Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli
manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio,
Firenze, 1887, pag. 5, nota 8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma
1888, pag. 100, nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti,
dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno
un'assegno di terra in proprietà quiritaria, che valga a farli ammettere in una
delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium
o di nec mancipium, perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio
Tullio, e se il medesimo non giunga ad una certa misura, altri non potrà essere
censito, che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato
nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si
raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i
quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver
interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione
tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città, si attacca
al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli
assicura una posizione giuridica, militare, economica per sè e per i proprii
figli, quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come
il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum,
che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a
ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa
natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento
storico, in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della '
città. Quando si pensi tuttavia, che trattavasi di un popolo, il quale una
volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva
essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione
giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli
altri con cui trovasi intrecciato, e che questo popolo fu costretto per secoli
a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il
crogiuolo del censo, si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di
vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu costretto di collocarsi e le con
seguenze, che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto. Ciò
spiega intanto l'importanza immensa, che si diede per tutto il periodo dalla
repubblica alla istituzione del censo; le cerimonie religiose, da cui esso era
preceduto ed accompagnato; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio, il
quale, secondo la tradizione, ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene
gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro
coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi);
l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la
sola for mazione del censo, e di affidare poscia la formazione del censo ad una
speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori
in imperio, manessuna che fosse superiore in dignità. Ciò spiega infine la
singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il
quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi
puramente economica dei singoli capi di famiglia, e poi finisce per cambiarsi
in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid
infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti
tuito dapprima per la materiale formazione del censo, reputata in degna delle
cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori,
fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga
meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per
confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di
popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa, e ad essere cosi l'arbitro
sovrano della cooperazione effettiva, che i varii individui e le varie classi
recano al benessere delle città. 298. Infine è anche il censo, che serve di
base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già,
come alcuni credettero, che coloro, i quali non avevano un certo censo, non
fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù; ina essi vi erano
iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la
quale secondo Aulo Gellio, « honestior aliquanto et re et nomine quam capite
censorum fuit ». Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito,
perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse, che essi avevano
a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle
spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad un certo
censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro
ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia
ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere cercati e dove
avevano i loro possessi (locupletes) (1). (1) Il criterio, che servì a distinguere
i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii,
adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È
pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di
classi e di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati
(Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il
vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi
comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen,
che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere
principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella
opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore
di Servio; e sembra anche corrispondere all'intento, che si propone la
comunanza serviana, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa.
Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli
inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è
però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo;
perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo
un esercito, ma tutta la popolazione di una città (1). 299. Ad ogni modo nel
loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero
esercito, di cui venne ad allargarsi la base, in quanto che nella sua
composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza, ma unicamente
al censo. Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del
ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta
in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res,
pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo
in caso di necessità, e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario
nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste
distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che
dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio, e chiama Servio a
conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus
dignitatis fortunaeque aliquid interlacet ». (1) Pur ammettendo col Mommsen,
Hist. rom., I, cap. VI, e col Peluam, v° Rome, « Encych. Britann.., XX, pag.
731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se
posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente
militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere
affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle
istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad
un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base,
come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo
con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere
esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I,
42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci
decorum, vel bello ». 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e
senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie
delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che
nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad
essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni
vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono
prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un
completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere
l'urto del nemico. Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo
vengono le centurie della seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni
classe, le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con
quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della
quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20
centurie, reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come
fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due
parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60
anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie
di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo. Ciascuno di questi
corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di
due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale
della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non
inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri,
tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ),
circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate. Per
quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe, il medesimo
ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere
valutato in iugeri (1). (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe
era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per
la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio; ma il
difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non
fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse il valore
dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che l'iscrizione alle
varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre, argomentando
anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom., chap. VI. Di
recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il
iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio
della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15, 369
Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere
un posto distinto le centurie degli equites. Di queste 6 ritengono ancora i
vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora
composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son
determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia; poichè è da esse
che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che sarà chiamata a
votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da
Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di
cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che, pur
ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione,
basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla
medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri
tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà
quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive
di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si
fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche
entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal
medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di
vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente
influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della
terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca,
ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi.
Röm. R.G., I, pag. 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il
WILLEMS, op. cit., pag. 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al
riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites
e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti
lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del
TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites
non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i
celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre
presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che
nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una
rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo
e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per
qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e
la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº
191, pag. 233 e 234. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 -
CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di
Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che
ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può
essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1).
Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che
attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli
annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai
commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu
narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non
vere: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono,
la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni
serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette
riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni
modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli
avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non
mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati
perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana.
301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre
trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù
della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus
romanus quiritium. Questa espressione (1) NIEBHUR, Histoire romaine, II, pag.
91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838;
Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém. de l'Acad.
des Inscript. et belles lettres », année 1866, vol. 25, pag. 107 a 223: Herzog,
Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig, 1884, I, § 5,
pag. 37 a 48; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, pag. 64 a 85.
(2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non
sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 242. - 371
infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie,
venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e
delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora
in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che
ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario
(classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei
comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle
curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono
anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle
proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli
auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del
populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già
si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio
e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli
cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè
quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i
ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa
l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di
populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a
far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere
col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva
plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione
primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano,
che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di
convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95,
sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi
ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è
probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes
et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a
suo tempo al cap. IV, § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib. II, nº 198, pag.
240 e seg. e le note relative. (3) È questo appunto il concetto di populus,
quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio
infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver
distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis,
omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes
civium patriciae non insunt », il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm.,
I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed
armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia,
e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana (1). Questo
populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del
popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che
entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di
proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono
de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da
tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti
dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità
indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto;
ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed
il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose,
che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium,
che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo
(2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale
della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che
anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione
col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres
et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non
accadde del magistrato, poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen, I, pag. 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note
re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente
dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro
l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali
più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle
magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli
altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi
sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già
potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il
magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad
apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un
rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione
delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della
giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto
abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere
capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato,
incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi
cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il
punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte
di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo
svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi
del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che
essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio,
che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia
dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere
essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per
formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e
costituiscono una specie di aristocrazia del censo, (1) V. il cap. IV del
presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la
plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato
coll'an tica, finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che
col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato
e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello
del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono
conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è
assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e
le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero
il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in
altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che
avesse rag. giunto certi limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri
di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si
formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto
nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee
meglio organizzate, che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia
notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello,
per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano
essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie. Anch'essi
quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato, che
li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli
auspicia, debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle
deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella
votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di
cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo,
fondatore della città; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che
viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium, il cui
voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così
attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città, viene
il riguardo all'età, in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni
classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ),
malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli
inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente
seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, pag. 135
e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera
zione del censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo
le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in
numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza
che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd
nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano
egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo
dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le
distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la
distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si
compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano
essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico,
senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di
mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle
genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori
della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela,
sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono
ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa
imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano
a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali
dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione decemvirale, le
leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi parimenti, che
nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei
magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione
di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu
davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad
populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie; il che spiega
comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE,
De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus
plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus
»; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. (2) L'esistenza di
comizii calati, proprii delle centurie, è attestata espressamente da Aulo
Gellio, XV, 27, 1. (3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al
nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per
rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi
appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito
della giurisdizione criminale (1). Intanto si comprende eziandio come la lotta
fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto
concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato
per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere
i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere
collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una
prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti,
che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente
collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che
sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini
dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro
assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla
stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del
l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un
patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di
qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per
centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel
censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe,
guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra
istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno
svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli,
che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che
una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo,
cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi.
Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le
curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non
accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i
proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un
germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno
alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246, pag. 299 e segg.
377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i
tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il
proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in
questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto
le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e
comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato
quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono
essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo,
in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è
accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base
reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e
in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro
non potrebbe appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la
più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale;
la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del
cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più
democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto
dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii
centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò
nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe
del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i
comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione
politica, finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti,
quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii,
quando siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono
convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non
saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies
fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si
dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende
anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO,
Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto
P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure,
ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent ». Husche, Jurisp. antijustin.,
pag. 11. 378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è
dato viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla
maggioranza delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più
facile convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati
patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i
provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti,
secondo l'autorità che li propone (1); il che spiega come i comizii tributi si
siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo
periodo della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione
dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene
(1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii
tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224, pag. 273 e segg.
e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai
numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg. Solo mi limito ad aggiungere che negli
ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè
erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti,
allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò
paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex
agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita:
« tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit », sebbene in
tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo
dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: « Tribus principium fuit, pro tribu Q.
Fabius, Q. filius, primus scivit », il quale Fabio dovette probabilmente essere
un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è
la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata:
« T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro
pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit;
pro tribut Sex... L. F. Virro primus scivit ». Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui
infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della
plebe parlasi di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche
i patrizii: mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso
chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad
essere un populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo
vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della
intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la
riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe,
ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi
perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p.
91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da
comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da
un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno
della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime
riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice
Pomponio, che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset,
potestas autem eadem esset ». L. 2, 8, Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece
per assorbire tutto il potere legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la
legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente
politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli
ordini, quella in vece, che usci dai comizii tributi, ha un carattere
eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato
(1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le
istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti
della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà, ma finiscono per
cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di
cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale,
le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni
locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa, per
quanto la me desima dimori eziandio fuori della città. Per tal modo la costitu
zione di Servio Tullio, al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare
a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per
parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le
antiche virtù ed istituzioni. Vero è, che le forme esteriori sembrano sempre
essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate; ma conviene dire che «
spiritus intus alit », e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme
an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da
spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne
foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il
magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie
istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella
elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a ricevere il diritto privato di
Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una
influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come
spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. (1) Quanto alla legislazione
comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano, Milano, 1885, pag. 9-16. 380 CAPITOLO III. La costituzione
serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu
agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul
diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma
non meno importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato.
A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente
si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle
istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli
pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i
giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei
debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La
probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non
può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi
profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse
eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto
privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante
quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la
naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a trovarsi. È
quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie
delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle
distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in
epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che possono in
qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana.
Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et
libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti
insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11,
attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver
voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore;
ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio
tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed
alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di
un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione
del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi
rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi
collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere
del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli,
cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma
serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette
iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue
linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso.
310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di
porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà
apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che,
procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto,
finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci
porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri
primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che
con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus
romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta,
così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria
elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il
diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo
svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad
assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire
con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non
comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle
istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie,
e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1).
Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della
legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia,
dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede
continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel
periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag. 329 e segg. 382
Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e
siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di
quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in
cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le
genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano
circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati
ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano
pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri,
che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di
terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario;
quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che
dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il
diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da
cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius
quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni
logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo
insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium,
di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie
genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così
in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni
proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1); così quel ius nexi mancipiique,
che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe
circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium,
venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in
questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira
ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne
presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle
classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto
i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio (2). 311. Si
aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che
ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg. (2 ) Cfr. a questo
proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe,
anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383
a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi.
Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva
nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti,
cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare
l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di
carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto
del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto, e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent ». Il censo viene in certo modo a misurare il contributo,
che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la
stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve
anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune
difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che
dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto
di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri
aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite,
come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti
i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel
censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose,
che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di
proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la
significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo
indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed
hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono
disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere
considerato (1). (1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo
plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui
persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi
insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il
diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del
proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo,
come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico
comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o
della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un
autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da
diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere
il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca
serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea », leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di
iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium.
Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune:
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario
(classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere
l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva
davanti al medesimo (3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec
mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine
del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia
del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi
limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: «
festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod
maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur ». Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come
un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà
sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista,
sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii
giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che
si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di
legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii,
che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro
viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento
storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto
comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che
dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli
atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del
cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione
del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e
militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale
concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che
dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che
è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium );
3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite
assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente
l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto
informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si
adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto
dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto
dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag.
168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana
l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente
combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag. 131 a
139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non
abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere
assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di
sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri
rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per
escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia
pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di
antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è
proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo
romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere
trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav
venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di
richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite,
fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla
testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici
testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba essere di
preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento
), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle
classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso
(cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che tutte queste
istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano,
possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma si può almeno
affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto
informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma
trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui
si ac centua il carattere quiritario, e come queste acquistino un carattere
prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio
sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il
mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come l'espressione pressochè
militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium; come
diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che
non sono tali; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come
illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui
prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed
indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le
istituzioni del diritto quiritario, e come esso non governi dapprima tutti i
rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso
perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le
consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella
parte di quel ricco materiale giu ridico, che era posseduto dalle genti
patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a
precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla
plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium. Siccome poi esso
venne a consolidarsi fra due classi, che prima erano in condizioni compiuta 387
> mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette
maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del
nexum, del mancipium, della manus iniectio, che eransi prima formati nei
rapporti della classe superiore con quella inferiore. 314. Le cause intanto,
che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius
quiritium, che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della
giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della
costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il
genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la
costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente
patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella, in cui entrano
cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di
proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano
l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano
essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi un primo
effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò
collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto di vista
giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si
frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù
primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel
patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius
quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo
più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle
proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle
istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata
nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il
diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si
cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere
essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res
familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene
ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii
vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione
serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui
intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse
anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il
nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente
militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto
ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii,
continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio
del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini,
dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes
et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni,
e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di
carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio
emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del
proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale
punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo,
che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo
considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei
loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era
soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza
poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio
romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli
elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere
sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa
ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad
una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti
umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni
geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un
proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più
rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in essa i membri
della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del
tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e
attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di
proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu
ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa rebbe il Romano.
È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del
tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di
organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del
medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di questo genere era
impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi
sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono
riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il
quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti
del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà,
ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così
difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo
proposito sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere
sorpresa che alle origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il
numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im
possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi
primitiva del diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione,
e la logica, che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la
chiave per comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura
primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e
conclusione del presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad
interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col
racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso,
credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui
cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la
plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la
legislazione decemvirale. 390 CAPITOLO IV. Il patriziato e la plebe nel periodo
dalla costituzione serviana alle XII Tavole. 316. Le divergenze fra gli autori
nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono, che
tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al
pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un
terreno giuridico e legale, sovra cui potè misurarsi col patriziato, ed una
assemblea, in cui potè impegnare la lotta. Da quel momento perciò potè
manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le
rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto,
tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli
eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere
disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto (1 )?
Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta non ebbe occasione di spiegarsi,
perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per
favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui
introdotta. Egli quindi rinnovo a più riprese il censo; introdusse nuove leggi
relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi
manomessi, comprenden doli anche nel censo; distinse i giudizii pubblici e
privati; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore
impor tanza, e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di
diritto quiritario nello stretto senso della parola, e cerco eziandio di
migliorare la condizione dei creditori (2). Fu in tal le que (1) ARISTOTELES,
Politica, ed. Bekker. Lib. V, pagg. 1301 e 1302. Questo con cetto trovasi
mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49, allorchè scrive: « quo iure
societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium? Iura « paria
esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica ». Di qui egli
sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la
città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto; « itaque cum patres
rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant ». (2 ) Questi
sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui
racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da
altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da
notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices
privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391 modo che mentre egli si cattivo
l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la
memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse
favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo
dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus
patricius (1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di
fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il
Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una
parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di
comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato, nè di riempirne
i seggi, che re stavano vacanti (2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento
dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta forse più appa
rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di
tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi
dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al
dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i
due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad
essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle
istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero
essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti
Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio
Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di
Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata
l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e
per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il
passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che
il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a
vita, il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo,
dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si
quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur ». Bruns,
Fontes, ed. V, pag. 351. (2) Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di
Roma, I, pag. 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a
Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60; Dion., V, 2. 392 annuo (1). Il potere
pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola
differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile,
in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del
popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o
rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus,
chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il
potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero
in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre
agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità
dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro,
tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e
nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere
coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che
erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle
lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della
dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi
dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente
suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per
guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in
certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1)
Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente
mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV,
72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne
fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus
dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo
sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri,
Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le
droit public romain, pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto
sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium,
comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che
aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del
popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i
pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono
ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato,
da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per
parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e
segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum
auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della
costituzione esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori
(questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che
dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per
essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (1). È in questo modo che
si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella
forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi
tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni
delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un'
appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono
essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono
i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè
rientrano nelle città, e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad
populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli
esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una
lotta, che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del
patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe
nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle.
Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea
venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata, la quale essendo pari in
ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione
dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti
lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari
del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente,
a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è
determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe,
obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di
imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5; Herzog, Op. cit., I,
§ 32, pag. 580 e segg., e ciò che si disse in proposito al nn. 201-204, pag.
245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe,
nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore
alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da
Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii
esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima
era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum, che Livio
chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii
della repubblica colla lex Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La
provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una
espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far
parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245, pag. 300 e 301. >>
394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto teme il carcere privato
dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus,
mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza,
accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di
questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo, cosicchè una
sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può
condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una
mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per riuscire ad una
proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo
conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti
ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a tenere unite
la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa
lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha governato la
formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e
ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime desimi quella
consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges
sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria
coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di fermare
altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo
e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere
essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non
appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere
determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei
fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una
sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma
essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora
dall'arbitrio del magistrato, ora (1) Questa distinzione della plebe in due
parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
Rep. Rom., pag. 24. (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la
quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta ».
Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti,
che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano
popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma.
Cic., De domo, 20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., pag. 184. (3 )
V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri
buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla
ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine
dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di
quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella
plebe, che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita,
si contenta di chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia
altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed
orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg
giamento giuridico e politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione
politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed
i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener
dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica
e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare
quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce
al diritto privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo
pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle
lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di
quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si
aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto
contradditorie. Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le
leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice
senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge
tribunizia, e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima (3). Non
vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato
del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due
classi. (1) Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui
ebbe a svol gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al
diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, pag.
83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire
intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di
riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a
proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti
ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag.
292 e seg. (3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, § 3 (Dig. I, 2). Secondo
quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è
facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo
dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo
periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico, dovette
avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero
trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver
tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una
prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la
plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in
qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più
siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non
ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un
jus quiritium, comune alle due classi, che già erasi iniziata colla
costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto
quelle forme di carattere mercantile, che allora si erano introdotte,
ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza,
ossia dell'atto per aes et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con
alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti
tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di
Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca
probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla
formazione del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato
a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è (1) Quanto all'istituzione dei centumviri e
alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo
precedente, nº 312, pag. 384, nota 3. (2) È del tutto incerta anche l'origine
dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi
sarebbe quello, che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices
decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della
plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK,
Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, pag. 139 a 151, sostiene che i
decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di
Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che
giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per
l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz.
Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a
Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della
plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a
risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle
fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle
costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo
il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si
riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia,
lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo
collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato
alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il
proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una
indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un
pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si
comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci
descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della
Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi
ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di
una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile (1). Intanto è naturale,
che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto
per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano
sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso
venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi
iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza
romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa, che in
questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni
patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima
l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato nei rapporti
fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da
ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex
unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto
civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg. colle note relative. Si
occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $
43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e
commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig,
1882, SS 70-76, pag. 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la
giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che
doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per
essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole
a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292,
cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per
iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine
all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col
nome di diritto e di legge (1). Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi
colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il
potere dei consoli, egli chiese che la legge, così pubblica come privata,
dovesse essere codificata, e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si
poteva ad essere rimossa. L'importanza della questione viene ad essere provata
dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima;
poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui
non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di
parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in
questi ultimi tempi (2): mi basterà invece dir qualche cosa intorno al
carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge
decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed
aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere
considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude
il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris
prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il
periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva più nelle
consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum,
poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base
nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag.
87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È
poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono
a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt,
già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero
delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo
regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di
legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il
periodo del ius non aequum, ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe,
e comincia il periodo del ius aequum, ossia la formazione di un diritto eguale
per l'uno e per l'altro ceto, il che gli autori esprimono con dire, che le
leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem
(1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius,
al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo,
in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato; dei quali il primo
continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo
comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei
pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la
legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due
ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe
sistenza nella medesima città (2 ). Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè
comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata, nè
rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma
sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei
provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta, il
che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al
diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio
fori, di cui parla Pomponio, L. 2, § 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri
particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING,
Esprit du droit romain, III, pag. 142 e segg. (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai
decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus,
summis infimisque iura aequasse ». Di quianche l'espres sione, che occorre in
Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi
iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi,
non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera transazione ed accordo fra
i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles,
1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 7 e note
relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III,
31 attribuisce ai tribuni della plebe: « finem tamen certaminum facerent. Si
plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et
ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis
essent, sinerent creari ». Di qui rica vasi anche un argomento per inferire,
che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto
delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più
oltre. 400 blico, e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il
creditore può usare contro il debitore (1). Cid spiega anche in parte la
sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare
nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre
dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica,
lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di
cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la
riverenza, in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano;
la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e
quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto
incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei
proprii dettati, ha finito per essere il punto di partenza di un sistema
intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante
per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi
ravvisare nella legislazione decemvirale, consiste in questo, che siccome le
XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i
documenti dell'antico diritto, esse portano le traccie più evi denti
dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema
del primitivo diritto romano. In esse infatti noi troviamo da una parte
trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie, il che si avverò
sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela
legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i
giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione
decemvirale (3 ). In esse parimente (1) Così, ad esempio, la legge secondo cui
a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad
impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis,
come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra,
fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo
dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic., de leg., 19, 44.
(2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu
ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia
anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi
HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano
eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in
quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del
testamentum, senza che occorra di indicarne il contenuto. (3) Se prestiamo fede
ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione
decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali
sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401
è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire
dalla posizione di fatto in cui si trovava, e procurarsi invece una posizione
di diritto; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta
all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per
acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa
eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte
dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto
l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti
fondamentali sono quelli del nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto
per aes et libram, nei quali tutti il quirite appare con un potere senza
confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge: «
uti lingua nuncupassit ita ius esto » (2 ). 322. Questi varii elementi di
origine diversa, che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle
legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della
fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere
nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo
della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182
e segg., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg.,
cap. IV, § 3, trattando della mancipatio cum fiducia. (2) V. cap. precedente,
relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius
quiritium. (3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano,
1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della
ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII
Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta
delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza,
che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle
istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed
esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti
giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono
svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o
dalla comune origine ariana, o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono
le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti
alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di
poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata
dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando
la propria superiorità in tema di diritto. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 10 a
16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si
riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza
romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto, pag.
179 a 194. 1. CARLE, Le origini del diritto di Roma, 26 402 formarono il
substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi
contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium
propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium
civium romanorum, in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni
del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio, se condo
cui tutto quel diritto, che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale,
mediante la iuris interpretatio, la disputatio fori, e la formazione delle
legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile
(1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si
rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui,
accanto al diritto già formato e consolidato, havvene una parte, che continua
sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium,
iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius
civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale; poi accanto a
questo si esplicò il ius honorarium, elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore;
infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius
ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2 ). Parmi
quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il
periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi
ancora allo stato embrionale, e comincia il vero svolgimento storico del
diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato, già
procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate
separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto pertanto, che può essere
opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a
mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza
romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse
insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza
grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del
diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha
cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia
del tentativo. (1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit.
Leipzig, 1886. (2 ) POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2). LIBRO IV.
Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura
organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione
pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma porti in sè
le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua
parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata, determinata
esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il
primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del
ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione serviana
comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni alquanto
diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le traccie di
un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di
una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere
dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo
libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma,
che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium, e a costituire
così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi
durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire
talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche
oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che anche
nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer
mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini.
Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano
consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga
durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata
iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano
certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza
logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione, e
dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani
possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si
manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano
da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle sue varie
parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di cui
appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso
riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so
ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a
vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto nelle
naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi,
ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso
dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione
giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con
dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale,
guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte
giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui
esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario
infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso
si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che
i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti
politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e
costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica
giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più
vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii
atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si
considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche,
deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero
della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è
l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso
si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione
sotto un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i
vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo
concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo
considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e
in quanto è tale, gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale
capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come
proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche
appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il
corpo, se concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in
qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere.
Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in
quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa,
come il magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei
limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come
testatore, come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene
l'optimum ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto
giuridico non subisce limitazione di sorta. 325. Il quirite poi, in base al
censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di
proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due
concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di
famiglia, esso apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve
essere un capo famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e
di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). (1) V. in proposito il
Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi
da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig.
(50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è preso in
significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone
406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè
medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente
nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte
persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo
capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista
giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente
propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella
propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per
quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone,
al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed
anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno
confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume
pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento
storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli
schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi
intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il
tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente
accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere
del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà
non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che
i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre
giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio;
che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti
domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere
giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di
cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra
l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu
mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia
significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium
il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid
apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto
del mancipium, e delle sue varie significazioni. (1) La causa di questo
contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali
della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap. 1, § 1°, ove si discorre
del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante
il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94, pag. 119. 407 326. Se non che è
ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso
ed efficace la figura del quirite. Io non dubito di rispondere che questa
concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte
fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche
l'effetto di una potente astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro
cesso mentale non diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno.
Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella
figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui
apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al
giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati
dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri
rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo,
in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa
figura tipica del quirite, che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e
proprietario, individuo e capo gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e
sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi
delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali
vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla
costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi
dell'organizzazione gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo
che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le
circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei
ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella
Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e
la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in
quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente
esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e
l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che
nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale,
non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un
capo famiglia, considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone,
che da lui dipendono; cosi l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico,
del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione,
di cui il padre antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè
intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi,
giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo,
e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium
o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di
una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si
fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite
effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere,
cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e
sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in
dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col
medesimo atto. Anche ciò non deve ritenersi come indizio, che per i Romani la
potestà del padre si confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di
una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare
per il crogiuolo del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto
del mio e del tuo. Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu
una grande ventura per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto
a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi
certamente altro concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le
applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi
alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità,
mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le
deduzioni, di cui poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa
rire in certi casi inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad
essere più logica e più coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una
elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato
e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto, per cui quella
proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente
in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo, che poteva
disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il
concetto della proprietà famigliare, che era proprio del patriziato, con quello
della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta
dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a
quella singolare istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si
ritiene della famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria
del padre, per 409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della
famiglia, a lui solo appartiene (1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali
il concetto fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del
censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i
varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto
essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante
concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti
costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona,
quale allora poteva essere concepita, e come tale può essere considerato: – o
in quanto sta, ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella
comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto
egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli
tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi
il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità
giuridica come quirite; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che
gli appartengono ex iure quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti
nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui
dipendono per diritto quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi
vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del
quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta
ad un tempo. Cosi, ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la
parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità
giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti
spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si
esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo
efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi
determinati poteri; e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una
parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus,
non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di
sottomissione giuridica, in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da
essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il
modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove
si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii
elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e
coerente; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la
manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la
dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed
agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue
estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium, da
cuideriva, si può dire, tutto il diritto, che si riferisce alle persone; al
commercium, in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si
riferiscono alle cose; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di
proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto: vocaboli anche
questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo.
Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del
tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente
svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della
giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe
peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio
del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio, perchè già
in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo
famigliare o gentilizio, della manus per indicare il complesso dei suoi poteri,
e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette; come
pure in esso, già si erano preparati i concetti di connubium, di commercium e
di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano
dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano
invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria,
ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei
suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che mentre questi concetti un
tempo avevano una significazione, che era determinata dall'ambiente, in cui si
erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso, si cambiano
in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno
svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione
formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il naturale processo, in base a cui
venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94
e seg., pag. 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si
cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel
suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus,
mancipium. 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini
del ius quiritium, consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di
un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi
formato, e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici
e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè
accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal
fas ed ed avviluppato nel mos (1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad
affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico
del tutto distinto da quello della religione e della mo rale? In qual modo
parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei
giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis
dictantibus », siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe
tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note in proposito le divergenze degli
autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai
difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob
biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo,
sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo, per
trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo, fra cui quelle
istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a
comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione
dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni
economiche e sociali, in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella
comunanza quiritaria, (1) Il carattere eminentemente religioso del diritto
primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, pag. 90
a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si
mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo
dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, pag. 329 e segg.
412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo
di Servio Tullio. 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato
e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la
religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che
sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città
patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere
indicati col nome di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi
mancipiique; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare
vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che
essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente che, se era
possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere
nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere
un carattere esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui
pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di
sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e
dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti
patrizie. Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città
esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la
vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione
gentilizia (2); ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre
coll'accoglimento nel populus di un elemento, a cui non erasi riconosciuto che
il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il
ius quiritium, allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe;
poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa
e patriarcale, che dominava il periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero
di una logica del tutto sua propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel
senso stretto della pa rola, non tutte le istituzioni potevano servire di base
alla comu (1 ) V., quanto alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, pag.
180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160,
pag. 198 e 199, come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto
della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni
delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di
legislazione regia, fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, pag.
303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano
comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento
fra di loro. Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti
quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo
sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano
partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il
patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto
l'interesse della comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que
st'epoca un carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse.
Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un
ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata
sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il
ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa
alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid
è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due
ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i
membri delle gentes patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città,
continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli
uni agli altri (famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il
fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto
for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo
il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il
concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di
questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello
della famiglia, fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre.
- Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di
individui rimasti liberi dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor
tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati
o tutto al più di famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo
di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della
cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il
lib. I, cap. IV, e quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414
Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro
organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da
una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la
proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però
non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e
privata, la quale era designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva
nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni
gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era
a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a
ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium.
Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come
tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia,
ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si
poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di
famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata.
Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva
neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager
compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti
sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o
di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano
stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che
questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla
medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia,
poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi
agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo
dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a
quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al
punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è
evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium, come forma della
proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, pag. 70; ma devo
aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza
esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come
perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium
il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non
poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo
quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la
famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così
avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano
probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto
comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra
essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non
avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo,
come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri;
cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al censo non
più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren
dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale
e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli
altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per
capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di
individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era appunto il solo, che
fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di
censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere come base la
proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche
rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi anche censire i
possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità prendere a base
del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai
patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello di mancipium.
Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune
ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo
di here dium, il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma
potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium, il quale, oltre al
rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il
vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso, e di
esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed
individuale, che veniva ad assu (1) Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio,
che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto
fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione
ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente
gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il
riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e
l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come
proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto
il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base
economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e
assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel
carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela
nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di
comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo,
l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse
difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e
compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus,
mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui
iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del
suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui
indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del
cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri,
che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di
cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in
mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla
moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri
vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine
comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che
costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di
famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il
cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo,
appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du
droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più
comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di
famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo
ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere nell'ager
publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere variabile e non
si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per
un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà, che
costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico
di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche e sociali in cui
trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga
conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul
medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo, quale
patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei
casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi
dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia,
il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager
gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e
della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che,
salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti
facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui
consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi
nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del
tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere
del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo,
dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a
costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe
denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru
menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes
(iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere
indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che
effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad
accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo
concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al riguardo saranno
prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, § 4º, ove si G.
Carle, Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una conseguenza
necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che apparteneva ad
ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le res mancipii,
come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria,
costituissero come una specie di proprietà privilegiata, che doveva ritenersi
appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi
intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di
mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero
significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium, e poi anche
l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del mancipium; finchè la
fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è
quello di mancipare, da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale
venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res
mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid, che non esistessero altri beni,
di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma questi non con tavano nel
determinare la sua posizione di quirite, non entravano a costituire il suo
contributo alla comunanza quiritaria, e come tali non erano dapprima oggetto di
proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola: essi formavano
piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una
categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le
quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio. Può dirsi
pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente
constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o
godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice
traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro
prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva
esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al
punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa del censo si
venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e
l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si
contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res
mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec
mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere
enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche
seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo
Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi
citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad
essere fino ad ora formulata. (1) Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi,
Roma 1888, pag. 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus
fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse
sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef
fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione
privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche
cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager
gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la
quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo
fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità
di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del
pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii
membri non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii
vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito », che indicava l'indivisione del
patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già
riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a
rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet, arbitros tres dato » (2
). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi
conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della
comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono,
che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un
cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio,
egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e
sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e
fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: « Cuius
(Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et
fructu, contentus « isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque
fruitur atque utitur »; il che significava in sostanza, che egli preferiva al
dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il
godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte
però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di
LUCR., III, 969: « vita mancipio nulli datur, omnibus usu », ove mancipium si
contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a
discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere
illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit.,
pag. 92, nota 2, e pag. 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la
ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore
della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si
contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli,
pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie,
abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a
benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel
censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e
sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile,
poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito,
almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che
sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si
riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per
essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o
locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere
collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus
quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di
loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un
debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà
rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi,
quis volet vindex esto »; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di
Gellio, « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum
antiquitas consopita est » (2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse
tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come
individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto
alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le
qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi,
di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato
giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo
delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare,
accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli
stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (1)
Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili
tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi,
citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati,
che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. (2 )
Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo
all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il
quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino
e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva
valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso
abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed
astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso
vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui
l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi
estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui
prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che
comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius.
quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un
tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti
patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta,
che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui
poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i
concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo,
poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che
il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli
nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse
un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire
una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista
quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo;
che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione
giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo,
essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza
cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano
promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie
membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono
ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel
l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti
del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari
della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che
servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia
primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la
parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle
prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della
forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la
teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del
concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui
i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè
sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare
ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il
proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di
caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città,
avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si
trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo,
quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di
pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in
cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo
serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi
un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur
essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne
dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una
sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se
invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto
per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se
infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni
malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo
nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un
presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con
dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui
esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma
ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la
comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per
avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi
e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie
obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato
adsiduus o locuples (1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per
poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris
nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un
figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi
e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre,
che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito
con un'altra persona, cioè col proprio figlio: « duicensus dicebatur cum altero
id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse
facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla
significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso
delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale
della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o
quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed
astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad indicare
il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità
giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato
in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad una specie
di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo.
Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno
della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio, che non si ricavò
esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come
lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato, sebbene in
sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi
vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo, vº duicensus; Bruns, Fontes,
pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog, Gesch. und Syst., I, pag.
997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49
a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto
germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto
formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo
prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi,
che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi
dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più
tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la
propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ).
Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino, che sia
fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si
cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli
elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro
importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis
diminutio, la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno
della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di
stinzione che vi corrisponde; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra
cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni (1) Gaio, Comm.,
I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., pag. 5 a 21, ed altri autori germanici
da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento
storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis
diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio,
che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che
questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come
fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis
diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di
tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza
e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire
la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà
poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire
una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny, Traité de droit romain,
trad. Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis
diminutio; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel
censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi
anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva,
come dice Gajo, una « prioris status permutatio », la quale era anche compresa
nella significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto
un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell'
emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di
successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve
eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la
capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non
quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del
ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al
punto di vista del diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm.,
I, 158: « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero
non potest »; distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi,
ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius
gentium, a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la
finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I,
pag. 299 e 300. 425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono
di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le
Isti tuzioni di Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono
anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è
rappresentata dal ius latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai
quali non si voleva accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai
servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione
degli altri cives, erano invece collocati nella condizione di latini iuniani (1).
Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con
Servio, che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e
si iniziò così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione
progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato
generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde
ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del
filius familias, della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi
ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce
zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli,
essere tenuto come figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere
riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto
dipendeva dal punto di vista giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere
considerata (2 ). (1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di
libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini,
che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra
prova questa, che il concetto pri mitivo è sempre sintetico, mentre le
suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO, Comm., I, 10. (2 ) Ciò è detto
espressamente da ULPIANO, Leg., 195, § 2, dig. (50, 16) ove dice del pater
familias: « recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat; non enim
solam personam eius, sed et ius demonstramus »; il che vuol dire, che nel
qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico.
Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito,
e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno
alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien
droit, pag. 25 e dal Juering, Ésprit de droit romain, IV, p. 295, sono in certo
modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per
modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che
poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del
primitivo ius quiritium. Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere
nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono
un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad
essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la
medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa
si riferiva, e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma
schera giuridica, che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini
realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine
ullo corpore iuris intellectum habent »: donde la co struzione delle persone
giuridiche (1). Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è
proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche
la proprietà quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza
limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle
diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes,
perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di
minuiscono quella perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del
fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine
come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la
medesima sia una costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi
per conto proprio, secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi,
che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne
dipende, potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è
facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di
famiglia, e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo
libero; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare
successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato
generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui
iuris, e viene (1) Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana
nella formazione del concetto di persona, la famosa questione intorno
all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel
senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo
vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica
modellata su quella della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria
dei diritti della persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde
la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono
avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, pag. 234
e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e
della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in
questo stesso capi tolo, § 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427
ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia;
poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce
per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni
uomo libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per
accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato
come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa,
perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il
Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le genti (1). Cid perd non
tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai
Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè
esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei
fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove
applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340.
Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo
la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose,
ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo,
che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo
vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui
ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre
famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora
trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui
ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta,
che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella
sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la
capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa
potenza sulle persone e cose (1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm.
Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, pag. 105 ), ebbe a dire con ragione, che il
più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in
ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi
aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa
piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo
libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro
mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere
designata col vocabolo di manus (1). È questo il motivo, per cui la manus viene
a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto
quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la
proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica
qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la
vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal
proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa
infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato
abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma
talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi
simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis
sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento;
nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si
infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e
comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene
negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che
così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle
persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della
proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La
generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo
caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico
sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, pag. 100, nota 1;
Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 3, nota 4. 429 sentavano delle
differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico,
nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che
essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite
e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica
giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà
addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli
spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se
alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli
potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che
potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341.
Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si
comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già
a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio
Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi
nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella
potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui
sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa.
Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario,
sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che
dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che
il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma
sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre
nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem, dominium,
non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella habere in
mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da manu-captum,
significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla
medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo
mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento.
Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il
primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò sarebbe
come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto di
proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico
passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è
quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu,
mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora
considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del
vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il
potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi,
che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi
separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria
elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso
concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere
un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a
quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti.
Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora
il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e
quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati,
vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai
soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma
per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la
conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia
possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi
facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il
principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può
promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la
distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad
essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le
cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i
concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo
invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano
sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che
allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi
giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per
significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. (1) Di qui credo di
poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui
altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e
niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in
cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e
nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare
da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con
una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu
gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse
specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere
soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius
quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha
già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel
complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di
famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo
compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto
coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di
famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così
esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di
Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen
tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di
cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di quest'astrazione,
che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una
proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel
mancipium, come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in
ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da
comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere
del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das
Privatleben der Römer, pag. 2. Ritengo che debba essere seguita la prima
opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole
serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu,
potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più
antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di
Roma (Bruns, Fontes, pag. 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma
(pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si
considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega
come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili.
Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium
fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto
curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che
doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni
dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105, col quale
tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la
significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il
mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium,
fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le cose
comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato
dimostrato più sopra al nº 331, pag. 414. 432 concetti fin qui presi in esame,
trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa
persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per
cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello
di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome
però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo
quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per
determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo
serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui
cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium,
che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii
e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le
molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res
mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto
primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso,
quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1).
L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal
fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente
nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La
circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra
che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve
invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i
giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del
resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è
concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta
nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto
primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo
dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi
e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che
questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei
particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non
siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui
concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente
ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res
mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe
sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute
suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e
privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della
distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente
negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca
tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento
storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso
di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi quelle, che non
erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi
per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste
considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del
manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe adottata la lezione di
res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi,
che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo,
a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto
del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al
censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto
possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium, non sarà
inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni
ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo
di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di
heredium e di peculium, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali
appariscono in certo modo contrapposti fra di loro. Per verità mentre i
vocaboli di he (1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel
vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel
latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi
sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto
perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della
distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo
mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte mia, siccome mi
propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola, così trovo più
conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo
materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare
a questa distin zione una significazione diversa da quella, che veramente ha.
La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse
alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine
della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa, il che appunto deve
essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di
familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio
concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di
peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di
patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla circolazione ed
al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una
distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si
mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria ragione d'essere
nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo
romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca, in
cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo
proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere
rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche
analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di
Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo
modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico
costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il
capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui
importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso
posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della
medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola
al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for
misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur
compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia
agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei
beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso
regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della
famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto
appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune;
quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a
malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria
figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza
rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi
piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal (1) Già si accenno
a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, pag. 70.
435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un
tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di
ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si
cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde
quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del
patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale
circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti
dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto,
che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il
capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di
essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a
repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di
questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che
possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in
questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con
dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che
costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale,
sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi
sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella
distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed
indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre
corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in
vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le
condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento
di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e
giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato
posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè
a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto
romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche
le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe,
erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così
dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di
due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano
una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale
(tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle
servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto
indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a
costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente
dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è
anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo
proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi
conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si
considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono
successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo
mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva
la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le
altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al
quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè
costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare
l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che
questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli
del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886
col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE
COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma,
stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei
poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i
medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo
man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una
denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del
proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus,
Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una
personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto
in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel
podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del
quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui
spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero
poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437
veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite, cometale:
quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne
prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta,
purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza
quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il
quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una
importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla
loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i
mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo,
in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che
i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1).
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei
sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come
cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle
condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la
quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo, I, 120; II, 14-17;
Ulp., Fragm., XIX, 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op.
cit., pag. 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi », ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager
gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera
proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di
cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano
delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che
queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati
nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione
del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium;
2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale,
quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in
quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes,
quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre
cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia,
le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla
espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei
giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium,
quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè
le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose
tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei
primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della
riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma
piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa
forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e
servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla
comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto,
perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere
trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti
dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire
invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il
loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere
quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi
negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o
nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame,
che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439
tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che
formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò
non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante
di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso
di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come
capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta
l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose,
il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente
nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo
esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino
influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti
questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che
costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi
a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia (1)
Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii
abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il
mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla
soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due
aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii.
Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35, che le teorie diverse, da lui
esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di
spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto
storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di
pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo
pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere
nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi
perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico
importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo
immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato
fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più
ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire
alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di
mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente
anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto
in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane
inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa
sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame
critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni,
delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68, al
BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la
vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna
dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto
essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa
parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa
configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive
fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti altri
concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei
fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la
prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e
cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose,
che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi
come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento
delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel
tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla
comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i
Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i
tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud pur sempre a
costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del
primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e
del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le
cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate
sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il
concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado
l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito
conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti
(1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE
COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge
che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie
conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora
una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per
mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato
alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni;
ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per tal modo anche il
podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo,
che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei
caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito; em
brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo
mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle
res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui
già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico
diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si
riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo
ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto informatore del
primitivo mancipium, e che era necessario per rendere applicabile il concetto
stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio, che i giureconsulti interrogati, se
i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero
negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd
il concetto del mancipium, o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti
riguardare come una pertinenza di quel podere tipico, che costituiva il
mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano
la medesima natura delle rustiche; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute
come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca,
quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3).
Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere
ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali,
probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere
strumento indi (1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione,
l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa,
come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un
carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche
altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad
esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il
Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il
concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di heredium, tornò a
riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona
paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi
digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose, che
costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo l'opinione, che il
Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella
Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93. (2) GAJO, Comm.,
II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc. cit. Che anzi
fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una
maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del
medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre, come quelle
del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo particolarità di
certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto. -.442
spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium
(1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole
relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di servi,
accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa doveva
solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava,
dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res
mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto (cioè
il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside
rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che
è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio
familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si parlerà a suo tempo (3
). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle
res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere
domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena
fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui,
che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia,
ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso
collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii
aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole
conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi
anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il Voigt a ritenere che i
cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man
cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova
introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata; ma ad ogni modo
la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di
res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru
mentumt fundi». Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi
animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso
Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella
esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op. cit., pag. 111, non
potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano
nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È
tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso
di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi
derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio,
ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è
questa, che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias,
costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha
diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo
corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto
però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit.,
pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo
applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè
il mancipium, nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle
cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium.
Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano
solo essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager
romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante
suolo italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col
Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che
fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è
notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia, le quali persone si dicono « alieni iuris, quae in manu,
potestate,mancipio sunt », ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che
anche alle persone si applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più
tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che è l'atto per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta
trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà
giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci
pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori
relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii
e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece
denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si
chiamerebbero tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma
rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad
essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose.
La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri (1) Ho già
notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè
non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio.
(2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., pag. 15. 444 tenga, che
primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè di
una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e quelle
pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di
una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva una
base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo
modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione
serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica
del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata
di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare al cittadino romano, e
trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria, perchè
apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del
mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario
per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, mentre per l'alienazione
delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal
pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le
res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es.
sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere
stata formolata più tardi dai giureconsulti, quando i mede simi già sentivano
il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che
eransi introdotte nel diritto. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla
determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in
varie categorie; ma esso non poteva determinare che indirettamente la
formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti
trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione
era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria
speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di
alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria
negativa dalle res nec mancipii (1). (1) Non parmi tuttavia accoglibile
l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il
650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole,
in cui accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa
l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che
sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res
mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos
sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente
infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si
introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure
quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime
costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono
essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono,
mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della
proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la
distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi
fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra
volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della
proprietà ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già
nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo
di famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non
costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè
il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della
gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi
venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente
chiamavansi mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello
stesso populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la
sola proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di
famiglia, e perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite
sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà
assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè
il dominium ex iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose,
che per il primo formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza,
che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per
indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da
Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla
distinzione di cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt,
vedi Squitti, op. cit., pag. 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., pag. 115 e seg.
146 dominio quiritario all'espressione meam esse: « aio hanc rem iure quiritium
». Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo
del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi
venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa
proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni
proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il
quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe
servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e
le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in
qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi
indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo
induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non
conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: « aut enim ex iure
quiritium unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus » (1). È
certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al
difuori della proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi
altra forma di proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata
quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e
le istituzioni, che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare
comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma
solo quella parte di esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e
che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far
parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono
ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che
quella parte di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza
quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non
governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano
fra loro nelle (1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p.
606. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu
solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti,
che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando
nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e
popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or
bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio
nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e
quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non comprende dapprima
tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo
quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di quiriti.
Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium,
che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si
determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva
proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium, e
fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto
per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento, in cui
i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium ». Questa
infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di
vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario.
Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium, aut
non intellegebatur dominus »: il che non vuol già dire, che non si potesse
avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme
di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista
quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della
selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla
comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa
determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man
cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma
più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia
troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del
dominium ex iure quiritium. Questo infatti (1) Questo carattere particolare del
ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo
quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe
entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato
sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto
alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti
i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2°
quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man
cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto
alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii,
ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è
evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium
costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle
cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste
condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto
della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà
in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure
quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto
romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che
trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle
forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel
primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il
medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato
dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda
distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad
essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a
ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato
sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione
giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput,
di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al
concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua
configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita
sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed (1) Non è qui il caso di parlare
nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano
anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm.,
II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio,
come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli
altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come
assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a
cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo
svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana
loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput;
cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati
dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del
quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium
allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il
dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita
zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi
eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso
vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che
anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini,
cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual
concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione
fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da
essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio
quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione,
sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere
oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la
distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1). Vi
ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel
concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure
quiritium. Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di
famiglia, anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando
poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano
) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad
un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà
quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza
romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï
e quella del ius italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo
invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella «
Nouvelle revue historique de droit français et étranger », annate 1881 e 1882).
G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere
capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica
appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero
ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella
proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual
trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le
quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo
intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte
quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi
diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola
mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono
col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano
proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica
giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali,
originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi
intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che
già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che
gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua
proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium:
immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e
le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne,
anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine,
deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre,
che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era
poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo
essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII
Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi
nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle
origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che
sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec
mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più
antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano,
il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle
forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu
dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata
dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra
richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria
denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare
origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il
ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo,
pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà,
di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra
essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare
adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che
erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del
dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei
rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A
questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse)
(2); noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima
integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto
più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione
giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di
cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero
dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica
sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi
ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla
circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe
dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole,
affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens,
richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era
venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo
interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia
dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del
Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: « Qui sibi heredium nequitia sua
disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor
interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto ». (1) Che il vocabolo di
proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di
contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima,
può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la
proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1, Dig. (41, 2
). 452 proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che non aveva
ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò,
che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di una
vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e
comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il concetto
infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul
mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una
persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona
possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta
sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione
materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una
proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata; esso
anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare
ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne
penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione
di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res
facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ),
la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo
però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle
possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire
meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal
pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più
unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non
supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche
l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo
possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione
materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ); quindi, per la protezione
di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente
formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol tanto
interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale si
tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. (1) Vedi, quanto
alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, pag.
190 e segg. (2) V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad. Staedtler,
sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25. 453 dicta, con cui si
protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato
spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero
diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione
giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante
cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può
trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi,
che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio
debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava
sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico ad un
tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono
mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è
dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere
circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo
della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che
alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime
(quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le
incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res
facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del
diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune
con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto
ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto
l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui
era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia
dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto
romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del
possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e
perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così
alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto
dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della
materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione
decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal
diritto pretorio. (2 ) Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal
Savigny, op. cit., § 5, pag. 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di
Ulp., 12, § 1, Dig. (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione», ed
altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. (43, 17). Cfr. JHERING, Fondement des interdits
possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, pag. 42. - 151 prendere le mosse
dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia
tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria
configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo
cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager
publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere
di un vero A proprio diritto (1). Per quello poi, che si riferisce alla
questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica
accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di
proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di
esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il
diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius », in quanto che ogni fatto,
che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i
germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e
servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione
del Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12
a, pag. 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal
Pochta, Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla
concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti
nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso
interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione
giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la
cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato
appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad
essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare
il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso
dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6,
p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. (2 ) Senza voler qui
prendere in esame le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi
limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa
in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è
quella del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui
abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del
Bruns, Die Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con
cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico, XV,
pag. 3 e segg. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su
ciò, che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi
senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa.
Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base
al concetto, enunciato nella L. 2, Dig. (43, 17): qualiscumque possessor, hoc
ipso quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet ». Parmi che,
assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè
il principio: « ex facto oritur ius », si 455 358. Di fronte a questo
svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la
risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della
proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei
romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere
adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della
dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà
quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo
di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi
di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si
cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la
medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione
giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare
quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici,
e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad
isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui
si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni
elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa
recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che
potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro
analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno
sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro
genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è
questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa
elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della
privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi
furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto
notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della
protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello
di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al
possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto
romano, Messina 1886, pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio »; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr.
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., pag. 529 e segg., ove trovasi citata
in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. (1) SUMNER-MAINE, L'ancien
droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri
riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il
concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel
nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo
quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto
logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a
tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo
la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e
patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei
Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu
ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una
proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti
essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare
comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi
dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà
privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a
pag. 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito
della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa
discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta
all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un
accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa
le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini
le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150
anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a
ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà
collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della
famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso
i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori
stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal
trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni
primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i
vicanalia (SCHUPFER, pag. 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica
dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così
anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto
individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le
genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama
l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo
vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello
di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò
dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio
avito. SCHUPFER, Op. cit., pag. 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro
popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo
della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo
della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo
specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la
proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di
mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen,
Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei
consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto
non cito ». Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e
talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione
(SCHUPFER, pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la
vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo
stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager
gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i
popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche
essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge
eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il
linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi
anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso
i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o
da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra,
che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è
indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano
eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli
di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche
l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro
prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la
sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium ». Infine questa proprietà
si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la
manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138
e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle
leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze,
che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il
popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa
una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in
commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici
invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà
romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà
mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio,
e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè
lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger
manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare
com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita,
o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata
modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze
così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà
inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a
serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor
oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams,
Principii del diritto di proprietà reale, trad. Ca negallo, Firenze, 1873 e il
POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884. - 458 CAPITOLO III. Il ius quiritium
ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho cercato di
ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le
trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi
elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una con
figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata, si
presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più
difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura
cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate
sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii,
in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica.
Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero
dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di
notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo in
movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica
alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col
formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la
supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del
primitivo diritto, sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero
venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno,
e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere
considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata
sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo
studio invece delle vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium,
mi hanno profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che
potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di
una specie di elaborazione e selezione potente, (1) Tale sarebbe l'idea, forse
alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo:
Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia
scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici
preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica
giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica
del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi
fondamentali dello status del quirite furono fissate, pressochè
contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo
svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che si riferisce al
negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la
quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato
e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme
nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con
cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium, risulta da una
quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più
importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio
giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto
particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi,
quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio, i quali
tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel
periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è certo,
che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a
misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma compare invece
con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare
entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento
la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale
sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire alle
applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius
quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati,
presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il
nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che
hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha
dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il
matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et
libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello
del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa
parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua
naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti
fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius
quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi
subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui
questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione
del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse
la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del
connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite,
pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si
aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica
del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi
naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella
del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la
circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni
poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite
sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i
diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius
quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si
vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività
giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello
svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità
ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium,
del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce
alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato,
sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce
alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che
riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che
costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi
giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati,
finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium
e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave di
quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si
riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius
quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo
gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo (3). Vuolsi
perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei
rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei
rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto
spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium;
dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il
sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della comunanza
quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura
mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma
ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè (1) Intendo qui
parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: « Omne autem ius, quo
utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones ». Quanto alle
obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa
distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota 1. (2) È
sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di
connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui
rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium.
Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 244 e.
274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3
) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, pag. 123 a 138. 402 ciascuno di essi
venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani
diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius
proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo
gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i
membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece
nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure
quiritium. Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae
facultas », ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal
ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in base al medesimo
derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla moglie, fino a che
il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano;
della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti
consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome
anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della
successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta
attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che
stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel
primitivo ius quiritium, come una dipendenza del connubium, considerato come un
ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium. Il
medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci
scambii « emendi vendendique invicem potestas »; ma allorchè invece venne ad
essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà
speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium, esso venne a
cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia nel diritto di addivenire
a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati
adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel
primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano
sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum, che è il diritto di
potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto
quiritario; 2° il facere mancipium, che è il diritto di acquistare e
trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente appunto nel mancipium,
colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il facere
testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità,
mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il
vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii
negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad
essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per
compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram,
e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare,
che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo,
il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine
il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi,
e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi
effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure
l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto,
che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle
proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte
a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio: « uti
lingua nuncupassit », o quello analogo: « uti legassit, ita ius esto ». 364. Da
ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio.
Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume,
a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto
e violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i
contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo
nimento (2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita
bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia,
ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come
capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire
arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve
invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò
di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a cam
(1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium,
che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 13, in
nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine
nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel
periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI,
§ 3, pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni
davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario.
Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da
un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere
considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo
tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle
formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto
quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello spirito
formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie
solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè anche queste
solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i
capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo,
e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità, da cui erano circondati
(1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero
consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium. Anche qui ci
mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres iuris conditores, secondo la
testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro (2);
ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così
noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto, che ebbe ad essere
comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium,
e quindi viene ad esser naturale, che l'elaborazione di un ius quiritium,
comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al
commercium. Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal
fatto, che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da
Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la
cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1) Tralascio qui
ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè
ebbi già ad occuparmene al n ° 94, pag. 117 e segg. e sopratutto nella nota 1a
a pag. 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal
Sumner-Maine e dal Jhering. (2) Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle
difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice
espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta
nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt,
obtinendae atque augendae potentiae suae caussa, pervulgari artem suam
noluerunt ». 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto
nella circostanza, che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si
presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius
commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa mentum; cosicchè in questa
parte viene ad essere evidente, che le leggi delle XII Tavole non fecero che
confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in
questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per
modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di
questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la forma dell'atto commerciale
per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere
applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio,
nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per aes et libram già
doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii
fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di
poter conchiudere, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu
la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo
motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente
modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da
Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in acquirendo, aut in
conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel
ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa
storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve
essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium, relativa al
commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo
centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più
tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si
tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si
trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il
diritto del marito, del padre, del padrone furono model (1) Cid non può lasciar
dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole
come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al
testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni
testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII
Tavole. Fragm., XI, 14. (2) Ulp., L. 41, Dig. (1-4 ). G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si
tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di
tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un
figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo
ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti
di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius
quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni
posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che
nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente
alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi,
quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo
appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare
con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar
parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius
qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto
colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei
patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di
quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di
accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza
dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata
sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di
fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu,
mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti
di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il
patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza
venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette
essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la
confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe,
venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria
per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del
l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune
ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente
sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la
tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli
eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in
questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a
penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e
la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte
dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito
conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del
diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium,
deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già,
che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma,
secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste
riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della
medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi
si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma
fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi
delle tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro
tecnica giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica,
che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi
essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio
sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo
svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che
si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla
varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse
poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non
ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero
state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius
proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi
giureconsulti, sembra (1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente
enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi
diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che l'espressione
ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale sopratutto si
adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum.
La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere
comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius
quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile,
ossia di un ius proprium civium romanorum. 168 contraddire alla opinione oggidi
molto seguita, secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte
le altre parti del diritto quiritario (1). Credo quindi opportuno di avvertire,
che io pure ammetto, che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che
ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio, il concetto che prima venne a
svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde
nell'elaborazione del ius quiritium. Questo infatti è già una costruzione
organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come
individualità giuridica integra e perfetta, e che in base al medesimo cominciò
dapprima dal modellare la pro prietà, a lui spettante; poscia gli attribui il
connubio; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi
diritti di proprietà e famiglia: donde la conseguenza, che il ius quiritium,
essendo già un'opera riflessa, accolse talvolta più tardi istituzioni, che
nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo
complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una
grandissima importanza, in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine
stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium,
si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo
di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà
ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli, di cui il primo si occuperà
del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones.
(1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre
parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del
diritto privato, Torino, 1885, pag. 105 e segg. (2 ) Ho cercato altrove di
spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista
attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, pag. 40. (3 ) Per una più larga
discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto
al cap. VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469
CAPITOLO IV. Il ius commercii nel diritto quiritario. $ 1. Il commercium e
l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia
modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica, integra
e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius
commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e
sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto
altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza
delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario.
Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad
abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere
mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà
della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo
debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del
debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo
patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che
i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium,
sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver
limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun
ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e quanto al
testamento, colle parole: « uti pater familias super familia tute lave suae
rei, legassit, ita ius esto (1) ». E questa la parte, in cui « uti (1) Mentre
nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la
disposizione: « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt
invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione
legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto », che nella ricostruzione
del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la
prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza
intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. - 470 domina sovrana la
nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei
trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte
lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto
primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le
espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e
simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere
apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento (1 ). L'unità poi,
che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad
essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto
quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti
questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno
all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba
essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che
questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus,
intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ).
Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto,
conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex, come significò la
clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le
condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o
comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, pag. 240. Quanto agli
altri significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi
sopra nº 228, pag. 278. (2) Tra gli autori recenti, che cercarono di
ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in
quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale
mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il
Voigt, XII Tafeln, II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La
mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe alla
conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di
un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi
in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi
mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel
testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio,
non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si
riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram.
Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del
populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus
richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una
sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho
cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag. 256 e segg., discorrendo
dei calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del
negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché
la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono
essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid
può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius
quiritium, in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la
conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a
fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit)
mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione
solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio
familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova
vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo
concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi
giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era
un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con
esso, poichè era definito: « omne quod geritur per aes et libram ». Lo stesso è
a dirsi del facere mancipium, in quanto che una parte essenziale della
mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel
l'atto per aes et libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa
del testamento per aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu
che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi
passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla
significazione primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei
giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già
distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum deriva un
obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà.
Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram, il quale
sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo
dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor; mentre sotto
un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola, ma è già un
vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito
e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente
disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere
(1). (1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi
giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi
primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium,
compievasi per aes et libram, col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra
passo, e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero
differenziando il nexum, il mancipium, il testamentum; i quali col tempo
procedettero ciascuno per la propria via, ed informati ad un proprio concetto
finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti
dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella
dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel
medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera
disposizione delle proprie cose per causa di morte, la quale non potè mai
confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius
quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo
tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium, nella sua sintesi
potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione con corrispettivo,
tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel
trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento, mediante cui
l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il mancipium e il
testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes
et libram. « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in
quo sint mancipia ». Varro, De ling. lat., 7, 5, § 105 (AUSCHKE, Iurispr.
antiiustin., pag. 6 ); « Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et
libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti
factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a
questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora
« omne quod geritur per aes et libram », sonvi poi altri passi, che già
attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio: «
Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter
quae mancipio dentur », la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De
ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: « hoc verius esse ipsum verbum
ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit,
inde nexum dictum » (Bruns, Fontes, pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe
pur confermata da Festo, vº Nexum: « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia,
quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei
passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di
traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5, 28: «
Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in
iure cessio ». Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 197, nota 7,
e II, 482 e segg. (1) La successione legittima non prende le mosse dal
commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $ 5. -
473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad
essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che, per
ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il
primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius
quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero
facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano oc
corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni vollero
attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e pratica ad
un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e
dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che
non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed
esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare
sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo
comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per
de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con
traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto
origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè
non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a credere,
che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto
nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in cui era
veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo come una
espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che
deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi
fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in
contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un
atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò
poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli scambii,
che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo
l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes et
libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le
contrattazioni, che potessero interve (1) V. ZELLER, La philosophie des Grecs,
trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, pag. 401. (2 )
Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto
negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud
essere posta in dubbio (1). Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue
fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma
il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei
trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti
compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri
tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari
dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad
avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato
di falso (2). Dal momento, che erasi venuto formando per la comunanza dei
quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di ius quiritium,
era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire
nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti
gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla
testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo
la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria,
donde l'intervento nel medesimo dei classici testes, corrispondano o non i
medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un
pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva anche essere inca
ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano
alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi
aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo modo di
richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto
(3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni (1) Tra gli
autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram
costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al
com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano,
$ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, pag. 82. (2 ) Cod. civ. it., art. 1317. (3)
Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil
mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed
Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram,
quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per
aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all'
antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg. 475
diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº
dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di
pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di
un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva
perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso
di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con
preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i
contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi «
dicis gratia, propter veteris iuris imitationem »; la seconda parte invece
serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le
applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai
negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento
della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può
essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non potrà forse mai
essere determinato con certezza, anche per il motivo che il medesimo può essere
stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia,
che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in
cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e
quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della
costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò
a delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel
mancipium; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una
forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni
tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad
esempio, noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una
trasformazione nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più
an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di (1)
L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è
già accennato dalla disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet,
mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e appare poi
dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram,
descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. -
476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la
designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa
guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è
probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per
simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico
corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli
dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii
dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che
fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di
classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel
testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni
dell'atto per aes et libram (1). Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale
in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui si era di
conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei
quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella formazione di
quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani,
quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il
carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi
essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto, che l'atto per
aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non
potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo è certo, che
quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già (1) Festo, vº «
Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur ». La
questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti
delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu
trattata di recente dal Longo, La mancipatio, pag. 83 e segg., il quale
sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza
delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni non avevano
nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente
essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm., II, 25,
questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere
presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che
essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi
dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della
costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui si attuavano le
muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti
dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII Tavole era stabilito:
« adsiduo adsiduus vindex esto ». Tale sembra pur essere l'opinione del
MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non improbabile, che i
non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere
cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo di molteplici
applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio,
come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca, in cui
essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi
che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram
sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario,
è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla
mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram (2).
Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto
per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano,
che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a
quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii
per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba
essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto
nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima
contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo
assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere
vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere
mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla
proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la
plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia
reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A
ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà
relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come
strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad
imprestito; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i
giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma
riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di
carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di
imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di
applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad
esempio, il matrimonio per coemptionem. (2) Tale sembra, ad esempio, essere
l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., pag. (3 ) GAJO, Comm.,
II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58 e segg. 478 dell'atto per aes et libram, non
solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il
trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente
giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio ». Si comprende
pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere
mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne
quod geritur per aes et libram », mentre non consta che essi facciano mai
rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche
aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le
stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo: « cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »: argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto
cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi
nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram ». La
distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio
Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et
libram fit », ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in
quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad
essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum, « quod obligatur per libram,
neque suum fit». Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe
dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi
di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che
compievasi « per aes et libram, necti dicebatur », mentre più tardi fini per
significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di
significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i
vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una
significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più
circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge
un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto
quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto,
quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum,
ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal
fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e
che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e
si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine
intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima
del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et
libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373.
L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che
contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel (1) Non parmi
pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui
fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il
nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe
poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato
il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la
consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente
nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano
fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato
e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il
mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo
più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 250, dove, premesso che il con cetto del
diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg. 480 l'epoca, in cui la plebe,
priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non
poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In
virtù del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere
sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del
creditore patrizio (1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria,
il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra
la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi
nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò
sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette
essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza
cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens
e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci
giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale,
essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la
formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella
nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo
(3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero
concorrere due parti, cioè: (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima
letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig,
1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains,
Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a
163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono
ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine
ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta,
autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt
sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto
speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima
opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse
prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della
stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il
nexum, probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da
Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 67. (3 )
La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe
la seguente: « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te «
solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque
481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani,
il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa
bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti.
Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal
nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di
damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas
sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava
contro se stesso, al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se
il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo
fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus
iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I
dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla
natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano
da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella
legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della
obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi,
descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del
loro & expendo secundum legem publicam ». Essa è per noi molto preziosa: 1°
perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio
per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui
applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere
ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento
per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere
risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che
l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e
come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col
nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati,
o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la
congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la
forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni,
allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. (1) La nuncupatio del nexum
secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma
egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e
damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non
avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che
quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così
essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi
liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più
testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482
creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni,
avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere
talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la
persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare
a quel carattere del primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo,
allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e
del mancipium, lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via,
informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse
coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum, nella sua
significazione primitiva, designasse in genere il vincolo giuridico, che
intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni
del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò
la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due con cetti cominciarono ad
avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione
del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale,
e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle
proprie necessità; quello cioè di alienare il proprio mancipium, o quello di
vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo
vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi
coll'altro. Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza
romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal
nexum, non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con
tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che
erano sottentrate all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di
dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo
cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel
senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà
del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio
costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce queste
parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per
causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris
primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo,
velut tabes, pervenisse ad corpus ». È tuttavia evidente, che quinon si dice
punto, che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni del
debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio
avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il
trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu
seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva
obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima
un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad
un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del
nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in
qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di
Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi
tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si
tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il
debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi
soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È
certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella,
che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra
i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della
soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè
anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al
rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar
sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due
ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la
sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto
privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della
condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il
quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo
impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum.
Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si
rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER,
Istituz., trad. Caporali, pag. 225 e segg. Cfr. eziandio l' Esmein,
L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue
histo rique », 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la
stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per
aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2)
La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel
capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus
iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la
istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale
porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute,
a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore,
ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano
fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e
neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore,
anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il
diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il
debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò
quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di
sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio,
che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli
effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di
questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad
essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel
costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del
primitivo ius quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una
trasformazione analoga a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di
proprietà, quanto al concetto del mancipium. Al modo stesso che (1) Le
espressioni di Livio, VIII, 28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad
« populum, ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in
compedibus < aut in nervo teneretur; poecuniae creditae bona debitoris, non
corpus obnoxium « esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum, ne necterentur
». Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata
abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella
contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di
Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona, mentre quella contro
i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa
cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu ancora considerata come un
beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese
nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il
creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo
l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di
autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma produsse solo gli effetti, che
sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice
stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò
gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la
stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica forma
della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del
dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva dell'obbligazione
quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma
norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò
il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di
solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza
dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè
materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio
). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al mancipium un concetto più
largo del dominium ex iure quiritium, si vennero accogliendo nuovi modi di
acquistare e trasmettere questo dominio; cosi, allorchè al concetto del nexum
sottentrò quello dell'obligatio, si vennero accogliendo nel ius proprium civium
romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva
efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio
questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del
verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et
libram, mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la
consegna immediata della cosa (tuum de meo fit ): e della nuncupatio, mediante
cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste
due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare
libertà di movimento, e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re
contrahitur, e quella che con trahitur verbis, a cui venne più tardi ad
aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia
l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum, che era il modo
primitivo di obbligarsi ex iure quiritium, sottentrarono varii modi di obbli
garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum, quali sono la mutui
datio, la sponsio o stipulatio, e la acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad
essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo
nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e
letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio.
Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica
dapprima alla credita pecunia, e poi si estende a tutte le cose quae numero,
pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste
nella numeratio pecuniae, oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi
esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli
altri contratti reali del comodato, del deposito, del pegno (1). Tuttavia il
modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum,
è sopratutto la sponsio o stipulatio. Questa, sotto un certo aspetto,
corrisponde a quella nuncupatio, che già preesisteva nel nexum, salvo che essa,
liberata di quella forma rigida della damnatio, che era propria del nexum,
venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui
l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una
risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e
pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita
delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa
essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di
essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non
credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con
cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ).
Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è
nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai
giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum
fit ». Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista, ritengo invece
assai probabile questa etimologia, tenuto conto di ciò, che nelle formole
primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum, e che
l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum
fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili,
quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di
una vera elaborazione, la quale può benissimo avere adattata la parola al
concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di
testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum, e di altre
analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post
factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid, che è nella
mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della
parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare
alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi
dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio
li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid abbiamo anche una
delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè
universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine
della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la
parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel
contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio, la
ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più
artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come
quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura
stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla
stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla
volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo
favore, di interrogare il promettente: « centum dare spondes? », e tocca a
colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non
possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia
nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è
l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico
potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la
significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è
accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere
primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa
non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata
probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del
passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra
il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini,
riservarono sempre per sè la espressione primitiva: « spondes? spon deo », la
quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva
accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni
modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital.
Rechtsgeschichte, pag. 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag.
228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un
modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla
stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli
germanici (SCHUPPER, L'allodio, pag. 47); ma non posso in verità persuadermi,
che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun
dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve
essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze,
e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius
quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in
disuso il nexum. (1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa
costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di
un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula, e
il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE,
L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole,
come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale,
che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico
per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione
principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per
propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una
convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio
è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta
di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi
ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i
giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei
contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e
pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai
dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più
tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di
Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti
letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto
civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per
dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla
propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel
costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale,
ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la
figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e
avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il
conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro
doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che
era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe
ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede.
Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma,
il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al
nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a
mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata
con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine
probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi
(1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere
indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad
entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a
comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto
stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non
ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la
giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col
nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato
a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae
ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una
suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu
costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce
all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il
Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap.
XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella «
Enciclopedia giuridica italiana », vol. I, pag. 175 a 180, vº acceptilatio. (2)
Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della
societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal
Serafini, anno 1887. 490 tratti; accanto ai contratti nominati dovette porre
quelli non no minati; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro
ducono azione, ma una semplice eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che
avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel
diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel
ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già
formata e consoli data, e un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl
modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il
concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium
aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello
svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel
con cetto, a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che
viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in
eo consistit, ut aliquod corpus, nostrum, aut « servitutem, nostram faciat, sed
ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum »
(1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni
e quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di
quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere
nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei
modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la
proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro
istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. –
La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire
ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la
forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che
prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma
primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della
proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, (1) Paolo, Leg. 3, Dig.
(44, 7). (2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i
recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition,
Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, pag. 131 a 149; il Voigt, XIl
Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come
due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes
et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti
comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per
aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella
nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto
per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione
diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di
condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in
imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci
conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens,
che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con
tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure
quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio
poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens
corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è
certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con
cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la
verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella
mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra
essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di
mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione
facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi
abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre
significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite;
quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le
antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere
dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il
trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di
qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia ».
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo
capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le
formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima
in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd
eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il
fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua
proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la
conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per
gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen
nato da Gaio, secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1).
382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata
coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la
mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui
si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale
mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in
quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria,
quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel
censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium,
che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii
contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare
probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una
stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto,
che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono
sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto
proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi
chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio, Comm., I,
119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa
acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota
10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi
scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in
certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano
oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e
il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende
probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi
citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134, nota 12. (2 ) Cfr.,
quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi
Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio
era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive
quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü ». Ciò però non
impedì, che, trattan 57 e segg. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto
alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non
erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere
man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in
vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo,
poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel
mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione
giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la
traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle
cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non
formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di
cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della
legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del
mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano
essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto
più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res
mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle
cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può
estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di
qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo
esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd
introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione
del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale,
essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si
ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano
ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche
la mancipatio. V. quanto si è detto a pag. 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da
ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era
propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est
alienatio rerum nec mancipii »; nei quali passi è evidente, che la man cipatio
e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium.
Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme
del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè
scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure
civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio
e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e
naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio,
Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus
auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di
una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria
della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i
principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà
quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei
cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio,
la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento
del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad
essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in
questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi
applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di
proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di
fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre
della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non
impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una
elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia
durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia
in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla
stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium,
negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che
producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò
nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio: «
qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e diedero così
libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di
una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e
condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che
l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e
che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e
giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col
vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur
alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla
con patto di (1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in
proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la
propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per
parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio
tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man
cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio,
che il mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e
condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte
integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di
vere leggi (1). 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere
impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae,
od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva
essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere
forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una
larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla
legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col
rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione
della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo (1) Si
può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà
grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi
autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi
moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. (2) Quanto alla mancipatio
cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, pag. 166 a 187, ove sono raccolte le
formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio
fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra
cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. (3) Le ragioni, per cui le
origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già
esposte al n ° 149, pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli,
ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette
essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una
creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice
della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887,
pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe
ragunaticcia, in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di
diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente
come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano
stabiliti, non avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum
fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe
già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi
del diritto di proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un
popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto
all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi
derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo
alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche
a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che
anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della
mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà
assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: « hunc ego hominem fidei
fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio »; colla qual formola già si
lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà
quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di
qualche incarico di fiducia (1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi
o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico
nella manci patio familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di
testamento, mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae
emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo,
in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un
creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a
titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non
avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo
la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico,
mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della
proprietà; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa,
doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei
quali essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio
fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal
diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma (1) Cfr. il
MUIRHEAD, op. cit., pag. 140 e seg. e il Voigt, op. cit., II, pag. 172. (2) È
notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal
Bruns, Fontes, pag. 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche
antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca.
Della fiducia egli scrive: « fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae
pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur ». (3) Quanto alle
svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg. 497
siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii,
cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla
legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la
proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi
costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e
l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di
acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta
nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al
pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è
in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. (1); l'usucapio invece
nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas.
Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o
dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che
forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla.
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;,
nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia
l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono
scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che
vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio
vocatur ». A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di
Ulp., Fragm., XIX, 10 « In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur;
addicit Praetor ». G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in
certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da
una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era
ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a
riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale
'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di
arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus
auctoritas », che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN
collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di
CICERONE, Top., 4: « usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium
annuus est usus ». Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe
collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: « usus, auctoritas
biennium, cetera rum rerum annuus esto ». Di qui molte discussioni fra gli
studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al
qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si
riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che
incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire,
che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno,
secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata
dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, pag. 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe
seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus
dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di
luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli
antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che
l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il
contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas », e che quindi la
significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come
titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un
biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus,
analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare
l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale
espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro
Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et
auctoritatem fundi iubet esse biennium »; ma è facile il vedere, che la dizione
qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur
sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti
dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top.,
loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris
auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: « Plurima «
rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, «
id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio «
biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam ususauctoritas
fundi « biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem
biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag. 400). Che se altrove la legge
dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto », gli è perchè ivi parlasi
tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva
specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo
significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due
istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento
del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice
Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla
mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi
contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori
presso il magistrato (1). Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po
tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si
poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo
tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che
mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come
una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del
diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da
una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la
semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò
la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e
che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il
possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto
all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero
più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre
solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della
durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la
ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium,
ceterarum rerum annus esto »; la quale concorda anche di più colle regole
grammaticali. (1) Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure
cessio per le res mancipii: « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus
utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non
est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere
». (2) GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a
differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi,
non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto
il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di
usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento
all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che
trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare
l'in certezza dei dominii: « ne rerum dominia diutius in incerto essent ». 388.
Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium,
facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve
spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non
si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere
giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo
per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD,
op. cit., pag. 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei « Mélanges
d'histoire du droit », Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus
auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in
una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà
di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche
all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che
debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione (1).
Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe
cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla
donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore
(sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza
venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che
dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto,
fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto
inerente al titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di
trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua
natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii,
ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non
poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co
mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti, che è quella della
prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a
quello della usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due
istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla
praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). (1) Questo carattere
dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., pag. 177, e può
inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm., XIX, 8: « Usucapio « est
dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii »; nella
quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che compare
invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata
dal Bruns, Fontes, pag. 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si
parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta,
che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello
della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, pag. 452, nota 1. A
parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e
più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione
speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha
evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo
nella linea agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192
e II, 80, e da ULP., Fragm., XI, 27. (3) È naturale infatti, che l'usucapione
in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in una società
invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un
tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano
sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano
sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: « item
provincialia praedia usucapionem non recipiunt ». (5 ) Mainz, Cours de droit
romain, I, SS 111 e 112, pag. 745 e segg. 502 389. Intanto,mentre accade questo
svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium,
accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di
proprietà, che prende il nome di proprietà in bonis. Questa dapprima non è che
una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per
opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero
dualismo nel concetto di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: «
postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium
dominus, alius in bonis habere (1) ». Il primo nucleo di questa nuova forma di
proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime
erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere
tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della
proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per
l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una
stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium,
mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno
ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento.
È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in
bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il
fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse
stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto
di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà,
che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a
quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere
scrivendo: « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie
nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam civili, nam
mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium
romanorum » (3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi
della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della
prescrizione accanto all'usucapione, (1) Gaio, Comm., II, 40. (2) Gaio, II, 88
e UlP., Fragm., XIX, 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione
di discorrere deimodi natu rali di acquisto. (4) Quanto all'actio in rem
pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle
Revuehistorique », 1885, pag. 481-526, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che
le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si
consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che
si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese
nel mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle
proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che,
per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo
allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo
avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la
proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab
irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate
discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1).
390. Infine anche qui deve essere notato, che tutta questa teoria del
trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di
obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la giurisprudenza romana continua ad
affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis,
transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali
servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire
un'obbligazione da una persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver
discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento
della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt;
nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo,
quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus
est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia
rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3
) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono
dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima
elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo,
che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si
confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre
materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse
trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice
contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare
da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel
concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del
manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti
ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche
cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche
fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente.
Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram.
$ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391.
Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente
quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la
storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel
passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi
anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla
fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli
inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari
dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti
coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei
comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti
patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser
virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della
tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio
patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e
che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la
mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che
adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla
mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti
italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in
guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione
della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra
istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo,
che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi
dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere
compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano
alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero
ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il
medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un
carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano
essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che
anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu
conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo
periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ).
Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle
curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il
medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di
disporre a capriccio delle proprie sostanze; (1) Ho già toccato dell'attinenza
strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo
gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg. Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE,
Ancien droit, pag. 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram
nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che
questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto
nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma
dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880,
pag. 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886,
pag. 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del
testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di
PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris publici est. Cfr. quanto
ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg. 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la
famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata del patrimonio,
come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito »; la quale ha
tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe,
non avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere
un simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo,
quando rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre
delle proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia,
affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui
indicato; modo questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle
condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci
indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di
testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et
libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro
varsi di fronte due forme di testamento; un testamento cioè, di origine
patrizia, fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati
delle curie, coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed
il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di
origine plebea, che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che
penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una
applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo
di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe
cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far
parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento, comune ai due
ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire
in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano
(2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento, cioè: di un
testamento, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati
due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm., II,
107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una
applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso,
che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag.
184 e seg. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd. (2 ) GAIO, II, 101 a 108. 507
testamento in procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato
alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme
di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo,
che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio
faciebant, alterum in praelium exituri » (1); ma intanto non dice, se i comizii
calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle
centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle
due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i
medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la
sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì
al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a
ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva
un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di
cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa
cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi
un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei
comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii
delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie,
che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti:
mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni
qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite,
come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed
è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe
a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza, secondo la (1) GAIO, II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27, 1
e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive: « eorum alia esse « curiata, alia
centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari; «
centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i
testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati
curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta
dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508
formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram: « et vos,
quirites, testimonium mihi perhibitote ». Cid è confermato eziandio dalla
considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due
volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè
impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto
essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che
erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva,
che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella
forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle
curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo
questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in
quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol
tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia,
che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era
in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era
già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac
compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a
celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima
l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il
quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta.
Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice
Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono
così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius
quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento
di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo
testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae
cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes
et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op.
cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il
quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare
separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius
quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere
una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di
porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in
cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di
Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e
della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto,
come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al
libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze
del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva
mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e
l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor;
nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo
secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un
depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne «
secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza, che il familiae
emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne
dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente: « familia
pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta » (2). (1)
Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag. 565,
verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole
della formola: « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam
», mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter
fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di
cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum
legem publicam », compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui
si dice: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem
publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la
significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea
interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et
libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha
un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. (2) GAIO,
Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal
MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la
quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal
Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una
imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta
soltanto « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ». La sostanza
invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella
quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il
quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i
legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette
essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in
quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai
testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie,
dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà: « haec
ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor:
itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che
già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto
ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti
patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a
perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii:
quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite
un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla
circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi
come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli
antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va
rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram (2 ).
Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva (1) Gaio, loc. cit. e
Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due
parti, di cui componesi il testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9:
« In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae
mancipatio et nuncupatio testamenti »; e dopo viene senz'altro a parlare della
nuncupatio, come di quella, che veramente importa. (2 ) Cic., De Orat., I, 57,
§ 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il
testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511.
l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al
mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram viene ad essere
considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del
quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante
un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et
libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento
dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore
era sottoposta all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et
libram, la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta
a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento,
che anche il testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium,
deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione
giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza
confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per
atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col
Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio
immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più,
che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi
pervennero del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio
una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ).
calatis comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato
a quello in calatis comitiis, ma dice invece: « accessit deinde tertium genus
testamenti ». (1) Cic., De leg., II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art.
cit., pag. 555, il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi
anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag.
553, nota 2. (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia
coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento
per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse negli inizii
una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii
eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento per aes et
libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium,
e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto
per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una
mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una
vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una
quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla
continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge
una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia
mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un
atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero atto fra vivi.
512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto
quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo,
non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza che mai si
perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di
Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario
sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae
venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di
Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto,
che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che dipendono
dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo (1). Cosi pure il
testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen
tum testamenti»; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda
giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato
un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola
del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento
posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino
agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo
provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di
erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili.
Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel
tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di
legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal
testatore (2 ). Infine anche quel principio, secondo cui la volontà del
testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima
infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della
diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., II, 105 a
107 e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai
completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È
nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi
modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una
vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del
legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso
testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui
consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse
una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone
il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia
testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi
sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche
qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche
questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento
pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però
intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al
libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che
dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo.
Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia
giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le
quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al
testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme
anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere
costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla
presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette
testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e
infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle
costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per
imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che
interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica
tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa
costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi,
che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della
legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso
diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso
Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il
diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere
riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del
testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De
la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin.,
Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 33 - 514
399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti
osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: 1 ° Il testamento
in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di
uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il
testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato
colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non
solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca
diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto
singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una
forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il
testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al
testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma
di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che
all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini
per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare
agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui
tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore
(1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono
più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già
preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare
in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius
quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in
cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la
successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità
potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso
di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima,
stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia
sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano,
lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per
l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto
poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza,
che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom
missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine
intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte
intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione
non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano
presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii
nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. $
1. - Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori,
che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto
diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di
essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: « pater familias in
domu do minium habet »; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap
pariscono comproprietarii del patrimonio paterno: « vivo quoque parente,
quodammodo condomini existimantur ». Mentre infine, in base al diritto, il
padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui
dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento
profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile
costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia
quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già
accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e
la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere
concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana.
Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I,
&$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo
II, SS 36 e 37, e specialmente da pag. 190 a 214; il Gide, Étude sur la
condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il
Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, pag. 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., pag.
24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e
specialmente ai SS 21 e 22, pag. 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano
della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il
diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti
patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è provato
da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin
dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui diede origine
l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed anche dal
disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto
di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi
una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in questa
parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a
fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale
delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà del padre, e
stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare
la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa, e
conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre dall'altra eravi la
famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e
di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della
affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della
prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1). (1) Quanto
all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º,
pag. 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina 188
e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più
coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie;
quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi
transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza
alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento
della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione
delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe
primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di
origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella
propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento
domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia
patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres
iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti
nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città
quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la
isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale
serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica
della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue
parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo
gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della
famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a
perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero
in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione
del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere
capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu
trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel
diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose,
ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro
gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra,
cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma
tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum
manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di
figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del
proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia
nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa
imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma
doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel
potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico,
appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente,
che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra,
quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403.
È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia
quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente
patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante
l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad
essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva
ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni
cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale
denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in
certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo
serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in
certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del
tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro,
suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, pag. 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come
un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui
la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano
imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2).
Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una
costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri
non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la medesima è un
rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città, e svolto
logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che
un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia
quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad
isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna
famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato
nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2)
Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla
plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin
d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo
della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi
di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così
all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose
e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria
del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana,
non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che
il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che il iudicium
de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la
dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della morale,
punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il
diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia,
al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che
egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di
questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione
gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con
nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria
sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei
rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi,
che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo
stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius
con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae
nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia,
organizzata ex iure quiritium, con tutte le conseguenze, che potevano derivarne
(1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una
famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che
siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai
due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e
la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano
relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma bensì
quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il concetto del
quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il
ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum.
Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü, i
giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio, II, 40),
trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I,
55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 – quiritium, al
pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una famiglia
privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum, in quanto
essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra: quali sono la
manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli,
l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il
fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto,
che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium, ha
eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a
costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il
qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: «
prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una domus, communia
omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia quiritaria, pur essendo
il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica, fini in sostanza per
modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci,
l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e
coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere
studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare,
cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti
giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei rapporti fra
il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo nel suo
disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà occasione alla
successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405.
Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare,
pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini
una organizzazione domestica, che era propria soltanto di una minoranza, e che
per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale;
cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che
altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel
diritto quiritario, e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume.
Questo conflitto, che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è
sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu (1) Cic., De
officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la
cognazione; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione
e tutela testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la
bonorum possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento
storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e
graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa
parte, alla parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga
costantemente un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di
temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie. § 2. – Le iustae
nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella
parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al
risultato, che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico,
dovette incominciare da un concetto tipico, che è quello del matrimonio cum
manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più
umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius
quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti
quiritarii, che al matrimonio cum manu (1). Che anzi vi sono forti indizii per
supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario,
stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella
accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava
fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1)
Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto:
La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei « Mélanges
d'histoire du droit », Paris 1886, pag. 6. Una prova poi di quest'antico
diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi
materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu
'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top. 3, il
quale scrive: « genus est enim wor; eius duae formae: una matrumfamilias, earum
quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo uxores habentur ». La
cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: « matremfamilias
appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat », e da Nonio
MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, pag. 390. Sopratutto è degno di
nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola
dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito
KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag. 71, e il Brini, Op. cit.,
pag. 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac
cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al matri monio per
confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver
richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di
matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi
stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col
consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo (1). Tutto
ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della città, presero
senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo
gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una
certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del
pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi
gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in
cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la
tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al
l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il
quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de'
coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani
iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito, sembra pure essere probabile,
che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al
divortium, ma soltanto al repudium, il quale doveva essere accompagnato dalla
cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che
erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo
concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel
disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le
traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che
questa forma di matrimonio, in (1) Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268,
pag. 329 e seg. (2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo,
22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che
il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle
attestazioni di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta,
che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo
del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op.
cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO,
Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, pag. 12 a 15. 524 cui
apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti
patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette
avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e
consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta
mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere
giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni,
di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico
Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura,
che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema,
che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era
tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe
stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva
la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del
marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione
della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso,
allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una
lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i
singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla
legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si
studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto
della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo
stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si
trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu,
accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla
legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione
di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di
Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che
un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto
sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di
seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, pag. 708,
assegnata al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua
nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito ». - 525
sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando
invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la
necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della
manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si
ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria
del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di
acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera
la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e
neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del
marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un
espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla
moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ).
(1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto
romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi.
Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe
preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe
venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der
römischen Konigszeit, 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio:
mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und
manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la
questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di
contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non
ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia
comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme
penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del
primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di
cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio,
adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria
elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie
forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa
accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii;
poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni
della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la
coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la
prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op. cit.,
pag. 8 e 9. (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti
autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la
compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel
diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio,
pag. 50 e segg. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto
per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto
quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario,
componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle
solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del
marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma
la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una reciproca
interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo
riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava lo sposo se
volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la
coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una
compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un altro invece
colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli
sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di
famiglia (invicem se coemebant) (1). È poi probabile, che, come il vocabolo di
coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi anche le parole
solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione di quelle, che
erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che
accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi,
riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu,
lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere giuridico
al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita
della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora
ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata.
Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio in
fine al volume, nota B, pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per
dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non
è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103
(Bruns, pag.402), allorchè dice: « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem
faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $
24, 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di
Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la
moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo
farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram
« is emit mulierem, cuius in manum convenit »; ma la cosa si comprende, quando
si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto
per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui
stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero
uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere
rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso
contrario BRINI, Op. cit., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso,
che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la
confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo dimostrano il suo
carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che rimonta ad
un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che
anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad
essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo
dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori,
sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che
i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii
religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato.
Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in
certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di
patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo,
a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali
negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio (1). Per contro può
affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non
interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè
essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe,
in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò
spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso
effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e
come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano
cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata
come il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei
quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i
connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette
essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo
già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio,
fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente
che « confarreatio solis pontificibus conveniebat ». Cfr. Esmein, Op. cit., pag.
7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose,
quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il
medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una
posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma
dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini;
cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere quella funzione
stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria.
Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto
svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che
sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel
singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente
per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione
di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per
effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che
nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad
essere probabile, che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu
abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe
consentaneo col carattere religioso della confarreatio. Nella coemptio infatti
la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere
risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la
remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi
per contrarre il matrimonio cum manu, pud anche spiegare le sorti (1) GAIO, I,
114 a 116. (2) GAIO, I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per
confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di
spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio
cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem, il quale
doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº
diffarreatio; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato
a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a
quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi
probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a
farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a
svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al
rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il
divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo
divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per
coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di
Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver
detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge
quanto alla moglie: « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere
potest, atque si ei nun quam nupta fuisset ». 529 diyerse, che ciascuno di essi
ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano. Noi sappiamo
infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a
scomparire, poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim
ipsa desuetudine obliteratum est» (1). Esso infatti era stato un espediente per
dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e
quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo,
allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto
per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della
coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu
quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con
servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di
carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come
di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e
il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano
contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito,
che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a
difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità
di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le
matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per
confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto
quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ). (1) Gaio, I, 111. (2 ) GAIO, I, 36;
Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio
Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, pag. 303 e seg.,
dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già
cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio
speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza
della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio
all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il
Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine
manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me
parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento
giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza
necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco
cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio
infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente
all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la
famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata
invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva
essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe,
poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico
del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur
miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or.
ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella
necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle
donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa
maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo
provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure
quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non
producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non
si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si
limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex
iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui
lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della
manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e
fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica
comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei
quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento
del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione
degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio
funebre di Turia, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto ». Roma, 1880,
pag. 17. (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag.
703. -- - -- - 531 - di fronte a quello cum manu, presenta una singolare
analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex
iure quiritium. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco
a poco modellando su quella ex iure quiritium, così anche il matrimonio sine
manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo
che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che
ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio
cum manu. Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80
lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della
deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la
casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a
considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio
sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo
dimostrano la maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui
parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè
era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla
sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli
importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che
possono essere cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che
era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a
deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir
), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da
quella del marito; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile,
poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1)
Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il
diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente
fantastica, quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto
dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec
mancipium, e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in
bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e
quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio; tra la mancipatio cum
fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e infine la correlazione anche più
singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus,
applicato all'acquisto della manus sulla moglie. 532 - dere per il divorzio, nè
la diffarreatio, nè la remancipatio, ma poté bastare il reciproco consenso del
marito e della moglie; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento
nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare
infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu,
questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu; poichè un simile
concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente,
che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la
dote, anche col matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà
del marito, e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi
eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il
matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della
corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine
manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale
più elevato dello stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della
famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la
comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero
accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine
manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine
dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETTI,
Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo
proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il
padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in
questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo
dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae
dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 486. dote si intende invece l'istituto
già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a
sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità
distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine
manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito
dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del
proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la
resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il
quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il
divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2
) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage
romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » corruppe il costume, ma fu piuttosto il
costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater
familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma
primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto
organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo,
sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede
sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali
debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità
giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra sonvi le
persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi, che in
antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino
indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium.
Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo colle persone
e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte
alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone
componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a
lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere
considerato come un indizio, che i romani confondessero il potere sulle persone
col potere sulle cose; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione
giuridica della famiglia, si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e
una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva
essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere
spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure
ad essere probabile, che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo,
il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale
designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi
nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato
incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo
di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia,
è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il
vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche
sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse
così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo
cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di
manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per
indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie, quello invece di
po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e
venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo
mancipium, esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il
complesso delle cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad
indicare il complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere
potevano essere date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in
condizione di servitù; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica
delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco
habentur.” Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono
differenziati gli uni dagli altri, ciascuno potè obbedire al proprio concetto
ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso. Di
questi poteri, quello, che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto
colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito
sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva
disadatta nella città, ove non era più temperata dal patriarcale costume, e
convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si
aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano
prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori,
sarà facile il comprendere come la conventio in manu, dopo essere stata la
regola, sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in
disuso. Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità
sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella
personalità del capo di famiglia, ma (1) Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo
di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli;
quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando
esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg.,
comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel
modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo
di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le
persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa
mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa
indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1). 415.
Così invece non accadde della patria potestas. Questa non ha più bisogno di
essere volontariamente accettata, come la manus, ma deve invece essere
necessariamente subita, e sotto un certo aspetto può anche apparire come una
conseguenza del fatto della nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì
alla abo lizione della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che
la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue
fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria
ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista
giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud
vendere ed anche uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano
sottratti; può dargli a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non
voglia risarcire. È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione
giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli
si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere,
a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di
aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche
qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere
illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano, pur
serbando integro il concetto della patria potestà, venne attribuendo forma e
carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano
soltanto nel costume. Fu in questa guisa, che il diritto romano, senza derogare
alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità
giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un
proprio status nel seno della famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti,
sia quanto alla durata, che quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi
troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la
vita, venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una
singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di
vendere il proprio figlio, viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella
parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn.
411 e 412, pag. 530 e segg. (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per
l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è
notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una
libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere
considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista
giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui
esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui
ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo
si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge
alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere
nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel
piccolo patrimonio, di cui il (1) Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la
ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per
l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più
forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A
parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione
richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della
letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si
pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto ». Per tal modo una
disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare
della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in
un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la
lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote,
potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le
singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga
conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della
primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un
appoggio in Dionisio, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto
costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag. 424, nota
4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73,
presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento,
pag. 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione
al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e
gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali
(peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli
acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi
altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie
specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia
graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al
padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la
patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an
tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se
ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere
particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente,
quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in
qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si
viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice
adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una
persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le
origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione
della famiglia patriarcale, nella quale (1) L'antichità del peculium è
dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è
facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio
capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli
che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma
la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica.
Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr.
MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz.
Cogliolo, pag. 187, nota 4; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169.
Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del
SumnER MAINE, L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento
importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra
esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era
certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia
ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa
quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta
coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la
conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli
atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis
comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al
mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria
legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla
patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio
potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto
per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po
testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella
finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418.
Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di
origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia,
che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio
culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie
di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti,
che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa
all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario,
comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo
di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche
l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune
a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono
sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un
con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1)
Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11, § 2,
Dig. (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas
in familiam et domum alienam transfert ». Quanto alle origini dell'adrogatio
nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, pag. 31. Le differenze poi fra
l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19.
539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si
limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano
privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo,
anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste
istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia,
per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare
i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419.
Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche
qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio, e che
essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le
genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non riguardarono mai la servitù
come istitu zione loro propria, ma comeuna istituzione del diritto delle genti
(2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della
famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire
un gruppo, che potesse bastare a se stesso. È quindi naturale, che quando il
capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria, esso
comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza, ma anche
coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium, e costituirono
così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi
diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale
potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio, senza
derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di
una eredità passiva, chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità
di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri
dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il
potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia,
anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità
di vita, che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del
diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit.
II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas
sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte
integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt,
XII Tafeln, II, pag. 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP.,
Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione
frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la
legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono
circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi,
sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità,
con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In
ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a
subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente
parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non
nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere
fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre
dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose,
cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare
di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto
dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai
servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della
pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla
manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello
stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il
servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona,
e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia,
viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie
dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò
essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia.
Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una
persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite,
il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha
cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1)
Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia
considerato come una cosa, non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si
ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui
dominio. È questo il motivo, per cui il potere sullo schiavo chiamavasi
potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se
fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che
l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto
colle esigenze del pubblico interesse, e allora, mentre da una parte si cercd
di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si
cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in
parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai
servi (1). Fu in questa guisa, che al concetto di un'unica libertà i
giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana,
sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei
dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: « pessima itaque, conchiude
Gaio, eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut
senatus consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem
romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa
mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos,
quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin
iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines,
sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la
rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante
al capo di famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in (1) È
notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al
cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre
alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del
patrono contro il testamento del liberto. Ciò viene attestato da Gaio, III, 40,
41, il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune
in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la
legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 )
Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio, I, 141. 542 questa parte,
trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo
isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al
diritto; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica, ad
un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel
costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una
conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi
tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo
ius quiritium. 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma
presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra
unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle
proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di
comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà.
Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono
respingerne la eredità (heredes sui et necessarii); che anzi, senza bisogno di
una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla
legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano
comproprietarie: « sui quidem heredes, dice Gaio, ideo appellantur, quia
domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur »
(1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare,
dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana
nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di
comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli
heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente
della famiglia romana, (1) GAIO, II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono
questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e
segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che
tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa
comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en
droit romain, Paris, 1880, pag. 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et
l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere
potest, nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 457 e segg. 513 quando
si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia
patriarcale, trasportata nella città, ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in
cui erasi formata. La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due
caratteri, pressochè opposti fra di loro; quello cioè di apparire da una parte
unificata nella persona del padre, il che la rendeva unita e compatta per la
lotta, che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata; e quello
di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche,
il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a
costituirla. In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone: « una domus,
communia omnia ». Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo
gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il
primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio; che il
padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel
iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens; che il
padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento, nè
scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia,
che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è, che tutti questi
temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire,
quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal
gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così
investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere
considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad
uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale,
che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo,
risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che
appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del
gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i
membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo
caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti
nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere
mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius
apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas
fuisse, quasi olim hi domini (1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri
della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4, § 3º,
sopratutto pag. 70 e segg. 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini
existimantur. Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur, sed
magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1). Fu in questa guisa,
che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un
organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori
della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto
domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè
si può ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i
giureconsulti, sia un concetto penetrato più tardi nella classica
giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre
nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è
certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come pure è a questo,
che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale, che gli heredes
sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti
già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca della legislazione decem
virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione
dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e
che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui
non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della
successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in
mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur, cui suus heres nec
escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles
familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con
fondamento inol trare la congettura, che in occasione della legislazione
decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium (1)
PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac
colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe
l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201. (3 ) Queste due disposizioni
delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la
3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag.
387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di
diritto. Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la
morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva
considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e
li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545
romanorum, e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di
successione ab intestato, che doveva già esistere nel loro costume durante il
periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle
XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione
legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza, che fu perfino
introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale
non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva
le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu
nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi
penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche
il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una
sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia; come lo
dimostra la circostanza, che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non
tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di
perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia, e di farlo ritornare alla
gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1). Per tal modo, in base alla
legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di
eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i
figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile,
tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di
famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea
maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti,
quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro, i
quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però
comune la discendenza da un medesimo (1) Che la successione e la tutela
legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero
fatto altro, che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese
affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5. Di qui ilMuirhead avrebbe
perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli
agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già
dimostrato più sopra, pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere
accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione
gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma
intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso,
che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di
successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti
patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come
tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi
degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono
chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti
alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo
gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli
emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia,
tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di
vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes
sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante
l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per
rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli
rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio
doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per
impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus
proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato
come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al
gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà
di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da
altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione,
che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per
stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei
limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei
loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati,
e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità, questa viene ad essere
devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 ) Gaio, III, 1 a 8; Ulp.,
Fragm., XXIV, 1 a 3. (2) GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1.
L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto,
che ho svolto nel lib. I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati
sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il
padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile.
Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e
costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione
della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si agnatus proximus
nec escit, gentiles familiam habento »; il che fa ritenere, che i gentili non
fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente
collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla
gente considerata nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere
in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle
singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di
mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma
l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla
di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso (1).
Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per
legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio
compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del
liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla
legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente
del patrono: « si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia
ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum. Quando poi
venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti
coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non
fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli
chiama i consanguinei, « id est fratres et sorores ex eodem patre »; poscia,
quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis
sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae, (1) Gaio, III, 17; UlP., Fragm.,
XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una
causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed
i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli oratori delle
parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure ». Sembra
tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di
questo genere. (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig. (50, 16). Nella ricostruzione del
Voigt, I, pag. 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che
dice lo stesso Voigt, II, pag. 392 e 393, quanto alla successione del patrono
al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie
di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre
nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare
impunemente il suo patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII
Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del
patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è
assai degno di nota, che, unitamente al sistema della successione legittima,
dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela
legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti (1): ma la
prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della
tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato
con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi
ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano
il vantaggio della successione: « ubi emolu mentum successionis, ibi onus
tutelae »; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la
tutela, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti
dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a
conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla
gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im
puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati
ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la
tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai
pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col
consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della
tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del
patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere
lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di
preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare
integro il patrimonio famigliare (2). i 426. Chi tuttavia riguardi al
posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che
tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non
trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza
ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si
atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al
modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di (1) Ulp., Fragm., XI, 3.
(2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari,
il Pa DELLETTI, Op. cit., pag. 188 e le note relative. 549 famiglia si
ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A
misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano
dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di
successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che
dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non
parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates;
alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto
alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai
tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui
i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano
sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti
giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia,
per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un
periodo anteriore di organizzazione sociale (1). In ogni caso poi una prova di
questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può
scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la
tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due
maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria
nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima
e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in
una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal
giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i
giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le
donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli,
più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne
erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che
siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab
intestato, così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non
potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a
costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo
stesso della loro successione legittima, quello cioè di conservare il
patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual concetto è per certo uno di
quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale
conflitto; è confermato dalla massima: nemo paganus partim testatus, partim
intestatus decedere potest; ed è provato eziandio da quella specie di
ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza testamento: ripugnanza, che si
spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza
testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza; ma è tanto più
ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la varietà grandissima di
opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia,
che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo
studio delle origini del ius quiritium. Questo studio infatti ci pone in grado
di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una
origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium.
Mentre la successione e la tutela legittima, le quali soltanto colle XII Tavole
entrarono a far parte del diritto comune, sono istitu zioni di origine
prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser (1) L'origine storica della
massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta,
malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori, che la
esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di storia e
di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, pag. 449 a 474;
il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico »,
vol. IV ). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., pag. 4, nota 10.
accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la
medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un
culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto,
così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per
legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva:
poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere
ragione, per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e
testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe
alla conseguenza, che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto
romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do
vevano comprendere l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire,
che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e
testamentarii; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri.
Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che
anche il testamento dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la
lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è
evidente, che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis
comitiis, non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha
più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover
cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale,
a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla
famiglia agnatizia ed alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius
quiritium, non è più il testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione
dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si
ispira al prin cipo: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo
spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già
campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente
manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere
(1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria, nella
struttura organica del ius quiritium, muovono da un con cetto fondamentale
compiutamente diverso. Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse
dal ius connubii, ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica
della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto
quiritario, fu un'ap plicazione del principio: « qui nexum faciet mancipiumque,
uti lingua nuncupassit, ita ius esto »; come tale, esso prese le mosse dal ius
commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle
proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due
istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale
diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme;
poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che gli istituti giuridici,
una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè
sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto
compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la significazione della
celebre regola del giureconsulto Paolo: « ius nostrum non patitur eundem in
paganis et testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter
se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere
diverso di queste due successioni vedi il cap. III, § 4, in cui si discorre
della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo alla successione legittima.
(2) Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato,
ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat., I, 57, § 245; ma è poi
dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto
come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà
del testatore dominava sovrana. (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il
PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 201, questa massima sarebbe invece una
conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla
legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due
eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel
diritto, il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di
loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano
partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium,
avesse pui consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le quali
muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro. Questo
quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle
nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del
testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare
brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel
diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione
testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente
seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette
precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento,
anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in
quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche
agli altri casi (1). Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme
al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il
testamento non dovette essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il
suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che
essa non sia con forme all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius
quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel
ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima
vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una
prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che
Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle
XII Tavole, mentre queste invece avrebbero confermata la successione
testamentaria; il che indica appunto, che il testamento era già comune ai due
ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc
cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla
legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca la suc cessione
legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER
MAINE, L'ancien droit, pag. 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente
propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano
certo diverse dalle semplici costumanze della plebe (1). Appare poi fino
all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione
testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in
quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento
(si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento
storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il
ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il frutto di
un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne
occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali
giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono
talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva
essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo
la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius
quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo
ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a quella potente
individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente
trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a
formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel
primitivo ius quiritium. (1 ) ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig.
(50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel
diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di
giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit
valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50,
17); « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur
» (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia
primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex
iure quiritium. 429. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le
traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera
nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui
sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato
e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica
dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere
difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica
inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca
dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in
questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del
tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla
ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi
sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli
antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura
delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei
pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche
qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare
le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi
collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions,
trail. Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris
1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi,
Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl.
Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle
legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto
il vol. I, pag. 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d.
Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana,
Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag. 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit
romain, tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., pag. 181 a 235;
Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK,
Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un
segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di
aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli
anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis
actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica
ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci
pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio,
che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema
delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita
alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al
lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla
progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la
introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio,
discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si
limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con
gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla
condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono
tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor
tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu
senz'alcun dubbio quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in
questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure,
per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche
di proce dura, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai
casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono,
secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui
ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi
sappiamo in secondo luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente
informato al concetto, secondo cui la procedura per ogni controversia, che
percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di
cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg. 2, § 6, Dig. (1, 2 ); Gaio,
IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare
dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a discorrere della legis
actio per condictionem. (3) Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque
etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice
singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere
rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso
si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla
fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece
giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla
configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al
magistrato (1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca
tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano
quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione
del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi
processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del
giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria
noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali
venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella
seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che
è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in
pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris
capio (2). (1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la
distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza
necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi
dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto
quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per
essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che
ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una
questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la
controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad
un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa
distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla
separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le
questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli
arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem
publicam ». (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura
di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare
come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris
capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è
comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in
effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e
poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo
più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la
questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della
procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba
ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla
medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu
ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo
tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili,
si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium,
che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che
dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie,
certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis
actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto
all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che
era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una
procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di
tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a
Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver
ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre
avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione
delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita
alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi
in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero
rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata
introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag. 19 e 20. (1) È questa
la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi
della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in
proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva
procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che
egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla
teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla
conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole
moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le
origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine
Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si
hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono
punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue
parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di
Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che
possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo
cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in
base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che
in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano
assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo
fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius quiritium,
relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai
veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium, e
che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi, quando le
altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice incorporazione di
consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di
una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė
può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera
degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i
custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo
lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio
i creatori della tecnica giuridica, e i primi maestri alla cui scuola si forma
rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero.
Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad
un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana,
la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora
l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro
di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto
privato romano e al concetto del quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo
in somma, che i veteres iuris conditores, trascegliendo fra le forme di
matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti
italiche, riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure
quiritium, e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che
costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi
essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi
formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro
dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi
derata come propria della comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali
certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto
senz'altro, quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di
procedure, analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma
li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in
cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo,
in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa
guisa, che si riuscì ad una procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo
agricolo e militare ad un tempo, quale era il popolo romano, porta perd le
traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene
cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della
civile giustizia (1). 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già
nella stessa organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della
gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus,
già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di
famiglia, ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire
alla risoluzione di tali con (1) Questa spiegazione intorno all'origine delle
legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di
antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa
infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna
Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo
cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle
XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono
conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di
distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti,
cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una
vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello
stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere
accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP.,
Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria (1). Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi
di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non
accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale,
anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con
cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione.
Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica,
e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3).
L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata
violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed
i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei
patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei.
Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma
poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio
anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo
dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal
padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ).
Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo
anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius
quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di
esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire
un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa
imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa
essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come
azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia
subita una condanna, o confessato il proprio debito. (1) Quanto alla primitiva
formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa
tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è
detto nel lib. I, cap. V, § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib. I,
nº 104, pag. 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions,
Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., pag. 209 e seg. (3 ) V., quanto alle
prime origini della manus iniectio, lib. I, nº 106, pag. 137. Cfr. CAPUANO,
Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della
procedura civile romana, pag. 116; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di
qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della
manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con
tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone,
fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un
combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto;
fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della
controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se
siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo
scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è
uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la
somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era
forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a
benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta
suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che
procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza
dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè
senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si
preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere
contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di
trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore
stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del
creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare
un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio
sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel
combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata
controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra
essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria
ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve
esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in (1) Tutti
questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla
descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima
presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto
all'actio sacramento relativa agli immobili. (2 ) Gaio, Comm., IV, 21 a 26. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del
vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale
ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve
subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve
essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può
stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi
naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per
cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere
simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di
nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di
procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam
visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto
quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può
ravvisarsi una parte, che compievasi « dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte
veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva
accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere
compiutamente diverso; cosi anche nella procedura primitiva, miri essa ad
istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente
distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi
anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre
uniforme ed uguale, la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del
passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra
la disinvoltura, con cui si accettano gli espedienti, che mirano a
semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi
sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se trattisi di immobile; dal
portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa; dal
simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum
consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus iniectio
invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del
corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in
certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè incomprensibile, e
potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli
altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè
scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di
dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta, inerente alle
legis actiones, e di affermare che: « actionum ge nera quaedam maiorum
consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci
da un popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del
fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un
impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio
delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui
mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi
eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle
concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta,
certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie
fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era
in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si
riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle
tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima
i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo
magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le
controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a
qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis
actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura
quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di
agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio (1) Co.,
Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla
proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata
una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat.,
I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo
studio dell'antico, allorchè scrive: « Nam si quem aliena studia delectant,
plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII Tabulis
antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. (2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della
nuncupatio nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto,
nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole
atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia
pronunziata; umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio
creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto
però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo
delle altre, che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare
lo svolgimento storico, così della procedura contenziosa, che della procedura
esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel
primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale
della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo
però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis
postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che
alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem.
Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi
esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine
progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella,
intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi
sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere
adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra
speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam.
Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la
distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non
impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni
adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam. Cosi
pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il
convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo
dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa non
conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare
quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e quale
perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta
(utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in
essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite, corre
anche il rischio di perdere la scom messa (1). Noi sappiamo poi, quanto alle
controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva
un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente
quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed anche per
quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales),
quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi
(quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis
(2 ). Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio
sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del
primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e
reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la litis contestatio. Si
comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come un ricordo dei varii
stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia, fra i capi di
famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città,
sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario. Ciò spiega
eziandio come essa, mentre è certamente la più antica, sia stata anche la più
duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud
pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium, cioè
davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il
tribunale essenzial mente quiritario, sia per il modo, in cui era composto, sia
per le controversie, che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che
riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo, e quindi anche nello
Stato (3). (1) GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro Caecina, 33, ove dice, che in una
causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso, che il suo
sacramentum era iustum. Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere,
iniustis sacramentis petere. (2) La necessità della legis actio sacramento, per
una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium, è dimostrata dal
fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones,
fu ancora permesso di agire in questa guisa: a domini infecti nomine, et si
centumvirale iudicium futurum sit ». È poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci
attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto
che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione
di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae
liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33. (3) La competenza del
centumvirale iudicium, per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece
ben poca cosa quello, che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis
postulationem. Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo,
mentre da Valerio Probo si ricavo la formola, che dovette adoperarsi per
ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo
uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di
controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di
apprezzamento, e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia,
piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri (1).
Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze,
che la contraddistinguono dall'actio sacramento. Essa in fatti già suppone la
persona dell'attore distinta da quella del conve nuto; suppone una
amministrazione della giustizia già organizzata, in cuiil magistrato procede
alla designazione del giudice; conduce alla risoluzione diretta della
controversia; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il
pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione,
non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale
collegiale, come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un
iudicium privatum, nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro,
secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le
parti (2 ). Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca
rattere di indeterminatezza delle controversie, che ne formavano oggetto, le
quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è
attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I
casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri, sono quelli
relativi al regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato
»; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae);
all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae
arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano,
$ 7, pag. 25; ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de Iustinien,
Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale
iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum, tuttavia
occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono contrapposti al privatus
iudex, come in Cic., De or., I, 38, 39; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115,
ove scrive: « alia apud centumviros, alia apud iudicem privatum in iisdem
quaestionibus ratio ». Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4. 567
- — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al
iudicium directum, asperum, simplex, che era istituito col l'actio sacramento,
essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui
cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che
erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual
pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione
attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio,
colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un
giudice od un arbitro, è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno
svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina
di un iudex, sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi
invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am
metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere
occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava
ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone (1). 437. Questi caratteri presi
insieme mi condurrebbero alla con clusione, che la iudicis postulatio non
presenti più quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e
non possa perciò essere considerata come una procedura di carattere patriarcale,
trasportata nella città. Essa invece dovette già formarsi sotto l'in fluenza
della vita cittadina, e dovette probabilmente essere una con seguenza della
stessa formazione del ius quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle
leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai
tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che
corrispondeva al concetto del quirite, e che primo era riuscito a consolidarsi
mediante il ricono scimento di una lex publica: cosi ne consegui
necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i
cittadini, si divi (1) Cic., Pro Mur., 12, osserva, scherzando, che i giuristi
non si erano ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di
arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la
distinzione fra iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la
lis e il iurgium, è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai
definitivamente risolte. Cfr. KELLER, Op. cit., § 17, pag. 59. Quanto alla
differenza fra iudicium strictum e arbitrium, mi rimetto ad una mil vecchia
dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano » Torino 1873, pag.
28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le
controversie di carattere eminentemente quiritario, relative al caput, alla
manus, al mancipium, all'atto per aes et libram, ai negozii rivestiti della
forma del medesimo (nexum, mancipium, testa mentum ), all'eredità e alla tutela
legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio
di carattere quiri tario, potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o
ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacra mento.
Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per
l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di
apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla
consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un
arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto, che ebbe ad assumere
più tardi questo vocabolo. Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più
semplice, non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le
parti contendenti potevano anche in parte essere nella ragione ed in parte
essere nel torto: quindi è probabile, che siano state ap punto queste
controversie, le quali, al punto di vista quiritario, ave vano minor
importanza, che Servio Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus,
introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto
improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le
prime controversie di ca rattere veramente quiritario si indicassero col
vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col
vocabolo di iurgia (1). Siccome poi col tempo una parte di quel diritto, che in
certo modo esisteva allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius
quiritium, fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle
forme rigide e precise del diritto quiritario; cosi si può comprendere, come
col tempo la iudicis postulatio, che dap prima aveva un carattere sussidiario,
abbia potuto entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones.
Ciò anzi dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale
accolse la iudicis arbitrive postulatio, come lo dimostrano le controversie, (1)
L'opinione qui svolta, circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis po
stulatio, si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm. Civilprozess,
pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al magistrato di
addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da quel punto la
iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura civile romana;
costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor pericolo che
offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo
dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla
iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento (1). Questo svolgimento
poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella stessa iudicis
postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla
clausola « ex fide bona », fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere
applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in
cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il man dato,
la vendita, la locazione e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, erano
ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar
tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale
probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso
Cicerone: uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem (2 ). 438.
Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva pro ceilura romana, parmi
opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado
le sue modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza
sullo svolgimento della me desima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è
indicato col vocabolo di reciperatio, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio
quella ca tegoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recu
peratores. Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti ita
liche era indicata col vocabolo di reciperatio quella clausola, che soleva
aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù,
con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i
cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e
presso il magistrato di un altro. Era con (1) Il Voigt, XII Tafeln, I, 586-589,
assegnerebbe alla iudicis arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove
apparterrebbero agli arbitria, e il rimanente ai éu dicia propriamente detti.
Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag. 199. (2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 -
questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus),
cominciava ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per
estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa
poi aveva questo di particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti
dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores,
tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare
l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga,
che Roma usci essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa, e
fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e
colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la
reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e abbia col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto, che gli
antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di
actio, e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed
i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius
diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio,
discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib. 1', capo
VII, § 2º, nº 211, pag. 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si
svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a
quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli
Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di di ritto,
la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di
diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato, a cui gli
stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio, come nei
tempi moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una
comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà il nome
di ius gentium, e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col nome di
comunanza di diritto, la quale, se condo il grande fondatore della scuola
storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale privato.
V. Savigny, Traité de droit romain, trad.Guenoux, tome VIII, § 374. Quanto ai
rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium, e questa
comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio lavoro col
titolo: La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern. privato,
Napoli, come pure all'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita
sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto all'influenza, che esercitarono in
Roma la recuperatio ed i recupera 571 439. Queste circostanze intanto rendono
probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero
trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò
adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra invece, applicabile ai rap
porti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita. Sic come perd
uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso
veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte
l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del
diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del
bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che erano
invece proprie della reciperatio. Di qui una scambievole influenza di queste
due forme di procedura, la quale continud ancora, allorchè l'accre scersi delle
controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro
stessa denominazione di praetor urbanus e di peregrinus portano le traccie del
dualismo, che essi rappresentano. Fu questo il motivo per cui, a quelmodo
stesso, che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei
giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere
seguite nei rap porti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e
spedite, per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma (1). Che anzi
la coesistenza di queste due procedure dovette, a mio tores, i quali
diventarono col tempo una istituzione romana e furono i modesti pre paratori
della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito
probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma, vedi KELLER, Il processo
civile romano, pag. 28 de segg.; ZIMMERN, Traité des actions, pag. 45 e segg.;
JHERING, L'esprit du droit romain, I, pag. 235 e segg.; KarLOWA, Röm. Civil
prozess, pag. 218-230; Bouché-LECLERQ, Instit. rom., pag. 421 e segg.;
MUIRHEAD, Histor. introd., pag. 111 e 112, 123 e 225, quanto all'applicazione
della recuperatio inter cives. (1) Il Keller, Op. cit., pag. 41; nota a
ragione: « che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini
romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata ».
Noi sappiamo anzi da Gaio, IV, 31, che coll'actio sacramento poteva procedersi,
anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus
nominava dei recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto
ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la
quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio,
che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano
quelle, che si recavano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere
che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui
fosse stato esteso il ius quiritium. 572 avviso, servire a preparare lentamente
certi effetti, chenegli avve nimenti posteriori appariscono pressochè
repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause,
per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir
gradatamente deli neando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo
circon davano, il concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta
formato, doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure
egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai
terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare
giuridicamente la controversia, il che lo pose in condizione di poter
lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora
le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo doveva poi
essere accolto dal ius civile (1 ). Infine, per non spingere troppo oltre le
induzioni, parmi eziandio probabile, che quella « legis actio per condictionem
», che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla
condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi
sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata, mediante una condictio, in
quanto che i contendenti condicebant diem, ossia fis savano di comparire fra trenta
giorni, avanti il magistrato, per ot tenere la nomina dei recuperatores; come
lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status,
condictus dies cum hoste », il quale doveva essere sacro per modo da essere un
legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tut
tavia, che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter
peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives; poichè, mentre nella
prima era in certo modo concordato il giorno di com parire avanti al
magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio, era
l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di
comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). (1)
Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle
formole e dell'Editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è
da ve dersi il Glasson, Étude sur Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg.
Cfr. Carle, L'evoluzione storica del diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag.
18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 697 e 698, la legge 2.
Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il
magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr. quanto
alla « condictio cum hoste » il MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche
intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse,
in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in
cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava
accennare alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può
ri cavare: lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio,
o meglio nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra
trenta giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che
occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio
tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia,
deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º
che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una
certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa
res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del
sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa, per cui la
condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i
giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che per le controversie di questa
natura po. tevano servire le anteriori legis actiones (1). Ricomponendo
tuttavia questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si
possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la
condictio non era del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza,
e non è punto improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria
della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi fu accolta nel sistema
delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa
pecunia o intorno ad una certa res: quindi, riguardando obbliga zioni relative
ad un certum, essa dovette restringere il dominio della (1) Gaio, IV, 17 a 20.
Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel
testo mutilato di Gaio, relativo alla legis actio per condictio nem; ma noi
possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli dice altrove, IV, 13, che questa
stipulatio et restipulatio tertiae partis faceva parte dell’qctio certae cre
ditae pecuniae propter sponsionem. Ora l'actio certae creditae pecuniae, nel
sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem: quindi se
essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico, e richiama
sott'altra forma la scommessa del sacramentum, dovette certo ereditarlo dalla
medesima. È poi lo stesso Gaio, IV, 20, che accenna ai dubbi fra i
giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis actio.
574 actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale era
propria delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo la condictio
si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu; abolisce tutta la
parte mimica del sacramentum; sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per
oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri;
infine sur. roga alla scommessa, che andava a beneficio dell'erario, la sponsio
et restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vinci tore delle
lite (1 ). 441. Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa
semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa
deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che
dovette avverarsi nell'epoca della lex Silia e Calpurnia, quanto alle
obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo
campo alle congetture; ma è possi bile di giungere a qualche risultato
probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte
relativa alle obbli gazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo,
che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium fu quella del l'atto
per aes et libram, che pigliava il nome di nexum. Colla medesima il debitore
sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio,
per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa
parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la lex
Poetelia tolse di mezzo gli effetti speciali del nexum, negando al medesimo
l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel
momento il nexum cessò di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima era,
e cominciò a cadere in disuso; ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o
stipulatio, la ex pensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di
cui formano oggetto quelle cose « quae numero, pondere acmensura constant ».
Per tutte queste obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la
immediata manus iniectio, che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller,
Op. cit., pag. 62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom., 1, 52 e segg. 575
sentita per il nexum, non poteva più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non
poteva a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il
cui credito risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile.
Si comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la
lex Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la
legis actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica
scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non
va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il
vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano
ogni istituto, che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si
rivendica il posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può
essere capace; così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo
più semplice, più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per
richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un
certum, mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie,
che hanno il carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui
consegui col tempo, che il vocabolo di condictio, nel linguaggio giuridico,
divenne pressochè sinonimo di actio in personam, mentre l'actio sacramento finì
per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte
le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi,
del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam, poiché l'essenza
della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere, quanto
piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto, in
virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis
actiones, l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre
la condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere
tutte le actiones in (1) V. il cap. prec., $ 2, relativo al nexum, n ° 376, pag.
484 e sogg., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della
stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso. Anche il
MUIRHEAD, Op. cit., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a quella
proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.
576 personam, e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio
in personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il
seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle
legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente
ad epoca anteriore alla fondazione stessa della città, sono l'actio sacramento
e la reciperatio. Quella è la procedura, che fu accolta come esclusivamente
propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario, e quindi negli
inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium, nello stretto
senso della parola; questa invece si applicò nei rapporti inter peregrinos ed
anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella città di Roma era
continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura
seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure
finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra; cosicchè col
tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos
finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle esigenze del
diritto civile romano. Così, ad esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle
vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di
questo diritto, potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle
questioni di carattere più indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia,
accanto all’actio sacramento, che continuò ad essere l'a zione tipica del ius
quiritium, cominciò a svolgersi la iudicis po stulatio, la quale fini colla
legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones.
Per tal guisa le controversie, che hanno per oggetto un certum, si trattano
coll'actio sacramento; quelle invece, che riguardano un incertum, dånno
argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini
(1) Gaio, IV, 18, dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per
condi ctionem consisteva nella denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non
proprie con dictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari
oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit o. Egli aveva
ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi
tempi stava non più nella denun tiatio diei, ma nel dari oportere; ma
storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle
legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano
tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum. · 577 per subire
una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sa cramento, penetrd la
condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece
attirò a sè tutte le actiones in per sonam, che avessero per oggetto un certum,
e divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto
civile romano penetrd in parte la considerazione dell'aequitas e della bona
fides, nel seno della iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè
essa potė dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un
arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro
affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni
di equità. Intanto però, mentre si avverava questo svolgimento storico, è
probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in
parte, abbiano imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti
inter cives et pere grinos. Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea
delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di
actiones, che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle
formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra
l'actio in rem e l'actio in personam; fra le actiones stricti iuris e bonae
fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra l'actio nes in ius conceptae e
le actiones in factum. Si può quindi conchiudere, che anche in tema di
procedura tutte le varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da
un'unica forma tipica, che è quella dell’actio sacramento, la quale fu il
nucleo centrale, intorno a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico
diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio
per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere
mutuate certe procedure più semplici, come quella della condictio. Fu poi
eziandio in questa procedura, che doveva essere applicata dal praetor
peregrinus, che cominciò a prepararsi quel concetto del ius gentium, e quel
sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile
romano. $ 3. Lo svolgimento storico della procedura esecutiva nel sistema delle
legis actiones. 443. Mentre nella procedura contenziosa l'antico diritto cerca
di mantenere la più rigorosa imparzialità fra i contendenti, esso invece apre
l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti
giunse al suo termine, e trattisi di proce dere all'esecuzione contro il
soccombente. Anche il linguaggio giu ridico sembra allora richiamare un'epoca
di privata violenza, in cui ciascuno era vindice del proprio diritto, e noi
veniamo cosi a tro varci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio,
di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la per sona
del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione privata contro i
beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura
quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del
debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nell'antico diritto il
modo generale di esecuzione per le ob bligazioni viene ad essere la manus
iniectio, che è diretta appunto contro la persona; mentre la pignoris capio
riveste in certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere
ristretta a pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge
o dal costume, e determinati dalla natura del credito (1 ). Intanto nell'una e
nell'altra procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano
ancora l'uso della forza, questa perd viene già ad essere regolata dall'impero
della legge; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi
all'uno od all'altro modo di esecuzione. 444. Incominciando dalla manus
iniectio, noi troviamo che la medesima, nel primitivo ius quiritium, compare
sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una
prima forma di essa era la manus iniectio, a cui poteva appigliarsi il padrone
col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una
conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le traccie
nella vindicatio in servitutem. Un'altra forma era quella invece, a cui dava
origine l'obbligazione solenne del nexum, in base a cui il debitore, che non
pagava a sca denza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato, essere
trasci nato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione
pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. (1)
Vuolsi qui aggiungere, che Gaio, IV. 29, accenna perfino al dubbio surto fra i
giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni
ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si
compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones,
extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi in giorno nefasto. 579 Questa
manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione
decemvirale, ed era una conseguenza del rigore della primitiva obbligazione
quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram. Questa fu quella
manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori
plebei, diede origine a quelle dis sensioni civili, a proposito dei nexi, a cui
cercò di porre termine la lex Poetelia nel 428 di Roma. Essa però non era ancora
una vera legis actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava
direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del
nexum, nella quale la volontà manifestata dalle parti co stituiva legge, ed
implicava la condanna del debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che
occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di
esecuzione contro coloro, che avessero confessato il proprio debito (aeris
confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di
una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso, è solo a
quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio, e che
egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità
inumana, a cui poteva giungere la procedura della (1) Gaio, IV, 21. L'opinione
espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe
evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita
ageretur, lege aliqua cautum est », e si limita a fare una rassegna storica
delle varie leggi, le quali, incominciando dalle XII Tavole,avrebbero
consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si
accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a
cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in
disuso fin dal tempo, in cui la lex Poetelia aveva tolte di mezzo le
conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare
le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o
dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto potevano
ritenersi compresi negli aeris confessi delle XII Tavole, dei quali non era più
il caso che Gaio si occupasse; poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli
obbligati col nexum, le disposizioni delle XII Tavole erano state abrogate, e
se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria
speciale di fronte al principio:« in iure confessus pro iudicato habetur ».
Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero
compren dere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op.
cit., p. 205, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo,
il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla
procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli
altri debitori, come il Voigt, I, 626, e il Cogliolo, nelle note al PADELLETTI,
Storia del dir. rom., pag. 328, il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt.
580 manus iniectio, fu probabilmente una delle cause, per cui la me desima col
tempo diventò oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i
quali ebbero cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali delle XII
Tavole a questo riguardo (1). Allorchè altri aveva subito condanna per un
proprio debito, gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam
iustitium ), che durava trenta giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare
il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli
pagasse, il creditore poteva porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti
al magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio; né
al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma
solo poteva nominare un vindex, che facesse valere le sue ragioni, dando
sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui
vincesse l'attore. Intanto il creditore po teva condurre il debitore nel suo
carcere privato, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di
alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto
durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di mercato, compresi in
questo spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di nuovo davanti al
magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare
per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore
poteva ucciderlo 0 venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans
Tiberim venum ibat); ed anzi, se più fossero i creditori, veni vano le famose
espressioni conservateci da Gellio: « partis se canto: si plus minusve
secuerunt, se fraude esto ». (1) L'autore, che ci ha serbata più particolare
notizia della procedura esecutiva nell'antico diritto, conservandoci perfino le
parole testuali della legge, è Gellio, Noc. Att., XX, 1, $ S 41, 51, dove
introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a
discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del primitivo diritto:
interessante discussione, poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che,
riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore dell'antico
diritto, e dall'altra abbiamo il filosofo, il quale, a nomedella ragione, viene
combat tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o
irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior
parte di quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole, che a noi siano
pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, IV, 21,
ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio. 531 445. Si comprende
come l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al creditore, abbia
lasciati increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente
del Voigt di interpre tare la legge nel senso, che il capite poenas dabat
significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si
rife risse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in
cui fossero più i coeredi del creditore (1). Certo è, che se noi avessimo
soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consen tire questa
interpretazione, punto non ripugnando che la legge at tribuisse a quei vocaboli
una significazione giuridica, anzichè lette rale: ma noi, oltre al testo della
legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli antichi, e questo è tale
da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso
Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore
della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione; ma
dice invece, che i primitivi legislatori, nell'intento di tutelare la fede nei
negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la propria immanità non
poteva essere applicata, come in effetto non lo era mai stata (2 ). (1) Voigt,
XII Tafeln, II, pag. 361. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge 8
della Tav. III, aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio: « Tertiis
nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes sunt »: il che vorrebbe
dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non
poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se
fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva domum ductus, i
medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto
per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto
della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa; ma è difficile di
persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa rebbe quella di Gellio,
possa restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual sa rebbe quello posto
innanzi dal Voigt. (2) Questa interpretazione letterale della legge, di cui si
tratta, non sarebbe solo attribuita alla medesima da Gellio XX, 1, 50, ma
eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6, 84, e da TERTULL., Apol., 4; ma con
parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio, loc. cit., $ 51,
che la storia non ricordava alcun caso di sectio corporis: «dissectum esse
antiquitus neminem equidem neque legi,neque audiri », Parmi poi, che un
argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra
disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si membrum rupit, ni cum eo
pacit, talio esto »; ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare
a colui, che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà
corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ebbe pure ad
essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler, das
Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884, pag. 17 e segg., il cui brano
relativo è riportato dal MUIRHEAD, 582 Non può quindi essere il caso di dare
alla legge una significa zione diversa da quella, che vi attribuirono gli
antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri abbiano potuto giungere
ad una disposizione di questa natura. Tale spiegazione, a parer mio, non deve
essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in
quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie
parti del ius quiritium, e sopratutto nel rigoroso con cetto, che questo
diritto ebbe a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il
diritto quiritario, nella sua logica rude, trat tandosi del dominio, immedesimò
in certo modo la cosa, oggetto della proprietà, colla persona a cui essa
appartiene: così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione, vide nel
medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente
il de bitore al suo creditore (nexum ), senza punto preoccuparsi dei beni, che
appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il
debito, la logica del diritto primitivo non si appiglierà all'espediente di
ripiegarsi sovra i beni del debitore, ma procederà diritta per la sua via, e
verrà così aggravando i mezzi di coazione contro il debitore che non paga,nell'intento
di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che se le coazioni di carattere
giudiziale od estragiu diziale non bastino, questa logica primitiva, fissa nel
carattere esclu sivamente personale dell'obbligazione, potrà anche giungere
fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di uccidere
il debitore, al modo stesso, che attribuisce al proprietario la facoltà di
distruggere la cosa, che gli appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente,
che l'antico diritto, accordando simili diritti al creditore contro il debitore
condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo,
quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è
dimostrato da tutta la procedura op. cit., Appendix a nota 5, pag. 446 e 447.
Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel « Shakespeare vor dem
Forum der Jurisprudenz », Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto
del GIRARD nella « Nouvelle revue historique » 1886, p. 226 a 240. A compimento
di questa notizia ricorderò anche la interessante dissertazione dell'ESMEIN,
Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit », pag. 244 e
266, ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello
cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al
medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non ne abbiano
pagato il debito. Qui la coazione adoperata s'appoggia sull'opinione po polare,
che l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il suo corpo non riposi nella
tomba. 583 della manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della
medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di
far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debi tore;
ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto
Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis poenam, sanciendae fidei
gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam
reddiderunt ». Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione delle XII Tavole,
nella parte, che si riferisce alla spartizione; del corpo del debitore, essa
appare perfino di im possibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il
creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore
diquella che gli sia dovuta, il che confermerebbe eziandio l'altra espressione
dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo consilio tanta immanitas poenae
denuntiata est, ne ad eam perveniretur ». Del resto non è questo il solo
esempio di questa logica astratta, propria del diritto primitivo, che talora si
spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto
infatti del creditore sul corpo del de bitore trova un riscontro nel diritto al
talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro: talione che,
secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino (1), non
poteva essere più fa cilmente eseguito che la spartizione del corpo del
creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel
ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al
ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia
certo, che il rigore del diritto trovava dei temperamenti nel pub blico e nel
privato costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni
l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro mani (2); ma soltanto di
scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius quiritium, essendo il frutto
di una elaborazione giuridica, la quale mirava ad isolare l'elemento giuridico
da ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile,
che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. (1)
Dice infatti Favorino presso Gellio, XX, 1, 15: « praeter enim ulciscendi «
acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui mem «
brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an
« efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea dif
« ficultas est inexplicabilis ». (2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale
dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare
questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che gli antichi Romani
siano stati degli antropofagi. 584. 446. Dal momento poi che il primitivo ius
quiritium, nella sua procedura di esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la
persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si
comprende, che esso, nella sua perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad
abbandonare la via, che aveva prima seguito. Noi tro viamo infatti, che nel
posteriore svolgimento della procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto
civile nello stretto senso della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la
persona, anzichè contro i beni del debitore, fu invece il ius honorarium, il
quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva
contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra
circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio. Questi
infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento
storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul
modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus
iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus
iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due, non impediva che il
debitore potesse manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere
all'opera di un vindex. Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto
di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a
quei due, che primierano stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un
giudicato, o contro una per sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà:
del che, secondo Gaio rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis
actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a
un giudicato o per aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » (1).
Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove, che l'introduzione
della bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio, il quale
dovette essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con
questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori,
non dissimile da quello, che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ).
Fu solo più tardi, che anche il diritto civile, per mezzo della lex Iulia de
(1) Gaio, IV, 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione
della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore.
(2 ) Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi KELLER, Iі
processo civ. rom., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che questo
con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, La faillite chez
les Romains. - - - 585 cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di
evitare l'esecu zione personale, ricorrendo alla cessio bonorum: ma anche
allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi tore,
e costitui in certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la
esecuzione personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era
accompagnata. Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro
la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi
introdotto un mezzo per liberarsi da essa. 447. Parmi poi, che questa
preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la persona
del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio
la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della
pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di
origine militare (aes militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine
religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un
sacrificio, in dapem ). Un solo caso di pignoris capio lascið traccie durature
nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex
praediatoria o cen soria, a favore degli appaltatori delle imposte, sui fondi
che erano gra vati dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha
un'ana logia incontrastabile col privilegio generale sugli immobili, che ancora
oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il
concetto, che nel diritto primitivo di Roma è la persona, che risponde
direttamente delle proprie obliga zioni, e che la missio in bona deve ritenersi
soltanto introdotta dal pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa
procedura sembra negli inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo
dimostra il fatto, che noi la troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de
Gallia Cisalpina (1). Una ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine
pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum
perpetuum, pag. 340. La lex Rubria, XXII, 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 )
attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della
città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor, «
isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de
« eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum,
possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm.
Processegesetze, pag. 94 e segg. 586 dell'antico diritto per la persona,
anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella
considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ebbe ad essere modellato
sul concetto fondamentale del quirite, in quanto era considerato come una
individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico, la cui parola dava
origine al nexum, e la cui volontà costituiva una legge, cosi nei negozii tra
vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una conse guenza dal
punto speciale di vista, a cui eransi collocati i model latori dell'antico
diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della pro cedura
romana e metterle in movimento ed in azione, per compren dere come il sistema
delle legis actiones, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di
solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei Romani, sia stato
invece il mezzo più po tente ed efficace,mediante cui venne preparandosi
l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones furono, per cosi
esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano
potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta cosi a
quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti
romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, doveva
passare per lo strettoio della legis actio: cosi ne veniva, che con questo
sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones; poscia le parti
nell'adattare alle medesime la loro controversia; quindi il magistrato nel
determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere giuridicamente
concepita; infine i giudici, che dovevano di necessità restringere la loro
decisione al punto di que stione che era loro sottoposto, attendevano tutti ad
un medesimo lavoro, che era quello di spogliare una fattispecie da ogni
elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una
configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica. Siccome poi i giudici
della controversia, o erano tolti dalle varie classi o tribù, come i centumviri
e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei senatori, come i iudices
selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri, od anche scelti in parte
fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne veniva, che l'elaborazione del
diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gli ordini e
tutte le classi, e che poteva perfino sentire l'influenza del diritto e della
procedura, che applicavasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri.
Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato e coordinato per opera del
magistrato, che sovraintendeva all'amministrazione della giustizia, ed era poi
assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in formole
la varietà grandissima dei negozii giuridici; cosi ne venne, che in Roma fin
dai suoi inizii si trovo sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il
quale mirava ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagli elementi
estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in forme determinate e pre
cise, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali.
Fu in questo modo, che poterono scomparire i conten denti e si sostituirono ai
medesimi dei nomi convenzionali (Aulus Agerius e Numerius Negidius nelle
formole processuali, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quelle contrattuali);
che le contro versie particolari furono tutte richiamate a certe forme generali;
e che intanto i concetti primordiali, da cui aveva preso le mosse il diritto
privato di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a
tutte le conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi sopratutto in Roma, che il
diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo,
un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedì costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dai pontefici, passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un
diritto tipico, esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius
quiritium, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium
civium romanorum; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium,
il quale pur derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li
forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius
civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la
selezione più rigida dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila
storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo
romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considera zioni
di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non
diventò tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato
i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile,
che i principii di questa grande opera di selezione fossero dapprima
inconsapevoli, come gli inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati
dal modo di formazione della città, e dal genio eminentemente giuridico dei
fondatori di essa; ma egli è certo eziandio, che essa non tardd a cambiarsi ben
presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici secoli
con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio, salvo
forse nella storia delle grandi religioni della umanità. Così, ad esempio,
dell'importanza delle legis actiones già dovette aver consapevolezza il
patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il
proprio diritto, continud tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici
la formazione delle legis actiones, e la cambiò in un segreto di professione e
di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come
lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione,
avrebbe resa di pubblica ragione le primitive legis actiones (1 ) 449. Questa
influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè
l'abolizione delle legis actiones e l'intro duzione del sistema delle formole
attribui da una parte almagistrato libertà maggiore nella concezione giuridica
delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre
nuove azioni, accanto a quelle, che si fondavano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si (1) Pomp.,
Leg. 2, § 7, Dig. (1, 2 ); Liv. IX, 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio
sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di tribuno
della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò eziandio nella necessità
di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, le norme, che avrebbe
applicate nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima
si svolsero quelli imperio continentia; che, accanto alle actiones legitimae,
quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, quae a praetore
dantur. Da quel momento il pretore potè essere considerato come una lex
loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione
della giustizia (1). Tuttavia l'abolizione delle legis actiones e la
sostituzione del sistema delle formulae debbono essere intese alla romana, il
che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la
sopravvivenza dell'actio sacramento, come preliminare del centum. virale
iudicium e di quello damni infecti nomine, al modo stesso che l'introduzione
delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e
l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva già essersi prima
introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema delle formulae già
potesse esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos, nella quale
non potevano essere applicate le legis actiones, e che in tal guisa una
procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium civium ro
manorum, almodo stesso, che più tardi l'actio sacramento potè ezian dio essere
proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi, per esprimere tutto il
mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole fosse in certa guisa già
contenuto in germe nel sistema delle legis actiones. A quel modo, che la
stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum, la quale,
liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram, potè essere adattata
alla varietà dei negozii (1) Gaio, IV, 11, dice espressamente, che, negli
esordii di questo sistema di pro cedura, edicta praetorum nondum in usu
habebantur. Era quindi naturale, che quando questi furono introdotti, accanto a
quella parte di diritto, che fondavasi direttamente sulla legge, e che perciò
dava origine alle denominazioni di actus legi timi, actiones legitimae, iudicia
legitima, si svolgesse un diritto, che fondavasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, imperio continebatur, il quale finì poi per
essere compreso sotto il nome di ius honorarium. È poi Cic., pro Cluentio, $ 3,
146, il quale ebbe a dire, che siccome le leggi sono al disopra del magistrato,
e questo è al disopra del popolo, « vere dici potest magistratum legem esse
loquentem; legem mutum magistratum. ». Quanto ai concetti di actio legi tima e
di iudicium legitimum, vedi WLASSAK, op. cit., $$ 3 a 5, pag. 31 e 57. (2)
Sall'influenza del praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul sistema
delle formulae, v. Glasson, Étude sur Gajus, $ 12, pag. 112. -. 590 giuridici:
così la formola consiste essenzialmente in quei concepta verba, che già
occorrevano nella legis actio, salvo che questa verborum conceptio, liberata
dalla parte mimica, da cui era ac compagnata, e da quel rigore di termini
(certis verbis), che era propria delle legis actio, potè acquistare una
duttilità e pieghevo lezza, che la prima non poteva avere. Noi trovammo infatti,
che già sotto la veste ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi aveva
finito per abbracciare diverse azioni particolari, e che queste azioni già
avevano cominciato a distinguersi nelle actiones in rem in quelle in personam,
in quelle, che avevano per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che
davano origine ad un iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi
materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio, si
trovarono in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante
azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola
ed un proprio contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento
sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della
formola, che sarebbe stata peri colosa negli inizii della elaborazione
giuridica, venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed
abbastanza pro gredita; poichè le prime formole, essendo state preparate sotto
la rigida disciplina delle legis actiones e del ius pontificium, indica vano
abbastanza la via, in cui doveva mettersi il magistrato per continuare l'opera
già incominciata. È questa la ragione, per cui i pretori, malgrado la libertà
apparente, che loro appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di
modificare le formole già ricevute, procedono in cið molto a rilento, ed amano
piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle
forme ricono. sciute dal diritto, che non di alterare le forme, che già furono
ac colte dal diritto civile. Per tal modo il nuovo trova sempre un addentellato
nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e
intanto ciò non impedisce, che una parte di quel diritto, che viveva fluttuante
pelle consuetudini, ac canto al vero ius civile, si venisse ancor esso
consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre modellato sul
primo. Così pure, nella opera progressiva dei pretori succedentisi gli uni agli
altri, potè manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed
eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire
un ius translaticium, che passava ai succes sori, e serviva cosi a preparare i
materiali, che raccolti e coordi 591 nati costituirono poi l'Editto perpetuo di
Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza
del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza
romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione, che tuteli
un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una ecce zione, che
neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile.
Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad
essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare
l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di
formole, a cui accenna Cicerone, allorchè scrive: « sunt formulae de omnibus
rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis
errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo,
calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis
accomodatur » (1). Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a
compiere quel lavoro di selezione, che già erasi iniziato sotto l'impero delle
legis actiones. Esse si accomoda rono alle varie fattispecie; isolarono
l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gli elementi essenziali del
fatto umano dalle cir costanze accidentali: accolsero quelle aggiunte, che
erano rese ne cessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunsero le varie
fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un
compendio dell'intiero giudizio. Queste formole poi non furono qualche cosa di
esclusivo alla pro cedura: ma all'epoca stessa, in cui penetrarono in questa,
si vennero eziandio esplicando nei contratti, nei testamenti, nei legati, e in
ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dap pertutto
l'esattezza e la precisione del linguaggio giuridico, non disgiunta da
elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei ne gozii giuridici (2 ). È
quindi facile il comprendere come pontefici, pretori e giureconsulti, non
abbiano creduto indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle
formole, e come bene spesso l'in venzione di una formola abbia reso celebre e
tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto. Basta perciò
aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che (1)
Cic, Pro Roscio, 4, 5 a 9. Cfr. WLASSAK, op. cit., pag. 67. (2 ) Occorrono
delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile
romano presso il LABBÉ, Préface all'ultima edizione da lui curata dell'Or TOLAN,
Explication historique des Institutes de Justinien, Paris 1883, pag. vii e segg.
- 592 ricevettero le clausole « ex fide bona » « quando aequiusmelius » « ne
propter te fidemve tuam fraudatus siem », le formole aquiliane de dolo malo ed
altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali ser virono a far penetrare nel
diritto la considerazione dell'equità e della buona fede, e a dare forma
concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando
nella coscienza giu ridica del popolo romano. Era infatti per mezzo di una
piccola ag giunta in una formola contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni
latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e
che il diritto fluttuante nelle consuetudini veniva ad ot tenere la tutela e la
sanzione dell'autorità giudiziaria (1). 450. Quest'ultima considerazione
intanto mi porge opportunità di conchiudere questa trattazione, spiegando un
carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Credo che questo
tentativo di ricostruzione del primitivo ius qui ritium abbia quanto meno
dimostrato, che il diritto civile romano, anzichè essere stato il frutto di una
incorporazione qualsiasi di con. suetudini preesistenti, operatasi a caso e
lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato, fin dai proprii
inizii, da una logica fondamentale, che non venne mai meno a se stessa. Esso
può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui
gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre cipitarsi a
poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle
forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se
ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica
fondamentale, la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano,
sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi
giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli
istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go (1)
Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali,
poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo
le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ebbi
ad espri mere, molti anni or sono, in un breve lavoro « De exceptionibus in
iure romano, Torino, colle seguenti parole: « neque vereor dicere, omnia quae
in < iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione,
invecta fue « runt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam
antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse ». 593 vernati
ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che
possono stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando
attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la
mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti
si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma: ma
intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governd la
formazione. Era questo disordine apparente degli scritti dei giureconsulti, che
tornava grave alla mente filosofica ed ordinata di Cicerone, il quale perciò
giunse fino a dire, che i primigrandimaestri avevano cercato didissimulare la
propria arte (1); ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del
diritto fu un monopolio delle genti patrizie, o meglio dei pon tefici, custodi
delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del
giureconsulto fu aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo, e anche i
plebei furono ammessi al collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza.
Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che
vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta
l'elabo razione della giurisprudenza romana, ma piuttosto nel modo, in cui
venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi aver
presente, che i modellatori del pri mitivo diritto di Roma (veteres iuris
conditores ) non ebbero mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di
professare un'arte (iuris prudentia), che formò solo più tardi argomento di
scienza. Essi quindi, nei loro scritti, non intesero punto di soddisfare alle
esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio
della scienza: ma si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche,
poichè erano i casi, che si venivano presentando, che loro offrivano occasione
di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' actio, che
predominava, poichè era con essa, che il diritto sperimentava se stesso; così
ne venne, che dap prima furono le legis actiones, che costituirono il punto di
richiamo dell'elaborazione giuridica, e determinarono l'ordine, a cui la
medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della legis actio venne
ad essere disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e
svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella
formazione dei negozii e nell'ammini strazione della giustizia, furono eziandio
le actiones, gli interdicta, (1) Cic., De orat., I. le exceptiones e simili,
che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei
giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica
fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano
la trama; co sicchè i loro scritti appariscono come a frammenti, e ravvicinano
istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece
strettamente affini fra di loro (1). Di qui la conseguenza, che la costruzione
giuridica romana non seguì il processo dei concetti fondamentali, da cui
partiva, ma venne seguendo invece l'ordine prima delle XII Tavole, e poscia
dell'Editto. Nè questo disordine apparente poteva recare imbarazzo agli
esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda; ma poteva invece riuscire
grave agli altri, i quali, come Cicerone, cercavano di inoltrarsi in questo
campo con un indirizzo mentale diverso. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei
materiali cominciò ad ingom brare il campo, che si senti il bisogno di
introdurre distinzioni siste matiche, ma anche queste distinzioni non
compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta, quali
sono quelle dei elassici giureconsulti, ma soltanto nelle opere di carattere
didattico; donde la spiegazione dell'ordine diverso, che occorre nelle
Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette. Siccome poi anche l'or
dine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo scopo
pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trovava,
anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa; cosi ne viene, che
anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, dånno talvolta
come contemporanei degli istituti, che possono avere avuto origine in epoca
compiutamente di. versa. Ne consegui, che la giurisprudenza romana, quale a noi
per venne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie
parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata, che venne
operandosi in essa, e la dialettica, che ne governò la for (1) Ciò appare
sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo. Questo apparente disordine
invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in quanto che
questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei Commentarii di
Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta, che
al tera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii di Gajo. Questi
ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, saranno
sempre un mo dello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico.
Cfr. Huschke, Jurisp. antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere
sopra citate dei giureconsulti. mazione; ma ciò punto non impedisce, che,
penetrando sotto la scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali
e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi
al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passd la lenta e
graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo
faticoso lavoro di ricostruzione, ri tengo opportuno di riassumere a grandi
linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in
qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di
Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza
organica, che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni
pubbliche e private di Roma. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle
popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo, che più tardi fu denominato
italico, dovette avverarsi un periodo di forza e di violenza, non dissimile da
quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il
maggior bisogno, che dovette sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, fu
quello di uscire da quello stato di privata violenza. Fu allora, che le genti
sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico Oriente,
irrigidirono la propria organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella
medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia
territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti furono orga
nizzati nella classe inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei.
Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunse
pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello
dell'organizzazione feudale nel Medio Evo: essa venne cosi ad essere composta
di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza
reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali risiedevano rispettivamente
nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il territorio da esse occupato era
ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio
del proprio svolgimento, che le genti italiche 596 presero tutte a travagliarsi
intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla
città. Questa ebbe sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di
fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. La città
cominciò dall'essere un sito fortificato (arx, oppidum, capitolium ) per
servire di rifugio in caso di pericolo; poi diventò un sito per il mercato
(forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze
confederate per la trattazione degli affari comuni (conciliabulum, comitium );
fu posta sotto la protezione di una divinità, comune patrona; finchè da ultimo
sotto la protezione della comune fortezza cominciarono eziandio a costruirsi le
abitazioni private. Non tutte le stirpi però erano pervenute al medesimo stadio
di svolgimento, nè tutte avevano seguito il medesimo indirizzo nella formazione
della città. Mentre gli Umbro -Sabelli aderivano ancora strettamente alla
organizzazione gentilizia, e gli Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa
e fortificata, i Latini invece si trovavano in uno stato in termedio: essi
erano pervenuti alla città di carattere federale, con siderata come un centro
della vita pubblica per varie comunanze di villagio. È al buon seme Latino, che
deve attribuirsi l'origine del grande nome di Roma. Essa cominciò dall'essere
lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati (viri,
quirites), staccatisi dalla città di Alba per cercare altrove sorti migliori,
secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella
forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della
stirpe, a cui appartenevano. Le lotte di questo nucleo di uo mini di arme,
stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia,
tendevano a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture
circostanti dell'antico Septimontium, lo condussero prima alla comunanza dei
connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Da quel momento Roma
primitiva nella sua progressiva formazione percorse due periodi compiutamente
distinti, cioè: il periodo della città federale, in cui essa è una città
esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze
gentilizie: e quello in cui la città esclusivamente patrizia associasi anche la
plebe cir costante, già pervenuta ad una certa agiatezza, nell'intento sopra
tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude nelle proprie mura le
primitive comunanze di villagio, che entravano a costituirla. Nel primo periodo i cittadini di Roma sono i
capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa,
e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, ri
specchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella
guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i vil laggi, collocati
sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapian tano nella città, centro
della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo che le
medesime, assumendo un intento essenzial mente civile, politico e militare,
cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e ricevono cosi
uno svolgimento com piutamente diverso. La città esce cosi dalla confederazione
e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres ) e dei loro discendenti (pa tricii):
ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come
le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano
le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo; gli auguri, che modellano gli
auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i capi di famiglia o
delle genti; i feziali, che serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le
varie genti. In questo periodo la città servi ad operare la selezione della
vita pubblica, che cominciò a spiegarsi nella città, dalla vita dome stica e
patriarcale, che continuò a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio.
L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli edifizii
aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la
domus regia; la civitas non com prende ancora i rapporti di carattere privato,
ma quelli soltanto che si riferiscono alla vita civile, politica e militare: il
populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della me
desima, che possa giovare alla res publica col braccio (iuniores ) o col
consiglio (seniores). Per tal modo il grande intento della città in questo
periodo fu quello di sceverare la vita pubblica dalla privata (publica pri
vatis secernere), di modellare il concetto della res publica, in quanto essa ha
un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar chitettarne la costituzione
politica, la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che
entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel
populus; ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere
all'in teresse comune viene ad essere rappresentata dal senatus, che è già
elettivo ed è nominato dal rex; il quale alla sua volta è l'eletto del populus
e unifica in se medesimo l'imperium, che il medesimo 598 gli conferisce. Tutto
cid, che riguarda l'interesse comune, deve essere deliberato col concorso di
tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato,
votato dal popolo; cosicchè la legge assume la forma di una pubblica
stipulazione (communis reipublicae sponsio ). Per quello invece, che si
riferisce alla vita domestica e privata (res familiaris), essa continua a
svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la potestà dei capi
di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto
la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli eccettuati gli heredia,
assegnati dalla gens od anche dal re, i quali appariscono intestati ai singoli
capi di famiglia. Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata
al potere domestico e patriarcale, e le pene conservano quel carattere
religioso, che avevano nel periodo gentilizio: solo assumono carattere di
delitti pubblici, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla
provocatio ad po pulum, il parricidium e la perduellio, di cui quello è come il
germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Quanto al diritto
privato, esso continua in gran parte ad essere governato dal costume (mos ), il
quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (fas); cid tuttavia
non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne
siano di quelle, che vengono sanzionate da una lex publica, la quale è
preparata dai pontefici, proposta dal re e votata dal popolo; donde la
formazione delle leges regiae, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche
ser bano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istitu zioni
delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione
già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo
incremento collo svolgersi della città; poichè, esso trovasi accresciuto dalle
popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'orga nizzazione
gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa
moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per
difetto di organizzazione chiamasi plebes, non entra ancora a formare il
populus, nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle
circostanze di essa, e tiene cosi una posizione più di fatto che di diritto. Ai
plebei, che la compon gono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi
della città esclusivamente patrizia, il ius nexi, ossia il diritto di contrarre
dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il ius man 599
cipii, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi
erano stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che la
città comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa
e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui
ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le
famiglie, che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium
della città. La trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie,
allorchè con Servio Tullio la città viene a com prendere nella propria cerchia
non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla
sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo
populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in classi ed in centurie,
di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed ob
blighi civili, politici e militari determinati sulla base del censo. Da questo
momento quel dualismo, che esisteva negli elementi, che entra vano a
partecipare alla medesima città, penetra eziandio nelle istitu zioni politiche
di Roma. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni
della plebe; accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formarono i
concilia plebis, i quali col tempo si trasformarono in comizii tributi; e da
ultimo accanto alle leges si svolsero i plebiscita. Di qui lotte, che
condussero a svol gere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali,
che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si
è ingrandita; nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica, ma
anche la vita domestica e privata: quindi la grande opera, che si inizia in
questo periodo, viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune
ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere
maestri al mondo, cioè dell' « ars iura condendi». Gli elementi, che dovevano
convivere sotto la protezione di un comune diritto, erano due, cioè: il
patriziato,onusto di tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe
la quale era un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita
civile e politica. Quello aveva l'organizza zione gentilizia fondata sul
vincolo civile dell' agnazione, e questa non conosceva che la famiglia, stretta
insieme dal vincolo naturale della cognazione; quella aveva tante forme di
proprietà, quante erano le gradazioni dell'organizzazione gentilizia, e questa
non aveva in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600
ziata (mancipium ); quello aveva il fas, il ius, l'imperium, gli auspicia, i
mores veterum, mentre questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la
distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di
sentire e di pensare compiuta mente diverso, in fatto di religione e dimorale,
che resero necessaria la elaborazione di un diritto, comune ai due ordini, il
quale facesse compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi
pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la
ricchezza dei risultati a cui essa pervenne, poichè la medesima dovette
prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi
estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche
tempo ciascun elemento continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e
costumanze; ma la convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei
quotidianiinteressi finirono per determinare una specie di precipitazione
delmateriale giuridico, fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores
veterum ), o di costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile
se lezione dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi
implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da
una parte obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera
di una elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i
custodi delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una
vera tecnica giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere
il con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi
rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro
prietario di terre, quale appunto compariva nel censo. Il quirite viene cosi ad
essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato
ed un agricoltore ad un tempo; ed il punto di vista, sotto cui si riguardano i
quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo, viene ad essere
quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi ogninegozio riducesi ad
un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per aes et libram, e ogni
procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di
reci proca scommessa. Questo diritto, costituendo un privilegio dei qui riti,
viene ad essere denominato ius quiritium; i suoi concetti fonda mentali sono
quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium, commercium, connubium ed
actio; esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la
giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo, che si vien
precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora sempre, allo stato
fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi
della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in certo modo attraendo ed
assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche
analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchen dosi di
nuove forme, si viene gradatamente allargando nel ius pro prium civium
romanorum, il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione,
che erasi già incominciata col ius quiritium. Sono le XII Tavole, che danno
forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile: quindi nelle
medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a
costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giure consulti
chiamano proprium civium romanorum, può scorgersi una formazione centrale, che
è dovuta al ius quiritium, e due laterali, di cui una suole essere di origine
patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad esempio, fra le forme del
matrimonio havvi da una parte la confarreatio di origine patrizia e dall'altra
l'usus di origine plebea, mentre la coemptio sta nel mezzo, ed è la forma
essenzialmente quiri taria; fra le forme del testamento, le più antiche sono il
testamento in calatis comitiis, propria del patriziato, e la mancipatio
familiae cum fiducia, propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi
insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello per aes et
libram; infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio, il primo a
formarsi è quello essenzialmente quiritario della manci patio, attorno a cui si
vengono poi accogliendo l'in iure cessio e l'usucapio. Intanto perd questa
selezione non si arresta ancora colla formazione di un ius civile, e quindi,
accanto al medesimo, si esplica il ius honorarium, il quale, pur derogando al
primo, assimila nuovi elementi, facendoli perd entrare in forme modellate a
somiglianza di quelle già adottate dal ius civile. È con questo meraviglioso
processo, che il diritto privato di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la
selezione più rigida dell'elemento giuridico, che ricordi la storia, ed una
produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita
anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle
istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fonda mentale,
da cui era governato, finchè divenne poi tale da essere considerato come un
diritto universale, e da poter essere accomu nato a tutte le genti, da cui
aveva tolti i materiali, sovra cui erasi 602 venuto elaborando. Il diritto
romano riusci cosi ad essere una co struzione eminentemente dialettica, la
quale riunisce da sè gli op posti ed i contrarii; esso è antico nei materiali,
che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano; sotto un
aspetto è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in
via di formazione; esso obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto lascia
che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto
ispiratore; mentre è una produzione del tutto propria del genio romano,
assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte ed una
scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze
pratiche, appare informato, come ben diceva il giureconsulto, ad una vera e
propria filosofia, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita
sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in con
cezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono
essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei
giureconsulti romani saranno sempre dei modelli, che difficilmente potranno
essere superati, poichè nella divisione di la voro, che si operò fra i popoli
moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le
attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione
dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il
modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla
immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello della
città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca
gentilizia; così i concetti, che le servirono di base, furono la sintesi
potente di tutto un periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora disco
prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili
dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chia marsi
preistorico, essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo,
che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza
essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia
assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di tutte le genti, con
cui denne a trovarsi a con tatto. Senza abbandonarsi a speculazioni ideali,
essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a
svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace.
Quando poi i concetti, che stavano a base della sua grandezza, furono anch'essi
603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la grande idea della uma nità
civile, e le sue leggi poterono servire come punto di partenza ad un nuovo
periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo,
pud personificare in se stessa quella legge di con tinuità, che unifica la
storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria, e le
nazionalità moderne furono preparate da essa; essa fu l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede esclusiva del
potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile: quando si
credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole
sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi,
che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire; perchè Roma fu sempre la
città dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa essere la
sede del potere religioso, e che dall'altra sia la sede del governo civile; già
altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile
(sacra profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa continui ad
essere la città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la capitale di un
giovine stato; essa ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più
splen dida passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi
quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni.
Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il nucleo ristretto della
sua popolazione, accordando nuova mente la sua cittadinanza alle popolazioni,
che vi concorsero da ogni parte dell'Italia. Solo sarebbe a deplorarsi, che
mentre il potere religioso cura te nacemente le proprie tradizioni, lo Stato
invece non cercasse di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma.
Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità; noi studiando fra i
ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un
incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile, che il giovine regno cerchi di
educare il suo senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi
politici e legislatori del mondo. La storia ci vile e politica di Roma e quella
del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi; ma
deve essere parte dell'i struzione e dell'educazione civile e politica del
popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani
studiosi, 604 che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro,
allorchè lo studio della storia del diritto romano fu opportunamente chiamato a
far parte dell'insegnamento giuridico nelle Università italiane. Credo infatti
di poter affermare, senza timore di essere con traddetto, che nessun nuovo
insegnamento provocò nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo
dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio
del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui
non solo l'Italia, ma tutto il mondo scientifico partecipa alla commemorazione
solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano
poneva le fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna. L'im portanza dogmatica
del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del Codice Civile
Germanico, il quale farà si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune
di un grande po polo; ma la sua importanza storica verrà per cið stesso ad
essere accresciuta, perchè si tratterà pur sempre di determinare la parte, che
nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del
diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo ge pere di studii possa
ugualmente mantenersi fuori della cerchia delle Università; poichè, tanto in
Italia che in Germania, la scienza è nata e si è svolta nelle Università, ed è
in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto
nelle Università, che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi
esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di
con cetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe
Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana,
concetto di legge romana, natura romana Roman law often invoked nature to
justify a legal ius – the principle of individual ownership: JOINT position of
a single object is said to be contra
naturam. D. 41.2.3.5 CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE
ID TENERE VIDARIS. D. 1. 5. 4.: SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS
DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Hor. Sat. 2. 2. 129-30. 2.3.178. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carlini – filosofia fascista –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I
love Carlini, and Speranza loves him even more,
but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of
philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto,
con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il
primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica
universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e
Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come
titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia.
Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza
che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei
licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto qualche anno prima,
e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di
filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre
per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno,
fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di
direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due
saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate
e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta l'interesse di non
pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo
spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il
problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni);
“La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le
ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna,
Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4
ala I ai Mi L. LL a cura di alberto schiavo
Gy giovanni volpe editore NUOVA
SERIE NOL, IV FUTURISMO E FASCISMO In
copertina: Una fotografia inedita di Marinetti mentre si esercita al
poligona di tiro di Gorizia nel 1915. Marinetti e Russolo si erano
arruolati volontari nel « Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti » il 3
agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo. In seguito
Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e poi servirà nei
bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte decorato al valore.
© 1981. Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore in Roma — Via
Michele Mercati, 51 — Telefono 87.31.39 FUTURISMO E FASCISMO
a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI VOLPE
EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO «A Giacinto
Menotti Serrati allora direitore del- l’Avanti, che si era recato in
Russia per respirare aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti
non siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre uomini
che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio, Marinetti”. Il
povero Giacinto Me- notti, inotridito, ritornò a Milano
precipitosamen- te. E. quando, paco dapo, un capo scarico con un
magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per beffario, Ia
veneranda barba, reagì in questo modo: facendo proclamare nella grande
città lombarda lo sciopero generale. I milanesi orripilarono, è il
caso di dirlo, perché si sentirono da quel giorno appesi ai peli
del direttore dell'Avarti » EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di
statisti, scrit- tori, giornalisti, scienziati, industriali di
Cinquanta Stati sulla personalità e misstone di Mussolini, Edi.
zioni Erre, Milano, 1945, XXIII faprile). 1. Quale
futurismo? Il futurismo è ormai un fatto d’esportazione: italiano
d'origine pur se si è cercato di farlo passare per francese e russo poi
di acquisizione e di affermazione, è ormai alla ribalta
dell’esperimentazione artistica americana. Se- gno questo che il fenomeno
è vitale e ancora carico di prospettive, nonostante la « storicizzazione
» di un avve- nimento che fu d'avanguardia. Ma quale avvenimento?
Il manitesto del futurismo porta la data del 20 febbraio 1909 e fu
pubblicato sul parigino Le Figaro, in lingua francese. Si tratta di un
manifesto letterario di rinnova- mento e di rivoluzione, se vogliamo,
della tradizione clas- sicista e « passatista » {secondo un termine caro
ai futu- risti) dominante. Gli aspetti politici non furono
tuttavia estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed
artistico. Ci sembra quindi giusto prenderli in considerazione,
eftet- tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che
ci vo- gliamo occupare, del loro svolgersi, articolarsi 0, comun-
que, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del fu- turismo. Che,
in fondo, ancora oggi è accettato o respinta, condiviso o negletto, «
approvato » o denigrato a seconda delle posizioni o degli intendimenti
politici del momento. Ma anche è ticonsiderato, tivisto e « rivisitato »
nel suo complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche ed
avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima, suscitatrice
di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna. « La letteratura
esaltò fino ad oggi l'immobilità pen- sosa, l'estasi e il sonno »,
scriveva Marinetti in quel Mani festo di settanta e più anni fa. « Noi
vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo
di cor- sa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». E non è già
atteggiamento letterario « aggressivo », ma anche di rinnovamento,
questo? Non è, come si suol dire ancora, « fare politica »? Al settimo
punto del Manifesto, Ma- rinetti così continuava: «Non c'è più bellezza,
se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere ag-
gressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come
un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi
davanti all’uomo ». Per conclu- dere poi con l'undicesimo: « Noi
canteremo le grandi fol- le agitate dal lavoro, dal piacere o dalla
sommossa; can- teremo le maree multicolori e polifoniche delle
rivolu- zioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fer-
vore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune
elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine
appese alle nuvole... ». E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi,
da uno dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma cio-
nonostante « ...è dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro
manifesto di violenza travolgente e incen- diaria, col quale fondiamo
oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua
fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari
». Un grido così coinvolgente e totale non può, in fon- do,
non trascinare ancora gli osservatori della cultura, A
non invitarli almeno a prendere posizione, poco
importa se favorevole o contraria. Non si può rimanere indiffe-
renti ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora pre- sente nei
suoi contenuti « prospettici » e attuali. Ecco perché tutti lo hanno
ripreso, riconsiderato o « riabilita- to» alla loro dimensione storica:
liberali e comunisti, socialisti e conservatori, cattolici e radicali,
fino alla « nuo- va destra ». Anche noi, vorremmo quindi riesaminarlo
a distanza non però per riappropriarcene, ma solo per ve- dere la
sua origine, il muoversi storico e la collocazione politica nel corso
della sua esistenza, che in fondo, è an- cora incerta e anche, in parte,
controversa. Si è parlato d’irrazionalismo filosofico, di
decadenti- smo o di romanticismo letterario, di surrealismo con
evi- dente errore di collocazione, di nietschianesimo natural
mente, o di bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi que- sto compito,
perché siamo convinti che rutto si potrebbe dite, o comunque tutto si
potrebbe adattare in buona combinazione di purpurie filosofica, o di
pensiero. E in- vece è il futurismo che vorremmo considerare nella
sua realtà storica, nella sua entità e valenza « politica », di
fianco o a distanza di quel fascismo con cui bene o male si è
accompagnato. Anche se ciò non basta certamente per avere un'idea chiara
e precisa della sua effettiva por- tata e del suo valore « storico ».
Perché il futurismo va visto sì nel suo tempo, che non è poi tanto
passato, pur se non è più momento dell’oggi; ma va visto anche
nella sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo presen- te,
sia pure per quel che riguarda la « dimensione d’arte ». Il
futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è tuttora fatto culturale,
e diverse manifestazioni e pubbli cazioni lo dimostrano ancora. Quando
nacque, fu espres- sione rivoluzionaria di un paese giovane e « nuovo »
mos- so dalla felice conclusione dei fermenti unitari, i quali — è
ovvio — comportano sempre semi di sconvolgimen- to e di « rinnovazione
». L’« Italia di Vittorio Veneto » sancità definitivamente ed
epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche, nel l'immediato
dopoguetra, il momento di temperatura mas- - sima del
« futurismo politico », che vedremo poi ricadere in seguito completamente
a zero. Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta
anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno com- prensibile e meno
« attuale » alla nostra capacità d'in- tendimento storico. Ma a ben osservare
possiamo ancora intravvederlo, per intendere poi anche meglio il
futurismo artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello «
po- litico » proprio non è. La cultura è un fatto del
presente, ma anche dell’av- venire. Come tale è o dovrebbe essere
giovane, perché vissuta, voluta, « creduta » e quindi guardata in
prospet- tiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno sguardo
lon- tano. Il futurismo si pone in questo «taglio » di visuale
sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione. Vuole aprire
una nuova strada e vuole porgere un'indi- cazione, una proposta.
Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scien- za e
dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi suoni e dei nuovi
rumori, quelli delle scoperte e delle invenzioni, del cinema e
dell'aviazione. Marinetti percepì tutto questo e lo espresse. E fondò il
futurismo, pose le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno
forse s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare
ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e seppe
approfittare dei contatti che aveva con la cultura rancese per lanciare
il Manifesto: fu un'occasione, e fu anche un lancio sicuro.
2. Futurismo e « passatismo » Esiste ancora oggi il « passatismo
», quello di mari- nettiana memoria. E se è pet questo c'è ancora il
futu- rismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque, il futurismo è
ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo in- vecchiamento, e
la sua inadeguatezza ai tempi; il preva- lere per contro dell'accademia,
della pedanteria, del vec- chiume cattedratico sono sempre all'ordine del
giorno. ® Il futurismo, quindi, non ha esaurito il
suo compito, ov- vero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo
dire che non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire
un'ipotesi di «nuovo futurismo », dovremmo esaminare quello passato,
fattosi movimento d'avanguardia, e ormai da ridefinirsi vera e propria
avanguardia storica, solo ed esclusivamente. Il « passatismo
» può essere oggi solo un « fatto di ritorno », o esser rientrato ad
occupare il suo campo d'’ori- gine, ma il futurismo settanta anni fa
aveva già conosciu- to quello di allora, tanto da indicarlo e da
definirlo, con una sua caratteristica espressione: passatismo,
appunto. E non si trattava anche allora di una cultura ripetitiva e
monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inat- tuale? Allora come
oggi: una cultura fuori dal tempo, sterile e ferma. E il futurismo aveva
voluto muoversi a rinnovarla, a darle nuova spinta vitale. Ecco allora
le sue invettive contro l’accademismo o il professorume, i suoi
appelli alla distruzione di musei, archivi, biblioteche. Si
trattava di appelli squisitamente letterari, ma sono stati presi il più
delle volte alla lettera o in senso lette- rale, per farne atto d'accusa
al futurismo e alla sua anti- cultura. Leggendo al di là delle righe,
invece, dovremmo capire la portata o la dimensione del messaggio,
rivolto agli uomini più che ai musei e alle accademie, o almeno a
certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusiva- mente cultura da
museo. Sulla spinta di questo stimolo « ideologico », era
fatale che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 acco-
stamenti con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter vento prima
della Grande Guerra, e dell’arditismo prima durante e dopo il conflitto.
La guerra veniva ormai intesa sola ed unica «igiene del mondo », ed era
logico che i futuristi si accostassero a lei, come ad una forza
capace di debellare ed estirpare il tanto inviso « passatismo ». I
futuristi quindi furono interventisti accanto ai naziona- listi
(D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mus- solini. La
ineluttabilità della storia accosta spesso e vo- lentieri i « differenti
». Furono vicini nei comizi, nelle manifestazioni, nella propaganda per
l’intervento. E poi partirono, praticamente tutti 1
futuristi, volon- tari per il fronte di una guerta che avevano inteso e
visto aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo coi
tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma « futu- rista ». Partì
Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi e Sitoni, partì Sant'Elia,
che lasciò i suoi 23 anni in trin- cea sulle colline del Carso. Erano
entrati tutti e cinque « compatti » in quel glorioso battaglione
ciclisti, che tan- to fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un
famoso quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona. La vita
fu forse la massima offerta all’« igiene » di una guetra tanto
desiderata. Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di
una lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe es- sere
inteso come un epigono del Romanticismo. Fu in- vece di più e di meglio,
visto in altra dimensione o in altro significato. Perché fu avanguardia,
anzi il primo ve- to e proprio movimento d’avanguardia culturale del
nuo- vo secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, di-
mostra in fondo che lo sbocco di tutto quel rivolgimento innovativo 0
avanguardistico che tutti sentivano e « avevano nel sangue », era
diventato una ineluttabile necessità del momento.
L’irreggimentazione del fascismo è un fatto successiva, indipendente dal
futurismo. Il fascismo-regime, per dirla con De Felice, è un'esito
autonomo e « solitario » di Mus- solini e del potere. Il
fascismo-movimento invece, sempre per dirla alla De Felice, no. I)
fascismo-movimento è una realtà più complessa, articolata e multiforme,
più sentita e partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che « vive » il
fa- scismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche lo
informa. Il « passatismo » doveva essere stroncato: e in un
primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La cultura subì uno
svecchiamento non indifferente ed il fer- mento del nuovo portò sulla scena
uomini « giovani » ac- cantonando | « vecchioni » dell'accademia
libera!socialista. Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si
afferma- rono col vento futurista che stava soffiando. Ed ebbero
10 spazio nelle mostre, almeno in un primo
momento, aper- tura nei musei, apprezzamento all’estero, dove
vennero accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande
forza vitale sua, autonoma e individuale. Senza per que- sto imporsi e
schiacciare la « concorrenza », anzi. I fu- turisti accettatono nuove
esperienze ed accolsero scambi con avanguardie straniere (come
l'astrattismo), che vol. lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il
fascismo fu l’avan- guatdia collaterale politica del futurismo, che
tuttavia que- st'ultimo cronologicamente precedette e « ideologicamente
», almeno in parte, ispirò. La lotta al « passatismo » diven- ne
così quasi simbolo del fascismo, che si fece portaban- diera del
rinnovamento e della nuova rivoluzione nazio- nale. I «
professori », non avendo messaggi originali da con- trapporre, rimasero
in disparte. Marinetti divenne acca- demico d’Italia a fascismo avanzato
e, forse, suo malgra- do. Tuttavia « usò » l'Accademia per promuovere ed
ap- poggiare i « suoi » futuristi, per dar loro spazio nelle di-
verse manifestazioni d’arte e di cultura. Il filosofo Croce, « professore
ad honorem », era stato proposto alla presi- denza dell’Accademia, ed era
stato proposto da parte fa- scista, quando ancora da Napoli applaudiva a
Mussolini: ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo
scien- ziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse
mi litante, della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu «
pas- satista », 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od un
tentativo di rivolgimento innovativo), che non lo sot- trasse tuttavia
dalle « carte » della sua più o meno im- mobile filosofia.
3. Futurismo e politica La comparsa « politica » del futurismo fu
praticamente contemporanea alla sua nascita «artistica: infatti
avvenne in occasione delle elezioni del 1909, quando Marinetti
lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si rivol- ge agli «
Elettori Futuristi »: « Noi Futuristi invochiamo 11
da tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza
contro i candidati che patteggiano coi vecchi e coi preti ». Posizione
confermata nel marzo dello stesso anno in un famoso Discorso ai Triestini
tenuto al Politeama Rosset- ti, della città giuliana, dove così
sottolinea: « In politica, stamo tanto lontani da] socialismo
internazionalista e an- tipatriottico — ignobile esaltazione dei diritti
del ven- tre — quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,
simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto ». Sono le premesse del
famoso anticlericalismo marinettiano, che sfocerà poco dopo nello «
svaticanamento » tanto predi- cato per la salvezza nazionale.
Nel 1910, dopo la nascita del futurismo politico, vie- ne fondato
il Partito Nazionalista Italiano, antidemocra- tico ed antiborghese. Nel
1913 nasce Lacerba, cui diede- ro vita a Firenze Soffici e Papini, la
rivista che in pra- tica divenne ben presto organo ufficiale del
futurismo /ato sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra
rivista futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata Vele Latina,
che si ergeva in un primo tempo a voce di pa- sizioni morigerate e
tranquille, e poi dal 1915 più spinte nella mischia
dell'intervento. Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza,
è la pubblicazione del Programma politico futurista a firma di
Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni dello stesso anno.
« Questo programma vincerà », s'in- dica al margine inferiore del foglio,
«il programma cle- rico-moderato-liberale » e «il programma
democratico-re- pubblicana-socialista ». Cosa che poi in realtà non
av- venne. Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti
pronun- ciava un discorso al Teatro Verdi di Firenze, dove sao-
stiene la volontà di appoggiare l'impresa libica ed il suo felice compimento.
Il discorso viene immediatamente ri- preso e pubblicato da Lacerba, nel
numero del 15 dicem- bre (n. 24, anno I): « Si convincano i socialisti
che noi rappresentanti della nuova gioventù artistica italiana com-
batteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto vigliac- chissimi
tentativi... » iniziava il discorso; e così conclu- 12
L deva, a rafforzamento delle sue
inconciliabili posizioni: « Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò
ferocemen- te avversi all’altro grande pericolo imminente: il
clerica- lismo con tutte le sue propaggini di moralismo reaziona-
sio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeo- logico e di
quetismo rammollito o affatismo di partito ». Ormai la collocazione del
movimento è quanto mai chia- ra e inequivocabile. 4.
Futuristi e « fiorentini » Che i futuristi fossero « milanesi » è
problema tutto da vedere, anche se è vero che Marinetti abitava a
Mi- lano e che dopo la fondazione del movimento a Parigi fu a
Milano il suo centro di spinta e di irradiazione. Ma i legami con Firenze
furono ben presto agganciati, e determinanti. Scrive Luciano De Matia: «
Fsiste un fu- turismo milanese (con Marinetti e Boccioni in simbio-
si); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che assimila, elabora
in modo nuovo, creativo, le istanze mi- lanesi; esiste un secondo
futurismo fiorentino (la « pattu- glia azzurra »; i giovani de L'Italia
futurista) psicologico, occultista, predadaista e presurrealista. E
potremmo con- tinuate nelle differenziazioni »”. Ma non è tanto
per questo tipo di differenziazioni che ci interessa il futurismo
fiorentino, quanto per la dimen- sione « politica » dei personaggi che vi
aderirono, diversa da quella di Marinetti e degli altri futuristi
milanesi o degli altri politici che a Milano operavano e si muove-
vano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi e Mussolini).
Milano era già città d'avanguardia e alla guida dell’industrializzazione
settentrionale: questo non va dimenticato. Firenze era ancora
« passatista », accademica e salot- tiera; legata comunque ad una cultura
d’indagine e di ! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia,
Mondadori, Milano, 1968, pag. 31. 13
riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai ri- petitivo e
sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra feconda del primo
Novecento, delle nuove riviste, dei tentativi di rivisitazione di una
cultura pur sempre na- zionale, e di lancio dell'avanguardia sullo
scorcio del nuo- vo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo
apre le sue tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nel-
l'agosto del 1907. Era stato Papini a fondarlo, ma c’era già anche
presente Prezzolini (Giuliano il Sofista). Che poi mise in piedi La voce
nel 1908: uno dei migliori ten- tativi di collegamento delle forze
intellettuali e di fon- dazione di un minimo denominatore comune,
letterario e politica {idealismo e sindacalismo socialistico di tipo
so- reliano). Papini continuò la « collaborazione ». Ma vi fu- rono
anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal vemini, Soffici e De
Robertis, oltre che il futuro fonda- tore de Il Popolo d’Italia e del
Fascismo. La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza
ec- cessiva eco politica immediata. Papini non aveva condi- viso
certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista, come non condivideva
l'intento didascalico e divulgativo della Voce su qualsiasi argomento
artistico e sociale, come an- che « idealistico ». Si unì a Soffici di
cui condivideva gli atteggiamenti, ed insieme fondarono Lacerba (il 1°
gen- naio del 1913, sempre a Firenze). « Non si volge chi a stella
è fisso! », portava come motto il Leonardo sotto la testata. Volendo dare
tono battagliero a Lacerbae, Pa- pini forse ancora seguiva le prospettive
d’arte e di cul- tura del Leonardo. Anche se in una dimensione « attiva
» che già i « leonardiani » avevano inteso fondare nell’uti-
lizzazione del pragmatismo come « strumento di poten- za ». (« In quegli
anni tutti vollero sapere che cosa fosse il pragmatismo »). Lacerba
riprende l’impostazione di battaglia, tipica di Papini, e ritotna
all’orientamento spe- cifico dell’arte. ? Vedi
anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallec- chi, 1927.
14 In questo contesto è evidente che non poteva man-
care l’incontro col futurismo. La scazzottatura dei futuristi con
Soffici e i vociani nel 1911° non poteva aver contribuito all'incontro?
Po- trebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato, come
Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pra- tella. Sta di fatto
che col 15 marzo del 1913, cioè col suo sesto numero, Lacerba diventa
futurista. Con un ar- ticolo proprio di Papini dal titolo Contro il
futurismo che dal famosa attacco iniziava così: « Il futurismo italiano
ha fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pen-
sare». Segue un passo di Boccioni sul «fondamento plastico della scultura
e pittura futurista». Proprio Boccioni che ave- va investito Soffici col
suo celebre pugno, poco più di un anno prima a Firenze. E che continuerà
a pubblicare articoli sul numero del 1° di aprile e su quello del 1°
di agosto e poi sul primo numero del 1914, ecc. Per non parlare di
Carrà, Marinetti, Russolo, Sant'Elia, Auro d'Al- ba, ecc., che porteranno
continuamente i loro contributi. Il 15 ottobre del ’13 Lacerba
pubblicherà addirittura il citato Programma politico futurista in
occasione delle elezioni generali. Il manifesto politico compare in
prima pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento della
rivista. Papini ne dà un commento più che « sod- disfacente ». E lo
stesso Papini il 1° dicembre dello stes- so anno uscirà poi con un lungo
articolo intitolato Perché son futurista. Sarà l’atto di accettazione
definitiva del fu- turismo, od il suo accoglimento più completo, e «
globale ». 1 Su La Voce Soffici pubblica il 1° aprile del 1909 la
sua Ri- cetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del
neonato futurismo: « Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry,
cento di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin,
un pugno di Morasso..., una presa di Pascoli », aggiungendovi poi «
una pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due
carghi, due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela
arden- te». Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e
nell’11 dei rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e
a Milano, per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da
par- te dei fuiuristi, 15 Non molti giorni
dopo, il 12 dicembre (lo ab- biamo già visto), si tenne al Teatro Verdi a
Firenze una « grande serata futurista », di cui riporta il « reso-
conto sintetico » il numero 24 della rivista (del 15 di- cembre
1913). Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del ’14,
appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si chiude, che avvia
inesorabilmente al declino della colla- borazione. Autore ne è ancora una
volta Giovanni Papini, che chiuderà definitivamente il « colloquio »
sull'ultimo numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il
Fu- turismo e Lacerba. E’ l'atto di chiusura di un « perio- do »:
quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Rispon- derà Boccioni il 1° di
marzo sul numero 5 con Il cerchio non si chiude; ma sono solo sussulti, e
anche sugli ultimi numeri dell'anno della rivista compariranno solamente
i cosidetti « canti del cigno ». Il cerchio era ormai già
chiuso. E non molto dopo chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi
tenta- tivi interventisti di rivivificazione (1915) e le sue
discri- minazioni tta futurismo c marinettismo, che ne sarebbe
stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe pra ticamente già
morto secondo «i fiorentini », mentre il futurismo avrebbe potuto tendere
a mete migliori. Dopo pochi mesi in realtà morirà definitivamente anche
Lacerba. 5. Il futurismo e la guerra Nel 1929
Marinetti ricordava così l’inizio della sua « carriera interventista »: «
Nel settembre 1914 dutante la battaglia della Marna e in piena neutralità
italiana, noi futuristi organizzammo le due prime dimostrazioni
contro l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15 settembre nel
Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza del 4
Cfr. Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in Lacerba,
anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, pp. 49-50. 16 Duomo
e in Galleria undici bandiere austriache ». Poco prima di quegli
avvenimenti, Mussolini aveva fondato il suo nuovo quotidiano, I{ Popolo
d’Italia. Contemporanea- mente, sotto l'auspicio e il favore di
Corridoni, i gruppi rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore
della guerra, si stavano organizzando per sostenere anch’essi
l'intervento. Come ricorda De Felice, «il 5 ottobre il Fascio
Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avreb- be lanciato il suo primo
appello ai lavoratori italiani in questo senso » * L'incontro tra
futuristi e rivoluzionari di estrema sinistra si stava verificando e «
stringendo », anche se già confortato da reciproche simpatie per le
uni. voche posizioni anticlericali ed antiborghesi. Il 21
novembre 1914 Mussolini scriveva dalla direzio- ne de Il Fopolo d'Italia
una lettera a Paolo Buzzi, che riportiamo interamente: « Caro Buzzi,
Boccioni vi avrà detto — se mai vi avrà parlato di me — che tutte
le mie simpatie sono — anche nel dominio dell’arte — per i novatori
e i demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e perciò gradita, mi giunge
la vostra lettera riboccante di simpatia. E’ questo uno dei momenti più
amari della mia vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario.
Ho messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mus- solini
». L’amarezza gli è data probabilmente dall’espulsione dal
Partito socialista proprio per la posizione da lui assun- ta a favore
dell'intervento. La conoscenza da parte di Mussolini, di Boccioni e del
movimento d’arte d’avanguar- dia di Marinetti, risultava sino a poco
tempo fa inesistente. La lettera, unica del genere, conferma la
precedenza del futurismo politico rispetto al fascismo ancora da
sorgere, che poi mutuerà da esso idee, elementi e programmi.
Le simpatie si manifestano per il dominio dell'arte, al dire di
Mussolini, ma non solo; c'è un « anche », che indica chiaramente
dell'altro e un'apertura, forse politi ca, possibile nei confronti degli
innovatori e dei « demo- > Renzo De Felice,
Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. no 1965, pag. 249.
17 litori », vale a dire per i futuristi. Che ancora il
9 dicembre di quell’anno organizzano le prime manifesta- zioni
interventiste all’Università di Roma, sotto la guida di Marinetti, Balla,
Cangiullo e Depero. Qualche mese dopo, nel ’15, le autorità di governo
fermano Marinetti, Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una
ma- nifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza
Venezia. E' il primo « fermo politico » di Marinetti. Sia- mo quasi alla
vigilia della guerra. Il 12 aprile 1915 si mette in piedi la «
terza grande dimostrazione interventista » davanti alla Camera dei De-
putati. E' presente anche Mussolini e si verifica uno dei maggiori «
momenti d’incontro » tra futuristi e Mussolini sul terreno
dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli, Ma- rinetti e lo stesso
Mussolini vengono attestati. Tutti gli sforzi ormai, tutte le volontà e
tutte le energie sono con- centrate verso un'unica e suprema meta: quella
della guer- ra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze, e Ma-
rinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mon- do, mentre il
poeta futurista Auro d'Alba « lancia » a Mi- lano per le Edizioni
Futuriste di « Poesia » (« sostenute » da Marinetti) il volume
Baionette. Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze
Lacerba interrompe — come si è visto — le pubblicazioni. Una guerra
che avevano tutti quanti, in un certo senso, pre- parato con interventi,
discorsi, giornali, manifestazioni e pubblicazioni. Fra questi non va
dimenticato il manifesto del Teatro futurista sintetico, firmato da
Martinetti, Corra e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: «
Aspettan- do la nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi
al- terniamo la nostra violentissima azione artistica sulla sen-
sibilità italiana, che vogliamo preparate alla grande ora del massimo
pericolo ». E più avanti: « Perché I’Italia impari a decidersi fulmineamente
a slanciarsi, a sostenere ogni sforzo e ogni possibile sventura non
occorrono libri e riviste... La guerta, futurismo intensificato, ci
impone di marciare e di non marcire nelle biblioteche e nelle sale
di lettura. No: crediamo dunque che non si possa oggi influenzare
guerrescamente l'anima italiana, se non median- 18 te
il teatro ». E in effetti, a partire dal gennaio del '15, i futuristi
avevano iniziato una serie di « Tournées di tea- tro futurista
interventista » per sostenere la necessità del- l’intervento con un mezzo
di comunicazione ben più po- polare e « circolante » della
letteratura. Anche la «serata futurista », per esempio, è un
al tro canale o strumento di « incoraggiamento » dell'inter- vento.
Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di arti- sti futuristi, uno
dei quali sollecita gli intervenuti (pubbli- co) danda uno spunto, e
proponendo un tema, o aggre- dendo qualche aspetto dell'arte del passato,
da cui nasce lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del
futu- ro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle
ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la defi- nisce quando si
rivolge agli studenti in un altro manifesto, di poco precedente a quello
« teatrale », intitolato Im que- st'anno futurista, rivelto agli «
studenti italiani » e datato 29 novembre 1914. Laddove si esortano i
giovani alla guerra così si afferma: «... il futurismo segnò
appunto l’irrompere della guerra nell’arte, col creare quel fenome-
no che è la Serata futurista (efficacissima propaganda di coraggio). Il
futurismo fu la militarizzazione degli artisti novatori ». E
la guerra arrivò, come A biamo visto, e per molti versi fu vera e propria
« guerra futurista ». In luglio par- tiva il gruppo più consistente di «
volontari »: Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e
Funi. Ma ci saranno al fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futu-
rista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato Depero. Alla fine
dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’E- lia, Sironi e Piatti, sempre
sotto l'egida di Marinetti, fir- mano un altro manifesto futurista,
quello dell’Orgoglio italiano, con cui si promettono pugni, schiaffi e
fucilate a quelli degli italiani che avessero manifestato in sé «la
più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, deni- gratore e
straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia di mediocristi
antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto
Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di
eruditi, di poeti nostalgici... » Il 10 agosto
1916 Sant'Elia muore al fronte, e Boc- cioni, una settimana dopo, per una
caduta da cavallo du- rante un'esercitazione militare a Orte. Nasce a
Firenze la nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini fonda con
Fol- gore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce il
periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al no- stro futurismo.
I) 18 è ormai l'anno della vittoria. Depe- ro realizza i suoi nuovi
«balli plastici ». Bruno Corra pubblica a Milano con i tipi dello Studio
Editoriale Lom- bardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti
nell’Ita- lia della vittoria. 6. Il Partito politico
futurista Nella nuova realtà del dopoguerra il futurismo
cerca una sua nuova collocazione politica più « pacifista », se il
termine non è nella fattispecie una contraddizione. Ai fasti
dell'intervento e della militarizzazione, succede un nuovo intento
programmatico di realizzazione. La prima espressione di questa volontà è
ancora una volta dovuta a Marinetti che pubblica nel febbraio del ’18 un
Manifesto del Partito politico futurista, l'adesione al quale era
libera ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i principî
del suo programma, indipendentemente dalle concezioni dell’arte o dal
consenso all’« estetica futurista ». E questo indica una presa di
posizione più ponderata e meno « di rottura », almeno in senso
sociale. Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di
rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter. ventista, comprese
fra i mussoliniani, i sindacalisti tivo- luzionari, i socialisti e i
repubblicani di sinistra, che avreb- bero poi dato vita alla formazione
dei Fasci di Combatti- mento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero
infuso la prima linfa vitale. Si possono considerare punti
essenziali del nuovo programma l'estensione del suffragio universa-
le, comprendente anche le donne, la socializzazione della terra con
assegnazione ai reduci, la tassazione progressi- va, l'abolizione
dell'esercito e la sua professionalizzazione 20
(volontariato), la giustizia gratuita, la libertà di
sciopero e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti collettivi
di lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la « tecniciz-
zazione » clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A diffondere le
idee del nuovo partito era destinato il perio- dico Roma futurista,
fondato a Roma da Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva
la luce il 20 set- tembre 1918 e portava come sottotitolo « Giornale
del Partito politico futurista ». . « Roma futurista »,
racconta Marinetti nel suo libro Futurismo e Fascismo (1924) « nacque un
mese e mezzo prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e
porta- va nel suo primo numero tre scritti importantissimi dei suoi
tre direttori: Mario Carli, Marinetti, Settimelli. Scri- veva Settimelli:
“Il Futurismo che fino ad oggi esplicò un programma specialmente
artistico, si propone una inte- grale azione politica per collaborare a
risolvere gli urgen- ti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di
squili- brio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà pedan-
tesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai profes- sori
rammolliti, dai preti anti-italiani e dagli affaristi gio- littiani,
cercò di svalutare la nostra genialità di giovani audaci e novatori. Ma
la vera Italia non può rimanere e non rimarrà neppure parzialmente nelle
loro mani inca- paci. La guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono
for- ze giovani, violente, antitradizionali e ultra-italiane” ».
Il primo numero di Roma futurista (decadario, poi settimanale)
pubblicava il programma del giornale mede- simo ed anche il manifesto di
quel Partito Politico Futu- rista che si doveva ancora fondare. Partito
che, nell’inten- dimento di Settimelli, doveva essere « più che altro
una tendenza psicologica », una « fusione di realtà e di scon-
(inamento, di praticità e di lirismo », che avrebbe contri- buito a
creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora come si esprime «la
volontà» di fondazione del movimento: « Il Partito politico futurista che
noi fondiamo e che or- xanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente
distinto dal movimento artistico futurista. Questo continuerà nella
sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio crea-
AI tore italiano... Potranno aderire al partito
politico futu- rista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe e
di ogni età... Questo programma politico segna la nascita del
partito politico futurista invocato da tutti gli italiani, che si battono
oggi per una più giovane Italia, liberata dal peso del passato... ». La
firma è di Roma futurista, cioè, come si presume, del direttore, o anzi
di tutti i tre direttori. Ecco alcuni punti del
manifesto-programma del par- tito: « 4) Trasformazione del Parlamento
mediante un'equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di
ingegneri e di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo
di età per la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un mi- nimo di deputati
avvocati {sempre opportunisti) e un mi- nimo di deputati professori
(sempre retrogradi)... Aboli- zione del Senato... Unica religione,
l'Italia di domani... 10) ...Svalutazione della pericolosa e aleatoria
industria del forestiero... Difesa dei consumatori... Svalutazione
dei diplomi accademici e incoraggiamento con premi della iniziativa
commerciale e industriale... ». Le adesioni all'iniziativa si
fecero subito sentire da diverse parti: ci furono vecchi futuristi come
Auro d'Alba, Rosai e Rocca, reduci dalla guerra come Bolzon e
Bottai (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano nel-
l'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempel- li, secondo il
quale il programma fondamentale del futu- rismo politico sarebbe stato
quello di sostituire «la gio- vinezza alla vecchiaia nelle funzioni
direttive ». E non sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi,
anche se non del tutto riuscito, dell’insorgente fascismo. Nel
dicembre dello stesso anno 1918, quasi ad esito naturale della formazione
del nuovo partito, poco orga- nizzato e poco «costituito », s'istituirono
invece i « Fasci politici futuristi », più attivi e vitali
particolarmente in diverse città dell'Italia centrale e settentrionale,
la prima ossatura su cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cre-
sciuti i muovi « Fasci di combattimento », voluti e pro- mossi da
Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del '19 i Fasci futuristi erano
già una ventina, tra quelli di 22 Roma
(Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Mari- netti, Buzzi,
Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimel- li, Rosai, Marasco), Perugia
(Dottori), Genova (Depero), Torino (Azari), e poi ancora Bologna,
Palermo, Napoli, Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto,
Mo- dena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi accolto con
entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a determinare una
prima ossatura: l’organizzazione. E Mus- solini a sua volta aveva visto
di buon occhio e seguìto la formazione dei Fasci politici futuristi, sino
a « scopri re » in essi un punto d'appoggio per la sua campagna
combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà nei suoi Fasci di
combattimento (quelli di Piazza San Sepol- cro). Mario
Carli, come condirettore di Rowza futurista e dietro spinta di Marinetti
stesso, caldeggiava da tempo, anche dalle colonne del suo nuovo
periodico, l’avvicen- damento e l'annessione degli arditi al partito
politico, di cui sul primo numero del giornale si pubblicava il
rivolu- zionario programma: era il 20 settembre 1918. Dieci
giorni dopo, il 30 settembre 1918, le proposte politiche si fanno più
tecniche, più « specializzate », più particolari. Volt firmerà un testo «
dinamico » per dichia- rare: « Sostituiremo il Parlamento con le
tappresentan- ze dei sindacati agricolo-industriali ed operai. La
rappre- sentenza sindacale sarà la base dello “Stato tecnico” futu-
rista ». Ma allora di quale rappresentanza sindacale si ttat- rerà e
quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste di personalità
giuridica? Sono tutti problemi che già Volt si pone e così, a suo modo, «
risolve », e continua: «To credo non si debba tener conto del numero
degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese ». Ed ancora, prosegue ad in-
terrogatsi: « Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere
dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale? La competenza
dell'assemblea dovrà essere li- mitata alle questioni prevalentemente
economiche, che so- no del resto le più importanti in politica. Le
questioni di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser
risolte II! 'EUE vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sx«x:®(
'81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra —- in parte mediante il referendum
popolare diretto ed in parte attribuito alla competenza del potere
esecutivo ». Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del
’19 dai loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché
considerati provocatori di disordini e di incidenti nella vita civile.
L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai diretti interessati come
manovta socialista-giolittiana atta a disconoscere i loro meriti di
guerra. Ed anche Marinetti aveva appoggiato dalle colonne di Roma
futurista 1’« uni- ficazione » (ira futuristi ed arditi),
Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava, a conclusione di
questa « campagna », l’« Associazione fra gli Arditi d’Italia », che fu
un po’ l’altra faccia del Partito politico futurista. In breve,
l'associazione atrivò a racco- gliere circa diecimila iscritti, la
maggior parte, forse, degli ex «reparti militarizzati ». 7.
Futurismo e arditismo Ormai anche gli arditi, nonostante lo scioglimento
del- la loro organizzazione paramilitare, hanno una consistenza
civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da poter fondare un
loro organo di stampa che prende a uscire a Milano dall’11 di maggio
1919: il settimanale L’Ardito, edito dall’Associazione nazionale, e
condiretto da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario Carli. Nello
stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate su analoghe
posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò a Milano I remici d'Italia,
settimanale « antibolscevico »; il più importante di questi giornali «
minori » fu però L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce
dell’arditismo, e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i
futuri- sti non potevano a questo punto non vedere negli arditi dei
nuovi futuristi politici, così come Mussolini non po- teva non vedere in
loro dei potenziali simpatizzanti e allea- ti. La pronta adesione di
molti di essi ai Fasci di combat- timento lo dimostrerà
definitivamente. Arditismo e futurismo furono dunque componenti
es- dd senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno
dal punto di vista ideologico, o formativo del suo nascere.
Mussoli- ni aveva, per così dire, « abiuraro » il suo vecchio
socia- lismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza idea- le
o di pensiero che gli permettesse il suo «slancio in avanti ». Il
futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o quasi, mentre il precedente
socialismo gli alimentava certi spunti sociali, in parte, almeno, già
presenti nel futurismo. L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta,
una forza di aggressività e di « assalto », che forse gli sarebbe
man- cata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente.
L'11 gennaio il futuro « duce » partecipava a Milano ad una «
serata futurista » contro Bissolati, alla Scala, con- tribuendo in parte
al suo « siluramento ». C'era anche Marinetti e, forse, non fu un caso, e
si trattò di un incon- tro importante. II 23 marzo dello
stesso anno in una riunione milanese a Piazza San Sepolcro, presieduta da
Ferruccio Vecchi, Ma- rinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e
di altri arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di
combatti- mento, decisa da Mussolini. Questi propose come pro-
gramma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato, il suffragio
universale, il sindacalismo nazionale, ricona- scendo «le rivendicazioni
d'ordine materiale e morale » agli ex-combattenti e rimproverando al
partito socialista di essere stato « nettamente reazionario,
assolutamente conservatore », col negargli così qualsiasi possibilità
di « mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di
ricostruzione ». La conclusione del discorso, antimassima- lista ed
antitotalitaria, era in fondo quanto mai « futu- rista ». Così terminava
il Mussolini: « Noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà
e dell’intelligenza ». Al termine della riunione si nominava un comitato
centrale dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche
Vecchi e Marinetti. Il 1° di aprile Marinetti venne nominato
insieme a Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale
per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano nuclei di
futuristi, arditi e « principianti » fascisti assali- tu
rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno dopo i «
fattacci » del 15 aprile, visto il mancato inter vento delle forze
dell’ordine nel prender provvedimenti contro i promotori dell'azione,
Vecchi e Marinetti emise- ro un « proclama agli italiani » a nome dei
futuristi, degli arditi e dei fasci: « Nella giornata del 15 aprile
avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna
controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e ab- biamo orrore di
versare sangue italiano. La nostra con- trodimostrazione si formò,
spontanea, per invincibile vo- lontà popolare. Fummo costretti a reagire
contro la pro- vocazione premeditata degli imboscati. Col nostro
inter- vento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quat-
tro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono diri- gere e
dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia ». La « controdimostrazione »
si riferisce ad una manifestazione socialista all'Arena, cui seguì la «
battaglia di Via Mer- canti », dove furono chiari, secondo i reduci,
alcuni mo- menti di provocazione nei confronti del combattentismo
{da qui, l'assalto all’Avanti!). Sempre nell'aprile del *19 esce a
Milano per i tipi del- l’Editore Facchi un volume politico di Marinetti,
forse il suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che
porta come sottotitolo « dinamismo politico ». E' una rac- colta di
articoli apparsi su Roma futurista e che appari ranno sul nuovo giornale
di Vecchi, L’Ardito, generoso sempre di spazio per Marinetti. Questi
definisce il suo « concetto democratico » in un altro articolo edito in
apri- le sempre dall’Ardito: « Vogliamo dunque creare una vera
democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e l'esaltazione del
numero poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L'Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoranza genialissima tutta
costituita di indivi- dui superiori alla media umana per forza creatrice,
inno- vatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà natu-
ralmente in competizione con la maggioranza formata dal- le altre Nazioni,
per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca, cioè
democrazia incosciente ». Certo, si tratta di una nuova cancezione di
democrazia, 26 che con quella tradizionale, anche
attuale, non ha niente a che vedere. E' una lotta di democtazie, o una
demo- crazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto
diverso. E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto per
tener conto del suo opposto si mette a confronto, a dire di Marinetti,
così: « Arturo Labriola definisce la de- mocrazia "come sentimento
dei diritti concreti della mas- sa sullo Stato e sulla Economia“... Noi
intendiamo la de- mocrazia italiana come massa di individui geniali,
divenu- ta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural
mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza è fatta di
questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il
peso delle cellule morte (tradi. zione), meno il peso delle cellule
malate (incoscienti, anal- fabeti). La democtazia italiana è per noi un
corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per
accelerar- ne la velocità e centuplicarne il rendimento... ». Come
potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova con- cezione
democratica « progressiva »? Che così, giustamen- te, si conclude e si
definisce: «La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente
vibrare tutte le sue cellule vive ». E’ il punto d'arrivo,
logico e conseguenziale, di una concezione « d’assalto ». E per la
definizione ulteriore del- le posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919
ancora, sulle pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli
(Non chiamatela reazione) afferma: «Non è per l’ordine, non è in
difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile, non è in appoggio
alla così detta “benemerita” che noi ci siamo battuti a Milano, e ci
batteremo altrove, se se ne presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per
un princi- pio: è per l’idea di patria, è per il principio di
progresso, che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi op-
posti a muelli dei rivoluzionari russi ». Ciò nonostante Gramsci e
Lunaciarsky, al TI Congres- so dell'Internazionale comunista, difendono i
futuristi ita- liani e li considerano veri e propri « rivoluzionari ».
E Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, co-
DI A me direttore dell’Avanti!, si era
recato a Mosca a respi- rare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono
soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,
D'Annunzio e Marinetti ». Mentre a proposito di questo ultimo, cioè di
Marinetti e del suo movimento futurista, Gramsci così annotava in un suo
articolo pubblicato su Ordine nuovo nel 1921: « Distruggere, in questo
campo, non ha lo stesso significato che nel campo economico...
significa non avere paura della vanità e delle audacie, non avere paura
dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di
grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un
cartellone... I futu- risti hanno svolto questo compito nel campo della
cultura borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente
rivoluzionaria ». E continuava a migliore definizione del concetto: «
...Quando i socialisti si sarebbero spaventati al pensiero che bisognava
spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica, i
futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari:
in que- sto campo, come opera creativa, è probabile che la classe
operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quan- to hanno fatto
i futuristi! » L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto
d'’in- vito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio
Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportu- no per l’«
intervento ». L'occasione fu data alla fine del discorso di un deputato
socialista (Lucci). Martinetti si sporse e, rivolto a Nitti, gridò: « A
nome dei Fasci di Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali,
prote- sto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte
al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Mini- stero dei
sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori de- gli ufficiali, un
ministero che si difende coi carabinieri e coi poliziotti!..
Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla: Fate schifo!
Fate schifo! ». Vecchi an- cora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre
Marinetti lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso
nel suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indoma- ni
avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva: 2R
« Mio caro Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso come
ogni vostro atto. Vorrei vedervi. Se potete, venite. Il vostro Gabriele
D'Annunzio ». In settembre Mario Carli, con Mino Somenzi ed
altri futuristi, partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume (11
del mese): vi si recheranno anche Vecchi e Marinetti a tenere discorsi ai
legionari. Anzi, i due personaggi sembra fossero considerati, a dire di
De Felice « facinorosi sovver- sivi » o addirittura in qualche caso «
bolscevici », per il loro atteggiamento intransigente ed estremistico.°
Tanto che si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre erano
stati solo richiamati da Paselia, segretario politico dei Fasci, che
aveva bisogno di loro per l'organizzazione, forse, del primo congresso
fascista. All'inizio di ottobre, infatti, Marinetti partecipa a Firenze
al I Congresso dei Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di
Mus- soltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la ne-
cessità dello « svaticanamento »: « Noi dobbiamo doman- dare. volere,
imporre », dice fra l’altro il capo del futu- rismo, « l’espulsione del
papato, o meglio ancora, per usa- re un'espressione più precisa, lo
“svaticanamento” ». Nel novembre le elezioni generali vengono
condotte a Milano all'insegna del « blocco fascista » con lista
autono- ma di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrec- ca
e Bolzon. Comizi elettorali si tennero a Milano in Piaz- za Belgioioso
(10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e a Monza, dove parlarono sempre
« accoppiati » Marinetti e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle
votazioni, in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi
e Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla
sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande armate, come afferma
ancora il De Felice. Breton e Aragon, direttori della rivista
Littersture, or- ganizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a
Ma- tinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del
muoversi, lento, verso il surrealismo. Renzo De Felice, Mussolini
i! Rivoluzionario, cit., pag. 550. 29
&. Futurismo e socialismo Gli incontri e gli scontri,
oltre che gli incidenti, tra socialisti e futuristi non etano cosa nuova.
E la « battaglia di Via Mercanti » del 15 aprile fu solamente il punto
di arrivo di una vecchia e lunga polemica. Già negli anni
prebellici il futurismo si era scontrato col socialismo neutralista
(Turati), che non poteva andar d’accordo con un movimento intrinsecamente
interventista. Lacerba, per esempio, entrava nella polemica
affiancandosi al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13,
quel famoso Programma politico futurista, esaminato in pre-
cedenza. La postilla di Giovanni Papini non fa altro che convalidare, sia
pure con riserva, la sostanza del pro- gramma. A proposito di
socialismo interviene poi nel '14 sempre sv Lacerba, Ardengo Soffici,
affermando nel suo articolo Per la guerra che « l’idea che i socialisti
si fanno del mon- do è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle
prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le
arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni — tutto ciò
insomma che fa la vita così terribilmente com- plessa, così colorita,
così varia, multiforme, incoetcibile — non è nulla per loro. Tutto è
grigio, e l'universo intero una specie di ragnatela squallida senza
confini né orizzonti, eterna, in mezzo alla quale un ragno cetca di
succhiare una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non deve
lasciarsi succhiare ». Sicché, conclude Soffici, i socia- listi nemmeno
capiscono che si combatte una guerra per difendere anche, magari, le loro
stesse idee, o il mondo dove l’idea socialista è nata e cresciuta, contro
i nemici medesimi del socialismo e dei socialisti: i tedeschi. Ma
questo non ha nessuna importanza, « giacché, ed eccoci alla mentalità di
codesto partito, ogni buon socialista non vede nella guerra, qualunque
essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti
e banchieri i quali si servono del proletariato per liquidare le loro
partite ». La polemica continua com'è logico, dopo la
guerra. Il primo ad accenderla è Mario Carli su Roma futurista
30 con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo
signi- ficativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collabora-
re? Laddove si considera « partito d'avanguardia », ovvia- mente, anche
quello socialista, che tanta parte ha esercita- to nella storia d'Italia.
« Ho esaminato seriamente l'ipo- tesi », esordisce Carli, « di una
collaborazione fra noi {futu- risti, arditi, fascisti, combattenti, ecc.)
e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti,
sindacalisti, re- pubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro
le attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia.
mino borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.- tarismo... sono
una casta che deve cadere e cadrà », E cad- de infatti, come sappiamo,
però non certo per merito di quei socialisti con cui Carli stava cercando
di trovate un punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la
collabo- razione sarebbe stata difficile per non dire impossibile
o, peggio, inutile. Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco
alla sua tesi con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e
l'al. tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo contro
socialismo, il cui succo riesce già evidente. « Noi siamo contro il
socialismo », afferma Bottai, « perché astra- zione filosofica senza
possibilità di contatti vitali. Simbolo che si agifa nel mondo da secoli,
e di cui mai si è trovato, e mai si troverà la formula di traduzione in
positivi sviluppi di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo con-
tro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria ». Ii 14
dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Man- narese, avversario,
pubblica un articolo per espotre l’impos- sibile intesa fra le due
avanguardie, o l'impossibilità di ac- cordo in unione d’intenti e di
lavoro. Il Mannarese sotto- linea l'identità di socialismo e masse
proletarie con loro relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non
gli ne. sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente. Ci
pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese col suo secondo articolo
preciso ed aggressivo. Il titolo: Insisto: futurismo contro socialismo;
la data, 21 dicembre dello stesso anno. La posizione polemica si
specifica e si SAI puntualizza: « Prima
caratteristica del futurismo è questa, libera, sciolta sfrenata
spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensore dei suoi
salami, delle sue salsicce, poco male! ciò potrà darci la prova della sua
minchioneria, non già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro
so- cialismo” ». L’intonazione antibotghese è evidente e
forse si spo- sa, per così dire, con quella antisocialista, essendo
l'una complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere
antisocialisti senza essere antiborghesi, e viceversa non si può essere
antiborghesi senza essere antisocialisti, sembra quasi che dica Giuseppe
Bottai, e l’invettiva contro il sa- lumaio non ha nient'altro che questo
sapote... L'equazione « socialismo-proletariato », sostenuta
dal Mannarese, è vacua e falsa, dice Bottai, e bisogna distin-
guere, perché va da sé, afferma, che «il socialismo è uno dei tanti
sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità
di condizioni delle classi ». Lo esempio dato poi, del fenomeno
dell’arditismo, è quanto meno sufficiente e significativo a smentire una
tesi tanto inutile. Infatti, « in parecchi mesi di convivenza con
le fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, ope- rai,
lavoratori-proletari! »; e gli arditi non erano certo so- cialisti, anzi.
Tuttavia l’autore è ben consapevole della « portata economica » del
socialismo e nello stesso tempo delle esigenze dei ceti umili o dei
proletari, e degli scompen- si derivanti da queste esigenze anche per la
loro « cattura » da parte di un socialismo ignorante e incapace.
L'individuazione dell'errore di dimensione del sociali smo è
evidente, nonostante i successi già conseguiti. Tanto che, concludeva il
Botrai, nel cogliere le possibilità della formazione di un letale
assolutismo, con la postulazione del- la differenziazione futuristica da
esso, intesa nella diffusione di programmi e di rimedi economici: « Noi
siamo per la elevazione del popolo, e non per l'assolutismo di esso ».
Dove « il nai », è evidente, si riferisce ai futuristi ed al loro
movimento. « Tirando le somme », alla fine, si postula petsino
un programma, quasi, nei rapporti col socialismo, di cui i
32 punti più interessanti sono il secondo ed il quarto, cioè
l'ultimo. Il secondo postilla una « possibile comunanza di vedute
economiche: il che non implica nessuna fusione »; l'ultimo sostiene e
ribadisce, sottolineandolo tutto in maiu- scolo: « CONTRO IL SOCIALISMO
NON VUOLE DI- RE CONTRO IL PROLETARIATO ». La miopia del
socialismo nella considerazione dei futu- risti appare evidente e
inequivocabile. E si parla del so- cialismo dei primi del secolo, quello
storicamente più « ca- pace » di quanto non lo sia l'attuale, e consono
ad una realtà « epocale » ad esso, tutto sommato, più favorevole.
L’esito del socialismo italiano, confluito in massima parte nel fascismo,
non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi dei futuristi, che avevano
saputo vedere la sua « minima portata » da inserire, eventualmente, nel
panorama di una prospettiva ben più vasta e diversificata.
9. Futurismo e Fascismo A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce
la sua « Carta del Carnaro ». Siamo agli inizi del ’20 e la nuova
proclamazione statutaria sarà base fondamentale per la suc- cessiva
politica sindacale fascista (si veda la Carta del La- voro ad esempio).
Sempre a Fiume Mario Carli dirige il nuovo foglio di vita istriama La
Testa di Ferro, sulle cui colonne (la seconda, per l'esattezza, della
prima pagina) ;l 12 settembre esce un riquadro firmato da Marinetti.
Che così commenta la Prima vittoria della quindicesima batta- glia,
come dice il titolo della pagina: « Nell’applaudite oggi D'Annunzio,
liberatore di Fiume, penso che questo mera- viglioso genio riassuntivo
della nostra razza, uscito dalle alcove del Pizcere... dopo aver
esplorato le profondità del la lussuria... ha logicamente... strappato
Fiume all’imperia- lismo europeo e americano, ed ora deve, seguendo la
linea della sua fortuna inesauribile, logicamente, con genio sem-
pre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Pa- pato e dalla
Monarchia, e creare la grande Repubblica Ita- liana ». Siamo di fronte
aul'« ittedentismo integrale » che 59 i
futnristi sostenevano contro l’« irredentismo mutilato » di Bissolati,
favorevole al Patto di Londra. Di cui il movimento per contro chiedeva
un’« estensione », oltre che una modi- ficazione del Patto di Roma in
modo che si potesse favo- rire l’inserimento italiano sulla costa dalmata
e garantire all'Italia l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di
Rapallo, poco dopo, dichiarerà Fiume «città libera » ed assegnerà
Zara all'Italia. 11 24 e 25 maggio dello stesso anno si tiene a
Milano il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che segna una
svolta del movimento o anche — si potrebbe dire — una sua conversione in
senso « conservatore ». Si assiste ad un parziale ma consistente ricambio
del nucleo dirigente fa- scista. Solo 10 membri su 19 del comitato
centrale eletto a Fitenze vengono riconfermati: tra essi Marinetti e
Ferruc- cio Vecchi. Mussolini sostiene un nuovo indirizzo:
l'accordo fra proletariato e borghesia produttiva, tipico di quel
fascismo « provinciale » che stava prendendo il sopravvento. Mari-
netti reagisce confermando la sua intransigenza antimonar- chica ed
antipontificia. I Fasci di Combattimento, come riporta ancora il De
Felice, avrebbero dovuto, secondo Marinetti, iniziare « una politica
decisa in difesa delle ri- vendicazioni proletarie, appoggiando e
scioperi e agitazio- ni che siano fondati o formulati su un principio di
giu- stizia ». Mussolini aveva cercato di replicare che i Fasci «
hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un chiaro contenuto economico
», ma aveva sottolineato di non po- ter accettare la pregiudiziale
antimonarchica e: « Quanto al Papato, bisogna intendersi: il Vaticano
rappresenta 400 milioni di uomini sparsi... Io sono, oggi,
completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici
sono problemi politici... ». « Il 29 maggio 1920 », racconta
lo stesso capo del futurismo nel suo volume Futurismo e Fascismo
pubbli cato quattro anni dopo, « Marinetti e alcuni capi futuri-
sti escono dai Fasci di Combattimento, non avendo po- tuto imporre alla maggioranza
fascista la loro tendenza antimonarchica e anticlericale ». Gli altri
«capi futuri 34 sti» sono Mario Carli e
Neri Nannetti, appena eletto a Milano come membro del comitato centrale
per Firenze. Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo,
anche per la crisi interna che stava attanagliando l’« Associa-
zione fra gli Arditi d’Italia ». La spaccatura risulta evidente
all'uscita dell’opuscalo Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da
Marinetti, per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta
allo svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei
Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà la sua seconda opeta
politica (dopo Democrazia futurista, del ’19), quella più ricca di spunti
e di idee: quella, in- somma, sua fondamentale. L'opera è
dedicata sul colophox « Ai futuristi francesi, inglesi, spagnoli, russi,
ungheresi, rumeni, giapponesi »: it che esprime già tutto un programma.
Fra le sue tesi, dd esempio queste: « Noi futuristi abbiamo stroncato
tut- te le ideologie imponendo dovunque la nostra nuova con-
cezione della vita, le nostre formule d’igiene spirituale, il nostto
dinamismo estetico, sociale, espressione sincera dei nostri temperamenti
d’italiani creatori e rivoluzionari... L'umanità cammina verso
l'individualismo anarchico, me- ta e sogno di ogni spirito forte. Il
Comunismo invece è una vecchia formula mediocrista, che la stanchezza e
la paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in mo- da
spirituale... La storia, la vita e la terra appartengono agli
improvvisatori. Odiamo la caserma militarista quanto la caserma
comunista. Il genio anarchico deride e spacca il catcere comunista
». Fu questo passo a provocare la reazione dell’Ardito? Che
ben presto si fece sentire, a più riprese, per deni- grare il volumetto
marinettiano, mentre al contrario La Testa di Ferro ad opera di un gruppo
di futuristi fiumani (e di Mario Carli, ardito a sua volta) elogiava
pubblica- mente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già futu-
tista, interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con una «lettera
aperta a F.T. Marinetti » per mettere in ri- salto la sua posizione
critica all’atteggiamento anarchicheg- piante dello scritto,
inconciliabile con qualunque espres- 35
sione di potere, sia pur di tipo « tecnico », come quello a suo
tempo proposto dallo stesso « padre » del futuri smo. L'attacco di Bottai
è senz'altro il più autorevole e i] più significativo.
L'ideologia del fascismo-regime (da parte di un mini stro in
pectore come Bottai) cominciava già a farsi sen- tire. E si chiudeva,
ovviamente, almeno sul terreno sto- rico della prassi politica,
l'ideologia del fascismo-movi- mento, quello dell’intransigenza e del
fervore mistico, del libertarismo e dell'avanguardia, dell'anarchismo e
dell’an- tiautoritarismo verso la monarchia ed il papato. Il pos-
sibilismo politico e il realismo tattico per la conquista del potere
subentrano e il fascismo-regime si muove or- mai, anche se lentamente,
sotto la guida del suo abile e « compromesso condottiero ». A
Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il suo « canto del cigno
» politico (Al di là del comunismo), il ritorno alla letteratura.
10. La dimensione futurista Nel 1921 esce a Piacenza per i
tipi dell'Editore Porta il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al
Fu- turismo. Il giudizio più interessante è senz’altro quello di
Luigi Russo, che così si esprime al proposito: «Il Flora, mentre vi grida
il superamento sillogistico dell’ar- te decadente, la guarigione del suo
spirito dal generale futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo
rumorosa e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futu-
rismo ». Pirandello pubblica nello stesso anno I sei per- sonaggi in
cerca d'autore. Marinetti sostiene che sono ispirati al futurismo e al
suo spirito creatore. Il con- gresso socialista di Livorno si spacca, e
dalla scissione si forma il neonato partito comunista. A Catania
vede la luce la nuova rivista futurista Heschisch. Nel 1922
il fascismo salirà definitivamente al potete. Marinetti fonda una nuova
rivista, I{ Futurismo, che di- rige in prima persona. A Berlino sarà poi
tradotta in 36 edizione tedesca (Der
Futurismus), a cura di Ruggero Va- sari. Bragaglia fonda a Roma il Teatro
Sperimentale de- gli Indipendenti, primo teatro stabile italiano, da Ivi
di retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere d'’avan-
guardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza si crea
l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasfor- mato poi in Biennale
e dal ’30 definitivamente in Trien- nale, con sede nel palazzo di Milano
(al parco, arch. Mu- zio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28
ottobre, forma il governo con radicali e liberali, e istituisce il
Gran Consiglio del Fascismo. Giuseppe Prezzolini, come
sempre lucidamente, poco prima del « grande ritorno » del futurismo al
fascismo, metteva ancora una volta in risalto «come possa l'arte
futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano, non si vede. C'è un
equivoco, nato da una vicinanza di per. sone, da un’accidentalità
d’incontri, da un ribollire di forze, che ha portato Marinetti accanto a
Mussolini. Ciò andava bene durante il periodo della rivoluzione.
Ciò stona in un periodo di governo. Il Fascismo italiano non può
accettare il programma distruttivo del Futuri smo, anzi, deve, per la sua
logica italiana, restaurare | valori che contrastano al Futurismo. La
disciplina e la gerarchia politica sono gerarchia e disciplina anche lette-
raria. Le parole vanno all’aria quando vanno all'aria le gerarchie
politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vin- cere la sua battaglia,
deve ormai considerare come as- sotbito il Futurismo in quello che il
Futurismo poteva avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto quello
che esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico, di
indisciplinato dal punto di vista dell’arte » (da I/ Secolo, 3 luglio
1923). Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla Galleria
Pesaro di Milano una mostra dell'« Arte del Novecento ». Si trattava di
un gruppo formatosi alla fine del ’22 in- torno alla medesima galleria
milanese, che affiancava la nuova tendenza del regime in senso
conservatote, già san- cita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio 1920).
L'animatrice del nuovo movimento « Arte del Novecen- 37
to» era Margherita Sarfatti. Il gruppo fu accolto, nean- che due
anni dopo dalla sua costituzione, alla Biennale veneziana del ’24, e si
affermò definitivamente attraverso due ulteriori mostre: una del '26 al
Palazzo della Perma- nente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria
Pesaro, sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al
regime e aderenti ancora, in fondo, all'avanguardia, fu- rono ammessi
alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal pa- diglione italiano
additittura... Nel 1924, all'inaugurazione della Biennale,
Marinetti si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli
de- nuncia gridando «l’incapacità senile e antitaliana della
Direzione, che massacra i giovani artisti italiani ». L’in- tervento di
Marinetti suscita scandalo. Tuttavia nello stes- so anno 1924 si verifica
anche un cetto riavvicinamen- to tra futurismo e fascismo, e forse anche
tra Marinetti e Mussolini. L’occasione viene data dall’edizione
della terza ed ultima opera politica del capo futurista, che, co-
me già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce a Foligno per i
tipi dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso anno escono
diverse altre signifi- cative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino
Maccari fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed
Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio fu- turista
Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra i suoi collaboratori
Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin, Quest'ultimo scrive un saggio su
Marinetti e il futurismo. Gerardo Dottori, altra collaboratore di
Originalità, crea le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito
come espressioni del « secondo futurismo ». A Milano si tiene
il Primo congresso futurista e So- menzi vi organizza le onoranze
nazionali a Marinetti. Siamo al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro
Dal Verme di Milano. Mino Somenzi legge il telegramma di Mussolini:
« Considerami presente adunata futurista che sintetizza 20 anni di grandi
battaglie artistiche politiche spesso consacrate col sangue. Congresso
deve essere punto di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale
ami- cizia e ammirazione ». Alle 16 parla Marinetti, che con-
38 clude i lavori del congresso, così
rivolgendosi all’indirizzo del « duce »: «I futuristi italiani, primi fra
i primi in- terventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e
primi fra i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed
all'arte, lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno
Benito Mussolini: Con un gesto di forza ormai indispensabile liberati dal
parlamento. Restituisci al Fa- scismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima
diciannovista, disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale,
antimo. narchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvi-
sotia funzione unitaria, rifiutale quella di soffcare o mor. finizzare la
più grande, la più geniale e la più giusta Italia di domani. Non imitare
l’inimitabile Giolitti, imita il Grande Mussolini del diciannove. Pensa
sempre all’Italia immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione
cle. ricale antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di A’ bertini con una ferrea
dinamica aristocrazia di pensiero armato che soppianti l’attuale
demagogia d’armi senza pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo
volerlo e lo vogliamo ». Lo vollero, ma non lo realizzarono. La
volontà può essere bella, ardita, ispira ai più alti sensi di giustizia,
anche se non sempre la realizzazione le tiene dietro. Come in questo
caso. Mussolini telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un
banchetto « romano » offerto da Carli e Settimelli a Ma: rinetti: « Sono
dolente di non poter intervenire al ban: chetto ofterto a F.T. Marinetti.
Ma desidero che vi giun- ga la mia fervida adesione che non è espressione
formale ma vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile e
geniale assertore di Italianità, per il poeta innovatore che mi ha dato
la sensazione dell'oceano e della macchi- na, per il mio caro vecchio
amico delle prime battaglie fasciste, per il saldato intrepido che ha
offerto alla Pa tria una passione indomita consacrata dal sangue ».
Ma. rinetti si era già trasferito a Roma con Benedetta. La capitale
diveniva così anche centro del futurismo. In que. sta stessa occasione
Marinetti dichiarava, un'altra volta inascoltato: « Vi sono in Italia
forze che osteggiano la 39 nostra idea imperiale, combattiamole,
non dimenticando però fra queste la più segreta e la più antitaliana:
il Vaticano! ». Un discorso di Mussolini alla Camera (3
gennaio 1925) dà inizio al vero fascismo-regime. A Tortino si tiene
a Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista. La tendenza al
riavvicinamento ira i due movimenti è già indicata nella dedica di
Futurismo e Fascismo: « Al mio caro e grande amico Benito Mussolini ». Il
che dimostra, in fondo, una certa volontà di non troncare i contatti:
ma anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi sostenute
sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è definito «
meraviglioso temperamento futurista »: e non risuoni però ad adulazione,
perché il tentativo di recu- pero del futurismo in senso artistico e
letterario (o cul turale in senso lato) è evidente, nonostante
l'occasionale « dimensione » del movimento nell'attività e
nell'impegno politico. Non senza motivo, il volume prende inizio
con queste parole: «Il Futurismo è un grande movimento
antiflosofico e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pu- gni... ». E
subito dopo: « Fra le tante definizioni io predi- ligo quella data dai
teosofi: “I futuristi sono i mistici dell’azione”. Infatti i futuristi
hanno combattuto e com- battono il passatismo... ». Il nuovo regime e la
portata storica di realizzazione di quello che si considera il
patri- monio del futurismo è così giudicato: « Vittorio Ve- neto e
l'avvento del Fascismo al potere costituirono la realizzazione del
programma minimo futurista ». Dove si dimostra in fondo la connessione
inscindibile tra futuri. smo e fascismo, ma nello stesso tempo il
distacco, in questa realizzazione « minimale »; comunque la
mancanza di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.
« Questo programma minimo », specifica ancora Ma- rinetti, «
propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione dell'impero
austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore del pericolo... ». Ma,
alla fine, quello che più conta è che «il Futurismo italiano, tipicamente
patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha
nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello
40 bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato
». Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano di
Stato. « Il futurismo », afferma ancora il nostro, «è un mo-
vimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte po- litiche
soltanto nelle ore di grave pericolo per la Nazio- ne », E un'altra volta
a migliore definizione della posi- zione concettuale o della sua immagine:
« Il Fascismo nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di
prin- cipî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Fu-
turismo opera invece nei domini infiniti della pura fan- tasia, può
dunque e deve osare osare osare sempre più temerariamente. Avanguardia
della sensibilità artistica ita- liana, è necessariamente sempre in
anticipo sulla lenta sensibilità delle masse ». La
consapevolezza della difficoltà del consenso è più che sentita, ed è
convinzione al tempo stesso che il fa- scismo sia più capace di farsi
accogliere o di comunicare certe necessità, e certi principî. E la
convinzione implica la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto ©
mutuato idee e « posizioni » dal futurismo, solo ed esclusivamente.
Senza che mai sia avvenuto il contrario. Ed appare evi- dente, perché non
viene mai fatto cenno a questa secon- da ipotesi: che cioè sia stato il
futurismo ad attingere al fascismo. Anche se affiora l’« autocritica »,
l’interroga- zione, il domandarsi sotterraneo della coscienza...
« Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste su- perate o da
scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee vittoriose tengano
fermamente le posizioni conquistate. Per esempio questo principio: “Noi
vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata fe-
roce ma necessaria nel pantano letterario di sentimenta- lismo
dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i gio- vani malati di luna e di
donne fatali ». La condanna della decadenza di un romanticismo
fiac- co e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è
quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla per una
necessità di spirito, per una volontà di resurre- #4
zione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di capacità creativa
e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo scontro e alla conflagrazione,
quella della guerra, che è guerra di sentimento e di volontà, prima
ancora che di occasione politica. « Oggi », continua
Marinetti, « l'Italia è piena di gio- vani forti e sportivi. Ma molti
purtroppo sacrificano ad una donna la loro volontà di conquista e
l'avventura... Dopo Vittorio Veneto io predicai la necessità per
ogni combattente di diventare un cittadino eroico... Oggi esi- ste
uno Stato fascista che tutela il diritto individuale. Ma bisogna
alimentare ancora lo spirito del cittadino eroi- co, amico del pericolo e
capace di lotta, poiché occorretà improvvisare domani gli indispensabili
volontari della nuo- va guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina.
Perciò è sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra
sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete delle for- ze telluriche,
il Futurismo, manometro della nostra pe- nisola (caldaia bollente!), odia
i macchinisti incapaci. Si palesano tali i culturali d’Italia che
verniciati di patriot- tismo parlano oggi d’Impero, con un'anima
pacifista pron- ti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano
che Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una
lezione sulla Roma Imperiale! ». Ecco, ancora, la coscien- za di cui
parlavamo prima: quella della curiosità anti- quaria di una cultura
d’accatto non più in grado di te- nere il passo della storia e di muovere
lo spirito della giovinezza vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime
in una testimonianza, ancora una volta, di vita e di speran- za,
che è vita perché è speranza del futuro. « Noi futuristi parliamo
d’Impero convinti e lieti di batterci domani... Parliamo d’Impero perché
è venuto per l’Italia il momento di prendere le tetre
indispensabili... IÎ programma politico futurista lanciato l’11 ottobre
1913 che propugnava una politica estera cinica astuta e aggres-
siva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose tengano fermamente le
posizioni conquistate. Le nuove idee si slancino all'assalto. Marciare
non matcite! ». Firmato: F.T. Marinetti. 42 Il
futurismo ha dimostrato di voler procedere sulla strada del nuovo: il
fascismo lo ha accolto ed ha accon- disceso, almeno fino a un certo
punto, al suo messaggio. Oltre è stato frenato, forse, non solo dal «
borghesismo », ma anche da quel socialismo, che avanti non è mai
stato capace di andare e che di nuovo ha portato solamente vuote
formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben ade- rente al reale, e
capace di ritirarvisi anche, nel caso di inadempienza (o di mancanza di
corrispondenza) della realtà ai suoi messaggi. Marinetti
docet, proprio con quel fascino che aveva voluto, o con cui aveva
marciato, e in cui aveva creduto senza marcire mai, nemmeno nell’auge del
regime, quan- do avrebbe potuto sedersi sulle comode poltrone di un
otmai «arrivato » futurismo di «destra ». Ma il futuri- smo per Marinetti
era e rimaneva comunque movimento d'avanguardia artistica e culturale,
nonostante gli agganci più 0 meno politici, più o meno di regime, e
nonostante l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un «
fu- turista », ma era e doveva essere prima di tutto il capo dello
Stato e il « duce del Fascismo ». E il fascismo ave- va preso e doveva
tenete ormai una certa linea, molte volte non gradita, o valida, per il
futurismo, ed anzi pro- prio al contrario. La gloria di Roma
rievocata nel monumentalismo classicheggiante, il novecentismo ricalcante
vuoti modelli di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la
riesumazio- ne del mito della storia come copia di grandezza e no-
vella misura di falsa gloria, erano tutti temi aborriti da Marinetti
proprio perché segni ed indici di « passatismo », messaggi sterili di una
mentalità ferma e statica, incapace di dare alcunché di vitale all'Italia
in movimento. Ma- rinetti era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e
no- nostante il fascismo, « futurista », come lui amava defi-
nirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti però, anzi forse
troppo pochi. 43 11. Marinetti e
Mussolini Marinetti, quindi, futurista, e futurista nonostante
tut- to, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel che il
futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche grande oratore
Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di genio letterario e
improvvisatore della parola, più 0 me- no libera o in libertà che
fosse. Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella
ricerca del consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava per stimolare
la curiosità, per muovere l'incanto del- l'espressione. La sua
oratoria fu essenzialmente artistica, il suo discorso fu culturale e
poetico. Mussolini forse in parte la imitò, sempre attenendosi
all’oratoria politica e trasformando il messaggio letterario in presenza
ideo- logica e in colloquio « popolare ». Forse qui sta inoltre la
differenza fra i due movimenti: il futurismo avanguar- dia di rottura e
il fascismo sistema di potere. Anche se il primo l’aveva spinto e
sorretto nella sua azione di con- quista. Il fascismo è allora per un suo
aspetto futurista, e non invece il contrario. E' la realizzazione di quel
« pio- gramma minimo futurista » che abbiamo già esaminato. E
Mussolini si può dire fosse stato anche futurista, o comunque molto
vicino al movimento di Marinetti. E gli era stato anche amico, o c’era
stata una reciproca comunanza di sentimenti, che non esula
dall’amicizia. Ma Mussolini era stato anche socialista, anzi lo era
sta- to davvero e « fino in fondo ». Che fosse anche per que- sto
che i futuristi non potevano essere completamente fascisti? O non si
potevano identificare completamente nel regime? Almeno i futuristi
autentici, quelli più « idea- listi ». Il futurismo era stato
sempre e comunque antisocia- lista, in modo integrale, totale come si è
visto. E lo era stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione
cultu- rale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegua-
litario, per il suo slancio antipassatista di svecchiamento. Lo
schiaffo ed il pugno, la velocità e l’aggressione, la lotta e la vittoria
erano tutti temi o motivi antisocia 44
listi. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocia- lista. In
primo luogo per le origini del suo capo, per la sua
formazione-estrazione, per i suoi intendimenti di visuale che non si
erano spenti del tutto, ma si erano solo attenuati e modificati: e si
erano travasati, anche, nella novità del futurismo.
Comunque, e malgrado questo, il fascismo rimase e resta agli atti della
storia un «movimento di massa », una « realtà sociale », un fenomeno
popolare, un sistema del numero in scala comunitaria e nazionale: questo
è acquisito, ed è incontestabile. E non può essere confutato dagli
storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse que. sto « popolarismo »
e, se vogliamo anche, riuscì lenta. mente e gradatamente ad «imporlo ».
Ma non volle mai l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di
favo. rire la distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso
alla competizione nel campo dell’arte e l’amicizia con l’amico-nemico
Marinetti ne sono garanti. L’amicizia fra i due personaggi non fu
esclusivamente un fatto episo- dico o della prima ora; fu un fatto
profondo e vitale, forse inalienabile ed « assoluto ». E durò, a
controprova del vero, fino alla morte. Quando Marinetti,
reduce dalla guerra di Russia per cui si era arruolato volontario
(malgrado i suoi 64 anni), aderiva alla Repubblica Sociale Italiana dopo
i tragici fatti dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo fede ad
un’ami- cizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Mari-
netti era partito per la Russia all’insegna della coerenza, non potendo
contraddire il suo messaggio della guerra « sola igiene del mondo ».
Messaggio che anche il « duce » aveva sentito, forse tragicamente e forse
fuori tempo. Ma lo aveva comunque sentito, e l’amicizia con Marinetti
e la sua nomina ad Accademico d'Italia lo dimostra. Quan- do
avrebbe benissimo potuto « bruciarlo ». E aveva an- che sentito che il
nuovo secolo richiedeva un cambiamen- to, che si doveva in qualche modo
maturare. Volle promuoverlo e accelerarlo (da « futurista »?),
in- tervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase
coinvolto e definitivamente « inghiottito ». 45
Marinetti si era salvato, e con se stesso aveva salvato la poesia.
La guerra (leggi: politica) non poteva averla distrutta. In età
avanzata era rientrato a vivere brevemente, a lot- tare fino all’ultimo
per consegnare a Venezia un messag- gio, quello vitale e ineliminabile «
verso il futuro ». I suoi discepoli lo accolsero come un testamento e
qualcuno lo trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la
trasmu- tazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo docu-
menta ancora per la verità storica e per la risonanza del- l'oggi. E,
forse, per un nuovo futuro di domani. 12. Sindacalismo
futurista II fascismo aveva creato la « Carta del Lavoro »,
che ricalcava a sua volta quella ptima espressione originale di
emissione statutaria d’impronta sociale, che era stata la dannunziana «
Carta del Carnaro ». Ma già prima i futuristi avevano inteso una «loro »
sindacalizzazione in senso artistico, ed avevano ancora una volta concepito
un manifesto. Si tratta del manifesto al governo fascista del 1°
maggio 1923 intitolato I diritti ertistici propugnati dat futuristi
italiani. I diritti rimasero in gran parte sulla carta, ma
l’in- tenzione era evidente: quella di creare una specie di « car-
ta sindacale » per la costituzione dei « sindacati artistici futuristi »,
atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti eventualmente bisognosi.
Oggi quel poco che offre il sin- dacalismo dell’arte è dovuto per lo più
al sindacalismo futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del
mu- tuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già pre- sente
nella mentalità futurista, orientata sempre verso giustizia (in questo
caso, giustizia dell’arte). Il proleta- riato delle rappresentanze
artistiche è fatto ben noto, e non da oggi: non ne furono esenti i
futuristi, che anche in questo senso furono rivoluzionari veri e propri,
e cer- 46 catono comunque il rinnovamento. E vollero
un’istituzio- ne che li garantisse dalla loro precarietà, dalle loro
dif- ficoltà e dalla loro miseria. La «Banca di Credito» per
artisti fu iniziativa di Marinetti, in seguito approvata e patrocinata
dal « duce ». Che così rispose per l’occasione all'amico futurista: «
Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per la
costituzione di una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo
che saprai sormontare gli eventuali osta- coli dei soliti misoneisti. Ad
ogni modo questa lettera può servirti di viatico. Ciao, con amicizia.
Mussolini ». Si trattava di una vera € propria forma di «
assicu- razione del denaro » che doveva favorire gli artisti, o
sod- disfare le loro necessità. Ma non solo Îa costituzione della
Banca di Credito chiedeva il manifesto del ’23, firmato da Martinetti «
per la direzione del movimento-futurista e per tutti i gruppi futuristi
italiani ». Si volevano anche realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti
italiani novatori in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo
Stato, dai Comuni e private... 2) Istituti di credito artistico ad
esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani [dove si propone
l’apertura d’istituti di credito per la sovvenzio- ne di artisti,
manifestazioni artistiche ed Istituti d'arte. Tali istituti si manterrebbero
con la buona volontà degli aderenti, se privati, o con imposte sui
redditi di guerra, pet esempio, se statali. Le opere d'arte depositate
co- stituirebbero valorizzazione fruttifera per l’artista medesi-
mo, ecc., n.d.r.]... 8) Agevolazioni agli artisti [tramite il
riconoscimento legale dei diritti d’autore, la riduzione del 75% della
tariffa per i viaggi degli artisti e il tra- sporto delle loto opere,
l'abolizione delle tasse doganali nell’importazione ed esportazione delle
opere d’atte, il catico sull’assicuratore delle spese per lettere di
cambio o assicurazioni delle opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come si
vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma stavano ben calati nel
presente e cercavano di opetare e di agire di; presente pet migliorare e
per rendete più giusto il uturo. 47 13. Il
secondo futurismo Col « ritorno all’ordine », come si definisce
dagli sto- rici l'affermazione del fascismo e la sua lenta
istituziona- lizzazione in regime, si parla anche di modifica del
futu- rismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà siste- matica
e organizzativa, conseguita al periodo rivoluziona- rio; e si chiacchiera
ancora di «secondo futurismo ». Anche se il futurismo, primo o secondo
che fosse, non ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione
del l'arte nell’« ordine fascista ». Dice il critico Enrico Cri-
spolti in un suo saggio, e lo asserisce in modo catego- rico e
definitivo: « In questo senso è politicamente inam- missibile e
culturalmente scorretta una liquidazione del Secondo Futurismo in quanto
collusivo out court con il fascismo »’. Ma come si atriva a
questa seconda definizione del movimento? E poi eventualmente alla sua «
demonizzazio- ne » 0 « fascistizzazione » in senso politico? Avevamo
già visto nel ’24 Gerardo Dottori « prova- re» le sue prime aeropitture.
Nel frattempo i futuristi continuano a scambiarsi esperienze ed a
lavorare intensa- mente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi
velocemen- te e freneticamente, « alla futurista ». Nel 1926
vengono invitati diversi futuristi italiani alla International
Exhibi- tion of Modern Art di New York. Nello stesso anno alla IX
Biennale d'Arte di Reggio Calabria espongono Depero, Tato, Benedetto,
Rizzo, Fillia e Dottori. A_Mi- lano intanto al Palazzo della Permanente
si allestisce la seconda mostra, che abbiamo già visto, del
Novecento, ormai in auge e prossimo ad assurgere ai fasti della
glo. ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale del neo-
costituito « Gruppo 7» di architettura, composto da Ter- ragni, Libera,
Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco. Nel 1928 i futuristi
partecipano finalmente alla XVI Biennale di Venezia. A Torino,
all'Esposizione Nazionale, ? Enrico Crispolti,
Appunti riguardanti i rapporti fra futurismo e fascismo, in Arte e
Fascismo in Italia e Gertania, Feltrinelli, Mi- lano 1974, pag. 54.
48 si allestisce un padiglione di architettura
futurista, con opere di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia, Prampolini
e Chiattone. Nel 1929, 33 futuristi espongono ancora alla «
Pesa: ro » di Milano (Balla, Farfa, Benedetto, Lepore, Dottori,
Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo Primo dizionario
aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato, Somenzi, Benedetto, Rosso,
Prampolini e Dottori lancia- no il famoso Manifesto dell’Aeropittura.
Terragni termi. na 2 Como la costruzione di Novocomum, nuovo
edificio residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18 matzo
nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su istanza
personale di Mussolini. Esce per le Edizioni di Augustea,
Roma-Milano, il volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima
espres- sione di letteratura politica del capo futurista. L’opera
ricalea in termini ancor più encomiastici e «di suppor- to» il già «
conciliante » Futuriszzo e fascismo (1924). Il volume esce ancora
dedicato « Al grande e caro Benito Mussolini », definito questa volta già
nella prima pagina « temperamento esuberante, strapotente, veloce. Non
è un ideologo. Se fosse un ideologo, sarebbe incatenato dalle idee
che sono spesso lente, e dai libri che sono sempre morti. Egli è invece
libero, scatenatissimo. Fu socialista e internazionalista, ma soltanto in
teoria. Rivolu- zionario sì, ma pacifista mai ». Il che equivale a dire
« futurista ». Del socialismo di Mussolini abbiamo già parlato,
e della sua portata teorica, a questo punto effettivamente e «
praticamente » confermata. Del futurismo « fascista » di Marinetti si
sono scritti fiumi d’inchiostro e sproloqui di parole. La dimostrazione
più lampante della sua parte- cipazione estetna al fascismo e della sua
continua difesa del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto
di onorari e prebende: unica « accettazione » per contto,
quella dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per di- fendere il
fututismo e per «lanciarlo » meglio in Italia ed all’estero.
Nel 1930 Terragni realizza un monumento a Como 49
su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rie-
laborato da Prampolini) in occasione delle « Onoranze Nazionali
all'architetto futurista Sant'Elia », che viene commentato anche alla «
Pesaro » di Milano. Marinetti pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti
futuristi par- tecipano alla IV Mostra delle Arti Decorative di
Monza ed alla XVII Biennale di Venezia. Nello stesso anno Ma.
rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo i) Ma- nifesto
dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropit- tura del *29. E’ il «
momento» dello sviluppo aereo e dell’aeronautica: è giusto che il
futurismo si muova nella direzione del progresso e senta, ritragga e
proietti la nuo- va dimensione aerea dello spazio verso il futuro.
Nel 1931 esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impe- to. Nel 1932 la
Galleria « Pesaro » allestisce una mostra vera e proptia, ed esclusiva,
di « aeropittura ». Fortunato Depero ottiene che gli venga concessa una
sala « perso- nale » alla XVII Biennale veneziana. Prampolini erige
un plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra della
Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno della nuova
collaborazione politica. Ciò non toglie che le realizzazioni esprimano
intenti d'avanguardia. L’Istitu- io Editoriale Italiano pubblica per la
prima volta i Ma- nifesti del Futurismo, in quattro volumi.
Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris il volume sugli
Elementi dell’Architettura funzionale; Terragni comincia la costruzione
della Casa del Fascio di Como. Mino Somenzi fonda il nuovo periodico
Futurismo, definito «settimanale dell’artecrazia italiana ».
Cambierà poi titolo in Atfecrazia. Nel 1933 Hitler sale al
potere e sconfessa l’arte mo- derna (l'espressionismo, nella
fattispecie). Vasari organiz- za con Marinetti una mostra futurista a
Berlino nel ten- tativo di promuovere, e di far recepire le avanguardie
al nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno il Congres- so
nazista di Norimberga condannerà « al rogo » l’« arte degenerata ». Esce
la rivista Diamo futurista, diretta da Depero; il periodico di
architettura Casebella è invece di- retto da Pagano, mentre Bardi e
Bontempelli pubblicano 50 Quadrante.
Prampolini progetta una stazione per aero- porto civile al padiglione
futurista della V Triennale di Milano, mentre al Castello Sforzesco si
organizzano le onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di
Paul Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky ed Ezra
Pound. Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto dell’Aero-
plastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittu- ra. Fillia e
Prampolini pubblicano a Torino la nuova ri- vista Stile futurista, dalle
cui colonne Prampolini attacca Hitler per le posizioni naziste sull’arte
espresse a Norim- berga. I futuristi partecipano ancora alla XIX
Biennale di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti di-
fendono l'avanguardia in occasione della mostra « Aero- pittura futurista
italiana », organizzata appositamente in polemica alle censure naziste. A
Lipsia ancora Vasari pub- blica Aeropittura, arte moderna e reazione, che
dimostra la voce della nuova avanguatdia italiama improntata ai
progressi aeronautici ed in polemica contro i soliti passa- tisti «
censoti ». Marinetti nel ’35 parte volontario per la guerra
di Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra futurista. A Roma
i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Ma- rinetti pubblica
l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che ispirerà poi ancora molti
aeropittori. Nel 1936 Prampa- lini realizza un salone da riunioni per
municipio alla VI Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla
XX Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del « primo
futurismo ». Mussolini proclama l’Impero. Nel giugno 1937 la
mostra di Monaco attacca e de- nuncia l’« arte degenerata » con
esemplificazioni e « di- mostrazioni ». Viene messa in luce per contro, o
in risal- to, l'arte « sana » nazista. Cominciano le polemiche e le
divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e « d'ordine » at- tacca, e
nuove violente polemiche scuotono l'avanguardia. Il Popolo d'Italia e IL
Perseo, diretto da A.F. Della Porta, muovono guerra al futurismo.
Quest'ultima rivista aveva già polemizzato, insieme a Il regime fascista
di Farinacci, con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni: «
Noi b} | siamo dell’opinione », si legge
su Il Perseo del 15 giugno 1937, « che il Fascismo ha tutto da perdere da
un’allean- za col Futurismo e sia pure da una semplice connivenza
». Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che contrattac- ca
in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futu- rismo. Difendo il
Futurismo è la raccolta dei testi di So- menzi pubblicati sulla rivista.
Editi nel '37, sono l’opera più coraggiosa e significativa della polemica
per la lotta dell’avanguardia. 14. Futurismo di destra e
futurismo di sinistra L’avanguardia, del resto, è sempre
eterogenea e sfac- cettata. Ecco perché si parla di « destra » e di «
sinistra » all'interno del futurismo nella fase della « maturità »
(il cosiddetto « secondo futurismo »). Destra e sinistra sono
termini abusati e « inflazionati », buoni per tutto. Se ne fa spesso uso
eccessivo ed improprio, semplicistico e gra- tuito. D'altra parte, poiché
avviene ancora e soprattutto oggi, non si vede perché non dovesse
avvenire allora, quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di «
de- stra » e di fascismo di « sinistra ». Il « centro »,
almeno nelle avanguardie, non ha ten- denze, o ne ha molto pache e solo
per qualche momento. Il « centro» ha poche tensioni, pochi impulsi
vitali, di rinnovamento. Il « centro », quindi, risulterebbe
amorfo, inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione.
L’avan- guardia allora sta a « destra » 0 a « sinistra »: non è mai
al « centro », o almeno è difficile che lo sia. Il futurismo fu forse
un’avanguardia di « destra » se intendiamo per « destra » una certa qual
spinta ideale d'impronta bergso- niana o nietzschiana: poteva però essere
anche di « sini- stra » per le sue istanze sociali. O poteva essere al
di là della « destra » e della «sinistra », per ricalcare una
espressione del pensatore tedesco. Sta di fatto che il futurismo
non fu mai di « centro ». Ma se si vuole dar credito a quello che
comunemente si intende otmai per « destra », si deve anche accogliere
un 52 futurismo di « destra », o rivolto verso «
destra »: se è vero che a «destra » sta la conservazione, lo
spirito borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se è vero per
contro che a « sinistra » sta la spontaneità o lo spontanei- smo, la
sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche la miseria e la « rivoluzione
»: ecco, allora, esiste anche il futurismo di « sinistra ». Com'è
possibile? La polemica, anche se non sembra vero, fu proprio
di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un « fondo » di prima pagina su
Futurismo, diretto dal Somenzi, n. 27 del 12 marzo del 1932, anno I e X
dell’« Era Fascista ». Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di
destra. Anche se Corra aveva usato il termine « destra » con le
attenua- zioni del caso, affermava che «l'essenza del Futurismo è e
non può non essere rivoluzionaria ». E ancora, a spe- cificare meglio il
concetto: « ... Bisogna dire che nel no- stro movimento i termini di
sinistra e destra non si op- pongono, perdono cioè il loto significato
convenzionale. La mentalità futurista supera il contrasto fra il
sovvetti- mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo
in uno slancio creativo », tanto per la precisione dei ter- mini e la
puntualizzazione del linguaggio. E siccome il linguaggio ci investe di
una « sua » moralità, ecco che è bene tenerne conto quando ancora il
Corra così sottoli nea: « Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di
una questione di moralità. Dare al Fututismo quel che al Fu-
tutismo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con un'etichetta di
convenienza. Chi si dichiara avanguardi- sta ma non futurista, sputa nel
piatto dove ha man- giato ». E fin qui è tutto chiaro e conseguenziale.
Ma ve- diamo come ancora il Corra continua: « Poi, lo stabilirci
questo principio; che il privilegio di poter restare nella sfera
magnetica del Futurismo pure affermando, nella pro- pria opera un
temperamento realizzatore di destra, debba accordarsi soltanto a coloro
che han dimostrato di sapere essere — integralmente — futuristi. E
reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in nome della
mia effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... ».
Insomma, essere stati di « sinistra » per poter essere poi
53 di « destra », o aver fatto i rivoluzionari in gioventù,
per poter pai sedere tranquillamente sugli « scanni » del concreto o
nella comodità del reale (di quando, cioè, x si è «
arrivati »). Può darsi sia vero, pur se non proprio giusto 0
cor- retto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che ci piaccia
o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un susseguirsi di botte e
risposte. Fra tutte vediamo come « replica » Paolo Buzzi su un altro
«fondo» di prima pagina dello stesso Futuriswo n. 30, anno II, del 2
aprile 1933. Il titolo è anche questa volta emblematico, Estrema
sinistra, puntualizzato poi meglio nell’« occhiello »: Non c'è che un
futurismo: quello di estrema sinistra. Dove si sancisce la necessità
dell'avanguardia a « sinistra », e la «sinistra » del futurismo, l’unica
possibile. « Questo, e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei
sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di
Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle verti. gini... ».
E ancora: « Questo è futurismo: e di ultra estre- ma sinistra. Le mie
autonomie sintetiche di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi e di
paesaggi, i miei co- smopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi,
stanno per una intransigenza etico-estetica che costituisce, or-
mai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera
di vomo che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa.
Aviatore sempre, adunque: fan- te o stradino, non mai ». E conclude poi,
con patole un po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: «I
giovani, quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno
che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile chiasso letterario, la
parola “futurismo” risponde alla sola unica vera “idea forza” che oggi
esista nella sfera ideale del mondo: e che è in grazia di essa,
unicamente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista
vive e vi- vrà ». Dove si dimostta ancota una volta, come se non
ba- stasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno nella
loro spinta « spontaneistica » e rivoluzionaria. Dobbiamo comunque
tenere conto del tempo della pubblicazione di questi articoli, nel °32 e
'33, in pieno ed 54 affermato regime.
Ecco, quindi, anche, il senso di una « destra » e di una «sinistra », di
un futurismo ancora giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per
contro già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio
della meta raggiunta e della calma del riposo. Quando cioè il fascismo,
movimento politico rivoluzionario, eta di- ventato « regime », ed aveva,
per così dire, assunto le sue caratteristiche sembianze (almeno fino a un
certo punto). Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si
era voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento o di
«cattura » della sua entità esercitati dal regime o da singole
personalità fasciste, alcune delle quali, magari, erano state futuriste o
vicine al futurismo. Tuttavia era e restava, il futurismo, in fondo,
quello di sempre: solo ed esclusivamente un movimento d'avanguardia.
15. Futurismo ed ebraismo « Innumerevoli differenze
separano il popolo russo dal popolo italiano, oltre a quella tipica che
distingue un po- polo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono
di- vetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il suo
patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia la rivoluzione del
popolo vicino. Un popolo vincitore co- me il nostro vuol fare la sua
rivoluzione, come un aera- nauta getta la zavorra per salire più in
alto... Non esiste in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da
re- dimere, valutare o seguire », sosteneva Marinetti nel 1920: e
lo diceva nella sua opera già esaminata A! di là del Co- munismo. Lo
riportiamo non tanto per rilevare le diffe renze fra rivoluzione
futurista e rivoluzione bolscevica 0 spirito comunista, quanto per far
rilevare quale era la posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei
già nel 1920. Gli ebrei da « redimere, valutare o seguire » sono
evidenti: Marx ed Engels. Il problema invece si affaccia, come tutti
sappiamo, sul volgere del '38 e all'alba del °39. Il Manifesto del
Razzismo italiano, quello degli scien- ziati del 14 luglio ’38, e la
Carta della Razza del 6-7 otta- 55 bre dello stesso
anno, cui fanno seguito le leggi razziali del novembre sulla falsariga
dell’antisemitismo tedesco, danno buon gioco alla cultura dell’« ordine
», quella più direttamente sostenitrice o affiancatrice del regime.
Secondo Crispolti «il tentativo della cultura legata alla destra
reazionaria fascista di profittare della campa- gna antisemita per
promuovere un'edizione italiana della operazione nazista dell’“arte
degenerata” è un aspetto no- tevole dell’azione pubblicistica che
precedette e accompa- gnò quei provvedimenti » ®. L'azione pubblicistica
era con- dotta da Telesio Interlandi in prima persona, che attacca-
va spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avan- guardie
attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, setti manale romano ad
impronta razzista, al quotidiano roma- no Il Tevere, a La difesa della
razza. Oltre a Interlandi si distinguevano Giovanni Preziosi con il
mensile La wite italiana, e Roberto Farinacci con Il regimze fascista,
quoti- diano di Cremona. « L'arte moderna è un tumore che
deve essere tagliato non che si debba esibire come una gloria nazionale
sol perché piace a Marinetti », aveva affermato I/ Tevere del 24-25
novembre 1938, pubblicando un’antologia di esempi d’« arte degenerata »
italiana. Quadrivio aveva a sua volta proposto un referendum contro
l'arte moderna considerata in blocco « bolscevizzante e giudaica »,
ma senza alcun successo. Marinetti rispondeva con una
manifestazione indetta il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro
delle Atti di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un « fon-
do » polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal titolo Razzismo.
Ad esso facevano seguito sul n. 118 del- l'11 gennaio 1939 due articoli
(Arte e... razzia, e Italianità dell’arte moderna), ancora in posizione
di attacco, aspro e violento. Quest'ultimo, firmato « Artecrazia »
pottò a determinare la chiusura stessa del giornale. Non è escluso
* Enrico Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra
futurismo e fascismo, cit., pag. 58. 56 che lo
avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somen- zi). Il pretesto
di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte moderna era messo all'indice
dell'accusa. Si dimostra così ancora una volta lo spirito d'avanguardia
con cui il futu- rismo e i futuristi operavano, sia pur sotto le bandiere
del regime, ma in fondo in opposizione a una cultura d’or- dine e
di conservazione, priva di spunti nuovi e originali, o addirittura chiusa
ai contatti e alle avanguardie europei sotto il pretesto
dell'antigiudaismo, che non poteva certo essere aperto a nuove esperienze.
Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla « Per
l’italianità dell’arte » e tiene un discorso al Teatro delle Arti a Roma
sulla « bellezza aeropoetica della guerra mec- canizzata ». Intervengono
Radice e Terragni a difendere l’arte moderna. Declatmano Marinetti,
Farfa, Scrivo, Mo- nachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori
pubblica il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.
netti parla su «La poesia e la guerra » nel Salone dei Professionisti e
degli Artisti, dove si declamano poesie di Mazzotti e Balestreri.
Nel 1941 Renato Di Bosso lancia il nuovo Manifesto
dell’Aerosilografia. Nel 1942 Marinetti pubblica Carto eroi e
macchine della guerra mussoliniana. Poi parte vo- lontario a raggiungere
le truppe italiane in Russia. Rien- trerà nel ’43 malato, e già intaccato
nella salute. Mussolini cade il 25 luglio e Marinetti si trasferisce a
Venezia, dopo l'8 settembre. Il fascismo è finito, ma il futurismo
an- cora continua. 16. Il futurismo tra ieri e oggi
Dopo la morte di Terragni a Como (1943) per ma- lattia contratta
sul fronte russo, Marinetti aderisce nel 44 alla neo-costituita
Repubblica Sociale Italiana. A_Ve- nezia riceverà gli ultimi futuristi,
rimastigli fedeli nono- stante il « declino »: Crali (ancora vivente) e
Andreoni (recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il fu-
turismo perché non muoia con lui. Si trasferisce poi a 57
Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio nella
notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i fu- nerali di
Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero Monumentale). Postuma a
lui e alla fine del fascismo (repubblicano) si pubblicherà la sua ultima
opera, che così inizia: « Salite in autocarro aeropoeti... » Si
tratta del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invoca-
zione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile sen- so di morte,
violento ed inesorabile. Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile,
tant'è che il futurismo continua come espressione artistica almeno,
an- che se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sosten- gono
ancora, «con le parole e con le opere». Crali Primo Conti a Milano e a
Firenze, Sartoris a Losanna, Di Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto
a Roma portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con
parole e con scritti, con opere e con progetti, col messag- gio dell’arte
sempre e comunque. I seguaci di Marinetti si rifanno a lui e sostengono
con vivacità e con brio la vitalità di una prospettiva che si vuole sempre
rinnovare. Questo è ancora, malgrado tutto, il valore attuale
del futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta alle
avanguardie europee, ma avanguardia comunque e valo- rizzatrice in
ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e moderna, nuova ed attuale,
viva e presente ai suoi tempi. Per questo deve ancora schiacciare le
pastoie dei vecchiu- mi « passatisti », deve smuovere il conservativo e
assa- lire i fantasmi di prolungamento di polverosi e sclerotici
retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il messaggio
futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce lo dicono Crali e
Benedetto, fra gli altri, con le loto testimonianze. Che ci aiutano a
tivedere la « dimensio- ne » del futurismo: una dimensione « presente »
in tanta odierna penuria di originalità nel moderno, presente al-
meno come forza dinamica nella prospettiva di migliori, più aperti, e più
geniali futuri. ALBERTO SCHIAVO 58
SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI
FUTURISMO E « GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO » Ben
presto si manifesta l'interesse dei futuristi per la politica. Nel 1911
Marinetti pubblica giò un mani festo « politica », che sarà la sua prima
espressione di intervento nelle cose pubbliche. «Tyripoli Italiana
» vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia; vuol dire
guerra ed espansione, allargamento del vita- lismo italiano, e vittoria.
Il « panitalianismo » si espri- me e si dichiara apertamente, per la
prima volta. L'avanguardia politica deve accompagnare
l'avanguar- dia artistica. E il primato italiano in arte st deve
ma- nifestare anche in politica, nella forza dell'espansione del
genio (al tempo, di arbizione coloniale). Poco dopo la Libia, è la
volta dell'Austria. L’amo- re della guerra non può che portare a voler
V'inter- vento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su
Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere in luce la finzione
del moderatismo neutralista (cat- tolico o socialista che sia).
Il manifesto della fine del 1915, dedicato all'« or- goglio
italiano », è già un manifesto di guerra. Per questo lo riportiamo
interamente, a dimostrazione del- la fiducia e dell’ottimismo degli
artisti combattenti, la loro convinzione della forza attiva e dello funzione
battagliera dell’arte PER LA GUERRA Valvola
Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il popolo
italiano) non è in generale gran fatto entusia- smante, in questa nostra
epoca. Ìn questi ultimissimi tem- pi, confesserò che per conto mio mi
vergogno un poco di portar questo nome. E’ un sentimento che si è
andato sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere che
una tale causa non meriterebbe di produrre un tale ef- fetto; ma i
giornali son tutta la nostra vita ormai e pur- troppo. E. dai giornali
italiani si alza e si propaga un tal lezzo d'abbiezione e d’imbecillità
che chi ha un po' di cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene
sof. focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordina-
nati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro meglio per
sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti nei loro articoli e nei
loro comunicati, ma la bassezza tra spare e offende. Sono reticenze
abbiette, raccomandazioni infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più
vergognosi anco: ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola
tutti questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano? Questo
enimma terribile non è affrontato a viso aperto, ma una battaglia vinta o
persa lontano detta il tono ed il catattere (anche tipografico) della
notizia, del commento o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione
insulsa del machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi
come oggi l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità che
possa avere una nazione. Davanti al mondo che com- Tralasciamo i
paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e Subli- mità, che ci sembrano
poco significativi dal punto di vista politico, per riprendere con
Socialismo, molta più denso e pregnante. 61 batte e
soffre, accanto a una civiltà che difende le sue — le nostre — ricchezze
dal sacrilegio di un'orda senza stotia, noi siamo il leguleio diseredato
di viscere, solle- cito della sua trippa mediocre che occhieggia le
fortune dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro
lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio questi figuri di
dirla una buona volta ta verità. Ditelo che siete i più ignobili
rappresentanti di un paese che è mise- rabile perché non vi calpesta come
cimici. Ditelo che vi mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete
paura. O confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la
vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri alleati
quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il gusto di pigliarci
per il bavero. Che cioè l’Italia non ha quattrini, non ha armi, non ha
munizioni e che i suci magazzini son vuoti come la badia di
Spazzavento. Socialismo E ci sono infine i
socialisti. Io non ho un'esagerata antipatia pet i socialisti. Trovo che
la loro cravatta rossa, il loro sol dell’avvenir, i loro discorsi in
piazza, e gene- ralmente tutto ciò che li caratterizza, così a occhio
e croce, sono un tantino ridicoli; ma le case popolari, l'au- mento
delle mercedi operaie e tutto ciò che il proleta- riato deve loro di
miglioramenti per la vita di tutti i giorni sono cose ottime e sante. Ciò
non toglie che una cosa mi stupisce straordinariamente ogni volta
l'intravedo e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela spes-
sissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutra- lità
italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vo- gliono perpetua.
« Io sono e resto un fautore ogni giorno più convinto della neutralità
per la pace » ha dichiarato in un referendum uno di loro. E voleva forse
dire (giac- ché è difficile immaginare una neutralità per la
guerra) che lui e il suo partito sono per la pace a ogni costo.
Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista
non vede nella guerra, qualunque essa sia, 62 se non
una lotta di capitalisti e banchieri contro capita- listi e banchieri i
quali si servono del proletariato per li- quidare le loro partite.
Ammettiamo che in ogni guerra ci sia un sostrato d'interessi; ma non c'è
altro? Per i so- cialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno
del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle
prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti,
le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti, le filosofie, la bellezza, i
sentimenti, gli amori, le passioni -— tutto ciò insomma che fa la vita
così terribilmente com- plessa, così colorita, così varia, multiforme,
incoercibile non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero
una specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,
eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare una mosca alla
quale Karl Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare.
Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere nazioni
difendono una civiltà che è la nostra, le libertà conquistate — le idee
stesse dei socialisti — contro i nemici che sono gli stessi nemici dei
socialisti? Per i compagni di Filippo Turati non si tratta che della
solita altalena dei capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna
aste- nersi. E parlo espressamente degli « ufficiali » ex cattedra,
giacché agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tede- sco,
dobbiamo l’atto forse più nobile e generoso che si sia compiuto in Italia
in quest'ora di straordinaria bassezza. Il trionfo della
merda La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali e
l’untuosa malafede dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui manca
indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un mo- mento come
questo, chi consideri la speciale mentalità di codesti gruppi e la messa
in giuoco violenta dei prin- cipî e degli interessi di tutti.
I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di vuote teoriche
malamente idealistiche, non possono vedere nella guerra se non un fatto
inquietante, uno di quei fatti che 63 afferrando
tutto l’uomo ne mettono in mato ogni energia vitale il che è sempre a
scapito certo delle ideologie uni- laterali, e credono l’'opporvisi con
tutte le loro energie una coerente difesa dell’« idea » mentre non si
tratta in fondo che di un semplice istinto di conservazione. I se-
condi, i cattolici, sanno benissimo che un nostro interven- to nel
conflitto attuale favorendo il trionfo di popoli tut- t'altro che
asserviti alla secolare imbecillaggine papale, si- gnificherebbe un
indebolimento considerevole della loro compagine, e maschetano di
prudenza pattiottica il loro desiderio di vedere ancora l’Italia ribadir
con la sua neu- tralità incondizionata i vincoli che la fanno setva e
com- plice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea. Contro
gli uni e gli altri, se si può usar del disprezzo, non sarebbe dunque
logico indignarsi. Ma c’è una massa dei nostri connazionali che nessuna
collera, nessuna abo- minazione potrà mai bollate con l’infamia che
merita la sua straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica
informe degli irresponsabili, dei disamorati, degli abulici: dei
parassiti della società e della vita. Non vedendo nulla più di là della
lora piccola tranquillità presente, del loro affare meschino, del loro
affetto senza energia; rincantuc- ciati nel loro buco momentaneo al
sicuro dalla burrasca che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle
corrispon- denze del loro mediocre giornale, essi credono che nulla
possa essere più profittevole del prolungare, sia pure a co- sto di ogni
mortificazione, questo stato d’incolumità rumi- nativa nell'ombra e in
margine alla storia. Chè se domani la preponderanza in Europa di una
razza di pachidermi violenti, chiusi a ogni luce di vera intelligenza,
conculcherà ogni espressione geniale di vita; se i popoli cui si lega
una comunanza di cultura, di ricordi e di tradizioni, saranno
mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere belligero e spia; se le
nostre stesse fortune intellettuali, morali e ma- teriali saranno
manomesse e asservite, che cosa importa a questi miopi sdraiati nella
loro flaccidezza quietoviven- te? A costoro importa che l’oggi sia senza
strepiti e senza pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti:
felici se l'Ita- lia potrà uscire dal rotto della cuffia — e sia magari
verso 64 l'abisso. Così nessuno si affida con più
sicurezza di loro alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano
che fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di questa
materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la stella fatale?
L’ospizio degl lidi della Consulta è il faro naturale di questa marea
».ercoraria che monta. Poi ché essa monta, trionfando. Ogni giorno che
passa nella passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione abdi-
cata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al suo incremento
e alla sua propagazione. Siamo già a buon punto. Dopo aver impedito con
tutto il suo peso ri- pugnante ogni movimento, questa massa pestifera ha
già una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi. An- cora
poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo sommersi per
sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo propu-
gnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla vigliaccheria
inaudita di una bella parte dei nostri con- cittadini. Credo che il
momento di una lotta più diretta e dura stia per giungere. Le armi della
mente e del cuore stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre,
se non vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa
fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Pao- lieri e la
Nazione come giornale ufficiale. Arvenco SOFFICI [da:
Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914] L'ORGOGLIO
ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da
me agli ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti in
terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le alte roccie a picco,
nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A] tissimo, dopo esserci incontrati
con una pattuglia austria 65 ca che ci voltò le
spalle e fuggì, constatammo con gioia la superiorità enorme della nostra
artiglieria, i cui tiri meravigliosi, passando su di noi e sul lago,
sostenevano la nostra avanzata in Val di Ledro. Il 14
Ottobre, nella seconda perlustrazione fatta da me, dai miei amici
futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal pittot Recci, esplorando e
occupando la trincea delle Tre Piante, constatammo con quale gioconda
disinvoltura dei giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi
in audaci, rudi, instacabili alpini. Durante l'avanzata,
l'assalto e la presa di Dosso Ca- sina, compiuta dai Volontari ciclisti
lombardi e da un battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgo-
minate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e cinquantenni,
non allenati alla guerra in montagna. Dopo aver matciato per 7 giorni in
un foltissimo nebbione, con vestiti quasi estivi malgrado la temperatura
di 15 gradi sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano
allegramen- te alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti
austria- ci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali
facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e senti- mentali
raccoglitori di edelweiss. Constatammo che degl'italiani, già
operai, impiegati o borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia
qualsiasi pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di
300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategi- camente
manovrare su per montagne ignote, con tale abi lità che il nemico si
credette accerchiato da migliaia d’uo- mini. Constatammo che uno studente
italiano, trasforma- to in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria
d'una zona e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci,
scientificamen- te preparati alla difesa in 20 o 30 anni.
Constatammo come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di
Ca- dorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima
artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spa- ventosa e
difficile guerra che sia mai stata combattuta. Singhiozzammo di gioia
all’udire dalla viva voce di 20 o 30 giornalisti esteri, quali Jean
Carrère e Serge Basset, che 66
l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è si-
curamente il primo esercito del mondo. Dopo aver visto il popolo
italiano, « il più mobile di tutti i popoli », liberarsi
futuristicamente, con una scrol- lata di spalle, dalla lurida vecchia
camicia di forza giolit- tiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di
lavoro, come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di paci-
fismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igie- nica
profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta
di più che nessun popolo può uguagliare: 1. - il genio
creatore del popolo italiano; 2. - l'elasticità improvvisatrice di
cui sempre danno prova gl’italiani; 3. - la forza, l’agilità
e la resistenza fisica degl'’italiani; 4. - l'impeto, la violenza e
l’accanimento con cui gli italiani sanno combattere: 5. - la
pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani nel fare una guetra;
6. - il firismo e la nobiltà morale della nazione italiana nel
nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete costruire
l'Orgoglio italiano sulla indiscutibile superiorità del popolo italiano
în tutto. Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei
nostri manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè
da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo agonizzava e il
partito Nazionalista non era ancora nato) invocammo violentemente, nei
teatri e sulle piazze, la guer- ra come unica igiene, unica morale
educatrice, unico velo- ce motore di progresso. Eravamo
allora sicuri di vincere l’Austria e di centu- plicare il nostro valote e
il nostro prestigio vincendola. Eravamo soli convinti della prossima
conflagrazione gene- rale, che tutti giudicavano impossibile in nome di
due pseudo-fatalità: lo sciopero delle Banche e lo sciopero dei
proletariati. Eravamo convinti che coll’Inghilterra, la Fran- cia, la
Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre inesauribili forze di razza e
il nostro genio improvvisatare, collabo- 67 rando
allo strangolamento del teutonismo, fatto di balor- daggine medioevale,
di preparazione meticolosa e d’ogni pedanteria professorale.
Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione pro- fetica della
nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infat- ti noi soli fummo
profetici ed ispirati, perché, più giovani di tutti, più poeti, più
imprudenti, più lontani dalla poli- tica opporttunistica e quietista,
traemmo la visione del fu- turo dal nostro temperamento formidabile, e
pur consta- tando intorno a noi la vecchia mediocrità italiana,
credem- mo fermamente nell’avvenite grande dell’Italia, semplice-
mente perché noi futuristi eravamo Italiani. ITALIANI! Voi dovete
manifestare dovunque questo orgoglio italiano e imporlo in Italia e
all'estero colla pa- rola e colla violenza, come facemmo noi in Francia,
nel Belgio, in Russia, nelle nostre numerose conferenze bat-
tagliere. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere
italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il mondo col
genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito
impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio
pes- simismo imbecille, denigratore e straccione che bha carat-
terizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di
mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pa- cifisti (tipa
Benedetto Croce, Claudio Treves, Entico Ferti, Filippo Turati), di
archeologhi, di eruditi, di poeti nostal- gici, di conservatori di musei,
di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti
neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo
denunciati, vilipesi come nemici della patria, e veramente frustati con
abbon- danti e continue doccie di sputi. Merita schiaffi,
calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che si
nasconde sotto il suo inge- gno come fa lo struzzo sotto le sue penne di
lusso e non sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio
militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella
schie- 68 na l’artista o il pensatore italiano che
vernicia di scuse la sua viltà, dimenticando che creazione artistica è
sinonimo di eroismo morale e fisico. Merita schiaffi, calci e
fucila- re nella schiena l'artista o il pensatore italiano che,
fisica- mente valido, dimostrando la più assoluta assenza di va-
lore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in un lazzaretto
di colerosi e non offre la sua vita per ingi- gantire l’Orgoglio italiano.
Mentre altri futuristi fanno il loro dovere nell’esercito regolate,
noi futuristi volontari del Battaglione lombardo, dopo essere stati
semplici soldati in 6 mesi di guerra, ed aver preso cogli alpini la
posizione austriaca di Dosso Casina, aspettiamo ansiosamente il piacere
di ritornare al fuoco in altri corpi, poiché siamo più che mai convinti
che alle brevi parole devono subito seguire i pronti, fulminei e
decisivi fatti. MARINETTI, Boccroni, Russoto, SANT'ELIA,
SIRONI, PIATTI. 69 MARIO CARLI GIUSEPPE
BOTTAI FUTURISMO E SOCIALISMO La sensibilità e
l'acume politico « d'avanguardia » dei futuristi non potevano rimanere
indifferenti di fron- te ai loro avversari 0 alla «controparte »
dell'avanguar- dia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione
al potere liberalborghese, a « passatista» per dirla alla
Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo meno di attenzione
da ambo le parti. E sappiamo dal De Felice che molti « proletari » o
esponenti dei ceti umili osservavano con attenzione e seguivano il
movi mento di Martinetti con calore di simpatia. Marîo
Carli, fra i più sensibili esponenti certo del futurismo «d'assalto », si
accorge della presenza di ele- menti comuni nelle avanguardie, e lancia un
appello da Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo forse
di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di rovesciare la
classe dirigente corrotta e impreparata of- fre una base comune
all'intento di collaborazione per il sostegno del proletariato, operaio
od ex combattente che sia. La polemica continua sulla stessa testata,
nel numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti colo di
Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro Socialismo. L'immpossibilità
di collaborazione è già vista dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è
vista per ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presup-
posti filosofici del socialismo e del socialismo italiano, in
particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra nella polemica un socialista,
certo Moannarese, cui ven- gono aperte le colonne di Roma futurista @
fargli so- stenere più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se
vista da angolazione marxista, dogmatica e inequivoca bile.
L’impossibilità della collaborazione è data dalla ostrattezza del
futurismo secondo Manmarese, e dal suo scarso od insufficientemente
risaltante contenuto sociale, che esula dall'unico e imprescindibile
metodo possibile: quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora
del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero del 21 dicembre ‘19
dello stesso periodico. La puntualizza zione degli argomenti e la
precisazione dei temi e delle tesi di pensiero son lutte protese a
dimostrare lo sin- cerità filo-popolare del futurismo e la falsità democra-
tica del socialismo per cui è quasi necessario essere contro il
socialismo, ed indispensabile, se si ama il po- polo italiano, quello dei
proletari arditi con cui anche Bottai aveva combattuto nelle trincee al
fronte della prima guerra. « Noi siamo per l'elevazione del popolo,
e non per l'assolutismo demagogico di esto», sottoli neava l'autore,
concludendo a grandi caratteri « Contro il socialismo non vuol dire
contro il proletariato ». PARTITI D'AVANGUARDIA: SE
TENTASSIMO DI COLLABORARE? Ho esaminato seriamente l'ipotesi di
una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti, combattenti,
ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali,
rifor- misti, sindacalisti, repubblicani. A parte il fatto
che, in realtà, essi siano assai meno precursori ed audaci di quanto a
parale vogliano far cre- dere, io mi sono preoccupato esclusivamente di
cercare il terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associa-
re gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo. Il
terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e attraente possa offrirsi
a degli spiriti sinceramente aman- ti del progresso e della libertà. E'
la lotta contro le at- tuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste,
si chia- mino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamen-
tarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre la potenza del denaro e
il potere governativo e amministrativo; sono una casta che deve cadere e
cadrà. E’ questa caduta che noi dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e
con tutte le fotze disponibili. Or ora, l'esperimento del «
caro-viveri » in tante città d’Italia, ci ammonisce che di fronte a
problemi gravi e pressanti, non c’è odio di parte né antipatia
sentimentale che tenga. Noi possiamo ben dare (e l'abbiamo data)
una valida mano ai pussisti per impedire che il popolo sia
affamato. Non pottebbero i socialisti vedere nel nostro gesto
disinteressato e leale una prova della nostra sim- patia per il popolo,
si chiami combattente o si chiami operaio, e riconoscere che la nostra
azione tende, quanto e più forse della loro, ad equiparare le classi
sociali? Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un
libro di Marinetti dal titolo « Democrazia futurista », dove è
condensato quanto di più moderno, di più progredito, di più
spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si può oggi pensare nel
campo politico. Ma i partiti pseudo- 75 avanguardisti
e pseudo-rivoluzionari ostentano di ignora. re e manifesto e libro, né
mai hanno fatto il più timido gesto di simpatia o d'interesse verso idee
o remperamenti ai quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto!
Perché? Eppure noi siamo libertari quanto gli anarchici, demo-
cratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubbli- cani più
accesi. Si tratta dunque di mala fede? Pare di sì, perché, se
non fossero in mala fede, costoro dovrebbero inginoc- chiarsi davanti a
noi e chiamarci come loro capi. Se la loro lotta politica fosse sincera e
convinta (parlo special mente dei pussisti), dovrebbero ammirate senza
riserve il nostro spirito rivoluzionario che, dopo aver schiantato
quella fetida cancrena del passatismo europeo che si chia- mava Impero
d’Asburgo e contribuito a umiliare il tra- cotante militarismo tedesco,
vuole oggi demolire a colpi di bomba i vecchi sistemi, i regimi
decrepiti, i focolai di putredine che costituiscono la grande cloaca
politica ita- liana. Se fossero in buona fede, dovrebbero
riconoscere che noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il
piombo e l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito,
scatenare e condurre una rivoluzione, non già dal Quartier Generale di
una qualsiasi Camera del Lavoro, ma alla testa delle moltitudini in
marcia. Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero
dire questi organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci direbbero —
Venite qua, futuristi, arditi, fascisti, com- battenti tutti: voi che
siete più rivoluzionati di noi, più audaci di noi, più liberi di noi, voi
che amate il popolo più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione
e di comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e la
ricchezza! a voi il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi dogmi e le
vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo nei ranghi. Perché non lo
fanno? Perché questi falsi socialisti che scrivono in
giornali luridamente borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per ché
pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari della borghesia,
carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci imbe- 74
cillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione
al- l'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici?
Perché hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi giorni fa, un
grido d'amote alla censura che se n’andava, promettendole di richiamarla
con tutti gli onori non ap- pena il socialismo ufficiale fosse salito al
potere? Perché tentano di far credere ai soldati che gli uf-
ficiali combattenti costituiscono una « casta » borghese, quando i
soldati ricordano ancora il loro tenentino che in trincea si adagiava
nello stessa fango, mangiava nella stessa gavetta, correva gli stessi
rischi, buscava le stesse ferite, come ciascuno di loto?
Perché non si decidono a riconoscere che la guerra ha liberato il
mondo dall'incubo dell'imperialismo germa- nico e ha impresso alle
conquiste ideali e materiali dei popoli un ritmo di fantastica velocità,
che, senza di essa, non si sarebbe neppure sognato? Perché
seguitano a confondere guerra rivoluzionaria con militarismo, socialismo con
bolscevismo, popolo con pagliacci tesserati? Perché
combattono gli Arditi, che pure sono usciti dal popolo, e del popolo
rappresentano la parte più vi- gorosa e combattiva? Perché si
ostinano a ripetere con tediosa monotonia che la guerra è stata voluta
dalla borghesia, attribuendo dunque a questa classe un vanto che certo
non le spetta? Ho lanciato l’invito. Ho mostrato ai
nostti avversari il terreno sul quale potremmo intenderci, e le
pregiudiziali antipatiche che c’'impediscono un avvicinamento.
Sapranno essi spogliarsi di queste pregiudiziali che sono
altrettanti errori gravissimi? Sapranno a loro volta dirci una
patola onesta e schiet- ta di simpatia disinteressata? Se capiranno che è
assurdo e bestiale continuare una campagna diffamatoria contro una
guerra che si è chiusa vittoriosamente e che, malgrado tutto, ha giovato
enormemente al proletariato, se capi- ranno che noi pur amando fieramente
l'Italia, non abbia- mo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari,
codini Fb) e clericali, essi ci
tenderanno la mano e ci aiuteranno a spezzare tutte le schiavitù che
ancora ci sovrastano. Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà
necessario. Marro CARLI {da: Roma futurista, 13 luglio
1919) FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO Bisogno, ad ogni
sosta, di guardare attorno. Vedere un po' come va la vita, la cui visione
precisa, a volte, si perde nel martellamento sanguigno della lotta.
Misu- rare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze.
Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il fascio di forze
e di tendenze del mondo politico italiano, a rittovare i nostri contorni.
Pulirli. Indurirli sì che si rimbalzi sopra qualunque tentativo di
penetrazione im- pura. La lotta di partiti, nel suo svolgimento
poco netto, si traduce rispetto a noi futuristi, assertori del
predomi. nio della genialità italiana, in un lavoro di isolamento.
Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle contrazioni
atletiche della nostra carne sana. Solitudine splendida.
Nella costituzione organica dei vari aggregati di parte noi siamo
il cetvello possente che domina, e comanda alle tre membra funzioni del
tutto subordinate. In questa immagine somatica, il partito socialista
ufficiale rappre- senta, rispetto a noi, l'intestino retto, maceratore e
scari- catore d'ogni feccia. Un compito troppo importante,
come bene ha detto l’amico Settimelli, per poterlo disprezzare. Ci
vuole. Solamente è bene che non si dimentichi mai la sua
posizione assolutamente accessoria. La nostra antipatia per il
socialismo in genere, pet 76 il
socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni pro- fonde balzanti
dall'istinto della nostra razza di cui noi siamo i rappresentanti più
interiori, con tutti i suoi di- fetti se si vuole, ma anche con tutte,
t44te, le sue doti di energia, di intelligenza, di ardimento. E
distinguiamo ciò che sempre si può giustificare nel quadro infinito
della vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si ha il
dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti il libero
svolgimento. Idee e uomini. Socialismo e socialisti
italiani. Noi siamo contro il socialismo perché astrazione
fi- losofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che si
agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata, e mai si troverà la
formula di traduzione in positivi svi- luppi di masse sociali.
Meditazioni di uomini respinti dalla vita calda e vibrante, per un
ingranaggio disgraziato della loro mente incapace di aderire alla bellezza
appas sionante del mondo. La riforma che l'idee socialiste
propugnano, non na- sce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla
nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.
Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratte- ristica di tutte
le religioni meditate, ragionate, logiche, e non create dallo slancio
lirico di un'anima d'uomo. Marx ed Engels hanno costituito delle
sopra realtà gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma
che nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto perché la critica
umana non si può esercitare su delle con- cezioni prive di umanità.
Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di bere ogni
miscela più insipida, ha confessato di non aver mai compreso quasi niente
di simili esposizioni domma- tiche, e di essere stato attirato solo per
la loro oscurità affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla
vulca- nica e solate natura da itrigidirsi in questi mondi sen-
z'aria, non può che trovarsi nell’identica posizione del- l’illustre
imbecille surricordato. Le prime utopie della Città, mantenentesi
allo studio di immaginose e dilettose 15;
invenzioni nei primitivi — Platone, Tommaso Moro Campanella —
passando a peggior vita nelle scatole cra. niche dei tedeschi, si sono
meccanizzate in modo da di venire delle cose perfettamente anti-geniali,
anti-latine e, soprattutto anti-italiane. Noi fututisti, che
abbiamo violentato il vuoto e so- gnante torpore italiano riempiendolo di
idealità fatte di vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue
rossis- simo, vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psi-
cologico della nazione: ivi è la direttiva unica delle tra- sformazioni
che il nostro destino esige. Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseduguaglianza. Diseduguaglianza
di valori, che bisogna esaltate, lievitare, mantenere ad ogni
costo. Un piano uguale di esistenza, una distribuzione ar- monica dei
beni, una soppressione assoluta di privilegi — ma su questo livellamento
di condizioni materiali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle
singole capacità. II socialismo, pretendendo distruggere la
molteplicità innata di un popolo non può, in via logica, che
discen- dere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia
all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui identici, a
stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo, ch'è la forma più in
voga, non può tradursi, a meno di negatsi, che in un monismo esasperante,
monotono e inerte. La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al
ten- tativo di numerazione, che offre appena una pallida idea, per
il carattere più pacato e passivo di quel popolo, di ciò che avverrebbe
da noi. L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal
l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un mondo.
Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose come i suoi fiumi,
divampanti come i suoi vulcani. Noi non possiamo pensare che tutto
ciò si riduca a un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la
neces- sità assoluta di un decentramento che mantenga, esalti,
vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni genialità, ogni
attitudine delle singole regioni: l’unità italiana sarà allora una
valorizzazione completa di sufta i'Ttalia. 78 Siamo
contto il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria. Della
gente che riuscisse davvero ad attuare la distribuzione economica dello
Stato socialista, dovreb- be basarsi su un concetto di mutualità cooperativistica.
Cooperativa a mutuo soccorso vuol dire la sicurezza matematica di
non rimaner mai al verde quindi abolita ogni situazione di Jotta, reso
campletamente inutile lo sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di
coraggio. Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli
ef- fetti malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere
cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe mai una nazione
sottoposta a tale regime, soppressa ogni difficoltà di cartiera,
butocratizzata Ja conquista della vita, scomparso ogni pericolo, ogni
ansia, ogni tensione. Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili,
non tro- vando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a
ore, a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare in
sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non gli offre. Alla
forza di diffusione dei popoli geniali, si sostituirebbe quella di
egoismo egocentrico dei popoli cal colatori. Da simili mondi
la generosità fugge taccapricciata, non può distribuire i suoi
insegnamenti di grandezza: è come andare a vendere ombrelli in un paese
dove non piove mai — a che serve esser generosi con della gente che
è tutto misurato, tutto il necessario?... La morale che tali
ambienti possono produtre è ma- rale di egoismo e di vigliaccheria.
Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamen- te affermata
da Balilla Pratella, quotidianamente da noi vissuta in una dedizione
senza calcolo, in una aderenza spontanea e intellipente alle tramutanti
necessità della Patria. Queste le tre ragioni fondamentali
che ci dividono dal socialismo — idea —: la astrazione filosofica e
inu- mana della formula, la sua azione di parificazione moni-
stica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliac- cheria,
egoismo. 79 Altre ragioni particolari ci
sono, che ci porterebbero ad una disanima troppo lunga — ragioni, del
resto, che non sono specifiche della nostra differenza dal
socialismo, ma che possono essere anche di altri partiti. Esempi:
l'assurdità della soppressione dello Stato come potere cen- trale, la
sciocca concezione di una pace eterna, ecc. ecc. * o *
I socialisti italiani. Sono, indubbiamente, dei buoni
socialisti perché han- no già, in pieno regime borghese lo stadio mentale
senza calore e senza colore del socialista di domani. Non sen-
tiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di pas- sarli in rivista
uno ad uno. Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira
pre- cisa di diventare qualche cosa, un'autorità, una persona
importante. Non c'è tra loro neppure un mistico esaltato che interessi.
Calcolatori. Cinici. Seguaci: massa la cuì concezione più alta è
questa: bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di met-
tersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha desiderio di divenire il
borghese. Le loto qualità principali sono:
inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali smo è diverso da
popolo a popolo: commerciale nel- l'America del Nord, conservatore
in Inghilterra, filosofico in Germania, mistico in Russia. Non hanno
capito che il socialismo in Italia può, caso mai, balzare dalle
nostre istituzioni rurali; inattualità: sano coerenti in una
maniera fantastica, tant'è vero che le idee invecchiano e loto seguitano
ad usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono come il
gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:
vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea hanno una
viltà tutta propria, personalissima, originale: inutile parlarne: chi
interviene ai comizi elettorali ne sa qualcosa. Il futurismo
è il mondo più lontano dal socialismo. 80 Il
futurismo è veramente il senso di una religione nuova, che si dirige alle
anime, agli spiriti, ai cervelli, e non si interessa del corpo che per
fortificarne i muscoli, farne strumento di agilità audacissime e di
voluttà sane. Generato dal cervello di un attista ha tutta
l'umanità di una idea italiana, sempre profumata di buona terra
fer- tile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti. Attività
poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento com- pleto di tutte le
penialità italiane, manuali e cerebrali. Ridarà all'Italia i suoi
magnifici artieri, maestri d'ogni sotta di lavoro, come lo à dato e lo
darà ai suoi artisti più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza:
danno la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti e
soldati, sogno e vigilanza, idea e azione. Non c’è possibilità di
contatto tra la nostra morale e quella socialista, tra i nostri uomini e
i loro. E’ assurdo ogni pensiero di collaborazione.
FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A QUALUNQUE COSTO!
GiusePPE BOTTAI {[da: Roma futurista. 9 novembre 1919]
INSISTO: FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO Noi e i borghesi
Non una polemica, ma una discussione calma e pa- cata. Polemica no, per
non arrivare fino a quella anima- zione un po’ acre e impetuosa, che
annebbia le idee e deforma la realtà. Ci tengo, a questa
dichiarazione preliminare, perché l'amico Mannarese, nel suo lucido
articolo, pur mante- nendosi in una linea di cortese serenità, devia in
punta- tine ironiche, che non èànno ragione di essere, se vera-
81 mente egli ci vuole aiutare, nella
demarcazione esatta della nostra individualità politica.
Trovo ad esempio molto strano, per un futurista, l'os- servarsi che
la mia formula (adopto la parola formula, per attenermi alla dizione
dell'amico, per quanto essa ab- bia un senso storico, che mi ripugna)
abbia potuto rin- galluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo
con- tro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon
borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non ci preoccupa. Noi
esprimiamo liberamente le nostre idee, le gettiamo nel mondo, tta la
gente; e i casi sono due, come sempre: o la gente non le capisce e allora
non c’è nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c
le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa che tale gente
sia proletaria o borghese, destra o sinistra, e, anche, ambidestra.
Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di nostra
conoscenza fece in una recente seduta del Fascio di Combattimento romano,
che la guerra ha distrutto agni distinzione tra destra e sinistra; ma non
vogliamo di tali logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?) fare
il nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla
grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, 7 dic., pag. 3,
Piccoli borghesi al bivio): essere il furore antisocialista degli atditi
originato dall’appartenere costo- ro, quasi tutti alle classi medie; e
pensare che in parec- chi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son
trovati attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari!
Prima caratteristica del futurismo, è questa, libera, sciolta
sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensori dei
suoi salami, delle sue salsicce, poco ma- le! ciò potrà darci la prova
della sua minchioneria, non già infirmate l’esattezza del grido «
futurismo contro so- cialismo ». Socialismo non è
proletariato L’amico Mannarese fa un’identificazione
pericolosissi- ma, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti.
Egli 82 pone sullo stesso piano
socialismo e proletariato, stabili- sce senz'altro questa identità
matematica: socialismo = pro- letariato. Ciò spiega perché
tanto si accanisca contto la finale del mio articolo. Alle parole «
contro socialismo, sempre a qualunque costo » è dato il valore di
un'affermazione di questo genere: « contro le aspirazioni del popolo,
contro i diritti dei poveri, ecc., ecc... ». Orta, mi ribello
assolutamente. Non in nome mio sol tanto, ma di tutti i futnristi, e
anche, di tutti i nostri amici fascisti. Distinguere
bisogna. Una cosa è quello che l'amico chiama: «/o sforzo
vio- lento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso un
regime di maggior giustizia economica » e un'altra cosa è il socialismo.
Le aspirazioni proletatie sono fatto imma- nente, istintivo, fatale, non
pensato ma sorto da sé, il so- cialismo è uno dei tanti sistemi, i quali,
da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni
delle classi. Se io mi pongo contro il socialismo o contro i
socia- listi, mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giu-
ridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori (filosofi, demagoghi e
procaccianti che siano), ma non è detto ch’io voglia attaccare l’oggetto
di tale sistema che è il prole- tariato. Non debbo, quindi,
rettificare in nulla la mia incri- minata frase, ch'era un grido, un
appello conclusivo del mio articolo, limitatosi ad una valutazione di
idee, e non aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un domma, un
punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi lasciamo agli oratori
da comizio. L'affermazione: « Noi non siamo contro il socialismo,
ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista » del Mannarese
è un non-senso, perché appunto: socialismo è flosofia sostenuta da
wormini con determinati metodi. Quella che il Mannarese chiama
sostanza (eh! queste parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia:
«la guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i
R3 ricchi » non è privativa assoluta del socialismo,
è solo l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi tentativi, come essa fu
obbietto della favola di Menenio Agrippa, e delle teorie di Fenelon, e
della scuola di Saint Simon, e del sistema di Grace Baboeuf e Roberto
Qwen, e così pure della filosofia di Marx ed Engels. Anche il
nazionalismo, anche il partito popolare, tutti anno affermazioni
solenni: « qui è l'unico infallibile specifico per il dolore del
po- palo » e io posso essere contro questi modi da cerratani senza
mai essere né contro il popolo né contro le sue sacre e legittime
aspirazioni economiche I programmi economici
All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio articolo questo periodo: «
Un piano eguale di esistenza, una di- stribuzione armonica di beni, una
soppressione assoluta di privilegi ma su questo livellamento di
condizioni mate- viali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole
ca- pacità ». Qui, evidentemente, si dice: « noi
passiamo essere d'accordo nelle finalità economiche del socialismo ».
Quelle tre proposizioni del programma politico futurista di Ma-
tinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese dice troppo generiche, anno
il merito di poter domani assorbire in sé, senza contrasto, qualunque
ardimento consono allo spi- rito dei tempi. Hanno
un’intenzione pragmatista, che non deve sfug- gite. Il
programma di riforme economiche, lanciato ai po- poli come panacèa, è
cosa vecchia di tutti i tempi e di tutte le genti. Ogni scuola politica è
per prima cosa inal- berata questa insegna molto attraente. Tutti i
programmi ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,
con grande pazienza, che le cose del mando si incanalas- sero ne’
fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma le cose del mondo anno
dimostrato, a lume di storia, di procedere per via di approssimazioni
successive, le quali avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai
sud- 84 detti programmi, ma per madificazioni
addotte, nel blocco fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di
educa- zione, dalle idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi
coscienza giuridico-sociale. Se oggi, per ragioni ovvie, il
problema economico è venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che
la parte veramente essenziale di un sistema politico non è già il
disegno di un futura assestamento economico, ma è il metodo con cui
saprà, attraverso uno studio positivo dello stato presente e dei caratteri
permanenti della so- cietà in genere (meglio ancora di una data parte di
so- cietà) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale psi-
cologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato or- dinamento
economico, che nel momento è bene limitarsi a definire
desiderabile. I socialisti italiani sanno che il popolo italiano
non à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’av-
vento, ad esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando completamente ogni
lavoro di educazione, sventagliano i loro proclami di rivendicazioni
economiche. Il popolo risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi
meravigliosi panorami. Ma ciò non significa aver creata una società
comunista, come non è fare un signore aristocratico d'un villanzone
qualsiasi il riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di
vista della potenzialità vera di un partito il valore di tali programmi è
nullo. Hanno un valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se
l'amico Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi, è
bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli avremmo dato piena
ragione. Il nuovo imperialismo Non ci deve, quindi,
affligere di soverchio, la man- canza di formulazioni teoriche, di
programmi economici. Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando
questio- ni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo
socialista deve farci perder la resta così da correr subito ai
ripari. No. La nostra posizione è netta, e possiamo guardarci
85 tranquillamente intorno: il germe della morte del
socia- lismo è appunto localizzato nel suo sistema di rivendica-
zioni economiche, aggravato dal fatto di essete così iso- lato da ogni
altra considerazione d'ordine superiore da divenire il segno folle di un
nuovo imperialismo. Non è possibile nessun contatto tra due
sistemi così opposti come sono quello socialista e quello
futurista. E’ l’anima differente. E' il cervello
diverso. Se anche noi potessimo conglobare per intero nel
no- stro ordine di idee ogni aspirazione economica del socia-
lismo, rimarrebbe la differenza profonda, incancellabile di indole, di
origine e di finalità. Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non
pet l’as- solutismo demagogico di essa. Tirando le somme
E riassumiamo, perché la discussione non rimanga uno sterile
battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il modo di delineare meglio la
nostra situazione innanzi al socia. lismo: 1) posizione di
ostilità per indole spirituale diversa; 2) possibile comunanza di
vedute economiche: il che non implica nessuna fusione; 3)
condivisione di alcune idee (come ad esempio il divorzio ecc. ecc.) che
non sono prerogativa socialista, € che non possono, quindi, render
omogenee due sostanze diverse. 4) CONTRO IL SOCIALISMO NON
VUOL DIRE CONTRO IL PROLETARIATO. GiusePPE BOTTAI
[da: Roma futurista, 21 dicembre 1919] 86
TAVOLATO VOLT F.T. MARINETTI FUTURISMO E
DEMOCRAZIA La lentezza delle democrazie, le pastoie
burocrati che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume paro-
laio dei barbuti senatori non possono essere ben visti dai futuristi. La
velocità, il dinamismo, la lotta, la competizione, l’azione mal si
addicono agli organismi pingui e sclerotici delle democrazie, quella
italiana in particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in rilie-
vo ed indica nel suo manifesto «Contro l'amore e 3 parlamentarismo »,
sintomo ed espressione di questa sua antipatia e di guesta sua avversione
Persino l'amo- re e le donne in senso romantico sono indici e stru
menti di « rallentamento », e come tali da evitare tran- ne che per una
loro ben precisa ed organica funzione vitale. Le donne andrebbero invece
bene pei parlamen ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere
e la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione.
Ma non è solo Marinetti a inveire contro il parla mentarismo: c'è
Tavolato che uddirittura « bestemmia contro la democrazia » in un suo
articolo apparso con questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco
di espressione e carico di colore linguistico e letterario. I 30
dicembre dello stesso anno un altro futurista, Volt, tuona dalle colonne
di Roma fututista: Abolia- mo il parlamento! In sua sostituzione si
propongonna le rappresentanze dei sindacati per la formazione dello
«Stato tecnico » futurista. E si entra nel merito della personalità
giuridica dei sindacati e della loro forza rap- presentativa in base
all'importanza della loro funzione economica. Non in base numerica, per
cui si rientrereb- be nella concezione democratico-parlamentare. Non
più onorevoli quindi sulle assise delle due camere, ma la-
voratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella concezione
corporativa fascista e nella suu Carta del Lavoro Dopo la
guerra Marinetti intervtene su Roma futu- rista mel maggio del '19 per
ribadire la sua.« concezione futurista della democrazia », come
s'intitola il suo scrit- to, che era già apparso um mese prima, più 0
mena analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi
camente italiana dei geni: una sorta di minoranze di individui superiori
alla media, destinati a entrare. in competizione con le altre, definite
democrazie incoscien- li, come prodotta numerico « d’inetti e di
sconclusiona- ti». La forza della nuova democrazia dovrà essere na-
turdimente violentissima data l'accelerazione e il ren dimento degli
individui geniali. La sua « conclusione » sarà logica e conseguenziale: «
La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare
tutte le sue cellule vive ». L'azione sarà condotta da Mussolini,
ma il presupposto è già comunque e totalmente pre- sente.
BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre spanne sotto il cervello
io nutto un odio, un odio contro la presunzione del lavoro, un odio
contro il puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta.
Tre spanne sotto il cervello si spenge ogni polemica. I de-
mocretini rinunzino alla discussione. I democretini s’ada- gino sopra i
loro luoghi comuni, perché il mio piede pos- sa calpestarli.
Via, batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via, mani a
ventola e cravatte a bandiera. Fermati, passo de- mocratico sotto cui
trema la terra offesa. Arrestatevi, la- mentele filamentose, voci
incristianare, zuccherose o pe- pate. Via, spade di legno, trombe
sfiatate, via, inesistenti barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini
di stoppa uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, ma-
scheratevi, faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti. Sgonfiate,
protobischeri pastori di popolo. Aria ci vuole, e luce e calore e
solidità, o anima mia. Abbasso la de- mocrazia! Fumano
d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi strac- cioni e stronzoni, questi
mangiasputi e fiutarutti, questi tinconi, questi turabuchi, questi
scotticapidocchi, questi merdaioli, questi caconi, questi galoppini,
questi pagnot- tisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi
minchioni, questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni
e cittulli, questi sussurroni caccoloni, questi satraponi vir- tuosoni.
Già tutto il paese fuma, smerdata com'è da que- ste pecore matte.
Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso la de- mocrazia! Bischeri
sollevatissimi, bischeri smargiassi, bischeri ventosi, bischeri
girandoloni, bischeri soppiattoni, bische- ri politicanti, bischeri economicizzanti,
bischeri vani, bi- scheri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi,
bischeri cal. losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri
leghisti, 89 bischeri classisti, bischeri marxisti,
bischeti riformisti, bi- scheri collettivisti, bischeri revisionisti,
bischeti comunisti, bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri
ufficiali, bische- ri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del
braccio, bi- scheri del cervello, bischeri antilibici, bischeri
internazio- nalisti, bischeri democratici — BISCHERI DI TUTTO IL
MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha importanza. Unitevi!
Amalgamatevi! Confondetevi in mel- ma! Anche la melma dei bischeri, come
ogni melma, s'in- crosterà. E sotto le croste ci sarà il gelo della
morte. Così sia. Abbasso la democrazia! Accidenti alla
democrazia, impero delle bestie da so- ma, regno degli schiavi,
padronanza dei servi, supremazia degli impiegati! Democrazia, sostegno
degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi, arma dei
bro- dolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di sputi,
convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vitto- ria dei muscoli
e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione del mestiere,
vita del debole e agonia del forte; lurida, sudicia, tetra democrazia,
cloaca dove affo- gano fantasia, ingegno, energia, e tutte le soavità;
pro- terva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!
E rovini Ia mediocrità! Fuoco al tugurio dei democretini!
I democretini è la lanterne! La libertà soltanto a chi sa
cosa farsene, a chi sa vi- verla. Agli altri il giogo, la
sferza e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà
vostra e per la libertà mia! ABBASSO LA DEMOCRAZIA.
TAVOLATO [da: Lacerba, n. 3, anno II, Firenze, 1° febbraio
1914] 90 ABOLIAMO IL PARLAMENTO «
Aboliamo pure il Parlamento — si domandano mol- îi — ma cosa metteremo al
suo posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento
con le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope-
rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello « Stato
tecnico » futurista. AI « collegio » elettorale, circoscrizione
fittizia ed ar- bitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio
del broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze
economiche che danno effettivamente forma alla società. AI posto dell’«
onorevole » deputato, dema- gogo costretto all’accattonaggio sistematico
del voto e feu- datario di una nuova feudalità peggiore dell'antica,
man- deremo a governare il paese ingegneri, commercianti ed operai,
gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni reali della propria
classe. Invece di un’Assemblea di in- ttiganti, di chiacchieroni e di
incompetenti, avremo un corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con
conoscen- za di causa, la grande azienda dello Stato. In
pratica l'idea della rappresentanza sindacale si tro- va di fronte a
difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si
presentano. 1) A quali sindacati concederà lo Stato la
personalità politica? Si tratterà di determinare le categorie di
pto- duttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo
legislativo. 2) L'iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per
tutti i cittadini? A me sembta che sia più logico lasciare che
esercitino i diritti politici coloro che ne hanno la volontà e
coscienza. Coloro che resteranno volontariamente fuori dei
sin. dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti
nelle odierne elezioni a suffragio universale. 3) In base a quale
criterio si misurerà il numero di 91
voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’ la
questione più scottante. Il criterio più semplice è quello numerico. Ma
così si ricade nell'atomismo individualistico del suffragio
universale. Io credo che non si debba tener conto del numero
degli iscritti al sindacato, ma della importanza della fun- zione
economica che esso esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali
metallurgici avrà una rappresen- tanza eguale a quella di un sindacato di
lavoratori del ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi.
E ciò perché l’importanza delle due funzioni si con- trobilancerà
nell'economia nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un
criterio poco democratico. Me ne infischio. 4) Quali saranno
i limiti posti all'esercizio del potere dell'assemblea eletta mediante la
rappresentanza sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere
limitata alle questioni prevalentemente economiche, che sono del
resto le più importanti in politica. Le questioni di
famiglia, di politica estera ecc. dovran- no esser risolte in parte
mediante il « referendum » popo- lare diretto ed in parte attribuite
alla competenza del po- rere esecutivo. Non ho fatro che
accennare le principali questioni. In- vito tutti i giovani futuristi ad
inviarmi le loro soluzioni ai quattro problemi che ho posta, senza avere
la pretesa di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la que-
stione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi « studio » deve
significare già un principio di esecuzione. E’ l’ora di finirla col
Parlamento. Abbiamo fatto la guerra senza bisogno del Parlamento. Senza
il Parlamento sapre- mo fare la pace. E' ora di sbarazzare l’Italia dalle
508 incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio.
VOLT [da: Roma futurista, 30 dicembre 1918] 92
DEMOCRAZIA FUTURISTA L’orgoglio italiano non deve essere, non è
imperialismo che spera imporre industrie, accaparrare commerci,
inon- dare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di materie prime, e
siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre. Il nostro
orgoglio italiano è basato sulla superiorità nostta come quantità enorme
di individui geniali. Voglia- mo dunque creare una vera democrazia
cosciente e audace che sia la valutazione e Ja esaltazione del numero
poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoran- za genialissima tutta
costruita di individui superioti alla media umana per forza creatrice
innovatrice improvvisatri- ce. Questa democrazia entrerà naturalmente in
competizio- ne con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per
le quali il numero significa invece massa più o meno cieca, cioè
democrazia incosciente. Su 1000 slavi vi sono due o tre
individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che
non vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga al- meno
10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva personale
Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone morte
dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico
minaccio- so alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per
la unità e indipendenza nazionale. Nazione ricca di
individui geniali, democrazia intelli- gentissima. Quantità di
personalità tipiche, massa di tipi unici, democrazia che non vuole
imporsi bancariamente, industrialmente, colonialmente, ma può e deve
dominare il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed
altezza di luce. Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte
le ri- voluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi
morti e da tutti i ceppi (matrimonio e famiglia cattolica 93
soffocatrice, pedantismo professorale, elettoralismo, menta- lità
pessimistica, provinciale mediocrista e quietista). Liberata dal
giogo della vecchia famiglia tradizionale, dal dogma dell'anzianità,
l'Italia manifesterà finalmente la sua potenza di 40 milioni d’individui
italiani tutti intelli- genti e capaci di autonomia.
Concezione assolutamente apposta alla cretinissima con- cezione
germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di individui italiani per
organizzarli meccanicamente. Su] palcoscenico della razza italiana
dobbiamo mette- re in luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa
luce possa perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.
(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia, la
neghittosi- tà, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione
teo- rificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di
tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo bene
impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare c disfare al
numero, alla quantità, alla massa poiché da noi numero quantità e massa
non saranno mai come in Germa- nia e in Russia numero quantità o massa
d’inetti e di sconclu- sionati, Arturo Labriola definisce la
democrazia « come senti. mento dei diritti concreti della massa sullo
Stato e sulla Economia ». Noi futuristi consideriamo la
democrazia non in astrat- to ma bensì la « democrazia italiana ».
Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica. Vi sono
numerose democrazie, ogni razza ha la sua de- mocrazia, come ogni razza
ba il suo femminismo. Noi intendiamo la democrazia italiana come
massa di individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente
del suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire
statale. La sua forza è fatta di questo diritto acquisito,
molti- plicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle
cellule malate (incoscienti, analfabeti). 94 La
democrazia italiana è per noi un corpo umano che bisognerà liberare,
scatenare, alleggerire, per accelerarne la velocità e centuplicarne il
rendimento. La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente
più favorevole al suo sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra nel
quale è costretta a risolvere tutti i suoi casi-problemi insoluti, le cui
soluzioni possono esercitare una influenza sul suo avvenire. Necessità
igienica di continua ginnastica trasformattice, improvvisatrice.
Il governo si allarma oggi nel vedere formarsi innume- revoli
associazioni di combattenti. Se non fosse un governo di miopi reazionari
tremanti di paura accaglierebbe favo. revolmente questo nuovo ritorno di
vitalità italiana. La guerra ha semplicemente svegliate le
coscienze di 4 o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra,
atric- chiti di una personalità politica. E’ la prima volta
nella storia che più di quattro mi. ltoni di cittadini di una nazione
hanno Ja fortuna di subire in soli 4 anni un'educazione intensiva e
completa con le- zioni di fuoco, di eroismo e di morte.
Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito per la
guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno di governare.
La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente
vibrare tutte le sue cellule vive. Naturalmente ha un bisogno
urgente di spalancare le porte e di uscire all’aperto. I) governo si
allarma, reprime e trema, come la nonna leggendaria teme che il
nipotino pigli un raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e
salubre. Il sole, spalancato, be- ve il mare di liquido quasi solido
saporito azzurro, tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo
sotso. F.T. MARINETTI fda: Roma futurista, 11 maggio
1919] un EMILIO SETTIMELLI F. T.
MARINETTI FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Emilio
Settimelli commenta il Congresso di Firenze su 1 nemici d'Italia («
settimanale antibolscevico diret to da Armando Mazza ») del 10 ottobre
del 1919. I discorso di Meorinetti al congresso apparirà su
L'Ardito del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso tre
giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del discorso e della
«necessità dello svaticanamento » ab- biamo già parlato. Ma si
postula anche l'ipotesi di un eccilatorio di giovanissimi capaci di
sostituire il semato dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un
«consi glio tecnico » andrebbe sollecitato e stimolato da gio vani
sotto i trent'anni, a moto continuo Si parla poi di un
proletariato dei geniali, quello degli artisti d’Italia, più o meno a
nascosti od esclusi », che andrebbero favoriti o promossi da iniziative
pub. bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine della
proposta da parte di una «mente d'artista » ri. sulta evidente. Marinetti
è definito, al caso, « ardito della poesia». La definizione è sempre di
Settimeth, che sostiene inoltre Marinetti sia «uscito » dal Con
gresso in «trinonmio» con Mussolini e D'Annunzio. quello del « dopo Fiume
»: un'alleanza politica mei fino ad allora verificatasi. Ed
è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneg- giare ai due personaggi
(Marinetti e Mussolini) in un suo scritto, già pubblicato su I nemici
d'Italia # 4 set tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra
significa tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che l'arte
debba essere estranea alla politica, vi si sostiene. Anzi, è proprio
l'artista a darle una sua interpretazione od un suo connotato, un suo
«travestimento », od usa sua immagine fanto più nuova, quanto più
ardimentose ed « ardita». Mussolini è stato capace di recepirlo, e
il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo, e d'avanguardia.
La tesi di Settimelli è tipica del «futurismo delle origini » o
classica di un momento rivoluzionario, 0 di rinnovamento. Ma anche
Armando Mazza pubblica un «fondo » il 30 Ottobre dello stesso anno sulla
mede- sima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è fir- mato,
ma è inserito sotto il titolo a quattro colonne: Fascisti, a noi!, con un
commento alle prospettive elet- torali, un trafiletto in commemorazione
della vittoria nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata:
Ciò che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e distacco
da tutte le altre forze politiche, quelle ew-neu traliste e quelle del
passatisma MUSSOLINI E IL FASCISMO Pensare col
proprio cervello originale, liberare comple- tamente il proprio
temperamento, essere gli annunciatori e i fondatori di una nuova
mentalità: sofferenza di tutti i momenti. Mantenere la
provria posizione di avanguardia, è cosa da giganti.
Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À un certo momento
rimani quasi solo: la gran parte degli amici si arrende, brutta e
spregevole nella sua viltà mascherata di scetticismo, oppure non crede
più, sopraf- fatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano,
perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi —
sia pure per un anno — intelligenti, credono di poter me- nomare la
saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i loro atteggiamenti di
commendatoria superiorità: cafoni ad- domesticati, provinciali
inguaribili. Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché
sen- ti che è creato per l’« altra gente »1 mediocre, podagrosa.
Ti urti della continua ostilità. Ti trovi dinanzi ad un
avversario senza spirito, mono- tono, insistente. Un
avversario indegno che ha la bruttezza goffa del rinoceronte e il
rompiscatolismo della zanzara. Hai delle donne. Tentano di tutto
per convincerle a rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di
portarle a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco
lucroso 0 decorativo. Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte
che esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo
punto. Non possono capirti a fondo. Sei fatto per un mondo di
eroismo, di forza, di bellez- za, di temerità. Le tue grandi ali
t’impediscono di cammi- nare come il gabbiano di Baudelaire.
(eTe) Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti
ripaga di tutto. Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver
costruito un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo,
avere anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo allargamento
del mondo ti fa vibrare per la gioia dei ver- tici. Oggi ho
questa gioia e la divido con quei pochi che da dieci anni lavorano con me
alla formazione di un am- biente intellettuale italiano libero dai
professori, dai tradi. zionali, dai gottosi (non alludo ai seguaci del
romanziere Salvator!). E Ia nostra gioia diviene frenetica
quando constatiamo che da un'altra parte, dalla politica ci veniva
incontro un uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi. E'
la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver forata la
montagna. Un «evviva », una manata di terra sulle facce ebbre, sopra i
sudori riganti e una stretia di mano che è una prova del cuore e dei
garretti. Mentre con Marinetti e con gli altri amici
lavoravamo il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini
lavo- rando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gi- gante
questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche col peso di un grande
ingegno, di un'anima vasta, di un temperamento spaccafore, figlio di un
fabbro ferraio si tira su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato.
Supera la più massacrante battaglia: quella contro la miseria,
quella che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata. Chi
è nato ricco non potrà mai essere completamente den- tro la realtà e non
avrà mai il collaudo delle sue energie. Domina le folle, organizza,
sbaraglia Turati, Treves, Rai- mondo. Galvanizza il partito socialista.
Scoppia la guerra, capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo
€ per il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri ne
approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma la
imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che rimane
acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili. Intanto i piedi
ridono soddisfatti per essersi liberati della 100
testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano veramente
moderno e veramente italiano. Un ritrovo di energie vive, spregiudicate,
temerarie. Il lievito di questo buon pane italiano nato dalla guerra. In
esso tutti i vivi si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E'
una punta sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande
coppia italica, è il primo nucleo per una Italia nuova. Ma il quotidiano
non basta a Mussolini. Uomo d'azio- ne ha bisogno di concretare, vuol
raccogliere ciò che semi- na giornalmente. Nasce il fascismo. Fenomeno
degno della più grande ammirazione e del più appassionante esame.
Più che un partito è una mentalità. Non si basa sulla promessa di
un certo paradiso futuro, si muove problematicamente passo per passo
alternando transigenza a intransigenza, idealismo a realtà, arte a
pratica concreta. Gli avversari del Fascismo sono le vecchie anime che
marciano solo dietro promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano
incoe- renza con duttilità, che non vivono dentro la vita vera e
vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti di una mentalità libera.
TI Fascismo raccoglie gli italiani più intelligenti e più moderni
con la sua ferrea ossatura di concretamento fa- sciato da una atmosfera
di sensibilità, di cordialità idea- listica, di eleganza e di colore.
Rende possibile la politica anche per i temperamenti più contrari ad
essa. Per esem- pio gli artisti e gli ironici. L'Italia abbonda di artisti
e di ironici, anzi essi formano la sua parte migliore,
intellettual. mente. Mussolini ha avuto il grande pregio di
creare un’atmo- sfera politica che non ripugna a questi scelti, a questi
« mi. gliori ». L'intelligenza disinteressata si allontana
dalla politica quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un
paradiso certo, sul settarismo, sulla gretteria animale. Si
sta preparando in Italia quella rinascita totale, ba- sata sull’arte che
tra le più feroci ironie e gli scetticismi più assoluti amnnunciai nella
« Inchiesta sulla vita italiana ». SETTIMELLI (da: 1 nemici
d'Italia, n. 4, Milano, 4 settembre 1919] 101 » SOGNO
UN GOVERNO DI TECNICI, ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA » Cari
Fascisti! Cari Arditi! V'invito ad acclamare un valoroso fascista
assente, che sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di
Nitti non l’avesse condannato a tre mesi di fortezza Mario
Carli, (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi). Il
futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Al- bricci e gode
l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha brillato così una volta di più
l'elasticità veramente futu- rista di questo poeta che sa tutti i viaggi
più pericolosi dello spirito, le esplorazioni più sottili della
psicologia, i razzi più colorati ed anche la strategia delle strade
in tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario Carli,
poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del Fascio di
combattimento romano, e, insieme con Setti- melli, del Partito politico
futurista, e del giornale Rome futurista. Egli capeggiò tutte le
dimostrazioni violente per Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per
la difesa della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero,
rinun- ciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il fu-
turista Mario Carli! (Quazione, applausi). Lo «svaticanamento
». Io approvo incondizionatamente, in nome del futuri smo e
dei futuristi italiani, tutto il programma dei Fasci di combattimento,
che vi è stato esposto dal mio amico Fabbri. Trovo però in questo
programma delle lacune gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra
attenzione. Fascisti! Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del
pe- ricolo nero. Il popolo italiano, che ha saputo osare, vo- lere
e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso della 102
grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria del
futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico, cubico e
professorale, fallirebbe alla sua missione se non sapesse energicamente
liberare la bella penisola, agile e palpitante di vita, dalla lue mortale
del papato. Noi dob- biamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del
papato, o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo
« svaticanamento ». (Applausi, ovazione) L'« Eccitatorio ».
Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di combattimento,
trovo l'abolizione del Senato, al quale si sostituirebbe un Consiglio
nazionale tecnico. Ebbene: io vi dichiaro che il concetto di tecnicità è importantissimo,
ma non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei po- poli un costante
ossequio alla saggezza dei vecchi, chiama- ti intorno al potere per
frenarlo, maturarne i propositi, dirigerne le decisioni. La concezione
del Senato, simile a quella del coro nella tragedia greca, ha
singolarmente appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il
pro- gresso spirituale e materiale delle razze. I
legislatori hanno sempre sognato di frenare il pote- re del Governo. Essi
ignoravano dunque che potere si- gnifica frenare. Essi ignaravano che un
Governo è sem- pre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo
che il porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo: gli
al fianco, piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un eccitante. Ed ecco
nata la concezione dell’Eccitatorio, or- gano animatore, semplificatore e
acceleratore, che in una razza come la nostta, piena di precoci geniali,
sarà Ja mi- glior difesa della gioventù e la migliore garanzia del
pro- gresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Gover- no
di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al posto
dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti € di dotti invalidi, che
si fa moderare da un Senato di mo- ribondi. Il Consiglio
tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà dunque essere composto di
giovanissimi, non ancora tren. 103 tenni. Insisto su
ciò, poiché in Italia si usa invitare i gio- vani al potere e si
considera poi virile e giovanissimo un uomo di 55 anni. Salandra grida: Avanti
i giovani! Ma tutti con lui temono i giovani, mettono in quarantena
un quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un
dinamitardo, e considerano un sessantenne come un au- dace quasi maturo
per il governo d’Italia!.. Occorre un Eccitatorio di giovanissimi,
per evitare un Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto
inuti- lizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non san- no
più che tecnicamente morire. La vita italiana si riduce ancora ad
una convivenza cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza
presti- gio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pes-
simisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo pa- triottico e
polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si aggira sporca, taccagna,
provinciale, brindellona, la ser- vaccia che fa tutto male, tiene
malissimo la casa, non vuo! migliorare nulla, perde la giornata a
verificare i con- ti di cucina, ha sempre paura di spendere e di
rovinarsi, ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo sa-
lata che costa poco. T quadri d’antenati si chiamano Boselli e
Salandra: la servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)
Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo siamo un
eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi. Arditismo. — Scuole
di coraggio fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel
programma dei Fasci di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico
futuri sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa ria
riforma completa della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe
ottenere, e forse anche un al di là meraviglioso che superi il tutto
sogna. ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò
meglio feroce, della ginnastica nelle scuole. Si deve giungere
anche presto, oltre che a tutte le for- me d'insegnamento pratico e
tecnico, nelle officine e nei 104 campi, alle scuole
viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi d'istruzione, e a dei veri corsi o
scuole di coraggio fisico e di patriottismo. Bisogna ogni
giorno, nella giocondità di una vita al- l'aria aperta, con un predominio
assoluto del giuoco sul- la lettura, parlare dell'Italia divina ai
ragazzi italiani, in- segnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e
il disprez- zo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria
e l'eroismo. Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo
devono rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi.
tici corsi di greco e di latino. Noi futuristi siamo convinti di
preparare così quel tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè,
vera- mente capace di libero pensiero e di libero cazzotto, e che
renderà assolutamente inutile l'esistenza delle polizie, delle questure.
dei carabinieri e dei preti. Ferruccio Vecchi. Il mio
amico futurista Mario Carli, capitano degli Ar- diti, e il capitano
Vecchi, capi dell'Associazione degli Ar- diti, hanno sentito come me,
nascere dal futurismo e dal- la guerra, l'Arditiswo, nuova sensibilità di
patriottismo e- roico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito, diretto dal
capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è un forte giornale
che si deve consigliare ai giovani italiani. {Qvazioni) Verrà
forse un giorno in cui avremo in Italia quelle scuole di pericoli che io
proponevo dieci anni fa nei pri- mi manifesti futuristi e che furopo
realizzate durante la guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi
(avanza- ta carponi sotto un tiro radente di mitragliatrici;
aspetta- re senza chiudere gli occhi il passaggio radente di una
trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der
geniali Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei program-
ma, parlandovi del solo proletariato veramente dimenti- 105
cato ed oppresso: l'importantissimo proletariato dei ge-
niali. E’ indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je
raz- ze per il numero stragrande di geniali che produce. Nel più
piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio, vi sono sempre sette,
otto giovani ventenni che, fremono d’ansia creatrice, pieni di un
orgoglio ambizioso che si manifesta in volumi inediti di versi e in
scoppi di elo- quenza sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono
dei veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al vero
ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fon- do geniale, cioè suscettibili
di sviluppo e utilizzabili per accrescere l’intellettualità geniale di un
paese. Il movimento artistico futurista, da noi iniziato 11
anni fa, aveva precisamente per scopo di svecchiare bru- talmente
l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e di- struggerne la
gerontocrazia, svalutare i criteri e i profes- sori pedanti, incoraggiare
tutti gli slanci temerari dell’in- gegno giovanile, per preparare una
atmosfera veramente ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a
tutti i giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti,
centuplicarne l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi,
diminuire al più presto, così, il numero dei geniali italiani
falliti e stroncati. Il futurismo radunò molti di questi
giovani geniali. Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e
brilla rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia,
Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi, Chiti, Jannelli,
Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari, Gal- li, Depero, Dudreville, Primo
Conti, i geniali creatori del Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli,
e i valorosi scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai,
Fede- rico Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità
in America. Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azio-
ne politica, questi giovani furono con me dovunque nelle 106
nostre primissime dimostrazioni contro l’Austria durante la
battaglia della Marna, in prigione per interventismo e sui campi di
battaglia. Propongo che in ogni città siano costtuiti dei
palazzi che avranno una denominazione sul genere di questa: Mostra
libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi: 1° Verrà esposta
per un mese un’opera di pittura, scultura, plastica in genere, disegni di
architettura, dise- gni di macchine, progetti di invenzioni.
2° Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o gran- de,
orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual: siasi forma, di
qualsiasi dimensione. 3" Verranno letti, esposti, declamati
poemi, prose, scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni
di- mensione. 4° Tutti i cittadini avranno diritto di esporre
gratui- tamente. 5° Le opere di qualsiasi genere o valore
apparente anche se apparentemente giudicate assurde, cretine,
pazze, immorali, saranno esposte o lette senza giuria. Con
queste mostre libere e gratuite del genio creatore, noi futuristi ci
opponiamo a un pericolo gravissimo: quel lo di vedere nella marea delle
ideologie che rissano intor- ne alle formole del comunismo e della
dittatura del pro- lerariato, il naufragio dello spirito.
Difendiamo il cervello! Vi sono fenomeni dovuti alla stanchezza
prodotta dal la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia
provinciale, alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria
conservatrice. Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale
e d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale, No,
italiani: il futurismo politico si opporrà accanita. mente ad ogni
volontà di livellamento. Tutto, tutto sia 107
concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio dello spirito, del
genio, della gran luce che guida. Alle classi oppresse, ai lavoratori che
stentano, sia sacrificata tutta la plutocrazia parassitaria del
mondo. Voi fascisti interventisti sapete che la nostra
grande guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta, imposta e te-
nacemente portata alla vittoria finale da una minoranza di intellettuali.
Erano i migliori, i meno tradizionali, i più futuristi. Mentre tutto il
popolo era ancora immerso nella quiete pacifista, essi videro la
necessità di guerra, si separarono brutalmente da altri intellettuali, da
quelli che dello spirito altro non hanno che le qualità negative,
pedantesche, culturali, reazionatie, quietiste. Contro e so: pra il
piombo del vecchio intelletrualismo professorale e vigliacco dei
Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro l’in- tellettualismo cavilloso
e avvocatesco dei Treves e dei Tu- rati, si scagliarono gli spiriti
veramente puri, lirici e crea- tori, per segnare la via da seguire.
Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna e regalò Fiume
all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il grande Fututista italiano,
che impavido nel campo trince- rato del suo Popolo d’Italia ha difeso
alle spalle noi com- battenti al fronte contro le ondate dei nemici
interni, por- tando le città italiane dal lurido episodio di
Caporetto alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).
Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie di- sinteressata, al
posto di quello che è ora, cioè una pedan- tesca scienza del furto e
della vigliaccheria. eri Io credo che le istituzioni
parlamentari siano fatalmen- re destinate a perire. Credo anche che la
politica italiana sia destinata a un inevitabile fallimento, se non si
nutrirà di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia,
sbaraz- zandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il
professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità
sintetica, velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le
belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Pia- ve e quella
di Vittorio Veneto (Applausi). Artisticamente improvvisando tutto,
e con genio crea- tore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia
al comando del capitano Raby guadava come una torpedi- niera i
torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta. gne carniche col
tuffo frenetico fulmineo di un pugnale d'Ardito nella smisurata pancia
idropica dell'esercito au- striaco disfatto, e schizzava fuori dalla
schiera contro Vienna. Artisticamente, il genio creatore di
D'Annunzio con- quistò Fiume italiana. In Fiume italiana, io
provai recentemente il più acu- to spasimo di guida della mia vita, nel
gualcire un pacco di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla
no- stra vittoria. Gioia forsennata di stritolare così
finalmente il cuore finanziario, militare, passatista del nemico
ereditario, fra le mie mani ancora frementi della vibrazione della
mia mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione). F.T. MARINETTI
[da: L’Ardito, n. 25, 26 ottobre 1919] 109 F. T.
MARINETTI MARIO CARLI MINO SOMENZI « SECONDO FUTURISMO
» E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po' l'anno di apertura del
futurismo — dopo la ritirata e il distacco dal fascismo del II Congresso
di Milano — al nascente fascismo-regime (se- condo la definizione di De
Felice), quello dell’assesta- mento o dell'e ordine» (che si consoliderà
il 3 gen naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso al
nuovo governo con una richiesta in forma di « mani festo al Governo
Fascista» del 1° maggio 1923. Col manifesto e con l'affermazione di
un certo qual futurismo «mussoliniano », 0 nel sottolineare la rea-
lizzazione di un « programma minimo » futurista da par- te del
fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce e di far accettare le
sue proposte al governo fascista. ll programma fu in linea di massima
approvato da Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illu-
strato e celebrato anche dai futuristi, forse molte volte in buona fede
per l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed al dinamismo tipico di
Marinetti e delle sue teorie. Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel
suo li bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se
questrato e che risuona echi di « sinistri miraggi ». S'in- titola Natale
senza luce e si riferisce probabilmente al Natale del ‘21, dopo l'impresa
di Fiume cui Carli aveva ben ardentemente partecipato: si augurava
inutilmente il Carli che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma)
continuasse quella breve esplosione innovatrice della nuova Italia della
Vittoria (la marcia su Ronchi). Ma le «vecchie pance» e le «vecchie
barbe» tengono invece «il canzpo della vita nazionale » e «la manovra
parla mentare domina ancora tutto il congegno di governo ».
Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del « nuo- vo » Futurismo, esprime
aminirazione ed esalta lo spirito rivoluzionario della Mostra nel
decennale della Rivolu- zione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile
futuri- sta e vuole commemorare in certo senso uno stile degli anni
d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da cui è nato il
fascismo, quello così detta « antemarcia ». Nel 1934 al 1° di febbraio,
sul terzo numero di SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso
tuttavia di perticolare spazio cd attenzione at problemi
dell'architettura, Mino Somenzi intitola un suo pezzo a IT Duce e il
futurismo, e vi sostiene la necessità di Mussolini, come capo del
governo, di non essere né futurista né passatista. Per il superiore
equilibrio sulle parti che la sua posizione richiede. Tuttavia le
simpatie di Mussolini non possono non andare ai futuristi, dice
Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte d'avan- guardia italiana.
In questo sensa i futuristi non possono non guardure a lui come ad un
appoggio e ad un so- stegno, come del resto egli medesima più volte si è
di- mostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta la
posizione ed il carattere del « secondo futurismo ». Ancora sulla stessa
testata del 4 aprile ’34, n. 64. un grande intervento centrale di prima
pagina su Ven- titre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri
co- muni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui molti
fascisti non st identificano con i futuristi ed anzi simmedesimano nel
loro contrario essendo dei « rimor- chiati » che non hanno assorbito lo
spirito diciannovi sta e rivoluzionario delle « origini ». I
DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI DAI FUTURISTI ITALIANI
Manifesto al governo fascista Mio caro Marinetti, approvo
cordialmente la tuu iniziativa per la costituzione di una Banca di
Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sor- montare
gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa
lettera può servirti di via- tico. Ciao, con amicizia,
MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al
potere co- stituiscono la realizzazione del programma minimo
futuri- sta lanciato (con un programma massimo non ancora rag-
giunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci che si opposero
con argomenti persuasivi all'intera Nazione avvilita da un senilismo e da
un mediocrismo paurosi dello straniero. Questo programma
minimo propugnava l’orgoglio ita- liano, la fiducia illimitata nell’avvenire
degli italiani, la di- struzione dell'impero austroungarico, l’eroismo
quotidiano, l’amore del pericolo, la violenza riabilitata come
argomento decisivo, la glorificazione della guerra sola igiene del
mon- do, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo
e dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spi-
rito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista. La nostra
influenza in Italia e nel mondo è stata ed è enorme. Il Futurismo
italiano, tipicamente patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi
esteri, non ha nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come
quello bolsce- vico del Futurismo russo divenuto arte di Stato.
Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e ideologico.
Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle ore di grave pericolo per
la Nazione. Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere
per 113 interventismo a Milano durante la Battaglia
della Marna; in carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per
attentato fascista alla sicurezza dello Stato e organizzazione di
bande armate. Abbiamo creato le prime associazioni degli
Arditi e molti tra i primi Fasci di combattimento. Divinatori
e lontani preparatori della grande Italia di oggi. Noi
futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora qua- rantenne Presidente
del Consiglio un meraviglioso rempera- mento futurista. Da
futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti esteri:
« Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea re e rifiuta d'essere
un Sindacato di albergatori e di quar- diani di museo. Il nostro passato
artistico è ammirevole. Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due
volte in un MIUSCO ». Recentemente Mussolini ha pronunciato
questo discor- so tipicamente futurista: « Il Governo che ho
l'onore di presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo
tutto ciò che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la
buro- crazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tut-
to deve procedere con la massima rapidità. Se tutti proce- deremo con
questo ritmo di forza e di volontà e di alle- grezza, supereremo la
crisi, la quale, del resto, è già in parte superata. lo sono lieto di
vedere il risveglio anche di questa Roma che offre lo spettacolo di
officine come questa. lo atfermo che Roma può diventare centro
indu- striale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di
vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano sono
glorie del passato: ma noi dobbiamo costrui- re le glorie del presente e
del domani Noi siamo la gene- razione dei costruttori che col lavoro e
con la disciplina del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il
punto estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione di
domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori e non dei
parassiti ». 114 Con Mussolini il Fascismo ha
ringiovanito l'Italia. Spetta a Lui l'aiutarci nel rinnovamento
dell’ambiente artistico ove permangono uomini e cose nefaste.
La rivoluzione politica deve sostenere la rivoluzione artistica,
cioè il futurismo e tutte le avanguardie. DOMANDIAMO:
1° DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI NOVATORI in tutte le
manifestazioni artistiche promos- se dallo Stato, dai Comuni e private.
Esempi: a) Alla Biennale di Venezia furono invitati
avanguar- disti e futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka,
Campen- donk), mentre non furono mai invitati i futuristi italiani
(creatori di tutti i futurismi). Bisogna sradicare questa igno- bile
antitalianità sistematica! c) Al Teatro della Scala {che ha la
funzione di rive- lare, glorificandoli, i nuovi musicisti italiani) si
danno ogni anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi nessuna) di
giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri infe- riori ai
nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalia- nità
sistematica! d) Il Teatro di Siracusa non può essere riservato
alla gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente
alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un con- corso per
un dramma moderno pittoresco adatto all'aria aperta di un giovane
siciliano da premiarsi e incoronarsi so- lennemente nel teatro stesso.
(Proposte Marinetti, Prampo- lini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo,
Mario Carli, De- pero, Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi,
Azari, Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Ra-
citi, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna, Sportino-Bona, Cimino, Soggetti,
Rognoni, Masnata, Mortari, Piero Illari, Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi,
Casavola, Clerici, Caprile, Sci- rocco), 2° ISTITUTI DI
CREDITO ARTISTICO ad esclu- sivo beneficio degli artisti creatori
italiani. Come si aprono delle Banche di credito a favore
delia industria e del commercio, similmente si dovranno creare
115 appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni
artistiche o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli
artisti per il loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i
loto viaggi di isttuzione o di propaganda. Tali Istituti di
credito potranno avere carattere pri- vato (Società anonime per azioni) o
governativo (enti e fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale
Istituto è legata alla maggiore o minore buona volontà e mumero
degli aderenti. Nel secondo caso il capitale necessario sa- tebbe
sicuramente e prontamente realizzabile solo che lo Stato decretasse
un'imposta od una ritenuta anche minima, ma estesissima, sui redditi di
guerra, sui patrimoni, ecc., o mediante una sottoscrizione nazionale ad
iniziativa sta- tale. L'Istituto agirebbe poi come una Banca
per gli artisti, accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla
valuta- zione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti.
L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito frut- tifero per
il depositante e per l’Istituto stesso che promuo- verebbe iniziative
artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e l'opera d’arte sarebbero
valorizzati. Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni
di mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di
palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni arti- stiche
od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini, Marinetti, Russolo,
Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario Carli, Buzzi, Matasco).
3° DIFESA DELL’ITALIANITA'. A) Italianizzazione obbligatoria
immediata degli alber- ghi (tutte le diciture, insegne, liste delle
vivande, conti, ecc., in lingua italiana), dei negozi e della
corrispondenza com- merciale. Mezzi automatici per propagare la lingua
italiana senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore,
Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Mara- sco,
Rognoni). B) Italianizzazione della nuova architettura contro
l'uso sistematico di plagiare le architetture straniere. Cominciare
questa italianizzazione in tutti gli edifici statali, specialmen- te nei
paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi, Depeto, 116
Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Fol- gore,
Volt). C) Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei
ca- ratteri tipografici. (Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi).
4° ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE (Istituti di Atte e Scuole
professionali). Gli attuali sistemi d'insegnamento nan
corrispondono al- le esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte
attraverso i tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non
sono né tecnici competenti né artisti. Abolizione delle
Accademie di Belle Arti e Professio- nali senz’altre sostituzioni.
(Proposta Marasco). 5° PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'E.
STERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar- tistica all’estero
che tuteli glì interessi artistici ed econo- mici degli artisti
italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani
artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio
novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le varie arti e
uffici di corrispondenza nei principali centri artistici esteri. Agirà
mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni periodiche di
propaganda. (Pro- posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco).
6° CONCORSI LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del denaro
che lo Stato spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia,
plastica, ar- chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora
venti- cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo- lare.
(Proposta Balla, Marinetti, Marasco). 7° AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE
DELLE FE. STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai
gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han- no ormai provato in
modo incontestabile la loro genialità innovatrice, fonte di
quell’ottimismo che è indispensabi- le alla salute della Patria.
(Proposta Depero, Azari, Mari- netti, Marasco). 117
8° AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. a) Riconoscimento legale da
parte del Governo dei diritti d'autore per gli artisti delle arti
plastiche, sul mag- gior prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le
ven- dite successive, mediante una istituzione simile alla « So-
cietà degli Autori ». d) Abolizione delle tariffe doganali
internazionali sia riguardo le importazioni che le esportazioni delle
opere d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero, Azari, Ma-
rasco, Marinetti, Volt). 9° CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati
da artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza propor- zionale
delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tec- nici consultivi
avranno lo scopo di tutelare gl’interessi de- gli artisti nei rapporti
con le istituzioni statali, comunali, private e gli artisti stessi.
{Proposta Prampolini, Mara- sco, Marinetti, Volt) 10°
RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le avanguardie artistiche italiane
dovranno essere in- vitate a partecipare con una rappresentanza
proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali, co-
munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinet- ti,
Volt). 11" CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la
degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan- guardia.
Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra- mento delle migliori
istituzioni artistiche di avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la
propaganda artistica ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinetti, Volt). Per la Direzione del Movimento
Futurista e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani F.T.
MARINETTI 118 NATALE SENZA LUCE
sequestrato). Chi fu legionario di Fiume non potrà mai
dimenti- care le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con
le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una breve ma non
ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un valore particolare per chi lo
avvicini al pensiero della situazione politica odierna, che ha qualche
vaga analogia con quella che segnò la fine di un generoso sforzo
della nuova Italia. Il sangue fraterno di quelle Cinque
Giornate non è stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la
Marcia su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare alla
nostra grande Patria una nuova fisionomia di po- tenza e per vivificarla
di un nuovo afflusso di giovi- nezza. Ma la spinta rinnovatrice della
generazione di Vit- torio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto
delle vec- chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo
della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa segnare il passo
alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma «immortale » del cavalier
Giolitti si profila — come quattro anni fa — a rassicurare il mondo che
l’Ita- lia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte
chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che agni tentativo di
virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi, è destinato al più pietaso
insuccesso. Sembra — a ben considerare i più recenti
avvenimen- ti — che il sogno di una politica più alta, più
rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati; e
che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricat- tare. La manovra
parlamentare domina ancora tutto il con- gegno di governo. E’ pacifico
che non si governa coi parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno
per eccellen- LS za: ma è altrettanto pacifico
che questo popolo italiano 119 rabbiosamente
ingovernabile non vuol rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni
male, serbatoio di ogni decadenza. Contro questa massima
cloaca nazionale (parlo, s’in- tende, dell'Istituto, non degli uomini) il
Fascismo è an- dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha
com- messo questo gravissimo errote iniziale: di non saltare a pié
pari il Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto, ha voluto
saggiarne le delizie, ha voluto conquistare que- sta quota a colpi di
scheda — mortificando la sua anima guerriera — quando avrebbe dovuto
farla saltare a colpi di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché
non si debbano scontare. Tuttavia, non si potrà negare a noi
irriducibili anti- parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per
volontà pre- meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù
elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'ini- ziò la
battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritua- lità di italiani
#4ovi: nuovi nella mente, nel tempera- mento, nell’educazione, nella
passione. Anche se tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre,
perse- guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-
vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem- mo ad essere
quelli che fummo e che siamo: cittadini di una Patria più grande, più
eroica, più possente, più do- minatrice. Mai non rinunceremo
— lo sappiano bene i nostri nemici — alla nostra sete d’impero, alla
nostra fiamma di grandezza, che odia la vita democratica,
l’egualitarismo ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di
bra- che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che per
disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla all'impero,
chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu- nali civili e militari,
la giurisdizione eccezionale, la legi- siazione di gabinetto da sovrapporre
a tutte le leggi ante- riori, il diritto di battere moneta, di convocare
il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello Stato, e
infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo
120 dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o
no la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato
dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo segnale, e che
incide sulla tabella i nomi dei Senatori vetanti contro di lui, per
ricordarsene a tempo e luogo. Il Fascismo è venuto al potere più
attraverso la spa da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché
dimenti- carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una sua
politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo vogliono
polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si continuerà a ceder loro
in ogni occasione. Dal 10 giugno in poi, si può dire che l’Italia è stata
governata dall'om- bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura,
contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano aver
diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan- do ci scrolleremo di
dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali di corvacci e di
vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo intransigente, Bemporad,
Firenze 1926, pag. 253-256] STILE FUTURISTA Con la
Mostra della Rivoluzione si risolve finalmente, e in modo favorevole, il
grave problema della militariz- zazione della fantasia creatrice mediante
temi fissi da im- porre agli artisti. Molti fra i pittori,
scultori e architetti, invitati a rea- lizzare questa Mostra grandiosa,
furono indubbiamente turbati dal prestigio di queste gloriose parole che
domi- nano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit- torio
Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove, battaglia di via
Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di via Paolo da Cannobio, Casa
Rossa, Lodi, Palazzo Accur- sio, Marcia su Roma. 121
Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadi- nì o
rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, que- sti artisti
sentirono subito la necessità di capovolgere il loro spirito per
disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel mare della novità.
Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di avanguardie
estere più o meno originali, gridava per in- segnare l'invenzione a ogni
costo. Quattro mesi fa il Du- ce, con la sua bella parola imperiosa e
veloce, ordinò che si evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti.
Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato e tragico della
Rivoluzione, essi abbandonarono la loro sta- ticità e la classicità
placida. Gli architetti incaricati di dare una faccia nuova al vecchio e
brutto Palazzo dell’Esposi- zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi
decorativismo sim- bolico, floreale, mitologico o grazioso.
Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascen-
sionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e mi- naccioso di
altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti. A me ricordano
simpaticamente i geniali fasci di ascen- sori dell'architettura di
Antonio Sant'Elia, il grande e com- pianto padre futurista
dell’architettura moderna. Logicamente andò determinandosi lo
stile della Mostra per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile
ag- gressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un
dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso dei fascisti
come un tino stracarico di giganteschi grappo- li neri io ricordo soltanto
il mosto rosso a terra e l’acu- tissimo odore di benzina. Quindi sintesi,
dinamismo e in- tersecazioni di piani. Visibilità aggressività
giocondità. Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli
squadristi augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria
del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha avuto pet primi
maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le parole di Edmondo Rossoni
dettemi questa mattina, il trionfo dell’arte futurista. F.T
MARINETTI [du: Fuiuriszo, n. 9, anno III, 2 novembre 1932]
122 IL DUCE E IL FUTURISMO Nel fervore della polemica
pro e contro il Futurismo molti si chiedono: come la pensa il Duce? A
questo in terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente
come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo asserire l'opposto di ciò
che loro affermano. Per la verità il Duce non può essere dall’una o
dall’altra parte (passatismo © futurismo) ma nella sua specifica qualità
di Capo della Nazione non può essere passatista e futurista nello
stesso tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono cor- renti
intermedie lo esclude il suo temperamento nemico di tutti gli
oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe- risce le posizioni diritte
anche le più azzardate e non è detto quindi che si compiaccia trattenersi
ad ammirare le varie denominazioni che si dànno alla strada nel
corso di così lungo e complicato cammino com'è quello dell'arte.
Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa. Passatismo e Futurismo:
due colossi che se non esistessero Musso- lini li avrebbe creati apposta
non fosse altro, per }a gioia patriottica di vedere scaturire dal cozzo
di queste mentalità opposte, nuove faville di luminosa genialità
italiana. I piccoli mondi che rotolano ai margini di questa battaglia
sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo dei titani:
hanno una vita effimera e quelli che precipitan- do come valanghe
trascinano nella loro scia deboli detriti superficiali, se sopravvivono,
sono sempre alimentati dal- l'atmosfera incandescente generosa che emana
il corpo che li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamo-
vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare il concetto
conservatore tradizionale del primo col principio rivoluzionario
rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte non è facile stabilite:
dipende da determinate condizioni intellettuali e spirituali di tempo.
Oggi però — in que- sto secolo fascista — più che le biblioteche e i
musei si moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste,
raziona- liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o
nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha
123 valore il fatto che molti sconfessano la loto origine.
E' fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-
quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un utopista e
ogni nazione vanterà il merito di avere instau- rato per prima il nuovo
regime politico. Di queste infa- mie la storia è... maestra; solo dopo
qualche secolo si rende giustizia alla verità. Tornando al nostro
argomento, è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle
gloriose conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul
tra- guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap-
presenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che trascina
l’esercito degli artisti alla conquista del nuo- vo. Questo fatto in sé
eloquente e inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha rapporti
precisi in campo poli- tico con la gloriosa epopea mussoliniana. L'inesauribile
ottimismo futurista si identifica così con il concetto gene- roso
originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare fatti e
particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per- sonali, in tema «
Mussolini e il futurismo » basterà ri- cordare giacché l'occasione è
opportuna queste tre date significative: 1914, 1924, 1934. 1914: «..
Boccioni vi avrà detto che tutte le mie simpatie sono, anche nel
dominio dell’arte, per i novatori e i distruttori e per i futuristi... »
Mussolini. 1924: «... presente adunata futu- rista che sintetizza
vent'anni di grandi battaglie artistiche politiche spesso consacrate col
sangue. Congresso deve essere punto di partenza non punto d'artivo... »
Musso- lini. 1934: ...Dopo di avere concesso il suo alto patro-
nato per le onoranze nazionali al futurista Umberto Boc- cioni, Mussolini
offre il PRIMO generoso contributo ma- teriale per il trionfo della
grande rassegna dell’arte futu- rista italiana. A questo
punto, dopo quanto abbiamo detto, ulteriori considerazioni sono superflue
come sarebbe superfluo ri- cordare ancora una volta l'influenza
patriottica esercitata dal futurismo sulla gioventù italiana prima
durante e dopo la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi
al fascismo nel 1919 (...). Mino SOMENZ2I (da:
Sant'Elia, n. 3, anno II, 1° febbraio 1934] 124
VENTITRE MARZO FUTURFASCISTA Allorché quindici anni or sono, nel
palazzo di Piazza San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di
quello edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel
manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi erano soltanto
ed esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di
combattimento, i primi gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che
cominciavano a formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e
gli arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me-
rito esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al
Fascismo un apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre
die- de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco di
fede cieca, di entusiasmo eroico. Vogliamo indagare il perché di
questa spontanea sim- patia, di questo irresistibile trasporto del
Futurismo verso il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria
cor- rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed una
concezione eminentemente artistica? Prima di tutto, troviamo che
il Fascismo e il Futu- rismo hanno alla loro origine dei germi comuni:
l’amore disperato alla propria terra, la necessità di moto e di
azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di partenza
per la sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco
conclusivo di quei fatti e di quel- le idee che possono riassumersi nei
tre principii futuristi: « Tutti 1 diritti, meno quello di esser
vigliacchi ». « La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». «
La puerta, sola igiene del mondo », Dalle piazze affollate
d'Italia si passò alle trincee in- sanguinate d'Italia: interventisti
intervenuti: identico en- tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà
di far ger- mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla
morte dei suoi figli. E questa è già molto per dimostrare la
straordinaria 125 affinità sentimentale, di origine e
di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è di più.
Infatti, passando dal campo delle con- cezioni teoretiche a quello delle
espressioni pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del
presente, protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla
conqui- sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;
raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre raggiungere
anche queste: ogni sosta è un tradimento: ogni indugio è un
delitto. Non sona questi i principii stessi cui s’informa il
Futurismo? E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue
schie- re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-
tù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la stessa
generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
uni- co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a
che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione
squilli nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è
soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella
storia dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica
abbia potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione
esclusivamente politica e sociale Il fatto straordinario che
oggi non può non riempirci di legittima se pur meravigliata
soddisfazione, è questo: un colosso della politica che pensa, agisce,
crea, con la ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta:
un poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per la
gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad oggi antitetiche,
politica e arte, s'urtano o si contrastano: anzi si può ben dire che esse
hanno così informato di sé medesime le due personalità che concepirle in
diversi at- teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.
Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori 126
del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci- bile,
misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for- za cioè che crea in
alcuni privilegiati quegli speciali stati d'animo per cui il Genio,
attraverso l'adamantina lumi- nosità di un pensiero superiore, giganteggia
e s’infutura? E’ indubbiamente questa forza contro la quale
noi nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della stessa
tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de- gno seguace di
Mussolini. E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-
tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è perciò che come
non potrebbe comprendersi un futurismo non fascista così non si potrebbe
concepire un fascismo conservatore e passatista. E’ perciò
ancora che i futuristi e i fascisti, se veri ambedue, s’intende, non
possono distinguersi: l’italiano nuovo è un miscuglio — nel valore che la
chimica dì a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi
costi- tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un
tutto organico. Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi
/uturfasci- sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-
finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran- de verità che
non può discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che
i fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere
diversamente data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista
nella quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come
avviene, allora, che anche tra i fascisti sono molti i contrati al
Futurismo? Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo
in camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur- troppo
parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem- pre in prima fila nei
cortei, han tuttavia conservato l’ani- ma italiana di anteguerra, pavida,
gretta, piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo
tutto ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen- so
invincibile di borghesisma, per timore di essere ridi- 127
colizzati e per desiderio di essere tenuti e rispettati quali
persone serie, dicono e non dicono, ammettono e smen- tiscono, concedono
e negano, opportunisti rammolliti, bor- ghesi, vigliacchi. Ma
ciò che prima o poi capiterà a costoro, che noi sentiamo di odiare
profondamente, molta ma molto di più dei nemici nostri aperti e leali,
che almeno rispet- tiamo, lo ha detto chiaramente il Duce nel suo
recente magnifico discorso all'Assemblea quinquennale. Per essi non
si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di vigliaccheria, e
basta. Non han diritto neppure a chiamarsi italiani. Né
escludiamo da questa ignominiosa schiera quei gio- vani d'anni che han
conservato intatta l’anima dei bisa- voli: che gridano doversi l’arte
rinnovare e si impuntano come muli riottosi dinanzi al futurismo: che
accettano e sì prosternano ad ogni novità che ci proviene d'oltre
confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e fanno i
disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso il nostro movimento che
gli stranieri stessi ammirano co- me un’altra delle tante glorie
italiane. Anche questi così detti giovani non possono e non
po- tranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non hanno
del Fascismo né compreso né assimilato quelle ca- ratteristiche di
spiccato futurismo che sono il rinnovamen- to, la velocità, il dinamismo,
il continuo superarsi, la mat cia ininterrotta verso la perenne
conquista. E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano
a vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto am- biente
donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno l'anatomia di un nostro
artista senza riflettere che esso è soltanto un membro di un corpo
gigantesco. Essi dimo- strano di aver perduto o di non aver mai posseduto
quella somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la
virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantez- za
anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri- matii, le comparse
della nostra vita e abbiamo di già concesso loro troppo onore di
discussione. Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo
politi 128 co-sociale, l'idea fascista; nel campo
artistico-spirituale. l’idea futurista. Ambedue han detto al
loro mondo una parola non an- corta udita; ambedue hanno tracciato,
ognuna nei propri confini, la via nuova da seguire per giungere alla
salvezza: tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dina-
mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimi- smo. di
passione, di entusiasmo. L'una, nel campo politico, ha raccolto
infiniti proseliti ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi
d’indole contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni;
l'al- tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente susci-
tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri, rincuorato i
pavidi, persuaso i dubbiosi. Se qui dovesse attestarsi l’opera
vitale sia dell'una che dell'altra idea, già tutti i diritti esse
avrebbero acqui- stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.
Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio- nale: e i critici
che affermano essere il Futurismo supe- rato ci fan lo stesso effetto di
quei pochi e sparuti anti. fascisti che affermano aver il Fascismo
esaurito il suo compito. Idee come queste nostre non possono
né sostare, né esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di
con- tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista non lo
permette. Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-
rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera. Ed ora che conclusione
trarremo dalla dimostrata iden- tica struttura spirituale del Fascismo e
del Futurismo, dal- la dimostrata perfetta corresponsione fra loro di
scopi e d’intenti? La conclusione è la solita: ripetiamo
ancora una volta e confermiamo che il solo artista capace di riprodurre
in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta la sua
gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista futurista e che
il Futurismo è la sola espressione d'arte degna e capace di tramandare ai
posteti la vitalità, la po- tenza, la dinamicità dell’éra fascista.
190 Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da
quel- l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del
Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che nessuna scuola,
nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può vantare E
noi teniama al riconoscimento di questo nostro di- ritto: non perché ci
spingano meschini interessi o poco nobili ambizioni ma perché, forti di
un infinito amore per la patria nostra e di una dedizione cosciente e
completa di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di
un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo. gliamo che non
abbia soste il cammino trionfale che l’Ita- lia rinnovata sta compiendo
verso le sue più alte mète, sotto il comando romano di Benito
Mussolini. FuTURISMO [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile
1934] 130 BRUNO CORRA CORRADO GOVONI
PAOLO BUZZI REMO CHITI LUCIANO FOLGORE FUTURISMO DI
DESTRA E DI SINISTRA La polemica accesasi negli Anni Trenta tra
futuristi rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già
espressione di quel «secondo futurismo», che abbia mo visto e detto
essere momento collaterale del fa- scismo-regime. O tentativo piuttosto
di conservare la avanguardia nell'ambito di un sistema che come
tale era più propenso ad un suo ordine intrinseco e im-
prescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo senso il futurismo
«di destra», come lo definisce il sansepolcrista Bruno Corra nel marzo
del ‘32 su Fu- turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri.
vati », di chi si asside sulle comode poltrone della fine della carriera,
pur cercando di mantenere uno Spirito 4 precedente », giovanile e
innovatore, che non può essere venuto meno in chi ha giù combattuto
e si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa eco Corrado
Gawvoni riprendendo il discorso e pun- tualizzando il concetto stesso di
futurismo, senza che gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio
fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua portata e i suoi
risultati. Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul
numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un violento attacco ai
«futuristi di destra » e il sostegno 4 un ritorno alle estrema sinistra
», come già dice nel titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se
vuol rimanere avanguardia, non può che esercitare una funzione di
vottura per il rinnovamento ed il rivolgi- meuto del vecchio e del
passato. Come tale l'aver guardia non può che essere e rimanere di «
estrema sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar dia
0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una voce isolata quella del
Buzzi, rincalzato ancora il 2 aprile, sul numero della settimana dopo, da
Remo Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto si
annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in cuni tt futurismo
diviene ercativo e vu libera dvi con- formismi e delle convenzioni.
Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed ultimo articolo
Luciano Folgore, sempre su Futurismo dello stesso anno (1933). Il
futurismo di destra e quello di sinistra st superano oramai
nell'avanguardia che ancora continua e sì muove nell'avanzata
dell'en- tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-
timo, anche con la fine del fascismo, anche con la morte di Marinetti,
anche con la sconfitta nella guerra « sola igiene del mondo », continua
ancora nelle ulti me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto,
quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre sente.
NOI FUTURISTI DI DESTRA Quando si riunirà in Roma il primo grande
congresso dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi —
vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un banco dell’estrema
destra. Ma esiste dunque, può esiste- te un Futurismo di destra? I due
termini non fanno a pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in
sé tendenze conservative? E, infine, l’espressione « futuri- sta di
destra» non val quanto « futurista annacquato e prudente » non
s'identifica con l’ambigua parola « nove- centista »? Mi pare
che qui si tratti, prima di tutto, di una que- stione di moralità. Dare
al Futurismo quel che al Futuri smo appartiene: e non truccare il proprio
ingegno con una etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista
ma non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io
stabilirei questo principio: che il privilegio di poter restare nella
sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel- la propria opera
matura un remperamento realizzatore di destra debba accordarsi soltanto a
coloro che han dimo- strato di saper essere « integralmente » futuristi.
E recla- merei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in
no- me della mia effettiva collaborazione al Futurismo più ri-
voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due opete di
audacissima narrazione fututista (La donna ce duta dal cieln — Sam Dunn è
morto). In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo
è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che nel nostro
movimento i termini sinistra e destra non si oppongono, perdono ciaè il
loro significato convenzionale. La mentalità futurista supera il
contrasto fra il sovverti- mento e la conservazione, in quanto si libera
di continuo in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso
fu- turista dovrebbe assumere una configurazione non oriz- zontale
ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base, 133
aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io qui mi
son servito della parola destra. Ma diciamo pure i fanti, i
pontieri, i costruttori di stra- de del Futurismo, e avremo indicato il
carattere e spiega- to la necessità di questo settore nel nostro
movimento: l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come
la decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in gran
parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili- brarsi tra il dovere
del rinnovamento artistico e l’impe- rativo degli scopi vitali ai quali
la sua natura la destina. Un romanzo illeggibile equivale a una casa
senza finestre per vederci o a una stazione dove i treni non possono
cir- colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem- po
attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste vogliono essere
le più comode: la struttura delle città futu- riste mira ad assicurare i
massimi vantaggi alle moltitudi- ni che devono abitarle. Allo stesso modo
il narratore fu- turista ambisce di garbare alle folle dei giovani,
traendone e in esse trasfondendo gli ideali tipici del nostro
tempo, per via di una tecnica intonata alla sensibilità moderna,
tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon narratore
futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna terrestre, per collaudare
ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la propria tempra di
novatore. Questa nota velo- ce non intende di risolvere l'importante
problema al qua- le si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai
came- rati futuristi. Bruno CorRrA Sansepolcrista
[da: Futurismo, n. 27, anno II, 12 marzo 1933] FACCIAMO I
CONTI Con il suo articolo « Noi futuristi di destra » uscito
nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha oppor- tunamente aperto
una tempestiva discussione intorno al movimento futurista che, secondo
me, va allargata e ap- 134 profondita da una serie di
perentorie domande — argo- menti che, investendone in pieno la vita e la
vitalità, ri- chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,
Quali sono le origini e le funzioni del movimento fu- turista in
Italia. Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari
succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che accusano
sinceramente una netta derivazione dal Futu- rismo. Individuazione
dei movimenti artistici e letterari che rappresentano una deviazione e
una contraffazione del Futurismo e dei movimenti che, o fingendo
d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo attraverso la
propria attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e a
servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda simbiosi di
Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni per cui
elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal
movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver- ne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-
na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu- tutismo di
essere un movimento difettoso e caduco per- ché nato senza una dottrina
estetica che lo giustifichi. Espansione influenza e fortune del
Futurismo in tut- to il mondo e suo riconoscimento in Italia.
Sono tutte domande che hanno bisogno per una con- veniente
risposta, di lunghe e minuziose trattazioni. Ed è più che naturale
e logica la irresistibile tendenza dei nostri connazionali a
sbarazzarsene con una sola pa- rola. Questa parola la
conosciamo troppo bene: Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche
il grossolano trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un
certo punto, e il 135 più nascostamente che sia
possibile: è bene non compro- mettersi troppo!), per negare poi il
Futurismo e massacra- re i futuristi. Da troppo tempo si
pratica ormai l'iniquo inganno per non sperare che abbia finalmente a
fruttare un ri- sultato vittorioso e definitivo! E’ il trucco
indegno tentato dagli antifascisti contro il fascismo quando si cercava
di mettere in mora il fa- scismo proclamando il Mussolinisma,
nell’assurda cana- gliesca mira di dividerli, per batterli poi con più
comada separatamente. Mussolini anche a quei tempi era trappo
Duce per non avvertire la subdola insidia e sventarla.
Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente amato ed
ammirato? Per conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di
energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero. Bisogna sentire allora
con che fuoco egli è capace di affrontare i pubblici più paurosi per
numero e distinzione, più ostili ad ogni cosa che abbia la nostra
impronta di quanto non st creda, e per mentalità, per gelosia e furore
d'inferiorità; bisogna sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto
irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e, mentre fa
giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani- ma del Duce,
vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co- stringerle a riconoscere la
poesia italiana come una cosa caduta dal cielo: bisogna, dico, vedere
quest'Uomo straor- dinario all’estero, per capire che instancabile
affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo in
lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza, que-
sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è forse il suo
più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul- l'argomento. Ma
approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruo- so delitto.
Che cosa volete allora?, ci domanderà qualche impru- dente con un sorriso
allusivo. No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state
tran- quilli: a questo volevate alludere. Ma troppe volte ricevia-
136 mo in faccia la cenciata dell'insolente puzzo di
benzina per non sentirci offesi e disgustati nella nostra rassegnata
povertà. La ragione del nostro malcontento è che da troppo
tempo noi andiamo seminando e falciando per quelli che ci seguono e
allegramente raccolgono senza nemmeno ri- volgerci un pensiero di
ringraziamento. Amici cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo
un pochino indietro anche noi? Se pensassimo anche noi di raccogliere un
pugno di quelle spighe, da portarcele a casa se non altro per ricordo e
testimonianza della lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo
ancora correre un poco, ho paura che ci negheranno anche questo piccolo
premio di consolazio- ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!),
questo non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che st
prodigarono e sactificarono per una fede e un ideale e che Alfredo
Panzini già propose di raggruppate in una sola classifica con la
denominazione di collezione di fessi... CorRrADO GovonI [da:
Futwrismo, n. 28. anno II. 19 marzo 1933] ESTREMA SINISTRA
E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun- ti fermi»,
Îe categorie anagrafiche non contano. Si sa che, per taluni, l'età del «
destino » futurista è passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della
creazione non è discesa e, soprattutto, quando il traguardo
tremendamente astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si
sente, ogni mattina, l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di Luce
Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei
sedermi a destra, proprio io? Mi sembre- rebbe di tradire la causa di «
Aeroplani », di « Ellisse € 137 la Spirale », di « Cavalcata
delle vertigini », di « Popolo canta così! » di « Dannazioni » e di tutto
il mio Teatro inedito, ma ultra violetto, che ha forse, a suo tempo,
spa- ventato anche i genii scenici sovversivi di Petrolini e di
Bragaglia. Soprattutto, mi sembrerebbe di tradite le mie
Opere fantasticamente audaci di domani: « Beatitudini »
(affret- tati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve
partire per le stelle!). « Canto quotidiano », dove vedrete il Poema
attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta stam- pando); e «Nostra
Signora degli Abissi »: dove, fina] mente, la Motte sarà vinta e le onde
cosmiche impaste- ranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni
inter- planetari. Questo è futurismo: e di ultra estrema
sinistra. Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le
mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spa-
ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransi- genza etico
estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria)
della mia lunga carriera di uomo che ha sempre fatto dell'Arte come il
sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino,
non mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed
esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori san- ti, martiri ed
eroi. Ma anche questo è un segno nobile del- le cose e degli uomini e
degli eventi. In quanto alle mie opere di Poesia pura, ho avuto la
soddisfazione recente di trovarmele analizzate e comprese e discusse ed
evidente- mente — quindi — amate da una Rivista di giovanissime
menti e di ardentissimi cuori: dico, la « Penna dei Ragaz- zi » diretta
da Vittorio Mussolini, edita in Roma. I giovani, quelli veramente
degni di questo nome pri- maverile, sanno che, al di fuori e al di sopra
d’ogni inevi- tabile chiasso letterario, la parola « futurismo »
risponde alla solo unica vera «idea forza» che oggi esista nella
sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unica- mente di essa,
se oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vivrà.
Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se 138
coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: « lavorate » non
accontentatevi di quattro parole intonate all’onoma- topea del motore: la
Poesia italiana ha ben altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate
dalle finestre di Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi
« Carmi de- gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il
Duce vi premierà. PaoLo BUZZI [da: Futurismo, n. 29, anno II,
marzo 1933] FUTURISMO SOSTANZIALE « Non c’è che un
futurismo: quello di estrema si- nistra », ha affermato Paolo Buzzi. Ma
questa generosa intransigenza che parrebbe volere ammettere un
unico modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor- ra
circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra « aderente al
terreno pratico » — rimane una questione poetica e individuale di fronte
agli argomenti che le ter- ranno dappresso: 1) Il futurismo
non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere dalle
definizioni; pago della pro- pria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicati- va, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: « fermo
restando che l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-
zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi- ni sinistra e
destra non sì oppongono, perdono cioè il loro significato convenzionale.
La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvertimento e la
conservazione, in quanto si libera di continuo in uno slancio creativo
». 2) Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen- to
non si compongono di un solo tipo di futurista. La 139
convinzione può essere unica; ma l'ispirazione e i tem- peramenti
saranno naturalmente diversi. Così uno stesso tema, di sentimento
futurista, verrà espresso in stili di- versi. Si dovrebbe
scartare i meno intensi? Fino a quel pun- to? E come negarne la sostanza
futurista? 3) La varietà di tipi, che documenta l’importanza
sociale del fenomeno futurista, è assoluta; e va dai poeti ai militari,
dai pittori agli industriali, ecc. Bisogna presupporne quindi una
gradazione di realiz. zatori; gradazione intimamente connessa alle
diverse si. tuazioni ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano.
Non si tratta qui di temperamento o di mentalità più o meno
ardenti. Si tratta di concezione e di azione che devono spesso basarsi
sul comune « campo pratico » dove s'in- contrano il numero o la psicologia,
cioè i mezzi materiali negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i
giornalisti, gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando
parla nei convegni e alle inaugurazioni, faccia — con istintiva
attenuazione del- la sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché
allora è sul terreno « pratico ». E buon testimone potrebbe esserci
Mino Somenzi stes- so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello
intransigente, che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I.
Con- gresso futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli-
gente accoglienza a dare alla manifestazione una luce di concordia, rara
nelle ancor più rare grandi adunate di artisti e di caratteri
spiccatissimi; Somenzi stesso che fon- dò questo giornale indispensabile
alle rivendicazioni di con- quiste artistiche e ideali misconosciute ed
alla continua- zione della tenace opera di ringiovanimento, ed
accolse dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e
d'ogni fama purché attratto da poli positivi. Dunque, se si
dovesse affermare l'essenza d’un solo futurismo bisognerebbe dire: «
futurismo sostanziale », che è poi quello del 1909, di oggi e
dell'avvenire: umano, illi- mitato, ascendente. Le idee
vitali sono al disopra degli stessi uomini che 140 le
divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi. racolosamente,
quasi contro tutte le volontà. Corrado Govoni, a seguito della
discussione aperta da Bruno Corra, proponeva di riesaminare la posizione
del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette que-
siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos- sa dal
culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina giustificante
l'estetica futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di
dottrina: - e non dai soli avversari. Quale dottrina, quando
la critica ufficiale vede attra- verso la cultura, divenuta una seconda
natura? Remo CHITI (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile
1933] ALL'AVANGUARDIA Mi ricordo che Umberto Boccioni
propendeva per un movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i
quali si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro
gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena. Secondo Boccioni
non bastava proclamarsi novatore per esserlo, in realtà; non era sufficiente
una adesione più o meno entusiastica per avere ingresso libero in un
mo- vimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita un
nuovo ordine di cose. Dal suo punto di vista, puramente artistico,
il crea- tore del « dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono
della originalità non è largito che a pochi. Per superare il già fatto,
mettersi in armonia coi propri tempi e pre- vedere i lineamenti estetici
del futuro occorre un’intelli- genza ardita, geniale e di largo
respiro. Ma contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la
vi 141 brante liberalità di Marinetti, che più
futurista di ogni altro intuiva la necessità di creare un clima, di
generaliz- zare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera
spiri- tuale in cui si dovessero respirare continuamente il senso e
il desiderio della novità. Ecco la ragione profonda del suo
proselitismo, della sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento,
di tutti quei giovani e giovanissimi che avessero fede nel futurismo.
Tale generosità non fu e non sarà mai faciloneria. Nel
fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo e di sacro che è
impossibile trascurare. Ognuno di noi sa per esperienza che è la
primavera, anche con le sue intemperanze, la stagione che prepara i germi
e i frutti di domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi
sbol- liscano presto. Basta che la fiaccola timanga accesa e che
trascorra di mano in mano agitata e sollevata continua- mente da qualcuno
che ha fiducia nell’eterna giovinezza della nostra arte e della nostra
vita. Futurismo di destra? Futurismo di sinistra? Non cre- do
che sia il caso di parlarne. In quanto alle benemerenze e al sacrifici,
talvolta eroici, dei primi banditori del futu- tismo essi appartengono
ormai alla storia. L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della
vigilia fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu-
to di applausi e di ricompense che essi giustamente meri- tano. Ma ciò
equivarrebbe a una giubilazione e noi ri- schieremmo di diventare dei
sopravvissuti. Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto
di combattimento. In prima linea sempre e all'avanguardia ad
ogni co- sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con
il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e accetta
soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti- cato dagli abili
profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto
e del caso personale, questa ferma volontà di essere più giovani dei
giovani è un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di
quell’otti- mismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché
so- 142 no nati con la barba nel cervello, non hanno
avuto mai vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nel-
l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mez- zi termini c'è
il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni poesia nuova. Chi ha il
torcicollo nostalgico non può guar- dare dititto innanzi a sé e andare
oltre speditamente. Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che
si per- petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze
istintive e fornito da madre natura del vero e genvino senso
dell'immortalità. Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il
clima fu- turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e
acerbo. Luciano FOLGORE [da: Futurismo, n. 31, anno II, 9
aprile 1933] 143 CARLO BELLOLI ENZO
BENEDETTO TULLIO CRALI ALBERTO SARTORIS
TESTIMONIANZE Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste,
è sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto, una di
Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eri- tico d'arte, e una di
Enzo Benedetto, pittore e giorna- lista. Tre furono e sono futuristi: il
quarto (Carlo Bel. loli) è un esperto, studioso ed interprete del
futurismo. Ci sono sembrati interventi significativi e ittdispensa-
bili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che si tratta di
personaggi viventi, che hanno partecipato al futurismo e che ancora oggi
lo sostengono e cercano di dargli alito o di vivere futuristicamente a
tutt'oggi in un mondo, forse, ricaduto nel « passatismo ». Crali
con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato l'avan- guardia, cui
aveva aderito col futurismo che sempre l'aveva sostenuta, al di qua e al
di là del fascismo. Benedetto con un manifesto {Futurismo oggi) e
poi con un foglio periodico «operativo », capace di pro
porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi. Sar toris con
un'ottività artistica professionale volta 4 con- timuare, anche se in
oltre direzioni n con altri strumen- ti di vicerca, la prima avanguardia
cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce
criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe
« colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0 accantonate. La critica
deve essere seria e intellettual. mente, n «ideologicamente », corretta.
E° quello che abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione
di questo testimonianze Carlo Belloli, critico, poeza « visuale »
di sperimen tazione futurista, e docente nelle università svizzere
di estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasbur- go)
Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E' colla boratore de La
Martinella di Milano, già del Roma di Napoli, e della rivista Les Arts di
Parigi Organizza come consulente le mostre di numerose gallerie
d'arte di Milano. Enzo Benedetto, pittore e
scrittore, futurista « da sempre » (1923). E' nato a Reggio Calabria nel
1905, vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo aggi, che
esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri produzioni di opere
futuriste. Fu anche autore del l'omonimo manifesto nel dopoguerra
(1967). ‘Tullio Crali, pittore futurista e aeropittore. E'
nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove ha lo studio
e il più importante archivio del futurismo attualmente esistente.
Futurista dal '29 e creatore della camicia anticravatta e della giacca
antibavero (nel '33), é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista sulla
« Sas- sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti nel ‘4d,
prima della morte, a Venezia e e concordare can lui la continuità del
futurismo dapo la guerra Alberto Sartoris, architeito e professore
dll'Univer sità di Losanna. Futurista e amico di Terragm e di Le
Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay Ville, vicino a
Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel ‘28 sarà con Prampolini e
Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il gruppo degli astrattisti a
Como, dove collabora con Terragni nel progetto della città operaia
di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il li bro Gli elementi
dell’architettura funzionale (1932), pilastro teorico del razionalismo
architettonico italiano (introdotto da Le Corbusier)
FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA
CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa,
al- cuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare auto-
nomia espressiva. E' il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed
Arman- do Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile inci- denza
che dalla originaria militanza futurista estrassero dialettica,
argomentazioni autonome e maturazione spiri- tuale, per assumere nel
giornalismo fascista più avanzato ruoli protagonisti. Mario
Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra mondiale e poi
legionario fiumano, fondò con F.T. Ma- rinetti l'Associazione degli
Arditi d’Italia e il periodico Roma Futurista dalle cui colonne trovarono
sistematica divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere
dei poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe
Bottai che ne fu redattore. In quel 1919 anche il generale Luigi
Capello si avvi- cinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere
di accertata ingegnosità, alla « Grande Esposizione Naziona- le
Futurista » nella galleria centrale d'arte di Palazzo Co- va a Milano,
mostra successivamente presentata a Firenze e a Genova. Mario
Carli con la raccolta di versi liberi e parole in libertà Caproni,
pubblicata a Milano nel 1925, precorse l’aeropoesia futurista degli Anni
Trenta. Alla prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti
fil- trate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri-
stampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà
quella Libreria del Littorio, editrice di mo: numenti e documenti
dell'era fascista. Il suo debutto di prosatore era avvenuto nel 1909 con
un seguito di novel- le, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo
roman- 147 zo, Retroscena. All’attività letteraria e
giornalistica Mario Carli alternerà quella politica e diplomatica.
Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo Intransigente, con
prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la ten- denza più
oltranzista del fascismo. Nel 1925 Carli era stato nominato Console
d’Italia in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto
Alegre nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reg-
genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro. La tournée
brasiliana del fondatore del futurismo a Rio de Janeiro, Porto Alegre,
San Paolo e Santos, nel maggio del 1926, troverà Mario Carli a fianco di
Mari- netti per arginare le polemiche causate in Brasile dalla
aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in li bertà.
Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà la parola con
Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu- risti non aveva impedito
di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica alle quali la
poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti precisamente influenzando
il « mo- dernismo » sudamericano. Emilio Settimelli, poeta,
scrittore di teatro e giorna- lista, aveva debuttato nel gruppo futurista
toscano nel 1915 e con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato la
prima antologia del Teatro Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati,
a Milano in quel medesimo anno, nella collezione dei « Breviari
Intellettuali » del suo Istituto Editoriale Italiano. Nel
1917 Settimelli pubblicherà a Firenze Maschera- te e, nel 1918, I
capricci della Duchessa Pallore, edito a Milano dalle Messaggerie
Italiane. Settimelli risulta pre- cursote di un periodare scarno e
telegrafico, serrato e dia- lettico, inttoducendo la pratica di
neologismi sociopolitici che avranno fortuna nel linguaggio governativo e
giorna- listico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sin-
tetico di Settimelli si differenzia da quello degli altri auto- ri
futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati d’ani- mo
simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne alla corrente più
revisionista e le sue Sassate, pubblicate 148 a
Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col: piranno più di
un gerarca in posizione moderata e con- formista. Filippo
Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi- lio Settimelli e Mario Carli
il manifesto Che cos'è il Futu- rismo | Nozioni elementari, dove vengono
considerati « fu- turisti nella politica » coloro che amano il progresso
del- l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno liberare
l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parla- mento, dal
matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro- positi del
fascismo. Così la volontà di perseguire un governo tecnico di
giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio ec- citatorio di
giovanissimi », la determinazione di « espro- priare gradualmente tutte
le terre incolte e malcoltivate, preparando la distribuzione della terra
ai suoi lavoratori » e l'abolizione di ogni forma di parassitisma
burocratico, industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente na-
zionalfasciste e fasciorepubblicane. Il manifesto considera, poi, «
futurista nella vita » chi « sa dare a tempo un cazzotto e uno schiaffo
decisivo », chi « agisce con energia pronta e non esita per
vigliacche- ria », come chi « fra due decisioni da prendere preferisce
la più generosa e la più audace, sempre che sia legata al maggiore
perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del- la razza... »: medesima
l'etica fascista di alcuni anni dopo. Nel 1922 Emilio Settimelli
aveva dedicato un saggio critico all'opera di Marinetti, edito a Milano
con | tipi di Gaetano Facchi, che può essere considerato il primo
ten- tativo di analizzare la letteratura marinettiana al di sopra
del clamore scandalistico e della propaganda futurista. Nel 1927
Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni d'Arte e di Critica, Come
combatto che raccoglie i suoi più polemici scritti apparsi sul quotidiano
romano L’Irm- pero, diretto con Mario Carli. Verso la fine
degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al. cuni anni di confino di polizia
causati dalla sua intransi- genza critica verso alcuni personaggi-chiave
del regime. Di Armando Mazza, che ci fu dato di personalmente
149 conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per
pre- sentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei
teatri della Penisola. Eccellente declamatore di versi, tonante
dicitore di manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico
atle- tico di lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi, a
Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi passatisti, mentre Îa
sua voce tonante sovrastava i fischi e il vociare degli oppositori.
Singolare poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad organizzate un
movimento anticomunista, fondando nel 1919 a Milano, il settimanale
politico I wmemzici d'Italia, organo antimarxista, nazionalista e
prefascista. Nel 1918 Mazza aveva pubblicato dall'editore Gaetano Facchi
di Milano 10 Liriche d'Amore, seguito di altrettanti poemi in versi
liberi stampati come cartoline postali raccolte in contenitore di carta
crespata. Queste cartoline poetiche so- no il primo esempio rilevabile e
significativo di quella che negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art,
« Arte po- stale », assegnando alla comunicazione poetica il canale
inabituale della spedizione a domicilio del messaggio este- tico. Già nel
1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso delle « Cartoline Postali di
Guerra », edite dallo Stabi- limento Tipografico Taveggia di Milano, di
cui Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente
de- terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti. liriche
pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una
spie gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a
Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di una pregevole
sequenza di parole in libertà dove la com- ponente tipovisuale
dialettizza le scelte semantiche, tal- volta enfatiche ed irruenti con
frequenti ricorsi ad ana- logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà
totalmente assorbito dal giornalismo e dall’attività politica
Sarà direttore di importanti periodici come La grande Italia e di
quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del
Carlino di Bologna. Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando
Mazza 150 farsi ancora più liquidi e trasparenti
quando ci parlava del Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe
del qua- le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose »,
riser- vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza aveva
frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa Aranba a Rio de
Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai tempi de La Diana e Giovanni
Gentile a Milano, proprio mentre il filosofo stava orientandosi verso il
fascismo. Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei
primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato di- pinto dal maestro
futurista in un esemplare pastello di rara fattura e di deflagrante
cromaticità, che pubblicam- mo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.
Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la critica
d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore del quotidiano, poi
settimanale, Gli Avvenimenti dove il pittore reggerà per qualche tempo la
rubrica d'arte. Il fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e
la sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945 il
più completo ostracismo, impedendogli di continuare la attività
giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino agli ultimi giorni di
vita. Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla
poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in versi liberi
pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori inadeguati. Fra i più
importanti poeti del futurismo con- fluiranno al fascismo, assumendovi
incarichi di alta re- sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone)
che, a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N.
(Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo Buzzi che, a
Milano, assumerà la carica di Segretario Ge- nerale della Deputazione
Provinciale. Altri futuristi di minore rilievo, come il poeta Federico
Pinna-Berchet, au- tore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel
1930, il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio Vecchi,
prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al fascismo svolgendovi
ruoli anche decisivi. Sambo diventerà federale di Addis Abeba, mentre
Pinna-Berchet e Vecchi ricopriranno alte cariche corporative. Così il
genovese Pie- 151 ro Bolzon, poeta-pittore futurista
dal 1919 e battagliero giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel
1928, poi Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di
saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle edizioni
Alpes di Milano. Anche il grande invalido di guerra Giuseppe
Steiner, piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali
Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la « poesia
grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva » dei giovani fiorentini
negli Anni Sessanta, sarà nominato Consigliere Nazionale fascista. Dal
futurismo si oriente- ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore
Guido Kel- ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un
pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti, il « cagoia »
del « Natale di sangue » fiumano; e la Me- daglia d'Oro ferrarese Olao
Gaggioli, poeta parolibero fu- turista e pluridecorato ufficiale del
XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.
Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da- quanno, poeta
parolibero e cofondatore a Milano del pe- riodico I Principe, organo
fascista difensore della « Mo- narchia integrale ». Daquanno, che nel
1925 aveva pub- blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio
dell’artigianato italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa
della Federazione Fascista delle Comunità Artigiane. Un
riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di teatro sintetico
Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa- sci Futuristi », di cui era
stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai « Fasci di
Combattimento Siciliani » assumendovi compiti determinanti. Nel 1924
Jannelli pub- blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della
Balza Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa- scismo
in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set- timelli e Mario
Carli, miei fratelli nella avanguardia arti- stica e politica della nuova
Italia e anime capaci di ren- dere pienamente la sincerità che mi ha
mosso a compiere queste franche pagine obbiettive ». Questo
scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica nell’ambito
del fascismo, di una volontà revt- 152 con 1acusaro
adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0- luta... ». Così Jannelli
vede il fascismo nel 1924: «... il fascismo si è rotto in due pezzi:
molta della parte più buona è rimasta bloccata, impedita di agire; e
l’altra par- te trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa,
po- co moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi-
gnificante... ». Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale,
regi- sta, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al
mo- vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futuri- sta
fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un saggio monografico al
fondatore del futurismo pet, infine, pubblicare nel 1927, a Bologna per i
tipi dello Zanichelli, quel fondamentale Cubismo Futurismo
Impressionisnio, ade- rirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel
diret. torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare. Dal
fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Fran- cesco Orestano,
Accademico d’Italia, che negli Anni Tren- ta dedica al movimento di
Marinetti saggi di teoria este- tica e di critica letteraria. Orestano
aveva pubblicato nel 1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura
teo- retica aveva particolarmente influenzato il giovane Ma-
rinetti.” Anche Paolo Orano, scrittore, storico della
filosofia e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per
la Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII e al
quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di storia del giornalismo
nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, si
orienterà verso il futurismo. Nella raccolta di saggi critici I
Contemporanei, pubblicata a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà
a Ma- rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al
futurismo considerato estetica nuova di apertura inter- nazionale. Dalla
pittura futurista si muove, invece, verso il fascismo Antonio Marasco,
senz'altro il più impegnato e coerente politico fra tutti gli operatori
plastici del futu- rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte
rilevante 153 nelle squadre d'azione
fasciste di Firenze dove si era tra- sferito prima ancora di arruolarsi
volontario per la guerra 1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da
gas di ipri- te sul Piave e dopo essere stato promotore con
Marinetti dei « Fasci Futuristi ». Nel 1914 Marasco aveva
accompagnato Marinetti nel suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a
Pietroburgo, dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wla-
dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema inventività
grafica al medico-pittore Nicolaj Kulbin, al pittore Nikolaj
Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe- ta-aviatore Kamensky, al
poeta-scrittore B. Livshits, al mu- sicista A. V. Lurié e al regista
Tairow. La pittura di Ma. rasco presenterà sempre componenti
sperimentali, non con- dizionata da temi fascisti o da enfasi
dell'aviazione mili- tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte
della neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco
precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am- bito della
milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi- ringhelli e può essere
considerato uno dei pionieri del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Particolarmente affezionati a Marasco avevamo
avuto modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima mostra
personale a Milano, di carattere antologico, attra- verso la quale il più
vasto pubblico riuscì a scoprire le sue ricerche preastratte e
protoconcretiste realizzate a Fi- renze fra il 1923 e il 1930
Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa- scismo ebbe
coerenza di adesione alla Repubblica Sociale Italiana dove ricoprì
importanti incarichi nella rinnovata Direzione Generale delle Belle Arti
e dei Beni Culturali del Ministero della Cultura Popolare. Questo
magistrale pittore svolse anche attività di scrittore e di critico
d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami
allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.
Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro- mosse i « Gruppi
Futuristi Indipendenti », attivi a Firen- ze fra il 1925 e il 1958, che
rivelarono personaggi della importanza di Cesare Augusto Poggi,
architetto razionali- 154 sta, tecnologo del cemento
armato e ideatore di singolari costruzioni civili per la difesa bellica.
Quando, nella se- conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna
fa- scista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte «
astratta » considerata « giudea e massonica », Matasco sarà a fianco di
Marinetti per chiarire i termini di indi- pendenza dell’« astrattismo »
plastico da ogni motivazio- ne di razza, da qualsivoglia matrice
israelitica o mura- toria. Se disponessimo di maggiore spazio per
analizzare compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu-
turismo-fascismo ne risulterebbe la conferma di una pre- cisa
interdipendenza di propositi e di azione fra i due movimenti. Il
futurismo non condizionò mai le proprie libertà espressive, i propositi
di rinnovamento, di costan- te evoluzione spirituale, alle esigenze
agiografiche del fa- scismo che, del resto, non considerò il futurismo
come arte di Stato, riservando questo pericoloso privilegio al
movimento del Novecento, celebrarore di miti romanistici e imperiali,
istigarore del ritorno al neoclassicismo, pur mascherato da un malcompreso
funzionalismo. Antonio Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla
so- glia degli ottant'anni. Dopo un Jungo soggiorno romano
aveva dipinto, sino all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di
auto- noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let- tere
di accorata italianità, preziosi appunti di teoria pla- stica che, un
giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare come contributi fondamentali
alla storia del costruttivismo e del concretismo internazionali. Noi
giovanissimi non era- vamo disposti ad anteporre la dogmatica della
mistica fa- scista alle libertà espressive promosse e favorite dal
futu- rismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre pri-
me ricerche futuriste al servizio dell'apologia di regime. Così le
nostre Parole per la Guerra, pubblicate nel mar- zo del 1944 dalle
edizioni dî Futuristi in Armi, sovven- zionate e dirette da F.T.
Marinetti, non rinviano ai canoni conformisti dell'aeropoesia futurista
di guerra di quegli an- ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia
concreta e 155 visuale, come è stato ampiamente
rilevato dalla critica internazionale più obiettiva e attenta.
Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può essere, infatti,
considerato il primo esempio esistente di poesia concreta a struttura
semantica reversibile e a susseguenza ottica alternata, dove l'uso della
parola-chiave è già seria- listico. Il nostro fascismo eta
quindi disarticolato dalle pra- tiche dell’estetica futurista, proprio
come si era verificato per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti,
Paolo Buz- zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In-
fatti anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle
Edizioni Etre (Repubblica) con un «collaudo » di Martinetti, piuttosto di
risolversi nell'abituale apologia guetresca di quel periodo, introducono
un modo nuovo di poetare inaugurando le problematiche di quella «
poesia visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi
internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo- logia
politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na- zionalismo «
prefascista » sono raccolte in due volumi pub- blicati in tempi diversi.
Democrazia Futurista, edita a Mi- lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la
sintesi delle posi- zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato
dopo- guerra 1915-1918. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui
nel 1918, dopo Ca- poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti
» con Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel- mo
Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia- como Balla, Ottone
Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit- tore cremonese Enzo Mainardi, lo
scrittore Remo Chiti, il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il
chirur- go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del
poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi- Sta settanta
intellettuali e uomini di varia estrazione cul- turale. I
«Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi, gradualmente in «
Fasci di Combattimento » confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti partecipe- ranno per Ja prima volta alle elezioni
politiche del 1919, 156 rinetti, Piero Bolzon, il
poeta-aviatore Giacomo Macchi, Baseggio e Podrecca. Futurismo
e Fascismo, pubblicato da Franco Campi. telli, editore in Foligno, nel
1924, indica, invece, la per- sonale interpretazione della dottrina
fascista praticata da Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai
numerosi affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con
il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca- po della Nuova
Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti, Mario Carli ed Emilio
Settimelli, il futurismo, già in que- gli anni, istigherà il fascismo
alla fondazione dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni
Trenta si concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti
scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro dall’interventismo e dal
futurismo si nutrì di principi fu. turisti... » Una storia
parallela dei due movimenti, ancora da scri- vere, dovrà tener conto
della mai rinunciata indipendenza futurista che non condizionò le
esigenze di libera ricerca espressiva alla necessità della politica
dominante. CarLo BELLOLI CONFESSIONI DI UN
FUTURFASCISTA Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita
sociale prima come fascista e dopo come futurista. Avevo
sedici anni quando nel 1921, proprio in corti. spondenza del mio
compleanno, sottoscrissi una domanda di ammissione ai « Fasci di Combattimento
». La doman- da fu avvallata da due miei amici di maggiore età,
come soci presentatori, i quali compirono coscientemente un pic-
colo falso alterando di due anni la mia data di nascita 157
al fine di consentire la mia ammissione come socio ad
ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno dei pochi iscritti
della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di Combat- timento », che
aveva allora sede in una baracchetta per i bagni di mare, in
disuso. Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva
ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente pericoloso? A mio
avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria, nato dentro durante
fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di
troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione
per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosid- detti
progressisti del momento, ostili ai reduci, in con- trasto con la
spavalderia ed intraprendenza di questi ul- timi. Il mio
apptoccio con il Futurismo avvenne, invece, due anni dopo, con la
scoperta di Zang iumb tuumm e l’incontro con F.T. Marinetti
Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem- brò una
particolarità personale e la confessai un giotno — dopo tantissimi anni -—
a Mario Dessy, e lui mi disse che gli era accaduto lo stesso benché
avesse cinque anni più di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il
1919 ed il 1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste due
forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere costruttivo, E’ difficile
— infatti — che possano andare in tandem per lungo tempo movimenti di
carattere poli- tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale.
Le ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale, anche se
basa la propria forza nelle realtà della vita (come il futurismo), ha il
suo fulcro nella idea-base che difende con ortodossia e non è disponibile
per transazioni ideolo- giche. Il movimento politico, invece, pet propria
natura, specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-
tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la proptia forza
concreta, allargando la base dei consensi. Il Futurismo prima
della guerra mondiale si caratteriz- za artisticamente con l'invenzione
dei grandi temi di rin- novamento nei settori di tutte le arti e, in
veste politico- 158 sociale, nell’esaltazione
dell’Italia, fantasticando per que- sta, una nuova organizzazione
anti-demo-liberale ed anti- clericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato
industriale ed agricolo tecnicamente progredito, che si progettava
astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi di un’azione
politica che non aveva, però, un valido autonoma sviluppo organizzativo.
Come pretenderlo da poeti ed ar- tisti? Nel tempo in cui
Marinetti iniziò il « Movimento », le forze che affermavano di voler
realizzare un nuovo svi- luppo sociale al fine di un miglioramento della
situazione economica delle classi più disagiate e trascurate,
trovava- no una sede formalmente appropriata nelle spinte del sa-
cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata bre- ve perché
questo socialismo si sviluppò in senso interna- zionalista apatriottico
collettivista antindividualista e fu sconfitto dagli eventi della prima
guetra mondiale. Tanto è vero che dal suo seno, a guerra conclusa,
prosperarono il comunismo ed altre scissioni e nacque il fascismo.
Sono noti e possono essere facilmente consultati i do- cumenti
delle manifestazioni spiccatamente politiche del movimento futurista che
precedettero la Fondazione dei « Fasci di Combattimento ». Intendo
rifetirmi al « Pro- gramma Politico Futurista » dell'11 ottobre 1913,
firma- to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo, all'azione politi-
ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo Jannelli e Nicastro
del 1915, e dei «Fasci Interventisti Siciliani », di Roma Futurista e dei
relativi gruppi, nati nel 1917-18, del Partito Politico Futurista sempre
del 1918 che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia
Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste for- ze si
concentrarono nel movimento fascista nel 1919, sia aderendo direttamente
all'assemblea di fondazione di Piaz- za San Sepolcro in Milano, sia
successivamente anche per forza d'inerzia. Il fatto è che —
di solito — quando si parla di par- tecipazione politica dei futuristi,
ci si richiama soltanto al ricordo dell’attività degli artisti che
militarono con la qualificazione di « futuristi ». Vale a dire dei poeti,
scrit- 159 tori, pittori, limitandosi ovviamente ad
esaminare il con- tributo di coloro che hanno raggiunto maggiore
notorietà, trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in nu-
mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto che i maggiori
spesso presi del tutto da altre attività, non erano altrettanto validi e
disponibili in campo politico. In verità, il « Futurismo » di quel tempo
è stato un movi- mento a larga partecipazione di giovani, di tantissimi
gio- vani. Non tutti poterono — ovviamente militare nel campo
dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere ri- cordati anche oggi. Ma
tutti furono politicamente attivi e furono a migliaia i militanti di
futurismo che partecipa- rono ad episodi fascisti negli anni precedenti,
o appena suc- cessivi, alla marcia su Roma. Non credo di
sbagliare se affermo che nelle cosiddet- te schiere dello « squadrismo »
molte furono le partecipa- zioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano
proposizioni futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti
e Ferruccio Vecchi nel 1919 (16 aprile: Piazza Mercanti Mi- lano) e
ricordare i tanti nomi dei militanti futuristi che ebbero più spicco in
campo politico che in quello dell’arte. Alla fondazione dei Fasci,
confluirono nel fiume che diventò principale, molteplici rivoli di
pensiero (come ho già accennato) movimenti di ogni genere che avevano
un minimo comune denominatore nella volontà di rinnovare in qualche
modo l’Italia che, pur vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie
difficoltà ed era incapace ad affron- tare la svolta storica che la
vittoria aveva aperto. Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani,
che avevano preso forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima
con capacità ed intendimenti politici ed il secondo come lette-
rato e poeta), ma dei quali non si è ancora scritta la storia, né
accertato la reale efficienza, vi aderirono. Come aderì Marinetti con
tanti altri futuristi che risultano elen- cati nella schiera dei
cosiddetti « sansepolcristi ». In seguito, quando il fascismo andò
al potere, ai futu- risti sembrò che finalmente sarebbero stati
realizzati nel- l’arte gran parte dei propositi del futurismo. In
questa illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazio-
160 ne altamente patriottica dei propositi, la
valorizzazione del combattentismo e del volontarismo, l'amore per il
nuovo ed il rischio, il pragmatismo attivo dimostrato immedia-
tamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche rammentato ai
giovani di oggi, frastornati da affermazioni non rispondenti alla realtà
di allora, che la personalità di Mussolini era molto al di sopra non solo
di quella dei suoi collaboratori politici, ma sovrastava la media dei
cer- velli politici di quel periodo. Tanto è vero che furono ap- punto
gli avversari a votargli subito i « pieni poteri » che gli consentirono
l'avvio della prima gestione governativa. Questo fatto rilevante, gli
consentì di attrarre dapprima le simpatie collettive ed — in seguito — a
conquistare una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi
sostenitori di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.
tizzanti e — nei periodi più floridi — perfino dai nemici del sistema
politico che egli cercava di sviluppare. Quando il fascismo
s’insediò al governo per realizzare la rivoluzione {a dire dei fascisti),
o perché chiamato dalla debole monarchia (come dicono gli altri), subì
dapprima una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro-
blemi immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupe- ro dell'ordine
econamico e politico. Per questo, Mussolini non si sbarazzò
immediatamente degli avversari che erano troppi e in gran parte si erano
dichiarati disponibili a collaborare per il meglio, pur costituendo nello
stessa tempo zone di resistenza alle innovazioni Così anche
nei fatti dell’Arte ovviamente meno pres- santi, ove non comparvero
personalità « nuove » che aves- sero seri propositi di rinnovamento e
disponibili a rivolu- zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo
Mari. netti e nella quasi totalità si convinsero che la « rivolu-
zione » potesse realizzarsi per pradi anche in Arte. Che la forza del
nuovo potesse penetrare per gradi nelle isti- tuzioni d’Arte e
trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giu- stificata sul momento non
solo dal fascino personale di Mussolini al quale ho già accennato, ma
anche da certe sue caratteristiche gestuali (come la particolare
sintetica e precisa oratotia che andava direttamente allo scopo in
161 modo esplicito) che lo presentavano come un
congeniale capo futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia
personale fra Mussolini e Marinetti, vicini anche in altre
precedenti azioni politiche, si comprende come il movimento rivolu-
zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a fian- co del
Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba- sel, anche se in via
di adattamento, questo, alle esigenze immediate dell'esercizio del potere
su una nazione che di rivoluzionari di qualsiasi tipo ne ha avuto — per
la veri- tà — sempre pochi, anche se gonfiati ad oltranza quando
occorre, in tutti i testi di storia antica e recente. I futuristi
costituirono una avanguardia nelle fila del fascismo e vi rimasero nella
quasi totalità. Basta citare i] messaggio che concluse il Congresso
futurista di Milano (L'Impero, 27 novembre 1924): « L'ultima
riunione del congresso futurista è stata de- dicata all'esame
dell'attuale momento politico. Marinetti espose alla numerosa assemblea
una dichiarazione prece- dentemente elaborata in accordo con i maggiori
futuristi politici, la lettura della dichiarazione fu
entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco Ja
dichia razione: «“I futuristi italiani, primi fra i primi
interventisti nella piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi
dician- novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani
dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito
Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen- sabile liberati
del parlamento. Secondo: restituisci al fa- scismo ed all'Italia la
meravigliosa anima diciannovista di- sinteressata ardita antisocialista
anticlericale antimonar- chica. Tetzo: Concedi alla monarchia
soltanto la sua prov- visoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-
ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al- l'Italia
immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di Albertini con una
ferrea dinamica aristocra- zia di pensiero. 162
«“Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo vo- gliamo. F.T.
Marinetti - Capo del Movimento Futurista Italiano”». Sono
inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futu- risti in tanie
occasioni, con opere scritti ed anche con la partecipazione concreta alle
guerre di quel periodo. Vo- glio ricordare, però, un solo scritto di
Fillia (morto nel 1930 e che adesso cercano di passare per antifascista)
il quale nel 19527 in occasione della Quadriennale di Tori- no,
così scriveva sulla sua rivista Vetrina Futurista: «... Bisogna,
però, giungere a “convincere” il grosso pubblico, ingannato a nostro
riguardo dalle false inter pretazioni. Perché il favore organizzativo che
oggi ci cir- conda, non basta: è assurdo riconoscere il futurismo
come manifestazione d'Arte ed ammettere contemporaneamente le
antiche manifestazioni. La vita può avere individual mente, diverse
interpretazioni, ma tutte devono essere in- quadrate in una sola
atmsofera sensibile, corrispondente alla vita stessa. Non voglio con
questo negare il diritto di esistenza a intere categorie di pittori
rimasti spititualmen- te arretrati: ma è necessario preparare il pubblico
alla loro graduale eliminazione dalla vita artistica ufficiale, fino
al riconoscimento del Futurismo “arte di Stato” massimo ri-
conascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza... ».
Purtroppo però le autorità artistiche avevano il so- pravvento
favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia- centini e gli enormi
pupazzi della scultura e pittura no- vecentista, effettivamente arte del
regime. E noi futuristi interpretavamo le isianze di rinnovamento
dell’arte senza alcun riconoscimento dal Regime che ritrovava sé
stesso nelle manifestazioni novecentiste. Questo, non mi
stanco di ripeterlo, negli Anni Venti. E poi? Poi nulla. Le
vicende, le difficoltà personali, gli entu- siasmi e le depressioni, gli
alti e i bassi, il lavoro e la mag- giore maturità. Ma non creda di
sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo quel tempo con spirito
indipendente e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo avuto
ra- 163 gione. Anche se spesso sopportati e negletti
dalle autorità artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.
Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne
vissi scrupolosamente la mia parte con coeren- za. Fui costretto fuori a
lungo. Pet un anno di guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei
particolari ciò che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie
esperienze. AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di
sbarcare in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa-
mente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile del ‘47
cominciai la mia nuova personale battaglia per il futurismo con la mostra
alla « Galleria di Roma » inaugu- rata da Benedetta c dedicata a F.T.
Marinetti. Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav-
vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non disdegnano
l’idea del futurismo che continua e si rinnova attraverso le spiccate
personalità dei suoi artisti. FEnzo BENEDETTO PARLA
CRALI, « AEROFUTURISTA » D. — Crali, lei è pittore ed è futurista
Uno dei pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora
attuale? R. — SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una
sua attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora.
Ma non certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è mai stato
futurista, ed ha espresso solamente « necrofilia », vera e propria «
necrofilia ». D. — Il futurismo di prima, quello per cui lei
aderì al movimento, o vi st convertì, come la investì per così
dire, o come la ispirò? R. — Non mi sono affatto « convertito »,
perché non c'era niente da convertite. Mi sono trovato di fronte al
164 futurismo come un’anima candida, che non sa e non è
con- sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia incon- scia
per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino illustrato di Napoli. Mi sono
piaciuti, mentre ad un amico mio, che la pensava diversamente da me, non
piacevano. Cominciam- mo a litigare, e per litigare ad approfondite
l’argomenta ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al
futu- rismo. E sono partito senza avere una preparazione di me-
stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere o disegnare,
anche se poi una specie di grillo della coscienza mi ha suggerito che
dovevo imparare a dipingere, sia pure da solo (anatomia, prospettive, ecc
). L’astratto e il figu- rativo erano | temi o le prospettive dominanti.
Ho cercato una « terza via », che fosse tutta mia, tutta personale:
una ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il
figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover dire ciò che
altri non avevano detto. Così mi sono accostata a Marinetti nel '29,
quando gli scrissi per aderire al movi. mento. L'aeroplano era una
macchina nuova, un congegno del futuro, o, per allora, del « futuribile
». E fu una delle realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione
(l'Idrovo- lante italiano, D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il
campo di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così
sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi. D. —
Marinetti, invece, per quello che lo frequentò o poté essergli vicino,
come lo considera? Forse l’unico vero futurista, © forse solo un grande «
maestro »? R. — No, non lo considero un maestra, perché non ha
mai voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre stimolato e spinto a lare,
senza mai dire però come dovevamo fare Era contrario ad ogni gerarchia
nel movimento del futuri. smo. E si opponeva sempre a Boccioni e
Prampolini, che volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno
di noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva fare
il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse se stesso e non ha
creato nessuna scuola. Amava la sua libertà e la sua indipendenza a tal
punto che non poteva imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva
influen- zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e
165 spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con
rico- noscenza. Quasi come un padre. O come un fratello map- giore.
E come l’unico vero futurista, come ho sempre de! resto pensato. Gli
altri hanno tutti « mollato ». Lui è an- dato avanti fino all'ultimo.
L'unico che può personificare il futurismo è fui, l’unico che non ha
rivestito patine di cul: turame intellettvalistico, come hanno fatto invece
molti al- tri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava
essere futurista sempre e comunque, anche nel gusto del contra-
sto. Amava la luna, e scrisse un manifesto « contro il chia- ro di Juna
». « Uccidiamo il chiaro di luna », vi si diceva, forse contro i poeti.
Ma non era poeta? Predicava la guer- ra, anche se non avrebbe fatto male
a nessuno. Amava la madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma
combatté la donna sul piano ideologico. In questo è veramente futu-
rista. E lo è solo lui. Gli altri non lo sono mai stati. D. — Il
futurismo di Marinetti che accento o che an- golazione aveva
particolarmente: letteraria, artistica, filoso- fica 0 piuttosto
politica? R. — Politica no, assolutamente e mai. Filosofica
nean- che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza pen-
siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la patria entra
in pericolo », aveva detto Marinetti in un momento cruciale della nostra
storia nazionale. Il manifesto politico del fuuttismo è conseguenza del
fatto che esso sta movimento d'arte e di vita, e come tale anche di vita
poli- tica, tout court. Il manifesto politico è del ’13. Dopo Ja
fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno dell’«
arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in vincolo d'amicizia,
anche politica, con Mario Carli per esem- pio (ardito) e con Mussolini.
All’avvento del fascismo e allo accostamento di Mussolini alla monarchia
e alla chiesa Ma- rinetti si stacca. Abbandona il partito e si ritrova
pressoché in miseria, con moglie e figli. Aveva grande ammirazione
ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse ricambiata per una certa
forma di invidia-gelosia mussoliniana nei con- fronti di Marinetti. Il
regime gli offriva incarichi 0 preben- de, che continuò a rifiutare.
Mussolini arrivò ad offrirgli la presidenza dell’Associazione dei grandi
alberghi italiani, pro- 166 prio a lui che
disprezzava l’industria del forestiero. Accer- tò solamente, e
sollecitato, la segreteria dell'Associazione Italiana Autori ed Editori,
altrimenti forse destinata al solito « arraffone » di turno. Tuttavia si
tenne sempre in disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò
mai direttamente al regime, che anzi forse osservava contrariato, a
parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di sim- patia per
Mussolini. Nel ’35 si oppose alla presa di posizione politica di
Hit- ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò e
sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E nella stesso
momento organizzò a Berlino una mostra di aero- pittura futurista che
creò non pochi problemi e suscitò non poche difficoltà anche diplomatiche
fra i due governi ira liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione
difficile e imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e
in- tellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico in
questa occasione a prendere posizione ed esprimersi con- tra l’ingerenza
politica e l'intervento del regime di Hitler nella cultura e
nell'arte. Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma: arrivava
Marinotui (presidente della Snia Viscosa) che era stato da
Mussolini insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime.
Ma- rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i
consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu- no aveva avuto
il coraggio di dirgli che le cose andavano male, tranne uno, il
consigliere sardo, che aveva sostenuto la stanchezza della gente, la
maldicenza, il tradimento... Marinetti osservava che non era possibile
che non si sa- pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che
non era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da
lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi- nato da
Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia. Nel ‘44 poi si
mosse da Venezia e risalì verso la Lam- bardia, perché non se la sentiva
di starsene in disparte a « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto
in versi, l'ul- tima sua espressione letteraria s'intitola appunto: Musica
di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato 167
di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già definizione
sintomatica e totale dell'opera. D. — Ailora, Marinetti fu
fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e fino a che
punto non lo fu per essere futurista? R. — Marinetti è stato
sempre e comunque e saprat- tutto futurista. Questa è la mia impressione.
Perché ha se- guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere
futu- rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra
in politica ». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a casa sua, in un
gruppo di amici, a parlar di Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno
obiettò: « Ma Majakowski è un comunista ». Ed egli allora ribatté
immediatamente: « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è
prima di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci- smo
si può considerare forse il fatto che fosse nato al l’estero, che fosse
educato in Egitto alla cultura francese, spesso pesantemente sprezzante
verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione all’Italia 0, più
ancora, di nostal- gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo
come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò
tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare e dare un
certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu- ra italiana. E pensò o
vide che Mussolini potesse essere l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e
per darle una sua nuo- va base, culturale ed artistica. Senza sapere,
alle origini o senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a
Parigi, la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in
buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-
naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi economici), ed
ebbe la Biennale di Venezia {come « una riserva indiana »). Il suo è un
fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter vedere
realizzato il suo futurismo. E' contrario al « Novecento » e al classicismo
« romano » alla Piacentini, che Mussolini invece appoggia- va. Forse
tutti i regimi, quando si affermano, cercano di eliminare le avanguardie.
Il fascismo non le appoggiò, men- tre il nazismo e il comunismo le
stroncarono. Sta di fatto che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non
appog- 168 giò mai Piacentini. Alla Biennale, a
Venezia, il futurismo è stato accettato sì, ma mon con la considerazione
che Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet- tare
all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in Italia. E invece è
stato accolto sì il futurismo, ma quasi messo in disparte.
Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di- scorso di
presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce, presente il
Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia per
l'esclusione dell'unico movi- mento d'avanguardia dell'arte
italiana. L'anno dopo Mus- solini stesso gli concesse un padiglione di
riserva, che do- veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi
(la « riserva indiana », già summenzionata). D. — Mussolini
invece, secondo lei, fu futurista? R. — E' stato un politico ed ha
appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il
futu- rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che
avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei suoi simboli
e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori dal
futurismo. D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il
futurismo di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si
possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega mento, e fino a
che punto ciò è possibile? R. — Per Mussolini il fascismo è
politica, per Mari- netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-
mente diverse. D. — Non si può quindi parlare di futurismo
fascista, nemmeno del primo, quello delle origini? R. —
Finché un movimento politico è in fase rivo- luzionaria, le posizioni
della « rivoluzione » culturale con quelle politiche coincidono; poi però
quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e allora non
può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-
naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi- che di un
«partito». Ecco perché esistono punti di contatro 169
o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa- scismo politico
dei primi anni, poi rallentati o rilasciati quando si afferma l’« ordine
romano », utile al regime, ma speculare di un passatismo senza mezzi
termini, e totale. Marinetti tollera questa esigenza politica di
Mussolini, ma non la condivide od ammette in campo artistico e
cultu- rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-
cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi ideologici,
anche violentemente, senza però in- taccare l'amicizia, che rimaneva
sempre e comunque. D. — Resta oggi il futurismo? E resta come
realtà artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione
d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovvia- mente, e da
tempo. Forse resta il futurismo, come ten- sione di rinnovamento?
R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione di
rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove forme, e di nuove
idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta per distruggere senza dire
quello che si vuole proporre in sostituzione. Il futurismo aveva invece
dato i suoi mani- festi. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva
rico- struire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca
un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi c'è molta
saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca l’entusiasmo, nonostante
la grinta. Penso che esista an- cora futurismo oggi, perché esiste ancora
temperamento di novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una
spinta vitale di « ossigeno ». E l'opera deve avere un suo sangue,
se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere, o un sangue
per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore assoluto che resta, non si
toglie, perché è ineliminabile. Anche in bottiglia, nella plastica,
rarefatto 0 alla luce del sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o
l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un
po' il suo « entusiasmo ». [Intervista u cura di Alberto
Schiavo] 170 RICORDI DI UN FUTURISMO
INDIPENDENTE Per quanto riguarda lo svisceramento dei
collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente come
movimen- ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-
litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere
autonomo del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che
i tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari accordi
immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che abbisognavano
di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera rivoluzione (quella
artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in un clima fascista che
di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola etichetta.
Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in pie- na
italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin cipî che il
primo fascismo stabili quando provò a inte- grarsi nel campo difficile
della moderna civiltà europea. Alla stessa stregua e per raggiungere gli
stessi fini il futu- rismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il
co- munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una consi-
derevole influenza negli sviluppi dell’architettura. Il senso
altamente novatore di Fillia e la sua molte. plice attività (stupefacente
in una esistenza così breve) per: sonificano le forme coerenti e concrete
dei concetti più originali e più saldi delle imprese del futurismo
torinese. Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia
non temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come una
freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che per ordinarie ragioni
razionali ed estetiche militava in margine della Chiesa cattolica
apostolica e romana di quel l'epoca, egli affermava con rigare di logica
e con argomen- tazioni arditissime che la religione ha relazione di
somi- glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.
nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai nuovi
concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità, 171
la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'imme-
desimava con quello del futurismo in cui si cercava una forza di
liberazione, e la trovava in quel movimento, cie- camente. Originati
da una geometria astratta superiore, i suoi dipinti possiedono quella
qualità rara di non essere visà, e perciò non ricavati dal vero, ma di
sorgere senza sha- vatura alcuna dal proprio io, e come se l'artista non
vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta con un
senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces- sava di inventare
e di portare sempre più avanti i perfe- zionamenti pittorici del
futurismo. Tuttavia, una continui- tà è discernibile nella sua arte che
è, innanzitutto, di una grande purezza, di una grande acconcezza, di una
grande serenità. T colori si oppongono l'uno all'altro e si
sovrappon- gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo,
fan- tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-
tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema dolcezza, e dalla
quale si spande una pace angelica che sembra invalidare, apparentemente,
taluni assiomi violen- ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova
Iampante che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude
quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere. Si tratta di
fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di combattere ferocemente per
amare di un più grande amo- re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi
del sentimenta- lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso
con- voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che
invade la mistica futurista. Gli errori di pensiero che possono
insinuarsi nella men- te di un poeta come Fillia, che non può sempre
ridurre tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel
lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile, talvolta
irresistibile, porta oltre la matura e si perde in un mondo di realtà
fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti
si nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione: vi
era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di 172
poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa at-
tribuire un significato ironico alle sue composizioni sacre come non
hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e bolsi dalle maniche troppo
lunghe, dalla mente inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per
questo artista pen- satore che fu anche un provetto artigiano; non mi
rat- trista la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag- gio
dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un ci- mitero e la scala
rossa che lo vincolò in eterno con gli eroi: quello stesso cimitero e
quella stessa scala di Sant'E- lia. Distinguo la luna bianca della sua
grande dolcezza, e le cose della terra non reggono, sono rovesciate su
loro stesse. Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo
allo spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che un
tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo della cosa creata,
dell’Incarmazione: ma non è il caso di Fillia le cui forme della sua arte
si disegnano, si creano e si distaccano dalla loro causa prima.
Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata ben definita
della creazione dove gli uomini non sono ancora che allo stato di
abbozzo, ma dove la macchina respira già, dove i fantasmi girano secondo
una traietto- ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la
riconciliazione. Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa,
il suo pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa
sprigiona cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e non- dimeno una
audacia che le viene soffiata dallo spirito. Nonostante il suo atto
di fede nella macchina, Fillia è certamente un pittore spirituale. La
bellezza intrinseca del. le macchine corrispande ad un suo bisogno di
esattezza sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. E’
una dimostrazione pratica che consente all'uomo di disinca- gliare
la vera vita, di ricercare quegli elementi universali dell’arte che
scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali delle Nazioni e ne rendono
lo spirito eierno. Per non spappolarsi nella struttura, per non
sgreto- larsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca
del- l'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i
173 nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In
questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi, diceva
Fillia, perché meno legati degli altri uomini al passato e al presente, e
più ferventi dell'avvenire. Questo richiamo ad una tradizione spirituale,
questo allenamento {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha
nulla di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimo- la,
spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il con- tributo molto
importante di quella autentica tradizione che serve a ristabilire
l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je forze novattici distruggono
talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole del passato e di ciò che la
vera tradizione conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto
non controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso
stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva nuove conquiste.
Non si negano gli elementi universali dell’arte passata perché non si
possono negare quelli del- l’arte nuova. L’opera di Fillia
rivela una tendenza perpetua verso il progresso nel senso più alto della
definizione. Trasfor- mandosi da una pitiura all’altra svolge senza
contraddi- zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può
dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel la del suo
movimento: egli porta il peso di un passato inventato che non può
rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale
certamente al di là del futurismo — che costituisce una specie di
dialettica dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di
abbat- tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come
se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio. Il
futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta a farle scoprire
senza remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era.
Dalla sua opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di
Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto, si stacca un’arte
pubblica universale che l'architettura fun- zionale rivela, contribuendo
efficacemente alla diffusione delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e
degli slanci del purismo di Le Corbusier. 174
Nell’intento di realizzare ad ogni costo, Fillia si ap- poggiò al Regime
attraverso gli interventi efficaci di Ma- rinetti. Però, non ho mai visto
Fillia in camicia nera, ne lo sentii mai parlare di politica nostrana.
Parlava sol- ranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano
gli scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente di
buona lega che fu il futurismo torinese. ALBERTO SARTORIS
175 Finito di stampare nel 1981 per conto
dell'Editore Volpe dalle Arti Grafiche Pedanesi 00155
Roma, Via Fontanesi, 12 Tel, 220971 BIBLIOGRAFIA
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All'Insegna del Pe- sce d'Oro, Milano 1978. Enzo Benedetto,
Futzrismo 100 x 100, Edizioni Arte Viva, Roma 1975. Emilio
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Buzzi, n e la Spirale, Edizioni fututiste di « Poesia », ilano
1915. 180 Francesco Cangiullo, Le serate futuriste,
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Sonzogno, Milano 1932. F.T. Marinetti, Mafarka il futurista, Milano
1910. — Uccidiamo il chiaro di luna, Milano 1911. — La
Battaglia di Tripoli, vissuta e cantata, Milano 1912. —
Ll’aeroplano del papa, Milano 1914. — Guerra, sola igiene del
mondo, Milano 1915. — Otto anime in una bomba, Milano 1919.
.— Democrazia futurista, Milano 1919. — Al di lè del
comunitmo, Milano 1920. — Lussuria velocità, Milano 1921.
— N tamburo di fuoco, Milano 1922. — Gli indomabili, Piacenza
1922. — Futurismo e fascismo, Foligno 1924. — Primo
dizionario aereo, Milano 1929. — Marinetti e il futurismo, Roma
1929. — Spagna veloce e toro futurista, Milano 1931. —
Il paesaggio e Vestetica futurista della macchina, Firenze 1931. —
Poemi simultanei futuristi, La Spezia 1933. — L'aeropoema del golfo
della Spezia, Milano 1935. — Il poema africano della Divisione «28
ottobre », Milano 1936 — Mario Carli, proflo, Milano 1937. —
Il poema di Torre Viscosa, Milano 1938. — Patriottismo insetticida,
Milano 1939. — ll poema non umano dei tecnicismi, Roma 1940.
— L'esercito italiano, Roma 1942. — Cento uomini e macchine
della querra mussoliniana, Roma 1942. -— Quario d'ora di poesia
della X Mas, Milano 1945. — Teoria e invenzione futurista, Milano
1968. — La grande Milano tradizionale e futurista, Milano
1969. — Lettere ruggenti a F. Balilla Pratella, Milano 1969.
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A.R.T.E., Roma 1938. Tato raccontato da Tato, Zucchi, Milano
1941. 181 INDICE Pag. Futurismo
con e senza fascismo (A. Schiavo) 5 Soffici, Marinetti, Boccioni,
Russolo, Sant'Elia, Si- roni, Piatti, Futurismo e «guerra sola igiene
del mondo » 59 Carli, Bottai, Futurismo e socialismo 71
Tavolato, Volt, Marinetti, Futurismo e democrazia 87 Settimelli,
Marinetti, Futurismo e primo fascismo 97 Marinetti, Carli, Somenzi, «
Secondo futurismo » e fa- scismo-regime ili Corra, Govoni, Buzzi,
Chiti, Folgore, Futurismo di destra e di sinistra 131 Belloli,
Benedetto, Crali, Sartoris, Testizzonianze 145 Bibliografia
177 Armando Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso,
esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e
spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di
Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora,
sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo,
Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio
logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della
filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the
great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775361469/in/dateposted-public/
Grice e Caro – interpretare,
interpretante, interpretato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice:
“Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s
Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact
that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say –
‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s
philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson
borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. È
stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal al. È vicepresidente della Consulta Nazionale
di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo
RAI dedicato alla filosofia. L'asteroide
5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete.
La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari,
Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi);
Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofica” (Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il
mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre
tradizioni (Roma, Carocci). Bentornata
Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi,. Quanto siamo responsabili?
Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice,. Biografie convergenti:
venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine,
Mimesis). Cos’è il nuovo realismo [“What is the
new realism”], Mimesis, Milano, forthcoming.2) Azione
[“Action”] , Il Mulino, Bologna, 2008.3) Il libero arbitrio.
Un ’ introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza,
Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition
2011.4) Dal punto di vista de ll’int erprete. Il pensiero di
Donald Davidson [ “ From theInterpreter s Point of View. Donald
Davidson s Thoug ht”], Carocci, Roma 1998 8 5)
Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral
dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli)
of La libertà umana: storia di un’id ea, Carocci,Roma,
forthcoming.2) Editor (with A. Lavazza – G.
Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,
Codice, Torino, 2013.3) Editor (with M. Marraffa) of La
filosofia di Ernesto De Martino, special issue of Paradigmi, 31,
2013.4) Editor (with L. Illetterati) of a special issue of
Verifiche on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives
between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition”,46, 2013.5)
Editor (with S. Gozzano) of a special issue of Rivista di
filosofia on “T he philosophy ofconsciousness, ” 104,
2013.6) Editor (with M. Ferraris) of Bentornata realtà. Il
nuovo realismo in discussione, Einaudi,Torino, 2012.7) Editor (with
S. Poggi), La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci,
Roma,2011.8) Guest editor, Naturalismo, special issue
of Rivista di Estetica, 44, 2010 (with C. Barberoand A.
Voltolini).9) Editor of The Architecture of Reason. Epistemology,
Agency, and Science, Carocci,Roma 2010 (with R. Egidi).10) Editor
of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio,Codice,
Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and G.Sartori).11)
Guest editor of E’ naturale essere naturalisti?, special issue
of Etica e politica, 9,2010 (with C. Barbero - A. Voltolini).12)
Editor of Scetticismo. Storia di una vicenda filosofia, Carocci, Roma
2007 (secondedition 2007; third edition, 2008) (with E. Spinelli).13)
Editor of La mente e la natura, Fazi, Roma 2005 (Italian version
of Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14) Editor of
the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy, Fazi,
Roma,2004.15) Editor of Normatività, fatti, valori,
Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et
alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16) Editor
of Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”], Meltemi, Roma,
2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F.
Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17) Guest editor of “
Libertà e Deter minismo” [ “ Freedom and Determinism ” ],
specialissue of Paradigmi, 3, 1999. 11 3)
“Presentazione” del numero speciale di Paradigmi (25, 2013)
dedicato a La filosofia di Ernesto De Martino, “Machiavelli e
Lucrezio ”, postface to A. Brown, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna
elibertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Roma, 2013, pp.
113-126.5) “Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”,
Sistemi intelligenti, “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R.
Chiaradonna (ed), Il platonismo e le scienze, Carocci, Roma
“Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.), Il
platonismo e le scienze,Carocci, Roma 2012, pp. 13-21.8) “
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psicologia, “ Il migliore dei naturalismi possibili Etica & Politica
/ Ethics & Politics, (with A. Voltolini).14) “ Psicologia,
intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,” (invited
commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale
italiano di psicologia, “ Libertà e responsabilità mora le,” in
Enciclopedia del Terzo Millenio, Istitutode ll Enciclopedia Italiana,
Roma “ Le neuroscienze cognitive e
l'enigma del libero a rbitrio,” in M. Di Francesco –
M.Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura
dell ’ io, BrunoMondadori, Milano “ Neuroetica e libero a
rbitrio,” in S. Bacin (a cura di), Etiche antiche e moderne, Il
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17-36.29 ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico?,”
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regole: l esternalismo di Donald Da vidson,” in Atti della Società
Italiana di Filosofia del Linguaggio, Novecento, Palermo, 2000, pp. 73-83.34)
Sui presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche,
“ Per un connessionismo non eliminazionista, ” Sistemi Intelligenti,
“ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria analitica della traduz
ione,” Colloquium Philosophicum, “ Libertà metafisica e
responsabilità mora le,” Paradigmi, “ Prese ntazione,”
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filosofia della mente contemporanea,” in M. Cini (ed.), Caso, necessità,
libertà, Cuen, Napoli “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,” Il Cannocchiale,
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Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”
Rivista di filosofia, “ Il platonismo di Ga lileo,” Rivista di
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Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente,in Iride,
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Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, in Iride, Review of
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Development, in Archives Internationales d ’ Histoire
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[review of: R. Egidi (ed.), La svoltarelativistica nell'epistemologia
contemporanea, Milano 1988], Tempo presente, Review of “ E' ancora possibile
una storiografia dell'arte? ” [review of: H. Belting, La fine della
storia dell'arte o la libertà dell'arte, Torino 1990], Tempo presente,:
Università della Calabria, Conference of Italian Association of Philosophy
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the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società
Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L Aquila. Lecture on “ Free
Will and Causal Determinism ”. Ravenna Scienza, “ Neurobiology of Free
Will: Is Our Will Free? ”.Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery
of Free W ill”. Roma, Auditorium “ Parco della Musica,” Festival of
Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will” (with Rebecca
Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature and Free
dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom”
(commentators A. Benini eS.F. Magni). Paper: “ Nature and Free
dom”. December 2, 2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice.
International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action
”; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ”.
November 17 2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science.
Lecture on “ Freedom and Scien ce”. Vita – Salute “ San Raffae
le” University, Cesano Maderno (Milano), First Meeting of the
Italian Association of Philosophy of Mind ; organizer and chairperson.
University of Genoa, International conference, “ Mental Processes ”;relatore
invitato per la sezione “ Action and Rationality ” (discussant of
Jennifer Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “
Neurophysiology and Free W ill”; invited speaker. Paper: “ Etica e libero
arbitrio ”. University of Trento, International Conference, “ Agency and
Causation in theHuman Sciences ”. Invited speaker (paper: “F reedom and the
Social Sciences ” ).June 1, 2005: “ Vita e Salute - San Raffae le”
University, Milano. International Conference, “ ADay for Freedom? An
International Conference on Free W ill”. Discussant di ChristopherHughes.May
12, 2005: University of Florence, International Conference “ Philosophy,
Neurophysiologyand Free will” (invited speaker). Paper: “ On the
compatibility of philosophy and scienc e”.Istituto di studi americani, Roma,
International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and
Interac tions” (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura
lism”. University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies.
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University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of
Naturalism. November 16, 2005: University of Pavia – Giason
del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will .
November 15, 2004: University "Vita e Salute – San
Raffae le,” Milano. Lecture on Freedomand Nature. University of
Piemonte Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “
Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”. September
23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of
AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee). Rome.
International Symposium "Questions on Naturalism" (Organizer
anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “ Davidson on Human Free
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Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003, Rome. Discussant of Akeel
Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “
Metaphysical Libertarianism ”. Conference on Robert Nozick s
philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15,
2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ” [Logic and
Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of
Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “ Naturalism and
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Philosophy, Università di Siena (invited speaker).May 5, 2003, Sassari.
Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,” Department of
Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina.
Paper on “ Naturalism and Intentionality ”. Annual Meeting of theItalian
Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture:
Memoria e identità [Memory and Identity].Department of Philosophy, Università
di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility:
Mysteries orIllusions? ”. Department of Philosophy, University of Florence
(invited speaker). February7, 2002, Rome. Lecture La teoria della
conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century].
Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper
on Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical
Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today,”
Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture
on Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “
Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur
t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October
30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use” [ “ Reasons and causes
” ],Department of Philosophy, Università della Calabria (invited speaker).May
27, 2001, Padua. Lecture on “ Freedom and Naturalism,” Department
of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper
on “ Interpretations and Criteria of Correctness ”.Conference:
Interpretation and Correcteness, Università Statale di Milano
(invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on Causality and Naturalism.
Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di
Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on Forms of Causation.
Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre
(speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What P.F. Strawson Hasn ’ t
Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy
(spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “ Freedom and the Self ”.
Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology,
Università Roma Tre (speaker). 21 April 16, 2000, Rome. Paper on “
Van Inwagen s Consequence Argument ”.Workshop: Freedom and Necessity,
Università Roma Tre (organizer andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “
What we should mean with the Word Pe r son” (withS.
Maffettone). Conference Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body].
Istituto Gramsci (invited speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson
on the Conceptual Schemes ”.Workshop: Talking with Donald Davidson, Università
Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D.
Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),
Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s P
hilosophy, Università Roma Tre (speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “
Against an Alleged Refutation of Kripke sSkeptical Argument ”.
Conference: Facts and Norms, IV National Conference of theItalian Society
of Analitic Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 14-16, 1999,
Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ”.Conference: The Linguistic
Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage (invited
speaker).April 16-17, 1999, Rome. Paper on Is Libertarianism About Free
Will Scientifically Acceptable?. Conference: Determinism and Freedom,
Università Roma Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998, Bologna.
Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ”.Conference: Science, Philosophy,
and Common Sense, III National Conference of theItalian Society of Analitic
Philosophy, Bologna (speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture on Freedom
and Necessity. Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific
Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von
Wright on the Mind-Body Proble m”. Conference The Study of Mankind in
George Henrik von Wright , Università RomaTre (speaker).December 5-6, 1994,
Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”.
Conference: Perspectives on Holism, CNR Roma (organizer
andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo s method ”.
Conference: Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth
Century, Università Roma “ LaSapienza ” (speaker).April 2, 1993, Rome.
Paper on “ Davidson on skepticism”. Conference Donald Dav
idson’s philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”
(speaker and organizer).January 7-10 1993, Lucca. Paper on Logic and
Philosophy of Science: Problems and Perspectives. Triennal Meeting of Italian
Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker). November 30, 1991, Rome.
Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy,
Università di Roma “ La Sapienza ” (speaker). November 20-22, 1989, Rome.
Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein
on Mind and Language, Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we
taught De Interpretation with Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin
thought that Heidegger’s attempt to link hermeneia (to interpret) with Hermes
was far fetched, so we left it at that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare,
Davidson, Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World
philosophers like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias,
Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice –
‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational
implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not
IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ –
Actions and Events --.- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773869382/in/dateposted-public/
Grice e Carravetta – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Lappano),
filosofo. Moved to the New World. Note
Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera iawa-West welcomes Peter Carravetta and
Marisa Frasca on Saturday, February 14,
at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open
Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa Frasca February 14, Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX secolo Poeti italiani del XXI
secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing
the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro
Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The
Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum,
almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774915883/in/dateposted-public/
Grice e Carulli – GIANO -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo. Grice: “I like Carulli – he
philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation –
or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.”
Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my
‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’!
Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett
– I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures
of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!”
“Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘
di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable
implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle:
his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise,
like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”.
Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta allo storiografismo,
all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi
inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i
diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma,
seguendo la scuola della cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi,
unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo
puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della
sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire
da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa
dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il
Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni”
(Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi
socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso
sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico”
(Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della
democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e
abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con
l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non
giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia
dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani,
Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De
contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e
le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio
Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro,
Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier
Francesco Corvino, Religio Medici. Andrea
Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com.
alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro,
“impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo
pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una
preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian
Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai
playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno
Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com,
Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso
di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in
La Gazzetta del Mezzogiorno. Giano (latino:
Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità
più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica.
Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché
il dio può guardare il futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le
quattro facce sono rivolte ai quattro punti cardinali. Busto di
Giano conservato presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità
Modifica Etimologia Modifica Quadrigato romano recante l'effigie di
Giano. Circa 220 a.C. Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al
movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare",
perché secondo Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da
sé stesso a sé stesso ritorna[1]. Gli studiosi moderni hanno confermato questa
relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua, "porta"[2],
ma è con Georges Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe
dalla radice indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di
"passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha prodotto anche
l'irlandese ath, "guado"[3]. In passato non sono mancate tuttavia
ipotesi alternative, come quella che voleva il nome derivato da una più antica
forma *Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e quindi derivato
anch'esso dalla stessa radice del termine latino dies, "giorno"[4].
Dumezil nota anche l'appellativo di 'mattutino' con cui Orazio si rivolge al
dio in modo semiserio (Serm. 2, 6, 20-25). Tale appellativo tuttavia deporrebbe
indifferentemente a favore di entrambe le ipotesi etimologiche esposte. Il suo
nome in greco è Ιανός (Ianós). È il primo a portare il naso con profilo
romano (il classico naso a becco d'uccello). Origini Modifica La figura
del Dio Giano, come appena accennato, è prettamente romana e la sua origine non
si può far risalire alla mitologia greca. Nella mitologia etrusca la divinità
più prossima a Ianus è Culsans[5], dio delle porte e dei passaggi[6][7],
anch’esso bifronte, con un nome simile ("ianua" significa porta in
latino, come "culs" in etrusco) e legato al concetto di passato e
futuro, ma con caratteristiche non del tutto sovrapponibili. Essendo pochissime
le informazioni in nostro possesso sui culti dell'Italia preromana non possiamo
far risalire con certezza Giano a qualche divinità italica. Una
possibilità da tenere in considerazione è che la figura di Giano sia stata
ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due facce, altrimenti chiamato
Isimud o, in piena età babilonese, Ansar. Epiteti Modifica Asse con
l'effigie di Giano e la prora di una nave. Circa 240-225 a.C. Come tutte le
divinità romane, Giano era chiamato con diversi epiteti, che testimoniano la
sua particolare rilevanza all'interno del pantheon: Divum Deus (Dio degli
Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons
(Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano creatore) Ianus Consivius (Giano procreatore)
Ianus Pater (Giano padre) Pater matutinae (Padre del mattino) Ianus Vicilinus
(Giano Vigilante) Natura del dio Modifica Giano è una divinità esclusivamente
romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, gli Di indigetes, invocata
spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico dio romano a non
essere assimilato a divinità ellenistiche. Il suo culto è probabilmente
antichissimo e risale ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici
erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della raccolta e della
semina. È stato sottolineato da più autori, fin dal secolo XIX (Vedi Il ramo
d'oro), come Giano fosse probabilmente la divinità principale del pantheon
romano in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei (VII, 9)
ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio competa
“omnium initiorum potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di questo
fatto nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca classica.
Giano nell'epoca arcaica era semplicemente il dio legato ai cicli naturali, poi
con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più complesso. Nei
frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato con particolare enfasi
come padre e dio degli dei stessi: (LA) «divum +empta+ cante, divum
deo supplicate» (IT) «cantate lui, il padre degli dei, supplicate
il dio degli dei» (fragmentum 1) Tale dato è confermato dal fatto che per
i romani Giano non era figlio di alcun'altra divinità (ad esempio Giove è figlio
di Saturno), ma, proprio per la sua qualità di pater divorum, egli era sempre
stato, immanente, fin dall'origine di ogni cosa. Così è che Giano, come lo
stesso ci racconta per bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e s.s.), era presente
allorché i quattro elementi si separarono tra di loro dando forma ad ogni
cosa. A tal proposito Varrone riporta nel carmen anche l'epiteto di Cerus
cioè "creatore", perché come iniziatore del mondo Giano è il creatore
per eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel
libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì,
circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e della terra, pesante e
tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell'aria, leggera e
tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza del cielo a tenere
legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo chiama "principio
degli dèi e acuto seminatore di cose". Giano presiede infatti a
tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e immateriali, come le
soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco,
ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita umana, della vita economica,
del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi, del
mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato Consivio, cioè propagatore del
genere umano, che viene seminato per opera sua[10]), della civiltà, delle
istituzioni. Nella sua riforma del calendario romano, Numa Pompilio
dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio d'inverno, gennaio, che
con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il primo dell'anno.
Una delle caratteristiche più singolari di Giano sta nella sua rappresentazione
come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi Giano bifronte. Questa particolarità
era connessa all'area di influenza divina che Giano assunse in maniera
specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli dei romani
"canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai passaggi
(iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i
portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due facce
vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita. Anche in
quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni forma
di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un inizio ed
una fine. Miti Modifica Paolo Farinati, Giano bifronte con una
ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di Sant'Ambrogio
di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come primo Re del
Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la civiltà agli
Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe generato
inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del Tevere. È lui
ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal figlio Giove,
condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare l'età dell'oro.
Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il dono di vedere
sia il passato che il futuro, all'origine della sua rappresentazione
bifronte. Numerose sono le ninfe indicate come mogli o compagne di
Giano: Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino, il dio del
Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale avrebbe generato:
Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle porte; Giuturna,
dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato ai piedi del
Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle altre divinità
maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a lui dedicate
venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età repubblicana dal
particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative regie, il Rex
Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le cerimonie religiose,
antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di Giove. Nel suo
tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla riuscita delle imprese
militari. Santuari Modifica Arco di Giano o Ianus Quadrifrons. A
Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano: lo Ianus geminus, un
passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa Pompilio nel Foro e
precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo Tito Livio, o ai piedi
del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in occasione di guerre e
chiuso in tempo di pace[11]; lo Ianus quadrifrons, un arco a quattro aperture
situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel Foro Olitorio e
consacrato da Gaio Duilio nel 260 a.C. dopo la vittoria di Milazzo. Giano come
simbolo di città Modifica Scultura lignea di Giano ad Avezzano Secondo la
leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio lui ad accogliere
Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma denominata
Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di uno dei
villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del Tevere ove
è presente un guado naturale, quindi un passaggio. Giano viene assunto
dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di Ianua[12].
Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa città.
Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano
(l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca opera
della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta); rappresentazioni
dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate di Galleria
Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una rappresentazione
indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel palazzo azzurro sito in
Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a sostituire i riti celtici
dediti alla venerazione del torrente, considerato come luogo ove convergono le
acque da affluenti che stanno a destra e a sinistra dello stesso corso d'acqua,
in quanto Giano aveva due facce ed era il dio dei passaggi, oltre ad avere
rapporti con le divinità delle acque. Oltre a Genova, Giano è il simbolo
di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano (provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro
(provincia di Padova) e Centro Giano (provincia di Roma), San Giovanni
Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di
Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché secondo un'etimologia popolare il nome
del paese potrebbe derivare dal nome del dio Giano[14] (in realtà il toponimo è
un prediale costruito sul gentilizioromano Tidius[15].). In Basilicata,
presso Muro Lucano (PZ) è presente il toponimo Capo di Giano e Varaggiano,
mentre presso Melfi c'è Foggiano. A Pescopagano, in una nicchia sotto l'arco di
Porta Sibilla vi è una statuetta raffigurante Giano bifronte. L'immagine
di Giano è presente nel gonfalone di Subbiano (provincia di Arezzo)[16] perché
secondo un'etimologia popolare il nome del paese deriverebbe dal latino Sub
Janum condita ("fondata sotto [il segno di] Giano")[17], ma in realtà
il toponimo è un predialecostruito sul gentilizio romano Sevius[18]. Il
nome della città di Avezzano in Abruzzo stando ad un'ipotesi giudicata
inverosimile da storici ed archeologi deriverebbe da "Ave Jane",
un'invocazione posta sul portale di un tempio consacrato al dio Giano. Secondo
la leggenda attorno al tempio ebbe origine la borgata formata dai primi
agricoltori stanziati nell'area che originariamente circondava il lago del Fucino[19].
Il monte Giano nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in
provincia di Rieti. Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana
parrebbe riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di
Giano), l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al
dio. Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano
Ligure in provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana. Il
nome del dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano
Vetusto, non direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al
quale sarà originariamente appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro
abitato)[20]. A Reggio Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo
Magnani in Corso Garibaldi. Nel comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta,
esattamente dinanzi l'ospedale cittadino, sono ancora visibili i resti di un
tempio con l'iscrizione "Iano Pacifero". A Trieste vi è una
fontana con il volto bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre.
In quanto alla scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in
quel punto si trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla
città.[21]. Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le tante
interpretazioni, parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano
denominato Campus Iani. Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di
Fano, vi è la frazione di Monte Giano. Nei pressi del comune di Montieri,
tra Siena e Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano,
tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare,
circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono
escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di
vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi
conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile
sotto la cupola della rotonda. Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I,
9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche,
s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, 1995. ISBN 88-215-3024-8. ^ Georges
Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 291. Milano, Rizzoli, 2001. ISBN
88-17-86637-7. ^ Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, s.v.
Giano. Torino, UTET, 1999. ISBN 88-7750-754-3. ^ Erika Simon "Culsu,
Culsans e Ianus" in: Atti Secondo congresso internazionale - Tomo III -
1985 pag. 1271-81. ^ de Grummond, N.T. & Simon, E. (eds.) (2006). The
Religion of the Etruscans. University of Texas, Austin.. ^ Daniele F.Maras,
Monografie - La Religione Etrusca p.22, in Archeo Monografie, 27
ottobre/novembre 2018. ^ Marco Terenzio Varrone, Della lingua latina, VII,
26-27 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 14 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 16 ^ Tito
Livio, Storia di Roma, I, 19, 2 ^ Teofilo Ossian De Negri. Storia di Genova.
Firenze, Giunti, 2003, p. 13. ISBN 88-09-02932-1. ^ Stemma Comune di Tiggiano,
su comuni-italiani.it. URL consultato il 7 aprile 2008. ^ Notizie generali sul
Comune di Tiggiano, su japigia.com. URL consultato il 7 aprile 2008. ^ Carla
Marcato. Tiggiano, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. Torino, UTET, 1990.
ISBN 88-02-07228-0. ^ Subbiano (Tuscany, Italy), su crwflags.com. URL
consultato il 6 aprile 2008. ^ Subbiano in breve, su comune.subbiano.ar.it. URL
consultato il 6 aprile 2008 (archiviato dall' url originale il 24
settembre 2008). ^ Carla Marcato. Subbiano, in AA.VV. Dizionario di
toponomastica. ^ Giovanni Pagani, Il nome Avezzano, su avezzano.terremarsicane.it,
Terre Marsicane. URL consultato il 20 maggio 2015 (archiviato dall' url
originale il 5 marzo 2016). ^ Carla Marcato. Giano dell'Umbria e Giano
Vetusto, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. ^ In Viale una fontana con due
mascheroni - Cronaca - Il Piccolo, in Il Piccolo, 19 novembre 2004. URL
consultato il 18 ottobre 2017. Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia
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CORRELATE Falacer Saturno (divinità) divinità romana dell'agricoltura
Carna Wikipedia Il contenutoAntonio Carulli. Keywords: Giano, critica
della cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin,
menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente. Giano, e la
religione, paganesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775301924/in/dateposted-public/
Grice e Casalegno – il concetto
d’implicatura nella filosofia linguistica del Novecento – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della
logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del
linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P.
Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di).
Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento
oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello
Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri
di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile
antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia
analitica del linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani,
tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e
Marco Santambrogio. I testi antologizzati consentono al lettore di farsi
un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche
inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in
ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in
cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti
chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e significato
di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi Le descrizioni di
Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato,
uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche
filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e
riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam,
Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice,
Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono... Introduzione alla filosofia del linguaggio
Paolo Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in
considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere una
proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024).
Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti
hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la
nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana? Un
modo può essere questo: usiamo il
linguaggio per descrivere la realtà. Una
proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale,
della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata
altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le
circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata,
dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera.
Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo
conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo di fraintendere.
Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal
sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le
due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere le
condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere,
principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una
proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere
l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del
significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità
sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che
il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme
determinato di condi-zioni di verità. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attri-buibili
condizioni di verità. Ci sono espressioni
sintatticamente ben formate che non sono
frasi complete, parole singole o espressioni come ‘valigia
pesante’. Che queste espressioni abbiano un significato è
indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere
un’evidente for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi
complete come le interrogative e le imperative. Inevitabil-mente,
una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di
espressioni deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un
significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in
cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla,
equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle
frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è
possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa
— e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se
non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete)
(MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati.
Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire
e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra
capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si
sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci
riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il
linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di
informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente
arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli
enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per
concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di veicoli di
informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
tro-viamo, delle informazioni di cui i
nostri interlocutori già dispongono, delle
loro aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di
costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser
compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non
bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono
concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di
conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero
dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo
fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego
effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò che si può
comunicare con un dato enunciato varia enormemente con il variare dei
contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la
distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio
di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi
altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e
pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo
dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei
segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi
concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e
pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si
riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un
tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia
giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da
altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della
nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale,
e possa costituir una scelta metodica feconda. Due punti: né il filosofo
del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi
pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che
potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo
la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di
partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle
condi-zioni di verità degli enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono
riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo
distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica
presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo 2 Questa
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cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che
è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso comune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa
consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una
tale correlazione è un fatto contingente. 5 stato di cose che
l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai
elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da
parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi
sono “costituenti psichici”. Usando le
parole di Wittgenstein si può continuare
a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma
non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il
senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e
che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel
caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero
che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così
che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero
è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua
natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di
pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […]
Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi
di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in
una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune
è il requisito della semplicità. L’oggetto deve
essere semplice, ma di questa semplicità il Tractatus
non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la
genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente
di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli
oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti
formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il
mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare
un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento
di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa
consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una
tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che
una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P
figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo
sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa, e quindi che P ha
senso, solo se fossimo sicuri che C esiste: in altri termini, solo se
sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi
costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein,
“l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione
vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure
no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o
l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere
sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma
la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e
noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di
determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo
vera o falsa”. Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti
semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. NB. In
questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici
viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto
contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É
manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure
deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma
fissa consta appunto degli oggetti”. La proposizione (I) non è dunque
un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno
stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre
oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’
e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non
implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un
senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a
proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente
analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa
attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava
Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire
identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il
sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la
correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve
essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione
nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.
Vediamo ora cosa Wittgenstein sostiene riguardo
le proposizioni complesse. La sua idea è
che le proposizioni complesse siano funzioni
di verità delle proposizioni elementari che
figurano come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari
che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P
è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità
di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in
cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato
connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti,
Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di
verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1).
Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di
un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo suggerimento si
di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente
ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein
nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni connettivo denota una
certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori
di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la
tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da
esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto
quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire
proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe
modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti.
Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che
cosa denotino le parentesi. A queste considerazioni circa le proposizioni
complesse è strettamente collegata la concezione wittgensteiniana della logica.
Né Frege né Russell avevano saputo spiegare che cosa contraddistingue una
proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno
degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa
ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione complessa
come determinato dai valori di verità dei suoi
costituenti elementari, si può constare che ci sono due casi
limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui
una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili
combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo
tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo
‘contraddizione’. Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della
logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia
ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una
pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché
non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci
alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo
vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo
funzioni. Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo
stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle proposizioni
complesse questa nozione di senso non può essere applicata
senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è
uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da
P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni
complesse sono funzioni di verità dei loro costituenti proposizionali
ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non
sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di
identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non
sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso
della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non
perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti
devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE
LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es:
l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI
VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E
NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI
UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi
è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi
complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI
INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo
atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN
TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando
dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che
possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della
costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI:
studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI:
studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO +
DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA CLASSICO DEL
900. Frege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”;
ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A = A/ A = B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE
CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO
OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI
(INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI
VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e
INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI
DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student
che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed
imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere
il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno.
OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente
per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione
sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si
decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre
tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di
costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le
CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto
informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta
stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV
che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di
una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA
che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi
concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e
PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione.
Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il
problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo
due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del
linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce
dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una
conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga
a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant):
CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA
QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate.
FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE
CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed
ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica
e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo
punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di
GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i
partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ:
fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ:
non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI:
dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano
Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774868518/in/dateposted-public/
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