Grice e Ferrando – CORIOLIANO, ovvero, la filosofia –
filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Ferarndo; for one, he
is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he
philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of
Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa.
Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo
s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per
L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare
(“Otello”, “Corolliano”), e S. T. Coleridge, Carpenter (“La creazione”),
Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando
di alcuni di questi anche delle versioni. Fu inoltre studioso di psicologia e
redattore della rivista Psiche. Collabora con Salvemini alla propaganda
antifascista e firmò il Manifesto di Benedetto Croce. Espatriò a New York, dove
continuò la sua attività antifascista, divenne professore d'italiano e filosofia
presso il e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adottò la figlia Vasanti.
Contribuì più tardi a fondare la Besant Hill School di Ojai, California,
praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo
d'indagine dove gli studenti imparano *come* pensare, non *cosa*
pensare". RootsWeb's World Connect
Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND and WEST FARMS (BRONX), NEW
YORK Guido Ferrando appointed Chairman
of italian dept. in «Vassar Miscellany News», Besanthill. Opere: Saggi, “La
Voce” -- Wikipedia Ricerca Gneo Marcio Coriolano politico e Generale
dell'Antica Roma Lingua Segui Modifica Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus
Marcius Coriolanus (527 a.C.? – ...), generalmente conosciuto come Coriolano,
membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo
delle guerre contro i Volsci. Veturia ai piedi di Coriolano di
Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora
Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago
Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona
civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino
romano.[1] Secondo Tito Livio[2] e Plutarco[3] a Gneo Marcio fu
attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di
Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri
storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città
stessa[senza fonte]. (LA) «Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos
ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia
contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis
accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant,
repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent,
quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus
post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.» (IT) «Q.
Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci,
accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani.
Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a
combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere
la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e
della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il
secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I,15) L'Eroe della presa di
CorioliModifica Nel 493 a.C., consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio
Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima
secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro. La situazione era
poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato
(Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio,
trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici
intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione
militare, affidandola al console Postumio Cominio. Postumio Cominio
iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di
Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò
contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate
dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito
Livio annota: «....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al
punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in
assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna
di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i
Volsci» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33) Dai
contrasti tra patrizi e plebei all'esilio Modifica
Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei
campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua
importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio
Atratino, nel 491 a.C., Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del
prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio. In effetti la
contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e
patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione
dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione.
In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più
oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente
alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato
violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco
che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea. «...A
questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve
consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato
condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo
immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»
(Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XVIII, 4) Alla
fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le
versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio[4], Gneo Marcio rifiutò
di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per
questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per
Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di
essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro
di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per
Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita. La guerra contro
RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio[6],
ospite di Attio Tullio[7], eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da
forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare
affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito
romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani,
tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il
potente vicino.[8] «... Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio
con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si
combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le
due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i
Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli
e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano
lasciare la città prima del tramonto. ...» (Plutarco, Vite parallele, 6.
Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXVI, 1) Alla fine i Volsci decisero per una
nuova guerra contro Roma[9], ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il
comando dell'esercito[10]. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le
forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero
soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di
attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e
Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti
Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver
subito alcun attacco dai Romani[11]. Successivamente, mentre Attio
proteggeva con il proprio esercito la città[12], Coriolano volse il proprio
esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non
reagiva per il montare della discordia tra i due ordini[13]. Alla fine a
Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di
prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli
dalle incursioni dei Volsci[14]. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si
aggiunse poi la rivolta degli Equi[15]. Coriolano, al comando del proprio
esercito quindi prese Tolerium[16], Bola[17], Labicum, Corbione, Bovillae e
pose l'assedio a Lavinium,[18] senza che i Romani portassero aiuto a queste
città. Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della
città in località Cluvilie[19], dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da
cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino[20], senza però
riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre
guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città
degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani[21].
Leggermente diversa la versione di Tito Livio: «Quindi conquistò Satrico,
Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai
Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle
scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo.
Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque
miglia dalla città» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 39)
Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il
confine dell'Ager Romanus Antiquus(nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre
i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese
della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della
moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a
desistere dal proprio proposito di distruggere Roma[22]. «....Coriolano
saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per
abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo
lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da
un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una
madre.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40)
MorteModifica Tito Livio[23] riporta come non ci fosse concordanza sulla morte
di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo
considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma;
secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio. Plutarco e Dionigi di
Alicarnasso raccontano come Coriolano fu ucciso da una congiura, capitanata da
Attio Tullio, mentre si stava difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove
era stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver
combattuto, da Roma.[24][25] Poi, però, fu dimostrato che l’azione non era
affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro
di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il
sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli
tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono
rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un
massimo di 10 mesi.[26] Cicerone, nel Brutus, nel paragonare Coriolano a
Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta
allontanati dalla patria.[27] Critica storica Modifica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano
rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte
dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre
che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono
giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un
condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza
che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia
trattato di un personaggio storico.[senza fonte] Note Modifica
^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, III.3, pg. 123 ^ Tito Livo, Ab
Urbe condita libri, Lib II, par. 33 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, XI, 1 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par.
35 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XX, 4 ^
Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXII, 1 ^
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 1. ^ Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. II, par. 36, 37, 38 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, VIII, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 11. ^
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 12. ^ Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, VIII, 13. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII,
14. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 15. ^ Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 16. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, VIII, 17. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 18. ^
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 19-20. ^ Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 22. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
VIII, 23-28. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 36. ^ Appiano,
Storia romana, Liber II, 3-5 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par.
40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXXIX ^
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 58-59. ^ Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 62. ^ Cicerone, Laelius de amicitia, XII,
42. Cicerone, Brutus XLIII Bibliografia Modifica
Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,33 Plutarco, Vite parallele, Coriolano
Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 14-15 (che lo chiama Quinto) Ispirata
pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (op. 62, in do
min.), composta per la tragedia teatrale omonima di H.J. von Collin. Voci
correlate Modifica Gens
Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di William Shakespeare Altri
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su Gneo Marcio Coriolano Collegamenti esterni Modifica
Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De
Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Gneo Marcio Coriolano / Gneo Marcio
Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF ( EN )
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modifica 3 giorni fa di No2 PAGINE CORRELATE Sesto Furio Medullino Fuso
politico romano Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile
volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio) Wikipedia Il contenutoCORIOLANO
Tragedia in 5 atti Traduzione e note di Goffredo Raponi 3 NOTE
PRELIMINARI 1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello del prof.
Peter Alexander (William Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London
& Glasgow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi,
specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”,
l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da
G. Taylor e G. Wells per la “Claredon Press”, New York (USA), 1994. 2) Alcune
didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la
migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è
essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono
introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo;
giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano
“entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si
trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni
“Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto,
intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere
della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu”
(i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del
dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in
atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata,
spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a
cominciare da Nicolas Rowe (1700). Li si riproduce come figurano nella citata edizione
dell’Alexander. CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite
parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa
Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini
politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in
guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive
nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica;
Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena
liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per
contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il
nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1); Coriolano,
all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la
massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da
Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo
è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la
cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e
plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini
sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di
Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati
capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma
pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e
onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori(2), con i
loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della
tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la
capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è
la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si
muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello
raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad
accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il
personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì -
simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario(3), per saggiarne i punti
deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano
non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del
carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla
realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così,
quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la
figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante
litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve
anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e
dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto
questo. CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali
romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO
VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di
Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO
AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un
cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano
VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia
di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati,
cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori
del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a
Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI ATTO PRIMO SCENA I - Roma,
una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri
ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate!
TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che
affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che
Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo
sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo
nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. -
Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per
loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci
procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che
fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per
umanità; ma pensano che già costiamo troppo(4). La macilenza che ci affligge
tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per
esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno.
Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli,(5) ché
se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di
vendetta! SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti
contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane,
quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali
servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche
contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso
con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico
che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe
tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità
l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la
propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu
gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte
della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no,
ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà(6). Di difetti ce n’ha di
sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son
queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo
qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. -
Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon
Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.
PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO -
Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e
di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane
che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro
dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo
forti pure mani e braccia(7). MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei,
onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati
già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava
gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a
quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato
romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il
cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli
più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto
alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti
agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che
voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a
calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello
Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli?
Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di
fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e
favoriscon solo gli strozzini; abrogano ogni giorno sane leggi promulgate
a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per
impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a
sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete
ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi
di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura(8). L’avrete già
sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’
più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire
con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe
un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo
stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a
ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza
divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente
ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a
percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme
agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO
CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo
appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli
venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se
posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere,
provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo
ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori
perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco...
Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore,
consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di
battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre
munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi,
tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla
addosso(11)! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ...
dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco(12), ch’è la fogna del
corpo(13)... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi
che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te
lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai
poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire,
buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta
calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero
ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è
giusto e logico che sia così(14) dal momento ch’io sono il magazzino e
l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando
poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore,
al suo trono, il cervello, e, attraverso i tortuosi labirinti e le
diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più
capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento
onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” -
attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. -
Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che
fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a
posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non
resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era,
questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori
di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in
generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi
quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti
riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al
Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del
piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO -
Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta
saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior
sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio
personale! Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i
batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa
quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te,
nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia,
che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione
siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te,
Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse,
sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né
pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli(16), l’altra vi fa sfrontati
e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si
accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia
in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di
grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche
sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore,
non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son
come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo
peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse
avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con
dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto.
Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima
il vostro eroe. E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di
Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a
freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando?
MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben
fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto
al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in
Campidoglio(18): chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive,
chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze
immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate
calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i
nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me
d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi
miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno.
Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti(20); perché se pur son
largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente
vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria(21). MARCIO - Si
son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando
a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han
diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per
i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il
loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una
lor petizione... una richiesta assurda, da spezzare il più generoso
cuore(22), e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a
urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai
corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO -
Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei
cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più(23). Ma,
sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva
scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere
legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una
insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla
folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO
MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio,
è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo
sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo(24). Ma ecco i
nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI,
poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai
detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a
capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio
il suo valore, e se fossi altro da quello che sono, vorrei essere lui, e
nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la
metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar
dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un
leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno
Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso,
Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la
lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori?
LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo
quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh,
buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove
so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO -
(A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A
voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi)
Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che
vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci,
a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha
buone prospettive. Seguiteci, vi prego. (I popolani si disperdono) (Gli
altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più
arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci
elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi(26)?
SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se
perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la
vereconda luna(27). BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato
troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un
carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la
sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta
boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO -
La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non
c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un
posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante
in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a
quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio:
“Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene,
la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà
Cominio d’ogni merito. BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che
spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati.
SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la
guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa.
BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA II - Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con
alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma
siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non
lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad
effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche,
meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio...
Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual
destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande,
“e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il
vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un
romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione,
dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in
allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da
Roma ci sarebbe venuta la risposta(28)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo
una follia creder che i vostri piani di battaglia avessero a tenersi
sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da
soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano.
Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere
molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO
SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e
lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su
le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si
preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son
di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno
marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed
io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non
soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie.
PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i
Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio
Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia,
ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio
figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi
onore, che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli
potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del
mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente;
quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo
sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora
della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse,
sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero
felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse
incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno
col capo cinto di foglie di quercia(30). Ti dico, figlia, che di tanta gioia
non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio,
quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA -
E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei
serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei
ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici
figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio
buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della
patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle
fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria,
per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei
ritirarmi. VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire
qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in
terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui
come bambini alla vista dell’orso(31)... E vederlo che pesta i piedi a terra,
così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di
Roma(32)!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di
ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di
mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte
insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad
un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa
che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando,
sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a
Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce
l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio.
VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio
e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa
VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son
lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel
lavoro: che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona
amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder
spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA -
Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò,
sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio
risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce
dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo
dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla
ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i
denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli
scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA -
Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi
fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi
dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà,
uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar
quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma
via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur
deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le
faccio voti d’un felice parto e le sto accanto con le mie preghiere; ma
visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per
sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti
proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò
nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto
che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per
pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA -
No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla
mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia
buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non
scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA -
In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono
scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre
forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli,
la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La
notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con
noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello
che vuoi, te lo prometto. VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore
che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso
anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica.
(Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via
con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon
divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina
sul ricamo) SCENA IV - L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO
MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e
vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie.
Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che
no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al
Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano
già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo
è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo.
Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento
la città. MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti?
MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il
loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego,
facci concludere alla svelta qui(34), sì che da qui possiamo poi marciare, con
le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al
Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle
mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci)
Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui
vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i
nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che
lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste
nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei
giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza)
Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta
facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano!
LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati
volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi,
vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore,
e col cuore più saldo degli scudi, all’assalto, mio valoroso Tito!
Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi
fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che
indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia
spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni)
(Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di
Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti
d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di
guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di
distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto
indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie
sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti
nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare!
Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo,
mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti!
E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci
hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa
volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li
insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte.
Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non
a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli)
PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È
prodezza da folle, io non lo seguo. SECONDO SOLD. - E io nemmeno.
(Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro.
TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di
Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava
inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito,
gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO
- Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile
tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante
della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello
più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da
Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce
sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico,
come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra
MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci(39) PRIMO SOLDATO - Oh,
generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si
muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano
tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani
recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto
d’argento) Io questa roba me la porto a Roma. SECONDO SOLD. - E io con
quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino)
Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore
di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un
trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si
ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo!
L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri
vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe
con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano,
per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero
tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là
c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo
strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che
ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo
di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio
nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora.
MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’
di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a
Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi
di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei
nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il
Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna decide di portare in
alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al
Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che
s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il
campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO
- Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti
fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci.
Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in
quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte.
Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano
con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso
in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un
MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto
all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto
io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son
partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da
quanto tempo sei venuto via? MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma
da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi
qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e
recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie
dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o
quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa
il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se
l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre
volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È
la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il
pastore il fragore di un tuono da un tamburo(44). MARCIO - (Avvicinandosi)
Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue
tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte,
Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al
declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi
luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio,
che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia,
chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del
riscatto, con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome
di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si
voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è
venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?...
Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i
nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son
fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E
come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma
il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché
cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una
posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e
vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo
gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea
son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda
Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per
le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei
giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con
Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia;
affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO
- Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel
bagno e spalmarti d’unguenti le ferite; ma non saprò giammai negarti
nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO
- Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se
c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta
ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha
meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte
valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se
stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui,
levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio.
(Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle
loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una
spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di
voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al
grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi
debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa,
quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in
bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi.
COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete
sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e
di bottino. (Escono marciando) SCENA VII - Davanti alle porte di Corioli
TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di
partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un
LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte
siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate
subito quelle centurie(47) in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco
la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più
tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo,
dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada,
scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA VIII - Il campo di battaglia.
Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e
con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al
peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io
aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il
primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo
dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un
cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore,
io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli,
facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono
imbrattato? Non è mio. Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se
vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua
altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono.
Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti
indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro
maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA IX -Il campo
romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi
all’interno. Poi, segnale di ritirata(51) Entra da una parte COMINIO con
l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio,
foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso
non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che
mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno,
prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima
atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora;
dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno
in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha
un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare
solo un morso, avendo già mangiato a sazietà(52). Entra TITO LARZIO con
l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A
Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo
la sua bardatura. Lo avessi visto!... MARCIO - Evvia, basta, ti prego!
Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio
sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti,
cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia
patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona
volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi
meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta,
sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio
qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio
apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una
calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello
ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho
addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo,
esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei
cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino
conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che
potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO -
No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un
dono sottobanco(54) per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me
semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato
alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria
i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto) Questi
strumenti che voi profanate(56) non risuonino più così a sproposito! Quando
tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare,
allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite.
Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi
questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son
lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di
natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio -
ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io
fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata
dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più
spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il
cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le
manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare
insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a
tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il
vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio
bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E
d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con
unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A
Coriolano(60) ) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon
di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a
lavarmi, e sul mio viso poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete
fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il
tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo
più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda:
io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu,
però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più
autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO -
Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena
rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare
qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si
tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo
pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i
prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi
agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di
lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur
l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio)
Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo
son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata(61)... Non avreste del
vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni. Il sangue sulla
faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) SCENA X
- Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di
sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la
renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere,
ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può
portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio,
ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti
altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci
sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra
volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha
perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi
pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più,
qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in
persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come
avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui
sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né
santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre
preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato -
ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e
dell’usanza che ancor li sostiene. Dovunque me lo trovi innanzi agli
occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia,
contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore...
Tu ora va’ in città(64), informati in che modo è presidiata e chi son quelli
ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu
non ti muovi(65)? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti
prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose,
ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E
così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SECONDO SCENA I -Roma, una piazza
Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure
dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non
certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna
pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti:
a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per
sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei. BRUTO -
Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive
tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo.
I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio,
che voi due non abbiate in abbondanza(66)? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi,
di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di
boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è
buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo
a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo
giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non
andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco
male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai
gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai
vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate
gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i
soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è
perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo
infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare
d’alterigia! Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei
vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO -
Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati
scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e
insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là,
Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un
patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non
annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar
ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica
più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino.
Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se
mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi,
e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non
posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni
vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con
rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un
bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi
due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne
segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto
riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura?
BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza! MENENIO - No,
voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di
scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare
ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra
un’ortolana(72) e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza
quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una
lite l’una e l’altra parte(73), v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di
corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera
rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare(75), e, bofonchiando in
cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più
imbrogliata di prima(76); col risultato che la conclusione che sarete riusciti
ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i
litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei
meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto
indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio(77)! MENENIO - Perfino i
nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver
a che fare con tipi della vostra bassa tacca(78). Quel che sapete dire di più
acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe
che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al
cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79).
E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui,
che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da
Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno,
tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze
vostre; ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo
bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi,
quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da
parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non
sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che
indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per
giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO -
Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo
applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in
segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio!
Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho
qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è
un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua
lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la
casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi.
MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò
boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di
Galeno(81) è uno specifico da ciarlatano(82)! Peggio d’un beverone da cavallo!
Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.
VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo
grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite
stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in
fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie
di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo
quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E
per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi
sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le
casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria)
Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO -
Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli
dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere,
son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due
Tribuni) Vostre signorie, che Dio(84) le salvi, Marcio sta tornando, ed ha
ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è
ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di
belle cicatrici da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua
carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio(85). MENENIO -
Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA
- Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con
queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di
tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA
- Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia
lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte.
Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara.
Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il
capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia
Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è
guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno
d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio
Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende
l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo
so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio
bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio... ora che
t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo
chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio
grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché?
Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia
cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor
figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui,
Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami(89). VOLUMNIA - Non
so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi
tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien
da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un
cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete
tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo
in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto.
Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e
chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto,
Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo!
CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la
tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92), debbo rendere omaggio ai
senatori(93) dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori.
VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed
avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma
te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio
preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo
loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno
BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che
han la vista debole si procurano occhiali per vederlo(94). La balia, per pettegolar
di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il
convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più
vistosa(95) e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli,
banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore
e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che
raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per
conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance
solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il
bianco e il rosa damaschino(97), espongon oggi al lascivo saccheggio degli
infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che
un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli
abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto
console. BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi
sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in
quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta.
SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che
per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue
benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto
per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare
che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e
nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue
ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO -
Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere
altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere.
SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale
proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà.
SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina.
BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò
sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar
a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto
al silenzio i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li
stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed
attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si
somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli
a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto,
questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante
sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà
mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto
aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo
accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre.
Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo
a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho
visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone
gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i
loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di
Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro
strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi
attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)
SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui
seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano.
Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son
convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma
superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a
questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli
sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper
perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una
ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun
conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e
glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO
USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore,
dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va
cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non
trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il
loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto
altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi,
facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e
scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e
rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e
in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e
rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli di una
forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente
una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a
udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo
di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da
squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi
CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una
parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché
dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non
resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura
compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria.
Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori(100), a colui che
ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra
fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile
comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar
merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari.
(Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non
omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da
farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi
convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più
alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese
orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo,
per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato. SICINIO
- Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro
gradimento(101); e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo
ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo
saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più
benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non
ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o
no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di
poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo
rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi
obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno
Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per
lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE
- Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto
ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma
preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come
le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a
farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a
farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero
riuscite a trattenermi. Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue
non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso
vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto
il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di
guerra(103), che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei
nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso
voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro
canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora
visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo
orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO -
Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le
gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita
assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa
stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma,
e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo(105) che
voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106),
battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo
vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare
ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol
colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che
avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene(107), si dimostrò il
miglior soldato in campo meritandosi, in degna ricompensa, una corona di
foglie di quercia(108). Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al
mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da
allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua
gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a
riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro
esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua
prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti,
si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava
il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo
gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta
della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza
alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con
la forza d’un fatal pianeta(109). Da quel punto, tutto era in mano sua, quando,
di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi:
allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che
v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove
imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non
dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il
terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per
dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE
- Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli(110).
COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando
a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di
meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue
gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita
così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO
SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo.
Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di
nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO -
Rimane solo che tu parli al popolo(112). CORIOLANO - Vi supplico, vogliate
dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla
addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor
suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo.
SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un
solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare,
ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come
hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una
parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe
bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio) Hai sentito? CORIOLANO -
... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in
mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le
fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne
un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe,
raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al
nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed
onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono
entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni
vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo
capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a
disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna
informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad
aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA III -Roma, il Foro
PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo
non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO
CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in
atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha
fatto ci tocca cedere la nostra lingua a quelle, e far che parlino per
noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come
facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è
cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se
stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri.
PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così.
Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a
definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci
chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia,
chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di
color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di
ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni
direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi
circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i
quattro punti cardinali(113). SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione
volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla
tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma
direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E
perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove
si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la
quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una
moglie. SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca
mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a
dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La
maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al
popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica
dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è
MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti
ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si
ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente:
perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò
statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti
seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non
hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che
cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento
proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino,
le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se
la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO
- O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi
far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...
Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece,
come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi
di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in
maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i
denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto
un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui.
TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei
meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere
personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore;
non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a
loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo
qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi
allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che
tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo
di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo
vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici? TERZO
CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due
magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta
loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo!
SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh,
lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO
CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai
s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi(114) il fatto ch’io sia
nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO
CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato.
CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un
flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità,
non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo
dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116).
Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo,
per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser
gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare
al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più
ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò,
brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo, che elargirò con generosità
a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO
CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il
voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria...
CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già
avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117).
I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente.
(Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire,
crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché
meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un
lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno?
Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che
vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più
spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una
montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah,
no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto
ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel
che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà,
farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri
voti. (Ai due) I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto.
Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due
dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato(119) diciotto fatti d’arme.
Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I
vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non
gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console,
perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo.
SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console!
(Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO
- Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora
ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti
subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta
secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la
ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO -
Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non
esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato. MENENIO
- T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO -
Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono
Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il
cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile
veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI)
SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui(120)? PRIMO
CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che
sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché
a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di
noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano!
PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di
nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci
doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la
patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto!
Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite,
ma che poteva mostrarle in privato; e col berretto in mano, ecco, così,
agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica
usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando
glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei
vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho
più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate
incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto
come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto
ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello
Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi
di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a
governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei
plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E
ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano
una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura
dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il
malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come,
del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato
il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo
alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo
caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a
qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto
trar partito dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete
fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto,
mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che
quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere
di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol
la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo
via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il
consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i
vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma,
e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è
confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo
revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota(122).
PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù.
BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici
che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non
darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo
mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio
giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e
sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale
aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto
stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,
memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo
comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui
conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri
Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero
ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per
conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le
vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad
esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto
ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a
noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi
abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come,
ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi
negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente
“marciana”(123), da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che
regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con
la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo
grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due
volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì
nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta
carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra
attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente
a confronto con quello del passato, avete tutti in lui riconosciuto un
vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato
troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre
sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo
come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono
i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso
una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se
aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua
natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e
trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là
prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è -
tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno
sprone dall’esterno. (Escono) ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada
Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO
- (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo
esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a
negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a
saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati,
Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor
vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO -
Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i
Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio.
CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che
modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato
solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro
al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto
che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo
vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.
CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove
sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano
i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le
lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si
bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano)
Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per
te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo!
MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del
popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di
fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo,
fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in
fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto.
CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto
al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che
state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro
denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’
calmo! CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta
preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare,
rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser
comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di
rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu
distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la
voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte,
tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO -
Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro.
CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io?
CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non
meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo!
Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di
diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti
ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere
il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più
malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e
nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno. MENENIO -
Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo
ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita
davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del
suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto
allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No,
Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la
mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana
s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me,
piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non
facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della
sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato,
seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui
non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO -
Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E
perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così
nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci,
contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo
tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e
né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo
affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia.
MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!...
Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa
stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza
infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo
Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio?
COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma
incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso
qui a quest’Idra(125) di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo
suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro(126) non si fa
scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la
vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un
tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate
dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non
comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur
sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già
ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il
tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo
è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro
un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto
questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa! E mi
sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella
contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può
infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro,
dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir
gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in
Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo
discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico
che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina
dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in
questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più
dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da
ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso.
Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato
correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si
può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo.
Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le
sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di
tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano
certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro
lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste
digerirà nel suo multiplo ventre la cortesia che gli ha fatto il Senato?
Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo
chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi
degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto
facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il
tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a
dar di becco all’aquile(127). MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza.
CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto
quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro
bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza
ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non
possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no”
dell’ignoranza di un’intera classe(128), è costretto per forza a trascurare i
reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato
qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi
supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza(129) - voi, cui le
fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di
migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete
pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte
certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello
Stato(130), ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno!
La vostra indecorosa umiliazione(131) rende monco ogni sano giudicare,
priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo
impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male,
che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero
traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua
stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote
di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati
dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento
di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la
legge(133). I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser
giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO -
Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli
Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato!
SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A
Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor
di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di
venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO -
(Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!
SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che
cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via,
carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una
folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto,
dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui
che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI -
Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno
a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto!
Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho
più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi,
tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu.
SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro
tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla! SICINIO - Le
vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol
togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma,
l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al
suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto,
Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso,
siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno,
sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la
città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di
rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita
morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del
popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi
dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli
Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che
sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI -
Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.
EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta
quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e
procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo,
intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano
consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come
questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla
Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno
in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso
su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni,
allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a
Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A
morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono)
MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà
rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo
tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero. MENENIO - S’ha da
arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile
amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda.
MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non
puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come
vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono
partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti
di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla
tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo(135).
CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO
- Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad
esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il
coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per
crollare(136). È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la
plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che,
straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente,
travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne
supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono
con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una
pezza di qualsiasi tinta. COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono
Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue
fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per
conformarsi alle cose del mondo(137). Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo
tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua
lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più
d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare
s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì,
nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in
modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove
sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui?
MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere
precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la
legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo,
da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili
Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà
impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla
folla) Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece
dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini(138). SICINIO - Di’
piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO -
Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i
suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di
Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no!
MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si
vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà
più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini,
perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo
velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo
vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea
ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi
benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli
che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove,
divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che
dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è
la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto egli, a Roma,
per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri
nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle
vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria
debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo
facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre,
fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO
- Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di
amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in
cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza(139).
BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo,
ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO
- Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando
vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi
dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie
legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e
che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO -
Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un
primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri
Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via! MENENIO - Considerate
questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe
impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un
linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci.
Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà
rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e
pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la
cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e
imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il
rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza
disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo
là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve
lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia.
Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci
da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con
alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso(141), mi
minaccino morte sulla ruota(142), o trascinato da cavalli bradi, o accatastino
l’una sopra l’altra sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più
manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò
sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO -
Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei
che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose
fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar
nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in
ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o
guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più
tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non
faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il
potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai
fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso
senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi
fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi
perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO -
Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi
vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’
troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare. PRIMO SENATORE – È
l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro
consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al
tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO -
Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad
umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo
rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la
mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che
devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO -
Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro?
Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio
mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi
troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento.
T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da
amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal
seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi!
MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri
onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere
i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,
accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si
presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA -
Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua
ispirazione(147), o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a
memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con
quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti
possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili
paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di
fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione
a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in
gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal
frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili;
e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a
far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor
simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO -
Nobile matrona(148)! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con
parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo,
ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti
scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo
gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre -
in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti
son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo
come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per
l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro
che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai
quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di
usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che,
d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto
sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così,
esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se
uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose
da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un
tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco
piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO -
Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene
accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto
furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se
saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che
sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia
zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e
comandargli di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol
di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome
Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al
Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo.
COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego,
hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e
questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene,
devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una
puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti
nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella
che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i
ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli
specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto
mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si
flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo
farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso(151), e col
comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza
non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a
pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua
madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua
rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a
tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato da me. Ma la
superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al
Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le
loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa
amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie.
Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua
nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I
Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli,
a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle
che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine.
Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse
vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no!
Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III
-Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è
il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento
ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai
distribuito. Entra un EDILE Allora, viene? EDILE – È qui che sta
arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che
l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli
abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me,
completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in
assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia,
per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a
pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”,
se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura
l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li
informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare,
ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto
sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero,
e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO -
Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo
subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto:
una volta scaldato, non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto
ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi
rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e
patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando,
calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi
della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i
venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua
giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di
pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO
SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei
plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni.
Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla.
(Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse
aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se
intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi
rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le
colpe che saranno a tuo carico provate. CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo
sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare
giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite
che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO -
Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate
poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere
il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi
vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato
e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per
qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi
leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il
vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me
rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento
di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse
vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO -
Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa...
CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io,
traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi la morte
ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella
tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce
dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO -
(Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO
- Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto,
udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha
resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che
devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che
la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma...
CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco.
CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa
fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper
altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad
andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di
fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a
comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà
a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,
bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni
ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo,
cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in
questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la
deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo
bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser
precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel
nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da
Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei...
Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno
fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero,
più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia
cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò
s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare.
BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico
di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO -
Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria
d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante
l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da
me! E qui restate coi vostri orgasmi! Che ogni minima voce(153) metta a
tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor
piume(154), vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di
dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza,
che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di
voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più
disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così,
sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo
pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico
del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano
tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce
dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso
disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si
merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI -
Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli
dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono) ATTO
QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO,
VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre
e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate
la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque
l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi
prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa
sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si
mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i
colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le
ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il
cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO -
No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e
muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno.
Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi -
ricordi?(158) - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei
delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio,
non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela,
malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più
salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi. (A
Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a
viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che
piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne.
Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’
certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa
temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede,
questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo
col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai,
figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi
che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul
cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così
potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e
tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria,
non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere
il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di
chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano
ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura
per il mondo con uno che ce la può far da sé(159). Accompagnami solo per un
pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil
tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego,
andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non
saprete mai nulla di me se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo
parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime!
Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti
seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia.
Andiamo. (Escono) SCENA II - Roma, davanti a una porta della città Entrano i
due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile
che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte,
abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti(160) ci conviene
mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile)
Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è
sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua
madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio.
BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti.
Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più
schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini possano
ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte
mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso...
(A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi
dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate
uomini(161)? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a
sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei
solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha
dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA
- Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma.
Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio
figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua
tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a
tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel
gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’
calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da
principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...
BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete
dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di
stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del
cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto
una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto
il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di
costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta
tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a
sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due
Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi
altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi
due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato
dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente,
ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il
mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò
di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio
io, di rabbia, alla maniera di Giunone(162). Andiamo. (Escono Volumnia e
Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio! (Esce) SCENA III -La strada fra
Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco,
incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se
non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in
coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come
te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì,
amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima
volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato
del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno
di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163):
il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono
state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno
facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno
ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta;
ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la
cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla
plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto
cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano
bandito! NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere,
Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora,
per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di
qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà
modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario,
Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose.
È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai
concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR -
Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte
vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO
- E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già
arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in
termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché
ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima
urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia.
ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di
rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti
alla casa di Aufidio Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e
imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le
tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di
queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i
loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile
scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO -
Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad
Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della
città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO
- Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve!
Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da
trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro,
inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno
screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così
ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a
forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una
sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e
unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore
a una città che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà
solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese.
(Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra
un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino,
vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra
un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?...
Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal
banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra
il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te
non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito
da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO
SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia
entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto.
SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci! CORIOLANO - Ora cominci a
infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti
faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO
SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto
sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il
padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori.
CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare.
TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma
sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque,
nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te.
Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad
ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si
avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al
padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito.
(Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa? CORIOLANO - Sotto
il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO
SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei
corbacchi(166). TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza
di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO -
No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi
dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e
sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci
troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia
via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque
quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei
cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor
signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO -
(A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?...
Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non
m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti
dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona
musica agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a
quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in
faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la
struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO -
Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO -
No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha
procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è
testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168). Il
gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue
che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale
ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una
testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi.
Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe
secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono
divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti
degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo
focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita,
ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello
sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han
bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi
dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si
vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia
situazione di disgrazia: usala in modo da trarre un vantaggio da quanto
io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro
l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto
osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono
stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico
tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno
stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di
sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo
disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al
servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha
strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella
nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non
crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio
codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte,
e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra
le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente
gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi
solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più
lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi
sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia
sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo
già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero
proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere
il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra, tu m’hai piegato, e da allora
ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a
terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la
gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un
sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con
Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e,
rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su
tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a
stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo
ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O
dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo
amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e
decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu
conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio,
cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella
periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per
prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii
dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato,
Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e
il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva
metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di
cacciarlo a bastonate... Però dentro di me lo sentivo che il suo abito
non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro
con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola.
SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una
tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva
un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci
aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo
stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto
al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di
lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO
- Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non
esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in
coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro
generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che
notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra
tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come
una condanna a morte. I DUE - Perché, perché? TERZO SERVO - Perché quel
Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con
noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO -
“Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere.
SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un
osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo
duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una
braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur
cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO
SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte:
l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano
in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse
la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar
strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è
dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col
consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le
orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti
a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo
capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà;
perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non
hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui
è in discapito(170)... PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO
SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue
salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a
fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi,
subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come
se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi
s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un
po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere
il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me,
dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è
migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è
piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda,
insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida
uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un
verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti.
PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico:
perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la
guerra a me va proprio a genio(171)! E spero che vedremo qui Romani a pochi
soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO
- Dentro, dentro, sbrighiamoci! (Escono entrando nella sala da pranzo)
SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui
non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono
spuntate(172)... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è
finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i
suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi,
vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i
nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam
puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO -
È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute,
amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere
molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene
in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con
lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo
aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so
nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano
alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro) Gli dèi v’assistano sempre,
tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO -
Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli,
a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente!
BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la
premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE
TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi
più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le
strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato
certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé...
SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della
repubblica, senza collega(173). MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO -
Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli
fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e
Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE -
Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro
spargendo dappertutto la notizia che i Volsci, da due parti, con due
eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale,
distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è
Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le
corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché
per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio!
(All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino
tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che
può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che
fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la
vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da
far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no,
non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,
stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È
tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti.
L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no!
Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile!
SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche
diverse - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a
Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando
una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più
vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar
negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO -
Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son
due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra
un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al
comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori,
travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé.
Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto!
MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio
dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche
il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre
mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare,
incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie
e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO
- Insomma, che notizie sai? Ti prego! (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho
paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti?
Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida
come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più
capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di
noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che
inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a
macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed
i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto
della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la
farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole,
scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro!
BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire
che non l’è, dovrete divenir pallidi morti(176). Tutte le genti gli aprono le
porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo,
periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i
nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO -
Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi
dovrà chiederla? I Tribuni? Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma
il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I
suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la
lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè
di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa
e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti
scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro
artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai
fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra.
MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da
nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando
l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno
urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel
mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica
di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due
sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il
branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli
avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole
vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna,
e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi
tutti: farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in
aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci
mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo
meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per
parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva...
SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece
così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se
pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO -
Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro,
voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio?
COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO
- (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là(177) appartengono
a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che
fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO
POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che
facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per
questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani) BRUTO - Brutte
notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio,
se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO -
Prego, andiamo. (Escono) SCENA VII - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano
AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)?
LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno
sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor
discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in
ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento
non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con
l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di
quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è
sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non
è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo
stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che
avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi
lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando
verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di
lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene
agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà e dimostri
d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso
come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada,
c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a
mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE
- Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località
s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è
tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo
non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo
quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani
quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della
natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di
mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che,
con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di
discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in
pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile
a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al
cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la
pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi
difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al
massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti
temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che
annulla ogni difetto al solo dirlo(180). Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono
alla stima del momento; e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha
tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il
fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto
per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci
adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti,
ed allora sarai subito mio! (Escono) SCENA I -Roma, una piazza Entrano
MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti
udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui
legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate
voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda(181), un miglio
prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è
dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come
se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel
passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia
amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome
“Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla,
un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un
nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai
Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia
di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a
buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di
ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto.
ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso
stesso aveva castigato. ATTO QUINTO MENENIO - Benissimo! Poteva dir di
meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più
cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un
mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar
qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi
il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di
frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo
figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i
granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita,
che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati
a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti
rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci
almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di
lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro,
come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No,
non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che
cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo
legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro,
senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?
Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare?
SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non
ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata.
MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene
quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto
Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non
fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle
vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo,
siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece,
abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si
canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri
digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto
ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la
strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire.
MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci
sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO -
Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto:
se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col
solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184) è il carceriere
della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena,
in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato.
M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no:
impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è
nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa
non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò
muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono)
SCENA II - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due
SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati!
Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra
licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a
Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si
passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a
SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con
Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il
vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille
contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio. 1a
SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta
niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale
tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose
imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’
gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre
bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette.
Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un
fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta
falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare.
1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie
per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se
fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per
favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato
partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere,
come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di
lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra!
MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima
ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro
generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto
l’odia lui. Come fate a pensare che dopo aver cacciato dalle porte colui
che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo,
possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di
vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre
figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come
puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui
fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila,
tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti
condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono.
MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi
trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo?
Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA -
Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se
non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta.
Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un
momento(186)! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO -
(Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo
superiore(187)! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di
sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano.
Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la
forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare e poi svieni,
per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso
ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo
vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco
qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui
da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro
all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato
spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei
supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian
cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella)
che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO
- Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li
conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto
mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia
stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la
pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre
suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una
lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non
starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti:
eppure tu lo vedi, Aufidio. AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è
Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la
conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver
bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto
ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al
mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di
morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro
generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli
anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA -
Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il
nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli
soffino contro. (Escono) SCENA III -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO,
AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai
sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata
avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini e sei rimasto
pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato
colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a
pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome
dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una
seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan
rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio,
d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli
amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi
tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò(188).
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra
sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del
sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma
oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi
s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e
il mio ragazzo ha un’aria così supplice ha un’espressione così
supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di
no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia(189)! Non sarò così insulso da cedere alla forza
dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO -
Questi occhi non son più i miei di Roma(190). VIRGINIA - È la grande afflizione
che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da
cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco
completo!(191)... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la
miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di
perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia
diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia
vendetta! Per la gelosa regina del cielo(192), quel tuo bacio d’addio io l’ho
portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato...
O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra!
(S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra,
lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito.
VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che
m’inginocchio avanti a te su questo duro cuscino di pietra, mostrando in
un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia
stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che
significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio
tante volte da te rimproverato(193)? Oh, allora volino a punger le stelle anche
le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri
cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che
diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu
sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica
Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come
il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di
Diana(194)... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo
è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà
maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso
del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove
ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al
disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al
mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono!
VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!
(Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco,
anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi
supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi
domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non
concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non
chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di
Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi
argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai
detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da
chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo
chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla
tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci,
sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che
cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza
profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che
genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che
donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se
il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di
conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di
dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre
che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra
divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.
Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per
causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo
per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua
vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria,
nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo
incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo
augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto
attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di
questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e
dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione
d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non
potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto
che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai!
- muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il
ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha
partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO
MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma
poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non
vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo
ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come
avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un
lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani:
“L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu
sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come
incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti
Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così
d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però
l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il
suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre
amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi
nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua
collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché
taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le
offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue
lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la
tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un
briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi
lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non
hai avuto mai in vita tua un tratto di filiale gentilezza; per lei che,
invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre
accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e
carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con
disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà
per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a
Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che
non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi,
sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel
respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una
Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A
Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in
silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche
parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre
mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi
a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per
Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma
esponendolo a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono
commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i
miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi
concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti
prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie!
AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra
pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna.
CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete
riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un
documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a
noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio:(198) tutte le spade che sono in
Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono)
SCENA IV -Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello
spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?
MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche
speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo
convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate,
si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo
possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne
corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima
s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra.
SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a
me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone
partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far
inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi
una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le
corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una
sparatoria(199). A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro
Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito
d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui
regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo
dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre.
Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa
povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo
caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto quando
l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non
possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva
la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di
su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa
qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra
un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce
l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò
più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei
sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma
tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe
sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente,
ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno
di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi,
salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole.
Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle
matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da
popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei,
un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene: stamattina non
avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di
gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti
benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei
ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo
tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi
alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia
della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano,
attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il
PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra
patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi
ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino,
e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio;
richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro:
“Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute!
(Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA VI -Corioli, una piazza(201)
Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai
senatori ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano
e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le
prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a
quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella
speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni
del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1°
CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato
dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO -
Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai
voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran
pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori
del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il
contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per
quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su
solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà
l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli
con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha
piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa,
indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,
quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO
- Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia,
presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel
comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci
sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio
perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato
a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io
stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la
parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado,
ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se
fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è
rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un
gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui
concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è
costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro
lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed
io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e
trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua
città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed
ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E
questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli
si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento
giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della
spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai
così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO -
Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad
Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili
signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO
SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui
commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile
ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio
beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro
carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso...
tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È
qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in
marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a
voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la
mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla
vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo,
e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi fino davanti
alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno
un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto
onorevole pei Volsci(202) quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il
documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi,
munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto
a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli
avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO -
Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io
ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?...
Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia
da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma,
ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla
moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta
tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle
lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la
nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze
dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio,
sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio,
piagnucoloso ragazzotto! CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro!
CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore(204)!
“Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta
in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi,
sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che
porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella
tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli
in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi.
CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi,
intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se
nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto
ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il
putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E
voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla
vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un
suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò,
muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un
figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE -
Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome
abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa
guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la
pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei
altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la
legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i
cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio
gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza!
Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi,
nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti
sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli
quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO
- Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello
scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi
dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie
onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla
mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE -
Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale con la solennità
che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla
tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa.
Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è,
ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua
una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino)
Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa
città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli,
s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi!
(Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del
tamburo) FINE (1) Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e
farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi
personali (Senofonte, “Memorabili”, I, 2, 24, citato da Jaqueline de Romilly in
“Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, 1995). (2) Giorgio Melchiori,
“Shakespeare”, ed. Laterza, Roma/Bari, 1994, pag. 536. (3) “Il préférait
l’opportunitè aux principes” (J. de Romilly, op. cit. pag. 62). (4) “But they
think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino)
intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri. (5) “Ere we
become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un
rastrello” (“as lean as a rake”). (6) “I need not be barren of...” letteralm.:
“Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. (7) Il testo gioca sull’aggettivo
“strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che
puzza”. (8) “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di
“properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non
con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. (11) “Fore me,
this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il
primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria
stizza. (12) “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari
australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II”, II, 1, 38: “Light
vanity, insatiate cormorant”). (13) Simile immagine dello stomaco è in Dante,
“Inferno”, XXVIII, 26-27: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si
trangugia”. (14) “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is
duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo. (15)
“The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa
bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo
apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man
mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di
Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al
sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il
tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento.
(16) “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è
uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di
andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è
espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”.
(18) In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia
Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu
ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della
Roma antica. (19) “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese
del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. (20)
“Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa. (21) “What says the other
troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto
prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. (22) Il testo, come spesso in
Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla
generosità”. (23) Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni
plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con
certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne
compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. (24) Per Coriolano, rappresentante
della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte
interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito
superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. (25) È il
primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se
stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno
alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio.
(26) “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. (27) La luna come divinità
era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando
s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. (28) “We never yet made doubt
but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio
che Roma fosse pronta a risponderci”. (29) Cioè al momento della loro messa in
atto. (30) Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così
spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la
fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in
onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde
di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di
Coriolano”, III). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il
Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui
Latini (496 a.C.). (31) Questa immagine nella mente esaltata della madre, che
vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico
ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa
col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di
Marcio. (32) “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.:
“Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”. (33) “It
more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi
e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o
ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento
agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. (34) Cioè
conquistare la città di Corioli assediata. (35) “Amongst your cloven army”: i
Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra
metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. (36)
“Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”,
in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”, II,
13-16: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale /
Secolo andò e fu sensibilmente”). (37) “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel
suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla
sua luce. (38) In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma
Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi.
(39) Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne
fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo
a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio
che gli farà più sotto Cominio. (40) “... their honours”: si accetta la lezione
“honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours”
dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per
costoro...”). (41) “A craked drachma”: le monete crepate hanno un
suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra
prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. (42) Il boia aveva
il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. (43)
“The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di
un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. (44) La
traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il
pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce
di Marcio da quello di qualsiasi altra”. (45) Cioè: “Arrivi tardi, se sei
ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai
addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. (46) “O me alone, make
you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è
incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”,
cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me,
volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui
adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi,
Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che
incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra
le altre lezioni, anche la più poetica. (47) “... dispatch those centuries to
our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna
la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di
Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi
che ci avreste mandato”. (48) “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver
timori sulla nostra premura, signore”. (49) “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti
saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in
guardia!”. (50) “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”:
Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea,
discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio
di virtù guerriera. (51) Per i segnali musicali in tutto il teatro
shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”.
(52) Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al
quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al
grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. (53) Queste battute tra
Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio
- per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio:
il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale
soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione
del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e
della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza
offenderlo, ce lo fa intendere. (54) “But cannot make my heart consent to take
e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso
dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio.
(55) La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro
shakespeariano (per i quali v. nota 51). (56) Perché la loro funzione è quella
di strumenti di guerra e non di adulazione. (57) “Let him be made an ovator for
th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri
testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più
pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare
forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”,
“vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il
parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro
ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite”
del verso precedente. (58) Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto
“con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le
manette). (59) “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.:
“... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”.
(60) D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più
con quello di Caio Marcio. (61) Questo episodio del prigioniero di Corioli che
l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il
nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe.
L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto
cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel
dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del
condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e
perciò sono dimenticati” (G. Melchiori, “Shakespeare”, cit., pag. 540). (62)
Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo
d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato.
(63) Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della
cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati)
impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo
in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni
religiose o sacrificali. (64) A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che
chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno
all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il
quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente
machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che
disprezza e insulta la soldataglia romana che pensa più a far
bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento
smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli
occhi degli assedianti. (65) “Will not you go”: è improbabile che il soldato
dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare
in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non
può non saperlo. (66) “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui
il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la
frase non avrebbe senso. (67) “... I mean of us of the right-hand file...”:
solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del
sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani.
(68) “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of
patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi
deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto
per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. (69) “One
that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo
alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”)
essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole.
(70) Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza
politica. (71) “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino
in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. (72) Il testo ha “an orange-wife”,
“una venditrice di arance”. (73) Menenio parla qui come se i tribuni della
plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente
esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di
persone investite di pubblica carica. (74) “...(you)... set up the bloody
flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle
città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. (75) “...
against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano
giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. (76)
Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto
più imbrogliata dalla vostra udienza”. (77) V. la nota 18. (78) “... such
ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da
poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. (79) Con capelli e
crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da
tennis. (80) Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore
dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo,
scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì
un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici
scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi
alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da
Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. (81) Galeno, il
padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore
di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo,
dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! (82) “... is but empiricutic”:
“empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave
comico- dispregiativa, di “empirical”. (83) “... and not without his true
purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca
sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne
chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla
“verità” delle sue ferite. (84) “God save your worships!”: “God” al singolare è
nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di
Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). (85) Coriolano aveva partecipato alla
cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto,
figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione
della Repubblica. (86) Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura
non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare
l’ingresso in scena del corteo dei vincitori. (87) “My gracious silence,
hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di
poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si
perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa
taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso! (88) “And live you
yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è
tutt’altro che un saluto. (89) Si scusa con Valeria per non averla vista prima.
(90) “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”,
come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese del XVI sec. aveva lo stesso
significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente,
fino a far morire; perciò “cancro”. (91) “By faith of men...”: espressione da
intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By
my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere
“Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto
senso, specie in bocca a Menenio. (92) “Ere in our own house I do shade my
head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”,
“to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. (93) “The good
patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians”
i membri del Senato. (94) Altro smaccato anacronismo: nella Roma di
Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo
Cristo!). (95) “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa
che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si
fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da
“appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). (96) I Flàmini (“Flamines”)
erano sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a
“pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché
portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo
di lana (filamen). (97) “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione
“gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime
meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile
nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”.
Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di
vestire “rich, non gaudy”. (98) Le matrone romane, in verità, non avevano la
fobia del sole che avevano le dame inglesi del XVI sec., e non andavano velate
per proteggere il viso dai raggi solari. (99) Secondo Plutarco (“Vita di
Coriolano”, cap. XIV) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al
consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio,
indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era
normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere
in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il
capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo
minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la
stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col
“laticlavio”. (100) “Most reverend and grave elders”: “elders” è il
corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato,
ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. (101) “We are
convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una
piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare
Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su
un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. (102) “Ti ascoltiamo” non
è nel testo. (103) “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum
were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a
sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare
neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul
campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. (104) “I shall lack voice. The
deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la
voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile
(come la mia)”. (105) Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il
magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei
momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle
condizioni che l’avevano reso necessario. (106) “... with his Amazonian
chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le
donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto
è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che
egli batte. (107) Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano
sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di
compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. (108) Vedi la nota 30.
(109) “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un
potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente
su uomini e cose. (110) “He cannot but with measure fit the honours which we
devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo
decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a
qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il
concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for
Measure”. (111) “... and is content to spend the time to end it”: frase
ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza
pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito
idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per
compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione
fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della
parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di
Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale
immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto
di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale
di tutta la tragedia. (112) Il candidato che chiedeva la carica di console
doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma,
al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle
mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è
necessario. (113) “... to all the point of the compass”: “... per tutti i
quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata
nel Medioevo! (114) “If it may stand with the tune of your
voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti”
ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. (115) “...
you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno
strumento di tortura. (116) Altro bisticcio del testo inglese sul termine
“common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”,
dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior
quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”.
Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. (117)
“... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il
disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne
vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non
vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. (118) Questo monologo
di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe;
all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il
popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla
fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale
imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso
conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa
davanti alle mura di Roma. (119) “... battles thrice six I have seen and heard
of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto
(tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero
doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto
Cominio qui per la battaglia di Corioli. (120) “... have you chose this man?”:
si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio
della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. (121) Secondo
una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della
plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto
l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione
della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai
“comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. (122) Il
testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices” (v.nota 114). (123)
Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco.
Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette
qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i
personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo,
Anco Marzio, re di Roma. Il Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”, è
vissuto nel III sec. a.C.; Quinto è il Quinto Marcio costruttore
dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore nel 144
a.C. (124) “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the
minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli
che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è
la minuzzaglia ittica. (125) Il mitico serpente dalle molte teste che infestava
le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della
folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. (126) “...
being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno
attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun
luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come
“portavoce” del mostro. (127) Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione
del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi
di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione
inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor
meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta
altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma
agli albori della repubblica. (128) “... by yea and no of general
ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale
a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). (129)
“Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”:
letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che
discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. (130)
“... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. (131) “Your dishonour”: “Il
vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente
onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. (132) “Has said
enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. (133) “... when
what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era
legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”.
(134) Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei
pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di
organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano (VI sec. a.C.) si
chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli
interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni,
erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne
aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo
di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i
patrizi. (135) “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà
debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. (136) “When it stands against
a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non
come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal
“volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare. (137) “His
nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of
the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International
Dictionary”, alla voce). (138) “Where you should but hunt with modeste
warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior
discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era
il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi
dell’anno. (139) Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole
“New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a
Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va
in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si
debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio,
s’attagli meglio al contesto. (140) Il testo ha “This tiger-footed rage”,
“Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico.
(141) “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s
ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti
sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. (142) La ruota era uno
strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato
dai chiodi che essa incontrava girando. (143) “Wollen vassals”: le robe di lana
erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile
servitore”, col senso di moralmente abbietto. (144) “To buy and sell with
groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino
medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8
di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era
il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Ribert
Greene (1592) “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno
dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di
Shakespeare). (145) “I would had you put your power well on / before you had
worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un
vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha
ridotto liso (“worn out”). (146) “Figlio mio” non è nel testo. (147) “Not by
your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di
intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per
contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è
piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. (148) Queste
esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente,
come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al
figlio riecheggiando sorprendentemente Machiavelli (che Shakespeare non risulta
conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del
popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”,
cap. XVIII); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un
tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del
grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non
possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con
l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale
dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. (149) Il
“cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare
del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori
dell’elmo. (150) “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è
volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro
la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di
“testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza
peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si
attaglia perfettamente al discorso. (151) “I will not do’t lest I surcease to
honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia
rinunciare ad onorare la mia intima verità”. (152) Il senso di questa richiesta
di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”, X):
“Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima
che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la
turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver
più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli
abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193
divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il
censo. (153) “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di
nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. (154) Le piume dei loro
cimieri, s’intende. (155) Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non
hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si
svolge presso una porta di Roma. (156) La plebe: Coriolano l’ha chiamata così
prima. (157) “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è
palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti;
il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. (158) “Ti ricordi?” non è
nel testo. (159) Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno
che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto
(“too full”) dalle fatiche della guerra. (160) Il testo ha “Ora che abbiam
mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”). (161)
“Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio
una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche
“Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo;
e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe
capito l’allusione. (162) Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa.
Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr.
Virgilio, “Eneide”, I, 4: “saeve memorem Junonis ob iram”). (163) “Strange
insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”,
“unfamiliar”. (164) “I have deserved no better entertainement / in being
Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi
pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e
incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). (165)
“Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un
altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”,
“firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso,
si attribuisce la regalità. (166) Che cosa sia questa città, nella mente di
Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È
comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo il Bradley - in
tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. (167) “Then
thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della
famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”,
“scemo”. (168) “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. (169) I servi
sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla
fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra
Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante
s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la
cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi
inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di
servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere
della madre e della sposa. (170) “Whilst he’s in directitude”: sta
verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”,
strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi
personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. (171) “The wars for my money”:
l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money”
equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. (172) “His
remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente,
a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che
egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di
lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di
“means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a
senso. (173) “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E
aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma
repubblicana, erano due. (174) “You and your apron-men”: il grembiule,
normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a
Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla
plebe (cfr. “Giulio Cesare”, II, 1, 7: “Where is thy leather apron?”). (175)
Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di
Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone.
(176) “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di
vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. (177) Si capisce che
“quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti. (178) “Do
they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee
from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge”
ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i
suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal
fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del
dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe
volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio
mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere
torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario,
che lo sovrasta. (179) “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare
che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello
della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà
del suo tempo. (180) La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo
seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca
Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver
tradito Roma per venire da lui. (181) Il testo ha: “A mile before his tent,
fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte
l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio
per sottolineare la colpevolezza dei tribuni. (182) “A noble memory!”: è come
se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando
sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon
mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. (183) “He does sits in gold”.
Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria
poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad
accentuare il contrasto delle tinte del dramma. (184) “And his injury / the
gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a
far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.
(185) “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito
gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi”
(nel senso sessuale). (186) “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia
intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano. (187) “Col tuo superiore”
non è nel testo. (188) È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in
silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi,
Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo,
nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo
svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che
lo vedrà ineluttabilmente perdente. (189) Si confronti questa esclamazione con
quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”, I, 1, 33-34: “Let home in Tiber
melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due
tragedie, la catarsi dell’eroe. (190) Cioè “io ti vedo in una luce diversa da
quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La
battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. (191) È uno
dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo
del teatro. (192) La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda
spesso nei suoi drammi. (193) “To your corrected son?”: frase ambigua, che si
può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure
“(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. (194)
Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era
stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che
spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. (195) Indica Valeria. (196)
Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione
dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di
Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo
Marcio. (197) Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da
una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella
immagine venatoria. (198) Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo
dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a
Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro
offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo
chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via
Latina. (199) Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano,
e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei
frequenti anacronismi del poeta. (200) Alcuni di questi strumenti - come la
sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli
scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. (201)
Plutarco (“Vita di Coriolano”, XXXIX) pone questa scena e tutti gli eventi che
seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con
l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia
giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered” (v.
50), e da quelle dello stesso Aufidio al v. 151: “Though this city he hath
widowed...”. (202) Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”; ma vedi, in
proposito, la nota 201. (203) “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in
senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni
umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti
alle pulizie delle caserme. (204) “... thou has made my heart / too great for
what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo
grosso per quello che lo contiene...”Guido Ferrando. Ferrando. Keywords: CORIOLIANO,
ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716947844/in/photolist-2mN4WQf-2mN4Wkh-2mN3SNy-2mPV6V9-2mKDSn5-2mKDQAF
Grice e Ferrari – FILOSOFIA della RIVOLVZIONE –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Ferrari is
important in at least two fronts: as a philosopher, he promotes what has been
called a ‘critical illuminism’ – and who but an Italian philosopher can have as
a claim to fame a treatise on ‘the philosophy of revolution’? The second front is
my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the best
interpreters, with his ‘La strana sorte di Vico,’ of Vico!” essential Italian
philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche e socialiste,
fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature e
senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo
la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse
senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S.
Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu
però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di
Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a
Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De
religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la
filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica
a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla
verità oggettiva. Grice: “The problem with Ferrari’s analysis is etymological.
For the Romans, indeed the Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to
wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è
indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. Ferrari
define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto.
Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto
– errore intersoggetivo. -- una vero
relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid ‘objective’ and
‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and inter-subjective. An error
can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero relativo’ a S1-S2. Introdotto
nei circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio
(due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin,
Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo
Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per
le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia
del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana,
fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il
titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché
la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de
France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero
dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto
con Proudhon che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla stampa,
s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu
tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante
il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu
accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in
Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin)
di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne
il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato
come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in
secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a
Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei
legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele
ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto
nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma
e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la
distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri,
sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza. Per quel
che concerne la forma dello stato italiano, Fdomandava una costituzione federale,
con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la
più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile. Dopo essersi
recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di
Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto
di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma
la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta
ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse
a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di
nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione
sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo,
e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno
stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle
regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse
nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della
filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo,
non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo.
Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare.
L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi
politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata;
essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la
confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette.
Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto
d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica
nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi
disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e
gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la
Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo
il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti
d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da
Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla
proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria
del nuovo regno. E fatto senatore. Assolutamente
solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non
ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non
che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata
e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali,
combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel
piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la
demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare
d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a
pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma
intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza
del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle
condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il
prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio
provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza
sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di
commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione
del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della
capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo
francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro
le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla
violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta
sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla
sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi.
Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta
sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I
fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del
plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro
la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto
del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in
Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente
di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di
Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore
di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore
della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze
e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro
straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro
ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio
corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province
modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino
per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti
i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da
Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del
principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce
come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo
che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito
individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la
nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora
presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione
borghese. Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione”
di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole
regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata,
aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici
risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse
una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario
l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei
diversi stati italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla
rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di
cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e
socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella
istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito
da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe
elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di
restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico
verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la
superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla
superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Consta dai registri della
Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi
Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue
dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle
opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio
è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la
pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione
sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il
romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli
apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di
Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati,
Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati,
Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di
Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. Giuseppe Ferrari, Milano,
Garzanti, Altre opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia
della rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e letterari”;
“La mente di Giambattista Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso
sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere
chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi
politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni
Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I
partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti
politici, Silvia Rota Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma, “Scritti di filosofia” e di politica, M.
Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario
Franco Della Peruta, "Contributo all'epistolario di Giuseppe
Ferrari", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione
italiana, Milano, Franco Della Peruta (ed.),"Contributo all'epistolario di
Ferrari", Rivista storica del socialismo, Lettere a Proudhon, Annali
dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C. Lovett, "La Questione
Meridionale con lettere inedite", Rassegna storica del Risorgimento”; “Milano
e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza inedita di Ferrari",
Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza inedita di Ferrari",
Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo Impero, il Papato e la
Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a Ferrari", Rassegna storica
del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un carteggio inedito, Milano.
Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la filosofia della
rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Robertino Ghiringhelli e F.
Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino", in:
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano,
Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle
opere di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il
nuovo stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "Ferrari e Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno
Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco
Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno
Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia
del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e
la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Arturo Colombo, "Il Ferrari del Corso", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi
Compagna, "Ferrari collaboratore della "Revue des deux mondes",
in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Maria Corrias Corona, "Il filosofo
"rivoluzionario" visto da Giorgio Asproni", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe
Ferrari", Studi storici, Carmelo D'Amato, "La formazione di Giuseppe
Ferrari e la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi
storici, Franco Della Peruta, "Il socialismo risorgimentale di Ferrari,
Pisacane e Montanelli", Movimento operaio, Franco Della Peruta, Un
capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari",
Studi storici, Franco della Peruta, "Ferrari", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Aldo Ferrari, Giuseppe Ferrari, Saggio critico, Genova, Luigi Ferri,
"Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente
di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, " Angelo Oliviero
Olivetti e Giuseppe Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Paolo
Virginio Gastaldi, "Nella galassia dell'Estrema", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli,
"Romagnosi e Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema
della storia in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo
politico di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari
e il nuovo stato italiano, Milano, Anna Maria Lazzarino Del Grosso, "Il
Medioevo in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari
e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di
Giuseppe Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano,
“Ferrari, interprete di Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia,
rivoluzione. Saggio su Ferrari, Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto,
Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico,
Roma, Angelo Mazzoleni, Ferrari. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti,
"La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica
politica, Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza,
"La teoria della fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in:
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari",
Rivista internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari
e Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento
Italiano", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo
stato italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari",
Il Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari
e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti
dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle
origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e
la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Zanzi,
"un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano Carraro,
"Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian Domenico
Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giuseppe Ferrari, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Giuseppe Ferrari, su Liber Liber. Il primo radicalsocialista
italiano, dal sito del Movimento RadicalSocialista. Concludiamo.
Interrogala sotto ogni aspetto, la filo- sofia conduce a due inevitabili
conseguenze, il regno della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo
era l'in- tento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivo-
luzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma traditi dalla
metafisica , sentivansi solitari , impo- tenti , inviluppati da ostacoli
infiniti; e invocando i demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un
fe- lice inganno , cadevano sotto il felicissimo inganno della
chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto 362 PARTE
TERZA — SEZIONE TERZA la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione
liberò questo prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras-
mise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla terra colla
forza della scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la
metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione trasportando il
problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema
dell'egua- glianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che
abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verità, il regno
della libertà falla astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla
astrazione dal riparlo, il regno dell'industria fatta astrazione dal
capitale: e s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'uma-
nità; si pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato
meno il papato, quasi fosse pro- posito deliberalo di predicare la
rivoluzione meno la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno
dell'im- possibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero
morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a di- segno non li
avessero tratti in piazza per stabilire una tregua tra la rivoluzione e
la controrivoluzione. Ma la tregua non regge; ad ogni momento
vediamo avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può
parere lontano, e se altri possono consigliare di dare tempo al tempo, si
ricordino gli uomini di poca fede che quando la scienza scopre un errore
per quanto sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi lo
difende più non regna, e se sì ostina cade scon- fitto e accusato
d'impostura. Si ricordino che la fede negli avvenimenti imprevisti non è
cieca e viene au- torizzala dalla forza del vero che oggi tradito si
ven- dica domani col corso naturale degli affari , delle
CAPITOLO NONO 363 guerre, delle paci, della ricchezza, e
perchè ogni verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa e la
sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le forme più inaspettate.
Si ricordino che non vi fu mai progresso che non toccasse alla proprietà
o alla reli- gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza
e che non si dovesse irnaginare con ardimento scanda- loso quasi fosse
una profanazione. Si ricordino da ultimo che il dato di Voltaire, di
Rousseau, di Weisshaupt ferve in ogni cuore; e, tolto il velo
dell'astrattezza, già dairso al 93 quattro soli anni bastavano per
passare dalla teoria alla pratica e per sostituire una genera-
zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori, di uomini
d'azione all'inoffensiva generazione dei filo- sofi mandati alla
bastiglia e qualche volta perfino pro- tetti tanto sembravano lontani dalla
realtà. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli stessi
maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la
metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti dal
campo della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto, legali
alla terra ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale
comunque si gradui il progresso e possa prendere delle forme mo-
struose e talora nemiche, dal momento che sentimmo compiersi nella nostra
mente la filosofia della rivolu- zione secondo l'inflessibile suo
disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve
tradimento. Per sette anni il Ferrari tacque : non pia stu- di
pubblicati sulle riviste francesi per far conosce- re al mondo T Italia
del passato e del preseme, non più opuscoli politici per tracciare piani
d'a- zione pamphlets violenti contro i suoi avversa- ri: gli amici
lo avrebbero potuto creder morto. - 8o — EpIHjre
la sua operosità si svolgeva occulta sotter- ranea silenziosa, tanto più
assidua quanto meno era visibile: abbandonato il campo del
giornali- smo dove le tracce del lavoro sono ben presto cancellate
dall'incalzare di sempre nuovi proble- mi e dalle richieste di gusti
sempre mutati, la- sciato il tumulto della vita politica, U Ferrari
si era dedicato totalmente alla pura scienza. Il pre- sente Io
affliggeva ed e^i si volgeva al passato ; l'Italia pareva ricaduta nella
schiavitù e nell'abie- zione, ed egli la volle studiare libera e regina,
quando marciando a capo di tutte le nazioni tra- smetteva l'urto delle
sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo italiano, il
campo chiuso della sua attività storica, era sempre stato il suo lavoro e
il suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più piccoli frammenti
pareva che volesse sottrarsi ad ogni interpretazione razionale e
organica, come se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go-
vernava le continue rivoluzioni di cento stati dif- ferenti gli uni da^i
altri come posti agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina,
l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno
svolgimento storico organico, una forma po- litica costante che le
contradistingueva in ogni e- poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli
di Napoleone III la Francia era sempre stata la na- zione della
monarchia unitaria; la Germania era ancora governata dalla Dieta
federale, l'Inghilter- ra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di
Otto- ne I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia
— 8i — Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria
politi- ca; uè al principio della monarchia né a quello ddla
repubblica, né all'Impero né al Papato : ftemmeno ad un sistema federale
che raccoglies- se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege dei
^uoi stati. {Rivoluzioni d'Italia, Voi. I, pag. Il): Da
molti anni queste considerazioni si svolgevano lentamente nel mio
spirito, per rendermi enigma- tiche e impenetrabili le vicessitudini di
Milano di Fi- renze di Roma di Genova di Venezia, di tante città
unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze. Qualunque fosse
lo splendore estemo dei fatti, eran pur sempre vittorie senza scopo,
sconfitte senza cau- sa, rivoluzioni senza idee, guerre senza
soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi
apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti, medaglie sparse di
un museo che una vandalica igno- ranza avesse devastato. Tutte le serie,
tutte le simme- trie essendo dissestate da una mano sconosciuta; po-
tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua ironia avesse il
diritto di sognare liberamente in mez- zo a questi cenci pomposi. Ma se
la fecondità lussu- reggiante degli avvenimenti si rivoltava contro
o- gni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gio- co delle
repubbliche, delle signorìe, del candore dei cronisti e degli artifizi
della retorica; se essa com- piacevasi di sconcertare tutti i sentimenti
e tutte le analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e una
tal forza nel minimo frammento, da non potermi arrendere all'idea che la
patria di Gregorio VII e della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa
de- stata dal sentimento del bello, .per non essere se non un
cumulo di accidenti eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto di
una cosi A. PnutUU — Oiit80pp€ FtrrarL • — 82
— misteriosa apparenza, la legge vitale di un orga- nismo
così complesso, lo scopo di una coA ab- bagliante fantasmagoria. Si tuffò
nella storia me- dievale fino agli occhi : senza fermarsi alle com-
pilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò su tutte le pagine
degli Scrìptores rerum Italica- rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra
la polvere erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi
signori del buon tempo antico: e cosi mentre la turba degli gnomi, non
comprendendo la sua soli- taria libertà superiore alle borie del
nazionalismo miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la sua
lingua e la sua patria, egli preparava in silen- zio airitalia uno tra i
più bei monumenti di glo- ria che potessero inalzarle i suoi figli.
Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la pri- ma volta a Parigi
in francese nel 1858, ripubbli- cate in italiano tradotte dell'autore nel
1870-1872 : in questa seconda edizione, nonostante gli studi
posteriori in seguito ai quali credette di avere scoperto la filosofia
della storia e la legge perio- dica del movimento storico, guidato da un
istin- to fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò
guastarla per farla servire alla sua teoria; quin- di noi terremo
sott*occhio pel nostro studio Tedi- zione italiana, da cui son tolte le
citazioni e a cui si riferiscono i rimandi. Per quel che già
conosciamo della costinizione intellettuale del Ferrari, possiamo fin
d'ora giu- dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli
riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica e al
criterio di un sistema formato. Tut- - 83 - ti ì
grandi storici sono artisti: artisti neil'inter- pretare gli uomini e i
fatti, artisti nel rappresen- tarli e atteggiarli davanti al lettore in
modo che sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filo- sofi, in
quanto hanno una WeUanschaung da cui traggono i criteri della
interpretazione e del giu- dizio; ma di solito il loro sistema non è che
im- plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi indivi- duo che
non si dedichi di proposito alla filoso- fia; qualche più rara volta c'è,
ma preso a presti- to, non rielaborato né rivissuto
individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza
unica del Ferrari, la sua caratteristica qualità, con- siste nell'avere a
fondamento della sua interpreta- zione un vero formato originale sistema
filoso- fico. Non solo. Questo suo sistema, che anche
og- gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso delle grandi
concezioni, è il più adatto a dare u- na base filosofica
all'interpretazione storica; per- chè considera la reahà come movimento,
ed è tut- to pervaso dalla persuasione della razionalità che
governa la realtà e la storia. Cosicché per quan- to il Ferrari come
politico sia un uomo di parti- to militante e quanti altri mai fermo
nelle sue idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli
equivoci; come storico noi possiamo essere sicuri che guarderà la storia
dall'alto, saprà giu- dicare libero totalmente dalle preoccupazioni
po- litiche del momento, saprà rispettare la veneran- da grandezza
del passato senza querimonie per gli eroi mancanti e per le cause
sconfitte, non fa- - 84- rà ddla narrazione dd
passato un pamphlet <x)n- iro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola
sarà imparzude. Questo è il suo significato ragioaevo- le di una
simile rìciiiesta dd senso comune, il quale esige non che lo storico non
abbia un pun- to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che
abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi- chi, non si faccia il
processo alla storia. Riepiloghiamo brevemente il sistema del
Fer- rari, integrando la sua concezione più propriamen- te
filosofica, cioè di valore assoluto, con le deter- minazioni empiriche
onde egli cerca di dare una formula generale al movimento storico.
II. Il mondo è alterazione svolgimento
rivoluzio- ne; la storia è la narrazione di questo movimen- to
intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle contradizioni critiche
insolubili ideali, e dalla lot- ta delle contradizioni positive reali che
si cond- liano in una specie di equilibrio dinamico. In o- gni
momento nel mare enorme ddl'umanità l'in- dividuo che ne fa parte come tm'onda
o meglio ancora come una goccia ha suoi interessi parti- colari su
cui nasce una sua rivdazione morale <1); messo di fronte a nitti gli
altri innumerevoli suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche
e morali varie e a volte contrastanti, lotta per eon- dUare le
contradizioni in tm dstema politico, che (i) Non è se non la
proclamazione del determinismo econo^ micCj che egli applica poi nel
coreo della ina storia. -85- si attua sopramtto
d^tro i confini dello stato. Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di
natura^ nutre dentro di sé un sistema opposto destinato a
succedergli (1). La stocianoa è altro se non la narrazione del succedersi
di questi sistemi nati da^i interessi e dalle rivelazioni morali
variabili dell&'masse» divise tra loro> da una specie di
lot- ta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la
democrazia e a conquistare una più larga egua- glianza. Come
si attua questo progresso dentro Io star to? Lo stato è duali^ato in due
paniti contra-*) stanti che polarizzano gli interessi delle
moltitur dini, il pardto rivoluzionario e il partito conser-
vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio- nale dello stato a nome
di un nuovo principio, di una più larga democrazia^ con la forma
politica opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ fe- derale
negli stati unitari, cattolica contro i pro- testanti,, erviceyersa.
Vince perchè il progresso è necessità fatale della storia; ma appena il
prin^ cipio da essa propugnato è stato accettato essa viene vinta
dal partito conservatore, che traspor- ta il nuovo principio sulla base
politica tradiziona- le onde lo stato si difende dallo stranilo.
Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi confini un altro
organismo nemico vive con in- tere^, cQnidoe, con tendee^o opposte.
L'uma-. nità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni che si
prendono vicendevolmente a rovescio, un (i) Cfr< la notfi
teorìa di Marx. — 86 — enorme meccanismo di
ruote dentate ingranate runa nell'altra che girano in senso contrario, un
sistema di forze disposte cosi che il partito oppo- sitore intemo di uno
stato i sempre d'accordo col partito dominante dello stato vicino e
rivale. O- gni stato è quindi straziato da una guerra inter- na e
nello stesso tempo combattuto da una guer- ra estema : la lotta sociale
domina e regge la lotta politica. Poiché appena dentro uno stato
trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una nuova forma che allarga
sempre più la democra- zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde
a tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da una pietra
gettata nel lago: e il nuovo sistema sociale vien trasmesso dal lavoro
delle minoranze oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato
at- tarda troppo nella strada della rivoluzione socia- le! Esso
vien conquistato da altri stati di civiltà superiore. Guai se non adotta
la forma opposta dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più po-
tente. Gli stati le nazioni le razze possono quindi de-
cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de- cade e su una linea di
progresso continuo passa per una scala ascendente di sistemi sempre
supe- riori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba- rie e più
nefandi di cormzione si ha decadenza : Anche un popolo vive esso è in
progresso, pro- gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi-
sico della sua totale disparizione per un catacli- sma naturale o per un
eccidio universale. Rice- verà l'impulso politico che una volta egli dava
al- - 87 - le altre nazioni^ accettando le nuove
progressive forme politiche dall'esterno invece di crearle per sua
spontanea originale vitalità; perderà magari Tindipendenza, ma la
compenserà con un miglio- ramento sociale per cui accetta il vincitore;
vedrà succedere al fiorire delle arti alla ricchezza indu- striale
e commerciale sterilità intellettuale e mi- seria, ma avrà sempre un
progresso sociale che lo compenserà di questa sua decadenza.
Poiché fra popoli in lotta, come fra più indivi- dui, è naturale
che il più forte vinca. Ed è an- che razionale. La forza dei grandi
aggruppamen- ti storici non è la forza fisica, non è il peso bru-
to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pu- gno del facchino che
tappa la bocca al tribuno; ma è ordine, disciplina, saldezza economica,
co- scienza nazionale, è in una parola forza spiritua- le. Non è la
pura forza fisica brutale che vince nel gran campo di battaglia della
storia, ma è la superiorità intellettuale e morale: la vittoria co-
rona sempre il più degno, fatalmente destinata come la sconfitta; chi ha
perduto se lo merita; chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente
con- quistare per godere di una civiltà superiore che colle sue
forze non poteva raggiungere, o si è dimostrato nel paragone delle forze
inferiore al suo vincitore che in compenso della libertà per- duta
gli dà i vantaggi di un miglior sistema so- ciale. Certo gli
uomini e gli stati agiscono spesso sot- to l'impulso di bisogni materiali
e di egoismi per- sonali, ma la storia li adopera a tm fine che li
- 88 — trascende; quella che Vico chiamava
Pwwedenr za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio- ni
egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar gi per un'opera buona,
della cupidigia delle con- quiste si serve per spandere la civiltà sulle
regioni selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la gran
democratizzazione dell'Impero romano, di Fernando Cortez per conquistare
l'America a u- na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^
ste come non esiste in natura : esso non è che in quanto ha in sé il
bene, un granello di bene che solo gli permette di esistere; non è che un
con- cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun- que
razionale. Non stiamo a spargere lacrime su- gli eroi sconfitti e sui
popoli caduti; la storia li ha sacrificati con diritto a cause superiori
: tatto quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente. La storia
dà dunque la vittoria al merito, pro- gredendo con la legge del minnno
sforzo. Date tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in
un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il valore delle forze; a
quella maniera che in un sistema di forze flsiohe il loro rapporto è
deter- minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne» cessarla :
la serie degli avvenimenti che dai tem* pi antichissimi arriva Ano a noi
non poteva esse^ re diversa da quella che fu per arrivare a questo
punto. Questa è una necessità a posteriori: non una necessità metafisica
o teologica che (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false
storte. — Na- poli, Giannini, 1912 — pag. 24. — Questioni
storiografiche^ Napoli, Giannini, 19:3 — passim. • -
89 - obblighi uomini e cose a seguire le linee di un piano
traéciaro in antecedenza» ma una neces^ sita interna che nasce dal gioco
delle forze uma- ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze
fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli, la catena sarebbe
certamente cambiata arrivando fino a noi : non si sarebbe giunti allora a
questa mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno necessaria
secondo il valore di quelle forze. Cosi dalla storia vien cancellata la
parola ca^o, che u- na volta si usava a indicare la ragione ignota
co^ me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una regione
sconosciuta ; cosi vien cancellata là paro- la Ubero arbitrio inteso come
un misterioso potere deirindividuo, che con la piccola fòrza della
sua volontà potrebbe alterare il corso degli avveni- menti
determinato dalle forze di volontà delFu^ manità intera. Per quanto un
individuo voglia an- dar contro corrente, egli è sempre Aglio del
suo tempo; per lottare contro esso deve accettarne la base comune
di credenze ^e perflho le parole del- la discussione e le armi della
battaglia; per quan^- to sia isolato non può mai impedire che la
società lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per ac-
clamarlo. Non lasciamoci impressionare da certe parole e
frasi, che potrebbero far credere a una costruzio- ne astratta a priori
della storia : era nel carattere del Ferrari di calcare la mano troppo
violentemen- te sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in
rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la forma assiomatica d'una
verità assoluta a certb — QO — generalizzazioni
di cui egli stesso riconosceva la relatività. Cosi quella storia ideale,
che secondo certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa che
rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su- periore, assoluta sopra
essi contingenti, come se nel blocco unico della storia si potesse
tagliar fuo- ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto
quasi totalmente il significato primitivo e non è altro se non una
generalizzazione e semplificazio- ne dei fatd storici fatta a posteriori,
per poter raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente
didascalico onde non dover tornare ogni momen- to a ripetersi. Del resto
il Ferrari stesso afferma che questa sua storia ideale ricade d'appiombo
a coincidere colla positiva; ma una prova ben più decisiva ce
Toffre la sua storia stessa, la quale è tutt'altro che una storia astratta
a priori. Così il Ferrari si compiace spesso, sforzando al solito
l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici certi movimenti, di dare
come perfettamente e- quivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza
di uno stesso principio — viceversa poi nella narra- zione fa
vedere anche come, pur nate dallo stesso principio, si svolgono con forme
individuali. Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità : ma
questa non è affatto l'opposto di libertà indi- viduale che leghi con un
misterioso potere pro- veniente dalla natura o da Dio ; non è altro se
non la forza storica dell'ambiente, forza umana e im- manente
dell'umanità, della massa, che soverchia naturalmente il conato d'un
individuo. Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo
— 9» — sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio,
non è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti i casi colla
stessa necessità e precisione con cui si attua un sistema fllosoflco :
nonostante le sue esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era
per- suaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vor- remmo noi
interdirci la generalizzazione, che è un processo necessario del
pensiero? Che non si prendano le generalizzazioni, queste entità
astrat- te, per realtà metafisiche; che non si costringa nel loro
letto di Procuste l'individuo — d'accor- do. Ma perchè rifiutarle come
strumento di ricer- ca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E'
generalizzazione evidentemente la divisione in pe- riodi storici (sistemi
o principi): la storia è un corso continuo di avvenimenti simile a un
fiume ; ma come il corso del fiume si può dividere in superiore e
inferiore, così si può dividere, cosi si è sempre divisa la storia. E'
generalizzazione il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno sta-
to in regnante e opponente, ma essa semplifica e spiega la realtà. La
legge di opposizione, che or- ganizza gli stati vicini in senso inverso
gli uni de- gli altri ,è pure una generalizzazione — e guai se uno
volesse applicarla rigorosamente I Pure la forma politica de^i stati è
una generalizzazione, perchè questa forma un tempo non era cosi e
in- sensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso movimento dei
prìncipi considerati come qualche- cosa d'assoluto, di perfettamente
identico per tut- ti gli stati che li traducono nelle loro forme
poli- tiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ;
— 92 - - perchè qui contenuto o principio e forma sono
ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal- l'altro, ni dagli uomini
che li rappresentano, come fossero delle entità metafisiche.
Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac- ciamo dunque i
sofistici pesatori di parole, non af- ferriamoci alla lettera cruda che
uccide lo spirito, sdegniamo un procedimento che distrugge colla
pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran- d'uomo; e
abbandoniamoci con simpatia al nostro autore cercando di
intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap-
plicati airinterpretazione della storìa d'Italia. UT.
L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver va sottomesso
tutti i popoli del mondo antico al dispotismo imperìale, per eguagliarli
in una de- mocrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio- nali,
per trasmettere loro la civiltà del pensiero . greco e della legge
romana. Ma dopoché e$8i eb- bero conquistati i benefìci della civiltà e
della de- mocrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Ibe- rì e
gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-, gliatrice legge
imperiale^ allora l'interesse e il sentimento di patria li rivoltarono contro
il fisca- lismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle onde
del grati mare barbarìco minacciante ai con- fini, era costretto per le
necessita della difesa a caricjBre di tasse i suoi cittadini o a
maneggiare Je invasioni cacciandole l'una con l'altra — e un prò-
— 93 ~ cesto di dissolvimento federale decompose la
ci- clopica unità romana. Una invasione barbarica stabile venne
accettata dai popoli per sfuggire al flagello delle invasioni perpetuamente
rinnovanti- si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la ca-
duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata come una liberazione
economica e politica, che conservava intatto nitto il progresso sociale
di Ro- ma (476). Odoacre venne dunque accettato dall'Italia
co- me liberatore; Teodorico, spedito contro di lui per un bieco
disegno di reazione dall'Imperatore d'Oriente, una volta signore della
terra doveva assumere la posizione e continuare la missione della
sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512). Senonchè lo spirito uhiàno
nei suoi deside- ri non si ferma mai sotto la spinta di sempre
nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente quel regno che li aveva
liberati dal fiscalismo im- periale, gli Italiani vollero conquistare una
mag- gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa cattolica
repubblicana e federale per assalire il regno ariano e unitario dei
barbari. Comincia la Lotta contro il regno barbaro estemo
(512-774). Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^ erede di
Roma cadono gli eroici Goti (555) ; Nar- sete, che vuole sfruttare la
vittoria romano-bizan- tina per rialzare una specie di regno
bastardo, (i) Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari,
Laterza, 1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire che parerle una
benedi- zione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più
cmdeli e più sovvertitrici. — 94 — non può
rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv. d'it. — Voi. I, pag. 69) :
... Ecco i Longobardi che giungono [568]. In ap- parenza marciano
casualmente; formano una molti- tudine densa sozza vorace, che scende
lentamente dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta
ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città che invade, le
petriflca colFalito suo; nella sua bru- talità non infrange nemmeno gli ostacoli
ma li cir- conda oltrepassandoli — ed invade metà della peniso- la
fermandosi subitamente senza ragione alcuna. La scena è muta e desolata :
si direbbe che tutto ce- de a leggi esclusivamente fìsiche, e che i
Longobardi obbediscono al peso della loro propria materia.
Senonchè questa massa in apparenza bruta di Longobardi evita a
disegno tutti gli errori dei Goti : non errano come soldati, ma si
stabilisco- no come un popolo di conquistatori nell'Italia del Nord
e nel centro, rinunziando alle inutili vitto- rie del Mezzogiorno;
fondano una rete strategica di fortezze che sorvegliano e imprigionano
le grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat- tano i vinti da
conquistatori, sottomettendoli alla legge della spada e derubandoli del
frutto del lo- ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica ri-
mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio- ne di Bisanzio ; e S.
Gregorio Magno papa (590- 604) divenuto capo della federazione romana
e rappresentante anche dei vinti del Regno, volta contro la
barbarie longobarda tutti i miracoli del- la religione e la potenza
spirituale del pontefice, a cui una nuova teologia dà il potere di
condan- — 95 — nare o assolvere i morti prima
del Giudizio uni- versale. Le due forze antagoniste rimangono
dunque di fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente : ma se
i Longobardi eccitano col loro esempio r Italia romana a conquistarsi
Tindipendenza poli- tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do-
po; non possono sottrarsi all'influsso della Chie- sa, che con una rete
sotterranea di silenziose co- spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia
regia per mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re- gno
opponendo al re ariano di Pavia, la capita- le longobarda, il re cattolico
di Milano, la capi- tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del
cat- tolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'er- rore di
accettare il principio imperiale, i Longo- bardi commisero quello di
accettare il principio cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema
dei cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della rivoluzione
romana e della eroica devozione fran- ca (1). Per quanto più tunani dei
mostruosi re franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già
seminazionalizzati da un processo di fusione coi vinti del regno; non
furono mai accettati dall'I- talia romana, che organizzata
antiteticamente li combattè con la rivoluzione col Papa coi
Franchi. L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno
(l) Cfr. G, Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici, Pisa,
19Ò1, pag. 412:.. Non il re franco fu il vero vincitore, ma 1* Italia e
Roma, che avevan rotto la natia compagine delle genti d'Alboino, già
predisposte a ciò dall' antica costituzione del popolo e dai modi della
eonquista. - 96- .l>arbaro che avrebbe
imbrìgliato la rivoluzione so- dale, legato i gran centri romani nella
rete delle città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu-
vione barbarica le reliquie della civiltà romana conservate dal cattolicismo.
E per impedire che potesse mai formarsi un regno su questa terra
sacra alle rivoluzioni, de- stinata a spandere il fuoco della libertà su
tutta l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente (800).
Come rappresentanti del nuovo patto so- ciale che doveva essere la base
del diritto pub- blico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e
l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere la custode del
loro duplice potere euro- peo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il
Pa- pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia meridionale
con le isole da conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero
in Ocdden- te: 774-888). L'Italia perdeva quindi
l'indipendenza naziona- le, ma acquistava la libertà: e per tutti i
domini del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale migliorava
le condizioni dei Romani, non più sot- tomessi alla legge della spada
barbarica, ma alla giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la
sorte delle città dell'industria e del commercio a danno (dei
centri militari; soffiava nelle ceneri calde del- la coltura romana ad
attivarne nuove scintille .So- lo le terre ancora escluse dal patto
papaie-impe- riale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Si-
cilia, scontavano amaramente la loro indipenden- za politica con una
inferiorità sociale, prodotta — 97 — dalla
confusione bizantina dd potere temporale e del potere spirituale, la
quale impediva la gran libertà del pensiero. Intanto Tunità
dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto gli inetti successori
di Car- lo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del- le
nazioni insegnando loro a conquistarsi una li- bertà federale
(888). Ma poiché da questa risorge lo spettro micidia- le
d'un regno barbaro interno, la rivoluzione pa- pale e imperiale sempre
regnante approfittando delle rivalità tra i feudatari rende impossibile
il regno d'Italia, lo condanna a non essere che una lotta di
pretendenti, offrendo sempre la corona a due rivali e rialzando sempre il
vinto contro il vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno :
888-962) finché invocato dalle rivoluzioni italia- ne giunge Ottone I a
rinnovare il patto papaie- imperiale. Egli distrugge per sempre il regno,
di- sorganizza le marche dei discendenti dei barba- ri, esalta il
clero romano, protegge i comuni ita- liani. La rivoluzione italiana si
propaga a tutte le nazioni europee e modifica al suo esempio an-
che la Chiesa. {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 250) : L'Europa
trovasi disposta come gli intervalli di «no scacchiere, gli uni bianchi
gli altri neri, gli u- m unitari gli altri federali; presso gli uni la
reli- gione prevale sulla legge, presso gli altri la legge
primeggia sulla religione; i primi progrediscono con l'eguaglianza, i
secondi con la libertà. La necessità della guerra condanna tutti i popoli
a svolgersi al ro- vescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della
guer- A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari. 7 - 98
- ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle
due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Ci- gni stato in
ritardo, ogni popolo che dimentica sé stesso che non prende la sua base
d'operazione in opposizione ai suoi vicini, si trova debole
impotente in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si cerca
Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta» uniforme, non si scopre e
bisogna negarla; se inve- ce si segue nell'urto delle azioni e delle
reazioni che si estendono opposte le une alle altre.... si vede dap-
pertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con esattezza
similare, dappertutto l'antico stato carlo- vingio o pagano sparisce per
cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o popolare col
re. IV. Liberata cosi per sempre dalla tirannia
unita- ria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìe- ra
magica delle sue rivoluzioni, che sembrano frantumare in moti individuali
variati disordinati la sua ideale unità di nazione, e a prima vista
ci appaiono refrattarie a qualsiasi principio organi- co di interpretazione
(Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 256): Fin qui noi abbiamo
potuto sottomettere tutto al- l'azione dei principi; e la storia d'Italia
si svolgeva una e logica, dominando i più svariati avvenimen- ti
con una specie di continuità drammatica un tem- po vasta come il mondo.
Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico del regno proclamato
contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a Ravenna
abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un- ni e Roma ai Vandali. I Goti
continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re in
tutta — 99 — l'Italia. Bdisarìo e Narsele
lottavano pure quali ca- pitani dell'unità Imporàde contro il ragno
tondKo so Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria-
nimavano con un risorgimento quasi repubblicano. Più tardi i due principi
opposti dell'unità imperiale e dell'invasione regia si spartivano
materialmente la penisola; e la terra, metà romana, metà
longobarda, rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mez-
zodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora una nel doppio slancio
che estolleva le repubbliche cattoliche e il regno longobardo; sempre una
nell'in- fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che
consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Im- pero d'Occidente.
L'unità sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera
Italia dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei
Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici
del Papato e dell'Impero; l'unità si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni
posteriori con- tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re
italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici
rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or- dinata nelle sue lotte,
uniforme nel suo ultimo trion- fo, unanime nel disegno che rinnovava il
patto della Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due
principi della rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva
facilmente il senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra
scoppiava dove- va essere la guerra dei due principi : ci bastava il
se- guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio- nale senza
esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva all'unità materiale dei fatti.
Noi avevamo il diritto di sottomettere ad una unità eccezionale il moto
ecce- zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la
Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se stesse per lasciare il posto
alla geografìa pontifìcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al
rovescio della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio-
naria, la sola che importava di seguire. — lOO —
M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena; il moto generale
scioglie ^uestltalia che già scon- certava la critica: o^i città ha il
suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I
comuni non sembrano punto associati; nesstma federazione, nessuna
lega, nessun' unione generale e apparente: Milano è straniera ad Ancona
qtianto Arles Treverì o Cambra!. I popoli si combattono, gli
avvenimenti si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono
in- numerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre si
estendono colle conquiste, giungono i Normanni, la Chiesa si rivolta
contro Tlmpero: quanto piti c'i- noltriamo, tanto più le forze della
guerra e della li- bertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si
tur- ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi storici
non abbracciano più l'insieme della penisola: Giordanes, Paolo Diacono,
Vamefrìdo e Liutprando non hanno successori; più non si scoprono se
non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più tardi ogni
città ci presenta la sua biblioteca dì scrit- tori, i suoi poeti della
barbarie municipale, il suo Ci- merò che canta nuove Iliadi. Eccoci in
presenza di cento storie distinte diverse contradittorie, senza le-
game palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto- ria d'Italia?
Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui- da attraverso
il labirinto italiano. I comuni s'impa- droniscono del suolo per
interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e coli 'Impero;
essi proseguo- no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni
rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza, l'aristocrazia,
l'esercito, la dominazione dei re; questo è lo scopo loro; essi marciano
contro il Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nel-
l'altro ogni principio che conserva le tracce dei Go- ti, dei Longobardi,
dei barbari dell'Italia o dell'Euro- pa. La storia dei comuni non è
dunque altro che la storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale,
e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a com-
— IDI — battere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore
della barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale, donde
spariscano in modo cosmopolita tutte le trac- eie della dominazione
delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia,
ne sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso, e snatura
il senso di tutti gli avvenimenti: ed è l'errore che la considera come il
racconto di una guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per
conquistare l'indipendenza politica del governo o, co- me si dice in
oggi, per respingere l'invasione dello straniero. Sotto questo aspetto
l'Italia non sarebbe mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia
riu- scirebbe a questa assurdità inammissibile: che do- po cinque
secoli dì guerra non avrebbe né raggiun- to, né voluto lo scopo stesso
della guerra. No! nac- que l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti,
con- tro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e burgundi;
nacque creando e interpretando il gran patto della Chiesa coli 'Impero;
dominò le stesse con- quiste carlovinge cogli incanti della religione e
colla magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi di
Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i sim- boli della sua libertà,
della sua redenzione, di ogni sua idea liberatrice sulla terra e nel
cielo nel fatto e nel possibile; e con la costituzione dei due
poteri essa ha organizzato una rivoluzione permanente, uni-
versale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avve- nire. Il primo
dei suoi capi sotto l'aspetto politico è l'Imperatore, il più debole il
piii legale il piti fede- rale dei re; il secondo suo capo è il Papa,
cioè il più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei
sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suo- lo italiano, ed al
contrario il regno che era conquista- tore venne schiantato con una
guerra così violenta che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi.
Per- tanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indi-
pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se non pochissimi
soldati, sempre costretti a fondarsi — I02 sulla
forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti, si è perchè sono
oltrepassati dagli Italiani che voglio- no riformare il patto» che
chiedono sempre un mi- glior Papa che non esiste, un Imperatore che
dev'es- sere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen- denza;
ma sostengono una guerra costituzionale in- tima organica per trasformare
le idee le istituzioni la religione, una guerra dove il principio di
respin- gere gli stranieri è sempre posposto al principio di
distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il Papa e Tlmperatore
resistono, non combattono se non come conservatori quasi indigeni,
sostenuti dalle reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta,
imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ulti- mi giorni del
risorgimento italiano. La storia dei co- muni, considerata in tutta la
sua durata, non è dun- que la storia di una guerra contro lo straniero,
fatto unico materiale mille volte impotente; ma è la sto- ria di un
fatto ideale organico sempre crescente: e poiché là dove le idee regnano
il caso non può re- gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire
- e qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio- ne è la
stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo stesso punto di
partenza — la caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo — il
risorgimento italiano; da per tutto si svolge colle medesime idee rette
dalla medesima logica; lenta o rapida, squallida o splen- dida,
vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determina- te anticipatamente dall'inflessìbile
destino che sforza i principi a generare le loro conseguenze. Che i
mil- le accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es- si
saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi sarà sempre una storia
ideale e uniforme, comune a tutte le città da Ottone I alla flne del
risorgi- mento. La storia ideale della città italiana si
ripete a un patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra-
sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore noli intendono che a
mantenerlo nel senso il pih tar- — I03 — do, se
ne dichiarano apertamente conservatori; la loro opera è sempre una
restaurazione imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni
nella sto- ria? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che
diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e non trionfano se non
accettando Topera del tempo, e non ricompaiono sulla scena se non alla
condizione di rappresentare i principi che la fatale ignoranza del
governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessa- mente il Papa e
l'Imperatore compiono 'le loro re- staurazioni così dette eterne,
seguendo passo passo la storia delle città italiane di cui amnistiano le
ri- bellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che
resistano; se non resistessero la rivoluzione non a- vrebbe nessuna
ragione per manifestarsi e nel me- desimo tempo la storia ideale si
fermerebbe. Ma e- gli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si
rista- biliscano, accettando il progresso che si è fatto stra- da e
che passa allo stato di fatto compiuto o di fa- to ineluttabile; ed è
così che tutte le epoche della storia ideale si riproducono nel patto di
Carlo Ma- gno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto- no
in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il Papa e l'Imperatore i
due grandi personaggi dell'Oc- cidente? bisogna dunque che propaghino da
per tut- to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli
stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni contro gli altri?
devono quindi accettare ogni pro- gresso, non foss'altro per
combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut-
te le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa la varietà a prima
vista irreducibile di forme, e le costringe ad essere incasellate entro
il quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il
periodo storico che il Ferrari ha studiato con più amore e trattato con
più larghezza i la storia an- — I04 — t^rìorc al
962 e posteriore al 1530 è rispetdva- mente conaiderata come imrochizione
e come epi- logo alla epopea di quel che egli chiama risorgi- mento
italiano. Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirai^
nide regia colla rinnovazione del patto papalo- imperìale e col trasporto
dell'Impero in Germa- nia, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd
Pa- pa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non per
distruggerli, bensì per riformarli, tra- scinata dagli antecedenti aUa
lotta senza quartie- re contro ogni rimembranza del regno.
La rivoluzione dtì Vescovi (962-1122) apre la serie. Nella città
sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si trovano di fronte due poteri
: il conte goto longobardo o franco di discendenza, che vor- rebbe
riprodurre in piccolo dentro la cerchia dd- le mura cittadine la tinmnide
regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo di discendenza
ro- mana; e il vescovo romano di razza e di tradi- zione che
protegge i deboli contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo
loro le porte del suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone impedisce
agli sgherri del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno al suo
vescovo, vuol es- sere giudicato dalla sua giustizia superiore a
quel- la del conte come la ragione alla spada, si appas- siona per
tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro
le alabarde de- — I05 — gli sgherri comitali^
finché un giorno scoppia im- prowisame&ie una sollevazione annata. Il
conte si trova espulso, e nella città si comincia a sboz- zare
colla formazione dd primo popolo raccolto dalla corte del conte e da
quella del vescovo Tor- ganismo comunale italiano, che non è una
deriva- zione germanica o romana ma nasoe adesso oomh battendo
contro le memorie del regno. La rivolu- zione vescovile irraggiata dal
focolare di ribeÌlto> ne delle città penetra nei feudi, ove
sostituisce fa- miglie pie di tradizione romana e avversa al re-
gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen- denti dagli invasori ;
conquista il Mezzogiorno pa^ ralizzato dalla confusione bizantina dei due
pote- ri, al seguito delie schiere avventurose dei Nor- masni; e in
RomB trionfa coHa libera elezione popolare e clericale di Gregorio VI
nemico dei conti e dei patrizi. Ma i centi espulsi daUe città
da un esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono
all'au- torità legale del loro supremo tutore, l'Imperato- re, che
vede oltraggiata la sua legge; e Corrado II di GebeHno comincia la
reazione contro i ve- scovi. Invano : sconfitto da Eriberto di
Milano, che oppone alla cavalleria feudale le picche dei popolani
raccolti attorno al carroccio novdlamen- te creato, vede la sua reazione
abortire nelle cit- tà e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e
deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano dd- ritalia meridionale è il
Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an patto carolingio: a lui
quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro 1
— io6 — Normanni rappresentanti meridionali del princi-
pio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano S. Leone IX ad
accettare la loro rivoluzione. E cosi Imperatore e Papa dopo avere
ammistiata e legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu-
ropei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino ndla Chiesa, la quale si
appassiona per la vergi- nità mistica in odio dei preti ammogliati, che
pro- fanano la sua repubblica immacolata con una spe- cie di
feudalità clericale (1050). Appena ottenuta la legalizzazione della
cacciata del conte, la rivoluzione entra in una seconda fa- se
(1050-1122), continuando contro i vescovi no- minati dall'Imperatore che
li incarica di sostene- re la parte dei conti, per strappare la libera
ele- zione dei vescovi stessi — e una volta vittoriosa vuole la
libera elezione del più grande dei vesco- vi, del Papa, che l'Imperatore
si arrogava il di- ritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce
tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma ai papi tedeschi,
prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di Alessandro II contro
l'anti- papa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul tro- no
pontificio assale per la prima volta la suprema- zia imperiale, e
trasporta nella Chiesa la rivolu- zione vescovile compita predicando la
crociata. Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il
germe d'una reazione pontificia contro la libera elezione dei vescovi,
che si sarebbe voluto tra- sportare dalle mani dell'Imperatore a quelle
del Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della rivoluzione
passano nel campo nemico; dichiara- - I07 — no
che il Papa non è il padrone della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla
tradizione ai concili, è il servitore dei servitori, e può essere deposto
se manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del- le investiture
che è la reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi
: i due capi sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in-
terpretando con mente retograda l'antica tradi- zione; ma i popoli al
seguito dei loro vescovi, come avevano atterrato il vecchio Impero
sotto 1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa- pato sotto
quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le città dirigono il Papa e
l'Imperatore: sono im- periali quando il Papa trionfa e pontificie
quan- do l'Imperatore prepondera, e finiscono col se- guire
l'alleanza imperiale sulle terre della dona- zione e quella papale sulle
terre dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII
sulla Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV a resistere e
gli danno la vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa,
ma quan- do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo
campo e rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello
Anche riescono ad ot- tenere la libera elezione dei vescovi, che il
Papa e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con- cessa — a
tutta l'Europa. Anche la prima crociata cade sotto la legge
del- la rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e- lementi
della città italiana, la moltitudine il popo- lo i consoli e i vescovi,
altro non è se non Te- — io8 — spetrìazioae
volontaria della feudalità che lascia libera la terra alla giuriadizion^
dei vescovi. Abbiamo dato un sunto diffuso di questo perio-
do per offrire un esempio più chiaro del metodo interpretativo del
Ferrari : ora potremo procede- re più rapidamente.
VI. Qi stati dell'Europa non avevano ancora com-
pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi che nelle città italiane
dov'era nam essa era as- salila da una nuova rivoluzione, nei principi
o- scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo- sa c^ tuid i
vescovi della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione
dei Couso^ 2i(U22-1184) passava anch'essa per due tesi: prima
sostituiva il governo vescovUe ed governo consolare (11^1137); poi
scatenava le une con- tro le i|kre città consolari, divise in due
campi per conquistarsi con la guerra una più larga li- bertà dentro
il patto papaie-imperiale (1137-1184). Nella città vescovile il
vescovo essere religiosa e u-asmondano si trovava a capo della moltitudi-
ne, agitata da tend^ize industriali e commercia- li completamenie mondane
ch'egli non poteva soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce
rifisurrezione : la città si muove prima conser- vando le apparenze
dell'obbedienza, poi rinnova le sue istituzioni e crea un nuovo popolo
più al- largato e democratico chiamato a legiferare nd parlamenti
che, col tradizionale intervertimento di aUeanze nemico del
Papa negli stati della Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia
imperiale, as- sale il diritto del regno a nome nel risorto di-
ritto romano. La. immancabile reazione pontificia e imperiale
procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il suo alteato Lotario IH,
capo dell'opposizione cat- tolica tedesca allora vittoriosa nellimpero,
secon- do la formula generale di tutte le reazioni oppo- nevano il
passato sempre vivo in essi al presen- te da cui erano assaliti ; e
combattevano i conso- li fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed
al- tra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma non
riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta. Ed ecco che appena
vittoriosi della duplice rea- zione i consoli spingono le città le une
contro le altre in quella guerra municipale, che fa la ma- raviglia
e lo sdegno degli storici maldicenti con le lacrime agli occhi a tanto
inesplicabile odio fra- temo. E' questo uno dei misteri più profondi
del- la storia ditalia: la guerra municipale non si spiega né colla
volontà del Papa e dell impera- tore, nò colla lotta fra i due capi della
cristianità, nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia, nò
colle vertenze fra i diversi distretti, né colla HbeDione dei castelli.
(Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 515): Guardiamo alla terra dove
sorgono le città libe- re : la sua gìeografla é anticipatamente
determinata da una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco-
vi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la — no
— capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari che
l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun- zioni strategiche, ha
soppiantato Pavia e i centri se- condari che erano padroni delle vie dei
fiumi del commercio di tutto. Le città romane sono state rial-
zate, opposte alle città militari; restituite all'impor- tanza naturale
che loro davano il conmiercio, la ric- chezza, la facilità delle
comunicazioni, le circoscrizio- ni diocesane stabilite dai Romani sotto
l'impero del- la civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in
ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le città le
une contro le altre: ogni centro militare si trova in presenza di un
centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno
immiserisce, l'al- tro prospera; l'uno langue, l'altro risorge.
Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora
apparente, la legge imperiale e pontificia regna an- cora, la guerra si
dissimula; e se i conti sono con- gedati, la metà della gerarchia
sussiste ancora col ve- scovo che supplisce al conte, nasconde la guerra
- e non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi- lano non
combatte le città dei dintorni se non per ordine dell'Imperatore... Ma
nel momento dei conso- li la disorganizzazione vescovile del regno si fa
lai- ca, la dualizzazione delle città diventa economica: più non
trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio- ni ecclesiastiche o
feudali; si reclamano la ricchez- za, i fiumi, le strade, i transiti
trasformati in istru- menti di prosperità o di miseria; il mercante, il
fab- bricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessu- na
gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf- freni le rivalità; non i
giudici per decidere sulle vertenze, le città devono giudicarsi da sé.
Esse so- no in contatto immediato; il contatto diventa lotta, la
rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po- trebbe forse evitarla? —
Guardiamo sempre la ter- ra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul
fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per rad- doppiare
la disorganizzazione del regno e la degrada- — II I — zione
delle città militari. Questa degradazione è fat- ta dal commercio,
dall'industria; diventa la miseria dei centri regi, la prosperità dei
centri commerciali : i primi son condannati a difendersi sotto pena di
mo- rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare guerra
perchè basta loro il vivere il progredire per spegnere le città
dell'antico regno; esse assorbono t frutti il succo gli umori del suolo
italiano, esse ri- fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al
rove- scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra-
tegia regia quella del commercio che procede lenta sorda implacabile col
libero spaccio di tutte le merci. Come resistere loro se non colle
armi? Ecco l'o- stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle
armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa
buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria. Se occorre si
rivolgeranno le forze stesse della li- bertà e della civiltà contro le
città più libere, più civili; si spingeranno alla ribellione i comuni
inter- mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà di
smembrare le città romane, di attorniarle con bor- ghi insorti, di
disorganizzare questo centro di disor- ganizzazione — e ne nascerà l'aff
razionamento del- l'aff razionamento, la guerra della guerra.
Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo- lo: e l'abbiamo
trovato friabile, inconsistente, dispo- sto alle frane, e dualizzato come
se avesse subito in tutte le sue molecole una doppia polarizzazione
sot- to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo ora il
compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la guerra deve raddoppiare
d'intensità. Qual'è la circo- scrizione della terra ove sorgono i
consoli? La città vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è
oc- cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co- sa loro,
l'irradiazione popolare della prima rivoluzio- ne ha dovuto soffermarsi
nei limiti determinati dal- l'ombra della cattedrale. Ma i consoli
possono forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo-
vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento — 112
— ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco grazie
alla sua attività che moltiplicandosi trabocca oltre il vecchio recinto
delle nmra; quindi si rinno- vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il
palazzo del co- nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma,
s'in- grandisce e più non può capire nel proprio territo- rio, e
segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi
altre volte insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi
un tem- po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città
smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto- ie, di rompere ogni
ostacolo. Pisa e Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul
mare, fonda- no delle colonie consolari; ma per le città delFin-
temo non hannovi terre vacue, la campagna appar- tiene alla feudalità,
tutte le giurisdizioni son ar- mate, i confini sono spietati — e le città
si getta- no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della
rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi consoli sfugge
all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del consolato, e si presenta
come la preda na- turale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius:
9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed ogni città, ogni
borgo aspira a diventare una capita- le; la guerra deve durare fino alla
liquidazione gene- rale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere
rifatta per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore a- nimati
da sentimenti patemi e da benefiche intenzio- ni; supponeteli sempre
pronti a intervenire per pre- dicare la pace l'unione la concordia;
supponeteli ab- bastanza forti per ottenere innumerevoli
conciliazio- ni ,per riparare mille torti, per render giustizia
agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori come devono
essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero: le città
riporteranno vittorie che non sa- ranno vittorie; le-sconfitte non
saranno sconfitte; nes- suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto
otte- nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana- te,
ricostruire le mura smantellate, riedificare le ciN — 113
— tà incendiate, restituire il territorio conquistato; e al-
la partenza del Papa deirimperatore e dei loro de- legati, le cause della
guerra sussistendo ricondurran- no le città al combattimento; si rimarrà
per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba-
stione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vit- torie inutili,
per subire mille sconfitte sempre ripa- rate. La guerra
municipale che rimane dentro i con- fini della regione viene quindi
ridotta al dualismo delle città militari e delle città romane
costrutte le une a controsenso delle altre : di Milano e di Pavia
la capitale di Alboino, di Mantova e di Ve- rona la prediletta di
Teodorico, di Bologna e di Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e
di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle cit- tà latine :
anche il regno di Napoli si toglie all'a- nalogia degli altri regni per
seguire la legge del- le città italiane, funzionando come una gran
città cambattente con Palermo contro i rimasugli fe- derali dei
piccoli stati greco-longobardi. Questa guerra che oggi si considera come
un disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una ri-
voluzione, il primo passo delle città per determi- nare i loro confini a
nome della propria libertà insultata e disconosciuta dalle vecchie
giurisdi- zioni. Intanto Fed. Barbarossa ,capo della
rivoluzio- ne vescovile in Germania, si propone di combat- tere in
Italia la seconda fase della rivoluzione con- solare, sopprimendo la
libertà della guerra muni- cipale che insulta alla sovranità dell'Impero:
e A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. « — 114 —
la sua reazione subisce vicende diverse secondo che si muove sulla
terra delPantìco regno o su quella del Papa o del regno normanno.
Nell'Al- ta Italia diventa capitano municipale delle città romane,
manovrante da bandito con l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere
la guerra la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle città
che lo secondavano nelle prime discese, vin- to dalla Lega Veronese dalla
Lega Lombarda e dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit-
to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan- za le due leghe di
Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano non è dunque una lotta
repubblicana e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore
tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui- date da Milano è le
città militari guidate da Pa- via, per ottenere dentro la gran
giurisdizione del- l'Impero la libertà della guerra. La nuova
rivoluzione, appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa
e ddl' Im- peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione
dei governi con missioni consolari : perfi- no nella Chiesa, che assalita
da ogni parte pren- de al rovescio i suoi nemici colle creazioni
conso- lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini
francescani; e sostituisce la conquista vicina del- l' Inquisizione alla
conquista oltremarina della Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S.
Bo- naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap-
puccini. (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,
Macmillan, 1912 - png. 173. Non si dichiaraTano prìncipi repub- blicani,
né si faceva appello alla nazionalità italiana. — 115
— VII. La terza grande rivoluzione italica prende no*
me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9- sa per le fasi della
guerra ai castelli (1184-1198) e della guerra cittadina che provoca la
creazione del podestà (1198-1250). La città consolare, la
quale non è altro se non un'oasi in mezzo alla foresta feudale del
regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il libero
espandersi del commercio, una volta otte- nuta la libertà della guerra
riflette che le città ri- vali sono troppo radicate alla terra, mentre i
no- bili della campagna si presentano come vittime facili; e volta
contro di loro l'impeto irresistibi- le della sua espansione economica e
politica. Le città romane specialmente combattono con furore contro
la moltitudine dei feudatari che le accer- chiano impedendo loro il
respiro; e questa ulti- ma rivoluzione che estende la libertà alle
campa- gne si presenta come la conclusione della gran guerra contro
il regno, distrutto nelle sue soprav- vivenze campagnole dei castelli.
Nella Bassa Ita- lia, che funziona come un gran municipio, la guer-
ra ai castelli si confonde con la continuata guer- ra municipale di
Palermo contro gli antichi cen- tri, ultimi nidi di feudatari di sangue
longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.
La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una
nuova lotta. I castellani, na- turalizzati e deportati per forza nel cuore
della città che loro impone l'odiosa legge dell'ugua-
— Ilo ^- glianza, si vendicano costruendo delle fortezze
in- teme, armando i loro servi, conquistandosi coil'o- ro la
moltitudine che voltano contro il popolo — e ricominciano un combattimento
che come quel- lo fra città e città non può finire ; perchè il
denaro è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la fi- nanza
colla finanza : i proprietari della terra (con- cittadini) sono almeno
forti come i possessori dei- fabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa
e l'Im- peratore si presenta ai cittadini e ai concittadini per
riassumere ed eternizzare il loro combatti- mento: con la solita
interversione d'alleanze i cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli
di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperato- re; al contrario i
concittadini dell'Alta Italia se- guono l'Imperatore, mentre quelli della
Bassa I- talia invocano il Papa contro Palermo. I torbidi
continui, le prese d'armi improvvise, l'anarchia imperante, conducono
alla creazione di un nuovo governo : i consoli nella loro qualità
di capi dei cittadini come parti in causa non hanno quell'autorità
imparziale che possa giudicare i due partiti, e lasciano il posto ad un
nuovo magistrato nel tempo stesso giudice e capitano, ad una spe-
cie di dittatore annuale che si chiama podestà. Preso all'estero e quindi
superiore ai partiti egli stesso giudica e applica la sua legge con
potere discrezionarìo — ma spirato il suo mandato è sottoposto a
giudizio, e se trovato colpevole è con- dannato a multe a prigonia e
talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si
sem- plifica. Il Papa è il protettore delle città romane
— 117 — del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran
pode- stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non opprime
quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione pontificia
non percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale qua!
con- sole della Germania i podestà della Lombardia, diventa capo
dei concittadini delle città romane e dei cittadini delle città militari;
ma dentro al laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si
trova impegnato in un combattimento a cui l'e- quivalenza delle forze non
permette nessuna so- luzione — ed è costretto a riconoscere col
fatta della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa —
Voi. II, pag. 211): Visto da lungi nella confusione del XIIl
secolo, Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio di
console della Germania e di podestà delle Due Si- cilie, e vien
considerato come un essere onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare Tltalia
come voleva; e la poesia, che segue le grandi figure della storia
per trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue utopie
le sue speranze o i suoi rimpianti, stende silenziosamente il dito sul
gran Federico, quasi ab- bia seco perduto non si sa qual misterioso
destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebeli- ni,
condannati alla demenza delle reazioni impossi- bili : il fatto della sua
sconfitta non ammette né pen- timenti né correzioni; egli resta qual'è
nel suo tem- po nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei
mil- le geroglifici che la stenografia della storia traccia con la
rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Uti- le al Mezzodì, l'ultimo
degli Hohenstauffen non po- teva né essere il podestà dell'alta Italia,
né equilibrar runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del
Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di- — ii8
— screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di com-
pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o di despotismo
beneflco erano anticipatamente elimi- nate dal progresso dalla vita e
dalle rivoluzioni del- ritalia, che si svolgevano diverse variate
affraziona- te da cento stati contradittori, la cui suprema feli-
cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non
era compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non
toglievasi con alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode-
stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario
improvvisato ed esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta
d'un tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar-
chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata
come una montagna sovrapposta a tut- te le montagne, una devastazione
inaudita di tutte le libertà, una esagerazione iperbolica del regno
dei Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto
fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi- dente. E come mai l'uomo
che non poteva evitare la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe
potuto ri- portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le sue
fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas- so come la libertà
generale... Al certo l'elevazione non mancava a Federico; e fissando lo
sguardo su lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo
del- l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco- pre
quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem- pre m tutte le epoche
della storia ; nel momento del- le grandi rivoluzioni, quando gli eroi
nello spasimo (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia
morte di Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* 1910 • pag. 363:... N*to in un
secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si
pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^- mania V
lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto una politica
diversa un indirizzo qualche veka addiritura oppo- sto, più volte egli
disfece con una roano ciò che aveva costrui- to con 1' altra.
— IIQ — del dolore dimenticavano un istante di essere
tribu- ni re imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se
può darsi un esito ragionevole alle pazzie deirumanità. Egli si rivolge
ai sapienti dell'Islami- smo, per cercare delle verità che la sua
religione gli vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose
in- terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza, sulla vita
futura. Qualche volta, stomacato dalla fur- beria dei miracoli cristiani,
si direbbe che sogna un califato d'occidente, col quale la ragione gli
rende- rebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno al- la
Chiesa. La tradizione profana lo segue appassio- natamente e,
guerreggiando con le calunnie cattoli- che, gli attribuisce confusamente
il pensiero di vo- ler regnare quale podestà delle tre religioni che
si contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Ge- sù Cristo e
Maometto sono i tre grandi impostori dell'umanità, che ingannano i
mortali, che semina- no sulla terra il furore delle crociate, che bisogna
do- marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa ad essi
superiore, non fosse altro un etemo sonno, per calmare la ragione
oltraggiata dai pontefici dagli ebrei dai cristiani e dai musulmani.
Porse, nel suo disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amo- re
per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo- co della moltitudine
e dell'inquisizione, pensava egli ad una rivoluzione religiosa; nel
mentre che nume- rosi insensati si attendevano a vedere trasformato
l'u- niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia imperiale.
Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del pensiero, che si
fa strada in mezzo alle più astratte possibilità, non serve che a
rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i
Ce- sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di parere
ancora più religiosi degli altri; devono im- porre il silenzio
l'obbedienza la cecità, e farsi ipo- criti impostori e persecutori di
ogni filosofia; perchè la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti
i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli
— I20 — di miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi-
ca i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le promettono con
maggior energia di continuarne gli errori. Podestà occulto di tre
religioni, Federico II- gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che
lo condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat- tolico,
ad abbruciare gli eretici e a disprezzare Tu- manità.
Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazio- ne è guidata dal
Papa, che come console dei con- cittadini del Mezzodì assale con le armi
della ri- volta federale e della superstizione cattolica il suo
vassallo (1) Federico 11 supremo podestà, ma è vinto nel momento stesso
in cui trionfa nell'Alta Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma,
che organizzata a forma repubblicana lo obbliga a ce- dere di
fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà bolognese. La libertà della
democrazia della sedi- zione e delle battaglie si svolge in tutta
l'Italia proclamando il grande interregno, e si diffonde per tutta
l'Europa e anche nella Chiesa dove i dottori combattono come cittadini e
concittadini prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa di-
venta il giustiziere universale di tutte le dissiden- ze presenti passate
e future come un podestà mi- triato. Vili. Ma
nemmeno il podestà poteva durare sulla (i) Il possesso del regno di
Sicilia lo metteva nella falsa posizione di un vassallo resistente al sno
legittimo sovrano. — ' BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.
— 121 — scena un tempo maggiore di quello concessogli
dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella nuova fase dei Guelfi
e Ghibellini che si divide in periodo delle sette (1250-1280) e dei
tiranni (1280-1313), al momento in cui la guerra civile straripava
al disopra del governo pacificatore e i combattenti disprezzavano gli
ordini del pode- stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a
vicenda proprio adesso che il grande interregno li libera alle lofo
tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa, ai Meridionali di
vene- rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa e
dall'Imperatore (1) non sono altro che le due sette dei cittadini e dei
concittadini che rina- scono con duplicato furore, per darsi delle
sem- pre nuove battaglie al seguito della quale una me- tà degli
abitanti deve prendere la via dell'esilio. I cittadini delle città romane
sono guelfi, all'oppo- sto dei cittadini delle città militari di Roma e
del Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città romane
sono ghibellini, mentre quelli delle città militari di Roma e del regno
sono guelfi. Con u- na guerra tutta sociale» figli di una stessa
città, essi combattono per conquistarla non per distrug- gerla;
riconoscendo per la prima volta l'unità i- (i) Cfr. G. Volpe
: Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e
varie cagioni delle lotte inter- ne ed esteme dei conìuni sono al di
fuori di Papi e di Impera- tori, e indipendenti dalle cagioni che questi
aggiungono di pro- prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle
preeti- stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia
del Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co-
mandare. — 122 — deale della nazione si
stringono in alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta la
peni- sola è corsa come dalla rete di una circolazione di vene e di
arterie moventisi a controsenso. Pa- ri è la forza degli interessi, pari
la forza delle i- dee; la lotta adunque nel complesso della nazione
è eterna e senza soluzione come una antinomia metafisica; ma prende
possesso delle contradtzio- ni della guerra municipale, secondo la legge
che dopo una minore o maggiore alternativa di espul- sioni fa
inclinare sempre la vittoria a favore dei cittadini, del popolo : dei
Guelfa quindi nelle cit- tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa
allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto di Carlo Magno,
istituisce un nuovo popolo più numeroso dilatando la democrazia, e mira a
crea- re secondo il tipo ideale formatosi con la genera- lizzazione
delle sue due tendenze una nuova Chie- sa democratica e un nuovo Impero
legale. Minacciato dalle due sette che fanno traballare il
suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se non facendo un passo
indietro per fermare la ri- voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla
conqui- sta della Sicilia affinchè domini come un podestà
imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver
visto l'Italia e la reazione pa- pale è sconfitta. Questo orribile
sconvolgimento è rivoluzionario, cioè benefico e liberatore :
dirocca innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola- re,
estende la libertà alle arti ai mestieri alla plebe, compensa il
decadimento delle città milita- ri col fiorire delle città romane
arricchite dall'in- — 123 — dustria e dal commercio,
rivela attraverso il colle- gamento antitetico delle sette Tunità
nazionale, e dà due linguaggi due poesie due nuove religioni
all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dal- l'aristocrazia
popolare delle città romane, bilancia l'italiano coltivato dalla corte
ghibellina di Fede- rico II e di Manfredi, artificiosamente scelto
dai dialetti di tutte le città ; finché viene a trionfare la nuova
lingua guelfa della democrazia di Firenze. Il periodo dei Guelfi e
Ghibellini entra adesso nella seconda fase dei tiranni (1280-1313). Il
ti- ranno è il capo di una delle due sette che gli con- cedono un
potere dispotico sacrificando la loro libertà quasi feudale
nell'interesse della vittoria : esso compensa la violazione di tutli i
diritti ac- quisiti coi favori prodigati alla moltitudine e col- la
condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta
la terra sotto una for- ma individuale. Ma, capo di un partito
destina- to dall'equilibrio delle forze ad alternare te scon- fitte
con le vittorie, si avvia anch'egli ad una ca- tastrofe certissima. Le
città che non entrano nel- l'era dei tiranni si contorcono nelle angosce
del- la guerra civile non ancora disciplinata imbriglia- ta e
mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della civiltà sono
sorpassate dalle rivali co- me Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in
Gian della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni stranieri
come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno di Napoli.
Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op- ponendo la guerra
pura e semplice all'ordine na- — Ì24 — sceme
delle tirannie, per suscitare attraverso al- la penisola un ondulazione
guelfa che distrugga le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di
Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le città
i Guelfi si trovano senza capi senza ripu- tazione senza potere e
disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia.
Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Ar- rigo VII, che in
ritardo come la sua patria di due rìvduzioni non vuole essere nò guelfo
né ghibel- iino; e guida quindi una reazione opponendo ai furori
delle tirannie la pacificazione sorpassata del podestà. Ma appena messo
il piede sul suolo fa- tale ditalia, come i suoi predessori vien preso
nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto a diventar
ghibellino, e muore sconfitto e si di- ce avvelenato dall'ostia guelfa
dei monaci di Buon- convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron-
to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti- ranni penetra infine nel
patto di Carlo Magno col- le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio
Co- lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro- pongono come
stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia
ghibellina. La Divina Commedia è la grande epopea della tirannia
ghi- bellina trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio
sostiene la parte del tiranno supremo; Dante è il poeta del terrore,
dell'odio, della rab- bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^
prema di salvare il genere umano ; che da per tut- to immola sacrifica
consacra i Guelfi del suo tem- — 125 — pò ad una
eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia guelfa del
passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta
l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a Bo- nifacio Vili e ai suoi
successori d'Avignone; pe- netra nei conventi colle esplosioni guelfe e
ghi- belline dei domenicani tomisti e dei francescani scottisti,
nelle scuole coi realisti e nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove
si vogliono scacciar gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni
del- l'inferno. IX. A un certo
momento il tiranno s'accorge che per regnare deve sfuggire alle
ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il regno
dell'imparzialità col disarmo colla corruzzione o con la
distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse del-
l'agricoltura dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace. Il
reggimento repubblica- no già compromesso dai tiranni viene quindi
abo- lito dai Signori (1313-1402) che regnano da de- spoti colla
forza della intelligenza, sfuggendo di traverso al Papato e all'Impero
senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le
guerre municipali fin qui insolute, dando predo- minio alle città
progressive romane; si estendono colla forza della necessità, migliorando
la sorte delle città conquistate trattate coll'imparzialità u- sata
verso le due sette; e sempliflcando la geogra- fia delle due Italie,
utilizzano ormai direttamen- — 126 — te il Papa
nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord quasi ghibellino (Avvento dei
Signori : 1318- 1336). Traviati derisi traditi dalla
giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva vivere nello
stesso tempo nei due campi o passare sapiente- mente da un campo
all'altro; i Guelfi e i Ghibel- lini non avevano altro mezzo che
d'invocare ^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno
dell'Impero, per disfare con una reazione gene- rale le nuove costruzioni
delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente
vittoriosa di tre reazioni, una papale una imperiale e una combi-
nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano
per la prima volta la so- vranità popolare di ogni nazione astrazion fatta
dalla Chiesa e dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperità dei
Signori (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si pro- paga in
tutte le città : le terre più timide, i centri più disgraziati, i
villaggi più infelici vogliono cre- arsi dei capi al di fuori dei vecchi
partiti: ogni città prende definitivamente il posto che le era
stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione del 1000: indi
l'importanza di Milano, la petulan- za di Verona, l'inferiorità della Toscana
e del Mezzodì. La signoria di Milano era frattanto giunta
a tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la reazione di una
federazione repubblicana pontifi- cia e imperiale, in cui le città
minacciate dalla vo- racità dd Biscione si alleavano coi poteri
retrogra- — 127 — di per difendersi. Ma Tltalia
ben presto lasciava a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva
col- la catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV al-
Timperdonabile bassezza di farsi mercante di di- jplomi; e col gran
scisma della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di
Savo- ia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione
individuale dalle catene della religione. La terza fase del periodo
dei signori è domina- ta dal dualismo fra Milano e Firenze (1378-1402).
Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can- cellare ogni rimembranza
di atrocità tiranniche Galeazzo tradisce Barnabò suo zio.
L'ambizione illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi
Tidea di sopprimere la dominazione temporale della Chiesa per
sottomettere T Italia all'unica si- gnoria dei Visconti. Ma quest'idea
trasforma la signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo il
suo raggio legittimo in un flagello per il resto della penisola, ed
obbliga Firenze a difendere la liberta le leggi le tradizioni e le
federazioni dei popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni
della nazione si spiegano col contrasto fra Milano e Firenze, che si
riflette nelle due rispettive scuo- le dei cronisti. Ma la vera Italia si
trova superio- re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar-
tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a profitto dei moderni e
impersonano l'empietà del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni
contra- dizione col suo classicismo accademico feroce so- lo contro
la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto
papaie-imperiale per — 128 — mezzo della
romanità, il terzo sepelleiido le im- posture del Medio Evo sotto le
risate della sua novella federale. E* questo il momento in cui la
bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vesco- vi toma nel sistema
italiano. (Riv. d'Italia — Voi. III. pag. 108):
...Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena frammista qua e
là alle battaglie lombarde e friula- ne come una terra secondaria e
affatto straniera, qua- si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non
meno che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat- tò
ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di simboli, simile ad una
nave d'alta velatura che sa- rebbe entrata nel porto durante la notte, di
ritomo da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente.
La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove tutti gli stati
capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro atteggiamento
naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i
so- stenitori dell'individuo e quelli del genere, per diventare
ciceroniana ed eclettica ad imitazione del Petrarca.
Le conquiste sociali e politiche della signorìa vengono adesso
minacciate dalla Crisi militare (1402-1494). I signori avevano composto i
loro e- serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i Ghibellini
e per tranquilizzare i cittadini tradizio- nalmente antimilitari; ma
poiché, affascinati dal — 129 — demone della
conquista vogliono mantenere eser- citi superiori alla loro potenzialità
economica, fi- niscono per fallire e per cadere in balia della ple-
be irritata e dei soldati insorti. La crisi si com- pie in tre tempi :
prima la plebe insorgendo con- tro il flagello della miseria distrugge la
signoria, risuscitando le forme politiche sorpassate della
repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel- la libertà la
ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria, che limiti
le sue am- bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen-
titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova
consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo
di una signoria volante di soldati su d'un territorio che non può
sostenerli tutti e due, bisogna che uno scompaia : ora è il condotdere
che diventa signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa che
toglie di mezzo il condottiero come Venezia fa del Carmagnola.
La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora in mezzo alla
derisione universale di tutti i prin- cipi, conserva tutto il lavorio dei
secoli preceden- ti : la federazione italiana si semplifica colla
vitto- rai dei gran centri romani sulle città militari e le dualità
invincibili; detronizzando diciassette dina- stie e distruggendo
diciassette indipendenze inuti- li, uccise dai poveri e dai plebei
secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or-
goglio della nazionalità alle necessità della demo- crazia, perchè la
fame è superiore all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche.
Indipendenti A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. • —
I30 — . nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe se-
colarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484, in cui Milano Venezia
Firenze Roma e Napoli, di- chiarando di assoldare un condottiere a spese
co- muni, stabiliscono il principio di tutte le federa- zioni : di
formare uno stato solo contro al nemi- co benché ogni stato resti
distinto e sovrano nel proprio territorio. Le reazioni di questo
periodo sono appena accennate e non servono che a con- fermare la
rivoluzione flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove
si ha pri- ma la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere del-
le opere originali con Lorenzo col Poliziano e col Pulci, che malizioso
come un signore liquida il Papa e l'Imperatore senza contestare i
principi del Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella Chiesa la
quale, assalita dalla ribellione federa- le del Concilio di Costanza, si
rigenera all'imi ta- zione di tutti gli stati mostrandovi le scintille
d'un incendio universale di democrazia, che presto a- vrebbe
divorato tutti i re e i dottori protettori del- la libertà e delle
riforme; inventa la visione bea- tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse
e il pur- gatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indul- genze
per rendersi visibile nei capolavori del- l'arte.
XI. L'Italia aveva fin qui squassato la face
ideale della rivoluzione; marciando alla testa della civU- tà essa
creava man mano le nuove forme politiche. — l$\ —
che diffondeva per mezzo del Papa e dell impe- ratore a tutte le
nazioni d'Europa. Ma ecco che durante il periodo della Decadenza dei
Signori (1494-1530) la civiltà trasporta i nuovi centri in- cendiari
in un'altra nazione (1); e la Francia chia- mata da Ludovico il Moro
straripa improvvisa- mente con una espansione militare nellitalia,
la quale sorpresa da questo imprevedibile progres- so è costretta a
difendersi restaurando il Papato e l'Impero che l'astuzia dei signori
aveva quasi esiliato, e resuscitando le forze indigene delle sette
guelfe e ghibelline che il tradimento dei si- gnori aveva addormentato.
Il meccanismo politico cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che
tra- smetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme
politiche per mezzo dei poteri euro- pei del Papa e dell'Imperatore;
adesso è l'Euror pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del
Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso al- litalia (1494-1512).
Succede un altro passo indie- tro quando l'Italia è costretta a mettere
il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna (1512-1530) per difen- dersi
dall'insurrezione germanica e federale di Lu- tero contro le sue
rivoluzioni, contro la sua ci- viltà passata attaccata nel Papa ; che
rappresenta- va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema- zia
mondiale e che era pure uno dei due membri della federazione europea da
essa creata (Riv. d'ItaUa — Voi. III, pag. 381) r (i) Cfr. C.
Balbo: Dciln stona d' Italia - Voi. I., pag. 297: Finiva V età del
primato (qualunque fosse) d* Italia; ioco- minciava quella dei primati
occidentali di Spagna, poi Francia, poi Inghilterra. ~
132 — L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due
patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la sua espansione; le
regioni che avevano respinto il giogo della centralizzazione dell'antica
Roma si le- vano con nuovi Arminii, per respingere con le for- ze
invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era sottentrata all'unità
conquistatrice dei Romani; i po- poli la cui antica barbarie aveva
imposto le sue fe- derazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove
fe- derazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al
Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del- l'Europa sorgeva dunque alla
voce di Lutero; ed 0- gni individuo, diventato libero nel fòro intemo
del- la propria coscienza, formulava cento gravami contro la
monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni d'Italia che l'avevano
creata. Si sorgeva dunque con- tro la prima rivoluzione, che in odio del
re di Pavia aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ;
con- tro il prestigio magico che essi avevano messo ne- gli antichi
simboli dell'eucaristia, della messa e del- le reliquie a confusione dei
barbari; contro la san- tificazione dell'antica capitale con una
gerarchia mi- steriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e
contro la superstizione incendiaria che aveva dato al- l'ordalia,
all'altare e all'acqua benedetta il potere di sottrarre i delinquenti ai
tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni
di Car- lo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la
donazione che faceva della Chiesa una potenza poli- tica; né la penitenza
che metteva i suoi giudici al di sopra di tutti i giudici, le sue
sentenze al di sopra di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava
il culto col fascino dei canti, delle pitture, delle scul- ture
sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga- torio che raddoppiava la
distanza fra il cielo e l'in- ferno, per far luogo agli incanti delle
preghiere cle- ricali; né in una parola il pontefice che arrivava
al- l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi
— «33 — della giustizia divina e proconsole di tutti i
procon- soli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione
luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori : e proscrìveva
dell'era dei vescovi il celibato dei preti e tutte le riforme che
fornivano armi spirituali temporali ali* unità pontifìcia; dell*
e> ra dei consoli gli ordini mendicanti, le feste impo- nenti,
Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnan- te e rimplacabile
inquisizione; delfera delle due sette i tomisti e gli scottasti, le
ecceità, i flatus vocis, le dotte puerilità che profanavano Dìo
trasformando- lo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo
dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, ma- teriale, e
abbandonato al despotismo della frase ai periodi ciceroniani e al
pennello di artisti sostituiti al- rinsegnamento degli apostoli; del
tempo della crisi fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva
tutti i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le
assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far denaro con una
religione già materiale, e per molti- plicare cosi i capolavori che
sostituivano ai miracoli di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva
più ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano contro
la sua religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il pudore contro
la sua morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice confessore
inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere u-
mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il
proprio pontefice, la religione in- catenata al senso letterale della
Bibbia, tutto l'an- damento divino ridotto alla stessa legalità di
questo documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu- zioni
italiane sarebbe definitivamente abolita come una epidemia satanica, e
tutta la signoria di Roma ma- ledetta come un sacrilegio commesso contro
la li- bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più
violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri- spettato la civiltà
romana, i Goti di Teodorico l'ave- — 134 -- vano
protetta — Lutero la fulminava; e se prima di lui si era declamato contro
la nuova Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti non solo i
suoi vizi e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magni-
ficenza. Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Impe-
ratore che rappresentano le loro rivoluzioni lega- lizzate, e questi si
mettono sotto la protezione del- la Spagna per resistere al federalismo
protestan- te dei luterani; mentre i signori rinunziano alla lega
del 1484 che aveva congedato silenziosamen- te il Papa e l'Imperatore, e
la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di Carlo Magno col-
la Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una reazione: delle
rivoluzioni italiane rispetta- va nitto il lavorio geografico e sociale,
ben diffe- rente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo
ren*ogradare; essa venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la
grandezza dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem-
po si burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar- te e la scienza
trasportano nel campo ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne
riBette l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem- po deride
ed ammira il Medio Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari
della politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve- nerabili,
tutto il fantastico pagano e orientale non meno rispettabile delle favole
della Chiesa — e la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole
ita- liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia- velli può
dirsi l'Ariosto in azione : volendo inse- — 135 —
gnare le norme della politica rimane vuoto e a- sirattOy mentre
fonda la teorìa che determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le
rivoluzioni possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido senza
importanza, ma la sua fama si estende len- tamente colle rivoluzioni
ulteriori contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che
l'u- manità si svincola dalle credenze soprannaturali e si basa sul
razionale. XII. La nuova era politica
della Rivoluzione prote- stante (1517-1648) propagata dalla Germania
con- siste in un movimento che estende la fraternità umana oln*e
assai la benedizione del Papa e la memoria di Roma e, conservando la
distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il regno del
pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive- nuto papa di se stesso
una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma
oppo- sta negli stati germanici e negli stati latini: nei primi
individuale legale federale distrugge il po- tere di Roma confermando
quello dei prìncipi; nei secondi riforma le antiche dottrine della
teo- crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote- stante la
fraternità e la democrazia, le concentra- zioni ispaniche e le
centralizzazioni francesi. In Italia produce il trìonfo degli stati
ghibellini (Mi- lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen- ti
guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei Ghibellini nella
minoranza degli stati dove i Guel- - 136 - fi
devon regnare (Venezia Savoia Roma). La ri- volizione rinnova la
letteratura col Tasso, il poe- ta della tenerezza che celebra la grande
impresa cattolica della prima crociata; fonda la musica; e
ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie della fraternità in
opposizione alla libertà prote- stante (1517-1573). La
riforma appena vittoriosa è assalita da una reazione : cattolica e
unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi
cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania
Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i
Guelfi francesi i Guisa i Vac- chero, e negli stati guelfi i Ghibellini
spagnoli d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve- nezia. La
letteratura nazionale sta per soccombe- re airinsurrezione dei dialetti;
mentre che la ra- gion di stato liquida senza parere la religione e
spegne il senso morale cogli scritti di mille me- diocrità misteriose; e
la filosofia dà Bruno e T. Campanella : Tuno il martire del
panteismo che afferma Punita della materia e la pluralità dei
mondi; Taltro il rappresentante più grande dei- Tutopia politica dei
popoli latini esagerante al- Tinfihito la fraternità l'unità e il despotismo,
con- tro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero colla forza
della libertà delle federazioni delle leggi (1573-1648).
XIII. Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al
— «37 — 1789 e che si potrebbe definire del
Despotisma illuminato è guidato dalla Francia; la quale in- segna a
tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa che secolarizza lo
stato, la semplificazio- ne del governo colla distruzione
dell'indipenden- za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder-
nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di stato nell'interesse
delle moltitudini. Esso si at- tua in senso inverso negli stati
monarchici e ne- gli stati federali colla centralizzazione o colla
le- galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo- crazia
viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im- pero d'Austria, nei guelfi
dall' imitazione della Francia. I politici della ragion di stato
sospendo- no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal- le
loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu- cono il secolo di Luigi
XIV nella lingua univer- sale della musica diffusa dall'Italia a tutta
l'Eu- ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) : ... La
nazione mantiene ormai la 3ua supremazia coirestatica inazione dei suoi
cantanti. Non si affret- tano mai : gli eroi si precipitano al
combattimento colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po-
tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel- iì, le tenebrose
sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le più vaste
sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle
vibra- zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per- chè
rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle
verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa
abbia- mo l'immancabile reazione (1714-1789) guidata -
138 - dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquista- re
alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i vecchi partiti per
distruggere il nuovo pro- gresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto
in Francia dagli uomini della reggenza e dai filoso- fi
delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Eu- ropa le idee del
despotismo illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia
l'Austria prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Na- poli
diventa indipendente, il Piemonte si ricosti- tuisce e si estende ;
mentre le repubbliche riman- gono indietro attardate dalla loro
retrograda ari- stocrazia. — La nazione rivela la sua grandezza
nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de- spotismo illuminato
mette a livello tutte le società e tutte le religioni; nella poesia con
Metastasio il più tenero nemico degli dei, e con l'Alfieri il tra-
gico poeta della guerra che vuole tutte le idee alla altezza dei nuovi
tempi {Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 595) : Deliziosamente
illusa da queste cantilene rimate [di Metastasio] che svegliavano gli
echi di tutti i teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno
sor- presa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo che
portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orche- stra. Senza musica,
senza cori, senza strofe, senza rime, Alfieri fece salire i suoi attori
su d'una scena squallida triste e nuda; e là quattro personaggi
dalle figure astratte, impegnati in una azione unica stincata
rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquat- tr'ore coli'orologio
alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralità del vizio
vittorioso e della virtù sacrificata — questi miserabili mezzi a
— 139 — controsenso di tutti i pregiudizi fecero
Teffetto di un drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Ser-
se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa- rabile, i suoi pomposi
personaggi furono scompigliati, i loro gemiti sospirosi si fermarono
subito; nessun poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero
soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti, con parole
vuote di senso che si chiamano ancora in oggi le parole — e la poesia
lasciò per sempre le ri- me effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì
ri- dicolmente languide e i cantanti castrati delle cappel- le
principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi- brare la corda della
guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti
cesarei. Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, e- gli
inventava dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo
voleva destare la libertà nazio- nale, che nella sua immobilità secolare
non sapeva- si ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo
spasimante il patito il cavalier servente ed anche il signor marito si
sentirono ridicoli, le civette si mor- sero le labbra, gli abbati si
accigliarono, i patrizi dal- le code impdverate si guardarono intomo, e i
capi- tani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuo- co
sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto del governo, la
tragedia penetrava nei gabi- netti, qualche volta esiliata dalle scene
investiva il lettore a casa sua — e i suoi spettri inattesi gli in-
timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare...
XIV. L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso quando
il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu- zione francese (1789-1858).
Il suo principio con- siste nella divulgazione dei misteri del
despoti- — I40 — sir.o illuminato per modo che
il razionalismo libe- ro pensatore trionfi presso tutti i popoli,
neiristi- mzione del codice che uguaglia politicamente tut- ti i
cittadini, nell'avvento della proprietà borghe- se figlia dell'industria
e del commercio. La rivo- luzione francese ricorre alla forma
repubblicana antipatica alla nazione come a strumento di di-
struzione, finché Napoleone trasporta nella for- ma tradizionale
dell'assolutismo il contenuto nuo- vo, l'ultimo progresso; e lo diffonde
con le ar- mi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi asso-
lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa- nia dal despotismo
della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la rivoluzione
torna al- la sua federazione quasi repubblicana, alle specu-
lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au- stria ritorna alla
patema democrazia e alla bu- rocrazia meccanicamente esatta;
l'Inghilterra ave- va già avuto nel suo territorio la esplosione
che creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri- voluzione
francese ; ma la Russia copia il progres- so francese direttamente coli'
assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia per
distruggere Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro-
gresso ; e ad una prima tenue succede una secon- da più radicale
trasformazione all'unitaria, Anche conquistati i principi nuovi ritoma
con lavorio lento alla sua tradizionale federazione (1789-
1815). Al solito la rivoluzione francese è assalita da una
reazione, che impone alla Francia la liber- tà costituzionale della
dinastia borbonica, e vice- — 14» — versa air
Europa il despotismo; ma essa si avvi- ticchia alle forme stesse della
reazione per com- batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia
colla repubblica che conduce al governo assoluto di Na- poleone
III, presso i suoi avversari col ristabili- mento delle libertà
costituzionali. In Italia abbia- mo pure assolutismo al rovescio della
Francia; ma assolutismo che è costretto a diffondere il contenuto
della rivoluzione, a far riforme ammi- nistrative, ad appellarsi alla
moltitudine che ten- ta di voltare contro i liberali. Però la
nazione volle scuotere questo odioso giogo dell'assoluti- smo e
alla rivoluzione di febbraio corrispose l'e- splosione unitaria del
Piemonte accettata per ri- formare il Papa e l'Imperatore; finché la
religio- ne e la politica federalista si volsero contro Car- lo
Alberto, che trasformava la guerra di libertà - in guerra di conquista
interna non legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da
Villa- franca a Novara si distrusse un regno immagina- rio a
profitto della federazione italiana. Ma il pro- gresso è richiesto tanto
all'Austria costretta alle riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al
Pa- pato compromesso politicamente dalla doppia oc- cupazione dei
due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai principi deir89 per il
rumore confuso delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dal-
la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e i tribuni
scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri, essendo
detronizzati, trovansi nel- la necessità di proporre una più vasta
democrazia per risalire al potere. 142
XV. Il sunto a bella posta diffuso che noi
abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'au- tore
basterà a dare un'idea adeguata della impor- tanza unica di quest'opera,
in cui il Ferrarì di- spiega netta la sua incomparabile grandezza
di storico. Per averne la misura paragonate la sua storia d'Italia,
non dirò con uno di quei manuali in cui i fatti e i personaggi sono
infilzati l'uno dietro all'altro come una corona di nocciole, ma
anche coi libri di coloro che vanno per la maggio- re fra i moderni : con
la voluminosa storia poli- tica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con
la sto- ria del Villari, che passa per il migliore dei no- stri
storici viventi, in corso di pubblicazione a- desso presso Hoepli
(1). Anche per una persona di quelle cosidette col- te che
frequentano le società di lettura e fondano le università popolari la
storia, secondo l'idea che ne ha portato dal liceo, è come una
fantasmago- ria irragionevole, che sarebbe comica se non stil-
lasse il sangue di innumerevoli vittime. II capric- cio la pazzia il caso
sembrano movere questi in- numerevoli fantocci di un dramma senza
processo e senza scioglimento; dove si vedono degli indi- vidui che
si scannano senza ragione, delle na- zioni che si combattono senza sapere
il perchè, delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e so-
pratutto una incessante lotta intema dei popoli {ì) Lf' /mvfsi'oni
barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad Arrigo
VJJy id., 1910, — 143 — contro i governi che
pare non proporsi mai uno scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo
mol- ti manuali di storia sembrano scritti da gente che la pensa
cosi! Ma anche molti degli storici più elevati, più scientifici diciamo,
mancano del me- todo interpretativo in una maniera impressionan-
te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai personaggi
ufficiali per avere almeno una u- nità apparente, è un seguito di
biografie e di rac- contini legati gli uni agli altri dalla
meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo
che i letterati seguaci del cosi detto metodo storico — che è per
eccellenza il metodo antistorico — credevano che la critica avesse
e- saurito il suo compito, una volta dimostrato che la tal canzone
del Petrarca era stata scritta nella tale occasione per quel tal
personaggio; cosi mol- ti storici credono ancora che il lavoro della
sto- ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più o meno
particolare è accaduto in quel dato mo- do, se quella data istituzione
politica era costitui- ta così e non altrimenti. Ma come di fronte
a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi- tà di
completare e integrare il loro lavoro da pu- ri manuali della letteratura
con la ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro
que- sta specie di positivismo storico non sarà mai ab- bastanza
forte affermato che la storia non deve limitarsi alla descrizione estema
dei fatti, ma li deve interpretare spiegare resuscitare, collocare
in una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti
fermate o alle parziali decadenze lo — M4 —
sviluppo continuo e progressivo della civiltil u- mana. Sta bene la
ricerca del documento nuovo: noi non proclamiamo affatto inutile questo
lavoro che è anzi la base necessaria su cui si deve svol- gere il
lavoro veramente storico, ma affermiamo che il documento di per sé è
inutile se non è u- sato, che è muto se non vien fatto parlare, che
deve essere bruciato per rischiarare la storia; la quale non è soltanto,
la Dio grazia, scovamen- to e pubblicazione della nota della lavandaia
di Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di
Simifonti, ma è narrazione dello svi- luppo civile dell'umanità. Non
basta raccontare un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al di
sotto della sua superficie squallida o brillante per ritrovarne l'intima
ragione (1); bisogna i fat- ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un
prin- cipio che è il loro motore e la loro spiegazione; bisogna il
succedersi dei diversi principi, dei di- versi sistemi sociali
dimostrarlo dominato da una legge di continuo sviluppo, di progresso
continuo. Or bene l'opera del Ferrari è un modello in-
comparabile di storia interpretativa, di storia cioè vera. Di
più, il Ferrari è uno storico completo. La (i) Cfr. T. B.
Macaulay: History in Miscellaneous Wri- iififTi — Longmans, Green and
Co.. London, 1906, pag. 139 : Nella invenzione sono dati i principi per
tro%'are i fatti , nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi;
e lo scritto- re che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li
nar- ra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono
semplice- cernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li
pe- netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale che la
mas- sa deriva tutto il suo valore. — 145 —
Storia vera è la narrazione e interpretazione di tutta l'attività
umana, quindi non semplicemente della politica ma anche della artistica e
della fi- losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani-
festazioni. Lo storico completo deve dunque dimo- strare come tutta
l'attività umana di uno stesso pe- riodo abbia unità di caratteri, come
arte e filoso- fia e politica siano tutte dominate da uno stesso
principio storico; questo, come abbiam visto, il Ferrari fa; giudicando
inoltre senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di vista
estetico, il pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma
la sua dote migliore è quella di essere to- talmente libero dai
pregiudizi della morale miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero
ridur- re la storia a qualche cosa come un dramma a fine morale,
con l'obbligo del n*ionfo per perso- naggi dotati di tutte le sette virtù
cardinali e teo- logali. Nulla di più noioso che gli scritti di
certi signori, perpetuamente scandalizzati di fronte al- la vitalità
umana potente nei vizi come nelle vir- tù, perpetuamente predicanti
contro le orge di Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese,
ridotti alla disperazione di dover ricercare a forza dentro i fatti
ribelli il trionfo della loro mo- ralità di scomunicare il 90% della
storia. (La Chine, pag. 14) : ... Non c'è niente di meno
storico che Io scopo morale perseguito sì ostinatamente da certi storici,
i quali trasformano la storia in una specie di catechi- smo. Essa
al contrario ammette tutti gli scioglimenti : A. Ferrari — Giuseppa
Ferrari. 10 — 146 — ora tragica, ora comica, a
volta indulgente e crudele, non si incarica di punire di ricompensare
alcun e- roe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri dei
martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vor- rebbe qui ch'essa
s'inchinasse davanti a un innocente, là che s'irritasse contro un
malvagio, e che si sosti- tuisse a Dio per ricompensare gli uomini
secondo il loro merito; che fosse in una parola edificante per le
madri di famiglia e per i bambini poppanti! Che l'arte debba essere
giudicata da! puro pun- to di vista artistico, la fliosofia dal
fllosoflco, si è finalmente cominciato a capire : pare che non si
sia invece capito ancora che, per intendere e giudicare la storia,
bisogna mettersi da un punto di vista superiore a quello della propria
moralità individuale e contingente. La storia è un tessuto di
azioni pratiche, che io posso quindi giudicare sia dal punto di vista
eco- nomico che dal punto di vista morale ; posso cioè determinare
se l'azione di quel dato individuo fu prodotta puramente da fini
individuali, da Ani universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene
che la moralità è formale, che è morale quello che l'uomo crede e sente
morale; devo quindi ri- nunziare alla mia rivelazione morale — come
di- rebbe il Ferrari — per rimettermi nei panni del- l'individuo
che pretendo sottomettere al mio tri- bunale; e non portare le idee del
secolo XX nel secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valen-
tino coi criteri con cui si giudica un onesto im- piegato municipale
padre di numerosa prole. Ma lo storico non deve limitarsi a mettere
in — 147 — sodo se Gian Galeazzo Visconti tradì
lo zio Bar- nabò per pura libidine di regno o per beneflcare i suoi
popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della tirannia a nome di una più
completa imparzialità ; anche nel caso del resto piuttosto raro in cui
fa- zione sia determinata dal solo interesse individua- le, lo
storico vero deve saperci discernere il bene, quel bene che l'individuo
non cerca e non cura ma che il destino gli impone di compiere, e
che solo permette alla sua azione di essere e le dà un senso. Cosi
si viene veramente a dimostrare che la storia è il trionfo della
moralità, che non è quella degli storici pudibondi; della moralità
che non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta contro il
vizio; della moralità che si vale per i suoi fini di tutti gli istinti,
di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo, condannato dal
destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E veniamo
ora a giudicare il valore della inter- pretazione concreta.
XVI. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor-
tante storia d'Italia era il Sommario di C. Bal- bo (1), il quale in fondo
non è molto superiore ad un manuale scolastico, come del resto
ricono- sceva l'autore stesso: Finché non avremo un grande e
vero corpo dì sto- ria nazionale, da cui si faccia poi con più
facilità (i) Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n,
— 148 — ed esattezza uno di quei ristretti destinati
ad andar per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k> non
so se mi ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa
esser questo (1) e dove lo sguardo dello storico è velato dal
pre- giudizio deirindipendenza. Con le Révolutions d'ItaUe di E.
Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha altro serio punto di contatto che
l'identità del titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va-
ga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia spiega l'Europa — la
sua lotta è per la libertà non per l'indipendenza — Venezia è estranea
al- la vera Italia) si tratta di osservazioni ormai co- muni fra
gli storici, o già anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi
sull'Italia anteriori al 1848 (4). Non parliamo degli storici anteriori
di cui il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione al- l'opera
sua la deficenza interpretativa, per cui al- cuni volevano spiegare
l'Italia col principio del- l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello
del- la Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri- durla sotto la
forma politica dei principati (Guic- ciardini) e altri sotto quella delle
repubbliche (Si- gjmondi). Ma chi ha mai ancora oggi
sessant'anni dopo vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato
da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia e forza di
rappresentazione la storia d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf
Italia, — Bari, Laterza, 1913. Voi. I, pag. 6. (2) Paris, Dagnerre,
1857. (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina
(1765). (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag.
88. — 149 — Chi potrebbe oppugnare la scoperta
da lui fat- ta del ststema politico italiano impiantato sulla gran
repubblica papato-imperiale che ha fatto del- l' Italia una nazione senza
confini, perchè possa diventare U centro d'Europa che irraggia le
sue continuamente nuove creazioni politiche a tutti gli stati? Solo
questa idea può dominare e spie- gare coU'unità d'una legge la esuberante
varietà delle forme politiche che prende lo spirito italia- no,
scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo
quando si parta dal concet- to che gli Italiani lottano non per
l'indipenden- za che sottragga la nazione al patto papaie-im- periale,
ma per la libertà e per il progresso so- ciale, non per distruggere ma
per riformare la repubblica dualizzata che è la loro franchigia ;
di- ventano intelligibili le innumerevoli battaglie che ebbero il
loro campo fra le Alpi e il mare. Non contro il Papa e l'Imperatore che
proteggono la sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al- la
nazione la gloria di essere il centro politico di tutta l'Europa,
combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per conquistare il lustro
vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per
riformare il Papa e l'Imperatore e costrin- gerli ad ammettere grado a
grado nel loro patto il progresso sociale delle nuove forme
politiche create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo
italiano è il gran protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori,
imponendo loro le parti che devono recitare sulla scena mobile ddla
sto- — I50 — ria; che distrugge o chiama gii
stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi
come strumenti per conquistare una sempre più larga democrazia. Tutta la
gran guerra delle ri- voluzioni italiane si riduce, come per Vico la
guer- ra intema della repubblica romana, a un con- trasto sociale
del popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto di razza
perchè il po- polo è italico e romano, l'aristocrazia è formata dai
Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e dai loro
discendenti. Ltt gran guerra contro il regno barbaro estemo dei Goti e Lon-
gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be- rengarì e degli Arduini,
la rivoluzione dei vescovi contro i conti sono nello stesso tempo lotte
di classe e di razza; da una parte il popolo romano, dall'altra i
conquistatori barbari. E poiché i bar- bari hanno piantato piò profonde
radici nelle cit- tà militari da essi colonizzate; la lotta fra le
città romane e le militari si classifica pure sotto que- sta doppia
antitesi; come la lotta ddle città con- tro i CMtdH, dei Cittadini coatro
i Coocttttdini, dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man mano
che si procede nella fusione barbarica, la lotta attenua il suo carattere
di razza per accen- tuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1
castelli i feudatari combtttoti daDe città altari barbare di tendenza si
romanizzano facendo ami- cizia colle città romane; cosicché nell'era
seguen- te noi vediamo la lotta incrociata in modo che nelle città
romane i Cittadini sono romani e i Con- cittadini barbari, mentre nelle
città militari è vice- — 151 — versa ; e nel
periodo ancora successivo il popolo è guelfo nelle città romane e
ghibellino nelle milita- ri. E siccome la vittoria è data all'elemento
roma- no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve- diamo
trionfare le grandi città dell'industria e del commercio; e il progresso
della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi focolari
del- la civiltà romana; finché colla costituzione della lega
federale del 1484 il processo indigeno è com- piuto e i nuovi progressi
della democrazia vengo- no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e
dal- l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai
saputo disegnare con tanta chiarezza i lineamenti della storia italiana,
decomposta cosi nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si-
stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale ma democratica per
riformarlo non per distrug- gerlo, rimangono sempre le due idee che ci
dan- no la chiave della storia nostra. Ma non meno giusta è
l'interpretazione che il Ferrari ci dà dei particolari periodi storici.
Alcu- ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e
concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu- ra scoperti; ma anche
quegli altri che erano già conoscenza acquisita di qual luce non vengono
da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il
difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a
un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu
sempre combattuto dall'espansione originaria no- stra; per es. l'enorme
periodo del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni è da lui
decompo- — 152 — Sto nei due perìodi della lotta
contro il regno bar- baro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui
ha saputo spiegare la gran catastrofe dell* Impero ro- mano, che
percuote di spavento come un mira- colo — dimostrando che fu rovesciato
dai popo- li irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piut-
tosto una invasione stabile che il continuamente rìnnovantesi disastro
delle invasioni maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la
lot- ta delle investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore,
ma dai popoli italiani che si gio- vavano dell'uno contro l'altro per
modificarli a vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat-
to di Carlo Magno la gran rivoluzione della li- bera elezione dei
vescovi? Chi meglio di lui ha saputo ritrovare il filo del progresso
logico in mez- zo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi-
litare ; chi ha meglio di lui definito il periodo del- la decadenza dei
signori come restaurazione pa- paie-imperiale non conquista, perchè
liberamente invocata e accettata dai popoli che non si difendo-
dono nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna il Ferrari è un po'
meno preciso e la interpretazione in qualche punto è ancora sogget-
ta a completamento e a correzione — come egli stesso fa piti tardi,
quando trasporta dalla Fran- cia all'Inghilterra il vanto di essere il
centro d'ir- radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe-
riodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aqui- sgrana (1748).
— 153 — XVII. L'opera del Ferrari è in
conclusione la messa in valore degli Scrìptores rerum Italicarum
del Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che anche oggi è
comunemente considerato dalla gen- te cosi detta di cultura, la quale
giudica coU'oc- chio velato dal pregiudizio classicistico del Rina-
scimento, come un periodo di decadenza di bar- barie di traviamento
mistico. I romantici special- mente stranieri nella loro nostalgia
mistica e nel loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendi-
care il Medio Evo, però più dal punto di vista del sentimento che della
ragione, finendo col consi- derarlo come un territorio di sogno dove la
fan- tasia urtata dalle volgarità del presente potesse ri-
coverarsi, in mezzo allo splendore magico di una società fantastica in
cui un cavaliere poteva col suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero
i cattolici che lo celebrarono come la loro età dei- Toro ; il
perìodo di trionfo delle loro idee; l'età in cui tutta la terra, popolata
di gente che passa- va come pellegrina cogli occhi fissi al cielo,
era sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva imporre agli
imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa è per es. la concezione di
Gioberti che, combinando col sentimento cattolico l'orgoglio na-
zionale, celebrò il Papato come la ragjone della grandezza medievale
d'Italia, dominante il mon- do colla religione come una volta coll'armi
(I). (i) Del primato civile e moraU degli Italiani — Bniael-
Us, 1843. — 154 — Adesso per converso, dove lui
vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla delle
perso- ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco- ra per loro
come un enorme deserto di schiavitù di barbarie di abiezione mistica, in
cui fioriscono non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer-
to punto distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo
riabilitare con così alta giu- stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso
sfata l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando come anche
nei secoli più bui il progresso sociale continui sotterraneo; come il
popolo d'Italia non sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato
libe- ramente le invasioni perchè gli portavano un pro- gresso
sociale, o lottato contro i conquistatori co- sì terrìbilmente da
distruggerli; come egli solo protagonista oscuro e possente abbia creato
e at- terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug- gere il
regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque di far passare
per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle epoche più
teocratiche volto alla terra, si giovava della reli- gione come di
un'arma spirituale più terribile del- le spade gotiche e delle aste
longobarde, per raf- frenare e dominare colla magia di tma
supersti- zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu-
lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani; che poi
al tempo dei consoli, riget- tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si
vol- tava con una energia meravigliosa alle opere del- l'industria
e del commercio e diventava il banchie- re dei re dell'Europa ,ritenendo
la religione co- — 155 — me una tradizione da
cui gli artisti potessero e- vocare un popolo di capolavori — che passò
nove secoli in mezzo alle passioni forse più forti della vita,
quelle della politica, colla spada alla manp. La decadenza poUtica
comincia proprio nel perìo- do del Rinascimento, quando la civiltà
trasporta altrove i suoi centri incendiari e V impulso vie- ne dal
di fuori. Ma decadenza sociale, civile non c'è : come non c'è alia caduta
dell'Impero roma- no, come non c'è all'avvento delle signorie sopra
il comune: il gran processo sociale della demo- crazia aliargantesi
continua, anche se non origi- nario proviene dall'Europa più avanti ormai
nel- la scala storica ; questo progresso sociale della de- mocrazia
si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri romani, delle
città industriali e commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden-
za, non si può quindi accettare l'interpretazione del Rinascimento come
di un movimento che pren- da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la
con- tinuità ideale; anche qui il Ferrari è confermato dai
resultati ultimi dell'investigazione particolare dei nostri storici:
Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente
penetrate e ramiflcate nel ter- reno dell'Italia comunale; come esso sia
intimamen- te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata dal
blocco di marmo. (1) (i) G. Volpe : Bizantinismo e
Rinascenza in Critica, — Bari, Laterza, 1905. Pag. 74.
— 156 — XVIII. Ma il Ferrari non è solo un
interpretatore ih nico, è anche un artista di primissimo ordine,
che il buon Cantoni non si peritava di paragonare per la sua potenza
drammatica di rappresentazione a Shakespeare : D*uno sguardo
psicologico acuto e profondo, d'u- na mirabile facoltà di ridar vita
movimento e colore agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in
ciò le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici, e
avrebbe potuto forse divenire il più grande dei no- stri se un*altra
tendenza più forte non lo avesse spinto alla filosofia : la tendenza cioè
precocissima in lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su-
premi ed etemi che regolano la vita degli individui e delle nazioni
(!) Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a dare una
idea della forza artistica con cui sa ca- ratterizzare uomini e cose,
descrivere città, rap- presentare movimenti politici. Un periodo
ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un sottile
humour tenue come il sorriso d*un uo- mo superiore che compatisce alle
debolezze uma- ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga
d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia
in ogni minimo fatto; la forza dell'immagini che, atteggian- do
come esseri viventi città e stati, vi si piantano nel cervello senza
abbandonarvi più; formano le (:) G. Cantons: (/. Ferrar/,
pag. 87. — »57 — doti di questo scrittore che
avrebbe potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma
immor- tale. Con una fecondità versatilità profondità ve- ramente
shakespeariana egli ha saputo creare una folla di personaggi e
rappresentare una serie in- numerevole di rivolgimenti senza mai
ripetersi, perchè sa colpire nella sua caratteristica la real- tà
che mai si ripete. Per avere un'idea della sua forza drammatica leggete
per esempio la narrazio- ne della lotta di Milano contro il vescovo
papista Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 395) e delle
imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II, pag. 278); per dare ancora un
esempio della sua vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di
Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) : Genova è un magnifico
anfiteatro gettato fra il mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti
non possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza
ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che riuniscono tutti gli
estremi della miseria e della mu- nificenza. Nei loro viottoli stretti
neri fangosi inac- cessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi,
che disegnano le linee della loro abbagliante architettura sulle
case piccole e misere che li accerchiano da ogni lato; le due riviere ci
versano i loro marchesi, che vi si incontrano alla ventura colia
moltitudine cen- ciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città
on- deggia dall'aristocrazia alla democrazia come una go- letta di
smisurata alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare l'ondulazione
dei consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco
fino a insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo
al De Saiictis in cui il D'A- - 158 - nunzio
poteva notare tante manchevolezze artisti- che e stilistiche da presagire
a torto la sua dimen- ticanza, il Ferrari — anche dovesse la sua
inter- pretazione essere dimostrata falsa da una critica superiore
— rimarrebbe ancora immortale in que- sto capolavoro, che continuerebbe
ad essere let- to come uno dei più bei romanzi storici d* Italia.
XIX. Eppure con tanto valore artistico e storico que-
sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima e- dizione francese fatta
per T Europa, né nella se- conda edizione italiana. Quello che è il suo
pre- gio caratteristico fu appunto la causa del suo in- successo*,
la concezione filosofica cosi profonda che era a base del suo lavoro di
interpretazione rese quest'opera inintelligibile in un periodo di
barbarie, in cui il positivismo dominante ottun- deva tutte le menti : la
sua altezza cosi serena di giudizio Io fece trascurare da quegli uomini
an- cor tutti accesi delle passioni politiche dal cui coz- zo
usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la recensione larghissima di
G. Rosa alla edizione del 58; essa univa a qualcuna delle solite
imman- cabili osservazioni di dettaglio la critica di uno che,
irretito ancora nei pregiudizi comuni della nazionalità e del liberalismo
astratto, pare spa- ventato che si possa refutare l'apologia dei
Lon- gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; seb- bene abbia
una certa confusa sensazione che in ciò consiste la grandezza del Ferrari
: — 159 — Per questa altezza nuova, per
Tindipendenza dalle idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente
noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se non possiamo
accettare tutte le di lui argomentazio- ni, se anche tutte le di lui
teorie non reggeranno al- la prova della scienza storica progrediente;
egli avrà prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e-
ducato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle tradizioni
tiranniche dei partiti nazionali e sco- lastici. Per lui i giovani
apprenderanno a contem- plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a
quel- la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas- sioni,
dove il male parziale appare coordinato a più vasto bene (1).
Gli accade in piccolo e in breve come a quel Vico ch'egli
venerava col nome di maestro: trop- po alto per il suo tempo non venne compreso.
Anche coloro fra i moderni che citano questa sua opera, come per es. il
Romano (2) o il Gianani (3), paiono non comprenderne affatto la
terribile profondità il metodo l'interpretazione — e somi- gliano
un po' a fanciulli che giochino colla cla- va di Ercole. Solo uno
straniero, che amò e stu- diò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di
quella Renaissance in Italy non meno importante del piiji noto
lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione dell'importanza di questo
libro. Infatti come nel- la prefazione del I voi. (L'era dei tiranni)
ricor- (i) Archivio storico italiano, — Firenze, 1858. Nuova
se- rie, tomo 3, pag. III. (2) Le Invasioni barbariche. —
Milano, Vallardi. (3) / Comuni, — Milano, Vallardi.
— i6o — dava espressamente (1), nel cap. II {La storia
ita- liana) ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento
o dilucidazione tutte le grandi idee» però da un punto di vista un pò*
meno alto e non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu-
ne, e nel seguito del volume non ne tiene molto conto.
Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne sono diversi molto
meritevoli per ricerche parti- colari, è riuscito a sollevarsi
all'altezza del Fer- rari che rimane ancora unico solitario gigante,
per darci un'interpretazione completa della storia d'I-
talia. O meglio ci fu uno che tentò sebbene con for- ze
inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a u- na folla di positivisti
che abbassavano arte e sto- ria alla portata dei loro intelletti piccini,
Oriani ben comprese — e l'aveva appreso in gran par- te dal Ferrari
— come la storia sia interpretazio- ne, spiegazione, visione dall'alto,
resurrezione se- condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno
di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la condotta poco
delicata di quello verso quest'ulti- mo, rammentato con citazioni che
nascondono più che rivelare la derivazione, non deve indurci a
negare il valore storico all'autore della Lotta pò- (i) J.
A. Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). —
Torino, Roux e Viarciigo, 1900, pag. XX: Debbo anche manife&tare
speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei non pochi
{^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrìtto per la seconda
edizione di questo volume, (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna,
Gherardi, 19 1 2 — Pag. 168. — i6i —
litica. Esso fu il solo degno continuatore di Fer- rari;
continuatore in quanto non propriamente storico del Medio Evo — i libri I
e II della Lotta politica come è stato dimostrato (1) non sono al-
tro se non un riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran
predecessore — ma storico del Ri- sorgimento italiano. Ad ogni modo, per
quanto sia runico che possa tentare la prova del parago- ne, Oriani
soccombe; come storico per l'inegua- glianza deirinterpretazione ora
indovinata ora su- perficiale, come artista per la non rada
enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente pre- cisione
lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un po'
meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del su-
blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran- dezza va accompagnato a
una calma serena, a una specie di fine bonario umorismo che sa tro-
vare l'uomo magari contro il suo volere benefi- co anche sotto i cenci
del mascalzone. Oriani ha della storia solo il senso tragico; brontola un
po' troppo; troppo spesso va in collera col passato; non sa
mantenersi cabno davanti agli errori dei suoi personaggi, errori spesso
imposti dalla storia che qualche volta egli vorrebbe correggere.
Que- sti difetti sono più sensibili nei due primi libri per
mancanza di quella conoscenza diretta che è necessaria alla storia. Dopo
si va avanti meglio, ma anche qui c'è da notare un po' di semplici-
smo e astrattismo, più nelle forme che nel con- ci) l.
Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella Voce, 1908, Num. 17, 18,
19. A. Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11 — 102
^ cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco delta
rivoluzione del 48 la sua forma federale, mentre poi nell'esposizione fa
vedere come fu l'e- quivoco del popolo e il tradimento dei
prìncipi. Ragionando a questa maniera vedrebbe più giu- sto il
Ferrari che pensa precisamente l'opposto. Certo qualche po' delle lodi
che danno all'Òrìani storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte-
^ se (2), spetta di diritto al Ferrari, di cui sono tre fra le
immagini che quello cita per dare un esem- pio della forza
rappresentativa del suo autore (Venezia — I Condottieri — Silvio
Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa
l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva, perchè nulla c'è al
mondo di definitivo, né la vi- ta né la filosofia né l'interpretazione
storica. Ma come una filosofia è viva finché non è sorpassata e
inverata, così una storia. Orbene — prima di buttare il libro del Ferrari
fra le anticaglie — bi- sogna averlo sorpassato, e finora nessuno non
so- lo non Tha superato ma non si è nemmeno solle- vato al suo
livello. Noi consigliamo quindi a stu- diarlo: primo per imparare il
metodo di Inter* pretare la storia ; secondo per meditare la sua
in- terpretazione concreta, anche oggi tanto vera che 1 moderni
studi particolari la confermano invece di distruggerla. E non solo in
Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari merita un posto a parte su*
periore ai più famosi : al Macaulay al Mommsen al Taine, per la stessa
ragione che rende il De (ì) La Critica^ genn. i<)og.
(2) La vita e il libro. Parte I. — Torino, Bocca* 1911.
- 163 — Sanctis superiore a tutti i critici della
letteratura^ per il senso filosofico che gli diresse la potenza
interpretativa a risultati così grandi. Per racchiu- dere in una frase il
resultato di queste mie osser- vazioni, Ferrari è il De Sanctis della
storia poli- tica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esi-
tiamo a considerarlo come il più gran rappresen- tante della storiografia
romantica (1), sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma
ancor degno come storico concreto di essere il gran maestro
della nostra generazione. Grice: “I use revolution occasionally – minor
ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that Ferrari was talking of
‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used ‘rivoluzione’! Grice: “Nothing
pleased Mussolini more than the collocation ‘rivoluzione fascista’ – almost as
much as Washington did ‘American revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious
Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe
Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della
RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani –
Vico, Domenico Romagnosi. L’uso del termine ‘rivoluzione’ nella storia italiana
– la rivoluzione dell’unificazione, la rivoluzione fascista – il risorgimento
dell’unita hardly qualifies as a revolution. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762131860/in/dateposted-public/
Grice e Ferrari – l’anarchici di Mussolini -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Arcola).
Filosofo. Grice: “I like Ferrari; he was a philosopher AND a poet – a combo we
don’t find too often at Oxford!” -- Ferrari
(alias Novatore) Renzo Novatore «Oggi
cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei
sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.» Refrattario a ogni
disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi
prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare
nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza
di volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo
portò a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire.
Non rinunciò comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno
dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante
attività meditativa. Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli,
uno dei quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono
sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che
svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo
nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione
idealizzata della donna: «O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci,
ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto
la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole più
bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima
vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere
prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il resto è fango!”
(Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache
s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa
della Madonna degli Angeli nella notte tra il 15 e il 16 maggio: le indagini
dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto
in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Abele
Ferrari. Contrario alla guerra, nel 1915 venne richiamato sotto le armi
ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in
contumacia alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad
amnistia. “E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema
viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la
morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con
piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah,
Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea...
Che cosa idiota morire senza sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla
creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, fu
protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di
alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella
Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non
tenendo conto che allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti
militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne
dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e
di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel periodo molti
lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti
anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse
dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa. L'antifascismo
e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo,
entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e
dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito
piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli
anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva
per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di
Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca, che portava una borsa
piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne
colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva
già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il
colpo, al processo del 1931 costui avrebbe accusato il defunto Novatore.
Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la
caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri
Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di
Teglia, nel genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano
arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro
componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui
carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco
rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo
crivellato di colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Abele Ricieri
Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e
antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare.
Novatore, al momento della morte, aveva con sé una pistola Browning, due
caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto
contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo
nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di
Giovanni Governato. Si define anarchico individualista. Lotta per la
libertà e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento
delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul
popolo: «Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e
impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano.» «Io so, noi
sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che
cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai
capaci di fare.» Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e
iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un
individualismo fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri
membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di
ispirazione anarco-comunista). «L'individualismo com'io lo sento, lo
comprendo e lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né
l'Umanità. L'individualismo ha per fine sé stesso.» (Dallo scritto Il mio
individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per
giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la
realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se
i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia
come un mezzo d'individuazione.» «Nella vita io cerco la gioia dello
spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste
abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi
abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna
anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto
ho considerato me stesso come meta suprema.» Rimaneva salda nel suo
pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità
irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo,
combatteva come un demonio. Su di lui restò sempre fortissima
l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche. Opere scritte Le opere
e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime
fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del
movimento anarchico. Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi
(oltre al già citato "Renzo Novatore", anche "Mario
Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane",
"Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche
dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati
(Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine
Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia),
Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi). Da
ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla
creatore" e "Al di sopra dell'arco". Libri ed opuscoli
Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa,
"Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro
d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra
dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di
Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo
Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario
Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni
di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al
di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione
biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G.
Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla
creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti
scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the
Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore,
introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni
Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose,
dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona,
Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo
NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane,
presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario
biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo
Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti,
citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Wikipedia
Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è
definito come la filosofia politicaapplicata[1] o il metodo di lotta alla base
dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento
dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia
indesiderabile, non necessario e dannoso[2][3][4][5][6][7] o in alternativa
come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione
gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane.[8][9][10][11][12][13]
La A cerchiata, il più celebre simbolo anarchico I fautori dell'anarchismo,
noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni
volontarie[14][15] e non gerarchiche.[8][16][17] Il termine inteso in senso
politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel
1793, definendo negativamente la corrente politica degli enragés o arrabbiati,
gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840 con
Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la proprietà? (Qu'est-ce que
la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione
positiva. Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della
storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco
dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono
differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo
estremo al totale collettivismo.[7] Le tipologie di anarchismo sono state
suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e anarchismo
individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su
classificazioni dualiste simili.[18][19][20] L'anarchismo in quanto
movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La
tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa
si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre
l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario,[21] che
tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi.[22] La maggior parte
degli anarchici sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo)[23][24]
mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra
le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società
anarchica.[25] Noam Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al marxismo
libertario, come "l'ala libertaria del socialismo".[26]
PremessaModifica Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno,
troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue
riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina,
precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo.
Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail
Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai
quattro principali teorici di questa corrente di pensiero.[27] Per quanto
riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX
secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in
inglese come The Ego and Its Own nel 1907[28] e tutte le traduzioni delle opere
sono novecentesche)[29][30] e totalmente estraneo alla nascita del movimento
libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero
individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca.
Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre
dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di
oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti
dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella
relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è
diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici,
se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue
caratteristiche solamente dopo la morte. In realtà, molte idee anarchiche
sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkinche non
esita su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità
bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario. Sul piano
filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la
manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale
che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli
uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi
che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle
classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della
popolazione. Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene
continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad
essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto
all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale;
eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro
il capitalismo e per l'abolizione del salariato. A questa visione è
contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà
e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato non è più
necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un
individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione
dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo
punto di vista è considerato scorretto pensare di poter formare l'anarchia in
un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la
quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare la propria volontà
ma senza mai cercare di imporla agli altri (principio di non aggressione). Il
comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di
individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), ma mai
un'imposizione su altri individui, in quanto con un'imposizione non si avrebbe
più un'anarchia. EtimologiaModifica I termini anarchia e anarchismo
derivano dal grecoαναρχία, ovvero senza archè (principio regolatore). La parola
anarchia per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla
a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma
egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.
Origini dell'anarchismoModifica Storicamente, il movimento anarchico si è
sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle
altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento
moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale
alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte
gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società.
Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le
concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di
cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società
capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda
l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario. Specificità della dottrina
anarchicaModifica L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una
società di uomini e donne liberi e uguali dal punto di vista dei diritti.
Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali
si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono
sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti
che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza
considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni
individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero
mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato")
considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a
causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile. In
quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei
mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che
la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata
dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete",
cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di
tutti. Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia
libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli
anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata
dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica
e sociale – ha scritto Bakunin – perché so che al di fuori di questa
eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il
benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno
nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione
primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso
l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle
associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non
attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato". Per realizzare
una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le
forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica,
ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri
statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono
materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della
società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della
società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e
può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente
divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario
ad assicurare la pace civile. Per la critica anarchica, il ricorso ad una
dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e
alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una
enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera
iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale
burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est
dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato
Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una
malsana finzione (…) L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato
e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere
almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia". Al
modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i
libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di
sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso
la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le
funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente
monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della
società. Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il
punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul
quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha
ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico
praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una
semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé
stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una
collettività umana. Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero
anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza
dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di
organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le
altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni
individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile
la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato,
l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni
permette la sostituzione dello Stato. Essa intende presentarsi come il
complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore
garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il
contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma
effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei
produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di
iniziativa di tutti i componenti della società. Così definito, il
contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di
ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di
regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi
o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa
l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista
di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare"
dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale
organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi
potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società
federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni
sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad
arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli
anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista
verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente
repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per
aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice). Azione
anarchica Modifica
Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i
metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non
giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del
possibile, essere in accordo con il fine perseguito. Lo scopo dell'azione
anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o
la gestione dell'esistente. Nel 1872, il Congresso Internazionale di
Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria
dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi
marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è
la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.
L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni
politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte,
storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo
l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le
condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e
parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione
diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di
potere. I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione
diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace
mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione
collettiva e autonoma dei lavoratori. Gli anarchici non sono e non
aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché
ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio
dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori
prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità
politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo
da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha
sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia
tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle
condizioni di vita e del progresso sociale. Numerosi libertari hanno
visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa
degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione
sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere
realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte,
questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi
hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un
punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo
funzionamento come nei suoi principi: cercare di mantenere la sua autonomia
nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e
nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia
diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione;
darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle
rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare
la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante
poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non
possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve
significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché
ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento
e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel
tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una
pratica conseguente. L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di
lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le
circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro
utili e opportune. Dottrine di carattere libero-mercatista Modifica Le teorie anarchiche di
impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker, che in
un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva
socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza
sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato
libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33],
convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si
distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la
proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che
possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme
conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime
che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due
corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro. «Cos'è la
proprietà? La proprietà è un furto» (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon,
noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori
autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della
proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà".
L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto
non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da
altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come
libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del
proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza
determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel
mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come
scopo. Anarchismo di ieri e di oggi Modifica
Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento
libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici
rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio
internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti
rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la
rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.
L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera
significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia,
l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in
Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia.
Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT),
che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di
aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di
aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e
'30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una
nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in
opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista.
In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco.
Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso
deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale
anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione bolscevica e
l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente
marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le
organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi
nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri
paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al
silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.
In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre
più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco
solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti. La rivoluzione di
Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di
rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie
anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle
organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione
storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del
movimento anarchico nella Spagna di quel periodo. All'inizio della guerra
civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale
anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel
maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595
aderenti, la Federazione Anarchica Iberica(FAI) e la Federazione Iberica delle
Gioventù Libertarie(FIJL). Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due
blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno
ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra
lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha
marginalizzato sempre più le correnti anarchiche. Dopo il Sessantotto,
tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le
idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del
movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come
"autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre
aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione
contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista"
(in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia,
anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio
dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno
coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando
non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il movimento anarchico è
ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del
nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui
nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle
nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e
dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche,
nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche
il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto
protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in
seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel
maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca.
L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado
di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del
nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti,
fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento,
devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra
paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano
riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento
dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà. Note Modifica ^ L'anarchia
è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge
mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il metodo di vita e di lotta e deve
essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità,
variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo
sociale e anarchia, Umanità Nova, Roma, 1922 ^ ( EN ) Siri Agrell, Working for
The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012
(archiviato dall' url originale il 16 maggio 2007). ^ ( EN ) Anarchism,
su Encyclopædia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN )
Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14.
«Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both
possible and desirable.» ^ ( EN ) Paul Mclaughlin, Anarchism and
Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, ISBN 0-7546-6196-2. ^ ( EN )
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McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b
«L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni
forma di autorità, sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale
o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato
il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale il 3 aprile 2012). ^
«Anarchism, then, really stands for the liberation of the human mind from the
dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property;
liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for
a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of
producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being
free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life,
according to individual desires, tastes, and inclinations.» Emma Goldman,
"What it Really Stands for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^
L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come
opposizione all'autorità nel seguente modo: «They found that they must turn
either to the right or to the left, — follow either the path of Authority or
the path of Liberty. Marx went one way; Warren and Proudhon the other. Thus
were born State Socialism and Anarchism...Authority, takes many shapes, but,
broadly speaking, her enemies divide themselves into three classes: first,
those who abhor her both as a means and as an end of progress, opposing her
openly, avowedly, sincerely, consistently, universally; second, those who
profess to believe in her as a means of progress, but who accept her only so
far as they think she will subserve their own selfish interests, denying her
and her blessings to the rest of the world; third, those who distrust her as a
means of progress, believing in her only as an end to be obtained by first
trampling upon, violating, and outraging her. These three phases of opposition
to Liberty are met in almost every sphere of thought and human activity. Good
representatives of the first are seen in the Catholic Church and the Russian
autocracy; of the second, in the Protestant Church and the Manchester school of
politics and political economy; of the third, in the atheism of Gambetta and
the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin Tucker, Individual
Liberty, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019
(archiviato dall' url originale il 3 maggio 2012). ^ Colin Ward,
Anarchism as a Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il
14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce
dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle
forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny
authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the
League's central committee to his full program, but he did persuade them to
accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of September
1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority in both
Church and State» ^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy
of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of
Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books
Ltd. Publishing, 2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy that rejects
authoritarian government and maintains that voluntary institutions are best
suited to express man's natural social tendencies», George Woodcock,
"Anarchism" in The Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society
developed on these lines, the voluntary associations which already now begin to
cover all the fields of human activity would take a still greater extension so
as to substitute themselves for the state in all its functions». Pëtr
Alekseevič Kropotkin, "Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That
is why Anarchy, when it works to destroy authority in all its aspects, when it
demands the abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves
to impose them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free
agreement — at the same time strives to maintain and enlarge the precious
kernel of social customs without which no human or animal society can exist».
Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.org.
URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale il 18
marzo 2012). ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g., illegitimate)
authority, in other words, hierarchy — hierarchy being the institutionalisation
of authority within a society». B.1 Why are anarchists against authority and
hierarchy?, in An Anarchist FAQ. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato
dall' url originale il 15 giugno 2012). ^ Geoffrey Ostergaard, Anarchism,
in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p.
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25, n. 4, 1972, pp. 738-752, DOI:10.2307/446800. ^ Alexandre Skirda, Facing the
Enemy: A History of Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK Press,
2002, p. 191, ISBN 9781902593197. ^ Lo storico catalano Xavier Diez riporta che
la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta da membri di
gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico CNT. Ci furono
anche casi di anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel
Gimenez Igualada che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro
fondatore e primo segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier
Diez, El anarquismo individualista en España: 1923-1938, ISBN 978-84-96044-87-6
^ "Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition"
by Geoffrey Ostergaard, su ppu.org.uk. URL consultato il 24 aprile
2012(archiviato dall' url originale il 14 maggio 2011). ^ George
Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian Ideas and Movements, 1962. ^ R. B
Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in The Western Political
Quarterly, vol. 25, n. 4, dicembre 1972, pp. 743–744. ^ Noam Chomsky, On
anarchism, 2014, ISBN 978-0-241-96960-1, OCLC 872702854. URL consultato il 26
luglio 2021. ^ George Woodcock, L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti
libertari, Feltrinelli Editore, 1966. ^ Max Stirner, trad. Steven Tracy
Byington, The Ego and Its Own, 1st engl ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione
della prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L.
Reclaire L'Unique et sa propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno
successivo, Max Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété,
Éditions de La Revue Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902:
Max Stirner, trad. Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito nel 1911
completo per i tipi della Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding
the Impossible: A History of Anarchism, PM Press, 2010 ISBN 1-60486-064-2 ^
Benjamin Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org. ^ Brown. Susan
Love. 1997. The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the
Market: The Free Market in Western Culture. p. 107. Berg Publishers. Voci
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rali vere SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta” Pisetemenzar © va
Giuseppe Garibaldi A | assonimion i Ami 13]
CRITNTEINTA] Ù o f= Niue] | Senesi Aia MILANO - Dc t9rs. |
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Ia diana + «ho gl chiamerà al elmonto, riaffermeremo ‘ Quatt nurca
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per no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1 Ì ti
romina. ché ancora non perufptione iocolieri della politica
i probleini Nindaedi e) hibertari. ni per l'unità
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ciod'ad alta voce il nostro diritto << ian cittadinanza. nel ‘campo
amerehico — ici iocna ol Gemona € li ls oovre por ‘sui deliicammo, benché
anbor giovani, “per } popoli di Francis, suscità nei eni di nni le nostre
migliori energie ed Hl | ili. commenti ferogi e cati c = ‘batta: vriilrà
È cho4 teotoght dell'a; 1 dì ©mimi del wiorno (scoprirono ì ni ‘nome di
non sappiamo pipì € ita] core, È pattini ddantonto ef vogliono negs-'!
si: manifistsra in talta dr se devanazione; len. 3 dite bed | ed
incitare. all'azione: ta ‘entitoto le oc DALLA SINISTRA AL
FASCISMO TRA RIVOLUZIONE E REVISIONISMO M.IL.R.
EDIZIONI Fenomeno spesso rimosso, quando non
del tutto ignorato, in sede d'indagine storiografica,
l'interventismo di matrice anarchica costituì un filone, minoritario ma
non trascurabile, del variegato movimento interventista rivoluzionario ed
ebbe una significativa appendice nel dopoguerra, allorché numerosi
anarchici interventisti confluirono nei Fasci di" combattimento
fondati da Benito Mussolini. Tra questi, Mario Gioda, Edoardo Malusardi e
Massimo Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo
delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle esperienze e degli
approdi politici (dal sindacalismo integrale e di “sinistra” del
repubblicano Malusardi al revisionismo conservatore e filo-liberale di
Rocca), la loro azione all'interno del fascismo fu caratterizzata
da uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune formazione
anarcoindividualista: una residua eredità “libertaria” inevitabilmente
destinata ad esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della
“rivoluzione” fascista. Questo libro ne ripercorre la.
"comlilisa Niiindi politica, dall'anarchismo al fascismo,
‘attraverso i decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra,
sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più drammatici della
storia d'Italia.
Mita Alessandro
Luparini è nato a Firenze nel 1967. Si è laureato in Scienze Politiche presso
la Facoltà “Cesare. Alfieri”... dell'Università di Firenze ed ha
conseguito il Dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze
della Politica dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività
O didattica e di ricerca. di Lineta
ISBN 88-86873-98-0 © Copyright 2001 by M.I.R.
EDIZIONI Tutti i diritti riservati - Vietata la riproduzione anche
parziale di qualsiasi parte del testo senza autorizzazione.
M.ILR. EDIZIONI - Via Montelupo, 147 — 50025 Montespertoli (Fi) Italy
Tel. 0571 671106 - Fax 0571 675835 — e-mail: info@miredizioni.it
mirediz@logo.it — http://www.miredizioni.it Finito di stampare
dalla Litotipografia SAMBO s.n.c. nel mese di Dicembre 2001
e Alessandro Luparini ANARCHICI DI MUSSOLINI Dalla
sinistra al fascismo, tra rivoluzione e revisionismo
M.I.R. EDIZIONI
INTRODUZIONE Quanto a quello che succederà domani, caro
Berneri, non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per il
passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi sinora, che si
possono muovere rimproveri in anticipo o intentare processi alle
intenzioni. Plechanov, teorico bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico,
si pronunciarono in Russia per la guerra nel 1914; altrettanto
fecero il socialista Mussolini e gli anarchici e sindacalisti Rocca e
Corridoni in Italia [...]. E” consigliabile dunque che nelle discussioni
relative al domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso
coefficiente di male e di bene, di deviazioni possibili e di fedeltà
irriducibili. Gli uomini passano, le idee e anche i movimenti restano.
(Carlo Rosselli, Discussione sul federalismo e l’autonomia,
«Giustizia e Libertà», 27 dicembre 1935) Così, in una
garbata polemica a distanza con l’anarchico Camillo Berneri (che aveva
avanzato dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e
Libertà), Carlo Rosselli poneva l’accento su un principio spesso
ignorato: l’inopportunità in politica (nonché - potremmo aggiungere -
nelle vicende umane in generale), specie in epoche di grande travaglio,
di porre ipoteche sul futuro, semplicemente sulla base di memorie e di
tradizioni più o meno consolidate, di preconcetti ideologici o di
appartenenza. L’interventismo di matrice anarchica, richiamato dallo
stesso Rosselli quale esempio di variabile imprevista, rappresentò
senz'altro, considerato nel quadro storico del movimento libertario
italiano, una “deviazione”, ma fu, per l’appunto, una deviazione
“possibile”. Non già, dunque, un’astrusità incomprensibile, prodotto di
frange corrotte e malvissute, a stento collocabili nella famiglia
anarchica, ma un evento - sia pur anomalo e, al cospetto dell’ortodossia
libertaria, scabroso - riconducibile all’anarchismo e, come tale,
appartenente di diritto alla sua storia. Allo stesso modo, per restare in
ambito interventista, la “conversione” di Benito Mussolini nell’ottobre
del 1914, tenuto conto dell’anima volontaristica e sostanzialmente
antidogmatica, non solo del socialismo mussoliniano, ma anche di larga
parte del socialismo italiano tout court, non costituì poi una così
grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso, una certa sua
coerenza. Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”,
l’anarcointerventismo è stato a lungo trascurato, quando non del tutto rimosso,
in sede d’indagine storica, e solo in anni recenti un ottimo studio di
Maurizio Antonioli ha restituito visibilità e, per così dire, dignità
storiografica, ad un fenomeno che, se non fu certo tale da smuovere
grandi masse (ma tutto l’interventismo rivoluzionario fu, a conti fatti,
espressione di una minoranza), ebbe tuttavia, oltre che una sua
specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla vicenda
interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,
quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente
anarcointerventista (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto
schieramento dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo
momento, provare a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in
relazione all’avvento e all’ascesa del fascismo. Molti anarchici
interventisti, infatti, confluirono nei Fasci di combattimento fondati da
Mussolini (altro motivo per cui l’anarcointerventismo è stato il più
delle volte espunto dai trattati di storia dell’anarchismo), e alcuni di
loro, come Massimo Rocca, Edoardo Malusardi e Mario Gioda, vi ebbero un
ruolo tutt’altro che marginale. Questi tre nomi, pur ricorrendo sovente
(soprattutto il primo) negli studi sul fascismo iniziale, restano
tuttavia, a. nostro avviso, ancora avvolti in una coltre
d’indeterminatezza. In queste pagine si cercherà pertanto di ripercorrere
la complessa vicenda postbellica di Rocca, Gioda e Malusardi —
dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del delitto Matteotti -, senza
mai perdere di vista i loro trascorsi anarchici; un’eredità forte,
conseguenza di un altrettanto forte senso d’identità, che - ci sembra di
poter dire - sopravvisse almeno in parte alle radicali trasformazioni
indotte dalla guerra, finendo per condizionare, ancorché in misura e su
piani diversi, il grado di adesione al fascismo di questi uomini. Per
questa ragione, ad esempio, ci è parso che il caso di un altro anarchico
interventista passato al fascismo, Leandro Arpinati, il cui nome è senza
dubbio più noto dei tre sopra citati, non potesse a pieno titolo
rientrare nelle finalità e nella ratio di questo volume. In altri
termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun peso reale nel
movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia pur in qualche
maniera caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo
e grazie al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo
al culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel
caso di Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel
fascismo essi portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque,
e non avrebbe potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce
delle cruciali esperienze dell’interventismo e della trincea. .
In definitiva, quindi, un’opera su più livelli, che — così almeno
speriamo - dovrebbe consentire di far luce su una componente poco
conosciuta dell’interventismo rivoluzionario prima, del fascismo poi,
sullo sfondo di uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia
d’Italia. INTERVENTISMO Eretici
tra gli eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di
coscienza Pe Lo scoppio della guerra europea sorprese
il movimento anarchico italiano in un momento di grande sforzo
organizzativo. Il tentativo, avviato già all'indomani dell’impresa
libica, di collegare i diversi gruppi anarchici della penisola intorno ad
un programma comune, allo scopo di frenare le spinte centrifughe interne
al movimento e di non perdere i contatti con le masse (proprio mentre lo
spostamento a sinistra del Partito Socialista e la nascita dell’Unione
Sindacale Italiana rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio di
manovra degli anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione
internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze,
che doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e
il successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in
guerra dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per
far argine all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno,
sul piano, cioè, dei rapporti con gli altri partiti dell’estrema
sinistra, che dopo la settimana rossa avevano lasciato intravedere la
possibilità di un’intesa d’azione con le forze più autenticamente
rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la guerra
rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.
Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da «L’Iniziativa»,
organo nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva
sostenuto la necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i
partiti sovversivi”. Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’,
Gioda era un autodidatta ! Su questi punti v.
soprattutto MAURIZIO ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano nel 1914,
in «Storia e Politica», 1976, n. 2, pp. 235-254. Sulle vicende dell’anarchismo
italiano nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO,
Dall'insurrezionalismo alla settimana rossa. Per una storia
dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, 1977, p. 142 ss. 2 Cfr.
MARIO GIODA, La necessità della repubblica. Io difendo il blocco rosso,
«L’Iniziativa», 1 agosto 1914. 3 Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO
STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi ACS, CPC], Busta 2416
[Gioda Mario]. 11 con la passione per le
belle lettere e le scienze filosofiche (un «pensatore... proletario»,
come sarebbe stato efficacemente definito molti anni dopo) ‘, poco
incline, in verità, all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima
della guerra aveva scritto per numerose riviste, non solo di orientamento
libertario, cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla
critica letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità.
Di temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona
vena polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non
riconducibile ad alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente
aperto anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo
strettamente politico, una spiccata e mai celata propensione al
repubblicanesimo. In ogni caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa
ammissione - un “quasi repubblicano”‘, convinto quanto meno che la
rivoluzione dovesse prima di tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”,
è altrettanto vero che, specie dopo 4 Così scriveva
Domenico Ferrara nel 1923, introducendo la prefazione di Gioda — allora
segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino
Quattro anni di passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e
di vignette dai giornali satirici fascisti «Il Pettine» e «Il
Sonaglio». * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi
versi sentimentali una sensibilità quasi crepuscolare. Ancora in età
matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava l’ambizione
di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue
rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Giovanni
Croce, a cura del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino,
Stabilimento grafico Impronta, 1938. ° Gioda era in rapporti d’amicizia
con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra i quali il
vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere
di Bezzi a Gioda si trovano in ERGISTO BEZZI, /rredentismo e
interventismo nelle lettere agli amici (1903-1920), Trento, Museo
trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963. Per
comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli
articoli Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e Il mio
repubblicanesimo, apparsi sulla rivista repubblicana torinese «La Ragione
della domenica», il 30 luglio e il 6 agosto 1911. Nel primo di essi,
scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il
«conformismo monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a
commuoversi per la sorte del re, e aveva affermato l'imperativo morale,
per i «rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere «settariamente
repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della
propria fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico,
ma di ritenere la repubblica — la repubblica sociale — un passaggio
necessario sulla via della rivoluzione, il solo mezzo per giungere a
trasformazioni più radicali e definitive, «senza il pericolo di sfasciare
la rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia
sociale». Le opinioni espresse dall’anarchico torinese su «La Ragione
della domenica» avevano incontrato la disapprovazione di molti suoi
compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Mario Poledrelli aveva
definito «tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una
«balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano (MARIO
POLEDRELLI, In ritardo? Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18
febbraio 1912). Qualche anno dopo Poledrelli avrebbe partecipato
alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e dello
“scomunicato” Mario Gioda. 12 la settimana rossa,
molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA con favore crescente
all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i . apprezzavano e
condividevano l’intransigentismo Lila emi diffusione, il. 15 agosto
1914, dell’appello della DE pel 3 repubblicana per la mobilitazione
contro gli Imperi i ppi far quale riaffiorava prepotentemente l’anima
mazziniana de Lira sog riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni
dell niet seg n fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso
sarebi ero segu sa conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d
nuvia di sa + i decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e
all’adesione di larg; _/parte del sindacalismo rivoluzionario
italiano alla tesi dell’intervento (tanto Te i ; ; li È che
Renzo De Felice faceva risalire proprio al discorso di De Ambris la -
d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà
non meno traumatici, fino alla clamorosa “conversione” di Benito
Mussolini. isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto
e * Il manifesto, redatto da Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa
Hb ripreso nei giorni seguenti da tutta la stampa repubblicana. irc: a on
si a anarchici a questo riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa
% i Volontà», 29 agosto , nel q r i repubblicano e la guerra (« 3 Z
reti cc A icani di i lla causa della rivoluzione, per egli
repubblicani di aver abdicato al : izione rp iti bbri replicò il
repubblic: i sperava definitivamente tramontate. A Fal i ibblicano ©
Me Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli anarchici di
siente si Lac i politica (cfr. Anarchici e socialisti, «Il tig 6 Sene ati
; sai pei pipi inelli i i più ivi trema sinistr: , que @ due dei
nomi più rappresentativi del es ù £ peri ohba Halo ad Ancona, città
simbolo della settimana LA san 5 ) . . . . . i i i i i i giorni gli
ambienti sovversivi. a del clima di forte tensione agitante in quei gi i
: cine par iù n quanto inattesa, ripropi a ‘odotta dalla guerra,
tanto più dolorosa i I |‘ i divisioni del srt che la comune battaglia sa
coord pa via utili panta ui is, segretario della Camera agosto
Alceste De Ambris, segi della ( T n an Sirigenti del sindacalismo
rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe ema “I sindacalisti e la
guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn della erra
rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA
dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A i Cat io
alla tesi interventista di De E : Carrara, nettamente contrario al i
A Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re
i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti, ”USI, in luogo di
Tullio Masotti. De b i a ne) Em " Coni, Cesare Rossi, Michele
Bianchi, Edmondo Rossoni) pe prio Di pia de «L’Internazionale», organo
dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n opera della frazione
interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di i i ioni si li
repubblicane. , rimas seguito anche le organizzazioni sindacali ì :
i ufficiale prese a pubblicare «La Guerra di com a sta o se Di >
rd ? i is è ri to in « i; k conferenza di De Ambris è riprodoti vin
internazio: ; sto | . n sn commento di parte repubblicana, significativo
in vista o ge So dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo
Una voce sindacalista, «L’Inizia ; agosto 1914.
13 Li H x ) rs sian Belgio € n Francia ad opera
dei tedeschi determinò la 1 posizione a favore dell’Intes i i Sr a
da parte di alcuni degli ini più rappresentativi dell’anarchi “qualiv
iS chismo, non ‘solo fi i i Pi Db? 9 10, rancese, tra i quali
Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il rio
“colonnello” della Com ichi o) e 1 une. Le loro dich ioni Poni a Cc
€ ichiarazioni, che a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari
europei verso di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e
mezzo, ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei
» suscitarono polemiche e divisioni i dici” ni anche tra gli anarchici
italiani primo intervento eterodosso di ico i dia i 1 segno
anarchico in materia di i neutralità fu opera proprio di io Gi Reit
i io di Mario Gioda. Ad ui i i ì fu o c i na settimana dal on
\ suo articolo BIO Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale
periodico go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e
devastante He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione
austriaca , anche gli anarchici impu i i i } >, pugnassero le
armi per difendere il È ici i il suolo azionale ‘. «La Folla», la
rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo Sì »8
assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di
precisare In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di
molti — è ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi
Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i ILL pposizione socialista e
democratica ne’paesi I social esi dell FEFUIONIA imperiale e delle
quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia
S : Ag its do UGO FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale
Italiana. HI, in® Rec ana ngi ni Vac i due volumi di RENZO DE FELICE Mussolini
il nario, , Einaudi, , p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i rig
nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si ,
per il valore della testimonianza, ARM o di (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp
v [ANDO BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa reo) be fog la luce il
28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti (cfr. Gli anarchici
intelligenti son “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate j
ale», 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento anarchico itali i i
GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: ’arti i nba } _In
particolare, l’articolo di ERRICO ; governo, «Le Réveil communiste- i
i N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915 si n arts rie sea Li n.
ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera, aveva contribuito
alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai
12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I torinese).
Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese). mentali, per pporto tra
l’anziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli articoli di quest’ultimo
Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa = inni i ll o 1911. Su
questo punto v. altresì Miano i LI, rchici italiani e la prima guerra
mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’
Anarchismo», 1995, TCA ig 14 di difendere domani la
nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità di essa,
nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],
reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità" Gli
articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di
posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza
fra l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella
Giacomelli, una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì
ben presto anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e
amico di Gioda, recandovi nuove e più profonde inquietudini".
In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese
del compagno. !* MARIO GIODA,
Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9 agosto 1914 U Sul numero di
«Volontà» dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin
(pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da
Hervé a .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni
articoli di Mussolini che lasciavano intravedere un possibile
allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva paragonato il dubbioso
direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé, l’araldo dell’antipatriottismo
estremo, arruolatosi volontario nell’esercito francese subito dopo la
dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato
con una lettera nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di
Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza di «Volontà», che, nel mentre
accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non aveva
esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trovò
spazio in un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!!
Da Hervé a Mussolini: da Mario Gioda a Oberdan Gigli, «Volontà», 22
agosto 1914), molto critico nei riguardi di Gioda e degli altri
sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una
lettera dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo,
affermava però il dovere degli anarchici, proprio in quanto tali, di
difendere la causa della libertà - rappresentata dalla Francia e dai
popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi
avvenimenti v. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra
mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella
Giacomelli (1914-1915), in «Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1994, n.1,
pp.7-33. !5 Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era
nato a Gallarate nel 1883, ma si era formato a Genova, dove la famiglia
Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere mite e
la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo
dell’intellettuale che dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di
farsi strada con sicurezza negli ambienti anarchici del capoluogo ligure,
con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo. Nel 1902
la Prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: «Individualista,
professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca
influenza sui correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma
anche in provincia [sell instancabile nella propaganda delle teorie da
lui con calore professate, esplicando tale propaganda con buon profitto,
specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta 2407 [Gigli
Oberdan]. 15 I problemi dello
spirito — affermava — sono tramontati per ora: forza e della razza e
della nazionalità ritornano a predominare coi ferocia. I valori sociali
hanno subito un'inversione. L’internazion spezzato [...]. Chi doveva non
ha fatto il suo dovere; neppure noi'° i problemi della n
raccapricciante alismo operaio è Agli anarchici - concludeva
Gigli - restava da riscoprire la loro «comune anima umana», non
escludendo l’opportunità di combattere gli invasori austriaci
(quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non governative»), il
giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!”
i Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li
Il concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il
crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero
ancora ai rt le questioni della libertà e dell’indipendenza
nazionali. son L’anarchismo — sosteneva l’autore — non rinnega, ma
supera il concetto di patria: rinnega però il patriottismo, che è
concezione perfettamente borghese e sibi la rivoluzione liberatrice anche
contro i connazionali [...]. Ma l’anarchismo curdo me, è una filiazione
della filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon presupporre
una società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia
ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i
roblemi essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter
liberamente clara verso sistemi libertari. E fra tali problemi v
quello delle nazionali la risolvere libert: fr: I bi è Ilo dell pi
Il lità, da risol A Tar n 1 Un eventuale Vittoriosa
invasione delle armi austro-tedesche non solo cn lasciato
drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto . TEC . .
Z il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì
determinato un ' «Volontà», 22 agosto 1914.
un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era
inserita insieme que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella
Giacomelli, /n pieno patriottismo!!! dr parole di Gigli la redazione di
«Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi esu rilusi i
fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece
seguire una de i aperto disappunto. «A noi pare — vi si leggeva — che la
situazione di quelli che, come io x e Gigli, si lasciano trasportare dal
sentimento patriottico [...] sia la medesima di quegli E rici che, tempo
addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei
cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire
simpatico; ma esso esula dal compito specifico degli anarchici
divi ‘on questo incoerente se si arriv: i anarchici, e può ‘entare
c P qi Incoe; si ‘a 18 Ibidem, 5 settembre 1914
16 regresso: l'avvento, anche in Italia, di un
sistema «feudale e militaristico» sul modello di quello degli Imperi
Centrali. Impedire che ciò avvenisse aveva di per sé un valore
rivoluzionario; significava combattere per la causa anarchica e, allo
stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento, riportarlo a contatto
con le masse, ravvivato «alla fiamma dell’umanità dolorante»!?.
La condanna fatta seguire dalla redazione di «Volontà» alle parole di
Gigli hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava
il giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Mario Gioda ed
Oberdan Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo
italiano”, segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento
libertario. Maria Rygier, intanto, già paladina
dell’antimilitarismo e, in assoluto, una delle personalità più stimate
del campo rivoluzionario”, aveva firmato un sorprendente ‘articolo per
«Il Libertario» di La Spezia”, nel quale, richiamandosi alle «tradizioni
garibaldine del Risorgimento», aveva plaudito alla fine della Triplice
Alleanza, il «patto infame» già vincolante l’Italia agli Imperi Centrali,
auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, «i carnefici di
Oberdan»? La Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze
in Francia, dove era stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove
pare avesse rinsaldato i suoi legami con i gruppi herveisti e soreliani e
con la massoneria francese (con cui sembra fosse in rapporti già
dall’anno precedente), legami comunemente ritenuti la ragione principale
della sua — invero repentina — conversione !°
Ivi. 20 |a stessa Nella Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li
aveva definiti «i nostri migliori uomini»; mentre Errico Malatesta, nella
suà prima affermazione ufficiale contro la guerra (l’articolo Anarchists
have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre della
rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari
italiani), si rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero
dei «compagni che amiamo: € rispettiamo profondamente». ?!
Maria Rygier, nata a Firenze nel 1885, aveva militato nelle fila del
sindacalismo rivoluzionario. Nel 1907, con Filippo Corridoni, aveva dato
vita al giornale antimilitarista «Rompete le file!». La sua fervida
propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la campagna in favore
di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa
il carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli
ambienti sovversivi. Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr.
FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, // movimento operaio italiano.
Dizionario biografico (1853-1943), Vol. IV, Roma, Editori Riuniti,
1975-1979, ad nomen. 22 Per una breve storia de «Il Libertario» v. GINO
BIANCO, CLAUDIO COSTANTINI, Per la storia dell'anarchismo. «Il
Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in «Movimento
Operaio e Socialista in Liguria», 1960, n. 5, pp. 131-154. 2 MARIA
RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, «Il Libertario»,
13 ngosto 1914, 17 all’interventismo. «Nei mesi
che intercorrono tra la settimana rossa e il suo ritorno in Italia nelle
vesti di propagandista dell’intervento — ha scritto a questo proposito
uno storico dell’anarchismo — Maria Rygier trova la sua strada proprio
con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente di
Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà
assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’
Avanti!”»?, A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati
al fenomeno dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti
la svolta della Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha
scritto né più né meno di «tradimento nero, mercanteggiato,
prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in considerazione del ruolo che
molti anarchici interventisti ebbero nel fascismo, non è difficile capire
il perché, a posteriori, si sia finito semplicemente per negare loro il
diritto di cittadinanza nella storia dell’anarchismo italiano. Senza
dubbio, al di là delle durissime e 2 Gino CERRITO,
L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL,
1968, p. 34. È Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria
al movimento interventista, fu uno dei motivi dominanti della polemica
che precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti pensare alla nota
questione dei fondi de «Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier,
quel che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli
ambienti dell’emigrazione italiana in Francia, specialmente con i gruppi
socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la questione dei rapporti
tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era
sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico
Raffaele Nerucci, si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario
interventista italiano, accusato dagli avversari, fin dal suo apparire,
di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista dell’«Avarti!»,
commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un
numero unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21 marzo
1915), rimproverò a Nerucci e agli altri interventisti rivoluzionari
marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché del sostegno
del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia,
«Avanti!», 30 marzo 1915). Personaggio ambiguo e contraddittorio,
Raffaele (in realtà Raffaello) Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto,
in provincia di Firenze (oggi Pisa), nel 1876. A Marsiglia, dov’era
emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva
a lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che
l’ambasciata italiana aveva definito «audace e pronto», ma anche della
sua spregiudicatezza (pare, del resto, che egli fosse in qualche modo
legato alla malavita locale). Negli anni tra il 1906 e il 1910 Nerucci
era stato corrispondente da Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario»
e de «L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio
di combattimento marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per
indegnità morale e politica». Condusse il resto della sua vita sotto
l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526
[Nerucci Raffaello]. ° PIER CARLO MASINI, Gli anarchici italiani fra
interventismo e disfattismo rivoluzionario, in «Rivista Storica del
Socialismo», 1959, n. 5, p. 210. 18 comprensibili
polemiche del momento”, che hanno spesso sisi anche nel tono, i giudizi e
le interpretazioni successive, la scelta i campo c Maria Rygier, per
quello che il suo nome evocava nell immaginario simbolico dell’estrema
sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe riassorbito, cui può essere
paragonato (ma solo in minima parte) quello a fece seguito alla
professione di fede interventista di un altro protagonis delle battaglie
antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn Circa le ragioni
ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il mutato
atteggiamento della Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e stata
sindacalista rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga
46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti
rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come
emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr
precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,
appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan veste
della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei
medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino -
come vedremo 2a n la confluenza di tutte le [ *interventismo rivoluzionario
ne È i manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li
lettera di adesione alle tesi di Alceste De Ambris, che ella pn 20
agosto, all’indomani della discussa conferenza milanese del dirige
i i i i i in «Volontà» del 19 2° Basti, al riguardo, ciò che
della Rygier preti slo sini settembre 1914: «Io trovo in te solo un
merito: que î i i al tuo dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino
alla radice dei capelli per morbosità di i i; inti i spirito».
NOILIA . sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG 27 Il
caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria
i i impatie anarchiche, eri San Leo di Romagna a motivo delle sue
simp: T i Ma i imilitari È inistra (battaglia che egli stesso avi
battaglia antimilitarista dell’estrema sinis ‘negre i ie di l
carcere, regolarmente pubblicat limentare con una lunga serie di
lettere dal ere, ) d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di
Augusto Masetti, era sa DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana
rossa. Congedato il no A vs ci de i del sovversivismo; il che
pu era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi
compagni allorchè egli, al Ì » della sorpresa e dello sgomento dei suoi
vec T di A E i i ì tari garibaldini (a ti dove finì per arruolarsi
fra i voloni I prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i *arti
i l'i L’Avvenire Anarchico», 8 g 6 lempio v. l’articolo Moroni
l'ingrato, « i Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO
DETTI, op. cit., Vol. III, ad Oltre i Iniziati i ì ropria penna a
28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa
pci molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente «La
Libertà» (Ravenna), Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero»
(Ancona). 19 sindacalista Ma la Rygier
fu anche i ratrice del Manifesto yg spirat le ‘anife degli
anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3
gli di ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma, le manif
riprende a, ordinandole in fi d prog! 8 Si 5) = 1 gia espresse
nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1 tesi già espresse nell
ed Vol ); L’a Il t 120 sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da
alcuni noti e meno ne del mese, era sottosi ettembre e diff Ila f I
tt tto d. 1 noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac.
I 1 ns d t tal ; sinda alisti, socialisti dissidenti e
repubblicani , e non fu un caso ch Ve pressi In e vedesse la luce
essoché contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista
diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi
Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu ista) del primo Fascio
rivoluzionario d azione internazionalista’’. el testo di Gigli, accanto a
Immagini e richiami della simbologia libertaria, SI trovavano, confusi in
un unico disegno, concetti apertamente democratici e mazziniani («noi
riteniamo che | Internazionalismo sarà possibile solo q o nazioni saranno
libere, P' iché là dove odio divide l’Irredento uando le na: i, po là di
l’odio divid I ‘eden dall’o, ressore, ogni altro problema economico e
politico no! può trovare ppi p! P' liti n ti SO uzione»),
romantiche visioni camicie rosse («la ri Li I, è per mi isioni di camici
(«l I neutralità. 088 P' utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale;
essa (CISA azioni lett ‘gO. ional p legazione tutti solamente ui
bbie iazionale; essa è la recisa neg dello inter nazionalismo mater iato
di solidarietà e sacrificio, che ci ha spinto sui campi della Francia, della
Grecia, del Messico, della Serbia») e roboanti ! p proclam di
stampo roto-mussoliniano («I Inerzia è vigliaccheria e la
neutralità, che ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E?
l’ora ) pop: , ti 1 I 29 ì n E, n kia pon
fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi Ed.Naz.], 12 4.
La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia t i i YG ia
di Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24
drain questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli più di
cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr. ACS, pi
poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25 e firme apposte al
manifesto erano i: e igli i 1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria
Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit
Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len } I
‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini eni Ardisson,
Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle 63 ai DIE i
ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici caiser,
Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i sui intervenzionisti a
suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA appello della Direzione
socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato
dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914 i rivolazionario, ite pp, 250251,
colato REbiz0 DE FELICE, Miasolini:1 20 L'invito
finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la
“loro” Francia, la Francia «della libertà e della rivoluzione»**. Gigli,
in verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre
italiane Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non
fosse ancora il momento per un’esplicita dichiarazione in senso
nazionale”. In calce al manifesto degli anarchici interventisti
figurava anche la firma di Libero Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca.
Se i casi di Mario Gioda, di Oberdan Gigli, di Maria Rygier — e di altri
che ne sarebbero seguiti — destarono lo stupore e il rammarico di molti,
il fatto che Rocca si schierasse per l'intervento non sorprese quasi
nessuno: fu visto, anzi, come una logica cofiseguenza degli atteggiamenti
da lui presi in passato, specie in relazione alla guerra di Libia. Un
giudizio di Camillo Berneri del 1924 (mentre volgeva al termine la
parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in poche parole il
comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma buona
parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.
«Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato anarchico. Fu
individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere,
è però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico
dell’anarchismo V Per il testo completo del manifesto
del 20 settembre v. MARIA RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp.
27-29. Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”,
fu pubblicato a stralci su «Il Resto del Carlino» del 21 settembre 1914
(Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra), su
«Il Corriere della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il
commento del quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i
rivoluzionari italiani si levano in piedi a respingere la neutralità e a
richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar mano alla
Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il
soffio della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella
borghese, quella dell’individuo e della nazione: la nostra!»
Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli
articoli / sovversivi guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui
fece seguito una risposta di Gigli a Mussolini, pubblicata dall’organo
nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei falliti,
«Volontà», 3 ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì UGO FEDELI. Note su!
1914- 1915. Gli anarchici e la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp.
622-628. 35 Cfr. MARIA RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit.,
p.26 36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, «La
Rivoluzione Liberale», 18 marzo 1924. Il profilo tracciato da
Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere personale,
ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della
campagna interventista intrapresa da Rocca, «Volontà» del 5 settembre
1914 lo definiva «un anarchico che... non è mai stato dei nostri»; e
Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano, in suo intervento
su «L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il
diritto a dirsi anarchico, almeno «nel senso scientifico della parola».
Su Massimo Rocca si veda anche la voce corrispondente in FRANCO
ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV. 24,
gra n. che si formarono uomini come Massimo
Rocca e che questi Icolare si pone come una delle fi iù i x i igure
più controverse e a tutt’oggi cin definite della storia politica italiana
del Novecento. seal so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste
condizioni , operaio tipografo come il compagno Mario Gi i i ; io
Gioda, Rocca accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole ‘ lel
‘900, nel momento in cui, insi prime suggestioni nietzschiane e all’inqui
IRR € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si TARA ni nel nostro paese
le idee di Johan C Schmidt mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil
ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de n x Attratto dalle teorie degli
individualisti, che a quelle idee e a iaia i 5 apici Rocca si era
contraddistinto per un’intensa nferenziere, collaborando nel frattem i gi
i ttività d ere, collal po a numerosi giornali o
anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della Folla» di ip ; Pi 1906
al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita PR lata rino del
«Novatore», rivista improntata a un marcato alismo intellettualistico;
esperienza che gli d | istici e gli era valsa lunghe ed acri
polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi
37 è Pics E ; a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico
e le sue proprietà, apparve nel P i Torino, a cura del tipografo modenese
Ettore Z. i, già i gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua
FR pera di Max Stirner, una i i i del Geni met 1a d ner, prima
introduzione al pensiero Ì $ ; pali divulgatori delle teorie
individualiste i i libertario italiano furono - con i i an eri
Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda Sulle fortune
‘e le diverse correnti dell’indivi i ell’individualismo anarchico nel
nostri DA A ’ pu Pena piace alla settimana rossa. Per una storia
dell Di. Italia (1881- , Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i
ici vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf
perg « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i «Il
( fuvil narchico italiano di schietta int i HR ino acri ni sia del 1902
da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad i ovanni Gavilli, cessò le
pubblicazioni cinque anni più tardi i i 7 Vai toi PIER. . ardi. T
CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico » (Firenze,
5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire 1907-1908), «Sciarpa Nera»
(Milano, 1910 veli Gil INIT A | , -1911) e «La Rivolta» (Milano,
1910 ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i 9 i loro
più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i loda. V a ale
a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore oca, 1
protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do) ì convinzione al fascismo
e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi paria ; i ; rtù della stretta
amici Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira gs co dei
sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi 40 : . 13 Ra SS
anni (poi semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la Lr n
Pose A psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi ‘alia per
gli Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i i a i 7 i } e 1910 al
4 de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal
29 luglio al « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù
Libertaria» accusò 22 MRO PEPATE PITT TT ATER
RPVOR polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo
spingevano d’altra parte il carattere irrequieto ed un acceso orgoglio
intellettuale, tipico della sua formazione di autodidatta. Lo
scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e
degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali
si sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente
“tripoline”’'. Con la sua propaganda a favore dell’avventura coloniale,
il solco che già lo Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto
incolmabile. Nell’estate del 1914, tuttavia, grazie anche
all’interessamento di Mario Gioda, aveva tentato di riavvicinarsi al
movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di poter prender
parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze®. Con
ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di
autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva
continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi
anarchico. Rocca e Consalvi d’essersi appropriati dei
fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la rivista. Cfr.
LEONARDO BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, 1972, ad
indicem. dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una
conquista rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli,
Editrice Partenopea, 1912. Rocca era in stretti rapporti con gli
ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi
scritti erano comparsi su «Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo
Oliviero Olivetti e su «La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano
che fu arena d’incontro fra sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra
l’altro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La tragedia di
Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che
Rocca ne aveva seguito con grande interesse l’avventura politica, come
anche testimoniato dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il
«Novatore» di New York nel dicembre del 1910, all’apertura del congresso
nazionalista di Firenze che decretò la trasformazione del movimento in
Associazione. «E’ notevole — aveva scritto Rocca in quell’occasione — che
nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari,
vi sia un Corradini abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed
alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in Italia è un fenomeno
nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col
quale bisognerà confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come
un’onda di sincerità lia, e che non manca d’un lato che
avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia d’Ital onorevole e
grandioso». #? Gioda (un intervento del quale — figurava nel
programma congressuale) av “Gli anarchici di fronte agli altri
partiti sovversivi” — eva accompagnato una nota di raccomandazione
alla lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso
fiorentino. In quella lettera - che «Volontà» rifiutò di pubblicare —
Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire «di spiegazione
fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi
ammesso come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo
assicurando che la sua tesi era «meno eterodossa» di quanto potesse
sembrare € di essere in grado di spiegarsi «fraternamente su Tripoli».
Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra
mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., pp.
92-93. 23 Nelli 7 f 4 7 ell’introduzione a un
suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come La
programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva ritto:
i Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico
senza curarmi dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a
credere che l’anarchismo quale energia. critica di pensiero e di
temperamento individuale, e le affermazione ribelle di valori etici
nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi funzione da compiere, a lato dei
movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo ve ne sia molto oggidì —
fuori degli anarchici ufficiali — nelle minoranze ch formano la parte più
viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i A ; questa
visione concettuale, estetizzante e fortemente elitaria dell
anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo di
dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel
mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli
richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le
posizioni assunte all’inti del ito! interno del
partito". 4 E È n 5 È RSA ott ; “regni;
contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il Punto focale
della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità
formale dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e
l’energia liberatoria dell’anarchism Se l’anarchia rappresentava il mito
elevato a dogma, «una concezione trascendente [ n superiore e padrona
anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104
disposizione dello spirito «l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità»,
incarnantesi nell: rivolta, «nel senso più puro ed etico del termine», al
punto che «tutte le rivolte passate è future, tutti gl’ideali nel loro
senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI libro di Rocca
era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami
esistenti ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo
rivoluzionario), che Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore,
definendolo «uno degli scrittori politici più Nel 1924, in una
lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli
revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda, sei tra i pochi
che mi furono compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse:
tra quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali per disprezzo delle
classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della nazione, ma che
affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive
di allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro
L'anarchismo contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento pagine, ho
ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è oggi il fascista
che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del
sentimento nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta
indispensabile al progres umano [...]; l'immortalità dellò stato e del diritto,
pur attraverso le sue trasbordo fol organo necessario a consolidare e
conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess concretandone
la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le
Pisi veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini
dissolventi; il diritto alla libertà 24 «Non mancherà
di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la quale io
milito — scriveva Rocca all’esordio della sua campagna interventista - sebbene
sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni
sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero
della nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione,
ribadita fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della
natura sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e
l’espansionismo desco in difesa dei popoli latini, dal momento che
«Ia latinità aveva sempre rappresentato la libertà, il progresso e la
rivoluzione»*”. Alla maggioranza degli anarchici rimproverava perciò di.
aver tradito l’eredità e il messaggio ideale del vero anarchismo, «quello
che combatteva Mazzini per completarlo, più che per negarlo»'*, e di
essersi messi al giogo dell’opportunismo ministerialista e del complice
“teutonismo” dei socialisti ufficiali”.
interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e
la legittimità della coazione su chi non si eleva a tanto» (MASSIMO
ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce, 1924, p. 12). 4 LiBERO
TANCREDI, // dovere della guerra, «L’Iniziativa», 29 agosto 1914. Questo
e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta
o rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i
sovversivi d'Italia, Milano, Il Rinascimento, 1918. ‘° Oltre agli
articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa»,
12 settembre 1914, Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3 ottobre
1914, e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione internazionale, «Il
Lavoro», 24 settembre 1914. 4? LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra,
cit. 4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», 19 settembre
1914. L'organo del PRI pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26
settembre. La controversia che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino
Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici favorevoli alla guerra contro
gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni
Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27
agosto e del 10 settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla
guerra). Manni, che aveva effettivamente ammesso di trovare «realistiche
e più positiviste», rispetto alle astratte prese di posizione
dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli
a proposito dell’eventualità della difesa in armi del territorio
nazionale, respinse però ogni addebito Interventista, dapprima con un
nuovo articolo su «Il Libertario» del 24 settembre (La guerra no!), poi
con una lettera di poco successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni,
bisogna dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non
erano granché probanti. Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto
con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un nome noto dell’anarchismo
italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Nel giugno del
1904, il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo,
esercitava il mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione
Generale di Pubblica Sicurezza di non averne fino ad allora segnalato il
caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica». ACS, CPC,
Busta 2729 [Latini Lato]. 4° Per un giudizio di Rocca sulla politica del
Partito Socialista si veda la sua prefazione al volume di EDMOND LASKINE,
/ socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno, 1916, pp. 5-38.
25 L’ardente propaganda di Rocca
per la guerra, propaganda che egli (come del resto gli altri anarchici
interventisti) riteneva potesse indurre la base del movimento ad abbandonare
la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a esacerbare gli animi,
mentre si moltiplicavano le provocazioni e le intemperanze, da una parte
e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria Rygier s’incontrarono
alla Società Operaia di Bologna per una conferenza sulla “Morale della
guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi per la sede
prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da operai anarchici
e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e l’annunciata
discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di
sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra
cui il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la
peggio”. 50 Il 28 settembre si era tenuto a Bologna
un comizio del deputato belga Lorand — in Italia allo scopo di
sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa del proprio paese — in occasione
del quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si
affermava che «i repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e
intelligenti erano per la guerra all'Austria». Il Fascio Libertario
bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le file!»
avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche
gli anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta
era stata pubblicata dall’«Avanti!» il 3 ottobre). ®! Cfr. La
conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5
ottobre 1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di
anarchici, «Il Corriere della Sera», 6 ottobre 1914. Sul
periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione
politica di Arpinati durante il fascismo e le sue radici
anarcoindividualiste, v. STEPHEN B. WHITAKER, Leandro Arpinati
anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in «Italia
Contemporanea», 1994, n. 196, pp. 471-489. Per il resto, le poche notizie
sulla formazione politica di Leandro Arpinati sono mediate dal vecchio volume
di TORQUATO NANNI, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese (Bologna,
Edizioni Autarchia, 1927), un’opera agiografica, scritta nel pieno delle
fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con
molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la
pubblicazione (sembra per volontà dello stesso Arpinati) e mai più
ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da
DUILIO SUSMEL (Leandro Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36
pp. 16-20) a AGOSTINO IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni,
1970). Nato il 29 febbraio 1892 a Civitella di Romagna, in provincia di
Forlì, Arpinati si era trasferito a Torino giovanissimo, lavorando prima
come sguattero d’albergo, poi come operaio alla fabbrica automobilistica
Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei
maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati
si era avvicinato all’anarchismo intorno al 1910, restando affascinato
dalle teorie degli individualisti e divenendo, a quanto pare, grande
ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo anche il primo
contatto di Arpinati con Mussolini, all’epoca direttore de «La Lotta di
Classe», chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella
intitolato ad Andrea Costa. Nell'occasione, gli anarchici locali, con
alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura contestazione,
suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è traccia di quest’episodio
nelle pagine dell’organo socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli
autori sopra 26 PPANTPP 777 VIP PRRPPIA
Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine
Rei effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar — -
campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n
proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i
dopo l’episodio di Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ;
Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >
rapporti con Mussolini e l’«Avanti!» , ottenne anzi il suo per più
yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua
Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i
temp: del suo strappo interventista"‘.
citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata
sunt î E) ri . . A icizi è ipazione di Arpinati alla vita
politica amicizia. Quel che è certo è che la partecipazi T a Fi i
ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino, anarchico italiano,
fatta eccezione per un'occasi x DE dpr arti i i Socialismo e anarchismo
(«L’ Alleanz ; che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt
gent i he rilevante, e che solo l’intervei 20 e 27 maggio 1910),
era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A ità di i notare. Secondo la figlia,
autrice anc! futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na
iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i iscutibile biografia,
l’anarchico romagno i ima 4 a Fira dopo quello famoso della Società
Operaia, in papea RE incidenti, al punto da assumere un nome falso -
Vittorio Neri -, da saga panda all'oscuro la madre delle sue
disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i r ittari ttera a firma È io
padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che si
proclamava «al fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr, i i Italia»
del 25 novembre . Impiegato , comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È
| pi aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di
madre vedova, rese parte alla guerra. i iris fi ida A I} GIà i 6
ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i
gii artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana
bolognese Ure SR ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice
Alleanza. Cfr. «L’Inizi: n ail il i izioni Librarie Italiane, 1954),
Rocca S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni
Librarie » anni cbr scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del
191 pra a pa dr n del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i
ì del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie zi ialista
(firmandosi con gli pseudonimi a collaborazione con l’organo social 1 i
i juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi. , «ve Guidi),
conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin isagli i P in Dieci
anni di nazionalismo — di ui 2g ( avvisaglia — ricordava l’autore in n
eta A is la censura di Mussolini, allora fe; t d'interventismo»,
non aveva passato la cei h IR M Si i articoli // direttore dell’«Avanti!»
smascherato. 9 i Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa aperta a
Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed
del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7
e sd Ai abissi è. nÎ, , o 9 ‘sì questa vicenda v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., € MASSIMO Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura, cit., p. 39 ss. 27 I
casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello
del famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti
ed emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare
gli anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto
guerresco, suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e
ripensamenti, che, se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di
sostegno all’intervento, fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o
non andando oltre un generico - e del resto largamente condiviso - sentimento
di simpatia per la causa dell’Intesa, testimoniavano di un’incertezza
diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata l’asprezza della
prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza di molti. Così,
via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava la situazione
politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei quali, allora
semplici gregari - come Arpinati e un altro giovane romagnolo, Edmondo
Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa °° Roberto D’Angiò, nato
a Foggia nel 1871, era stato redattore de «Il Libertario». La sua
attività si era dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove
aveva soggiornato per quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo,
grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e diretti («L’Operaio» e
«Lux»), a rinsaldare la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e
a Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove
aveva dato vita al foglio «La Giustizia». A differenza di Rocca e degli
altri esponenti di punta dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un
ruolo determinante nella propaganda per l’intervento, ma le sue
dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali
destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo - D’Angiò
avrebbe rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando
anche, senza successo, di raccogliere i superstiti
dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo. Cfr.
ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto
D’Angiò v. altresì LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem. 5°
Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello
di Leandro Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo
Mazzucato si era trasferito a Milano appena diciottenne, in cerca di
miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato dapprima lavoro
nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come
tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava
l’anarchico «Il Grido della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i
primi contatti di Mazzucato con l’anarchismo, testimoniati dalla sua
collaborazione ai fogli libertari milanesi, «La Protesta Umana» e
«L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in
arresto per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della
“domenica di sangue” in Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era
stato condannato a un anno di reclusione per aver percosso un superiore e
internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910
aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il
quale - come sembra - conobbe il conterraneo Benito Mussolini. Nove anni
dopo, scrivendo per l’organo dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia,
Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con queste parole: «Lo
ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel
1910, quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema
di obbrobrio, di patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte
cosiddetta intellettuale del Partito Socialista. Fu una rivelazione»
(EDMoNDO MAZZUCATO, Governo di pigmei, «L’ Ardito», 31
28 proprio nella lotta interventista) si lasciarono
attrarre dal fascino e dalle ragioni della guerra. Fra questi dovevano
emergere due uomini, diversi per indole e per esperienze di vita (e ai
quali il dopoguerra avrebbe riservato opposti destini), ma uniti allora
nella comune battaglia interventista, nella quale avrebbero riversato
tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di Grottaferrata?”, e il
lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del manifesto del 20
settembre. Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti
aveva appena venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco
conosciuto negli ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di
maggior rilievo era stata la collaborazione con il foglio bolognese
«L’Agitatore», per il quale aveva curato una rubrica di corrispondenze da
Lodi, firmandosi con gli pseudonimi ‘Turbolente e Odroade, e rivelando,
già allora, una naturale propensione per la polemica giornalistica”.
Attivo nella propaganda spicciola, specie in ambito sindacale, e noto
alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei comportamenti, il
contributo di Malusardi alla vita politica del movimento libertario era
stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo tenessero in
conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa
importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola
D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva
avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era
stato Massimo Rocca”. ; i Benché influenzato dalle teorie dei
sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo di Malusardi appariva
intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -
maggio 1919). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì dunque
Mussolini nell'avventura interventista e si arruolò volontario,
combattendo negli arditi. Nel opoguerra wi rese protagonista nelle file
del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta 3192 [Mazzucato Edmondo], e EDMONDO
MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE 1934 (per quanto
edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i
rappresentazione significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche
del cl >) a il primo movimento fascista). È È Matino iaia
db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze
personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per
aver a la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti
dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi Paolinelli Attilio].
7 liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al
luglio E nta stato uno dei più importanti periodici anarchici italiani,
potendo contare sul contri uto di alcuni tra i nomi più rappresentativi
dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li da Armando Borghi alla
stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i aveva
occasionalmente collaborato a «Il Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico»
e alla sindacalista «L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca
locale lodigiana. Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].
29 aveva scritto in polemica con un
foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua collaborazione a
«L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione proletaria», avente
per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli nazioni» e per
compito quello «di combattere ogni tirannia”. Noi però — aveva
concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la realizzazione
di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla
realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di
violenza diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine
costituito, poiché [...] fintantoché voi adoprerete la violenza per
sopprimerci, e fintantoché vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre
individui risoluti, i quali, facendo getto della propria vita,
emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!
La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice
e pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle,
l'individuo eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella
simbologia e nella fraseologia dell’individualismo anarchico e già
contenevano, in potenza, il germe dell’anarcointerventismo. Nel caso
specifico di Edoardo Malusardi, si può affermare che ne avrebbero
accompagnato, segnandolo profondamente. l’intero percorso politico.
i Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor
più spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa
rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno
che con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal giovane anarchico
lombardo. che investiva proprio la consistenza e la misura dell’adesione
anarchica alle tesi interventiste, finì per coinvolgere il direttore de
«Il Libertario», Pasquale Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato
alcuni articoli filo intesisti apparsi sul giornale spezzino (uno dei più
diffusi e autorevoli dell’anarchismo italiano) come segno dell’orientamento
tutt’altro che univoco degli anarchici in merito alla guerra europea.
Binazzi fu costretto a replicare che «il condannare e disprezzare fatti
odiosi compiuti dagli aggressori austro- °°
TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale «Il
Cittadino» di sal «L’Agitatore», 28 aprile 1912. vi. °
La prima sortita interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12
settembre 1914 (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre
sulle pagine dell’organo nazionale repubblicano, Malusardi si scagliò
contro Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25 settembre, aveva
definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli
ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più
favorevoli all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi
giomi. Molinari aveva conosciuto Malusardi tre anni prima, in occasione
di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta a Lodi il 26 ottobre
1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. 30
tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era
cosa assai diversa dal far attiva propaganda per l’intervento, con ciò
riaffermando l’indirizzo indiscutibilmente anarchico del suo
giornale. In verità, la condotta de «Il Libertario», improntata,
rispetto a quella di «Volontà» e de «L'Avvenire Anarchico», a una
maggiore elasticità, costituiva di per sé la spia di un non trascurabile
disagio. Non si può negare, infatti, che il foglio di Binazzi — che, come
si è visto, aveva pubblicato il primo articolo “revisionista” di Maria
Rygier — concedesse ampio spazio ad enunciati e proposte che, agli occhi
dell’ortodossia anarchica, dovevano apparire quanto meno discutibili.
Negli scritti di Alighiero Tanini, di Marino Baldassarre e del
socialista-anarchico Giacinto Francia (collaboratori di lunga data del
giornale e figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci, scritti
ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto
violento per 1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove
orde di Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della
civiltà occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal
«pangermanesimo delirante, negatore violento delle razze e del genio
latini»; di Francesco Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani
[...] avvinazzati, due bruti appestati di grandezza imperialista e di
delirio militare»; e si evocava «il tragico lievito rosso» della guerra,
da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche tirannie, la
palingenesi rivoluzionaria”. Il fatto che, col passare del tempo,
queste posizioni si andassero mitigando*° è che Binazzi (come anche ebbe
modo di chiarire nel dibattito a distanza con ©! PASQUALE
BINAZZI, Non equivochiamo, «Il Libertario», 8 ottobre 1914. ©
‘Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività politica e
propagandistica € nonostante la giovane età (era del 1889), godeva di
molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per sottrarsi alle
ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una rubrica
per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana
rossa. Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero]. © le
citazioni sono tratte, nell’ordine, da: ALIGHIERO TANINI, La guerra dei titani,
«Il Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza è morta per il
bene del mondo, Ibidem, 27 iigosto 1914; MARINO BALDASSARRE, /mperialismo
barbaro, Ivi; GIACINTO FRANCIA, l.'apocalisse storica, Ivi. ®
Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino
Baldassarre chiarirono che la loro manifesta simpatia per la Francia e
per il Belgio non celava assolutamente il desiderio di vedere l’Italia in
guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di una
eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a mostrare
la via per una soluzione pacifica della questione nazionale: fare di
Trieste una città libera e del Trentino una provincia indipendente (si
vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero
pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, «Il
Libertario», 22 ottobre, 15 novembre, 17 dicembre 1914; e, per quel che
attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi dell'agonia, Ibidem, 22
ottobre 1914). 31 Malusardi) fosse
personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli anarchici nel
nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che il suo
giornale, si consideri o no un segno di «discutibile larghezza»,
rappresentò, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria
di confronto, anche estremo, sui temi della guerra.
Fondamenti ideologici e riferimenti politici dell’interventismo anarchico
Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era -
come si è già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo.
Poiché l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è
indispensabile cercare di definire i contorni di questa comune matrice
dell’interventismo anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne
i tratti caratterizzanti. A tale proposito, considerata la sua influenza,
è il caso di soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Massimo Rocca,
per il quale, nonostante l’iniziale infatuazione per Stirner,
l’individualismo non s’identificava - e non si era mai del tutto
identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua accezione più
diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di Stirner e
alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli imputava la
responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non riteneva
meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista kropotkiniana) Rocca
opponeva una valutazione storica e “sentimentale” dello stirnerismo, che
sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che costituirà il substrato
culturale dei suoi futuri approdi politici. AI
contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Giacinto Francia (che era nato
nel 1869 a Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga
militanza nelle file dell’estrema sinistra pugliese) non tornò affatto
sui propri passi. Smessa la collaborazione con «Il Libertario», si
schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò volontario nei
reparti garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al
movimento fascista e prese parte, in rappresentanza dei Fasci di
combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale fascista (cfr. «Il
Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea socialista-
anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata
coloritura di destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta
opposizione al regime (anche in virtù di un carattere eccentrico e incline
alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento) Francia visse il resto
della sua vita sotto la stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica
Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia Giacinto]. © Gino
CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit.,
p.37. Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo alla guerra europea
v. anche CLAUDIO COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima
guerra mondiale, in «Movimento operaio e socialista in Liguria», 1961, n.
2, p. 101 ss. 32 Egli — aveva
scritto di Stirner ai tempi del «Novatore» — non predica il delitto pel
delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella
Germania profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua
“potenza”, il suo “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un
significato, una portata non Individuale, ma sociale [...]. L’individuo
di Stirner non è dunque lo scialbo calcolatore egoistico del giorno per
giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo che si erge di fronte
al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha
trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi
simili, dalla gigantesca statura della sua personalità individuale”
Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia
di Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria
nell’esaltazione del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo
significava riconoscere, accanto all’individuo, «ogni entità collettiva,
dalla famiglia, alla classe, alla nazione, cementate e fondate da una
comunanza sentimentale»; significava, in una parola, «negare l’astratto a
favore del reale». Muovendo da queste premesse, Rocca era approdato a
quello che definiva “liberismo rivoluzionario” o “novatorismo”, che era
poi «l’individualismo anarchico ampliato e confrontato con la
realtà». Noi — sono ancora sue parole — affermiamo altamente
l’importanza dell’individuo singolo, quale novatore, inventore e ribelle
[...] Ma comprendiamo pure le folle che rovesciano impetuose un ostacolo
al progresso dietro la spinta di una minoranza rivoluzionaria;
comprendiamo la classe che si materia soggettivamente dell’avversità
sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si forma
per lunga eredità storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato
suo Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo
insomma tutte le rivolte [...]; comprendiamo tutte le volontà di
affermazione e di dominio e le esaltiamo quando sono sorrette da una fede
sincera d’entusiasmo che le innalza al di sopra del meschino determinismo
quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in nome di un
principio confessato e francamente servito sono infinitamente più nobili
e rivoluzionariamente più fecondi dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle
classi corrompendole nella generale mangiatoia”
°" LiBERO TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico,
«Novatore», New York, 16 febbraio 1911. 69 Ivi
Ivi, "Ivi, A proposito dell’individualismo di Rocca si
veda anche il lungo articolo auto-apologetico, Una difesa postuma (agli
ex amici della «Vir»), in «Quand-meme» (un numero unico pubblicato a
Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo
nel quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo
dall’accusa di «morbosità» 33
Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere i
presupposti teorici dell’interventismo di segno anarchico-novatoriano
(quanto meno nei suoi artefici più consapevoli, come Oberdan Gigli) e le
ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi
protagonisti. Quantunque il “novatorismo” fosse il tratto saliente
dell’interventismo anarchico, pure quest’ultimo non può non esser
considerato nell’ambito di quella vera e propria esperienza di
sincretismo politico e ideologico che fu l’interventismo rivoluzionario.
Mentre il riaffiorare delle passioni risorgimentali e dell’utopia
garibaldina fece da ponte tra le forze dell’estrema sinistra sindacalista
e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i miti dell’azione e della
violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo, rimandavano a un linguaggio
e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti quanto ai discepoli di
Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua carica eversiva e
iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici propugnatori
della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del tempo,
in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non
trascurabile nella campagna interventista”. mossagli
dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per l
individualismo, «Vir», marzo 1908, n. 3). Fondamentali, per una
testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli
inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora
segretario del PRI Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito
Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma, Edizioni de «L’Iniziativa»,
1916. ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di
Georges Sorel — e, in senso più ampio, l’ideologia e la prassi politica
sindacalista — v. GIAN BIAGIO FURIOZZI, Socialismo, anarchismo e
sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra
anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla
nascita e all’attività dell’USI, v. anche l’introduzione di Maurizio
Antonioli a ARTHUR LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti scelti, Pisa,
BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici
italiani (1900-1922), Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss. A
partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina «Lacerba», fondata
l’anno precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente
politico, dando un appoggio incondizionato alla propaganda per
l’intervento. Nel quadro di un indirizzo sostanzialmente nazionalista, le
pagine di «Lacerba» non disdegnarono di accogliere posizioni di segno
rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo
settembre, Per la guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della
guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio di Gustave Hervé. Sui
rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto ALBERTO CIAMPI, Futuristi e
anarchici. Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale
e dintorni (1909-191 7), Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1989,
34 Le differenti impostazioni ideologiche, cui
però sottostava una molteplicità di riferimenti culturali comuni,
s’intrecciavano dunque nella complessa trama dell’interventismo
rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani andarono a costituire
uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal” (ovvero guerra e
rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento violento del
militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi), la meta
additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a «Il
Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna
interventista dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra
rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche
dell’interventismo anarchico. Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai
lavoratori italiani”, lanciato a Milano il 5 ottobre 1914, per la
costituzione di un Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista,
punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi mesi, avrebbe messo
radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel
" L'intervista a Ottavio Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e
germinal») si trova in «Il Resto del Carlino» del 25 settembre
1914. La biografia politica di Dinale (1871-1958) offre un esempio
emblematico del clima culturale nel quale prese forma e maturò la
corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,
organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era
stato tra i promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e
fondatore, nel 1905, del primo giornale ufficialmente sindacalista, il
settimanale «La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva Iniziato
la pubblicazione — prima a Nizza, poi a Milano — del periodico «La
Demolizione», caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria
e da frequenti richiami sia all'individualismo stirneriano, sia al
nascente movimento futurista. Interventista, attivo collaboratore del
mussoliniano «Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore
dell’impresa fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921,
Dinale si avvicinò infine al fascismo, diventando amico intimo (e poi
persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu nominato Prefetto del Regno.
Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. II, ad nomen, € ALBERTO
CIAMPI, op. cit., ad indicem. "3 11 manifesto/appello del
Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca, da Decio
Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De
Ambris, Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio
Papa, Cesare Rossi, Silvio Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima
battuta da «La Folla» del 4 ottobre 1914, quindi, sei giorni dopo, dal
primo numero della nuova serie di «Pagine Libere» (la rivista quindicinale
di Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo
articolo, Inchiesta sulla guerra europea, contenente i pareri, tra gli
altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier. Sulla nascita, la
diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il
classico BRUNELLO VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol.
1, L'Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e RENZO
DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo
autore v. altresì il breve saggio L 'interventismo rivoluzionario, in Il
trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, 1968, pp. 271-291. Infine, per
una riflessione sui primi giorni dell’interventismo rivoluzionario v. UGO
SERENI, Luglio- agosto 1914: alle origini dell’interventismo
rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn. 2-3, pp.
525-574. 35 momento gli anarchici
interventisti furono parte integrante dei Fasci, collaborando attivamente
ad essi e intensificando i rapporti con le testate dell’interventismo rivoluzionario.
Nondimeno, essi avrebbero sempre conservato una loro specificità. Alla
fine di ottobre Attilio Paolinelli, con Rocca, la Rygier, Antonio
Agresti” e Torquato Malagola””, pubblicò «La Sfida», “giornale di
polemica anarchica”, un numero unico che, se testimoniava dell’organicità
del manipolo anarcointerventista in grembo al neonato movimento dei
Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarità ideologica rivendicata
con fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle pagine de «La Guerra
Sociale»”*. Poco dopo la nascita de «Il Popolo d’Italia», Paolinelli (che
peraltro auspicava per il nuovo giornale di Mussolini il ruolo di
portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario) scrisse al
direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,
addirittura un precursore ‘°. 7 Il fiorentino Antonio
Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo
rivoluzionario, collaboratore de «La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei
pochissimi contributi di parte anarcointerventista sul conflitto
mondiale, il pamphlet Perché sono interventista. Risposta all’opuscolo
“La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave, 1917 (l’opuscolo
citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino nel 1916
per la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista,
come altri suoi compagni, a cominciare dalla Rygier, Agresti finì per
accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo proposito, una sua
lettera pubblicata da «La Libertà», organo del PRI ravennate, il 5
dicembre 1914). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo,
si ritirò sostanzialmente dalla vita politica. «Da molti anni- annotava
nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma, proponendone la radiazione dal
registro dei sovversivi — si è allontanato dai compagni di fede e non
professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La
Tribuna”, uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].
7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era
nato nel 1876. Come Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò
dall’impegno politico, rompendo i ponti con l’anarchismo. /bidem, Busta
2946 [Malagola Torquato]. 7 «La Sfida» si apriva con una dichiarazione
programmatica — a .firma «gli anarchici indipendenti d’Italia» - e si
componeva di cinque articoli (ATTILIO PAOLINELLI, Comunismo e
individualismo. Ideologie metafisiche e realtà anarchiche; LIBERO
TANCREDI, Dell’anarchismo; ANTONIO AGRESTI, Oggi e domani; MARIA RYGIER,
Per la civiltà contro la barbarie; TORQUATO MALAGOLA, Alle armi!), più
alcuni estratti da Lectres à un francais sur la crise actuelle, un testo
di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano
le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),
comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro
posizioni filo-intesiste. Per le reazioni in campo anarchico ufficiale
all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando «La Sfida». Ritratto del grafomane
pseudo-anarchico Libero Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico», 12 novembre
1914, e Luigi BERTONI, Agli “sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914.
?° «Caro Mussolini — scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti
presento a traverso un foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie
[...]. Il nostro numero unico di Roma, come vedi, precorre il tuo bel
quotidiano» («Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914). 36 ,
Inesorabilmente, più gli schieramenti si andavano
definendo e più l’accanimento col quale il gruppo degli anarchici
interventisti reclamava il diritto alla qualifica anarchica doveva
destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del primo novembre, al Teatro
Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un comizio dei Fasci, cui
presero parte i redattori de «La Sfida» ed altri anarchici dissidenti. «A
proposito di questi ultimi — commentava quasi divertito un quotidiano
liberale — occorre notare che essi sono invasati dall’idea che la guerra
si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e stupore»®°. Le reazioni
degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero attendere”, mentre già
da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di principio e delle
polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di fronte alla
spinosa e assai più concreta questione dei volontari. Anarchici o
garibaldini? ] Errico Malatesta, pur riconoscendo a
Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento la nobiltà dell’ispirazione e
alla loro opera disinteressata il merito di aver educato le future
schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva però gran
simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo
anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo
internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al
mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la “malattia infantile”
dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento
generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto distoglieva i partiti
popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la
rivoluzione sociale”. Certo è che, come il patrimonio storico e
ideale del pensiero democratico risorgimentale continuò ad esercitare un
forte ascendente anche sui più 0° Un comizio al
Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare
soldati, «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914. Alla fine
di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione
Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola
due dei più attivi propugnatori (cfr. «L’Internazionale», Ed.Naz., 28
novembre 1914). dal i ' Al riguardo v. soprattutto OTTAVIO
TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione, «L'Avvenire Anarchico», 5
novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario romano
“Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ «Avanti!» del 7 novembre.
"? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della
Democrazia risorgimentale se ne veda la prefazione a MAx NETTLAU, Bakunin
e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il Risveglio, 1928, pp.
XV-XXXI. 37 accesi
internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il
garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima
guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del
sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani,
i quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni
di politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane,
non deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito
Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al
socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli anarchici
indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa, anche in
seno al movimento libertario sopravviveva, qua e là, un residuo di
mentalità risorgimentale, in cui - com’è stato scritto - «libertà dei
singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui
la pianta dell’internazionalismo affondava le sue radici in un terreno
impregnato più del volontarismo mazziniano che del determinismo del
socialismo scientifico». L’esempio più noto e certamente più
suggestivo di questo modo di concepire l’anarchismo è senz'altro quello
di Amilcare Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo d’altri
tempi, di quell’epoca di mezzo che aveva visto germogliare l’idea
internazionalista dal tronco del mazzinianesimo, sotto il pungolo della
predicazione di Bakunin®'. Quel medesimo clima ideale che aveva generato
uomini come il romagnolo Pietro Cesare Ceccarelli, compagno di Carlo
Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del 8
MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere
di anarchici interventisti (1914-1915), cit., p.82. Su
«L’Internazionale» del 5 dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia
in guerra” - inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di
Alceste De Ambris ad Amilcare Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza
in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario (fu ripresa anche da
«Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo-
intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico
Guglielmo Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario.
«Cipriani — scrisse Boldrini — è l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con
sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti: Amilcare Cipriani è
dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi
uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo
anarchismo del processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua
rivoluzione sociale è la rivoluzione dell’indipendenza italiana, che, con
l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi, per gli uomini
d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di
tutti i popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però
qualunque forma di stato» (GUGLIELMO BOLDRINI, A proposito di
un'intervista di De Ambris a Cipriani, «L’ Avvenire Anarchico», 17
dicembre 1914). 38 , ibdiaibbici.
Matese (di cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva
vestito la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®.
Ma qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari
anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non
avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e
all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,
sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale,
proprio com’era nel costume e nella tradizione del martirologio
repubblicano) ‘, e poi di nuovo, nel 1912, non ancora spentasi l’eco per
le agitazioni antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le
armi contro i turchi!” Sulla scelta di questi giovani, accanto alle
memorie risorgimentali, aveva pesato in modo determinante la concezione
(tipica, come si è visto, ‘* Sulla figura di Pietro
Cesare Ceccarelli v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, 0p. cit., Vol. II,
ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo
v. FRANCO DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma,
Editori Riuniti, 1973, ad indicem. “© Cfr. «L’ Alleanza
Libertaria», 27 luglio 1911. Per il rientro in Italia delle spoglie
di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi libertari
romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato
solenni onoranze funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era
stato motivo di gravi incidenti fra gli anarchici e gruppi di
nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il racconto
che di quell’episodio aveva dato «L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del
favore e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dell’estrema
sinistra libertaria, si guardava al garibaldinismo. «Cosa non può
aspettarsi —aveva scritto l’anonimo articolista de «L'Agitatore» - il
buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e malefica
sbornia di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile.
Infatti si piglia qualunque pretesto [...] per inscenare della
manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca del
nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un
nostro eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda,
insieme ai suoi commilitoni della leggendaria camicia rossa, per
l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla dominazione turca. Ma
il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e
violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano,
cittadino del mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva combattuto,
si era volontariamente sacrificato, per la libertà e l'indipendenza del
popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista, un propugnatore dell’idea
anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e
cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per
donare la tanto desiata libertà a quel popolo torturato dalla barbarie
turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma. l'ornando le sue ceneri
nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del
ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare alla Turchia, da
loro oggi combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di
qualsiasi forma di governo combatté contro di loro» (SPARTACO, // caso
Troja, «L’Agitatore», 15 settembre 1912). N Le insegne rosso-nere
dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra
d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico
napoletano Oreste Ferrara. Cfr. FRANCESCO TAMBURINI, L'indipendenza di
Cuba nella coscienza dell'estrema sinistra italiana (1895-1898), in
«Spagna Contemporanea», 1995, n. 7, p. 67. 39
PROPONI PORN I A dell’anarchismo
individualista) dell’azione anarchica anzitutto come ribellione
istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di
spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con l’epica del
garibaldinismo. Pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mentre
prendevano corpo i primi confusi progetti di una spedizione garibaldina
in Francia e si preparavano le infuocate polemiche dell’autunno, sette
giovani italiani, raccolto l’appello di Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi
per la Serbia, si erano imbarcati alla volta della Grecia e avevano
raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano repubblicani? Erano
anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche tempo dopo — Non
importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione che è gloria
d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del PRI, si
trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale,
un veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla
seconda spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a
Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare
Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il
20 agosto 1914”. «Era anarchico — scrisse di Colizza l’organo
romano del PRI — il suo ideale muoveva verso l’ universalità, ma la sua
anima ribelle sentiva la protesta contro ogni ingiustizia»”'. Molti anni
dopo il repubblicano Aldo Spallicci, che lo aveva avuto compagno a
Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo ideale che merita di esser
ricordato perché rivelatore del modo d’intendere l’anarchismo cui si è
più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci — era Max Stirner
e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato il suo credo
[...]. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul campo
di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come
contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro
il 88 L'appello di Ricciotti Garibaldi, incitante «la
gioventù italiana a prendere posizione di difesa e, in caso, di offesa»,
fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Mario
Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la
vicenda v. ASTERIO MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914:
nel solco della prima guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale
veterani e reduci garibaldini, [s.d.]. * AUGUSTO MENEGHETTI, La
Serbia bagnata dal sangue italiano, «La Libertà», 12 settembre
1914. °° Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza,
fratello di Cesare, Nicola Goretti, Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino
Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la loro fu un’iniziativa
personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti
Garibaldi, infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una
spedizione di camicie rosse in Serbia (e dopo aver preso contatti, a
questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini), già il 9
agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la
quale sconsigliava apertamente l’invio di volontari. °! Eroi
italiani caduti in Serbia, «Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914.
40 turco che aggrediva la Grecia e,
come nell’ultima sua trincea, contro l’austriaco che aggrediva la
Serbia»? La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro
agli interventisti rivoluzionari per una delle loro prime uscite
pubbliche. Il 14 settembre i garibaldini caduti in Serbia erano stati
commemorati alla Casa del Popolo di Roma, in via Capo d’Africa, su
proposta della locale sezione del Partito Repubblicano”. A quella celebrazione,
che fu la prima manifestazione di un certo rilievo dell’interventismo di
sinistra (anticipante, non solo sul piano simbolico e iconografico, ma
anche su quello più strettamente politico, le assemblee dei Fasci
rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni anarchici, fra i quali
Maria Rygier e Attilio Paolinelli”. E’ indice ulteriore delle incertezze
e delle ambiguità di quel momento il fatto che la Rygier avesse il giorno
innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi anarchici
capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno
nettamente contrario all’iniziativa repubblicana” , e che, ciononostante,
ella fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte del movimento.
«I miei compagni — aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla
Casa del Popolo — saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e
gemono sotto le percosse di secolari violenze». L’episodio
aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della capitale,
suscitando in particolare la dura reazione di Aristide Ceccarelli,
personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno
infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a «Il Giornale
d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi
trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in
questo modo: ® In ASTERIO MANNUCCI, op. cit.,
pp. 8-9. " Cfr. «Azione Socialista», 12 settembre 1914 e «Il
Fascio Repubblicano», 13 settembre 1914. I due soli superstiti
della spedizione, Ugo Colizza e Arturo Reali, erano rientrati in Italia
da ochi giorni. Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il
Lavoro», 9 settembre 1914. “ «Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e
«Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare la cronaca della
commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici
“Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”. * Cfr.
«Volontà», 19 settembre 1914. % «L’Iniziativa», 14 settembre
1914. ®? Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri
di Chicago”, operante nel rione Esquilino, gruppo che alcuni giornali
avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione del 14
settembre " Polemiche fra anarchici, «Il Giornale d’Italia»,
17 settembre 1914. 4l In quanto [...]
alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro
l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra,
si convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di
quelle che possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato,
interpretato e letto da alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi
il diritto di parlare a nome di tutti gli anarchici, come se egli fosse
l’unico depositario della verità e della coerenza?” Se la
spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato
clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in
Francia, ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto
del cigno della camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno
utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche prima che la moderna
guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta politica facessero
piazza pulita d’ogni residuo romanticismo. Già ai primi
d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a
Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici, sindacalisti,
socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia, ad
agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari
con organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in
molte località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani,
erano cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia.
L'indirizzo all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello
politico vero e proprio, era dato dal Partito Repubblicano, il quale,
sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle autorità francesi,
mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di Trento e
Trieste, nonché a strappare l’iniziativa dalle mani della diplomazia
sabauda, così accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale
all’interno del Paese e la caduta della monarchia'. All’intransigenza dei
dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il più risoluto
sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito
Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più possibilista) '°°, avrebbe
fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di Peppino Garibaldi, il
maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza perpiessità (legate
più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio), in molti
riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino
°° Ibidem, 19 settembre 1914. 1°° BRUNELLO VIGEZZI, op. cit.,
p. 236. 10! A questo riguardo v. OLIVIERO ZUCCARINI, Storia della
vigilia, cit. 12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralità del
PRI nelle vicende descritte v. anche VITTORIO DE CAPRARIIS, Partiti ed
opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del XLI Congresso di
storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del
Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss. 42
Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese
alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per
accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione
Straniera. Era dunque nata la Legione Italiana, composta di tre
battaglioni, con sede a Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo
di Mailly all’inizio di novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di
netto orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di
settembre e forte di trecento uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre
dietro una precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La
maggior parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come
Massimo Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo
scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino Garibaldi,
in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle Argonne nel
dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte
di Zuccarini, fu tra coloro che più si adoperarono perché la Legione
fosse inviata al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di volontari
altri anarchici, fra i quali sono certi il veneto Gino Coletti, autore
fra l’altro di una breve storia della spedizione", i romagnoli
Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Domenico Pezzi !0 Su
tutti questi punti v. BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 828 ss. La
fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto del progetto
politico repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione
dell’impossibilità, per l'interventismo rivoluzionario, di costituire un
movimento davvero autonomo, in grado d’influire in modo determinante
sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento all'episodio,
sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti
sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di
rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. MARIO GioDA, A
proposito del battaglione Mazzini, «La Folla», 15 novembre 1914).
104 |a data del 14 ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una
nota (sottoscritta anche da Libero Tancredi) con la quale i volontari
raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione ufficiale del PRI,
dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA
DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18. 08 La
Legione Italiana lasciò il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un
lungo temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il
Comando francese da Peppino Garibaldi e quest’ultimo dalla dirigenza
repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un accordo con gli
uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) «per partire
al fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non fosse giunto per la
fine dell’anno, V. OLIVIERO ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi
e il corpo volontari, ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3. + ì 10
Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento
Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla figura di Gino Coletti (che
nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario dell’Associazione
Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di rimandare a
ALESSANDRO LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino
Coletti in una lettera a Mussolini, in «Nuova Storia Contemporanea»,
1998, n. 3, pp. 95-104. 43 e Agostino
Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi) » e
un certo Mario Perati, descritto proprio da Coletti come «anarchico
romagnolo profugo della settimana rossa», che perse la vita nel secondo
scontro delle Argonne, il 5 gennaio 1915". A tal episodio partecipò
anche Massimo Rocca, che pare vi rimanesse ferito!!°. Di sicuro egli si
trovava ricoverato in un ospedale francese il 24 gennaio, quando «La
Folla» pubblicò un suo articolo presentandolo quale «eminente anarchico
[...] disilluso, [...] andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un
ospedale !0” Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre
1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia, nella quale l’anarchico
romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani
erano sottoposti dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto
che la Legione Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera).
Agostino “Tino” Masetti era nato a Ravenna nel 1880. Tra i rappresentanti
più in vista dell’anarchismo ravennate d’inizio secolo, collaboratore
assiduo de «L’Agitatore», amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi,
Masetti, già prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con
i suoi compagni di fede politica. All’epoca dell’aspro conflitto per il
possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo insanguinato la
Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e
lavoratori repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la terminologia
del tempo), Masetti, pur parteggiando per la causa dei primi, era stato
contrario a un impegno diretto degli anarchici in quella lotta, temendo
che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo con il
riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici
ravennati (alimentato dalle simpatie di Masetti per certo
repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre Masetti a
dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro («L’Agitatore» 21 agosto
1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e Masetti era
rientrato a pieno titolo nel movimento. Direttamente coinvolto nei
tumulti della settimana rossa, e accusato di omicidio, Masetti si era
rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata
l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a Ravenna, dove, nel
febbraio 1915, fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario
d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà», Ravenna, 20 febbraio
1915). Richiamato alle armi il 5 maggio 1916, cadde in battaglia nel
luglio del 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti Agostino]. ‘°8
Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi
militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale
godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza nel 1879. Nel
1901 era espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e
dove, almeno sino all’inizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i
contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto
controllo dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo
la guerra, progressivamente abbandonato l’impegno politico, nel 1937 —
dietro sua esplicita istanza — fu cancellato dal registro dei sovversivi,
per avere, fra le altre cose, dimostrato «buoni sentimenti patriottici».
ACS, CPC, Busta 3704 [Panzavolta Agostino]. Domenico Pezzi, al contrario
del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini,
segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle
informazioni della polizia doveva risultare iscritto alla loggia
massonica “Italia” (nota come focolaio di opposizione al regime),
sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente
abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta 3919 [Pezzi
Domenico]. !°° Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915.
!!° Cfr. «L’Iniziativa», 30 gennaio 1915.
gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà
le ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del
misterioso, se le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di
far piena luce sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata
alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli
Interni, la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i
feriti nei combattimenti delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni
dopo, che egli si trovava ricoverato perché «ammalato di febbri»!!?. Il
nuovo caso legato al nome di Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della
stampa anarchica italiana. Ancora a distanza di due mesi dall’episodio,
scrivendo sotto pseudonimo (Dyali) per la milanese «La Libertà», la nota
scrittrice e propagandista libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse
stato ferito in battaglia e affermò trovarsi egli in ospedale vittima di
una angina pectoris, non avendo preso parte ad alcuno scontro ed
essendosi limitato a prestare servizio nella Croce Rossa. «Libero
Tancredi — ironizzava Dyali — fino a oggi ha portato alla Francia un
aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva servire a un
ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del
diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio
anarcointerventista «La Guerra Sociale», sostenendo che, se
effettivamente Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia
respiratoria che da tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli
scontri del 26 dicembre e del 5 gennaio, restando ferito a una
mano!"*. Fu lo stesso Rocca, in una lettera da Parigi del 15 marzo,
a chiarire definitivamente la questione. Egli — raccontava - ammalato
realmente di angina pectoris, cui in Francia si era aggiunta una
«stupidissima» bronchite, era stato ricoverato per motivi di
ll L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier,
sortì come effetto di far nascere nuove discussioni. In risposta alle
parole di Rocca, Aristide Ceccarelli serisse fra l'altro: «Costoro [gli
individualisti] — hanno arrecato danno al nostro movimento più di quanto
non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme»
(ARISTIDE CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, «La Folla», 31
gennaio 1915). !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].
!!! «La Libertà», Milano, 1 marzo 1915. Il «La Guerra
Sociale», 10 marzo 1915. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno
pseudonimo (Emme). ] La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva
avuto un prologo qualche tempo prima, rincora a proposito di Massimo
Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un intervento
della Rafanelli sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale l’autrice
aveva riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei
pontificanti dell’anarchismo», sostenendo però essersi egli, mercé il suo
acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento
anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno —
e quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il
diritto a dirsi anarchico (cfr. EipoARDO MALUSARDI, Per la verità,
«L’Iniziativa», 23 gennaio 1915). 45 MA
A A Ai salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul
campo, ma aveva nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle
Argonne ed era anzi stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera
di Rocca precedette di poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18
marzo 1915"!9, Durante il soggiorno nella clinica militare di
Chatel Guyon, Rocca aveva inviato a «Il Resto del Carlino» una lunga corrispondenza.
In essa, prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario
garibaldino, era giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni
di sapore “libico” (per le quali il garibaldinismo era «l’espressione più
genuina e più profonda del rinascente imperialismo italiano» e
quest’ultimo altro non era che «l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad
evocare una sorta di sovversivismo nazionale permanente e, per così dire,
istituzionalizzato, di cui vedeva il modello proprio nel garibaldinismo e
che avrebbe dovuto costituire, perfetta combinazione tra libertà del
singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una nuova Italia.
Il fenomeno garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le
coordinate del proprio “anarco-nazionalismo” — è un egoismo intimo,
perché lungi d’imporsi collettivamente dalla nazione all’individuo, trova
l’origine e la spinta nell’individuo singolo che sente, da solo, tutta la
propria nazione!" E ancora: Io sogno ed io
scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia
garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione,
della disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di
forza nella nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo
eternamente libero, pur nei limiti della compresa e voluta, perché
necessaria, disciplina"! 15 Una rettifica di
Libero Tancredi, «La Guerra Sociale», 20 marzo 1915. 16 Fatto
rientro a Milano, dove — come si affrettava a comunicare la Prefettura —
era «convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda
interventista. Il 30 marzo era alle scuole comunali di via Circo per una
conferenza sul tema “Classe e nazione”. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. !” LiBeRO TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, «Il Resto
del Carlino», 10 marzo 1915. L’articolo recava la data del 15
febbraio. 18 Ivi, 19 Ivi. In questo stesso
periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi
fruttò a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica
internazionale. Il rapporto fra Rocca e «Il'Resto del Carlino» si nutriva
evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della pubblicazione di
detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente recensito
l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici
per 46 Sono parole,
quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente cogliere
un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca
in seno al fascismo. Le vicende dei volontari italiani caduti
in Francia ebbero larga eco in patria, destando anche a sinistra
un’ondata di commozione (non si deve dimenticare che sulle Argonne
persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in grado di
risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio anarchico
di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai
volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto
di tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del
Lavoro di Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non
approvando «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si
sentiva per questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si
augurava comunque la sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti
mali e di tanto danno»!?!. Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva
la propria totale avversione alla guerra, non poté evitare di esprimere
simpatia e financo «ammirazione sincera» per quei sovversivi, pure
anarchici, andati a morire sui campi di Francia'”°. Sono esempi
importanti, che attestano di un malessere vero, a riprova che spesso,
anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni erano ben più
sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far
credere. La conquista di uno spazio politico Quando
si esuli dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti
interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse
di fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento,
1914), lodandone i caratteri di originalità e di onestà intellettuale
(cfr. ALDO VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre della
vigilia, «Il Resto del Carlino», 9 febbraio 1915). «Il Resto del Carlino» occupò
un posto di primo piano tanto nella “direzione” della campagna per
l’intervento, quanto nel dibattito politico del dopoguerra, seguendo con
interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale dell'estrema
sinistra interventista (a cominciare dal “caso” Mussolini). A tale riguardo
(in merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MARIA MALATESTA, Il Resto
del Carlino: potere politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922,
Milano, Guanda, 1978, p. 301 ss. 120 «Il Solco», 17 gennaio
1915. «Il Solco» era diretto da Ottorino Manni. !:!
ALBERTO MESCHI, Contro la guerra, «Il Cavatore», 9 gennaio 1915.
«Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese. 12 Ancora dei
volontari e la guerra, «Volontà», 30 gennaio 1915. 47
quella corrente politica, in genere refrattaria a precise
regole d’inquadramento e di organizzazione, è difficilmente
quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei
giornali"? e soprattutto dalla rubrica “Adesioni” de «Il Popolo
d’Italia», che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in
atto nel campo libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo
socialista mussoliniano, che aveva iniziato le pubblicazioni il 10
novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici anarchici!”, svelando
una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno scorcio su alcune
realtà locali particolarmente interessanti!”’. ‘2? A
titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani
Duilio Lotti, di Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo
libertario di Santa Croce sull’ Arno (cfr. Ad un emerito girella, «L’
Avvenire Anarchico», 28 gennaio 1915), e Gino Baronti, di Firenze. In una
lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro dall’anarchismo,
dichiarandosi di «idee nazionaliste» (Una lettera significante, «L’
Alfiere», 20 febbraio 1915). L’individualista Gino Baronti, un violento
con numerosi precedenti penali (e senza «alcuna influenza nel partito»,
secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina nel settembre del
1914) si fece strada nel fascismo. Nel 1921 s’iscrisse al Fascio di
combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla
fine della guerra, divenendo capo squadra della milizia. Nel 1926 fu
addirittura chiamato alla segreteria dei sindacati fascisti di Sinalunga
e l’anno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica Sicurezza
come «un puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS,
CPC, Busta 356 [Baronti Gino]. ‘124 Nell’ordine: Pietro
Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo
Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova (22 novembre); L. Navacchio,
«operaio anarchico individualista» di Pisa (23 novembre); Enrico Farè e Aldo
Franceschelli «anarchici novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi,
Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli,
Amerigo Lodenzetti e Edoardo Monaci, tutti piombinesi (25 novembre);
Arturo Ferrari, «anarchico non fossilizzato» milanese (27 novembre);
Leopoldo Facchini, del «gruppo anarchico bresciano» (29 novembre).
Sfortunatamente, con l’eccezione di Pietro Battaglino, la sommaria
testimonianza de «Il Popolo d’Italia» è tutto ciò che ci è stato tramandato
di questi uomini. Battaglino, nato a Novara nel 1890, di professione
venditore ambulante, aveva collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel
campo dell’organizzazione sindacale, nel febbraio del 1914 aveva dato
vita a una “lega di miglioramento fra venditori ambulanti”, aderente alla
Camera del Lavoro di Milano, e n’era stato eletto segretario. Nel
dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di
combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS,
CPC, Busta 407 [Battaglino Pietro]. 125 E? il caso di
Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra
neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti
piombinesi citati da «Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era senz’altro
Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in provincia di Grosseto, era
stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei liberi” e si era
guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa partecipazione agli
imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli
iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato dal Fascio nel
marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS, CPC, Busta 3343
[Monaci Edoardo]. 48 Che le
dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso legate
fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere; come
fece ad esempio l’organo del partito Social Riformista con chiaro intento
provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per
l’intervento) 126. lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche
nei primi mesi del 1915 e il fatto che i nomi più autorevoli
dell’anarchismo italiano sentissero la necessità d’intervenire
personalmente nel dibattito. In particolare, prima con una vibrante
lettera pubblicata su un numero unico dei sindacalisti parmensi!””, poi
con una serie di articoli su «Volontà», Luigi Fabbri dovette ribadire le
motivazioni ideali e politiche dell’opposizione anarchica al conflitto in
corso, contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti,
ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata
puntigliosità'?8. Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra
fautori e detrattori dell’intervento, l’accanimento della lotta, non di
rado alimentata da amarezze e da rancori personali, contribuivano del
resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo 10 «Egli [I
«Avanti!»] — scrisse il 3 ottobre 1914 «Azione Socialista»- ci accusa di
malafede |...] perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra
gli antineutralisti e porta in campo il deliberato dell’Unione Sindacale.
La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di questi rivoluzionari
dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese, crediamo
di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento
i sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi
tutti coloro che rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee
danno importanza nella vita nazionale». ; Ù 127 Si tratta di
«Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 «a cura di un gruppo
di sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea politica di De
Ambris. 28 Si veda in particolare l’articolo in cinque parti Le
idee anarchiche e la guerra («Volontà», 20 febbraio, 6 e 20 marzo, 3 e 24
aprile 1915). Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea
con l’uscita de «La Guerra Sociale», furono bersaglio di molte e
appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale
anarcointerventista (nell’ordine: MARIA RYGIER, Coerenza verbale o azione
liberatrice, «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915; MARIO POLEDRELLI, A
guisa di risposta, Ivi; MARIO Giona, Contro una stupida speculazione,
Ibidem, 10 marzo 1915; OBERDAN GIGLI, Anarchismo: concezione storica e
concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria,
Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra,
Ivi; LIBERO TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per
finire con Don Abbondio e c., Ibidem, 24 aprile 1915). ubi, Circa
la posizione di Luigi Fabbri v. altresì MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici
italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Luigi Fabbri
(maggio-settembre 1915), in «Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1999, n.
1, pp. 71-89. !° Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte
tendenze scaturì dalla diffusione di un manifesto anarchico contro la
guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che ben vengano
i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a portarci
questa civiltà, o sono più barbari e che vengano a civilizzarsi». Mario
Gioda lo definì un «documento 49
clima e su questo sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la
violenta aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa
Finalese, una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove
l’anarchico genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era
conosciutissimo, per avere tra l’altro a lungo diretto la locale Camera
del Lavoro!” Il fatto, condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu
invece accolto con soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi
deplorava il “buon cuore” del foglio anconetano", sia da «L'Avvenire
Anarchico», che laconicamente commentava: «Di fronte a tanto strazio di
vite non ci debbono essere rispetti umani», Nel frattempo il
processo di organizzazione dell’interventismo rivoluzionario e
della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti. Tra il 25 e
il 26 gennaio 1915 si era riunito a Milano il primo convegno nazionale
dei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, al ipa avevano preso
parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno
penoso», esortando gli anarchici «più consapevoli» - fra i
quali annoverava lo stesso Luigi Fabbri, che infatti non aveva esitato a
manifestare le proprie perplessità al riguardo - a non farsene complici
con un «ancor più penosissimo silenzio» (MARIO GIODA, Ben vengano?, «Il
Popolo d’Italia», 22 febbraio 1915). 150 Per la cronaca degli
avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo
d’Italia», 27 gennaio 1915, e Argomenti neutralisti, «L’Internazionale», 30
gennaio 1915. Il 28 gennaio il giornale di Mussolini pubblicò una
«lettera aperta» di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui
collegio elettorale si era verificata l’aggressione. In tale missiva,
scritta all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi
assalitori, in maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In
questa folla feroce — scriveva — non vi è più, se mai v’è stata, l’anima
socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al
Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni
(cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, «Il
Resto del Carlino», 2 febbraio 1915). 13! Cfr. «Volontà», 6
febbraio 1915. Alla riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da
parte degli irruenti neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un
commento significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano —
che è persona di cuore e ragionevole [...] deve pure rendersi conto dei
moventi più intimi del fatto lamentato. Pensi egli all’impressione che
deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo fenomeno, di
vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore
dei loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore
della massima libertà individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e
mettersi a fare una propaganda che, se ascoltato, avrà per risultato
l’abdicazione d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la
guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai».
12 L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», 11 febbraio
1915. 153 GIUSEPPE CHELOTTI, Giuste argomentazioni, «L’ Avvenire
Anarchico», 12 febbraio 1915. 134 A questo riguardo v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto
del congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» del 25 gennaio
e «L’Internazionale» del 30 (ma anche gli articoli di «Azione Socialista»
e de «L’Idea 50 degli anarchici nella
campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la definitiva
consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La Guerra
Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico interventista»
uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La Guerre
Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé!*, mentre il
motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non
dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della
commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,
tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e
risorgimentale. Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo
della redazione — è ben preciso: rivendicare cioè ad alta voce il nostro
diritto di cittadinanza nel campo anarchico [...] che i teologhi
dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro comandamento” ci
vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte migliore
degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di
femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può
camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La
Guerra Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente anarchica"
In prima pagina, Oberdan Gigli riassumeva a titolo programmatico i
fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche
dell’anarcointer- ventismo. Nazionale», organo
ufficiale dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi
contemporaneamente all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo
lombardo, il 24 fignnaio, si era riunito il congresso nazionale anarchico
di Pisa. «Il Popolo d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca
di una riunione degli anarchici interventisti milanesi, avvenuta la sera
prima al circolo repubblicano Carlo Cattaneo di via Sala (che era sede
del Fascio). Nel corso di quell’incontro era stata decisa la pubblicazione
di un giornale di segno anarcointerventista, che, «oltre che propugnare
le tesi dell’intervento dal punto di vista anarchico», proponesse anche
«di iniziare una sana ed audace discussione d'idee nel campo stesso, onde
salvarlo dall’ondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i
pontificanti dell’anarchismo ufficiale». NES Rui Gustave Hervé (1871-1944)
era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo e dell'antipatriottismo.
Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale», aveva condotto una feroce
battaglia contro le istituzioni militari. E” singolare che gli
anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella storica testata
dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto un'inconcludente
edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato
alla causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La Victoire»,
organo del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla
diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro pnese v. RUGGERO
GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo
Bartalini e «La Pace», 1903-1915, Milano, Angeli, 1990. !!? «La
Guerra Sociale», 20 febbraio 1915. SI
Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — [...]
e accettiamo la guerra per evitare una oppressione [...]. Noi vediamo
l’anima anarchica in ogni rivolta liberatrice. Noi siamo gli eterni
rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con Mazzini per l’unità
d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella rivolta
contro gli inglesi [...]. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali
sarebbe un enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero prevalenti i
focolai dell’autoritarismo cattolico più inflessibile, dell’imperialismo
più pazzesco, del militarismo più prepotente: sarebbe rimandato di anni e
anni il problema rivoluzionario nostro pel riaffacciarsi dei problemi democratici
e nazionali [...]. Noi vogliamo al contrario che tutti i nostri sforzi
siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione proletaria
[...]. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico!»
Più oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi,
lettera che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici
interventisti, Mario Poledrelli negava di sentirsi un revisionista
dell’anarchismo per il fatto d’essere favorevole alla guerra, ritenendo
anzi di pensare e di agire nel solco della migliore tradizione
libertaria!”. «La Guerra Sociale», che uscì in sei numeri, fino al
24 aprile 1915, con una discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la
prima volta in forma unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i
motivi, le tematiche e le passioni proprie dell’interventismo anarchico.
Molto importante, sotto questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla
quale apparivano nitidamente, nelle varie coloriture, gli umori della
“base”. Così, fianco a fianco all’anziano «anarchico rivoluzionario»
Alfeo Davoli, già garibaldino, che da Milano esortava alla guerra
rivoluzionaria che abbattesse per sempre «qualunque sia forma di
governo»"‘', si schieravano il maestro elementare
138 OBERDAN GIGLI, Perché siamo interventisti, Ivi. 13° Cfr.
MARIO POLEDRELLI, Revisione?, Ivi. Poledrelli si era formato negli
ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era trasferito a
Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva
anche progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto
intitolarsi «L’ Adunata», ma era stato fatto rimpatriare a Ferrara su
ordine della Questura milanese, perché disoccupato. Arruolatosi
volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta
4053 [Poledrelli Mario]. 10 Nell’arco dei suoi due mesi di
vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a Milano, e
beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal
capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale
di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre — tanto che il 10 aprile, in un
trafiletto indirizzato «ai compagni», la redazione invitava apertamente i
lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni —
ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo
(fatta ovviamente eccezione per le tre grandi testate a diffusione
nazionale). 14! «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.
52 Alceste Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco
Ferrer, che si dichiarava per l’intervento, a dispetto dello «slombato
anarchismo menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Adolfo Costa,
di Verona, il quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in
virtù dei propri «convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Tomaso
Dal Ciotto chiamava a fondamento del proprio interventismo entrambe le
eredità del bakuninismo e del mazzinianesimo!‘*. Sulle pagine
de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali portavoce
della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da Paolinelli a
Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta però
non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile
ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono
comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la
cultura approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto
talvolta nelle sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi,
comuni del resto alla maggioranza dei semplici militanti del movimento
anarchico), ma anche il valore successivamente dimostrato sui campi di
battaglia. Quanto all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa
fu conseguenza, non automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte
personali, diverse caso per caso. Ciò a conferma che la semplicistica
equazione anarcointerventisti prima-fascisti poi, non è motivo
sufficiente - e d’altronde nemmeno Davoli era nato a
Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630 Davoli
Alfeo]. 4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.
Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa,
nel 1884, insegnava a Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le
sue idee libertarie, antimilitariste e radicalmente anticlericali (era
membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo ruolo di
educatore, era dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea
politica». Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi
col grado di sottotenente) Salvadori vestì la camicia nera del fascismo.
Nell’aprile del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di Castelfiorentino
(del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche
anno più tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale
fascista. ACS, CPC, Busta 4543 {Salvadori Alceste]. 4 «La
Guerra Sociale», 27 febbraio 1915. 14 Cfr. /bidem, 10 marzo
1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in
fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa non avrebbe
intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la speranza di
tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la guerra»
per combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un anarchico
interventista, «Il Popolo d'Italia», 5 luglio 1915).
53 ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza
all’anarchismo degli interventisti di estrazione libertaria!”
145 Scrissero per «La Guerra Sociale»: Alfredo Consalvi,
Giovanni Canapa (Brunetto D’Ambra), Carlo Rivellini, G.Fraschini,
M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando Senigallia, Sabatino Di Loreto,
Silvio Colla e Raffaele De Rango. Giovanni Canapa, che di mestiere
era rilegatore di libri, era nato a Firenze nel 1875. La sua
partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da
numerose disavventure giudiziarie. Nel giugno del 1907 la Prefettura
fiorentina lo aveva dipinto «tra i più entusiasti seguaci delle dottrine
libertarie a Firenze [...], assiduo a tutte le riunioni e manifestazioni
proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici,
«attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In realtà, Canapa
aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie d’indirizzo
individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto D’Ambra. Nella
campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro del Fascio
rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare accanimento, per
lo più ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente
servendosi del suo vero nome (come nel caso del lungo articolo polemico
Anime di fango, «L’Iniziativa», 20 febbraio e 6 marzo 1915). Canapa si
arruolò volontario (cfr. «Il Popolo d’Italia», 20 giugno 1915) e cadde
sul Carso il 12 aprile 1916. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo
Malusardi ne celebrò la figura di «eterodosso dell’anarchismo [...],
eretico impenitente [...], scomunicato del “Santo Sinodo”» (ODROADE,
Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa», 6 maggio 1916);
mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe
richiamato il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo.
Carlo Rivellini era nato a Milano nel 1895, da famiglia poverissima. Carattere
«fra i più irrequieti e impulsivi» - come scriveva di lui la Prefettura
milanese nel dicembre del 1912 -, Rivellini, nonostante la giovanissima
età, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo lombardo e
aveva subito già numerosi arresti per attività sovversive. Allo scoppio della
guerra fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, com’ebbe a
scrivere a Mussolini, di difendere così «i supremi interessi del
proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo d’Italia», 25 novembre 1914).
Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria, lo
stesso di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una medaglia
di bronzo e un encomio solenne. Si congedò con il grado di tenente degli
arditi. Nel dopoguerra prese parte all’impresa di Fiume (e come delegato
fiumano presenziò al secondo congresso nazionale fascista, nel maggio del
1920), conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta
politica. Nel 1930 risultava iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348
[Rivellini Carlo]. Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a
Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di Pisa, nel 1880.
Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni
Gavilli, che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi
giri di conferenze (Gavilli era non vedente), Scaramelli aveva
collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla». Nel dicembre del
1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera.
Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato
«disciplinato, rispettoso e contento della vita militare». Dismessa la
divisa, lasciò l'impegno politico e morì, ancora giovane, nel 1927.
/bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato
ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso», Senigallia,
pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva
collaborato assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al
romano «Il Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa
infuocata, numerose condanne per «istigazione a delinquere». Attivo nel
campo dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva pPAT TEST
PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE
RIFPI BE 1177171777 Grazie a «La Guerra Sociale», per
un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli anarchici
interventisti poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed ebbero
modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di
vista all’interno della multiforme realtà dell’interventismo
rivoluzionario. La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci
risultò comunque assai intensa, specie là dove il movimento era più
forte. A Parma gli anarchici collaborarono fattivamente al quindicinale
«Guerra alla guerra» (24 gennaio- I maggio 1915), edito a cura del Fascio
locale, roccaforte della politica deambrisiana e fra i principali centri
propulsivi dell’interventismo rivoluzionario. All’incirca nello stesso
periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno
di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perché Pisa era una
delle città italiane dove il movimento anarchico era maggiormente
radicato) il contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti
alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del Popolo», organo del
Fascio rivoluzionario pisano!‘. preso parte al
congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al
convegno anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913),
discutendo temi relativi alla struttura interna del movimento e ai
rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura
di Ancona annotava sul suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici
di Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al
Circolo anarchico “Studi Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta
dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la mitezza delle sue idee
politiche e la completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con
una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò
coraggiosamente, finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al
fascismo e, nel gennaio del 1935, divenne membro e fiduciario del
sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti. Ibidem, Busta
4746 [Senigallia Armando]. Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era
assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra parmense, in quanto
segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario” intitolato
ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò
volontario, combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al
valore. Cfr. Ibidem, Busta 1406 [Colla Silvio]. Di Raffaele
De Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben
poco, se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva
visto magnificare la guerra come mezzo per far piazza pulita di tutti «i
rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di rivoluzionari, «La
Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento
libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago,
poi a Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della
numerosa comunità anarchica italiana, collaborando al foglio di San
Francisco «L’Emancipazione». Da oltre oceano l'anarchico calabrese
mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico
Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC,
Busta 1739 [De Rango Raffaele]. 14% 1] primo numero de «La
Guerra del Popolo» uscì il 18 marzo 1915. L’iniziativa di Ruffo Sarti e
Alberto Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in
particolare 55 D'altra parte, proprio
nella primavera del 1915 i Fasci compivano il massimo sforzo di
coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la preoccupazione
principale di tutte le forze che componevano lo schieramento
interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare l’ingresso
dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover accantonare le
pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il 10 aprile
«L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il gruppo
dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la
monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di
quel documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24
aprile l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi)
!”. Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile
per protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista
Innocente Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia
durante una manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale
avevano aderito anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli
oratori principali), Massimo Rocca auspicava che non si verificassero più
simili episodi, temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un
pretesto per una manifestazione neutralista, comunque un tentativo per
intimidire il Governo l’articolo in tre parti di
OTTAVIO TONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, «L'Avvenire Anarchico»,
1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la
sostanziale estraneità dei due interessati alla vita del movimento
libertario pisano. Quello di negare ai compagni passati all’interventismo
ogni parentela, anche trascorsa, con l’anarchismo era una delle
scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con più frequenza. Del pari, la
storiografia ha sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo
definire “negazionista”. Così, nel caso specifico di Sarti e Fontana, è
stato scritto che i due rappresentavano «poca cosa, politicamente e
quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino» (GIORGIO
SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88).
In realtà, Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi -
come ci ha lasciato scritto la Prefettura di Pisa - risultavano avere nel
movimento molta influenza. Fontana (1868-1942) era stato redattore de
«L’Avvenire Anarchico» per quasi tre anni, fra il 1910 e il 1913. Cfr.
ACS, CPC, Busta 2105 [Fontana Alberto]. Sarti (1879-1943) era noto anche a
livello nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il
Grido della Folla» e potendo vantare, come sembra, stretti rapporti di
amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre del
1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei
carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente
anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due
mesi di carcere. «Durante la detenzione — annotava la Questura — fu
largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono anche le
spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo].
14” Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a RENZO
DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 695-697. ‘®
Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra
sera, «Il Corriere della Sera», 13 aprile 1915. 56
con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione
di decidere la guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a
«tutto subordinare» all’eventualità del conflitto!‘
Il periodo bellico A poco più di un mese dalla proposta de
«L’Internazionale» per la tregua “rivoluzionaria”, la dichiarazione di
guerra dell’Italia all’ Austria realizzò gli auspici di tutti gli
interventisti. La partenza per il fronte dei principali esponenti
dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di
generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non
certo propizia al normale dispiegarsi dell’attività politica,
contribuirono peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei
Fasci. ua Tra il luglio e l’agosto del 1915 anche Rocca, Gigli e
Malusardi, si arruolarono volontari". L'altro grande protagonista
dell’anarcointerven- tismo, Mario Gioda, che a suo tempo era stato
riformato, partì per il fronte soltanto nell’estate del 1916". Prima
di allora, incalzato dalle accuse d’imboscamento, Gioda (che era membro
del “Gruppo di Azione Civile” di Torino, avente lo scopo di assistere i
combattenti e di svolgere propaganda a 4° LiBERO
TANCREDI, A proposito di sciopero generale, «La Guerra Sociale», 24 aprile
1915. 150 Massimo Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del
1915, prestò giuramento in una caserma milanese il giorno 11 (cfr. /
volontari del 7° reggimento fanteria prestano giuramento, «Il Corriere
della Sera», 12 luglio 1915) e fu inviato al fronte alla fine del mese.
Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali
di complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena,
partì per la zona di guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407
[Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si arruolò nel 68° reggimento fanteria
il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. mia i o
Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero
parte all intero svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del
diario di guerra di Malusardi - un memoriale di un certo interesse, anche
se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore - si trova in
EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma il
23 ottobre 1929-VII, Torino, Druetto, 1930, pp. 51-62. £ !5! Per
l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al
7° reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo d’Italia», 22
luglio 1916, e «L’Iniziativa», 12 agosto 1916). Per le sue cattive
condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo pochi
mesi. 57 favore della guerra) ‘°° si batté con
passione, che non c’è motivo di non ritenere sincera, per la revisione
dei riformati!”, Insieme ai nomi più celebri
dell’anarcointerventismo, partirono, volontariamente o perché richiamati
alle armi, la maggior parte degli altri anarchici interventisti. In
taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli quasi parossistici.
L’anarchico romagnolo Domenico Ghetti, ad esempio, riformato per evidenti
questioni di salute, passò gli anni di guerra nell’estenuante tentativo
di farsi arruolare. Cosa c'entra la visita — scrisse ad un
periodico fiorentino alla fine del 1917 — l’abilità o l’inabilità, quando
uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei difetti organici,
tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi
minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di
un popolo, dell’umanità [...], voglio dare il mio sangue, la mia vita
contro l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio
di coraggio, così è il mio sentimento di libertario!5*
Qualche giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da
bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato!*5.
!5? Il “Gruppo di Azione Civile” si era costituito ad opera del tipografo
mazziniano Terenzio Grandi e di altri esponenti del
repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del 1917,
quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr.
«L’Iniziativa», 1 settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di
Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di Mario Gioda narrata da Giovanni
Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in ottimi
rapporti. 153 In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda
respinse l’accusa d’essersi imboscato e spiegò la propria intenzione
d’impegnarsi affinché fosse al più presto riconsiderata la posizione di
tutti i riformati. «Io poi — scrisse — prima categoria della classe 1883, sono
stato [...] riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi
invocare, d’accordo con gli amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei
riformati» (Per /a revisione dei riformati, «Il Popolo d’Italia», 23
giugno 1915). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato
l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente
sull’argomento. «E un’umiliazione — affermò — inflitta a tutti i
cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è quasi un bollo,
che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e
discutibile [...]. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi
ardentemente sollecitata — e poscia magari — se necessità assoluta
l’avesse richiesta — la tassa applicata ai veri riformati, a quelli cioè
che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero
rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la
salvezza nazionale» (MARIO GIODA, A proposito della tassa dei riformati.
La revisione doveva avere la precedenza, Ibidem, 16 ottobre 1915). 154
«Il Nuovo Giornale», 21 novembre 1917. !55 Domenico Ghetti era nato
a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato in
Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine
a Berna. In quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda
anarchica, facendosi anche promotore 58
D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera
e propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al
movimento libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di
giugno del 1915, amplificata dal quotidiano romano «Il Messaggero», si
diffuse la notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di
contatti segreti tra anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa
Malta) che i gruppi libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco
Ferrer” avrebbero invitato i propri aderenti ad arruolarsi volontari
nella Croce Rossa. In una cartolina riportata da «L’ Avvenire Anarchico»
del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non si corrompono), Aristide Ceccarelli
condannò senza mezzi termini quell’iniziativa, negando l’esistenza di un
circolo anarchico intitolato a Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24
giugno, il foglio pisano pubblicò una dichiarazione degli anarchici Luigi
Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate, a nome dei gruppi “Caserio” e
“Ferrer”, nella quale si affermava che «il comunicato apparso su “Il
Messaggero”, invitante gli anarchici a inscriversi nella Croce Rossa,
doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al richiamo avrebbero
dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella della suddetta
istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e dunque ch’era
«erroneo il commento dei compagni che avevano creduto sottolineare tale
invito come addirittura un reclutamento anarchico ced adesione di
anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,
quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse
parte degli anarchici all'indomani del 24 maggio 1915. i Nonostante
il clima di eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione tra
gli opposti schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte
(ed è significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome
bastava evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una
coda di di un “Comitato di difesa sociale pro
Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità anarchica
italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi).
Nell’ottobre del 1914 un suo articolo violentemente antimilitarista
(Cos'è /a caserma?, «L'Avvenire anarchico», 22 ottobre 1914) gli era
valso un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due mesi più tardi
Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato
in possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di
carcere, beneficiò dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in
guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di un suo coinvolgimento nella
campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo arrestato
(questa volta a Torino, il 4 giugno 1916) per aver causato gravi incidenti
durante un comizio di Maria Rygier. Nell’aprile 1918 Ghetti riuscì infine
ad arruolarsi in fanteria. Cfr. ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].
59 è 156 dea SPERO da 9 polemiche) ‘°°.
La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non si
sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la
fine delle ostilità. La crisi dei Fasci, seguita all’entrata
in guerra dell’Italia, non valse affatto a rasserenare gli animi,
aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il movimento.
L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario, d’altronde, prima
ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica, in ogni caso
compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente ricostituiti
solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere.
Così, lungo tutto l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non
sempre fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di
ricompattare le proprie fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al
divenire convulso degli avvenimenti, la propria specificità ideale.
In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di
Filippo Corridoni, una delle figure più carismatiche di tutto
l’interventismo rivoluzionario, acquistò un significato che trascendeva
l’episodio in sé, per assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane
milanese assurse a eroe- simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che
al nome dell’”’arcangelo” sindacalista si sarebbe più volte richiamato,
nel prosieguo della guerra, come a un monito di coerenza ideale. Vale la
pena, a questo proposito, di ricordare le parole di Mario Gioda, scritte
immediatamente a ridosso del 23 ottobre, perché specchio di quella
concezione volontaristica dell’azione politica che
ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di “managgia” («Il
Risveglio Comunista-Anarchico», Ginevra, 24 luglio 1915), nel quale il giuramento
di Massimo Rocca era fatto oggetto di commenti particolarmente
malevoli. Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato
d’animo è rappresentato da un volumetto di Raffaele Nerucci, pubblicato
all’inizio del 1916 su interessamento di Alberto Fontana e con prefazione
di Charles Malato (Da/ di là del Rubicone, Pisa, Tipografia Mariotti,
1916). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della
propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo “reale”
e anarchismo “ideale”, la necessità di difendere la civiltà latina, culla
della rivoluzione, dalla minaccia del pangermanesimo ecc.) e si scagliava
violentemente contro gli avversari. L’apologia interventista di Nerucci,
scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine,
appariva ancor più incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dall’entrata in
guerra dell’Italia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/
di là del Rubicone, Nerucci abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad
un settimanale italiano di Marsiglia, annunziò di aver preso la tessera
del Partito Repubblicano (cfr. «L’Eco d’Italia», 27 agosto 1916).
Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare
la trincea, ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi
conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. !57
Per un quadro complessivo delle traversie dell’interventismo rivoluzionario
negli anni della guerra, v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al quale si rimanda per tutte le
vicende qui sommariamente descritte. 60
aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora
della vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e
nella tragica sorte di Corridoni. Egli era — scriveva Gioda
ricordando il compagno scomparso - la nostra gioventù, tutta la nostra
vagabonda, ardente gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa
politica e il dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la
ribalderia de’mercanti !5 AI combattimento che costò la vita
a Filippo Corridoni prese parte anche Edoardo Malusardi. Il racconto di
quell’episodio che l’anarchico lombardo inviò all’organo mussoliniano è
interessante sia come esempio di autorappresentazione politica
(l’interventista rivoluzionario che, ricolmo di fede nelle proprie idee,
combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come prima elaborazione
del mito “corridoniano” (Corridoni che cade eroicamente, intonando un
canto patriottico), un mito destinato a crescere in breve tempo', e al
quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista, Malusardi in
testa. Mi trovo degente in un ospedale da campo — riferiva dunque
Malusardi — ferito in quattro parti del corpo, per fortuna non
gravemente. Sono caduto in un assalto alla baionetta, in primissima fila;
fui fatto prigioniero dagli austriaci perché impossibilitato a fuggire.
Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del romanzesco ed a
torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo Corridoni,
comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando
l’inno d’Oberdan'° 158 «Il Popolo d’Italia», 30 ottobre 1915. i 3
ni Sulla figura di Filippo “Pippo” Corridoni v. il contributo di MARCO
MELOTTO, Filippo Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in «Storia
in Lombardia», 1994, n. 1, pp. 107- 19 Gia pochi giorni dopo la morte di
Corridoni, «Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione er l'erezione di
un “ricordo marmoreo” dell’eroe. © «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre
1915. i La battaglia del 23 ottobre, detta della “trincea delle frasche”,
fu fatale anche ad un anarchico interventista toscano di nome Adino
Contini. «Egli era - scrisse di lui Edoardo Malusardi - un anarchico
novatore. Un eretico su cui gravava l’anatema del “Sinedrio Anarchista” [...].
Il suo anarchismo, come il mio, non era la fronzuta elucubrazione di
qualche sofista a spasso [...], ma bensi la teoria di tutte le libertà e
sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I suoi precursori,
come i nostri, erano due eroi: Filippo Troja, caduto per 1 indipendenza
ellenica, e Cesare Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli
spalti di Seraievo in difesa della Serbia aggredita» («L’Iniziativa», 11
marzo 1916). 61 RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV
FOVGPRATA IMRE 97 RG "N Sul piano della concreta
riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più interessanti fu la
proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di far
confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito
Repubblicano. Nel novembre del 1915 Maria Rygier (che dallo scoppio della
guerra era andata sempre più accentuando la sua vicinanza al
mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale — anche in vista delle sfide
politiche del dopoguerra — rinsaldare l’unità del fronte interventista
rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari,
di ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito della Rygier
fu raccolto da Edoardo Malusardi. In una lettera inviata a
«L’Iniziativa» l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di
unificare tutti i partiti della sinistra interventista e d’accordo con la
Rygier nel ritenere che ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno
dell’ ’’ Edera”, a condizione, però, che questo non significasse un
appiattimento sui programmi repubblicani. Gli unici che
potrebbero trovarsi a disagio — notava a questo proposito Malusardi —
saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli
impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo
molto d’accordo [...]. Noi siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel
senso esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi
in mezzo al falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla
misoneista e dei suoi codardi capeggiatori [...]. Mentre i repubblicani
subordinano la volontà individuale a quella collettiva, quella delle
minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici,
!©! Il definitivo approdo di Maria Rygier al mazzinianesimo era avvenuto
con l’articolo L'ombra sua ritorna ch'era dipartita («L’Internazionale»,
1 gennaio 1915), una lunga e sentita celebrazione di Giuseppe Mazzini. La
svolta della Rygier aveva trovato consensi e destato speranze negli
ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della Rygier — aveva
scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito Mazziniano Italiano — ch’era
partita, ne’suoi primordi, da premesse non esatte, possa far breccia
anche fra gli altri anarchici» (Lettera politica dalla Romagna, «La Terza
Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra, Maria Rygier, la
cui opera di propaganda non conobbe soste, intensificò, se possibile, la
collaborazione con la stampa repubblicana, massime con «L’Iniziativa».
L’infatuazione della Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del
resto concordi numerosi altri interventisti rivoluzionari (a cominciare
da Alceste De Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in particolare,
il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per
i programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo
Mazzini e l'ora storica, «Il Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui
Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi, «non schiavi
dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o
intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò
negli anni di guerra il proprio filo-repubblicanesimo. "
Cfr. MARIA RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future,
«L’Iniziativa», 27 novembre e 4 dicembre 1915. 62
pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione
collettiva, non intendiamo che si È RA ERI F 16 debba tarpare le
ali alle iniziative individuali e le minoranze Il rispetto delle
minoranze e delle singole individualità era stato a fondamento
dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il Partito Repubblicano
avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva Malusardi
- avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze
dell’interventismo rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto
avanzato dalla Rygier rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra
le forze della sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte,
durante come dopo la guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua
proposta, il cammino personale di Maria Rygier verso le “idealità
nazionali” non subì inversioni di rotta. Il 27 e 28 febbraio 1916 ella fu
al congresso nazionale repubblicano di Roma!95. Non ho
ancora la tessera — disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma
voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza
nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul
determinismo economico più gretto. E noi torneremo al vostro
Mazzini" L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in
effetti a Mazzini, e quella tessera che ancora non poteva esibire al
Congresso romano l’ebbe in realtà pochissimo tempo dopo!. Il
prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora
crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla
propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli
interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera
disgregatrice del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”,
un'esigenza molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu
all’origine della nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di
leghe e di comitati per la “resistenza interna”. Nell’ambito di queste
iniziative, tuttavia, gli interventisti rivoluzionari - o comunque di
sinistra - si sarebbero ritrovati il !0% Ibidem, 20
dicembre 1915. !% Cfr. Ibidem. e su !55 AI congresso
giunsero anche i saluti di Mario Gioda, che diceva di seguire «con
vivissima simpatia il lavoro dell’unico partito che la guerra e le
rivendicazioni nazionali non avevano sconvolto»; di Massimo Rocca, il
quale auspicava che l’assise repubblicana potesse porre le basi «per un
sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo
di sentimento»; e di Duilio Lotti. /bidem, 4 marzo 1916. 106
Ivi, !0? Cfr. Ibidem, 25 marzo 1916. 63
più delle volte in minoranza (tipico il caso
del “Fronte Interno”, costituitosi a Roma nel giugno del 1916 ad opera di
forze prevalentemente democratiche, che finì assai presto per essere
egemonizzato dalle destre). L’interventismo di destra, infatti, e in
particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla
radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico,
prese senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa
azione delle sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti
scenari. La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e
quella, più o meno consapevolmente avvertita, di salvaguardare la
“purezza” dei propri ideali, dominarono il convegno nazionale dei Fasci
rivoluzionari, che si riunì a Milano il 21 e 22 maggio 1916". Pochi
giorni prima dell’inizio di quel congresso, Mario Gioda si era fatto
interprete dello stato d’animo di grande perplessità che attanagliava
l’interventismo rivoluzionario. Prendendo spunto dalle agitazioni contro
il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria, agitazioni che i
neutralisti italiani avevano portato a esempio dell’insofferenza popolare
verso il protrarsi delle ostilità, Gioda si era augurato che l’Italia
rimanesse al di fuori dell’ondata di malcontento che stava attraversando
gli altri paesi belligeranti e s’era detto convinto del buon senso e
delle virtù patriottiche del popolo italiano. Malgrado ciò, l’anarchico
torinese aveva avvertito la necessità di ribadire la ragionevolezza della
guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perché
«risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via «per maggiori conquiste, in
un ambiente europeo non più accidentato da agguati tedeschi e da
barbarie prussiana»! !6* Per la cronaca del
convegno v. «Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le
dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La
grande adunata di Milano e la parola dei nostri compagni,
«L’Internazionale», 17 giugno 1916. '5° MARIO GIODA, Perché questa
guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia», 17 maggio 1916. Qualche giorno
prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a
chiare lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle
questioni economiche. «Mentre il mondo — aveva scritto - si dibatte nella
tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva per l’avvenire dei popoli,
è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di
feste di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il
proletariato non conquisterà se non a condizione di essersi reso degno di
rimanere libero entro libere nazioni» (MARIO GIODA, / socialneutralisti
industrializzano il primo di maggio, «L’Iniziativa», 1 maggio 1916). Del
resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe,
pubblicato da «Il Popolo d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva
sostenuto che il materialismo non avrebbe mai potuto offrire una chiave
interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso
socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non
avrebbe dovuto risolversi, edonisticamente, in una mera questione
economica. La lotta di classe, perciò, non avrebbe dovuto porsi come fine
del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare secondo le
circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di classe sarebbe diventata
fine 64 AI convegno milanese presero
parte Maria Rygier, che vi svolse una relazione sul tema “Neutralismo e
neutralisti”!’°, e Massimo Rocca, in licenza dal fronte!”. Proprio Rocca
si fece portavoce di una convinzione che, in forma più o meno velata,
cominciava a circolare anche tra gli interventisti di sinistra: la
convinzione, cioè, che il Governo dovesse adottare dei provvedimenti, i
più severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista. L’azione
contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi:
«positiva» e «negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti
avrebbero dovuto intensificare l’opera di propaganda tra le masse,
negativa, perché era giunto il momento, nell’interesse del Paese, di
rispondere con misure energiche alle provocazioni dei “nemici di
dentro”. Noi — affermò Rocca - dobbiamo avere il coraggio di dire:
contro i neutralisti abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi
dobbiamo avere il coraggio di domandare che il Governo faccia un’opera
che sia di repressione, che sia capace di porre un freno!”
La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da
lui sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di una
condotta realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in
risposta a quanti, in a se stessa, e nessun alito di
umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso nelle sue
ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso
Gioda - non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini
«economici», ma un insieme complesso di individui, formanti una comunità
con più alte e profonde aspirazioni; ed era pertanto «inutile, sciocco e
disonesto il ripetere [...] al popolo che solo la lotta di classe lo
avrebbe dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese».
Questi î passaggi sono — a nostro avviso — di capitale importanza. E”
infatti in questa visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di
misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che deve
rintracciarsi il motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti
anarcointerventisti alle ideologie del sindacalismo nazionale e del
produttivismo fascista, nonché, per successive corruzioni
dell’impostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro
dall’antisocialismo all’antioperaismo tout court. !7° In «Il Popolo
d’Italia» 19 maggio 1916. sati !! «Il Popolo d’Italia» del 22
maggio riportava le adesioni al convegno di altri due
anarcointerventisti: Adolfo Fanelli e Tomaso Dal Ciotto. Il nome di Fanelli,
che incontriamo qui per la prima volta, può esser preso a simbolo degli
anarchici interventisti dei quali non ci è giunta notizia. Il panettiere
Adolfo Fanelli era nato a La Spezia nel 1889. «Anarchico convinto, che
prendeva parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito» (come lo
aveva descritto un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto
del 1912), Fanelli era stato gerente responsabile de «Il Libertario» dal
dicembre 1912 al gennaio 1913. Divenuto interventista, fu membro del
Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di La Spezia.
Nel dopoguerra aderì al fascismo, iscrivendosi al PNF nell’agosto del 1922.
ACS, CPC, Busta 1943 [Fanelli Adolfo]. 172 «Il Popolo
d’Italia», 23 maggio 1916. 65
sede di discussione, avevano affermato l’opportunità di
scindere nettamente l’operato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca
(dimostrando maggiore realismo politico) sostenne che l’interventismo
rivoluzionario doveva assumersi per intero le proprie responsabilità
riguardo alla monarchia, con la quale, e non contro la quale, la guerra
era stata decisa!”?. Nei restanti due anni di guerra Massimo Rocca
fu, insieme alla Rygier, il più attivo del gruppo degli originari
anarchici interventisti. D'altronde, già nel settembre del 1916 egli
venne ricoverato all’ospedale militare di Milano per una grave forma
d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei mesi
(rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di
dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione
politica’. Il 1916 vide altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua
antica predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come
attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro
// Mare Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni
dei nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un
interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a
segnare in modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata -
insieme ai temi di politica economica. - la nota predominante
dell’attività di Massimo Rocca nel biennio 1918-1920. Nel febbraio del
1918, del resto, Rocca entrò nella redazione del quotidiano milanese «La
Perseveranza», avviando, sulle pagine di quel giornale, una serrata
campagna a sostegno dell’italianità della Dalmazia, campagna che gli
attirò gli strali polemici di Gaetano Salvemini!”
173 Cfr. Ibidem. !74 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca
Massimo]. !75 L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato
da un attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo
troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio
interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in
procinto di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 23
settembre 1916). Ancora nell’aprile del 1918 la Prefettura romana
annotava che Rocca, «pur conservando le sue idee sovversive», continuava
a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta 4362
[Rocca Massimo]. !7 La posizione di Salvemini (espressa a
chiare lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato
all’inizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di
nazionalità, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella
annessionista di Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine
della sua rivista settimanale, «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di
essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non
risparmiò le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per
l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e
nazionalismo, «La Perseveranza», 5 e 17 marzo 1918).
66 L’approdo di Rocca al giornale del conte
Giangaleazzo Arrivabene, un foglio di chiaro orientamento conservatore,
non deve sorprendere. Infatti, sebbene Rocca avesse già in passato
manifestato simpatie per la destra, fu in questo arco di tempo, compreso
tra il congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consumò la sua
definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire, che l’ex
anarchico maturò un completo distacco, non tanto dal movimento
libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo
sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale, passando
attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,
Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso
posizioni che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo
“illuminato” sul piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni
produttiviste, sul piano economico. In entrambi i casi, però, i legami
con il fondo elitario del novatorismo restavano evidenti.
L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla . sua personale convinzione
di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte nobile - più meritevole
perché più capace - del popolo italiano (proprio in quegli anni, d’altra
parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il suo ciclo di
studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo passaggio
era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Massimo Rocca,
dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto
monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,
fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di
Rocca non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo del
1918. Nel maggio del 1917 Rocca aderì al “Comitato d’azione per la
resistenza interna”, sorto a Milano su iniziativa di Ottavio Dinale allo
scopo di coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo
vigore alla loro opera'??. In qualità di delegato di
quell’organizzazione, Rocca partecipò al secondo convegno nazionale dei
Fasci d’azione internazionalista, convocato a Roma all’inizio di luglio,
il quale si concluse con l’approvazione di una !??
Rocca conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi
quindi alla facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano.
17% Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione
patriottica, bene lo illustrava un ordine del giorno votato a una
riunione del Comitato il 7 maggio 1917: «Reclamare dal. Governo
provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci
che infestano il nostro Paese» («Il Popolo d’Italia», 8 maggio 1917).
Alla fine del mese il Comitato inviò un memoriale al Presidente del
Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche l’azione destabilizzatrice
del neutralismo disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro tutti
i “nemici di dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da «Il Popolo
d’Italia» del 27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI
MINISTRI. GUERRA EUROPEA, Fascicolo 19.9.2 [Movimento
interventista]. 67 sorta di documento
programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?. Nonostante il
tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo, tanto sul
piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le grandi
questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle
misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così dire
relativa all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della
propria identità rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle
tensioni interne al Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di
Caporetto, con ciò che ne seguì, a livello politico-militare come a
livello emotivo, e la conseguente demonizzazione dei cosiddetti
disfattisti, avrebbe contribuito non poco a mischiare le carte in tavola,
spostando decisamente a destra l’asse della politica interventista. Le
divergenze tra le diverse forze dell’interventismo finirono per
appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi
riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla
fine della guerra. 19° V. «Il Popolo d’Italia»,
2 e 3 luglio 1917, e l’articolo // Congresso Interventista di Roma in
difesa degli operai e della pace giusta, «L’Internazionale», 21 luglio 1917
(l’organo sindacalista parmense riprese le pubblicazioni proprio il 21 di
luglio, dopo una sospensione di quasi un anno). 10 E° molto
difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli
anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è ragionevole
credere che la loro opinione non differisse da quella degli altri
protagonisti dell’interventismo rivoluzionario, sempre più orientati
verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza importante,
anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi,
il quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali
avanzata ai sindaci e agli ‘amministratori socialisti da Costantino
Lazzari (un gesto che, nell’opinione del segretario del Partito Socialista,
si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe
potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente
al popolo italiano perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante
fenomeno di perfidia e di vigliaccheria» (EMME, Son purl..., Ibidem, 22
settembre 1917). 68 I
FASCISMO L’anarcointerventismo alla prova della “nuova”
Italia Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos
del dopoguerra non è impresa facile. Già nei mesi successivi
all’armistizio, il blocco dell’interventismo rivoluzionario cessò di
esistere come un tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille
rivoli, mentre la nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si
richiamavano (fra tutte i Fasci di combattimento), aggiungeva
imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé già molto fluida.
L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per sua stessa
natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo
processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio
Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé,
è tuttavia possibile — come si accennava nell’introduzione -, attraverso
la vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne
i segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders
anarcointerventisti, alcuni, come Oberdan Gigli e Maria Rygier, finirono
per isolarsi progressivamente dal gioco politico e per non avere che una
parte di secondo piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri,
come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con
il movimento anarchico, rientrando a pieno titolo nell’ “ortodossia”.
Altri ancora, infine, ' Nel caso di Gigli, si può
affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto termine
la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la
politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI,
Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti (1914-1915), cit., p. 84. Più complesso l’iter
politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si
ivvicinò all’Associazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo,
un atteggiamento sostanzialmente ambiguo. Nel 1926 fu comunque costretta
ad espatriare in Francia, dove rimase sino alla caduta del regime.
Rientrata in Italia, concluse la sua travagliata milizia politica nelle
file del Partito Liberale. Morì a Roma nel febbraio del 1953. (fr. FRANCO
ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV, ad nomen. ? Nel luglio
del 1919 Paolinelli fu arrestato con l’accusa di aver preso parte al complotto
di Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e
arditi, tentò d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato,
aderì poi - in rappresentanza degli anarchici individualisti - a un
comitato romano “di difesa proletaria” in funzione antifascista.
69 come Mario Gioda, Edoardo Malusardi e
Massimo Rocca, si guadagnarono un posto di rilievo nel nascente movimento
fascista, del quale divennero, quantunque in ambiti diversi, indiscussi
protagonisti. La loro vicenda all’interno del fascismo (che appunto ci
proponiamo di ricostruire nel prosieguo di questo lavoro) può, a nostro
giudizio, essere considerata in relazione ai loro precedenti anarchici; e
infatti, se è arbitrario ricercare in essa un medesimo filo conduttore,
immediatamente e coerentemente riconducibile alla doppia e
complessa eredità dell’individualismo anarchico © riconoscervi, pur
| nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e
politiche, non | e dell’anarcointerventismo, è però
possibile pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione.
Nel valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al
movimento mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo
trascurabile), occorre poi tener presente che il fascismo
iniziale, lungi dal formare un | monolito impenetrabile, orbitante
attorno alla tetragona figura di Mussolini, si distingueva
piuttosto - come lucidamente notava Renzo De Felice ©
nell’introduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per
essere una «serie di stratificazioni»ì, un accumulo di passioni e d’idee
diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e
| contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena.
anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicità —
evidente nei diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -,
costituisce inoltre, per così dire, un modello in scala ridotta.
La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno
in ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità,
anche se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio,
si verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i
superstiti della corrente anarcointerventista intorno a un progetto
politico ben definito, in grado di misurarsi autonomamente con le forze
nuove emerse dal rivolgimento bellico. A prescindere da alcune
iniziative isolate, come quella | partita da Domenico Ghetti‘,
l'esperimento di maggior sostanza in questa | Nel
1927 fu condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora
attivo nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711
[Paolinelli Attilio]. i RENZO DE FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne
de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Domenico Ghetti agli
«anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione
alla nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un
mussoliniano convinto (nel giugno del 1919 la Prefettura di Milano, città
nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla fine del
conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi
mussoliniani» in seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355
[Ghetti Domenico]. 70 direzione fu
quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera del 1919, gli ambienti
anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La Spezia a guerra in
corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal
noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di
un nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista. Le
concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annotava il 31 marzo il Prefetto di
Genova — non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente
del periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed
ha pertanto deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale
anarchico intitolato «La Protesta», che vorrebbe pubblicato
quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione avrebbe come programma l’illustrazione
del principio anarchico adattato ai nuovi tempi sortiti in seguito
all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra” Il prestigio che
ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo, delle dure
polemiche d’anteguerra, indussero «Il Libertario» a prendere nettamente
le distanze da quell’iniziativa. Parecchi compagni da varie
località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono spiegazioni circa
una circolare diramata da Roberto D’Angiò, colla quale si annunzia la pubblicazione
di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in blocco ai
compagni: da tempo il suddetto individuo non ha più nulla di comune cogli
anarchici di Spezia e tanto meno con noi del «Libertario»® Alla
fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» - ormai organo ufficioso dei nuovi
Fasci mussoliniani - ospitò un accorato appello di D’Angiò a tutti i
«libertari interventisti», affinché dessero il loro contributo, anche
economico, alla realizzazione de «La Protesta». Ciò che io
desidero — scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto di vista — è che
tutti gli anarchici d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo
prussiano, abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi
creata. Non è lecito star zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta
gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo reagire, dobbiamo esprimere le
nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le nostre idee per
snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci
opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i
veri anarchici” + Ibidem, Busta 1612 [D'Angiò
Roberto]. ® «Il Libertario», 22 maggio 1919. ? «Il Popolo
d’Italia», 29 maggio 1919 71 IPO VRE PERI
PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA Il primo numero de «La Protesta» uscì
il 16 luglio. «Noi — si affermava nell’editoriale — facciamo qui una
pubblicazione anarchica, né più né meno». Come prima della guerra,
dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti era quello di
rivendicare la propria appartenenza alla famiglia anarchica, nella
convinzione, semmai, che i tempi fossero più che mai propizi per una
riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva passare attraverso
una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie. Lo
sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La Protesta»
- ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a costui
predichiamo di emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non
seguire il sistema del socialismo ufficiale, per il quale il numero, o
meglio una somma di numeri, è tutto [...]. Noi, nel rivolgerci alla
massa, dobbiamo parlare all’individuo” Nonostante l’iniziale
sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in ambito
anarcointerventista'’, il giornale di Roberto D’Angiò non sopravvisse
al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stesso D’Angiò a
ritirarsi _ a vita privata". Lo sforzo, tentato da
D’Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici interventisti,
come entità politica autonoma, alla più vasta corrente | “rinnovatrice”
del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli .
anarchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu
fecondo anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso
diretto con | l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare
brevemente. E’ nota, ad esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso
biennio 1919-1920, gli interventisti rivoluzionari - e in parte
gli stessi Fasci di combattimento - _ guardavano al movimento libertario.
D'altronde, se le divisioni tra i due schieramenti erano molte e
insanabili, non mancavano tuttavia i motivi d’incontro,
particolarmente la comune ostilità nei confronti dei socialisti
“bolscevizzati” e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e
“parolaio” (Errico Malatesta manifestò a più riprese le sue riserve nei
confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul piano puramente strategico
non 8 «La Protesta», 16 luglio 1919. ? Le
coscienze volitive, Ibidem, 14 agosto 1919. 0 Dopo il numero saggio
del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni -
per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori
de «La Protesta» ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo,
da Oberdan Gigli a Ruffo Sarti, da Alberto Fontana ad Alberto Senigallia.
Cfr. /bidem. È D’Angiò morì a Milano nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta
1612 [D'Angiò Roberto]. © L’iniziale cautela con cui Malatesta
accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò gradualmente - ma
inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo
72 era quindi irragionevole pensare,
da entrambe le parti, ad un’intesa d’azione in chiave rivoluzionaria; e
basti qui ricordare la vicenda del progettato tentativo insurrezionale
che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume,
occupata dai legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta la Penisola. Il
piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel
dicembre 1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione dei
lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto
favorevolmente dalla stampa filo-fiumana) '*, fallì, a quanto pare, solo per
la ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo
indiretto all’impresa'‘. La presenza anarchica nel nebuloso
quadro politico del dopoguerra si manifestò anche per altre vie e in
altri modi, che, sebbene inconsueti, non devono però meravigliare più di
tanto, quando si tenga conto. della multiformità delle posizioni
all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il processo di
ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita di
connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de
autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura
del proletariato. Per valutare la posizione di Malatesta riguardo al
bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati
all’argomento tra il 1919 e il 1924. Una scelta significativa di questi scritti
(originariamente apparsi su «Umanità Nova» e «Pensiero e Volontà») si
trova in ERRICO MALATESTA, Individuo, società, anarchia. La scelta del
volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma, Edizioni e/o, 1998.
! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e
partecipazione il rimpatrio di Malatesta, rilevò, a proposito dei
rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli era forse «meno
intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti
dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del
loro valore strumentale (al riguardo v. ARMANDO BORGHI, op. cit., pp.
203-204). Del resto, l’infatuazione del fascismo per il vecchio capo
anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il duro articolo
Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, ancora
per tutto il 1920, l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso
opportunisticamente richiamato, dai iornali fascisti, in aperta
polemica con i “pussisti”. 4 Su questi fatti v. RENZO DE FELICE,
Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris —
D'Annunzio, cit., p77 ss. !5 Tra gli esempi più significativi di
questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato quello degli
anarchici triestini Luigi Marcello Andriani e Carlo Ukmar. Nell’ottobre del
1918, dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che
erano membri di riguardo del gruppo libertario “Germinal”, il più
importante di Trieste) entrarono nel Fascio Nazionale, costituito dalle
forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta
alla madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava
il manifesto del Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci
italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio
Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con
la Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!,
«La Nazione», 1 novembre 1918). Su Andriani e Ukmar v. ENNIO MASERATI,
Gli anarchici a Trieste durante il dominio asburgico, Milano, Giuffrè,
1977, ad indicem. 73 «La Testa
di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto dall’ardito e futurista
Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo d’incontro e di confronto
tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e certo
anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste dal
titolo emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso la
rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le
!6 Mario Carli, nato in provincia di Foggia nel 1889 ma
fiorentino d’adozione, era stato uno dei protagonisti delle avanguardie
futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del giornale
«Roma Futurista» (Emilio Settimelli, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico
Rocca, Giuseppe Bottai, ecc.) fu tra i fondatori del Partito Politico
Futurista. Il futurismo politico, al quale dettero un apporto considerevole
gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli arditi, si
fece promotore, nel gennaio 1919, dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia),
era decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti
dei primi Fasci mussoliniani, contribuendo altresì ad influenzarne gli
orientamenti. «Il programma dei Fasci di Combattimento creati da
Mussolini — commentava «Roma Futurista» nell’aprile del 1919 - è
sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le
due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E”
lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti».
Sulla figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani,
Vol. 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen,
nonché il contributo di ANNA SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano
reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss.
Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 474 ss., EMILIO GENTILE, Le origini
dell'ideologia fascista (1918- 1925), Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e,
con una particolare attenzione alla personalità e al ruolo di Filippo
Tommaso Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,
Ravenna, Longo, 1989, pp. 107 ss. Li «Nichilismo», diretta da Carlo
Molaschi, uscì a Milano tra l’aprile del 1920 e il marzo 1921;
«L’Iconoclasta», fondata da Virginio Gozzoli, vide la luce a Pistoia in due
periodi distinti, lungo un arco di tempo compreso tra il maggio del 1919
e l’aprile del 1921. Cfr. LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.
Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si
veda l’articolo // mio individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo
Martucci), comparso su «L’Iconoclasta» del 15 maggio 1920 (ma se ne
potrebbero citare molti altri). «Quale differenza — vi si leggeva - corre
tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa
uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione
collettiva? Nessuna! [...] Nella stessa guisa han perduto la coscienza
del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile [...]. Sono dei
deboli [...]. Essi non sentono la propria individualità che vuole affermarsi,
godere, vivere [...]. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico,
iconoclasta, cinico [...]. Vorrebbero che mi sacrificassi per la plebe
stupida, grossolana e volgare [...]. Io che voglio bere il profumo della
Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare l’aere della Libertà
sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla
mediocrità [...]. Io lotto per me, unicamente per me [...]. Sono al di la
del Bene e del Male». In ogni caso, posizioni di questo tenore
suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli (che -
come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un articolo
significativamente intitolato /ndividualismo o futurismo?, Camillo
Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze e vuote», gli scritti di
Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro autori,
74 pubblicazioni nel febbraio del 1920, si aprì ai
contributi di quegli anarchici individualisti, per lo più molto giovani,
che, suggestionati dalla retorica “demolitrice” e anticonformista del
futurismo, vi scorgevano un’arma potente di rinnovamento della società e,
allo stesso tempo, un mezzo di realizzazione personale"8.
In polemica con «Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento
anarchico italiano, fondato da Malatesta all’inizio del 1920), che
guardava con naturale diffidenza alla “rivoluzione” fiumana e alle
velleità sovversive dei futuristi”, Mario Carli affermava recisamente il
carattere proletario e progressista del futurismo e definiva in questo
modo il proprio rapporto con l’anarchismo: Tutti sanno
quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del
mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i
carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi,
l’archeologia e i corrieri della sera, E° per questo che, non potendo più
accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né avendo fiducia in
quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla
concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo
libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”
A sua volta, Filippo Tommaso Marinetti, rispondendo a un anarchico
che, pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro
il sostegno dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo
patriottico”!, invitava gli anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il
pessimismo vano», per aderire alla lotta propositiva del futurismo. Il
punto era - secondo Marinetti - che, mentre gli anarchici erano «tutti
più o meno dei futuristi antipratici, platonici e pessimisti», i
futuristi erano «degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un
campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria»??.
! Tra gli anarchici collaboratori de «La Testa di Ferro» si
contava anche Domenico Ghetti, responsabile dell’ufficio di
corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si veda, in modo
particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Gigi Damiani),
in «Umanità Nova», 28 settembre 1920. 20 MARIO CARLI, Replica
a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro», 3 ottobre 1920.
?! Cfr. BrUTNO, Patria, Ibidem, 10 ottobre 1920. 22
Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni
de «La Testa di Ferro», l'opuscolo A/ di là del comunismo, che può
considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”. In esso, il poeta
passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove,
della sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista
rivoluzionario. «Vogliamo — affermava tra l’altro - l'abolizione degli
eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei carceri, perché
la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile
di individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci».
75 K } Sisonialitga al quale facevano
riferimento Carli, Marinetti e u uristi de «La Testa di Ferro» era il
medesimo c in l’individualista Abele Ricieri Ferrari ov. o ETTARI
FRI 3 atore, descriveva come «agilità volitiva, poesia»
i gli altri he, in quello stesso meglio noto come
Renzo violenza creatrice [ dl . »_ x . O . uo: 4 ca di ei o
minoritario, puramente concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a
6 $ d F Veva a che veder il movimentismo malatesti ì sconti
stiano, così pervaso di i È i mala umanesimo, né con il comunismo
libertario di «Umanità x i ità Nova» (col qual i, si i munism i i
quale, anzi, si poneva in netta antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente,
frutto di quel periodo storico I primi contatti col fascismo
Chiusa questa parentesi, è dunque il momento di tornare alle vicende
dei protagonisti dell’anarcointerventismo in procinto di vestire la cami
ta nese di seguirne il cammino nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re
di Massimo Rocca. i vandi. In questo periodo - come si accennava -
l’interesse di Rocca era per lo più rivolto alla bruciante questione
adriatica. In essa, allora al pui di sd dibattiti, egli riversò tutto il
suo virtuosismo polemico e la sua abilità di propagandista, con il
puntiglio e la caparbietà che gli erano propri” Sebb Vicino ai
nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la vera. Rocca non
ne condivideva le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai
23 MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro», 7
novembre 1920. Bocea È, pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori
de «L’Iconoclasta». sponenti della corrente anarcoindividualist: i
È Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri; va in RENZO
NOVATORE, Un fiore selvaggio, Pi A pr E; beds seal con una breve
nota biografica e bibliografica a cura di Alberto Cimmii o ui fr vm Testa
di Ferro» del 12 dicembre 1920, un certo Atomon ribadiva che i futuristi
Ri nino ma sh individualisti, bollando come «antianarchica» l'Unione
Anarchica ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i
limi e À comuniste, si limitava a fare della a , la vera anarchia
non doveva dare al i «fattore economico dell’esistenza», ma rici i FI
nat ) ; ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i sopra di
ogni pregiudizio o di ogni do, Ò ITA a opr ] gma». Al contempo, però,
l’anonimo futuri distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a s
ova» dal Partito Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e
definiva Errico Malatesta, d i quaglie do, lel I morale», un
«agitatore e apostolo». - AE Rocca era membro del “Fascio delle iazioni
iotti 2€1 ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i
L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]
Faggi Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit.,
p. 98. 76 suoi numerosi articoli per «La
Perseveranza», a cui continuò a collaborare fino al luglio del 1919
(quando il mutamento della linea editoriale, sopravvenuto a un cambio di
proprietà, gli consigliò l’abbandono), la sua posizione non andava oltre
la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che egli non dubitava
essere geograficamente, culturalmente e politicamente italiane. Una certa
moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì di attaccare
violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida
Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning Post», sia
dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Il 17 gennaio 1919 Rocca prese
parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che
fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader
socialriformista, comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il
compito di sostituire Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare
incidenti»”8. Ai primi di marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio
lungo la costa orientale italiana, da Venezia a Brindisi, giungendo
quindi a Spalato, sulla sponda opposta dell’ Adriatico. Dalla cittadina
dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece pervenire al suo giornale
un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la consueta e un po’
pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare l'italianità della
Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due nuove
manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di
aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire
da vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson
agli italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla
capitale francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti
del “wilsonismo”, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”,
abbandonò 7 A questo riguardo v. LIBERO TANCREDI, //
ministro della piccola Italia, «La Perseveranza», 11 gennaio 1919, e Una
pace di menzogna per un nuovo giolittismo, Ibidem, 13 gennaio 1919.
28 Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491.
Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio
1919. 29 Cfr. LiBERO TANCREDI, La passione di Spalato, «La
Perseveranza», 12, 14 e 17 marzo 1919. 30 Cfr. «Il Popolo
d’Italia», 13 marzo 1919, e «La Perseveranza», 17 marzo 1919. 3!
Cfr. MassIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77.
32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando
una sorta di lega latina, fondata sull’alleanza Italia/Francia, che
facesse da contraltare al nuovo “imperialismo” anglo-statunitense, aveva
manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi
favorevole ad una partecipazione italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola
— scrisse - avrebbe potuto garantire «giustizia per i vincitori come per
i vinti: giustizia per gli italiani dell'Istria e della Dalmazia, per gli
albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi» (LIBERO TANCREDI,
L'Italia e la Società delle Nazioni, «La Perseveranza», 5 gennaio 1919).
77 ogni remora,
schierandosi senza riserve con il partito dell’annessione, ormai - a suo
dire - «l’unica via percorribile». AI congresso “per l'annessione di
Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a Milano, su iniziativa del “Fascio
delle associazioni patriottiche”, il 28 aprile 1919, Rocca non lesinò le
accuse a Wilson, denunciando il torbido «retroscena bancario
internazionale che si nascondeva dietro la figura del presidente
filosofo». Da questo momento i toni della propaganda estera di Massimo
Rocca si fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo
torinese dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a
prefigurare «la necessità di un imperialismo senza confini», qualora la
crescente ostilità internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero»
all’interno del paese, con i suoi effetti negativi sul livello di
produzione, avessero a tal punto danneggiato le esportazioni e fiaccato
la ricchezza nazionale da impedire di provvedere pacificamente
all’acquisto delle materie prime indispensabili”. Questi ultimi accenni
alla situazione interna dell’Italia ci consentono di soffermarci sugli
aspetti più propriamente economici del pensiero di Massimo Rocca. La sua
visione economica, infatti, che rimarrà pressoché inalterata negli anni a
venire, si veniva proprio allora configurando come una mistura di
liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Così, a
proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca
esprimeva l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema
otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il
rendimento degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo
economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro
accresciute responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione
tra capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione
dei lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi
dalla storia e dal divenire sociale [...], dai problemi, dai doveri e
dalla responsabilità ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena
compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del
sindacalismo nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito
doveva essere, da un lato quello di comprendere il cambiamento introdotto
dalla guerra, ossia di prendere consapevolezza dell’ormai inscindibile
legame tra politica ed economia; dall’altro, quello di dimostrarsi
autentica classe dirigente, in grado sia di 33 Ip.,
Audacia (appunti per l'On. Orlando), Ibidem, 29 aprile 1919. 34 «Il
Popolo d’Italia», 29 aprile 1919. 3° LiseRO TANCREDI, Per il
nazionalismo proletario. Un fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa
Nazionale», 8 giugno 1919. ID., Le otto ore internazionali di
lavoro, «La Perseveranza», 26 gennaio 1919, 2 ID., Assenteismo e
collaborazione di operai e di industriali, Ibidem, 2 febbraio 1919,
78 opporsi con fermezza al bolscevismo
dilagante, sia di provvedere all’integrazione e all’educazione del
proletariato”. «Occorre che la classe dirigente - scriveva Rocca - od
almeno i suoi elementi migliori, comprendano che il loro ufficio non è
solo di “resistere” o di “concedere”, ma di persuadere e di guidare»??.
o Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il
quale, nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei
combattenti e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento,
una formazione che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di
contrastare la “demagogia bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di
aver aderito ai «Fasci di combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la
loro nascita”. Questa affermazione, con tutta probabilità rispondente al
vero, non è però altrimenti accertabile; quel che è sicuro è che Rocca -
almeno per tutto il 1919 - non dimostrò, a differenza di molti suoi
compagni, un grande interesse per l’iniziativa di Mussolini. Di Fin
dai primi di marzo del 1919 «Il Popolo d’Italia» aveva lanciato un invito
per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le
molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23
marzo, ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il «vecchio
anarchico» Vittorio Boattini (che si diceva «toto corde» con Mussolini,
«per le sante bastonature interventiste ed anti-bolsceviche») 4 Carlo
Rivellini e Domenico Ghetti. «Gli anarchici coscienti — scriveva
quest’ultimo al suo conterraneo Mussolini — non potranno che aderire al
vostro appello» “. i Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu
senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito all’appello
di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato
testimone diretto dell’accaduto, fa riferimento alla cronaca de «Il
Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte 3 Cfr. Ip.,
Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio
1919. sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2
aprile 1919. 7 4° Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura, cit., p. 31. "i olo d’Italia», 9 marzo 1919.
SIAT i era nato a Meldola, nei pressi di Forlì, nel 1862. Fin da
giovanissimo aveva manifestato idee anarchiche. Nel 1903 si era
trasferito a Milano, dove aveva a Li collaborato a «Il Grido della Folla».
Nell'ottobre del 1919 la Prefettura milanese scriveva che, avendo egli,
durante la guerra, «militato [...] nel campo interventista», si dimostrava
«un fervente nazionalista», in tal senso svolgendo «attiva propaganda».
Il figlio di Boattini, pe fu per qualche tempo segretario politico del
PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta 679 [Boattini
Vittorio]. #2 Il Popolo d’Italia», 21 marzo 1919. 4
Cfr. Ibidem, 7 marzo 1919. 79
anche Edoardo Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in
un telegramma di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto
dispiaciuto, trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare
personalmente, limitandosi a garantire la sua presenza «in ispirito», per
«riaffermare recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il
fatto che, anni dopo, Malusardi rivendicasse la patente di
“sansepolcrista”‘, non è affatto probante, vista la tendenza di molti
fascisti, anche della prima ora, a retrodatare il più possibile il
momento della loro “presa di coscienza”””. 4 Cfr.
MARIO GIAMPAOLI, /9/9, Roma, Libreria del Littorio, 1920, pp. 97-98.
In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a
citare «Il Popolo d’Italia» del 24 marzo 1919), Malusardi sarebbe stato
presente in rappresentanza di Milano e di Bologna. * 4 «Il
Popolo d’Italia», 9 marzo 1919. 4 Si vedano gli articoli di Malusardi
Cose a posto e Commiato, in «Audacia», 28 maggio e 18 iugno
1921. D Degli anarchici interventisti che sposarono la causa
fascista, uno fra i più intraprendenti fu Leandro Arpinati. Il futuro
gerarca, peraltro, aderì al Fascio di Bologna soltanto nel settembre del
1919, a più di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese -
nato nell’aprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri
interventisti di parte democratica - Arpinati ebbe sempre, a quanto pare,
un ruolo del tutto marginale, nonostante la notorietà conquistata nel
novembre 1919, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio
di Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che
faceva parte del servizio d’ordine, fu arrestato insieme ad altri
cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia», 14 novembre e 20
dicembre 1919). Fu a partire dalla primavera del 1920, in parallelo con
l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio
bolognese (culminata con la fuoriuscita degli elementi democratici e di
sinistra), che Arpinati iniziò una spregiudicata ascesa politica. L’11
aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli affidò la
responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso
fascista di Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo
direttivo del movimento (cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 maggio 1920). Tra
il settembre e l’ottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio
seguito all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e
propria riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente
antipopolare, guadagnandosi il sostegno, anche finanziario, degli
ambienti più conservatori. Il Fascio di Bologna, così ricostituito,
accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di
primo piano, divenne una delle centrali dello squadrismo
emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di un’impressionante
escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni
amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a
Palazzo D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei
fascisti. Su tutti questi punti v. FIORENZA TAROZZI, Dal primo al secondo
Fascio di combattimento: note sulle origini del fascismo a Bologna
(1919-1920), in Bologna 1920. Le origini del fascismo, a cura di Luciano
Casali, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 93-114, e NAZARIO SAURO ONOFRI, La strage
di Palazzo D'Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano,
Feltrinelli, 1980, 80 Mario Gioda: il
difficile equilibrio tra reazione e operaismo A differenza di
Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e con un certo
distacco‘, Mario Gioda si gettò anima e corpo nella nuova avventura. Il
25 marzo 1919, due giorni dopo l’adunanza di Piazza San Sepolcro, Gioda,
con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i promotori
del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la segreteria‘.
Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda - come
avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un ometto
dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante
abito marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che
quello del tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente
il 28 marzo, prese sede nei locali della “Lega d’azione antitedesca”,
un’associazione patriottica di destra sorta nel 1916 ad opera del
nazionalista Vittorio Cian” . Il fascismo torinese - al cui sviluppo
iniziale contribuirono in misura notevole gli ex combattenti (Gioda cercò
in ogni modo di venire incontro alle esigenze e alle richieste dei
“trinceristi”, sforzandosi di far apparire il fascismo come il legittimo
rappresentante dei loro interessi) 5°. nacque dunque con il concorso e
sotto gli auspici della destra, distinguendosi da 4
Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi al
fascismo fu dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e
Mussolini, il quale non avrebbe avuto granché in simpatia «colui [Rocca]
che lo aveva violentemente attaccato nell’estate del 1914, obbligandolo,
nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe
preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo
Venezia. Storia di un regime, Roma, Editrice La Rocca, 1959, p. 339).
49 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 marzo 1919. 50 CARLO ANTONIO
AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, «La Stampa»,
25 marzo 1931. : : 5 In seguito il Fascio si trasferì nei locali
della “Pro Torino”, in Galleria Nazionale, un'associazione patriottica di
stampo sabaudo presieduta dal conte Barbavara di Gravellona.
Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti
torinesi iniziarono un’opera di penetrazione nella provincia. In una
delle primissime riunioni del Fascio, il 29 marzo, l’anarchico
“trincerista” Vincenzo Boario recò le adesioni dei gruppi fascisti del
Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr. MARIO GIODA, Il fervido
lavoro dei fascisti a Torino, «Il Popolo d’Italia», 30 marzo 1919. i
) 5? La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente
ammantata di retorica, appariva sincera. Già prima della nascita dei
Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si era fatto promotore di
una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di congedo agli
smobilitati, rappresentanti «l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio
verde» (ID., Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo
non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). 81 PORT
PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA
PAPA subito per le forti venature non solo
antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari tout court. Ciò divenne ancor
più evidente dopo l’avvento di Cesare Maria De Vecchi, un tipico
esponente della borghesia conservatrice piemontese («cattolico militante
e monarchico senza riserve», secondo la definizione che egli dava di se
stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne divenne
in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La convivenza tra
i due uomini forti del fascismo torinese, così diversi per indole, per
estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito molto
difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra
l’ironia e la commiserazione, che De Vecchi, nella sua autobiografia, ci
ha lasciato di Gioda: «un povero diavolo dalle molte vicende».
Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato
dalla simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino
- come rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era «stanca di
essere diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*,
allora il fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva
rivelarsi un elemento d’ordine, «più che mai indispensabile» a svolgere
una decisa azione «di vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla
fine di aprile, il Fascio di combattimento poteva vantare l’adesione di
ben 31 associazioni liberali torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli
impedimenti inizialmente frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto
delle destre valse a favorire la graduale espansione del fascismo nel
capoluogo piemontese. «Il lavoro — 53 Sul piano della
stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono
molto efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli
Interni, il Prefetto di Torino riferiva dell'avvenuta costituzione, in
seno al Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di seguire e segnalare
le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico»,
vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI
INTERNI, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir.
Gen. PS), Affari generali e riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.),
1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo,
a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia, »p.I/. Sulla figura
di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad
nomen. 3 CESARE M. DE VECCHI, op. cit., p. 15. «La Riscossa
Nazionale», 20 aprile 1919. 57 Ibidem, 11 maggio 1919. 58 Cf. «Il
Popolo d’Italia», 24 aprile 1919. Al Fascio aderì anche il comitato
“madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa Eleonora Contini di
Castelseprio. Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a
lamentarsi in più di un’occasione, sulle pagine de «Il Popolo d’Italia»
(per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento riservato ai
fascisti torinesi dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna
diffamatoria della giolittiana «La Stampa» nei confronti del Fascio di
combattimento. 82 scriveva Gioda
a Michele Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del Fascio - procede
benissimo e tra molto entusiasmo». «Il Fascio si è imposto — confermava
di lì a poco a Mussolini — e se noi non ci lasciamo sfuggire il momento
opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!. Ma qual era, in
tutto questo, il vero ruolo di Mario Gioda? Se egli era senz'altro
consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino
dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però
scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della
reazione antipopolare «l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio
dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a
quella, più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e
sempre sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur
difendendo il carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur
desiderando che ad esso accorressero tutte le forze «sane, giovani,
italiane», senza distinzione di parte o di colore politico (perché il
fascismo doveva essere — anarchicamente - l’”antipartito”) 4, teneva
comunque a distinguere tra antibolscevismo e antioperaismo e ribadiva che
i fascisti non dovevano passare per «dei nemici del proletariato». Questa
stessa esigenza fu da lui espressa al primo convegno regionale dei Fasci
piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA
DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito
Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta 17,
Lettera di Mario Gioda a Michele Bianchi, 29 aprile 1919. ©!
Ibidem, Lettera di Mario Gioda a Mussolini, 2 maggio 1919. © EMMA MANA,
Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura
di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, 1987, p.246. 9
L'idea di antipartito era già da tempo al centro della riflessione politica di
Mario Gioda. L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione
politica, già tipica dell’anarchismo individualista, trovava del resto un
corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e antiparlamentari del
dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda nel febbraio del 1919 —
vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e
produttori verso i politicanti». Contro il «feticcio partito», ormai
incapace di conciliarsi «coll’elettamente dinamica modernità civile» (la
nuova società scaturita dalla guerra), occorreva suscitare «l’idea
sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa «iconoclasta e squisitamente
anarchica», in grado di restituire dignità e centralità ai singoli
individui (MARIO GIODA, L'antipartito, «Il Popolo d’Italia», 10 febbraio
1919). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del
produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e
prossimo fascista Mario Gioda non poteva prescindere, la radice
libertaria e individualista di una simile impostazione di pensiero appare
comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei
padri spirituali dell’antipartito). Sul concetto di antipartito nel
primo fascismo v. EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista,
cit., p. 70 ss. © MARIO GIODA, Aspetti del fascismo torinese, «Il
Fascio», 15 agosto 1919. 95 Cfr, «Il Popolo d’Italia», 3 giugno
1919. 83 riaffermata poi in più di un
frangente. Il 19 giugno, ad esempio, «Il Popolo d’Italia» riportava
un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto, che l’autore
stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel campo
dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva
sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle
otto ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che
«l’approvazione, da parte del Governo, di concedere altre migliorie ai
ferrovieri» non poteva non destare «un senso di legittima soddisfazione»,
dal momento che vedeva tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il
fatto che poi, in occasione dello “scioperissimo” del 20 e 21 luglio, il
Fascio di Torino assumesse, nei confronti degli scioperanti, una
posizione di aperta sfida‘, non muta i termini del problema, in quanto
l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata contro la politica
“irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente condivisa da tutti i
partiti della sinistra interventista) e non contro la totalità dei
lavoratori!”. E’ però vero che, di fronte al primo programma
fascista, fortemente sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Renzo
De Felice - espresse qualche perplessità, soprattutto, lui repubblicano,
in merito alla cosiddetta pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva
il 6 giugno ad Attilio Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra
le riforme anche quella definitiva della monarchia. Forse è necessario
mettere i puntini sugli “i” e 5 Un manifesto, fatto
circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza
mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero
intervenuti a tutela dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos
bolscevico». Allo stesso tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che
«nessun partito socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori
come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione». /bidem, 17
luglio 1919. Sullo “scioperissimo” a Torino, che si concluse senza
incidenti degni di rilievo, v. «La Stampa» del 2., 22 e 23 luglio
1919. 9 L’atteggiamento dei fascisti nei confronti dello
“scioperissimo” è ben rappresentato dalle lettere di due
anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava
alla redazione de «L’Ardito», il giornale dell’Associazione fra gli
arditi d’Italia, scrisse a Mussolini (che ne definì la lettera «un gesto
di fierezza e di dignità») di non aver alcuna intenzione di «subire
supinamente» le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a
cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro («Il
Popolo d’Italia», 20 luglio 1919). Su «Il Giornale del mattino» del 30
luglio (organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni)
comparve una lettera non meno polemica del ferroviere Leandro Arpinati.
Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica
proprio in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento
di Bologna, il 20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i
colleghi favorevoli all’astensione dal lavoro (cfr. TORQUATO NANNI, op.
cit., p. 44). 67] programma, elaborato da Agostino Lanzillo e
intitolato / postulati dei Fasci. Per la rappresentanza integrale, fu
reso noto da «Il Popolo d’Italia» del 13 maggio 1919, 84
chiarire i nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La
preoccupazione di Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare
i delicati equilibri interni del fascismo torinese, dove gli elementi
monarchici erano in netta preminenza, e non è difficile leggere nel
qualcuno della sua lettera a Longoni un esplicito riferimento a De
Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato le vicende successive alle
elezioni politiche del 1921, non aveva rinnegato il proprio
repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da considerazioni
di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello di un suo
personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur
numerose concessioni alla destra. La questione delle alleanze, la
questione, in particolare del rapporto con la sinistra interventista
(repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti riformisti), si
presentò con sempre maggior forza in previsione delle elezioni politiche
dell’autunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il
movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo
romano a ridosso del voto) ”, ma che, a Torino, prendeva un significato
particolare. Già il primo agosto 1919, in una nuova lettera all’amico
Longoni, Gioda definì l’eventualità che si addivenisse a un blocco
elettorale di tutto l’interventismo di sinistra — la soluzione preferita
da Mussolini - «una sterile palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda
pensava a salvaguardare l’unità del Fascio da lui guidato, dove le forze
di destra, che erano preponderanti, non avrebbero mai condiviso una
piattaforma programmatica che ponesse tra i propri obiettivi quello della
costituente. Non a caso il direttore de «La Riscossa Nazionale» espresse
il proprio rammarico per le ripetute dichiarazioni di Mussolini in senso
repubblicano, chiedendosi se anche i fascisti torinesi intendessero
seguire il loro “duce” in quella china”. Gioda, consapevole di doversi
misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi, intervenne a dissipare le
perplessità dei “destri”. Mussolini — sostenne - esprimeva una posizione
del tutto personale, che tale sarebbe rimasta, almeno sino alla
convocazione del primo congresso nazionale fascista. Quanto al Fascio di
Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali di sorta.
© In RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.
518. 7° A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e
Giuseppe Bottai si oppose alla decisione, votata il 22 ottobre dalla
Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla “Alleanza
Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai
nazionalisti (cfr. Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale
romana, «Roma Futurista», 2 novembre "! In Renzo DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, p. 541. 7? Massimo RAVA, Posizione di
battaglia, «La Riscossa Nazionale», 3 agosto 1919. 85
Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo
politicamente certi nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al
Fascio io non ne conosco nessuno. Così come ignoro repubblicani,
monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio,
che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su
un dato programma di realizzazione immediata [...]. Tra parentesi, sono
stato proprio io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo]
Cavalli, nazionalista, e De Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo
del Fascio” Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non
era soltanto uno scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel
difendere il carattere antidogmatico dell’idea fascista; una presa di
posizione tipica della vocazione movimentista del primo fascismo, ma
nella quale, nel caso specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere
(almeno in qualche misura) anche il retaggio dell’anarcoindividualismo.
Non è privo di significato, d’altronde, che il fascista Gioda,
consapevole della novità rappresentata dal fascismo rispetto alle
categorie politiche d’anteguerra, richiamasse tuttavia la propria
identità di anarchico, e non già come semplice attitudine o abitudine
mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il
fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi,
Gioda poté confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito
«l’asse per una grande intesa degli interventisti» in vista delle
elezioni; ma che questa. sarebbe appunto avvenuta «fascisticamente»,
fuori dagli schemi destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal «colore
della tessera di partito». La “marcia di Ronchi” e
l’occupazione militare di Fiume da parte di Gabriele. D’Annunzio parvero
poter accelerare questo processo di unificazione. Il 30 settembre,
infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di in “comitato pro Fiume”
(ne sorsero di analoghi un po’ in tutta Italia), nel quale erano
rappresentate tutte le forze “nazionali”, di sinistra e di destra, dai
repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava di un entusiasmo
passeggero, che avrebbe ben presto ceduto il passo a una più grande
incertezza. 73 MARIO GIODA, / nazionalisti e l'intesa
di sinistra, Ibidem, 10 agosto 1919. tai Ip., Gli aspetti del fascismo
torinese, cit. Il 2 settembre, nel corso di un’adunata del Fascio
torinese alla presenza del segretario politico generale del movimento
Umberto Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero
battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr.
«Il Popolo d’Italia», 4 settembre 1919. ?° Cfr. Ibidem, 3
ottobre 1919, e «Il Fascio», 4 ottobre 1919. 86
Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto,
contrariamente alle aspettative del segretario del Fascio torinese (che
vi ebbe peraltro un ruolo defilato), un’indicazione univoca in senso
elettorale. Alla relazione di Michele Bianchi, fautore di una linea
politica possibilista (la politica del “caso per caso”), fece da
contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito,
lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire l’accordo con le
sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del giorno
compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli
Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra,
finì per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella
sola Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una
lista autonoma) 7”. I deliberati del congresso di Firenze,
nella loro elasticità, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata
da Gioda, il quale, libero da condizionamenti di sorta, poté rivolgersi
alle forze politiche torinesi con l’invito ad abbandonare «le fazioni» e
a dar corpo ad «un potente fascio di energie», in funzione antibolscevica
e antigiolittiana”. Per questa via si addivenne infine alla costituzione
di un “Blocco della Vittoria”, peraltro chiaramente orientato a destra,
quanto meno nella sua composizione. Ne facevano parte, infatti, radicali,
liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali alcuni membri del
disciolto “Fascio Parlamentare” (Edoardo Daneo,
Sull’occupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista
v. ROBERTO VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo
(1918-1922), Vol. I, Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967, p. 503 ss.,
MICHAEL ARTHUR LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, 1975, FRANCESCO
PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, 1988, e MICHEL
OSTENC, op. cit, pp. 131 ss. Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De
Felice a GABRIELE D'ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi
fiumani, Milano, Mondadori, 1974, pp. VII-LXXVIIL 7% Cfr.
Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 568 ss. Il
congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni 9 e
10 ottobre 1919 (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia», 10, 11 e 12
ottobre 1919). Cesare Maria De Vecchi entrò a far parte del nuovo
Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei Fasci
piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi
aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al momento della sua
costituzione ed era stato tra gli assaltatori della sede dell’ «Avanti!»,
il 15 aprile 1919. «La sua candidatura — scriveva «Il Popolo d’Italia»
del 16 novembre 1919 — significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo
per formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione
[...]. Nella lista dei Fasci egli rappresenta l’operaio onesto e che non
usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°, su un novero di 19
candidati, con 56 voti di preferenza. 78 MARIO GIODA, La
piattaforma elettorale piemontese, «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919,
e «Il Fascio», 1 novembre 1919 87
Giuseppe Bevione e l’ex Presidente del Consiglio Paolo Boselli), mentre
il Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il
generale Donato Etna, già comandante del corpo d’armata di Torino
(deposto su ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini
Giovan Battista Garino e il capitano Luigi Revelli”. L’Unione Socialista
Italiana, che in un primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se
ne tirò fuori quasi subito, per far causa comune con i repubblicani nella
“Alleanza Elettorale”®°. A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto
di aver imboccato una strada a rischio. Si nota infatti, nella sua
attività politica prima delle elezioni, la preoccupazione ricorrente di
non far apparire la lista del “Blocco della Vittoria” troppo sbilanciata
a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo illustrativo per «Il
Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più rappresentativa anche
delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un contenuto sociale
«notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora una volta che il
fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i lavoratori nel loro
insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra “pussisti” e
socialisti rivoluzionari. Un accenno alla lotta contro il
bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un passo della piattaforma
elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da
9 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919. AI
“Blocco della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione
Nazionale Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel
corso di un'assemblea del Fascio, il 29 ottobre, Gioda criticò duramente
la scelta dei combattenti, non tanto perché non ne condividesse le
ragioni ideali (la volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta
parlamentare), quanto, piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano
tattico. «I fascisti — disse Gioda — hanno accettato anche la lotta
schedaiuola per rintuzzare, ovunque e comunque, la sfida dei giolittiani,
dei clericali dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo originale
autografo del discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare
il carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia
elettorale fascista. ACS, MRF, Esposizione, Busta 111 [Documenti].
° «Il Fascio — commentava a questo riguardo Gioda — non ha potuto far
blocco con l’Unione Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non
tanto per divergenze programmatiche, quanto per la diffidenza di questi
ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe impostare la
campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo»
(MARIO GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i
fascisti, «Il Popolo d’Italia», 6 novembre 1919). 8 Ip, //
programma elettorale del Blocco della Vittoria, Ibidem, 1 novembre 1919.
Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria”
figuravano: l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la
riforma scolastica, quella del sistema doganale (per abbattere
«parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione
obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma
degli organi legislativi che garantisse «alla classe lavoratrice [...]
una diretta e specifica rappresentanza». nisticntiititnm
parte dei redattori del programma, “socialismo
rivoluzionario” e “bolscevismo”. Ora, i maggiori e migliori esponenti
internazionali del socialismo rivoluzionario sono antibolscevichi per
eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da Cipriani a
Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo
rivoluzionario*” Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la
sonora sconfitta dei fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del
“Blocco della Vittoria” i soli Bevione e Boselli; primo dei fascisti in
ordine di preferenze riuscì De Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino
83. Rispetto alla vera e propria débacle registrata dal fascismo in altre
parti d’Italia, non si trattava di un esito disastroso, ma occorre tener
presente che i fascisti in quanto tali non ottennero alcunché (Bevione e
Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo parlamentare
giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne, sottolineava il
rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di «brillante
risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di
una ben magra consolazione . su In verità, la sconfitta
bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento all’interno del Fascio
di Torino. Il 13 dicembre 1919 si riunì l'assemblea generale dei fascisti
torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri,
spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del
Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i
lavoratori delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda
dichiarò: 8 Ivi. pri 83 Per l’esattezza, il
“Blocco della Vittoria” riportò 23.321 voti, contro i 116.409 dei
socialisti unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista
giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito Economico, i 6.547
dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro
esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. «La Stampa»,
21, 24 e 25 novembre 1919. I 84 MARIO GIODA, / risultati
elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia», 28
novembre 1919. #5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l
Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico
rappresentante dell ala operaista del fascismo. Quali fossero le sue
convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso del 29 settembre 1919
al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più di
socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza
rivoluzionaria e proletaria del programma fascista, evidenziandone le
differenze ma anche le affinità con quello socialista, in ciò rivelando
il timore — comune anche a molti altri fascisti - che una troppo
accentuata politica antisocialista potesse condurre all’isolamento del
movimento fascista dalle masse. E’ significativo del clima politico di
quei giorni che, nonostante le aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio
si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti 89
Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che
oggidì occorra molta, ma molta circospezione prima di avventurarsi ancora
in altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre la nostra giovinezza
d’idee e la nostra combattività a beneficio dei vecchi partiti e dei
vecchi loro rappresentanti*” Nella nuova Commissione Esecutiva del
Fascio, eletta subito dopo, entrarono quattro operai (oltre a Lelli e
Ruggeri, Antonio Cantinetto e Pietro Giraudo) ®. L’allargamento della
base del Fascio - come auspicava Gioda (che fu riconfermato segretario
politico) - avrebbe dovuto favorire la ripresa, in vista di «nuovi
cimenti» e di «più gagliarde lotte politiche e sociali»**. Tuttavia, la
decisione di recuperare spazio e credibilità a sinistra restò senza
seguito. L’assenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un
movimento operaio forte e, a Torino più che altrove, schierato su
posizioni di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica
fascista - rese ancor più stridenti dalla nascita e dalla diffusione del
fascismo agrario - e le resistenze della destra interna, determinarono la
sconfitta (ma sarebbe più opportuno parlare di mancata realizzazione) di
questo progetto. Nella prima metà del 1920 il fascismo torinese
attraversò quindi una fase di ristagno, per non dire di vera e propria
crisi, che parve poterne compromettere le sorti”, tanto che l’unico
successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la costituzione, accanto al
Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”, In occasione di una nuova
assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio, Gioda pronunziò un
importante discorso, che, sebbene non si discostasse granché da quanto
egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo mutamento di
prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione delle velleità
operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il
prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo
e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen.
PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. 80 «Il
Fascio», cit. n Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919. di
MARIO GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi. AI riguardo v.
EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss. 2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese,
nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta dallo studente
d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova
Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il Fascio», 8 maggio 1920. Sul
fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra
fascismo e associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane
quella di PAOLO NELLO, L'avanguardismo giovanile alle origini del
fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1978, 90
marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra
del fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della grande
agitazione dei metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle lancette”), un
manifestino del Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai
torinesi a rinnegare il bolscevismo - che aveva corrotto «l’idea
socialista di giustizia e di libertà» -, per stringersi fiduciosi intorno
ai fascisti, i quali «erano per le più ardite riforme e le più audaci
rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non significassero «la
rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel discorso del
maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire) dal piano dei
diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione dei
temi più strettamente produttivistici. I fascisti — disse Gioda —
sono delle volontà e delle capacità che seguono direttive senza dogmi e
senza battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari
e conservatori [...]. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo
lavoratore, se questo sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato
educato solo al culto del bel vivere è una bestia da soma che qualsiasi
governo o classe capitalistica o chiesa politica possono asservire. La
questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una questione
innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e
parlamentari. E” una questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza
produttiva di tutte le energie nazionali”? Gioda prese parte al
secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a Milano il 25 e 26
maggio 1920, quello della svolta a destra e della °!
ACS, MRF, Esposizione, Busta 111 [Documenti]. 92 «Il Fascio»,
cit. Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in
parte dal suo passato anarchico e repubblicano, e le ragioni del
compromesso (senza però tralasciare di considerare che la disinvoltura
programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo
fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei
Fasci piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda,
commentando la relazione di Umberto Pasella sulla questione sindacale,
difese il principio, in essa affermato, della legittimità dello sciopero
economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte, «un
cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per
Gioda, non dovevano essere «organizzazioni di guardie bianche o comitati
di difesa civile» e avevano il dovere di battersi per qualsivoglia
riforma, «sia pur audace», quando essa avesse arrecato beneficio ai
lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto
caro all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese
auspicò la trasformazione del movimento politico e sindacale fascista in
un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF, Esposizione, Busta 125
[Documenti]. Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €, più
in generale, sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo, v. EMILIO
GENTILE, op. cit,, p. 76 ss., e soprattutto PAOLO NELLO, Dino Grandi: la
formazione di un leader fascista, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 73
ss. 91 conseguente
trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di Gioda nel
Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi, rappresentò -
come ha sottolineato Renzo De Felice - l’unico successo dell’ala sinistra
del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano nazionale non
corrispose però il rafforzamento della sua leadership nell’ambito del
fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il rinnovo
della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta affermazione della
destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la Commissione, accrebbe
sensibilmente il proprio prestigio e la propria influenza, mentre i primi
sintomi di una grave malattia costringevano Gioda a forzati periodi di
assenza dalla scena politica cittadina. Da questo momento, insieme al
progressivo dilagare dello squadrismo, di cui De Vecchi seppe essere un
abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua espansione’. Gioda,
dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a I
nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista, approvati a
Milano, modificavano radicalmente — in senso conservatore - il programma
fascista del 1919. Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica
e la richiesta dell’assemblea costituente (l’anarchico Domenico Ghetti,
rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i pochi a pronunciarsi per
la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo, Marinetti e
il gruppo dei futuristi abbandonarono il movimento. Per il
resoconto del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 25 e 26 maggio 1920, e «Il
Fascio», 29 maggio 1920. Sull’intera vicenda v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 594 ss. % Cfr. Ibidem,
p. 594. 95 Cfr. «Il Fascio», 31 luglio e 7 agosto 1920.
Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi
che colse il fascismo torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12
giugno si era riunita un’assemblea straordinaria del Fascio per decidere
circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo. Caduto
il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti l’eventualità di un
esecutivo affidato a Giovanni Giolitti: una soluzione che trovava il
pieno consenso di Mussolini. Nel corso dell’assemblea, che raggiunse toni
drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni intesa con i
giolittiani, definendo «un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il rientro sulla
scena nazionale dell’uomo politico di Dronero, e minacciando addirittura
di dimettersi qualora i fascisti di Torino avessero dato il loro assenso
alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata assemblea generale del Fascio
di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro Giolitti, «Il
Fascio», 26 giugno 1920). Di fronte alle resistenze incontrate all’interno
del Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del
movimento, decisi a perseguire l’accordo con Giolitti, Gioda si rese
conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di affermarsi.
Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la
nuova assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione
Esecutiva. Su questi avvenimenti v. EMMA MANA, op. cit., p 254 ss.
% Con l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a
Torino, le violenze fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni
operaie del settembre contribuirono a legare il fascismo torinese agli
ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei
92 setter cirrretricdatietnttittztt sac
partire dal febbraio del 1921, allorché assunse la direzione del
nuovo settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio»””.
Massimo Rocca: il fascismo come nuova élite AI congresso fascista
di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue conclusioni non
dovettero dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto - che egli
non si era entusiasmato all’originario programma sansepolcrista,
giudicandolo troppo «impeciato di socialismo». Ma Rocca, sia pur attento
osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un
giornalista. Il 25 marzo 1920 aveva iniziato le pubblicazioni la rivista
settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento della redazione, guidata
dal conte Arrivabene, ex direttore de «La Perseveranza», era chiaro:
occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la
sua conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse le idee e
le aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno
dei più continui e più stimati collaboratori, le credenziali dell’ex
novatore anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro
irrobustite. Sulle pagine de «Il Risorgimento» Rocca riprese la
polemica adriatica. E’ indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu
proprio su tale delicata questione che si venne realizzando l’incontro
definitivo tra Rocca e Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere
dalla sua intransigenza, scagliandosi contro la «Lissa diplomatica», cui,
a suo parere, la politica dei rinunciatari avrebbe condotto il Paese”.
Quasi nello stesso tempo, tuttavia, prese ad emergere, dai suoi scritti,
una posizione diversa, più conciliante e realistica. Di fronte alle mille
difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni
italiane, Rocca si persuase che la sola via loro
interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi
benefici sul iano dei finanziamenti e del sostegno politico e
organizzativo. Cfr. /bidem, p. 258 ss. srng 7 «Il Maglio», fondato
dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel
gennaio, evolvendo dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista
vicino ai nazionalisti. Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la
direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la rubrica “Senza
guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin),
una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide
impegnato in schermaglie a distanza con la stampa avversaria, in
particolare con «Ordine Nuovo», organo del PCdI torinese.
9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura, cit., p.
82. °° LIBERO TANCREDI, La lingua nostra, «Il Risorgimento»,
Milano, 6 maggio 1920. 93 d’uscita fosse
quella dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915.
Consapevole che ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che
pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si
disse convinto che la città, «confinante con un'Italia signora del Carso,
delle Alpi Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita
«infinitamente più forte», che se fosse stata abbandonata, senza
continuità territoriale, «ad una larva di sovranità italiana»'”. Dopo
l’avvenuta autoproclamazione di Fiume in stato indipendente, Rocca si
rafforzò nella convinzione che l’Italia non dovesse legare i propri
destini a quelli della città “martire”. In un articolo del 26 agosto gli
elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione fiumana
non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano di D’
Annunzio. Noi - scrisse Rocca - rimaniamo convinti e tenaci
fautori dell’annessione di Fiume all’Italia [...]. Ma non abbiamo mai
nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può contemporaneamente
annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra: anzi,
che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli
Alleati, l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto!°?
Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro
(contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate
sul piano dell’ordinamento politico) '°?, non ne scalfiva l’opinione che
la reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni
internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era, in ogni
caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato il 12
novembre 100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca,
giunto a Fiume subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre
mesi, durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera
di D’Annunzio. A Fiume si erano ritrovati anche altri anarchici
interventisti, fra i quali Edmondo Mazzucato e — come vedremo - Edoardo
Malusardi. !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il
Risorgimento», 20 maggio 1920. !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa,
Ibidem, 26 agosto 1920. 193 In particolare, Rocca disse di
apprezzare che nella carta dannunziana (redatta da Alceste De Ambris e
messa in “bello stile” da D’Annunzio) fosse sancito «il dovere di
produrre», quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti
politici. A parte questo, egli condivideva l’abolizione del Senato e
l’istituzione di un camera tecnica, espressione delle diverse corporazioni
professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano «l'istituto
fondamentale», il solo in grado di «raccogliere e disciplinare» le masse e di
dar loro «una norma e un’idea». (ID., La costituzione di Fiume, Ibidem, 9
settembre 1920). Nondimeno, al di là delle convergenze formali, il
produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore di Massimo
Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano.
Sulla costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi di
Alceste De Ambris e di Gabriele D'Annunzio, a cura di Renzo De Felice,
Bologna, Il Mulino, 1973. 94 eli ita
1920 tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti,
inflisse un duro colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In
due suoi interventi su «Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso
dell’accordo italo-jugoslavo, Mussolini mostrò di accettare
sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si trattava di una mossa a
sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo politico (in questo
modo il “duce” avrebbe realizzato «il suo inserimento nel gioco
politico-parlamentare a livello nazionale») ', che disorientò la maggior
parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo Rocca. Il giorno
15 novembre, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si riunì per
discutere della questione. Rocca, presente come semplice osservatore (e
perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte di
Mussolini, imitato dal solo Cesare Rossi!°. Il Trattato di Rapallo - disse
Rocca - risolveva il problema adriatico «dal lato di terra», mentre
lasciava insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale.
Riguardo a quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero
far buon viso a cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo
e soprattutto senza assecondare improbabili disegni di sedizione
militare. Non si trattava - sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi
espresse negli articoli di Mussolini!” - solo di una ragione di
opportunità, in quanto «il problema marittimo per l’Italia [...] non si
fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno sbaglio ostinarsi a
considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico obiettivo. Occorreva
guardare oltre, avere una visione più ampia dei problemi di politica
estera. O noi — concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad
essere i padroni d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che
ci piace, oppure persuadiamoci che impiantare una politica estera armata
accanto a quella ufficiale, senza essere capaci di annullare quella
ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo
1% Cfr. BENITO MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, «Il Popolo d’Italia», 12
novembre 1920, e Ciò che rimane e ciò che verrà, Ibidem, 13 novembre
1920. Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, cit. p..645 ss. !°5 Ibidem, p. 662. !°
Mario Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto
ammalato e fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei
Fasci italiani di combattimento. Il Fascismo innalza la bandiera della
Dalmazia Italiana, «Il Popolo d’Italia», 16 novembre 1920.
107 «Gli italiani — aveva scritto Mussolini nel suo fondo del 13 novembre
— non devono ipnotizzarsi sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo
— un vasto mare” di cui l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama
Mediterraneo, nel quale le possibilità vive dell’espansione italiana sono
fortissime». 108 La discussione e il voto dei Fasci italiani di
combattimento, cit. 95 Dopo accese
discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un ordine del
giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava
completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un
successo della corrente filo-dannunziana'!, in realtà non andava oltre
una generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non
comprometteva affatto la strategia del “duce”, come gli avvenimenti delle
settimane successive, culminati con il non intervento fascista in
occasione del “Natale di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il
giorno dopo la riunione del Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini
di non aver votato contro l’ordine del giorno (come aveva fatto Cesare
Rossi) solo in quanto non ne aveva «legalmente» diritto, riconfermando la
propria solidarietà al “duce”!!!, Da quel giorno Rocca entrò a pieno
titolo nei ranghi del fascismo. Non soltanto, infatti, riprese la
collaborazione con «Il Popolo d’Italia» (per il momento continuando ad
occuparsi del problema adriatico, sempre nell’ottica mussoliniana) !'?,
ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi mesi, lo avrebbe
portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di Rocca si
rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta dal
fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli
era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua
riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed
economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che
nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità
delle classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e
dedite allo sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di
un «gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca -
il dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole
manovre politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della
produzione. A fronte di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente «il
dovere di resistere e di 1°° RENZO DE FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 647. 110 1 ’intesa
italo-jugoslava - recitava l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista
(Pietro Marsich, De Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché
«deficiente ed inaccettabile per la Dalmazia». !!! «Il Popolo
d’Italia», 17 novembre 1920. !2 gi vedano, in modo particolare, gli
articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello marittimo, e Il
trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25
novembre 1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono
raccolti da Rocca in un volume dal titolo // trattato di Rapallo: una
pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate del 1921
per le edizioni de «Il Popolo d’Italia». !!3 Massimo Rocca, La
crisi maggiore, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920. Gli articoli
citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca era
il principale curatore. 96
vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti
dirigenti, burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di
comprendere «i fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico
industriale»!!5. Il nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto,
a detta di Rocca, «nella perdurante e anacronistica separazione netta fra
la casta burocratica e la classe borghese, e nella sopraffazione della
prima sulla seconda, mentre l’economia andava sempre più controllando la
politica, fino ad imprimerle le sue necessità e direttive» '!°. A questo
stato di cose occorreva rispondere con la «rivoluzione della competenza»:
la rivoluzione della classe borghese. La borghesia produttiva, la sola
capace di gestire «con criteri tecnico- produttivi» tanto il potere
economico quanto il potere politico, aveva l’obbligo morale di realizzare
«un rivolgimento aristocratico» della società italiana. Solo così, contro
ogni utopia egalitaria, le leve del comando effettivo sarebbero tornate
in mano «ai migliori, anziché ai molti, ai capaci e ai competenti». Alla
borghesia, finalmente consapevole della propria autorità, sarebbe
spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in questo
processo la parte migliore e più responsabile del proletariato”. In attesa
che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a suo
modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema
economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se
si vuole che si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo
stimolo dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed
all’accrescimento delle responsabilità singole, a misura che i diritti e
gli stipendi aumentano; all’abolizione radicale dei privilegi [...] di
cui godono i funzionari pubblici»!!8, Dopo l’occupazione
delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure “draconiane”
contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un
governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di
reintegrare «il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi
!!4 LIBERO TANCREDI, Scioperi politici, Ibidem, 22 aprile
1920. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della
vertenza dei metallurgici torinesi. !!5 MAssIMO ROCCA, La crisi maggiore,
cit. Ivi. ID., La disperazione dei servizi pubblici,
Ibidem, 10 giugno 1920. si In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla
convenienza di restituire ai privati l’esercizio dei servizi essenziali
(si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il
pubblico, in Ibidem, 20 gennaio 1921). La privatizzazione avrebbe costituito
uno dei cardini del programma economico fascista del 1922, elaborato da
Rocca con Ottavio Corgini. !!° Cfr, ID., La vertenza dei
metallurgici, Ibidem, 2 settembre 1920. 118 97
democratici. Come si rileva da un articolo del 21
ottobre, Rocca pensava a una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo
nuovo», che avesse già fornito prova di «volontà e di giustizia», il
quale avrebbe potuto far cessare «l’orgia di tutti i disordini»'?°. Non è
chiaro se egli si riferisse direttamente a Mussolini, ma è molto
probabile. E’ comunque significativo - come si evince da quello stesso
articolo - che Rocca ritenesse l’assunzione dei pieni poteri una
soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata
l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,
ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile
a frenare le prepotenze e le intemperanze dei “rossi”!’, Quando la
violenza fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non
avrebbe indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro
l’estremismo squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo esservi
contraddizione nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di
condanna - assunto da Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo
la “marcia su Roma”. Certamente, egli non seppe o non volle vedere la
gratuità e la scelleratezza delle violenze fasciste del periodo “eroico”,
e, in senso più ampio, che quelle violenze erano il frutto di una visione
totalitaria della lotta politica, visione connaturata all’essenza stessa
del fascismo, che nello squadrismo (e prima ancora nella mentalità squadristica,
esprimente non soltanto un disegno rivoluzionario ma, spesso, un ri verso
la vita in generale) aveva il proprio stile politico qualificante‘; ma
occorre tener presente che Rocca si poneva, appunto, dall’angolo visuale
del fascismo, vale a dire da una prospettiva di parte, prigioniero di
quella che potremmo definire sindrome da guerra civile. Da uomo di parte,
Rocca riteneva che la violenza delle camicie nere fosse la risposta più
che legittima alla violenza antinazionale dei 120
i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre
1920. 121 In un commento a margine dell’assalto a Palazzo
D’Accursio guidato dalla sua ex guardia del corpo Leandro Arpinati, Rocca
espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo squadrismo. «I
fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare
alle masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un
pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al
codice penale non ancora abolito, una propaganda ed un’azione da veri
delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la violenza delle
masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno
atroce» (Ip., Bologna, Ibidem, 2 dicembre 1920). 122 Sulla
violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dell’azione politica
fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di «Storia Contemporanea», per la
maggior parte dedicato all’argomento, particolarmente il saggio di PAOLO
NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo
nazionalrivoluzionario, pp. 1008-1025. Dello stesso autore v. anche le
riflessioni in merito contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini
del fascismo, cit., e Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa
(1919-1925), Pisa, Giardini, 1995, 980
“pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa al potere di
Mussolini, reputando esser venute meno, con la sconfitta dei
socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare
il perdurare dell’illegalità fascista. Nel corso del 1921
Massimo Rocca consolidò la sua già rilevante posizione all’interno del
movimento fascista. Nel febbraio, un suo articolo in difesa della
monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini,
contribuì a rinfocolare il dibattito circa l’orientamento istituzionale
del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a
tutela dell’istituto monarchico, non solo per motivi di opportunità
strategica (una rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco
le forze del sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del
Paese e del fascismo stesso), ma anche in ossequio a più complesse
valutazioni politiche (monarchico «di ragionamento», si autodefinì Rocca
molti anni dopo) 1a, che investivano l’intero assetto della realtà
nazionale. La società economica e politica che va sotto
l’appellativo convenzionale di “borghese” - scriveva Rocca - si è
capovolta nel suo contenuto produttivo ed ideologico [...].
Economicamente essa è sindacalista e non più individualista: tanto che
l’economia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera [...]. Se
una rivoluzione è matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e
non di rissa da arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte,
con un colpo di forza se divenisse indispensabile, la tecnica e i
tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi sindacali e tecnici, alla
burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi [...]. La funzione dei
Parlamenti è oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora
essi erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove
é/ites in cui il popolo rispecchiava se stesso [...]. Oggi il Parlamento
[...] è diventato pur esso una casta chiusa [...] non meno delle più
diffamate monarchie [...]. E allora resta da chiedersi se alle minoranze
giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di fronte una sola
casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche
quella monarchica, per usare dell’una qual mezzo di controllo e di
pressione sull'altra !°* !23 MAssIMO ROCCA, La
realtà italiana, «ABC», 1 luglio 1958. 24 ALTAVILLA, Repubblica e
monarchia, «Il Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921 (anche in Massimo ROCCA,
/dee sul fascismo, cit., pp. 3:11). L'articolo di Rocca, scritto in
forma di lettera a Mussolini, faceva parte della rubrica “Orientamenti e
discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione delle
adunate regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale
del movimento nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del
fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee orientative dell’azione
politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui
era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate
rispettivamente da Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e
Pasella, concernevano il problema agrario, i 99
A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ciò
che ancora una volta emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente
elitario della riflessione di Rocca. Non deve perciò stupire più di tanto
il fatto che egli, dopo aver rivalutato il ruolo della borghesia
produttiva come classe dirigente, riscoprisse il carattere “esclusivo”
della tradizione monarchica (così come, più tardi, avrebbe riscoperto
‘l’importanza etica” del cattolicesimo) '°5. Del resto, in un articolo
dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche e di riferimenti
autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse il convincimento che
«l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale, d’individui
singoli o di piccoli gruppi», e che «l’ascesa e l'emancipazione, come la
istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, un’auto-ascesa,
un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento»"°°. Era dunque necessario
- chiudeva Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile
la matrice individualista della sua cultura politica) - “tornare agli
individui” e farla finita una volta per sempre con il culto demagogico
della massa. Edoardo Malusardi: il mito del fascismo
libertario” Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di
Edoardo Malusardi. Conclusa una breve militanza nell’ Associazione
Nazionale Combattenti!?”, rapporti con lo stato, la
politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti
chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte
anche Rocca, ebbe luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr.
La grandiosa adunata lombarda dei Fasci “ i combattimento, «Il Popolo
d’Italia», 22 febbraio 1921). 25 Cfr. MASSIMO ROCCA, Una questione
da non risolvere, «Il Risorgimento», 14 luglio 1921. La questione
menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse
essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti
destinato a smarrire il proprio carattere di universalità. L’articolo
conteneva un giudizio altamente positivo della «funzione storica e
persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa
e la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’
probabile che quest’interesse fosse da attribuirsi ad un’autentica
conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in seguito, Rocca pareva
interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità e
di disciplina interiore. te ID., Quarto e quinto stato, Ibidem, 24
febbraio 1921. La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul
numero successivo della rivista, il 3 marzo. In esso Rocca ribadiva
l’idea che fosse doveroso, oltre che utile, “educare” il proletariato,
così da poterne estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado
di cooperare con la borghesia alla gestione della produzione.
? Spintovi dalla passione “trincerista”, Malusardi aveva aderito
entusiasticamente all’ ANC (per qualche tempo ricoprendo la carica di
redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo della sezione monzese di
quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso nazionale
di Napoli, nell’agosto 1920, perché contrario ai ventilati propositi di
trasformazione Malusardi aveva intrapreso una
saltuaria collaborazione con «Il Fascio» e (come si ricava dalle cronache
di quello stesso giornale) una altrettanto frammentaria attività di
propagandista per conto del Comitato Centrale fascista, prima di partire
alla volta di Fiume, dove, nell’ottobre del 1920, era stato designato a
dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa anche quell’esperienza,
all’inizio del 1921 Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo
Bresciani, segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonché
ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare l’ala di estrema
sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le
doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di segretario
propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè
l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo
un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come
prima cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che
doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero,
contribuendo al graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera.
Egli, in particolare, vi affinò le proprie qualità giornalistiche,
rispolverando tra l’altro una rubrica dei tempi de «La Guerra Sociale»
(“Foglie d’ortica”), che divenne un punto di riferimento importante nella
dialettica politica cittadina. Come si è detto, Malusardi proveniva da
Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e
a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie,
retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del
Carnaro e il sindacalismo nazionale di Filippo Corridoni — il “suo”
compagno di trincea - e Alceste De Ambris'’°. Nel Fascio veronese,
dell’Associazione in partito. A parte i suoi articoli per «L’Eco
della Vittoria», per lo più improntati al tema dell’apoliticità del movimento
combattentistico, l’attività di Malusardi in seno all’ ANC non è
agevolmente documentabile. 28 Anche sulle date dell’arrivo e della
permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. «Il Fascio» del 30
ottobre 1920 riportava un «avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e
delle Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere
con la Segreteria Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più
l’incarico di segretario propagandista del Comitato Centrale, in quanto,
già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città “olocausta”
Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La Conquista», del quale non
ci è stato possibile reperire una collezione (lo stesso Renzo De Felice,
dal cui Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De
Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte
indiretta). n Bresciani, classe 1890, già convinto militante
anarchico, era stato fra i promotori del Fascio veronese di azione
internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta 833 [Bresciani Italo]. 15°
Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in EDOARDO
MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino,
Stabilimento Tipografico Artistico Commerciale, 1930,
101 PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO
RPPARE PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò
l’ambiente ideale per portare avanti le proprie idee. Il 13
febbraio 1921 si riunì a Venezia l’adunata regionale dei Fasci del
Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del
movimento Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi
ebbe modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla
controversia repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio che i fascisti
si facessero portavoce di un «fiero atteggiamento antimonarchico». La
monarchia sabauda — affermò - aveva tradito in più di un’occasione: prima
della guerra perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante perché
colpevolmente “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica
rinunciataria di “Cagoja” Nitti, a Fiume perché’ complice della
repressione sanguinosa dell’insurrezione dannunziana'”.
Noi, che siamo repubblicani e libertari — concluse Malusardi - in
determinati momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia
sembrava essere gettata nel caos, accettata anche una dittatura
monarchica [...]. Ma quando una monarchia esiste solo di nome ed avalla
tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non è per noi che un
anacronismo inutile e ingombrante! AI termine della discussione,
Malusardi e Bresciani presentarono un ordine del giorno
repubblicano, che raccolse però soltanto nove voti (quanti erano i |
delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione
Pasella, rivendicante il carattere «antidogmatico e antipregiudiziale del
fascismo» in materia di regime!”*. Fu sulla questione sindacale,
cui egli era particolarmente sensibile, che Malusardi ottenne i maggiori
riconoscimenti. In quei mesi il problema dell’organizzazione sindacale
era oggetto delle preoccupazioni della dirigenza fascista. Nel novembre
del 1920 era sorta infatti la Confederazione Italiana dei Sindacati
Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati autonomi,
d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si usava
dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda,
131 Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di
Venezia, «Audacia», 19 febbraio 1921. 326: Ivi.
133.1, Ivi. Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a
precisare l’essenza libertaria del proprio fascismo. 134
yi Ivi. 135 Pi n toda re: 4 det H rado In
occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, nel
gennaio del 1 920, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente
antioperaio. Poiché la UIL, il sindacato interventista, aveva invece
appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il 102
che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del
sindacalismo fascista, era se l’azione sindacale dovesse avere natura
politica oppure apolitica, vale a dire se i Sindacati Economici dovessero
agire in stretto accordo con i Fasci di combattimento, seguendone i
programmi e le direttive; 0, al contrario, se dovessero essere svincolati
dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire nel campo delle
rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel suo intervento
al convegno veneziano, Pasella affermò che i Fasci dovevano ostacolare
con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi - facendo
così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati
Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso
per caso”. Infatti — rilevò -, se i fascisti avevano il dovere di
contrastare gli scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però
opporsi alle legittime richieste dei lavoratori, quando questi
reclamavano «un più ampio diritto alla vita», e quando le loro
aspirazioni potevano essere armonizzate con «gli interessi superiori
della Nazione». Le preoccupazioni operaiste di Malusardi si rivelarono
ancor più manifestamente allorché egli dichiarò che, «quando i lavoratori
avessero saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed una
preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e
delle officine», i fascisti (che non dovevano essere «la guardia bianca di
una classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere
loro «il diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°.
L'ordine del giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi,
anche nella parte relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo
ai quali — recitava - i fascisti, pur non condividendoli in linea di principio,
si sarebbero riservati di prendere posizione “volta per volta”, in base
alle circostanze. Anche in materia di politica estera, Malusardi
prese nettamente le distanze dalla linea ufficiale del movimento. Egli,
che era stato testimone del “Natale di sangue”, non poteva ammettere che
i fascisti avessero abbandonato D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur
dichiarando -la propria stima a Mussolini, Malusardi tenne a precisare di
non indulgere ad alcuna forma di momento di misurarsi
direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei sindacali
fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo
più di modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si
proclamavano apolitiche. Il primo sindacato autonomo di marca fascista,
il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il 16 febbraio, dalla
fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine
a questi argomenti v. principalmente FERDINANDO CORDOVA, Le origini dei
sindacati fascisti (1918-1926), Roma-Bari, Laterza, 1974, e FRANCESCO
PERFETTI, // sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello
stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988. 196 La grande
adunata fascista di Venezia, cit. 103
«feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver
ingiustamente sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.
Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero
severe critiche da parte sia di Umberto Pasella, sia di Luigi Freddi (il
segretario generale delle Avanguardie studentesche), che gli
rimproverarono di fare della demagogia. In un fondo per «Audacia»
Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta apprensione nei “piani
alti” del fascismo, replicò ai suoi detrattori con queste parole:
Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un
aggettivo che _ non mi spaventa, quando penso poi che dai su
citati è prodigalmente distribuito a tutti coloro che si permettono di
pensare con la propria testa'** Riaffiorava - come si può notare -
lo spirito polemico che aveva contraddistinto il giovane anarchico
nei giorni dell’interventismo; riaffiorava, soprattutto,
l’orgoglio individualista, la presunzione di sentirsi | fuori dal
“gregge”, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato come
“eretico”. Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su «Audacia»,
Malusardi fu | comunque indotto a dimettersi dalla carica di
segretario propagandista del Fascio di Verona. L'assemblea generale dei
soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza lunedì 21 febbraio, respinse
all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti | veronesi
apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di
dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale del maggio.
157 Cfr. /bidem. Queste affermazioni di
Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a quanto
Massimo Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e
il fascismo. «Per provare poi — annotava Rocca - che [...] non tutti i
primi fascisti erano mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che
entrarono nel movimento, quasi tutti nel 1919, e che non furono pochi; io
solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedicò
all’organizzazione operaia, come [...] Edoardo Malusardi ed altri. [...] Degli
anarchici di cui mi ricordo nessuno è stato squadrista, nessuno entrò nel
partito dopo la marcia su Roma, parecchi anzi si ritirarono prima
o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta a
servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un uomo; la mentalità di
questi anarchici era l’antitesi di quella dei socialisti passati al
fascismo. I primi non conoscevano l’intransigenza settaria dei secondi:
ma possedevano una coscienza morale [...] solida e indipendente»
(MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 108). i
EDOARDO MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.
L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia
al nostro direttore, Ibidem, 26 febbraio 1921.
Dalle elezioni del 1921 alla “marcia su Roma” Le
consultazioni generali del 17 maggio 1921, mercé l’inclusione dei Fasci
di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono
l’ingresso del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare
italiana. Il 7 aprile, una riunione straordinaria del Comitato Centrale
dei Fasci (presente anche Mario Gioda) ratificò la decisione — che
Mussolini aveva preso già da tempo - di dar corpo ad un'intesa elettorale
con le altre forze “nazionali”!‘°. Il giorno successivo, a un’assemblea
del Fascio milanese, Massimo Rocca difese la legittimità di quella
scelta. Non è colpa nostra — disse — se quei perfetti reazionari
che sono i socialisti e i comunisti malgrado il rosso di cui
s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra l’Italia com’è, con certe
sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne derivano [...],
e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla
Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad
ogni costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo
che noi non rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma
conservatore e rinnovatore nello stesso tempo [...]. Soprattutto non
rinunciamo alla nostra lotta contro la proprietà e il capitale
improduttivo, quando è tale veramente e non secondo le ciarle dei
demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della
Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né
contro lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di
adempiere le funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie
private, individuali e collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘
Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica
bloccarda, giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo
con l’esigenza di salvare l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno,
la formazione del 0 Cfr. / Fasci di Combattimento per
la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il Popolo d’Italia», 8 aprile
1921. Su questi punti v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il
fascista. La conquista del potere (1921-1925), Torino, Einaudi, 1966, p
64 e ss. 1! «n Popolo d’Italia», 9 aprile 1921 (Rocca riprese questi
concetti in un articolo del 16 aprile per «Il Maglio», intitolato
Arrestare la dissoluzione). La decisione del Fascio milanese fu salutata
con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. // programma dei fascisti e
l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera», 9 aprile 1921).
Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali,
«Il Popolo d'Italia», 10 aprile 1921. Nel corso dell'assemblea
generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda faticò a
imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessità della
sinistra interna — che 105
(Ai li A A ici Blocco Nazionale nel capoluogo
piemontese si rivelò tutt'altro che agevole. Il 15 aprile (il giorno
prima i fascisti torinesi avevano inaugurato la campagna elettorale con
un comizio di Massimo Rocca) "4, Gioda annunciò l’avvenuto
raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune condizioni
poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,
l'Associazione Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito
Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri
e l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio
lasciò trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche
l'Associazione Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la
fermezza antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo
dell’azione politica fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani
dell’ Associazione Liberale. Democratica e, contemporaneamente,
pretendere di fare dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a
Torino, dove un Blocco che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva
scarse probabilità di affermarsi ed era perciò nell’interesse dei
fascisti non tirare troppo la corda. Il 21 aprile, a conclusione di un
negoziato che lo stesso Gioda definì “penoso” e “difficile”, si giunse
alla costituzione del Blocco, con l’inclusione dell’ Associazione
Liberale Democratica. Così, non soltanto i | fascisti
accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda
lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse
il veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura
dell’ex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile
dell’Ufficio i egli personalmente condivideva —
riguardo all’opportunità di far blocco anche con gli odiati
giolittiani, il segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle
forze antinazionali i e, riprendendo un concetto proprio
dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il
carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere «né radicali, né
liberali, né anarchici», | ma solo fascisti, uniti nell’interesse
del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta elettorale,
«Il Maglio», 16 aprile 1921). 143 Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta
elettorale a Torino, «Il Popolo d’Italia«, 15 aprile 1921, e Un poderoso
discorso di Libero Tancredi, «Il Maglio», 16 aprile 1921. Rocca si
dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo
l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio
inaugurale della campagna elettorale fascista (cfr. // primo comizio
elettorale a Milano, «Il Popolo d’Italia», 16 aprile 1921).
14 Queste prevedevano: «schede elettorali con il Fascio dei Littori; un
programma che comprendesse la valorizzazione della guerra e della
vittoria, l’assistenza ai combattenti, la tutela dell’italianità
all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta
[...] dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la
difesa e la valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata»
(MARIO GIODA, Un primo accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà
possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti, Ibidem, 15 aprile
1921). Stampa presidenziale, Luigi
Ambrosini". Nel Blocco erano compresi — unici candidati
fascisti — Cesare Maria De Vecchi e Massimo Rocca, che faceva così il suo
ingresso nella lotta elettorale!‘°. Dove la linea bloccarda
incontrò fortissime resistenze fu a Verona. Il 10 aprile, nel corso della
prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della provincia, Edoardo
Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non avrebbero rinnegato
le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero compromessi in
un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata e
monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello
schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a
definire l'eventuale accordo con i fascisti una «necessità sacra») ‘’, il
Fascio di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il
Blocco. Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i
fascisti presentarono una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non
negò il proprio assenso all’operazione e che anzi, in una lettera aperta
ai fascisti di quel collegio, si congratulò con loro per aver agito
«fascisticamente», giacché, ove mancavano «certe elementari condizioni di
probità politica», occorreva «non 50 bloccare [...] ma
sbloccare»!5°. 45 Cfr. Ibidem. pl so Giretti fu
costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la
formazione e Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On.
Giretti, Ibidem, 23 aprile 1921). i 146 la candidatura di Rocca fu
particolarmente spinta da Gioda. «Rocca — scrisse quest’ultimo, presentando
l’amico agli elettori torinesi — è stato un novatore e un divinatore. Ha
veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è
Stato scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il
Blocco Nazionale a Torino. I candidati fascisti, Ibidem, 12 maggio
1921). 147 . “ Cfr. «Audacia», 30 aprile 1921. i
sb A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da
soli, «Il Popolo d’Italia», 20 aprile 1921. I DTA 148 La
costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune
nemico: fascisti a voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i fo La
composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra.
Eccezion fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne
facevano parte il generale Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe
Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei
fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor Alberto De
Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia», 3 maggio 1921. i
150 «11 Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata
29 aprile, si trova anche in BENITO MussoLINI, Opera omnia, a cura di
Edoardo e Duilio Susmel, Vol. XVI, Firenze, La Fenice, 1956, p. 455).
î Il 13 maggio Mussolini si recò a Verona per la campagna
elettorale e riconfermò l'apprezzamento per la decisione dei fascisti
veronesi di affrontare da soli il cimento delle urne. Cfr. «Il Popolo
d’Italia», 15 maggio 1921. 107 Massimo
Rocca figurava dunque candidato fascista a Torino. Il 21 aprile, la
Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia
decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come
scrisse «Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un colore
patriottico e passionale alla listay!°*. Rocca espose le
linee del suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il maggio, in
una serie di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi
(importante soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di
Competenza) Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma
tecnocratica della rappresentanza parlamentare. Una riforma seria
e duratura — scriveva - dovrebbe consistere nel riconoscere
l’impossibilità della politica astratta [...], l’immoralità parassitaria dei
politicanti puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che
l’economia addita attraverso le sue organizzazioni, di ceto, di mestiere.
Distinguere gli uomini per quello che fanno e non per quello che dicono;
e quindi togliere alle mandrie elettorali l’incarico di eleggere chi sa
parlare, mentire e intrigare di più, per affidarlo alle collettività ed
ai nuclei organizzati sulla base di un’attività specifica a profitto
della vita sociale, attività alla quale soltanto i veramente capaci
possono eccellere. Sarebbe possibile allora che industriali e operai e
scienziati e artisti autentici prendessero parte alla Vita pubblica,
occupandosi ciascuno delle questioni in cui è competente: e i Parlamenti
tecnici così formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e
meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli!5*
A questo intervento ne seguirono altri, più specifici (una sorta di vera
e propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca
suggellava i princìpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libertà
economica, decentramento, rispetto della legge. L’economia liberista -
argomentava Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva
accusata di essere «caotica, anarchica, antisociale ed egoista», ma ciò
non rispondeva a verità, poiché il vero liberismo non si risolveva
nell’individualismo fine a se stesso. Esso, infatti, “trascendeva” e
“comprendeva” tanto l’individualismo quanto il collettivismo; racchiudeva,
cioè, tutti i «sistemi di vita», tutte le forme economiche (tranne le
improduttive), di volta in volta selezionate e messe in atto dalla
società umana. In altri termini, il liberismo era «l'economia spontanea
di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo significava,
né più né meno, tornare all'economia «naturale della vita
15! Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera», 22 aprile
1921, ne «Il Popolo d’Italia», 23 aprile 1921. MASSIMO
ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimento», 14 aprile 1921.
sociale», al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”.
Le affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto l’intero
suo pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in
questo senso, non v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a
rassicurare i ceti moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però
interessante vedere quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca
(soprattutto Ja definizione del liberismo come organizzazione spontanea
della vita economica) discendesse almeno in parte dalla formazione
anarco- individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità
anarchica verso lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore,
pareva emergere là dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto”
elettorale, additava la necessità del decentramento amministrativo e
politico quale condizione essenziale per una maggiore libertà e una
miglior gestione delle risorse nazionali'?°. - Nel terzo ed ultimo
articolo, infine, Rocca affrontava la questione della legalità. La
legalità — scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto
esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti
preordinati, si risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima,
attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi,
non sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata
restaurata la disciplina, in tutti i settori della vita civile e
politica: «disciplina di governo, di vita pubblica, di nazione, di vita
privata». Disciplina era anche sinonimo di gerarchia; infatti - sosteneva
Rocca - bisognava ripristinare «Ia gerarchia in ogni campo», affinché il
«valore cosciente» tornasse a primeggiare sul numero. L’articolo
terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse ristabilita la
legge «contro tutti !59, i Simili affermazioni imponevano equanimità di
giudizio; imponevano, in altre parole, che quella stessa legge che egli
pretendeva applicata contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse
anche nei confronti delle camicie nere. In futuro - come si accennava -
Rocca non avrebbe esitato a prendere posizione contro la perdurante
illegalità fascista; ma allora, nella prima metà del 1921, anch’egli
riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che legittimo di lotta
politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo articolo su «Il
Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di
1% Ib., Ritorno all'economia, Ibidem, 21 aprile 1921. i ) y
“Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca
il 6 maggio nei locali dell’Associazione Commercianti Industriali
Esercenti di Milano (cfr. «Il Popolo d'Italia», 7 maggio 1921). y 155
Cfr, MassIMO ROCCA, Ritorno alla semplicità, «Il Risorgimento», 28 aprile
1921. 156 Ip,, Ritorno alla disciplina, Ibidem, S maggio
1921. 109 a A mm PPTIPONI violenza
fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),
Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro il dispotismo comunista,
«dopo mesi e mesi di longanimità»!?. La sera del 25 aprile, in
circostanze misteriose, l’operaio fascista Cesare Odone fu assassinato da
un militante comunista!*. All’alba del giorno seguente, bande armate di
fascisti presero d’assalto la Casa del Popolo. Nel terribile conflitto
che ne seguì restarono gravemente feriti tre comunisti e un giovane
studente fascista di Reggio Emilia, Amos Maramotti, che morì poco dopo in
ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti,
furono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi -
riportava «La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi
alle fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni
provocati dall’assalto fascista furono stimati intorno ad un milione di
lire!°. Nei giorni successivi, l’autorità giudiziaria ordinò il fermo di
nove fascisti, tra i quali il segretario della sezione torinese dell’
Associazione Arditi, Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda e De Vecchi
furono denunciati con l’accusa «d’istigazione e complicità morale»!°
(senza peraltro che la denuncia sortisse alcun effetto). Non è affatto
chiaro se Gioda fosse coinvolto nella decisione di assaltare la Casa del
Popolo (la spedizione - a quanto riferiva il Prefetto di Torino Taddei al
Ministero il 29 aprile - era stata organizzata «prontamente e nel massimo
riserbo») ', ma appare evidente dal suo comportamento di quei giorni come
anch'egli, al pari di Rocca, fosse prigioniero di un equivoco di fondo:
quello di considerare la violenza un 157
ll ID., Che cosa è “già” il controllo operaio a Torino, «Il Popolo
d’Italia», 7 maggio 1921. ® Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra
ucciso da un comunista, “La Stampa”, 26 aprile 1921.
Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente MARIO
Giona, Un fascista mutilato di guerra assassinato da un comunista a
Torino, «Il Popolo d’Italia», 27 aprile 1921, e Tragico epilogo di una
rappresaglia fascista, «L'Ordine Nuovo», 26 aprile 1921. Cfr. La
funesta notte e le sue conseguenze, «La Stampa», 28 aprile 1921.
L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla
Casa del Popolo (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano
ostacolato gli assalitori, ma gli avevano persino assecondati (cfr. Come
è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro di Torino, «L'Ordine
Nuovo», 28 aprile 1921). Il comportamento delle guardie regie fu oggetto,
nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta,
voluta dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari
avessero preso le parti degli squadristi, ma accertò altresì - come lo
stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la «deplorevole
negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi
incapaci di fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva
fascista. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris.,
1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. ‘9? Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
30 aprile 1921. !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS,
Affari gen. e ris., cit, 110
aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo
senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento
coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un
esempio di questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di
Gioda di poco precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione
subita da Antonio Gramsci ad opera di alcuni squadristi’, il segretario
del Fascio torinese aveva definito «sacrosante» le ritorsioni fasciste
contro «le vili imboscate» e «la violenza liberticida dei pussisti», ma,
al contempo, aveva vivamente deplorato quell’episodio, del quale non
comprendeva la necessità'. Nel caso poi della drammatica rappresaglia
alla Casa del Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne
intesa la reale portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro
l’evidenza dei fatti, che essa aveva avuto natura anticomunista ma non
antiproletaria tout couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole
della contraddittorietà della propria posizione non è dato sapere, ma è
certo che egli non aveva la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di
cose che sfuggiva ormai al suo controllo, costringendolo ad improbabili
equilibrismi. i ; All’indomani della prova elettorale (che vide il
fascismo conquistare 35 seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò
una lunga intervista a Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti
avrebbero o no preso parte alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura
alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il “duce”
rispose: Il fascismo non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane,
ma è tendenzialmente repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai
nazionalisti, che sono !62 Gramsci era stato
aggredito il pomeriggio del 20 aprile, all’uscita dalla sede di «one
Nuovo». Il leader comunista non subì in realtà alcuna violenza, mentre il
giovane ‘ardito del polo” Giovanni Torrero, accorso in suo aiuto, restò
gravemente ferito. Cfr. Ibidem. 5 MARIO GIODA, /n tema di violenza,
«Il Popolo d’Italia», 22 aprile 1921. E Che Gioda non nutrisse
molta simpatia per gli eccessi degli squadristi è me provato
dall’impegno che egli mise-nel cercare di frenarne le intemperanze nel
pesi c pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei
mesi immediatamente precedenti i pe fo pacificazione. Alla fine di
giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis e
comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza
li ata fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata
«ad attizzare MEA ‘odio olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta
sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921). to Ip., Un rilievo opportuno
dopo l'incendio vendicativo, Ibidem, 31 aprile 1921. | 165 Rocca
non fu eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di
preferenza (cfr. «Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un
miglior risultato in FERIRE 35,282 voti a Torino città e 88.670
nell’intera circoscrizione (cfr. «La Stampa», 18 e maggio 1921).
111 pregiudizialmente e semplicemente
monarchici. Il gruppo fascista si asterrà ufficialmente dal prendere
parte alla seduta reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di
Mussolini scossero profondamente tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al
putiferio da esse suscitato in molti Fasci, fu stabilito di rimandare ogni
decisione in merito a una riunione congiunta dei deputati fascisti, dei
membri del Comitato Centrale e dei segretari delle Federazioni regionali,
fissata per giovedì 2 giugno al Teatro Lirico di Milano'!. Tra i Fasci
dove la questione ebbe un'eco maggiore vi furono quello di Verona e
quello di Torino. Un editoriale di «Audacia» (poi rivendicato da
Malusardi) fece giungere a Mussolini il consenso dei fascisti veronesi.
L’originario programma fascista - vi si leggeva - quello di piazza San
Sepolcro, intransigentemente repubblicano, era stato purtroppo messo in
disparte, mentre era giunto il momento di rinverdire lo spirito
rivoluzionario del fascismo! Le dure apostrofi dell’organo fascista
destarono viva apprensione negli ambienti moderati di Verona, al punto
che, rispondendo all’articolo di «Audacia», il liberale Gaetano De Carli
lasciò addirittura intendere che la borghesia veronese non avrebbe
esitato a difendersi con le armi da un’eventuale insurrezione
repubblicana fascista!. Il 29 maggio l’assemblea generale del Fascio si
chiuse con l’unanime approvazione di un ordine del giorno
Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento — recitava il
documento - richiamandosi alle origini eterodosse del fascismo, qui nel
veronese mai smentite, dichiara la propria incondizionata solidarietà con
Mussolini nella tanto dibattuta questione della tendenzialità
repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano
parte anche di altri partiti!” i Dopo che la riunione milanese del
2 giugno, protrattasi fino al giorno successivo, si fu risolta in un
nuovo compromesso (una «soluzione molto confusa e contraddittoria»,
secondo la definizione di Renzo De Felice) !”! !6©
«Il Giornale d’Italia», 21 maggio 1921. L'intervista a Mussolini
fu riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio. !57 Cfr.
Ibidem, 24 aprile 1921. Sulle conseguenze dell’intervista di
Mussolini v. RENZO DE FELICE, Mussolini il ‘fascista, cit., . 95
ss. » Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia», 28 maggio 1921.
GAETANO DE CARLI, Difendo il Re, «Arena», 1 giugno 1921. 170 . .
«Audacia», 4 giugno 1921. !7! Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista,
cit., p.97. \ 112 che
eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio malumore
e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale sciogliesse
definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo. «E?
ora di finirla — scrisse tra l’altro — di vedere e liberaloni e nazionalisti
e rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo
di rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla
anche con questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro
programma e mascherano gretti interessi individuali o di classe»!”?.
La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a Torino, dove portò
a un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti,
in un’intervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiarò che i
deputati fascisti del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla
seduta reale'”. Il 24 maggio, per testimoniare il proprio dissenso da De
Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario politico del
Fascio di Torino e dalla direzione de «Il Maglio»'”. La Commissione
Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigettò tuttavia
le dimissioni, inviando altresì un voto «di piena, assoluta solidarietà»
al “duce”. In un articolo di commento alla vicenda, Gioda, rinfrancato
dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si lasciò andare a
valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto di
meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini.
Ben più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il giorno dopo le
elezioni, fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o
sorvolare su una delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di
essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce”
- secondo Gioda - era giunta a proposito, così da smontare una volta per
sempre «la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al servizio
della borghesia agraria e L’ordine del giorno
approvava l’operato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo
parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non
partecipazione alla seduta reale, ma non faceva menzione della questione
istituzionale. !72 EDOARDO MALUSARDI, Vogliamo il congresso
nazionale!, «Audacia», 11 giugno 1921. !73 Cfr. «La Gazzetta del
popolo», 23 maggio 1921. Il 24 maggio, nel corso di un comizio al
teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia, il
futuro quadrumviro riconfermò quanto dichiarato il giorno prima al
quotidiano torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 maggio 1921). Nelle
sue memorie, De Vecchi si compiacerà di ricordare che Gioda,
nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più pallido, finché,
esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. CESARE M. DE
VECCHI, op. cit., p. 42). !74 Cfr. «Il Popolo d’Italia», cit.
In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le
pubblicazioni per quasi un mese. !75 Cfr. «Il Popolo
d’Italia», 26 maggio 1921. 113
industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana
e libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona
fede. Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza
nella situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello
nazionale, ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.
Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea
del Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non
edulcorata, de «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale
tra Gioda e De Vecchi. Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu
licenziato un ordine del giorno anodino (sottolineante il carattere
unitario del programma politico fascista) che, in definitiva, suonava
come un’attenuazione della linea intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione
al Teatro Lirico, nel corso del quale De Vecchi non mancò di fare «una
manifestazione di fede monarchica»!?8, confermò la vittoria
dell’indirizzo moderato. A distanza di pochi giorni De Vecchi prese
l’iniziativa - del tutto personale - di convocare un vertice dei
segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose all’invito e non si
recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che riuscì a far
passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in materia
di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il
nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un
uomo di sua fiducia, l’avv. Ruella'”, Il 12 giugno tornò a
riunirsi la Commissione Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise
per la seconda volta, lasciando capire di non aver intenzione di recedere
dalla propria decisione'*°. Dieci giorni più tardi, un’ennesima
assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘| provvide all’insediamento
di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua | volta, riunitasi
il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di De
Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione
82 dalmata a Fiume **. Gioda appariva sconfitto su tutti fronti.
Nel giro di un | 176 la disciplina
fascista, Ivi. 17? Ibidem, 2 giugno 1921. All’assemblea
del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia
intervenire nella discussione. LOI ‘imponente convegno fascista di
ieri a Milano, Ibidem, 3 giugno 1921. 17° Cfr. «Il Maglio», 18
giugno 1921. 180 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 14 giugno 1921.
La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal
capitano degli arditi Mario Gobbi. 18! Cfr. «Il Maglio», 25 giugno
1921, e «Il Popolo d’Italia», 26 giugno 1921, I membri della
Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei. 182 Cfr. «Il
Maglio», 9 luglio 1921. 114 MARIO GIODA, Le
dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per
mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di
pacificazione nel frattempo stipulato con i socialisti, la situazione
mutò ancora una volta. Il 6 agosto, a riprova della gravità della crisi,
«Il Maglio» interruppe nuovamente le pubblicazioni (le avrebbe riprese
soltanto il 26 novembre). Trascorsa una settimana, Gioda fu richiamato
alla segreteria del Fascio, quindi, il 25 agosto, l’assemblea generale
fascisti torinesi votò la nomina di un’altra Commissione
Esecutiva". La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte,
anche Edoardo Malusardi. Il 13 giugno si svolse un’adunata provinciale
straordinaria dei Fasci e dei Nuclei fascisti del veronese. Al centro del
dibattito, una volta ancora, il tema dei Sindacati Economici. Alla tesi
facente capo a Giuseppe Serenelli, contraria alla costituzione di detti
sindacati, e a quella di Alessandro Melchiori, favorevole alla formazione
di organizzazioni sindacali ad autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di
Malusardi, per il quale, mentre la prima rivelava chiaramente la «qualità
di agrario» del suo suggeritore, la seconda era troppo generica e
parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il fascismo doveva adottare
il programma di sindacalismo integrale contenuto nel “testamento
politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità dell’adunata
furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico all’interno del
Fascio veronese, «per motivi di salute e non politici»'*°. Al riguardo
mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua
decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne,
più o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da
Malusardi ai suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un
uomo tutt’altro che dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo
da parte e che, persuaso della bontà dei propri convincimenti,
riaffermava la propria indipendenza di giudizio.
183 184 Su tutta questa vicenda v. EMMA MANA, op.
cit., p. 270 ss. Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di
Brescia) aveva già espresso il proprio punto di vista in un precedente
intervento su «Audacia». I sindacati - aveva rilevato - dovevano
mantenersi il più possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non
potevano rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se
necessario anche contro gli stessi interessi padronali. «Come fino ad
oggi — aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono serviti per punire
i calunniatori del fascismo, essi serviranno [...] per prelevare a domicilio
quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente»
(ALESSANDRO MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, «Audacia», 11
giugno 1921). 185 Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del
giorno, formulato da Italo Bresciani d’intesa con il presidente
dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale), per la
costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici «nazionali», aventi
autonomia «finanziaria e politica» (/bidem, 16 giungo 1921).
Ivi. 115 Ho
sempre pensato — scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai
avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque
parte venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie
dell’anchilosi cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su
tutte le contrade. Sempre ho irriso, anzi, a tutte le botteghe
multicori politiche che pretendono d’aver la privativa
dell’infallibilità!” E interessante, in questa lunga “confessione”
di Malusardi, il modo in cui egli tornava ad illustrare la propria
concezione sindacalista. Il tono e i contenuti - come si può
vedere - non erano granché mutati dai tempi de «L’Agitatore».
«Benché sono [sic] orgogliosamente individualista — affermava - fui tra
le masse lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io
credessi o creda nella elevazione collettiva della massa [...], ma per
staccare da essa delle individualità e delle minoranze intelligenti e
volitive, capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto livello di
comprendonio e di personalità. Poiché io non dimentico che la storia è
sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze [...]. Il sindacalismo,
quale io lo intendo [...] è individualista ed è una realtà avveniristica
nella quale predomina il “mito” della singola responsabilità. Il
sindacalismo è logicamente per un continuo superamento e per il massimo
imborghesimento; il socialismo ed il comunismo statali rappresentano
invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8*
Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dall’evidente sapore
programmatico. lo non sarò mai per il conservatorume rancido e
vilissimo che, passata la bufera bolscevica, spazzata via dal salutare
vento fascista, si è riverniciato a nuovo e pretende rimerchiare la
nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver molto
contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina
e ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento
fascista!*” In definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona
- cui fece seguito il suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva
dettato, più che da cattive condizioni di salute, da valutazioni di
opportunità “ambientale”. Egli, del resto, non abbandonò affatto
l’attività politica. Al congresso provinciale 87
s 187 EpoARDO MALUSARDI, Commiato, cit. 8 Ivi.
189 Ivi. A seguito delle dimissioni di Malusardi la
direzione di «Audacia» fu ereditata da Luigi Grancelli.
116 fascista del 7 agosto, Malusardi era
infatti presente in rappresentanza dei piccoli Fasci di Legnago e di
Cologna Veneta, figurando altresì quale segretario generale della
Federazione fascista intermandamentale del basso veronese. In quel
frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole al patto di
pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, «per ragioni di ordine
nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti a
favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Giuseppe Bernini,
del Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto del 3
agosto!”. Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il
Fascio veronese manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi
appoggiasse la strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche
possibile desumere dalle sue future prese di posizione in tema di
violenza, Malusardi riconosceva il bisogno di una “tregua d’armi” con le
sinistre (la sua intransigenza sui principi non dev'essere confusa con
l’estremismo squadristico), ma è anche presumibile che egli mirasse in
parte a recuperare credito agli occhi delle gerarchie!”, Tra l’agosto e
il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa opera di propaganda a
sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di
Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare
con «Audacia», di cui riassunse la direzione il 29 ottobre, poco
tempo prima del III congresso nazionale fascista!”
19° Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo
Rocca, benché, in un articolo di poco precedente alla firma del
patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta di un eventuale
accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta
politica aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la
pace interna, «Il Risorgimento», 21 luglio 1921). Dopo che l’accordo fu
denunciato - in conseguenza dei gravi incidenti scoppiati al margine de!
III congresso nazionale fascista -, Rocca attribuì la responsabilità del
suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una
pacificazione, Ibidem, 24 novembre 1921). Su tutte le questioni
connesse al patto di pacificazione v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista,
cit., p. 100 ss. 19! Cfr. «Audacia», 13 agosto 1921.
192 A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato
Centrale, mentre rimproverava a Luigi Grancelli e agli altri dirigenti
del Fascio di Verona, il loro «semplicismo politico», si disse piacevolmente
sorpreso che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse l’iniziativa di
Mussolini per la pacificazione (OTTAVIO MARINONI, Dopo il Congresso
Provinciale, Ivi). 18. 11.30 ottobre, in preparazione dell’assise
nazionale di Roma, i Fasci del veronese si radunarono a congresso. Tra i
temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata trasformazione del
movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu
nuovamente quello dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la
diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri fascisti”, organismi di categoria
dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilità di un
sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la
funzione dei Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai
oggetto delle critiche di autorevoli 117
Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma
tra il 7 e il 10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo
Rocca. Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli
d’indubbio interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto -
formulò la sua proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di
Rocca, i Fasci avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di
avanguardia politica e ideale, come lo era stata la Destra storica
cavouriana. La vita politica italiana, costretta in avvilenti
compromessi, aveva bisogno di «un eccesso di spiritualità», tale da
bilanciare l’eccesso «di politicantismo mercantile» che la sommergeva; e
solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura
e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto
svolgere questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella
tradizione risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e
morale» dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire
che «non le masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il
progresso consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti
- Rocca non ne dubitava - avevano le carte in regola per guidare
quest'opera di rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima
definirsi come forza politica. Il fascismo, infatti, era nato
prevalentemente ad opera di sovversivi, alcuni dei quali non avevano mai
del tutto rotto i ponti con il proprio passato. Erano coloro che
difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati Economici (forse
Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e rappresentavano la tendenza
«filoproletaria» del movimento: una tendenza, sia pur degna del massimo
rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici della sinistra,
plasmando una sorta di «demagogia fascista», non meno deprecabile di
quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva
esponenti della gerarchia fascista, da Michele Bianchi a Dino
Grandi, da Massimo Rocca allo stesso Mussolini (su questi punti v.
FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 45 ss.). Al congresso veronese Malusardi
si pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e
difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata
a livello nazionale da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò
Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità di tutte le forze sindacali nazionali,
ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il monopolio dei
sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le divergenze son
profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore
credente e quello miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono
tutti d’accordo nel volere il proprio miglioramento economico e morale».
Di concerto con Italo Bresciani, Malusardi presentò dunque un ordine del
giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse, «all’infuori
dello stesso Partito Fascista», un «forte organismo sindacale che raccogliesse
sotto il suo vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano
la realtà Nazione» («Audacia», 4 novembre 1921). “ Massimo
ROCCA, Pér una nuova destra, «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1921 (anche
in Ip., /dee sul fascismo, cit., pp. 44-51). la
destra reazionaria, «formata da certa borghesia, specialmente terriera, e
da residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di
difesa e di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era
responsabile del carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in
talune zone del Paese, Tra le due ali estreme del fascismo si situava
tuttavia un folto centro moderatore, che Rocca riteneva essere il
legittimo erede del primo nazionalismo, come questo lo era stato del
primo liberalismo di destra, del liberalismo, cioè, non ancora
“inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una zona media del fascismo,
dunque, fondata sulla «disciplina verso la Nazione, al di sopra degli
esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che Rocca
confidava sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a
costituire il perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento
al congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo —
disse - doveva innanzi tutto svolgere «un’opera di educazione sulle
masse», per volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi,
in quanto la crisi italiana era una «crisi d’incompetenza» e le questioni
economiche e amministrative, per le quali lo stato politico non era
adatto, dovevano essere demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma,
le organizzazioni sindacali avrebbero potuto giocare un ruolo importante,
a condizione che i sindacati divenissero strumento «di selezione delle
élites proletarie»'?”. L’assise dell’ Augusteo decretò la nascita
del Partito Nazionale Fascista. Sia Rocca (che a Roma rappresentava il
piccolo Fascio lombardo di Castellanza) 198. sia gli altri ex
anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al
193 Ip., Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento”, 22 settembre 1921
(anche in Ip., /dee sul fascismo, cit., pp. 31-43). 196 Su
questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì EMILIO
GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, cit., pp. 227-228.
19? «Il Popolo d’Italia», 10 novembre 1921. L'intervento di Rocca
al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui
problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la
convinzione che l’Italia dovesse avere una politica estera «rettilinea e
chiara», senza le incertezze del passato, e che spettasse al fascismo far
sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle “glorie” e
alla “potenza” d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un
caso che l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio
(cfr. /! discorso polemico di Massimo Rocca, «L’Idea Nazionale», 10
novembre 1921). !°8 Cfr. «Il popolo d’Italia», 10 novembre
1921. Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di
Milano (oggi Varese), era stato inaugurato nel luglio del 1921 alla
presenza di Massimo Rocca, che aveva fatto da padrino. Ne era segretario
Giulio Schejola e contava 67 soci, in prevalenza operai e impiegati.
L'assemblea generale dei soci designò Rocca a rappresentare il Fascio al
congresso nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e
amministrativo del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento, Busta
25 [Castellanza]. 119 congresso,
votarono a favore della trasformazione del movimento in partito!” Dal
congresso scaturì inoltre il nuovo organigramma fascista: Massimo Rocca
entrò a far parte della Commissione Esecutiva del PNF°%, mentre De
Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo, rilevò
Gioda nel Comitato Centrale?” Le conclusioni del congresso furono
esaltate da Rocca in un lungo articolo celebrativo, significativo per i
numerosi richiami al problema dell’organizzazione sindacale e, soprattutto,
per gli accenni ai Consigli 199 ; A Errante
" Il 17 ottobre si era radunata l’assemblea generale dei fascisti
torinesi. Nella sua relazione Mario Gioda si era pronunciato a
favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare - la stessa
parola partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto
- che il movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava,
perciò, soltanto di ratificarne ufficialmente l’esistenza. La creazione
di un partito fascista era altresì indispensabile per imprimere un
carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato
alle singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte
infeconde» tra le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte
dei casi, d’interessi localistici o addirittura personali. Si noti, a
questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di
Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista
Italiano, «Il Popolo d’Italia», 18 ottobre 1921). Anche
Malusardi, in occasione del già menzionato congresso provinciale veronese del
30 ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento
fascista in partito, a patto che la nuova compagine politica ereditasse
«il patrimonio ideale del vecchio partito d’azione mazziniano,
plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana,
alle esigenze della vita moderna» («Audacia», 4 novembre 1921).
In seguito, Rocca riferì che De Vecchi, «a nome di amici nazionalisti e
sindacalisti», gli aveva offerto la segreteria del partito, da egli
rifiutata, «malgrado le insistenze», per non venirsi a trovare in una
situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del partito —
scrisse Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi
in un compito amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche
settimana il rivale e poi il nemico del Duce» (Massimo Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del PNF fu
quindi nominato Michele Bianchi. Per la cronaca del congresso
dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia» del 7, 8, 9 e 10 novembre
1921. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo
v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 182 ss. Stando
al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro
0 contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’
Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni
dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr.
Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Il
tema dei rapporti col nazionalismo dominò a lungo il dibattito interno fascista
all’indomani del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo
dell’ANI, Rocca, dopo aver sottolineato lo «spirito aristocratico» che
animava il nuovo Partito Fascista, si disse «convinto che il fascismo, il
nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando
qualcosa che, un giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi»,
ed auspicò la formazione di un unico «partito nazionale» (// fascismo e
la crisi italiana in una nostra intervista con Libero Tancredi, «L’Idea
Nazionale», 23 novembre 1921),
Tecnici. Rispetto ai sindacati - rilevava il neo dirigente fascista -, il
partito poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente» su di essi
(come egli si augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una
visione demagogica della lotta sindacale. Alla necessità di delineare gli
orientamenti sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare
gli organi elettivi, «in armonia con la economia sindacale moderna».
Secondo Rocca, un primo passo verso questa riforma era rappresentato
dalla decisione, presa in ambito congressuale, di dar vita a organismi
professionali ristretti - i Consigli tecnici appunto -, da affiancare ai
«Parlamenti generici e politici», inadatti per loro stessa natura a
decidere su argomenti che richiedessero competenze tecniche specifiche
°°°. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei
deliberati del congresso nazionale fu Edoardo Malusardi. In primo luogo -
com’ebbe a scrivere su «Audacia» - egli dissentiva da Mussolini in merito
alla «concezione statale». Il ritorno al liberismo e l’accantonamento
della Carta del Carnaro, sanciti a Roma, gli apparivano difatti come la
negazione dello spirito originario del fascismo. Quando egli
[Mussolini] — rilevò Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,
superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici
nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che [...] dalla
Carta del Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa
di più, poiché appunto nella Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella
ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo stesso Mussolini, non
deve ignorare ma integrare Quanto all’annosa questione
istituzionale, Malusardi ribadì il proprio repubblicanesimo, solo in parte
stemperato da considerazioni di opportunità politica.
202 Massimo Rocca, Un congresso di vivi, «Il Risorgimento», 17
novembre 1921 (anche in ‘cismo, cit., pp. 52-61). DIE n prete
anre ie del PNE, approvato nel dicembre del 1921, accolse le indicazioni
del congresso circa l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o
Gruppi di Compare). Questi, che venivano al terzo posto nella struttura
gerarchica del partito, subito dopo gli organi dirigenti (Consiglio
Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei Fasci,
avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in
materia di servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica
ed amministrativa, tanto sul piano nazionale che su quello locale, in
modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema politico,
economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma
e Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico
Berlutti, 1922, pp. 24- 25 (lo statuto/regolamento del partito fu
pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo d’Italia» del 27 dicembre
1921). 29 EDOARDO MALUSARDI, /n margine al congresso, «Audacia», 19
novembre 1921, 121 Anche Mazzini
— scrisse - pur mantenendo intatta la sua fede repubblicana, per
raggiungere l’unità d’Italia, scrisse la famosa lettera al Carignano e non
ostacolò di salire al trono Vittorio Emanuele II. Ma il veggente ligure,
però, mai si adattò a servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così,
pure noi fascisti, pur riconoscendo inopportuno attualmente qualsiasi
tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato dagli elementi
antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria
tendenzialità repubblicana? Infine, Malusardi deplorò la scarsa
attenzione volta dai congressisti ai problemi sindacali e alla questione
agraria, attribuendo la ragione di questa grave lacuna programmatica alla
presenza, in seno al fascismo, di «agrari dalla mentalità antiquata». Per
contro, egli affermò la necessità di combattere il latifondo, per
giungere alla «sproletarizzazione» delle campagne, incrementando la
piccola proprietà e la cooperazione”, L'ultimo atto pubblico di
Malusardi a Verona fu la partecipazione al congresso provinciale fascista
del 22 gennaio 1922. Anche in quella circostanza egli non tralasciò di
riaffermare la propria fede sindacalista e di celebrare il
«sindacalismo/corporativismo dannunziano [...] genialmente dettato nella
Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale delle
organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei
Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione
Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente
ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e
204 205 206 Ivi. Ivi.
Ibidem, 28 gennaio 1922. Il 21 gennaio Malusardi abbandonò la
direzione del giornale (che fu rilevata da Luigi Grancelli).
? Intorno a questi avvenimenti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 53
ss. AI congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso
dibattito, si scontrarono tre posizioni: quella di Edmondo Rossoni,
sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso Malusardi), quella
del neo segretario del PNF, Michele Bianchi, per l’istituzione dei
sindacati “di partito”, e quella, mediana, di Dino Grandi e Massimo
Rocca, a favore di un’autonomia “controllata”, che finì per prevalere (a
questo riguardo si veda PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un
leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca
sostenne che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo
l’entrata in funzione dei Gruppi di Competenza. Prima di allora - data
«l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di sottrarre i lavoratori
al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro
la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro canto, creare dei
sindacati fascisti, come proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF
al rischio della demagogia. Per questi motivi Rocca si espresse - con
Grandi - per l'istituzione di «sindacati semplicemente 122,
deambrisiana, usciva dunque dall’orizzonte
programmatico del fascismo, ma Malusardi parve non rendersene conto.
Lasciata Verona per Brescia, dove rilevò la direzione del locale organo
fascista?”*, Malusardi si presentò ai “camerati” bresciani con queste
parole: Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato,
siamo contro a qualsiasi dittatura bolscevica [...], ciò non significa
che siamo dei conservatori e dei reazionari. Noi siamo, invece,
profondamente novatori”°” Se Malusardi si considerava ancora e
sempre un novatore, Massimo Rocca, ch’era stato l’iniziatore e il “maestro”
del novatorismo anarchico, era ormai un integerrimo conservatore. Nel suo
cammino di riscoperta delle radici del liberalismo si spinse anzi sempre
più a fondo, giungendo, in un articolo dei primi di febbraio carico di
reminiscenze “sonniniane”, ad invocare la restaurazione di tutte le
prerogative della corona (usurpate dal Parlamento), secondo la lettera
dello Statuto albertino?!°. Di pari passo con la maturazione
conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e
organizzative all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il
suo prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso
legato a Pietro Marsich, avrebbe pienamente rivelato. A
ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un
giornale vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra
oltranzista e rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla
Segreteria del partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione”
parlamentarista del nazionali, [...] guidati da
fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile
dubitare» («Il Popolo d’Italia», 26 gennaio 1922). Massimo Rocca
prese parte anche al primo congresso nazionale delle Corporazioni
(Milano, 4-6 giugno 1922), durante il quale svolse una relazione
sull’emigrazione italiana all’estero (cfr. «Il Lavoro d’Italia», 8 giugno
1922). 208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve soggiorno a
Milano, nei primi giorni di febbraio. In origine il suo compito avrebbe
dovuto limitarsi all’organizzazione del locale sindacato fascista
postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito
(rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal Fascio
bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF,
Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i Fasci di
combattimento, Busta 24 [Brescia]. 20° EDOARDO MALUSARDI, A guisa
di presentazione, «Fiamma», 18 febbraio 1922, 210 Cfr. Massimo
ROCCA, La più grande crisi, «Il Risorgimento», 9 febbraio 1922. 2!!
11 3 marzo 1922, col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex
legionario Alfredo Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da
Francesco Giunta, rovesciarono il governo autonomista di Riccardo Zanella
e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si concluse dopo
dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a
capo provvisorio dell’esecutivo. 123
fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di Mussolini,
contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il
“duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo
sfogo nient’altro che una «tragicommedia»?!, Lo scontro tra Marsich e
Mussolini, che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale,
concerneva l’indirizzo politico del partito, innestò una lunga serie di
polemiche, a tutti i livelli (a Brescia, ad esempio, contrappose
Malusardi al segretario provinciale uscente, Giuseppe Minniti) °!*. Dei
dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a prendere posizione. Quella
della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in una lettera a «Il
Popolo d’Italia» - era una leggenda priva di fondamento. Quanto alla
“deriva” legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si sarebbe
venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di aver
contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo,
dal momento che l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e
non aveva, perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre -
si domandava Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una
volta 12 } RIENEII 3 SIRO Gebo a : 21 Il
fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Piero Marsich, «La
Riscossa dei legionari fiumani», 5 marzo 1922 (la lettera fu
ripresa anche dall’«Avanti!» del giorno seguente). La
filippica di Marsich, già da tempo molto critico nei confronti
dell’orientamento politico del fascismo, fu originata da un’intervista
rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini sulla crisi
ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio 1922), nella quale il
“duce”, commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben
disposto verso un eventuale rientro in scena di Giovanni Giolitti.
Sul caso Marsich v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197
ss. us «Il Popolo d’Italia», 7 marzo 1922. 214 Nel corso di
un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi
prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo
Malusardi, tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto
nell’essersi colpevolmente adeguato alle regole e ai “sotterfugi” del
parlamentarismo, quanto nell’assenza di un orientamento politico univoco;
una lacuna grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano
elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i
diritti del lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti
inconsci di reazione e di corruzione». Il dibattito di Brescia riveste
un’importanza notevole, soprattutto perché la discussione intorno alla
vicenda Marsich toccò anche il tema della violenza. Augusto Turati affermò che
i rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a
condizione che ciò, soprattutto dopo il dilagare dello squadrismo
fascista in talune zone del Veneto, notoriamente “feudo” di Marsich, non
conducesse all’apologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato
al “manganello”, affermò il futuro segretario del PNF con il consenso di
Malusardi, avrebbe fatalmente condotto all’isolamento politico. Il
convegno si chiuse con l’approvazione di un ordine del giorno unitario,
col quale i fascisti della provincia di Brescia, «non riconoscendo nelle
critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio
dissenso», reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano
auspicio che alla lotta politica fosse «restituita la forma di un civile
contrasto» («Fiamma», 18 marzo 1922). 1124
entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema
rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe
senz’altro avvenuto, grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti
tecnici. Riguardo a Gabriele D’Annunzio - proseguiva Rocca - l’atteggiamento
di Marsich era poi del tutto irragionevole: non solo perché, dopo le
infinite vicissitudini dei legionari dannunziani, nessuno era in grado di
dire quali fossero le idee politiche del “comandante”, ma anche, e
soprattutto, perché era privo di senso attaccare Mussolini per poi
smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni del dannunzianesimo.
«Il fascismo — concludeva Rocca — dev'essere anzitutto un’accolta di
uomini liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed un’azione liberamente
scelte: non un plotone di soldati al servizio di un uomo»?"9.
Il 20 marzo la Direzione del partito votò una mozione di biasimo a
Pietro Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca -
dal Consiglio Nazionale del fascismo del 3 aprile”. Nel lasso
di tempo compreso tra il luglio e l’ottobre del 1922, Massimo Rocca
conobbe forse il suo periodo di maggior popolarità come dirigente
fascista?!8. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di
Mussolini, sembrò per molti versi che le idee di Rocca potessero
concretizzarsi in un progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che
il fascismo (com'era nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero
configurarsi come élite 215 MASSIMO ROCCA,
Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia», 17 marzo 1922. nonna Poco tempo
dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge
«lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla
militare, ma quella intelligente e consapevole che viene accettata dagli
uomini liberi» (EDOARDO MALUSARDI, Sincerità delle sincerità, «Fiamma», 1
aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e Malusardi — se così si
può dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche
dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti,
È; fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno
aggiornata del tiberalismo i destra (come appunto credeva Rocca), ma
doveva provare a recuperare l’ispirazione i ionaria e i programmi del
Partito d’ Azione mazziniano. una pr direzione del partito. L'On. Piero
Marsich deplorato, «Il Popolo "Italia», 21 marzo 1922). ù dI
Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 4 aprile 1922.
; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante
i quali furono Pv temi importanti, dalla vicenda di Fiume all’indirizzo
politico del partito. SNA lo a quest’ultimo punto, Rocca si schierò una
volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi - affermò
provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega
" rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilità,
si doveva avere il coraggio di fare la rivoluzione sul serio, non
limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del Consiglio
Nazionale Fascista, Ibidem, 5 aprile 1922). % $ 2!8 Per un breve periodo,
tra la fine di marzo e il maggio del 1922, Rocca diresse anche la
Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. 125 PARETI RIE IPP IRT OT
PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente,
capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra e di
guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio
di luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di
procedere alla costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene
contemplati dallo statuto/regolamento del dicembre 1921, erano rimasti
sulla carta) ‘!; quindi nel settembre, fu chiamato a presiedere un
apposito Segretariato nazionale. Quest'ultimo, che aveva sede a Roma,
doveva «coordinare l’opera dei singoli Gruppi di Competenza, locali o
provinciali», in modo tale ch’essi servissero «da legame e da organi
d’informazione fra il Partito Nazionale Fascista e le Corporazioni
sindacali», e facessero da punto di raccolta dei «nuovi valori
intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe dirigente del
futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che
da anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione dei competenti,
si trattava di un riconoscimento personale importantissimo e di una
grande occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei
Gruppi di Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte
dalla “oligarchia” fascista e dai «capi locali più ignoranti») ?”,
rappresentò, per Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso
non secondario nel definirne | il mutato atteggiamento riguardo al
fascismo. A fine agosto «Il Popolo d’Italia» rese noto un programma
in due parti “per il risanamento finanziario” dello Stato e degli Enti
Locali”, Il documento, che doveva dettare le linee orientative della
propaganda fascista in materia economica, era redatto da Massimo Rocca e
dall’on. Ottavio Corgini, ed era, in massima parte, ricalcato sui
postulati della scuola liberista. Proprio a motivo della sua
“classicità”, il programma Rocca/Corgini suscitò commenti benevoli nel
mondo borghese e imprenditoriale italiano”? e valse, insieme
21° Cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 luglio 1922. Gli
unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in
vigore dello statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti”
e quello degli “assicuratori fascisti triestini” (cfr. FERDINANDO CORDOVA,
op. cit., p. 101). «Il Popolo d’Italia», 29 agosto 1922.
Su tutti questi punti V. principalmente ALBERTO AQUARONE, Aspirazioni
tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», 1964, n. 52, pp.
109-127, nonché FERDINANDO CORDOVA, Ka cit., p. 101 ss. si Massimo
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 132. pì
Detto programma aveva avuto un’anticipazione nell’articolo di Rocca Disavanzo
cronico, pubblicato dall’organo mussoliniano il 18 luglio.
«Il Corriere della Sera», in un fondo del 6 settembre dal titolo
Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi),
formulò un giudizio addirittura entusiasta sul programma economico
fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di risalire alle
«sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere alla facile
demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di
Mussolini in tema di regime?”4, a spazzar via le residue diffidenze
dell’opinione pubblica moderata nei confronti del fascismo, nel momento
in cui esso si candidava scopertamente a forza di governo. AI
centro della riflessione di Rocca e Corgini era l’idea che il Parlamento
italiano fosse ormai diventato un «organo di sperpero», in balia di
gruppi parlamentari «irresponsabili», e che occorresse per questo abolire
l’iniziativa parlamentare «a proporre nuove spese». Tra i provvedimenti
atti a risanare l’erario, il programma annoverava: la riforma della
burocrazia (affinché gli uffici pubblici cessassero di essere un
ricettacolo di tutti «i vinti anticipati nella lotta per l’esistenza e
l’elevazione»); la cessione ai privati delle industrie di stato; lo
smantellamento degli organi statali “inutili”; la soppressione dei
sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai privati,
alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione all’essenziale dei
lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che “inceppavano” la
produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero sistema tributario,
nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a
detrimento della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle
dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle
esportazioni”, La seconda parte del programma, dedicata alla situazione
degli Enti Locali, era senz'altro molto più “politica”. La responsabilità
prima del dissesto dei Comuni e delle Province italiane - affermavano
infatti gli estensori del “socialistoide”. Rocca
stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate, scrisse
che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse
oltre l’ideologia liberale» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura, cit., p. 103). 224 1 20 settembre 1922, nell’ambito di un
intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini affermò che la
“rivoluzione fascista” non avrebbe insidiato il trono dei Savoia. «Lasceremo
in disparte — disse —, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli
visibilissimi e formidabili, l’istituto monarchico, anche perché pensiamo
che la gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione
del regime che andasse fino a quel punto» (Un forte e chiaro discorso
ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle
necessità storiche della Nazione, «Il Popolo d’Italia», 21 settembre
1922). Il discorso di Mussolini fu molto apprezzato — e non avrebbe
potuto essere altrimenti — da Massimo Rocca, che, in un telegramma al
“duce”, dichiarò di condividerne «entusiasticamente» ogni parola (/bidem, 22
settembre 1922). Più sfumata la reazione di Mario Gioda. Le considerazioni di
Mussolini in ordine alla questione istituzionale - scrisse il segretario
del Fascio torinese - dovevano essere «valutate serenamente». Dopo tutto,
osservava Gioda, anche repubblicani intransigenti come Giuseppe Mazzini e
Francesco Crispi si erano piegati, nell’interesse d’Italia, ad “accettare”
la monarchia. (MARIO GIODA, // discorso di Udine, «Il Maglio», 23
settembre 1922). 225 MASSIMO ROCCA, OTTAVIO CORGINI, Pel risanamento
finanziario dello Stato italiano. Relazione per i comizi di propaganda
del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 29 agosto
1922, Ae 127
documento - era delle amministrazioni di sinistra,
socialiste e popolari dell’azione «immorale, disordinata e dilapidatrice
dei sovversivi». Un rimedio poteva consistere nell’obbligare gli
amministratori “rossi” «a preparare e fare approvare i bilanci comunali e
provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge» (a costo di agire
«fascisticamente, senza mezzi termini ed eufemismi»), ma, ancora una
volta, la soluzione vera del problema doveva passare attraverso la
riforma tributaria, in attesa della quale Rocca e Corgini auspicavano la
costituzione, in ogni capoluogo di provincia, di un «comitato centrale di
difesa dei contribuenti»?5, Dalla metà di settembre sino alla
vigilia del congresso fascista di Napoli del 24 ottobre Rocca fu
impegnato a dirigere la campagna di comizi per il risanamento
finanziario, che attraversò tutta l’Italia??”. Quattro giorni prima
dell’inaugurazione del congresso partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblicò
lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo
a ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del
primo fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella
quale l’autore esponeva in modo lineare la propria “dottrina della
competenza”. Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi
appena costituiti e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i
secondi erano, a tutti gli effetti, «formazioni di massa», all’interno
delle quali «i produttori restavano raggruppati più con riguardo al
numero che alle capacità singole», al fine di salvaguardare «interessi
particolari e soprattutto economici»; i primi dovevano configurarsi come
«nuclei esigui di persone», le quali, in quanto «partecipanti ai gruppi
medesimi», non dovevano avere «alcun interesse specifico [...], né
personale né di classe» da tutelare. Ai Gruppi doveva quindi
competere una funzione eminentemente «consultiva e di studio», ma
anche una funzione, per così dire, di “armonizzazione” dei diversi
interessi, un’opera «il cui precipuo carattere spirituale» fosse quello
di favorire «la concordia fra le diverse classi e categorie produttive»,
così come fra il partito e le corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte
queste caratteristiche non erano compatibili «né col numero né con i
metodi democratici di elezioni e 226 i Lo (1g ARA
ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di
propaganda del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto
1922. Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/
risanamento della finanza pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On.
Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria dello Stato e degli Enti
Locali, Roma, [s.i.t.], 1922. Rocca era a capo di una commissione
finanziaria, incaricata di organizzare i comizi. Questi si articolarono
in tre serie successive: la prima ebbe inizio il 12 settembre, la seconda
il 24 settembre, la terza il 14 ottobre. Rocca fu l’oratore principale a
Genova, Livorno, Savona, Alba - dov’era previsto un suo contraddittorio
con Don Sturzo, saltato all’ultimo momento (cfr. «Il Popolo d’Italia», 17
ottobre 1922) - e Palermo. 128 di
discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la
diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito»?”*. Nella
sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato
per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente
il progetto di statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i
Gruppi di Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della
questione meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Massimo Rocca, che egli
avrebbe in seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario
aprire una parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso
napoletano, il fascismo, che al sud mancava di una robusta struttura
organizzativa, mirava a mettere radici nel meridione. D’altronde,
l’ipotesi - ormai sempre più concreta - di una “marcia su Roma”
presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione politica e militare
anche nei territori a sud della capitale. Il 6 e 7 settembre 1922 si era
riunita la Direzione del PNF, «per studiare l’organizzazione fascista in
rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole», e definire
l’ordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso della
discussione Rocca si era mostrato scettico sull’opportunità di
considerare la questione meridionale — anche in relazione alle tematiche
riguardanti l’ordinamento del partito — un problema a se stante, slegato
dalla più complessa realtà nazionale, e aveva espresso il timore che il
congresso del 24 ottobre potesse risolversi in una contrapposizione
artificiosa tra nord e 228 «Il Popolo d’Italia», 24
ottobre 1924. A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione
della Direzione del PNF nel dicembre, i Gruppi di Competenza (ripartiti
in sette «rami» principali: industria, commercio, agricoltura, trasporti,
amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali
e nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni
provinciali e dal Segretariato nazionale. Il numero dei componenti i
singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi, scelti, secondo il
criterio della capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni
caso, iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi
doveva essere quello di offrire un sostegno tecnico qualificato agli
organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere indagini,
raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni»,
che servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori
fascisti dei capoluoghi di circondario e a quelli provinciali era fatto
obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual volta avessero
dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e
quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In
questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di essi, potessero
essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a comporre i
conflitti tra capitale e lavoro. Lo statuto/regolamento dei Gruppi
di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in Massimo Rocca,
Relazione al Gran Consiglio Fascista del marzo 1923 sui Gruppi di
Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di
Competenza nella nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata
di Napoli: vigilia della Marcia su Roma, Milano, Imperia, 1923.
229 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 ottobre 1922, 129
sud del Paese, o, peggio, in una
guerra «di frazione o di campanile» tra le diverse regioni del
Mezzogiorno””°, Nell’insieme, si può dire che il torinese Rocca non
manifestasse una particolare sensibilità verso i problemi del Meridione;
eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del Governo,
egli fu uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Alla
fine di marzo del 1923 Rocca compì un viaggio di studio in Sicilia per
conto della Direzione del partito, e ne riferì al Gran Consiglio del 30
aprile? Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane
egli rimanesse invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del
consorzio zolfifero), che ne avrebbero in qualche misura condizionato il
futuro politico. Il punto è oscuro, ma deve essere richiamato, dal
momento che, tra le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras
provinciali nel pieno della polemica revisionista, quelle di corruzione
avrebbero avuto un peso non secondario. Stando a quanto ammesso dallo
stesso Rocca nel novembre del 1922 al segretario del Fascio di Londra
(dove Rocca si trovava per seguire i negoziati in atto tra i produttori
di zolfo italiani e nordamericani), egli avrebbe avuto i primi contatti
con i responsabili del consorzio zolfifero siciliano alla vigilia del
congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio palermitano
nell’ambito della campagna fascista per il risanamento finanziario”? Il
Governo Mussolini - dichiarò Rocca al suo intervistatore - doveva
impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dell’industria zolfifera
siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche «attenuando» il
proprio intervento «nelle faccende del Consorzio». Ora, a quanto risulta
da un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto
anonimo datato | 26 agosto 1924), alla sollecitudine dimostrata da
Rocca verso le sorti dell’industria zolfifera sarebbe in realtà
corrisposta una ricca contropartita. A. cavallo tra l’agosto e il
settembre 1922, i produttori di zolfo, riuniti in consorzio, avevano dato
vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di esercitare pressioni
sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del settore.
Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato
2) Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo
d’Italia», 7 settembre 1922. 23 Cfr. PNF , Il Gran Consiglio nei
primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova Europa, 1933, p.
61. Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato
nella «regolazione delle acque e nel miglioramento delle vie di
comunicazione» la «misura immediata e necessaria, sebbene non
sufficiente» per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali
(MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p.
130). ? Cfr. CAMILLO PELIZZI, La questione degli zolfî e altre cose.
Un'intervista con Massimo Rocca, «Il Popolo d’Italia», 15 novembre
1922. Ivi. 130
arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del
sindacato zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo di rendiconto. La
decisione, chiaramente illegale, aveva incontrato l’opposizione tanto del
Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel
nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo
punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo
Rocca, il quale, dietro adeguata “ricompensa”, avrebbe fatto valere il
proprio peso politico, intercedendo con successo a favore del consorzio
zolfifero??’. Le informazioni contenute nella relazione citata
rispondevano probabilmente al vero, ma non è da escludere, tenuto conto
del momento in cui il documento in questione vide la luce (al termine,
cioè, della seconda “ondata” revisionista), che esse fossero montate ad
arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un
oppositore dichiarato del Governo. AI di là dei proclami
ufficiali, l’assise napoletana del 24 ottobre 1922 servì quale adunata
generale in vista della “marcia su Roma”. Già da tempo, e precisamente
dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione dello
sciopero “legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di
luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori
del fascismo, riunitisi a Milano il 13 e 14 agosto, a pochi giorni dalla
conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sull’eventualità o
meno di un'insurrezione armata”. Insieme a Dino Grandi, Rocca era stato
il più convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea
insurrezionale aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Roberto
Farinacci, Italo Balbo e lo stesso segretario del partito Michele
Bianchi”. Dopo la “marcia 234 235
Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. L’importante vertice
romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo parlamentare,
del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle
Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di Michele Bianchi sulla
situazione politica. Il segretario del PNF aveva chiaramente lasciato
intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza offerta nei
giorni dello sciopero “legalitario”, non era più disposto a tollerare lo
sfacelo del Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con
le cattive. Rispetto alle due tendenze, la legalitaria e
l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla
relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i
due ordini del giorno votati il 13 agosto (il primo, per l’istituzione di
un comitato militare ristretto; il secondo, firmato anche da Massimo
Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della Camera e l’indizione
di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del “duce”.
Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo
d’Italia», 15 agosto 1922. 2 Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia
su Roma, Milano, Rizzoli, 1972, p. 331 ss. 131
su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla
Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa al
potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa
comportava, dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della
rivoluzione e inaugurare quella della ricostruzione, in spirito di
concordia nazionale, e — soprattutto - nell’assoluto rispetto della
legalità. L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello
squadrismo era del resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da
molti fascisti della “prima ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle
sue continue peregrinazioni (egli stesso amava definirsi un “nomade”),
dopo aver retto per qualche tempo la Federazione Sindacale padovana??”,
Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in provincia di Genova, dove aveva
assunto il duplice incarico di segretario politico del Fascio e di
direttore del locale organo fascista”, Il 21 novembre 1922 i fascisti di
Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria. Era in
discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati
episodi di squadrismo verificatisi dopo il 28 ottobre in molte zone del
genovese. Malusardi, secondo l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e
ai fascisti più moderati (una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i
limiti intrinseci), rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima
fintantoché si manteneva «chirurgica e cavalleresca», non era
giustificabile quando assumeva i caratteri della prevaricazione.
Inoltre, dopo l’ascesa al | governo del fascismo, le camicie nere
avevano l’obbligo, insieme morale e politico, di essere
disciplinate. Su questo punto di grande importanza v.
altresì GIORGIO ALBERTO CHIURGO, Storia della Rivoluzione
fascista, Vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 257 ss., e PAOLO NELLO, Dino
4 Grandi: la formazione di un leader fascista, cit., pp. 168
ss. 297 Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].
Malusardi era stato chiamato a Padova nella seconda metà di maggio del
1922 e vi si era trattenuto fino a settembre, contribuendo, grazie alle
sue capacità di organizzatore e di propagandista, e alla vena “popolare”
del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo maggior
successo era stato il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione
Agraria, alla fine di giugno. L'accordo era tendenzialmente favorevole ai
lavoratori (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative,
l’imponibile di mano d’opera e la creazione di commissioni paritetiche
per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai propri
convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli
agrari, anche i più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di
boicottaggio da parte dell’associazione padronale, il congresso sindacale
provinciale del 20 agosto si era concluso con un ordine del giorno molto
duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far
piegare, innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...]
datori di lavoro» («Il Lavoro d’Italia», 24 agosto 1922). 228
Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC,
Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. 132
Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a
proposito dell’autorità politica I scavalcarla ed esautorarla, bensì la
dobbiamo coadiuvare e vigilare perché applichi inflessibilmente lo
imperio della legge”*° E concluse: Lasciate stare,
dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile,
e chiedete invece [...] delle biblioteche e delle scuole di cultura
Aspettative e delusioni Nonostante gli auspici di molti la
nomina di Mussolini alla Presidenza del Consiglio non attenuò affatto le
brutalità fasciste, che anzi subirono un’impennata, culminando nella
strage di Torino del dicembre 1922. L'episodio è fin troppo noto e
costituisce una delle pagine più fosche nella storia del fascismo, che
qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze che ebbe sulle sorti
politiche di Mario Gioda e di Massimo Rocca. Dal 18 al 20 dicembre (accampando
come d’abitudine il pretesto di vendicare l'uccisione di due camerati”),
gli squadristi torinesi, capeggiati da Piero Brandimarte, scatenarono una
sanguinosa rappresaglia contro le organizzazioni socialcomuniste””. In
quella che Gaetano Salvemini definì «una vera orgia di sangue»? trovarono
la morte una ventina di persone, tra le quali l’ex anarchico Carlo
Berruti, consigliere comunale comunista e noto 239
L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza», 25 novembre 1922.
240 Ivi sn «i pa del dicembre fu solo l’apice di una lunga teoria
di fatti di sangue, iniziata nell’estate e proseguita per tutto l’autunno
del 1922. In un telegramma al Ministro Di Interni del 13 agosto, il
Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la situazione
(«Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» -
O rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro
organizzazioni comuniste accendono rancori di parte che potranno
esplodere in forma violenta ed improvvisa») e chiedeva l’invio di
rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris.,
1922, Busta 157 [Fascio di Torino]. : It i La ricostruzione più
accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in RENZO DE FELICE,
I fani di Torino del dicembre 1922, in «Studi Storici», n. 1, 1963, pp.
51-122. 22 GAETANO SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli,
1961, p. 103. 133
esponente del Sindacato Ferrovieri”*. Mario Gioda,
il cui potere effettivo all’interno del Fascio torinese era andato
vieppiù scemando (tanto che, negli ultimi mesi, la sua attività si era
limitata a curare le corrispondenze per «Il Popolo d’Italia»), non ebbe
alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al pari di Rocca, non si
fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. De Vecchi, al
contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se ne
attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non
quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che
aveva incaricato una commissione d’inchiesta di far luce
sull’accaduto), «la sua | figura di ras di Torino e del Piemonte»?
Con una mossa a effetto, carica però di significati politici - e non solo
per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese
-, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro
di Carlo Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi -
notava Rocca a distanza di trent'anni - non gli avrebbero mai perdonato
quel gesto”. Episodi come quello di Torino contrastavano
drammaticamente con la | necessità - posta in evidenza da Rocca e non da
lui soltanto - di una | normalizzazione del fascismo. I primi mesi di
vita del governo Mussolini | 243 Sulla figura di
Carlo Berruti v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. I, ad |
nomen. 244 Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era
stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr. RENZO DE FELICE, /
fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 78. Popolo», 1 gennaio
1923. RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p.
82. % Cfr. MARIO GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del
comunista Berruti, «Il Popolo d’Italia», 28 dicembre 1922.
Gioda scrisse di Berruti ch’egli era «indubbiamente un uomo in buona fede e
dotato di qualità intellettuali non comuni». 248 Cfr.
MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 148.
L’inchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Francesco Giunta e Giovanni
Gasti, accertò le gravissime responsabilità degli squadristi torinesi.
Nonostante le risultanze delle indagini, il Gran Consiglio del 13 gennaio
1923 si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino, delegando
l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario
con pieni poteri, mentre Pietro Gorgolini e Mario Gobbi (due dei più
stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un memoriale contro il
quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per esservi riammessi
solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente
compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a De Vecchi la
sua indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima
allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle
pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la sua nomina a
governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia.
134 In una vibrante lettera del 27 dicembre a Mussolini, poi
allegata agli atti dell’inchiesta, | In un discorso al Teatro
Ambrosiano, il 31 dicembre, il quadrumviro difese l’operato di |
Brandimarte e si assunse la responsabilità politica e morale della strage. Cfr.
«La Gazzetta del | furono segnati da questa stridente
contraddizione, in un difficilissimo equilibrio tra disordine e legalità,
spinte eversive e propositi riformatori, ricerca del consenso e violenza
indiscriminata. Sebbene funzionale agli interessi del partito, il
dibattito sulla legge elettorale, che monopolizzò la vita politico/parlamentare
italiana nella primavera del 1923, fu uno dei pochi momenti realmente
costruttivi del fascismo. Rocca, già da tempo schierato per il ritorno al
sistema maggioritario”, entrò nella speciale commissione per la riforma
elettorale nominata dal Gran Consiglio il 16 marzo, primo passo verso
quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un certo
MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale, in «Il
Risorgimento», 2 giugno 1921. Sulla delicata questione
del sistema elettorale Rocca ebbe un vivace scambio di vedute con Roberto
Farinacci, fautore di un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a
Farinacci, Rocca definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato
sistema proporzionale vigente (che se non altro aveva avuto il merito di
immettere «sangue nuovo» nell’asfittica vita parlamentare italiana),
un’eventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula
dominata «dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate
non sempre con mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il
difetto di acutizzare «Io spirito campanilistico» (La discussione sul
sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca all'on. Roberto
Farinacci, «Cremona Nuova», 10 febbraio 1923). Nella sua pronta replica,
Farinacci obiettò che la “rivoluzione” fascista aveva a tal punto innovato i
costumi politici degli italiani che il ristabilimento dell’uninominale
non poteva considerarsi un semplice ritorno al passato. «Se allora, nel
passato — sosteneva Farinacci — erano le clientele [...] che decidevano,
adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione
provinciale fascista [...] e dall’altra la conoscenza personale del corpo
elettorale e il suo giudizio, non più formulato in virtù della potenza
della clientela, ma in forza del valore del candidato, facilmente
apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al
problema del campanilismo — questione niente affatto trascurabile, soprattutto
qualora la si consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e
Farinacci in merito al fascismo provinciale -, il ras di Cremona fu
ancora più esplicito. «Tu [...] — rimproverò infatti a Rocca — prescindi
dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i
quali sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse
della provincia con quello della nazione, subordinando l’uno all’altro»
(ROBERTO FARINACCI, // perché del ritorno al collegio uninominale, Ibidem,
11 febbraio 1923). 250 116 aprile, a conclusione dei suoi lavori,
la commissione (di cui facevano parte, oltre a Rocca, Michele Bianchi,
Roberto Farinacci, Cesare Rossi, Maurizio Maraviglia, Giuseppe Bastianini
e Nicola Sansanelli) si pronunciò ufficialmente per il sistema maggioritario
— secondo uno schema elaborato da Bianchi — e contro l’uninominale.
Rocca, che si trovava in Sicilia e non poté esser presente alla riunione,
inviò una lettera di piena adesione, di cui diede conto lo stesso Bianchi
(cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 aprile 1923). Il Gran Consiglio del 25
aprile accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21
voti a favore, contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran
Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, pp. 55-56), dopodiché
il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo, fu
incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto
all’esame preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la
cosiddetta commissione dei 135 VIT
PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI
periodo, parve che alla riforma elettorale — com'era negli auspici di
Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più
ampia azione di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della
sessione di aprile il Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo
di Competenza per la riforma costituzionale, affidandone la presidenza
proprio a Rocca?!. Dinanzi all’allarme suscitato negli ambienti liberali
da queste manovre Rocca si affrettò ad «assicurare ogni patriota [...] in
buona fede» che né l’istituto monarchico, né i principi informatori dello
Statuto sarebbero stati messi in discussione”. In realtà, proprio la
diffidenza manifestata dagli altri partiti della maggioranza e il timore
che essa potesse incidere negativamente sul cammino della legge
elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni velleità
riformatrice?5*. Rocca, che aveva finalmente intravisto la possibilità di
legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera
propositiva di riforma”, ne restò amareggiato. Questa volta —
scrisse a distanza di tempo — la delusione fu profonda [...]. Il
movimento fascista, che da quattro anni parlava senza tregua di rivoluzione e
già ne invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non
osava intraprendere la più modesta riforma, meno radicale di quella
“corporativa” attuata da D’ Annunzio a Fiume; una riforma capace di
giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le gesta passate del
fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo nel
futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive
intemperanze verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si
riduceva dunque ad un'etichetta, dal significato puramente negativo,
comodo pretesto per trascurare la legalità | vigente, senza però curarsi
di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava diciotto) -
che lo approvò il giorno 16 giugno -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio,
dopo una lunga discussione. Su tutti questi punti v. RENZO DE
FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 518 ss. 251 Cfr. PNF,
I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 60-61.
Il Gruppo comprendeva anche: Michele Bianchi (presidente), Carlo
Costamagna (segretario), Enrico Corradini, Maurizio Maraviglia, Giulio
Casalini, Edmondo Rossoni, Attilio Tamaro, Sergio Panunzio, Ettore
Lolini, Salvatore Gatti e Giorgio Del Vecchio. 252 «Il Popolo
d’Italia», 3 maggio 1923. 253 Cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il
fascista, cit., p. 524. 254 Fedele a una visione tecnocratica della
politica, Rocca si apprestava a presentare uno schema di riforma i cui
punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni
categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle
federazioni sindacali, di consigli tecnici dell'economia,
«comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e —
nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico
al Senato vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere
loro ogni preoccupazione elettorale ed assicurare il contributo dei
migliori uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di
proporre nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO
ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138).
136 un'occasione unica
di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore, ai
capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti
esteriori La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto
all’accantonamento dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il
concomitante naufragio dei Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale
egli aveva riposto le maggiori speranze. Il 15 marzo 1923, in
un’intervista a un quotidiano romano (riprodotta in parte anche da «Il
Popolo d’Italia»), Rocca, pur ribadendo che i Gruppi di Competenza, «nati
da un’idea prettamente aristocratica», rappresentavano la maggior novità
del fascismo, riconobbe che la loro attuazione dipendeva «dalla volontà
del Governo di utilizzarli»?9°. Dietro questa semplice constatazione si
nascondeva l’amara consapevolezza delle grandi difficoltà fin lì
incontrate dai Gruppi all’interno stesso del fascismo (si tenga presente
che, a quasi quattro mesi dall’entrata in vigore dello
statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello
per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione, quest’ultimo,
peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) 257, AI Gran
Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione
generale dei Gruppi, affermò la necessità di riconoscere loro una «franca
autonomia», sola condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei
mesi successivi qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio
del 28 luglio, Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178
Gruppi di Competenza provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli organi
direttivi del partito avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo
sviluppo”. Nonostante le apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza
conducevano un’esistenza stentata, senza un reale collegamento gli uni
con gli altri e con la segreteria nazionale, mal visti e spesso
dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del partito e dalle stesse
corporazioni”! L’insorgere della prima crisi revisionista, conclusasi con
l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo 255
Ibidem, pp. 140-141. 256 NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i
Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola, l'Istituto delle
Assicurazioni. Intervista con Massimo Rocca, «Il Giornale d’Italia», 15
marzo 1923. 257 A questo riguardo v. FERDINANDO CORDOVA, op.
cit., pp. 166-167. 258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni
dell'era fascista, cit., p. 47. V. altresì / gruppi di competenza e
la riforma della scuola nella relazione di Massimo Rocca al Gran
Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1923. 259 Cfr. PNF,
/l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp.
98-99. 260 E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo
consiglio nazionale delle Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno
1923, non avesse minimamente affrontato il tema dei Gruppi di Competenza.
Cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 164. 137
colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita
del governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e
politiche, di Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la
disillusione a indurre l'ex anarchico alla sua ultima battaglia
polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre
Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il Fascio di
Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu ricostituito
soltanto nel maggio del 1923) °°°, il biennio 1923/1924 vide la
consacrazione di Edoardo Malusardi come dirigente sindacale; e tuttavia —
non sembri un paradosso -, proprio nel 1924 la carriera dell’ex stuccatore
rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi vecchi compagni —
sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trovò a dover fare i
conti con la trasformazione del fascismo in regime. All’inizio del
1923 Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la Federazione
sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire
all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed
efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu
nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco
costituita”95, Quali fossero gli orientamenti generali del
fascismo in materia sindacale e quanto essi si discostassero dalla
concezione operaista di Malusardi, alimentata dai miti corridoniano e
dannunziano, lo mostrò chiaramente il cosiddetto patto di Palazzo
Chigi, stipulato il 19 dicembre del 1923 tra la | Confederazione
delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segnò «il
fallimento, almeno nell’industria e in quel momento, dell’ipotesi di
20 In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni
attività di partito, il 12 ottobre 1923, Rocca lasciò la
segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Carlo Costamagna, che la
assunse a titolo definitivo nel marzo del 1924. Nel frattempo, il Gran
Consiglio del 16 novembre 1923 aveva disposto la trasformazione dei
Gruppi in Consigli Tecnici nazionali, organismi ancor più evanescenti,
dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr. ALBERTO AQUARONE,
op. cit., p. 26251195 maggio, al Teatro Scribe, ebbe luogo l'assemblea
del Fascio per l’elezione del nuovo Direttorio. Questo, radunatosi
quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario Gioda. Cfr. «Il
Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 1923, 253. Cfr.
EDOARDO MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, cit., p.
75. 264 E A n past p In base alla relazione presentata da
Malusardi al primo consiglio nazionale delle Corporazioni, le
corporazioni operanti nella provincia di Firenze al 30 giugno 1924 — sei
mesi dopo il suo arrivo a Firenze - erano 14 (agricoltura, commercio,
industria, impiego, professioni intellettuali, scuola, sanità, dipendenti
monopoli e aziende statali, stampa, teatro, trasporti e comunicazioni,
ospitalità nazionale, industrie artistiche, belle arti), per un totale di
circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», 7 luglio 1923. 255 Ctr.
Ibidem, 1 settembre 1923. 138 /
sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio
della collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del
governo, sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo
fascista. Il 22 maggio 1924 si riunì a Roma il secondo consiglio
nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si manifestarono due
tendenze: la prima (più conciliante e che finì per prevalere) facente
capo a Sergio Panunzio e sostenuta dal segretario generale Rossoni, per
il sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento giuridico dei
contratti collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata da Domenico
Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione diretta contro gli
industriali”, Il 19 luglio, nel clima di confusione seguito al rapimento
e all’assassinio di Giacomo Matteotti, Malusardi si dimise dalla segreteria
dei sindacati fascisti fiorentini (dove fu sostituito da Aldo Lusignoli)
2°. Fu un primo atto di ribellione, al quale fece seguito, ai primi di
settembre, la costituzione - con Virginio Galbiati (segretario della
Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi
- di un “Comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni”?99,
Nell’ordine del giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si
denunciavano la debolezza, l’incertezza programmatica e l’autoritarismo
che contraddistinguevano l’opera delle Corporazioni fasciste, e
s’invocava «un totale revisionismo», nei metodi, nei programmi e nel
gruppo dirigente. Le Corporazioni — proseguiva il documento - dovevano
agire «in senso nettamente sindacalista», avendo presenti gli «interessi
effettivi della classe produttiva», senza lasciarsi condizionare da
pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di collaborazione
aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con le masse e le
organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale». Quanto ai
rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma
di libera e consapevole alleanza»?”°. Pochi giorni dopo, il 18 settembre,
il 266 FRANCESCO PERFETTI, /l sindacalismo fascista,
cit., p. 57. 267 Su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit.,
p. 265 ss., € FRANCESCO PERFETTI, Il sindacalismo fascista, cit..
p. 90 ss. Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 23 maggio
1924, e «Il Lavoro d’Italia», 31 maggio 1924. i 268 Cfr. La crisi
del fascismo fiorentino, «La Giustizia», 26 luglio 1924. 269 Cfr.
Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La
Voce Repubblicana», 10 settembre 1924. AEREI ; i i Dal 13 settembre
il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea
Sindacalista». Jai 270 Un sintomatico pronunciamento fra i
dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce Repubblicana», che,
da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali
del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una
«diagnosi [...] perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del
Comitato milanese). 139 Direttorio
nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal |
movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però,
all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro
del decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si
decise a quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la
propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le
proprie radici anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione
nell’ambito del sindacalismo fascista continuò a vivere di velleità
operaiste) ?”?, Malusardi — — la cui fedeltà al fascismo non fu comunque
mai in discussione - rientrò | disciplinatamente nei ranghi,
adeguandosi sempre più ai modelli imposti dal regime. Nell'autunno del
1924, preludio all’avvento di una lunga dittatura, si concluse quindi —
almeno formalmente — la vicenda “libertaria” di Edoardo Malusardi:
un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a Massimo
Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica.
Negli stessi giorni, 8 e 9 settembre, si riunì a Roma il Direttorio
nazionale delle Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu
liquidata come l’atto «di quattro persone che non avevano alcuna autorità
e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia», 9 settembre 1924. Hi
Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni, Ibidem, 19 settembre
1924. Sull’intera vicenda v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 283
ss. 2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista», 18 ottobre 1924.
Un mese dopo Malusardi presenziò regolarmente al secondo congresso nazionale
delle Corporazioni (Roma, 23-25 novembre). Cfr. «Il Popolo
d’Italia», 25 novembre 1924. Esemplare, a questo proposito, l’esperienza
di Malusardi come segretario dell’Unione provinciale dei sindacati
fascisti di Torino (carica che detenne dalla fine del 1927 a tutto il
1931), segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la
FIAT in particolare (al riguardo v. GIULIO SAPELLI, Fascismo, grande
industria e sindacato. Il caso di Torino, 1929-1935, Milano, Feltrinelli,
1975). Le aspirazioni “libertarie” di Malusardi trovarono un
ultimo rifugio nelle utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella
quale egli ebbe — comunque un ruolo defilato e la cui funesta
parabola non gli risparmiò dolori e amarezze (uno dei suoi figli,
divenuto partigiano, fu fatto prigioniero dai fascisti e condannato a
morte, Malusardi si rivolse a Mussolini, il quale intervenne
personalmente affinché al giovane “ribelle” fosse risparmiata la vita.
Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare del duce,
Busta 25, Fascicolo 188). Nel dopoguerra, nonostante la non più verde
età, Malusardi partecipò attivamente alla vita politica e sindacale nelle file
della CISNAL. Il suo approccio alle questioni del lavoro restò di fatto
immutato, sentimentalmente ancorato alle memorie di Corridoni e
D’Annunzio (a titolo di esempio si vedano gli articoli Filippo Corridoni
e Socialità di D'Annunzio, pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de
«Il Maglio», 23 ottobre e 15 marzo 1960). Morì a Torino il 29 giugno
1978. Sulla figura e l’opera di Edoardo Malusardi, quale rappresentante
dell’ala sinistra del fascismo, v. infine GIUSEPPE PARLATO, La
sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000,
ad indicem. 140 II
REVISIONISMO La prima campagna revisionista
L’inizio della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L
pubblicazione su «Critica Fascista», il 15 settembre 1923, dell articolo
Massimo Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi
al protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più lungimiranti del
PNF -e I ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine
l urgenza di un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il
definitivo inserimento del fascismo nell’ordine statutario. Il 29 maggio,
intervenendo alla Camera, l’on. Alfredo Misuri, già parlamentare
fascista”, aveva anticipato, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati da
Rocca nel suo celebre articolo. In RT Misuri aveva chiesto la
smobilitazione delle squadre e | inclusione le ; MVSN nell’esercito
regolare; la cessazione, da parte del segretario si Partito Fascista e
dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i affari di
competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va base del
Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr deputato
perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di breve stagione
del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di furono
altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen
! L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il
Giornale d’Italia», che lo definì «notevole». Lira : Epi ? Alfredo
Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn i
fasciste, dovette abbandonai Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f ,
d a r i ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li 1922 a
seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF rientrò
per bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr
| lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi
di a del 1923 Cfr. ALFREDO MISURI, Rivolta morale: confessioni,
esperienze e documenti di un uinquennio di vita italiana, Milano,
Edizioni vana 1924. i i i 95-122. | testo completo del discorso v.
/bidem, pp. ar È ‘ , hà vira ore dalla conclusione del suo intervento,
Misuri fu aggredito da alcuni sgherri fascisti, guidati dall’ufficiale
della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs sull’episodio v. Per
l'aggressione all’on. Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i ) Il
dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun
pun concreta nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e
Libertà”, evocante, gi: 141
speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve
espresse dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul revisionismo e
su Massimo Rocca , tra le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale.
Come già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti
non nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di
autoriformarsi (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito),
Rocca s’illudeva di far trionfare la propria idea “da dentro” il
partito”; credeva, in altri termini di poter cambiare il fascismo dal suo
interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole - che esso
potesse realmente diventare «l’ala marciante e riformatrice del
liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che nei mutevoli
umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e «degli altri
ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo (che
avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa
«lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della
sconfitta di Massimo Rocca. Come detto, l’articolo di Rocca vide la
luce su «Critica Fascista», la nuova rivista di Giuseppe Bottai, che
aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel
nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto
Matteotti I associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a
stormo» (poi riesumato da Misuri nell’immediato secondo dopoguerra).
n Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue
diverse coloriture e ramificazioni, v. principalmente PIERANGELO
LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza fascista tra mussolinismo
e Aventino (1923-1925), Milano, Angeli, 1990, ma anche con più esplicito
riferimento all’operato di Misuri e Corgini, LUCIANO ZANI, L'Apsocio4iali
costituzionale “Patria e Libertà” (1923-1925), in «Storia
Contemporanea», 1974, n. 3 PI 393-429. 1 05-00. ‘ondamento delle
loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano
la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione
del fascismo». Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti
di poter salvare qualcosa del ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per
esso (Revisionismo, «Campane dicembre 1924), PSR A E e Cfr. Giacomo
LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 107 ss.
Giacomo Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime
manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana
dei Fasci Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi
al fascismo “puro” delle origini. «Fascista di animo e di azione sin
dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle pagine ug se suo da Ta sono
rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del cismo
debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i f ì
iu indegni» (Ibidem, pp. 8-9). RIA: dae Re) 2a ” Massimo Rocca,
Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 107. LUCIANO ZANI, op.
cit., p. 402. 142 1923”. Fin dai
primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una
concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da
premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca -
riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento
del partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una
nuova élite» che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese!°.
Un mese e mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte
revisionista, un altro collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista
corridoniano Augusto De Marsanich, aveva chiarito in modo inequivocabile
l’orientamento della rivista. Noi — aveva scritto De
Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare subito un’opera
di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi
suoi metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad
intorbidire le fonti della nostra forza ideale e politica. Intanto
dobbiamo dire alto e forte che proprio uno dei nostri compiti necessari,
in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta nel
parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo
istituto storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione
col Parlamento [...]. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la
necessità di *smobilitare” e di proporsi nettamente, con un superiore
obiettivo di sintesi nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se
non a tutti, i suoi nemici di ieri"! Essendo queste le
premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da tempo andava
esortando alla “normalizzazione”, trovasse in Bottai e nella redazione di
«Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma
? Sul ruolo avuto da Giuseppe Bottai e da «Critica Fascista» nel
dibattito interno al fascismo durante il primo scorcio degli anni venti
(con particolare riferimento al revisionismo) v. soprattutto LUISA
MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del
fascismo, Bari, Laterza, 1974, p. 65 ss., EMILIO GENTILE, op. cit., p.
295 ss., © GIORDANO BRUNO GUERRI, Giuseppe Bottai fascista critico,
Milano, Feltrinelli, 1976, p. 49 ss. 10 GiusEPPE BOTTAI,
Disciplina, «Critica Fascista», 15 luglio 1923. Che il fascismo,
compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse
por mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un
programma propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti
più “politici”. Lo stesso Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata
sul secondo numero di «Critica Fascista» (e riprodotta anche da «Il
Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima
ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi
appare come un gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del
nostro movimento. Il quale, raggiunto il suo secondo tempo costruttivo,
deve affinare le sue capacità di controllo e di critica». !!
Augusto DE MARSANICH, Revisione, Ibidem, 1 agosto 1923. Su De
Marsanich, figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel
secondo dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neofascista, v.
Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol, 38, ad nomen.
143 cosa scrisse Rocca che destò tanto
clamore? La “rivoluzione” fascista — questo in sintesi il suo pensiero —
aveva avuto il merito di strappare l’Italia al baratro del bolscevismo,
ma una rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto se finalizzata al bene
della Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria
autoconservazione. Il fascismo - spiegava Rocca - doveva servire il Paese
e non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati
solo a perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del
perdurare dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile
permanente, che ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella
battaglia intrapresa per la sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era
convinto di trovare in Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione,
se non mancava di riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto
la spregiudicatezza tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò,
in definitiva, frutto di una valutazione decisamente ottimistica.
Scorrendo l’articolo di Rocca si ha I impressione che l’autore tendesse a
sopravvalutare certe prese di posizione di Mussolini é che, più o meno
inconsapevolmente, finisse per attribuire al duce” la propria personale
visione del fascismo. I segni più evidenti della volontà
conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano
stati: la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di
utilizzare a servizio del Paese tutti gli elementi di valore [...],
persino se provenissero dall’estrema sinistra: [.. ] l’appoggio dato alle
Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di diritto,
sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; [...] I
incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e
correggere l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari; [...] la
costituzione di un governo non esclusivamente fascista; [...]
l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri della Milizia, per
maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; [...] il rifiuto
ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di
favori da parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie
dell’ultima pes; Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice
proprio la caduta in disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a
poco ai Gruppi di Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e,
soprattutto, al vero e proprio esercito di profittatori, d’intriganti e
d’incapaci che affollava l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a
cui egli, forse per effetto della 12 » Cfr.
MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista», 15 settembre 1923.
Ivi. L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri
ilti i STE , con , prodotto — sotto il titolo // l'Italia - anche
in ID., /dee sul fascismo, cit., pp. 63-70. pan 144
sua sfiducia negli uomini, trovò sempre inutile opporsi)
4, abbiamo la misura di quanto Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo
articolo fu bene accolto da «Il Popolo d’Italia», che anzi ne fece
pubblicamente l'elogio", e nel complesso, lungo tutta la durata
della prima crisi revisionista, il giornale diretto dal fratello del “duce”,
Arnaldo, ne incoraggiò apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del
resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona, dette una mano alla
campagna revisionista, ma la ragione di questo suo favore non derivava
tanto, come credeva Rocca, da un’intima convinzione ideale, bensì - come
ha ben sottolineato Renzo De Felice (e com'era, d’altronde, nel carattere
del “duce”) - da considerazioni di opportunità politica. L'obiettivo
allora perseguito da Mussolini, infatti, era quello di una graduale
apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche
socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento — e dunque un
consolidamento — della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano
scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perciò, che
l’esistenza di una corrente revisionista, moderata, all’interno del
fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri
partiti e l'opinione pubblica sulle “buone intenzioni” del Governo e a
tenere a freno i ras, in vista di un possibile compromesso!
Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Massimo
Rocca sulle pagine di «Critica Fascista» poté uscire «dall’ambito
piuttosto limitato» della rivista di Bottai per diventare, grazie al
coinvolgimento di altri organi di stampa, «un fatto politico di portata
nazionale»'”. Per rimanere all’ambito strettamente fascista, i giornali
che più degli altri si fecero carico di assecondare i disegni dei
revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di Filippo Filippelli, «L'Impero»
di Mario Carli ed Emilio Settimelli, e, inizialmente in misura più
sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si trattava di fogli dalla
linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più conta - legati
a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno
14 Su questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana
v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 461 ss.
!5 Cfr. IL FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli
pseudo-Mussolini!, «Il Popolo d’Italia», 18 settembre 1923.
!6 Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 457 ss.
!7 Ibidem, p. 456. 18 «Il Corriere Italiano» era sorto alla
fine di luglio del 1923 grazie a finanziamenti di origine imprecisata ed
era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone
diretti ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Aldo Finzi,
sottosegretario al Ministero degli Interni, e Cesare Rossi, capo
dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran Consiglio del fascismo.
«L'Impero» aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni nel 1923 e si distingueva
per l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante,
dei suoi articoli. I motivi 145
dette a Rocca l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico
più vasto, è altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non
giovò affatto alla serietà della campagna revisionista, e che anzi,
l’essersi trovato Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene
affaristiche, offrì a suoi avversari il destro per muovergli accuse, più
o meno esplicite e motivate, di corruzione. Il Rocca —
rilevava al riguardo Giacomo Lumbroso — poteva ridersi di certe accuse
poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di fatto [...] che i
giornali di cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo
incoraggiavano nella sua campagna non erano certo i più indicati a
parlare di epurazione del Partito; ed è innegabile che certo fascismo
provinciale [...], illegalista, dispotico e violento, in
del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista,
oltre che nei vincoli strettissimi con Filippelli e il suo giornale
(«L’Impero» apparteneva alla stessa cordata economico/finanziaria editrice
de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui
Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro
esasperato “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non
disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due | reduci del
futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo
anarchico, tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel
ridicolo, che più di una volta mise in imbarazzo lo stesso Mussolini. A
riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che caratterizzava la
redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti,
il giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere
il “giro di vite” e la soppressione violenta delle opposizioni; e che, a
conclusione di quella dolorosa vicenda, Mario Carli avrebbe pubblicato un
libro, con la prefazione di Roberto Farinacci, (Fascismo intransigente.
Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad, 1926), che
era tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. «Il Nuovo
Paese» aveva aperto i battenti nel dicembre del 1922, su iniziativa di
Carlo Bazzi. Questi, che era stato compagno di Massimo Rocca nelle
Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del movimento
repubblicano che, in polemica con l’orientamento antifascista prevalso in seno
al partito d’origine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni
autonome fiancheggiatrici del fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto
promotore, all’inizio del 1923, di una Unione Mazziniana Nazionale).
Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri d’affari,
essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito
dopo la “marcia su | Roma” si era annidato ai margini del fascismo
al governo»; una lobby multiforme «che aveva tutto l’interesse che il
fascismo rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una
normalizzazione che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal
giornale di Bazzi alla causa del revisionismo (RENZO DE FELICE, Mussolini
il fascista, cit., pp. 450-452). Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere
Italiano» si veda MAURO CANALI, Cesare Rossi: da rivoluzionario a
eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1991 (rispettivamente p
218 ss., e p. 255 ss.). Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito
l'intreccio affaristico sottostante al primo esecutivo a guida fascista,
in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel primo governo
Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 87-303. Su Mario Bazzi in
particolare v. GUGLIELMO SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla
liquidazione dei residuati bellici (1920-1924), in «Storia
Contemporanea», n. 5, 1990, pp. 805-891. Infine, a proposito de
«L’Impero», v. ANNA SCARANTINO, op. cit., p. 49 ss. Ì
complesso si era mantenuto puro dalla piaga dell’affarismo, e non
vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede
di giovare alla causa del fascismo e dell’Italia, dominando nelle loro
provincie come despoti incontrollati ed incontrollabili e riducendo a
zero l’autorità dei funzionari governativi"? Il giorno dopo
la comparsa dell’articolo di Rocca su «Critica Fascista», «Il Corriere
Italiano» prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe
sollevato l’indignazione di Farinacci, si scagliò senza mezzi termini
contro «l’arbitrio capriccioso e tirannico» dei capi provinciali,
arrivando a prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilità di
uno scioglimento del PNF, il quale, vivendo ormai «di rendita» alle
spalle di Mussolini, costituiva «l’inciampo più grave» all’azione del
Governo”. L’ipotesi insinuata dal quotidiano di Filippelli destò, com’era
prevedibile, un nugolo di polemiche. «L'Impero», per tramite dei suoi
condirettori, affermò che il «feticismo ostinato» nei confronti del
partito non aveva più alcuna giustificazione e che, essendosi chiuso il
«periodo eroico» della “rivoluzione” fascista ed essendo stati «lo
spirito e [...] la mentalità» del fascismo «gradualmente ma rapidamente
assorbiti dall’intera Nazione», non vi era più ragione di conservare in
vita il partito?!. l i i Nel frattempo, Massimo Rocca non aveva perso
occasione per riaffermare il proprio punto di vista??. Personalmente
contrario, almeno nel breve periodo, allo scioglimento del PNF°, il
/eader revisionista proseguì imperterrito lungo la via intrapresa il 15
settembre. I problemi più gravi del fascismo - insisteva Rocca -
consistevano nell’equivoco perdurante tra partito e Governo, vale. a dire
nell’identificazione del primo col i secondo; nell’irresponsabilità e
nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella !°
Giacomo LUMBRO50, op. cit., p 122. 20 Cfr. Governo e fascismo, «Il
Corriere Italiano», 16 settembre 1923. 2! MARIO CARLI, EMILIO
SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero», 20 settembre 1923.
i i i 7 ut 2 Così, ad esempio, il 17 settembre a Torino, in sede
d’inaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di Competenza. Nel suo
discorso, che ricevette il plauso di. Mario Gioda, Rocca non tralasciò di
accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche
agli intransigenti (cfr. // discorso di Massimo Rocca sulle funzioni dei
Gruppi di Competenza, «Il Piemonte», 18 settembre 1923). \ i
23 In una lettera pubblicata da «L'Impero» del 22 settembre (Partito e Governo
fascista), Rocca scrisse non essere ancora giunto il momento in cui
l’Italia, pienamente e consapevolmente fascista, si sarebbe potuta
sostituire al partito. Con questo egli non escluse che, «in un futuro più
o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei Gruppi di
Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo» gli strumenti. necessati di
questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribadì i medesimi
concetti in un’intervista a «Il Corriere Italiano»,
147 «parodia d’una disciplina formale senza norme né
garanzia»; nel predominio «degli organi esclusivamente politici di
partito» su tutto ciò che. «pur rientrando nella vita corrente del
fascismo», non era strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di Competenza)
e che, per questa ragione, il partito ostacolava in ogni modo. Tutto ciò
- secondo Rocca - conduceva ad una «vera forma di nuovo bolscevismo
[...], dissolvitrice dello Stato e dell’Italia», cui si doveva
assolutamente porre rimedio”. Contro la campagna revisionista, che
raccolse i favori dell’opinione pubblica moderata variamente
filo-fascista””, insorsero invece gli intransigenti. Già il 17 settembre,
nell’ambito di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona,
Farinacci difese il principio dell’intransigenza, si disse contrario
all'inserimento della Milizia nell’esercito regolare e minacciò una
«seconda ondata» rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori
«senza fede» che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici’”,
Più avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese
replicò seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero —
scrisse - che Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il
quale, al contrario. costituiva la vera forza, il fondamento del
partito e aveva contribuito in modo schiacciante al trionfo del 28
ottobre 1922. Se si distrugge il fascismo delle Provincie — si
domandava Farinacci — che cosa resterebbe del fascismo? [...]. Io non ho
l’acume di Massimo Rocca, ma come caffoncello” di Provincia mi permetto
di fare uno sforzo mentale — pari a quello di he pero della terza
elementare — calcolando che Provincia più Provincia fa ‘azione!
” MASSIMO ROCCA, Partito e Governo fascista,
cit. Tra gli organi “indipendenti” che offrirono spazio e
considerazione alla campagna revisionista, oltre a «Il Giornale
d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si segnalarono
soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da Olindo
Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra cattolica ex
popolare, e «L’Epoca», un giornale d’ispirazione combattentistica sorto
nel 1917. Proprio «L’Epoca», il 23 settembre, pubblicò un’intervista di
Domenico Montalto a Massimo Rocca (// momentà attuale e il fascismo),
dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un
pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on.
Farinacci, «Cremona Nuova», 18 settembre 1923. ROBERTO FARINACCI,
/n difesa dei cafoni di provincia, Ibidem, 23 settembre 1923. Il
giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del
bolognese Gino Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure
più note del fascismo emiliano/romagnolo (su di lui v. PAOLO NELLO, Dino
Grandi: la formazione di un leader fascista, cit, ad indicem). L’articolo
(intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in contemporanea anche da «La
Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto») era una
difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”,
interessato e 148 Il ragionamento di
Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica e di veridicità
e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al cuore delle contraddizioni
della politica revisionista. Il fascismo delle provincie, caotico,
brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero, assai più del
fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma e di
Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole, tant'è
vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una
liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno
ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più
difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la
propaganda senza anima, propagandato dai
revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e violente
- le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano,
per mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato
lo stesso trattamento riservato ad Alfredo Misuri, in quanto il suo
l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far pari col famigerato
discorso» dell’ex deputato fascista (PIERO PEDRAZZA, Polemica fascista.
Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera», 22 settembre 1923). A Piacenza, il
conte Barbiellini puntò l’indice contro le trame affaristiche sottostanti
alla campagna revisionista. «Per quali anonimi lestofanti — tuonava il
ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di torbidi nel
fascismo?!? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai
ras provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che
gruppi capitalisti avevano qui realizzato ai danni dell’Erario
Nazionale?» (BERNARDO BARBIELLINI, Perché non molliamo, «La Scure», 25
settembre 1923). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche
dell’estremismo provinciale fascista — con particolare riguardo a Roberto
Farinacci — v. EMILIO GENTILE, op. cit., p. 263 ss. 28 E”
interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della
cultura antifascista, Piero Gobetti, secondo il quale non già i
revisionisti ma Farinacci e gli altri ras del suo stampo erano gli autentici
e più genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo
teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti
scrisse di preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso
di dignità» e di spirito di sacrificio, al «politicantismo senza pudore»
e al «trasformismo, senza decoro e senza intransigenza» dei vari Rocca,
Bottai e Grandi, «professionisti della politica» il cui revisionismo era
nato in mezzo alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A
parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte
la predilezione, tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale
dell’intransigenza), l’intellettuale torinese coglieva nel segno allorché
metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e culturale in
senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce
di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive,
aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava invece
completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di
provincia - notava lucidamente Gobetti - vi erano «centomila giovani, che
al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della
propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata
aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli opportunismi» (la
prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, «La Rivoluzione
Liberale», 9 ottobre 1923; le restanti da Secondo elogio di Farinacci, Ibidem,
19 febbraio 1924. Anche in Piero GOBETTI, Scritti politici, a cura di
Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1960, pp. 526-529, e 606-610)
149 revisionista (anche attraverso il ricatto
rappresentato dalla ventilata minaccia di scioglimento del partito)
poteva servire in modo egregio. Queste considerazioni parevano
sfuggire a Massimo Rocca, il quale, vittima forse anche della propria
presunzione, era invece convinto di avere al suo arco più frecce di
quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla reazione di
Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,
perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui
stesso suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse. Non
ci si è ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per
«Critica Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più
salda che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare
e rafforzare e ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche
solo di manganello, dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone,
e uno solo il Governo che fa le leggi e le applica attraverso i prefetti,
dando a questi ultimi il diritto di mettere in galera anche i più
autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si adattano
ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia?
Ebbene, facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro
dominio personale e continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo
[...]. Ma quest’opera è indipendente dalla loro prepotenza personale
nelle cose che il partito non riguardano; ma per continuare tale funzione
non è necessario instaurare repubbliche dittatoriali o vicereami con
feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare degli
staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e
fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli
platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopportata col platonico omaggio di
un alalà. Bisogna disfarli [...]. Tutto ciò per la Fronda fascista, nuova
specie di sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico
sovversivismo attivo e ingombrante oggigiorno [...] ‘Tutto ciò per la
Fronda insorta personalmente contro una mia tesi impersonale, a
minacciare col seguito dei suoi vassalli un modestissimo, ma convinto
pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se non quello del
Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile dal
procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?” La “fronda”
non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di questo
articolo, il pomeriggio del 27 settembre, la Giunta Esecutiva del PNF -
istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca dal partito «per
grave ?° Massimo Rocca, Diciotto brumaio, «Critica
Fascista», 24 settembre 1923 (anche in ID., Idee sul fascismo, cit., pp.
71-78). Questo articolo di Rocca era preceduto da una significativa
postilla della redazione. «Siamo perfettamente solidali con l’autore — vi
si leggeva - [...] e con gli scopi altissimi della sua battaglia, che è
anche la nostra battaglia». VIPATTTTRA VENTO ile A
indisciplina e indegnità politica»?°. La mattina del 28 Mussolini
ricevette Rocca, in qualità di vicepresidente dell’Istituto
Nazionale delle Assicurazioni”, ufficialmente «per trattare di questioni
riguardanti l'Ente» 4 ma in realtà per aver modo di esprimergli la
propria solidarietà. La sortita del “duce”, da cui egli si aspettava le
dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva, ebbe invece come effetto di
provocare quelle della Segreteria Generale (cioè di una parte soltanto
della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il Popolo d’Italia» - «non
risolveva affatto la questione». Era in atto, come ben notava «Il
Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di conti. Ora —
si domandava il quotidiano romano — è per le espressioni crude ed aspre
adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione è
dn stabilita? [...]. Se è vero che [...] il “Cremona Nuova” di Farinacci
[...] sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso
del partito, sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così,
provinciali, localistiche [...] avrebbero prevalso?” E
proseguiva: La lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo
Rocca e gli ioni ono Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i
“romani” e i “provinciali IRPROI Crisi i coscienza del Partito Fascista,
questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli che vogliono
avvicinare il fascismo all’anima, del Paese e quelli che vogliono
mantenerne la formazione chiusa e intransigente 30 La
Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della
manetta compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del
Governo, «Il Popolo d’Italia», 28 settembre 1923. tif, side Hib:
La Giunta Esecutiva del PNF, istituita nel maggio in luogo della
disciolta Direzione, sa composta da: Roberto Farinacci, Ferruccio
Lantini, Michele Bianchi, Giovanni Marinelli, Nicola Sansanelli, Attilio
Teruzzi, Piero Bolzon, Giuseppe Bastianini, Maurizio Maraviglia,
Antonello Caprino, Alessandro Dudan, Michelangelo Zimolo e Achille Starace. La
decisione contro Massimo Rocca fu presa all’unanimità. i i 31
Rocca ricopriva la carica di vicepresidente dell’INA dalla fine di febbraio del
1923 (cfr. Ibidem, 3 marzo 1923). 3° Ibidem, 29 settembre
1923. 33 ; Cfr. Ibidem. TSI VII j ; La Segreteria
Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli,
Teruzzi, Starace e Bolzon. bri Bata 3 La Giunta esecutiva del PNF
espelle Massimo Rocca il “revisionista”. Mussolini inten le che tale
decisione sia riesaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni
al Duce, «Il Giornale d’Italia», 29 settembre 1923. 35 . gii
vl 151 Nell’insieme,
l’espulsione di Massimo Rocca sollevò un’ondata di sdegno Si scrisse di
«procedimento sommario», di decisione «grottesca» che aveva il sapore
della «rappresaglia»?”, mentre anche il Consiglio Nazionale dei Gruppi di
Competenza fece sentire la sua voce, votando un ordine del giorno di
pieno sostegno al proprio segretario”. A Torino, Mario Gioda, che fin
dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca”
si dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con il suo
vecchio compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati
contrasti tra Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli
intransigenti) e delle mai sopite tensioni in seno al fascismo
torinese, si colorava di un forte significato politico. Non
è la prima volta — riconosceva a questo proposito l’organo mussoliniano —
che, durante clamorose polemiche, Mario Gioda si schiera apertamente per
la corrente temperata [...] del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora
ricordato a Torino l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo
Rocca, tributò al comunista Berruti, consigliere comunale, ucciso durante
i fatti dello scorso dicembre‘' Qualche giorno dopo, nel dare
l’annuncio delle proprie dimissioni anche dalla direzione de «Il Maglio»,
Gioda fu al proposito più che esplicito, con parole che non lasciavano
spazio a fraintendimenti. Li «L’Epoca», 29 settembre
1923. «L'Impero», 29 settembre 1923. _ Cfr. «Il
Giornale d’Italia», 30 settembre 1923. In un fondo del 24 settembre
per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon senso), Gioda
aveva definito gli articoli revisionisti di Rocca un «meraviglioso,
poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo». In un articolo
di poco successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio
punto di vista, perfettamente in linea con gli assunti dei revisionisti.
«I Fasci — scrisse tra l’altro Gioda — non sono sorti per soddisfare le
ambizioni militari o politiche di Tizio, Caio o Sempronio, ma per
l’Italia, unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia» (MARIO GIODA,
Corfù, Roma e il Fascismo, dl Maglio», 29 settembre 1923).
Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923. Gioda aveva
riassunto la carica di segretario del Fascio e la direzione de «Il Maglio»
da pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito
del riacutizzarsi della sua grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le
sue dimissioni, fu rilevato dall’avvocato Giorgio Bardanzellu, già
presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale
Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino
Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente «per ragioni di
carattere famigliare» («Il Maglio», 6 ottobre 1923). Mongini fu
sostituito dal milanese Claudio Colisi Rossi. 4! «Il Popolo
d’Italia», 30 settembre 1923. 152 Le
polemiche de’ passati giorni — scrisse - mi hanno trovato pienamente,
apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta
revisionista capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico
che è Massimo Rocca [...]. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi
parve inconcepibile che si potesse appartenere ancora un minuto ad un
partito ridotto a defenestrare i suoi uomini più formidabili [...],
mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta gramigna ‘
Il 29 settembre Mussolini convocò Michele Bianchi a Palazzo Venezia.
Questa volta Il “duce” richiese espressamente le dimissioni della Giunta
Esecutiva, decise il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali
(previsto per il 2 ottobre) e decretò la prossima convocazione del Gran
Consiglio del fascismo‘. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini,
ai membri della Giunta non restò altro da fare che obbedire‘.
Massimo Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa
(così almeno rivelava «Il Giornale d’Italia» del 29 settembre) dal
provvedimento disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito
passato al contrattacco, dichiarando in un’intervista che la Giunta,
essendo parte in causa, non aveva diritto alcuno di decidere della sua
espulsione e che, in ogni caso, egli non sarebbe indietreggiato «di un
millimetro». A primi di ottobre Rocca si ritirò nella sua Torino" e
lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e ai familiari,
attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese l’ex
anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente
retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e
in ossequio alla «grandezza» d’Italia. 4 MagriO
Giona, Commiato, «Il Maglio», 6 ottobre 1923. L'articolo di Gioda
uscì accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di Colisi
Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore
uscente. 4? Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.
In un editoriale del 30 settembre (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia»
plaudì alla richiesta di dimissioni avanzata da Mussolini alla Giunta
Esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo milanese - aveva mancato di
rispetto al “duce”, il quale, oltre a non esser stato messo al corrente
del proposito di mettere fuori gioco Massimo Rocca, era allora interamente
assorbito da impellenti questioni di ordine internazionale e non doveva
essere trascinato in polemiche artificiose. «Egli — scriveva il giornale
diretto da Arnaldo Mussolini — ha altro da fare. I capi fascisti delle
provincie devono finalmente intenderlo [...]. Se i fascisti locali non
intendono ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di
appartenervi». 4 La Giunta Esecutiva si dimise infatti il primo
ottobre. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre 1923. % «L’Epoca»,
30 settembre 1923. 4 Cfr. «Il Piemonte», 4 ottobre 1923.
4? Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. 153
AI cospetto di un fatto così grandioso — scriveva - [...], noi, uomini
che alla nuova creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo
sentire la nostra pochezza individuale al confronto con la creatura che
non è soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo [...];
dobbiamo comprendere che nulla sarebbe più folle, più sterile del voler
monopolizzare l’Italia nuova per noi [...]. Dobbiamo sentire che anche il
Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno
storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza
del ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia
e le serve di ase Nelle intenzioni dell’autore queste parole
avrebbero dovuto «placare ogni dissenso personale». In realtà, trascinato
dal suo temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta
ragnatela di polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo
oppose in quei giorni a Ferruccio Lantini, uno dei maggiori esponenti del
fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale Lantini — ch’era membro
della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato Rocca, definendo la
campagna revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva», e
denunciandone la «ben meschina» origine, «di carattere prematuramente e
comicamente elettorale». In una lettera di poco successiva, Rocca replicò
al suo detrattore con una serie di accuse minuziose, in particolare
rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia fascista» nei giorni
infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi 4
MAssIMO ROCCA, L ‘intangibile grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche
in ID. Idee sul fascismo, cit., pp. 79-86). f L'articolo in
questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da «Il Piemonte» (10
ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre). di ID., /dee sul fascismo, cit., p.
86. FERRUCCIO LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova», 29
settembre 1923. AI breve editoriale di Lantini faceva seguito una
chiosa di Giovanni Pala, il Fiduciario provinciale per la Liguria (nonché
condirettore del giornale), che si professava «completamente solidale»
con l’autore. Fin dal suo apparire, nell’estate del 1923, «Il Giornale di
Genova» aveva suscitato sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con
«Il Messaggero», che in un articolo del 26 luglio aveva svelato i legami
esistenti tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale,
Pala aveva smentito seccamente, dichiarando che la proprietà del giornale
apparteneva alla società anonima “Compagnia Editrice”, di cui egli era
presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 luglio 1923). A Genova,
tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero “legalitario”
del luglio/agosto 1922 aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la
proclamazione delle agitazioni, il 31 luglio, il Fascio genovese aveva
dato corpo a un “comitato d'azione”, del quale facevano parte, tra gli
altri, Ferruccio Lantini, gli onorevoli Edoardo Torre e Alberto De
Stefani, e Massimo Rocca, il cui nome è però del tutto assente dalle
dettagliatissime cronache de «Il Popolo d’Italia», la qual cosa farebbe
pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro 154
isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS
servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi
eleggere Consigliere Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascinò a
lungo, in un intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli
sfide a duello (peraltro sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno
d’incrociare le armi) *, a tutto scapito della credibilità complessiva
della campagna revisionista”*. Il 12 ottobre, come previsto,
si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una lunga seduta
fu votato un ordine del giorno che tramutava l’espulsione di Massimo
Rocca in una ben più blanda sospensione di tre leader
revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri
scontri, i fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure.
Obiettivo principale della violenta offensiva fascista era stato il
Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a Genova, che
riuniva le cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del
porto. Nel pomeriggio del 5 agosto, dopo che nella mattinata i capi
fascisti avevano lanciato un manifesto contro «la camorra portuaria dei
vigliacchissimi socialisti» («Il Popolo d’Italia», 6 agosto 1923), le camicie
nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da
Alessandria e da Torino, avevano assaltato Palazzo San Giorgio, sede del
Consorzio (nell’attacco, che fece numerose vittime, era rimasto ucciso lo
squadrista carrarese Primo Martini, poi entrato trionfalmente nel
martirologio fascista). Il senatore Nino Ronco, presidente del Consorzio
autonomo, era stato costretto a firmare una dichiarazione capestro, con
la quale si era impegnato a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative
socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle
giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia», 8 agosto 1922. Su questi
avvenimenti v. altresì ANTONINO REPACI, op. cit., pp. 45-49. 5 La
crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo
Rocca a Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX», 3 ottobre 1923 (anche in «Il
Giornale d’Italia», 4 ottobre 1923). «Il Secolo XIX» seguì
con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti,
mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risentì
dell’avvenuta pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non
destinata alla pubblicità» - e ne chiese “soddisfazione” al direttore del
quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, «Il Secolo
XIX», 5 ottobre 1923). 5 A un certo punto, come riferiva il 6
ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda assunse i contorni di un vero
e proprio «torneo». 5 Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e
Lantini celava un più vasto conflitto d’interessi (di cui la vicenda dei
finanziamenti a «Il Giornale di Genova» costituiva un risvolto),
riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il
controllo di Genova: da una parte il trust formato dall’Ansaldo, dai fratelli
Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via di liquidazione),
sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente capo a Giuseppe
Mastromattei, amico ‘di Rocca; dall’altra la potente azienda armatoriale
Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva l’appoggio di
Lantini e dei suoi (su questi punti v. ADRIAN LYTTELTON, La conquista del
potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, Laterza, 1974, pp. 300-301).
Tale contrapposizione travagliò a lungo il fascismo genovese, ‘dando
luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi, il 29 settembre,
fu il pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle
locali Corporazioni fasciste, il professor Luigi Loiacono, di cui erano
note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia», 2 ottobre
1923), 155 +55 de i fee .
mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si risolveva in
un accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia» allorché
scriveva che: Senza esaminare il merito delle polemiche da
questi [Rocca] sollevate, è certo che tra la prima condanna
all’espulsione per indegnità politica e la sospensione per tre mesi
inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere
all’intervento di un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica
e le variabili contingenze che essa impone, i compromessi diventano non
di rado inevitabili Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e
proprio riordinamento del partito””, nonché la nomina di Cesare Maria De
Vecchi a governatore della Somalia. L’allontanamento del futuro conte di
Val Cismon dall’Italia (un provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di
doversi misurare con le irrequietezze del quadrunviro), fu una grande
vittoria di Mario Gioda, il quale - come si è visto - aveva avuto il
coraggio di esporsi personalmente nel dibattito sul revisionismo e poteva
ora, mercé la messa in disparte del suo rivale, aspirare a recuperare
credito all’interno del fascismo subalpino. Ai primi di dicembre, con la
rielezione a segretario politico del Fascio di Torino”, ebbe inizio
l’ultima fase della sua vicenda politica. In un'intervista di quel
periodo, Gioda espose il suo progetto per la “normalizzazione”. Occorreva
— dichiarò - puntare sullo sviluppo dei sindacati e delle cooperative, in
modo da allargare la base effettiva del fascismo e porre le condizioni
per una piena collaborazione con le altre forze sociali (al riguardo
Gioda si disse convinto della possibilità di realizzare una federazione
di cooperative «di tutti i colori e di tutte le tinte politiche»). Come a
livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero
dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia»
con 55 Per l’esattezza, il testo dell’ordine del
giorno recitava: «Il Gran Consiglio prende atto delle dimissioni della
Giunta Esecutiva, revoca l’espulsione di Massimo Rocca e, per le
degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende
per tre mesi da ogni attività di partito a cominciare dalla seduta
odierna» («Il Popolo d’Italia», 13 ottobre 1923). 5 Una nuova
fase, «Il Giornale d’Italia», 14 ottobre 1923. V. anche Le
importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese»,
13 ottobre 1923, e l’articolo di Mario Carli // pa/ladio della
rivoluzione, «L’Impero», 14 ottobre 1923. 5? La Giunta
Esecutiva fu sostituita da un Direttorio di nove membri, cinque con
funzioni politiche e quattro con funzioni amministrative.
Francesco Giunta divenne il nuovo segretario generale del PNF.
8 Cfr. «Il Piemonte», 5 dicembre 1923. Gioda non riassunse la
direzione de «Il Maglio», che restò a Claudio Colisi Rossi,
156 «tutti gli elementi politici nazionali».
Relativamente ai temi della violenza e del rassismo, Gioda fu
perentorio. E’ oggi doveroso per i fascisti — affermò - orientarsi
verso un'attività più Sa ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le
disciplinatissime forze della milizia a Fascio può svolgere la più
intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È è rappresentato
unicamente [...] dal Prefetto [...1. Essendo paladini le 1A ri fascisti
sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio [...]. De n ci br
grande partito moderno come il nostro non può [...] reggersi unicamente sulle
Vi o qualità politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I
ngi vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’
DE Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una
ferrea organizzazione che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non
dunque nu compagnia di guitti attorno all’attore di cartello, ma un
insieme di squisite cap: che troveranno tutte [...] una dura parte da
reggere Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu
in seguito sottoposto al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e
approvato a voti unanimi. Oltre il fascismo La
sospensione di Massimo Rocca attenuò ma non pose fine alla poni
revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse:
Ha le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad
pi c iosa per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno
i un ie sà Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima
dinamica Hd decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua
trasformazione e le circostanze che, nell’autunno del 1923, avevano reso
possibile 1 pr delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse
di un intenso i % Ù n — per quanto funzionale e condizionato -, non si
sarebbero più simonos e pel mesi successivi. Mutata la situazione
politica, venuta meno, res me ma inesorabilmente, la “benevolenza” di
Mussolini, i sostenitori di suse defilarono (chi per calcolo, chi — come
Bottai — perché ormai persua i i i i itico 59
Leo GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col
segretario pol io Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre
1923. È o ; ca parzialmente anche su «Il Maglio» del 15 dicembre) fu
rilasciata da Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle
sue ormai abituali degenze. 60 ; 3 Cfr. Ibidem, 22 dicembre
1923. | ) Il Direttorio era entrato in carica il 2 dicembre (cfr. /bidem,
8 dicembre 1923). 157 IRE SRPORT TE
VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT dell’inanità
della lotta), mentre i giornali che gli avevano dato man forte
manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della
copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il
ministro De Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare
dall’altra parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e
forse, come al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in
un cu/ de sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in
poco tempo mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a
fattori esterni certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi
errori personali. Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto
della propria cultura, Rocca conferì un tono sempre più concettuale e
filosofico al suo revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù
cervellotici, colmi di citazioni libresche, in uno sfoggio di erudizione
spesso fine a se stesso, con la conseguenza — inevitabile - di
distogliere il grande pubblico dal cuore del problema e di stancare anche
gli osservatori più benevoli, facendo apparire la polemica revisionista —
in confronto alle concrete argomentazioni di un Farinacci - poco più che
una bizzarria intellettuale. Scontato il provvedimento di sospensione,
Rocca riprese - inizialmente con cautela — l’ordito dei suoi disegni. In
una sequenza di nuovi articoli, pressoché concomitanti, per «Il Nuovo
Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per «Critica Fascista», l’ex anarchico
tornò sul tema della legalità. Sebbene “paretianamente” convinto che
«l’indifferenza e la diffidenza nel Paese verso il Parlamento fossero
opera del Parlamento medesimo» (in virtù della “degenerazione”
dell’istituto parlamentare) ‘e dunque che la responsabilità della crisi
sistemica non potesse essere imputata unicamente alla “rivoluzione” delle
camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico irreversibile di cui
detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca non cullava
sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo restaurato,
restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti
episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione del 26 dicembre
a Giovanni Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire
il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale,
e l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali*”.
Solo così si sarebbe giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata
sull’imperio della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe
dovuto farsi garante 6 > MassIMO Rocca,
Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia», 4 gennaio 1924 (anche in
In., /dee sul Fascismo, cit., pp. 96-103). © Cfr. «Il Nuovo
Paese», 3 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit,, pp.
87-95), 158 nel suo stesso
interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca cominciavano
ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del manganello, anche
dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de «L’Impero». In
un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Emilio Settimelli si
chiese se, alla luce delle sue più recenti affermazioni, egli potesse
ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a
tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca
non dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrisse
- era un «superatore» più che un «negatore assoluto» dei principi
liberali. Infatti, fatto salvo «il dogma della Nazione», la cui
accettazione era il requisito essenziale per potersi dire fascisti, tutte
le libertà che non avessero minacciato quel dogma e che non si fossero
risolte «in una negazione della Patria», dovevano essere rispettate. Sul
piano strettamente politico, il torto maggiore del liberalismo era -
secondo Rocca - quello «di voler ancora comprendere da solo tutta la
società moderna», assai più complessa e articolata che in passato, così
come il difetto di fondo del parlamentarismo era quello di voler fare del
Parlamento, «un puro organo politico € generico», uno strumento
tuttofare. Era dunque necessaria un’inversione di rotta e l’esecutivo
fascista ne possedeva i mezzi nei Consigli Tecnici, «l’unico proposito
veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra angolare di
ogni autentica riforma in senso tecnocratico””. A parte l'enfasi posta
sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a
fronte del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi
avrebbero dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle
considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte
sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non
esservi più posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea
alla s Ip., Tornare alla normalità, «Il Nuovo Paese»,
5 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit., pp.
115-124). 5 EMILIO SETTIMELLI, Fascista o liberale energico?
(Risposta a Massimo Rocca), «L’Impero», 19 gennaio 1924. Più
tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di
Massimo Rocca dal PNF, Settimelli, in risposta all’accusa di
doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista (cfr. La ritirata
dell'Impero, «Avanti!», 17 maggio 1924), avrebbe rievocato proprio
quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e
Massimo Rocca ”, «L'Impero», 20 maggio 1924). Ciò non toglie che, nel
giro di poco più di tre mesi, dall’ottobre del 1923 al gennaio del 1924,
l’organo romano avesse completamente mutato la propria linea editoriale
riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla decisa
ostilità. 65 Massimo Rocca, Fascismo e liberalismo, Ibidem, 22
gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit., pp. 125-132).
159 a i idee pubblicazione della risposta di
Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del Partito Fascista diramò un
comunicato nel quale s’informava che il Direttorio Nazionale aveva
inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a motivo dei suoi ultimi
articoli’. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo di un discorso
che Rocca avrebbe dovuto pronunciare il primo febbraio al Teatro Scribe
di Torino fu sottoposto alla preventiva approvazione del “duce”, Ciò che
colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e proprio
compendio della sua “dottrina dello stato”, quale era andata formandosi
negli anni) era l’assenza - certo non casuale - di qualsiasi riferimento
al Partito Fascista. Perciò, nonostante il discorso dello Scribe non
contenesse cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva
lo “scheletro”, il fondamento concettuale. Nella filosofia di Massimo
Rocca, sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica,
individualismo, liberal/nazionalismo e fascismo, non c’era più spazio per
la mediazione del partito. Lo Stato, vertice della piramide, era il
«dogma intangibile e indiscutibile, superiore ad ogni temporanea
formazione e vicissitudine partigiana», superiore, quindi, allo stesso
fascismo”. Il discorso del primo febbraio fu l’ultima uscita pubblica di
Rocca prima dell’appuntamento elettorale del 6 aprile. Egli, tuttavia,
non disarmò affatto e anzi lavorò ad un volume antologico dei suoi
scritti “revisionisti” (il più volte citato Idee sul fascismo), che
avrebbe visto la luce dopo le elezioni, nell’ambito della collana “I
problemi del Fascismo” diretta da Curzio Suckert. Il libro,
significativamente dedicato a Mario Gioda («un fratello che sapeva
valutare e comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale») »
conteneva anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi,
intitolato Una legge agli italiani e recante la data del 15 marzo, Rocca
, invocava l’avvento di una legge che fosse «inattaccabile nella
sua imparzialità serena, amministrata da uno Stato capace di farne
sostanza della 86 «Il Nuovo Paese», 22 gennaio
1924. 9? Cfr. JI discorso di stasera del comm. Massimo Rocca, «Il
Piemonte», 1 febbraio 1924. 8 11 testo completo del discorso si
trova in /bidem, 2/3 febbraio 1924. (anche in MAssIiMO Rocca, /dee sul
Fascismo, cit., come La ricostruzione morale della Nazione, pp. 135-161).
Le considerazioni di Rocca ricevettero commenti benevoli da «La Stampa» (//
discorso di Massimo Rocca, 2 febbraio 1924), da «Il Nuovo Paese» (//
discorso di Massimo Rocca a Torino, 2 febbraio 1924) e financo da «Il
Maglio», che ne definì l’intervento «un mezzo di lento riavvicinamento
all’anima del fascismo» (// discorso di Massimo Rocca, 9 febbraio
1924). °° Massimo ROCCA, Idee sul Fascismo, cit,, p. IX.
160 sua eternità, al di sopra degli
uomini e dei governi e dei partiti e delle classiy”. Il
secondo inedito, // Fascismo nel pensiero moderno, rivelava pienamente i
segni dell’involuzione concettualistica che avrebbe contraddistinto la
ripresa della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso
contorta digressione storico-politico-filosofica era la condanna della
modernità, di cui Rocca — come altri antimodernisti - individuava
l’origine nella Riforma protestante e di cui seguiva le successive
incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere, sul terreno
politico, alle astrazioni della democrazia demagogica e del socialismo.
Contro la decadenza e la dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla
critica moderna, s’era levata, in passato, la rivolta isolata di alcuni
spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma - era in Italia -
proseguiva Rocca - che la reazione “anti-intellettuale”’ aveva dato i
frutti migliori e più durevoli, generando prima la riscossa nazionalista,
poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra,
quella fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, era ancora, per
il teorico del revisionismo, «una energia formidabile ma grezza,
contenente i germi d’una creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle
linee principali»”. La pienezza restauratrice del fascismo - concludeva
Rocca - doveva passare attraverso la riscoperta della centralità e della
missione della Chiesa Cattolica Romana, unica depositaria della certezza
del “dogma”. Negli ultimi due paragrafi del suo libro - I/ valore del
Cattolicesimo e Fascismo e religione -, Rocca immaginava un ritorno al
dogmatismo cattolico (un altro ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo),
prefigurando addirittura, quale approdo ultimo del fascismo, una sorta di
nazional-cattolicesimo sotto l’egida della Chiesa”. La critica di Rocca
al moderno e la sua rivalutazione della tradizione mostravano non pochi
nessi con la contemporanea riflessione del Suckert, senza tuttavia
possederne né l’originalità, né tanto meno l’anima romantica e
sostanzialmente “rivoluzionaria””?. Puramente e 7°
Ibidem, p. 220. ?! Ibidem, p. 348. ?° Il riconoscimento
del cattolicesimo romano come base fondante dell’unità nazionale e, più
in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma
politica, sarebbe stato al centro della riflessione di Rocca anche nel
secondo dopoguerra. Sulle pagine di «ABC», la rivista fondata da Giuseppe
Bottai nel 1953, Rocca avrebbe ampiamente trattato questi temi, sia sotto
un’angolatura puramente storico-filosofica, sia in riferimento alla nuova
situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella dottrina della
Chiesa cattolica l’unico vero antidoto alla “degenerazione
partitocratica” caratterizzante l’Italia repubblicana. DA proposito
dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua
centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. EMILIO GENTILE, op. cit., p.
276 ss., € MICHEL 161 deliberatamente
conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo faceva dunque
assomigliare più a De Maistre che a Mazzini. AI di là di queste
considerazioni, era ormai chiaro che Rocca esprimeva posizioni personali,
che difficilmente, con l’eccezione di pochi intellettuali, avrebbero
trovato nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso
Roberto Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non
avrebbe esitato a farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo
avversario) ?* Le elezioni del 1924 e la crisi del fascismo
torinese Massimo Rocca e Mario Gioda parteciparono alle elezioni
nelle file del “listone” governativo”. La candidatura di Rocca incontrò invero
moltissime difficoltà. Apertamente osteggiato dagli intransigenti, il
/eader revisionista dovette rinunciare a “correre” nel sicuro collegio di
Torino (dove fu invece candidato Gioda) ‘°, per accontentarsi di un posto
in 1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze di
Farinacci”. Sembra, peraltro, che Gioda avesse condizionato la propria
candidatura alla presenza nel “listone” dell’amico Rocca. «Avendo'il
Rocca — rilevava infatti un giornale torinese -, con cui Gioda è
pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia,
OSTENC, op. cit., pp. 165 ss. Sul pensiero politico dell’intellettuale
toscano v. la monografia di GIUSEPPE PARDINI, Curzio Malaparte. Una
biografia politica, Milano, Luni, 1998. 4 Non solo Farinacci, a
dire il vero. E’ singolare che, proprio nel 1924, quasi a voler
rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di New York,
gravitante attorno al giornale «Il Martello» (uno degli organi più
autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero), desse alle stampe un
libretto, intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto
a vecchi scritti anticlericali di Mussolini e di Hervé, riproduceva il
testo di una conferenza tenuta da Rocca a Providence nel dicembre del
1910, allo scopo di dimostrare che il mangiapreti d’un tempo era in
realtà un “voltagabbana”. Due anni dopo, peraltro, il foglio anarchico
italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello
stesso Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei
confronti di Mussolini (cfr. Massimo Rocca, La verità su Mussolini, «Il
Martello», 14 agosto 1926). 75 Su tutte le vicende legate alla
decisiva consultazione elettorale del 6 aprile 1924 v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il fascista, cit., p. 518 ss. 1 Cfr. «Il Piemonte», 19/20
febbraio 1924. ? Il ras di Cremona non fece mistero di non
condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la diramazione della lista
ufficiale dei candidati, avvenuta il 18 febbraio, Farinacci si rassegnò ad
accettare il fatto compiuto. «Ora che le liste sono approvate, col sigillo del
Duce e del PNF - scrisse con evidente disappunto - , dev’essere bandita
ogni discussione, anche se nel listone [...] V'è qualcosa d’indigesto; vi
è il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse
sepolto per sempre» (ROBERTO FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova», 19
febbraio 1924). 162 il Segretario
politico del Fascio di Torino rimane candidato nella lista nazionale*».
Quella di Rocca fu, necessariamente, una campagna elettorale in
tono minore”, né molto diversa — a causa della salute malferma — fu
quella di Mario Gioda*°; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla
Camera®'. Il dopo elezioni aprì un’ennesima deflagrante crisi all’interno
del fascismo subalpino; crisi significativa perché, a prescindere dai
fattori di ordine ambientale, s’inscriveva nel più generale contrasto tra
revisionisti e intransigenti. Già all’inizio di febbraio «La Stampa»
aveva posto l’accento sui contrasti tra la «tendenza transigente [...]
“filo-liberale’”» del fascismo locale, «rappresentata da Massimo Rocca»,
e l’ala più, giottosa e ribelle, nostalgica dei metodi squadristici,
arroccata in provincia*. Come effetto di queste lacerazioni intestine, la
formazione della lista nazionale era stata difficoltosa e,
complessivamente, la percentuale di voti ottenuta; in Piemonte da tale
schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%) 8 A
una settimana dalle votazioni, domenica 13 aprile, si riunì a Torino
l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di tensione (il
discorso 78 «Il Piemonte», cit. ?° «Io — rinfacciò più
tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il Duce, ho accettato di
abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e
in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia
propaganda per farti piacere, me ne sono andato, infischiandomi dei voti»
(MASSIMO ROCCA, All'onorevole Roberto Farinacci despota e censore, «Il
Nuovo Paese», 15 maggio 1924). ® La propaganda elettorale fascista
fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi per la
proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese,
ch’ebbe luogo al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere
all’assemblea una lettera “programmatica”, nella quale si augurava che il
confronto elettorale in Piemonte si mantenesse nell’ambito della
correttezza, come si conveniva ad una «lotta d’idee e non di uomini», e
professava «disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio
di Mario Gioda ai fascisti torinesi, «Il Popolo d’Italia», 5 marzo 1924.
Anche in «Il Piemonte», 3/4 marzo 1924). Il segretario del Fascio
torinese ebbe modo di illustrare direttamente il proprio pensiero il 30
marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica sua
uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. // forte
discorso di Mario Gioda al Teatro Alfieri, «Il Maglio», 5 aprile
1924). 8! Nelle 328 sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena
413 voti di preferenza. Miglior risultato ottenne in provincia, con 1.071
suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 10 e 11 aprile 1924). Di gran lunga
più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in
Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa», 8 e 11 aprile 1924).
82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale, Ibidem,
2 febbraio 1924. 83 A confondere ulteriormente le acque, accanto
alla lista ufficiale si era presentato anche un raggruppamento di fascisti
“dissidenti”, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un
largo seguito tra gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse
delle simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. EMMA MANA, op.
cit., p. 303 ss. del segretario federale, Claudio
Colisi Rossi, fu interrotto più volte), il congresso si risolse in un
tumulto generale, con violenti scontri tra i membri del Fascio del
capoluogo e i rappresentanti delle province”. Il punto era - come ancora
evidenziava «La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del nuovo
Direttorio, all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata
da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del
fascismo subalpino si erano definitivamente assottigliati. di
fascismo nella provincia — registrava l’organo giolittiano - tende ad avere
una Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio [...], un
carattere, cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle
gerarchie, quasi intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è
i L de , È già ed è ancora definito coi i schiettamente piemontese
st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la
gravità della situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non
aveva preso parte alla concitata assemblea provinciale, fu convocato a
Roma dalla Direzione del partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”.
Le decisioni più importanti, in realtà, erano già state prese,
indipendentemente dalle valutazioni di Gioda Sabato 19 aprile, Colisi
Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del Fascio torinese e la
nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Piero Brandimarte,
Alessandro Orsi e Pietro Gorgolini. Il provvedimento colse di sorpresa
Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo definì
un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel
modo più assoluto [...] lo scioglimento del Direttorio del glorioso e
laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale, forte dell’approvazione
dei vertici nazionali del partito, non si curò minimamente
84 pie È si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso,
«La Stampa», 15 aprile 1924. 86 x tt n : In una lettera della
Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo d
Italia» del 16 aprile) l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole
esagerazioni». «Il Maglio» del 19 aprile attribuì la responsabilità
dell’«indegna gazzarra» a misteriosi provocatori esterni, «elementi
incoscienti, operanti per conto terzi». «Il Popolo d’Italia», 18
aprile 1924, Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera
dell'On. Gioda, Ibidem, 23 aprile La lettera di Gioda era datata 21
aprile. Il giorno prima il segretario del Fascio torinese aveva inviato
un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del
Direttorio un «imbecillesco provocatore colpo di mano» e chiedendo la
nomina di un «commissario avente pieni poteri» che facesse piena
luce su ; pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7% DEGLI
INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1924, Busta 73. e
delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera
come una manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Alla fine di aprile
giunse a Torino Achille Starace, in qualità di “supervisore””, Su
decisione di Starace il decreto di scioglimento del Direttorio cittadino
fu esteso all’intero Fascio”!, la cui ricostituzione venne in seguito
demandata a un commissario straordinario, nella persona del ras Ferruccio
Lantini”. La nomina dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti
avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del fascismo torinese
aveva un evidente significato ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla
lotta contro la malattia, uscì definitivamente di scena, assistendo
impotente alla rovina politica dell’amico Massimo Rocca”. Minato dalla
leucemia, il quarantunenne ex tipografo si spense in un ospedale torinese
il 28 settembre 1924. Quale che sia il giudizio sulle sue idee e
sulla sua azione (che avrebbe forse potuto essere più incisiva ed
influente, se le tortuosità programmatiche del fascismo, le difficoltà
incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in particolare l’annosa
contrapposizione con De Vecchi — e le sue stesse esitazioni e insicurezze
non lo avessero impedito), e sorvolando sulle celebrazioni postume
dell’oleografia fascista”, è certo che con Mario Gioda
89 «Il Piemonte», 23/24 aprile 1924. 90 Cfr. Ibidem, 25/26
aprile 1924. ?! Cfr. «La Stampa», 6 maggio 1924, e «Il Piemonte»,
6/7 maggio 1924. °° Cfr. «La Stampa», 14 maggio 1924, e «Il
Piemonte», 14/15 maggio 1924. 9 Non a caso, l’arrivo di Lantini a
Torino fu salutato con soddisfazione da «Il Maglio» del 17 maggio. In un
precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente non aveva
dato spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente
criticato i revisionisti, affermando di non credere «alla utilità di
mutamenti programmatici nei postulati fondamentali del partito» e negando
addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo, revisionismo e
speculazioni avversarie, Ibidem, 10 maggio 1924). Sull’intera
vicenda v. anche EMMA MANA, cit., p. 306-308. % Il 17 maggio, dopo
l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interrogò su quali
sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già
avvenuto in occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le
ripercussioni a Torino per l'espulsione di Rocca). In realtà, come riferì
ad Aldo Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo stesso
Gioda, questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non
poter cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,
Gabinetto Finzi, 1924, Busta 13. si Esemplare, a questo proposito
(oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de «Ii
Piemonte» e de «Il Maglio», pubblicati all’indomani della sua morte), il già
citato volumetto La vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce. Nel
secondo dopoguerra, la memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del
sindacalismo di estrazione fascista (più propriamente salodina),
organizzato nella CISNAL. «Fondatore Mario Gioda» campeggiava sul
frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», nel 1959, come “periodico del
sindacalismo nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito
ricordo di Gioda, firmato da siii. ef .1.}
scompariva un protagonista appassionato di una fase cruciale della
storia politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un
certo senso simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad
un unico criterio interpretativo. Pa seconda campagna
revisionista e la definitiva sconfitta di Massimo occa Alla
fine di aprile, mentre si consumava la crisi del fascismo torinese.
Massimo Rocca riaprì formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione
2 come confessò più tardi - «di giungere ad un risultato pratico di
epurazione e di chiarificazione»®. In una lucida intervista a “L’Epoca”,
che riattizzò immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato
ribadì uno ad uno i capisaldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse
un esplicito attacco contro quelle «classi industriali». che, «prive
d’ogni idea generale nobilitante», s’illudevano «di assolvere ogni loro
dovere verso la patria e la civiltà» foraggiando i vari “capetti”
fascisti, «in cambio di utili tranquilli»?”?. Alla domanda, conseguente,
se egli ritenesse possibile e opportuno un «orientamento verso sinistra»
del fascismo, Rocca replicò: «Verso una sinistra politica, democratica o
liberale d’idee, no. Verso una democrazia di fatto, nel senso di
appoggiarci su larghi strati di popolazione [...], si». Il governo
fascista - osservò Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni
politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria
base favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le
diverse componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una
collaborazione Edoardo Malusardi, che di quel
giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Mario Gioda, «Il
Maglio», 15 marzo 1959). a MAassIMO Rocca, A Roberto Farinacci despota e
censore, cit. Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell
‘«Epoca» con l'on. Massimo Rocca, «L’Epoca», 27 aprile 1924. j
Rocca riprese questi concetti in un articolo del 10 maggio su «Il Nuovo Paese»
(// bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella
circostanza - non era nato per tutelare gli interessi delle «cricche
industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e vecchi
imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come
certi “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un
terreno di conquista politica e militare». Tra i due deprecabili fenomeni
- aggiunse Rocca — vi era un nesso profondo, in quanto gli squadristi
«dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari
«senza scrupoli». Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista
dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit, 166
di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non
«isterilita da pure considerazioni economiche o da un’opera di
gendarmeria a favore di una classe sola», poteva darsi soltanto a
condizione che il Partito Fascista abbandonasse ogni residuo settarismo
per divenire finalmente parte integrante della Nazione”. A
queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli
pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi -
soprattutto su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi
concetti. In un articolo particolarmente duro per il giornale di Carlo
Bazzi (una sferzante requisitoria contro le «camarille locali» fasciste),
Rocca, quasi presentendo la resa dei conti finale, sostenne che la
normalizzazione non poteva più esser rimandata. «Dopo le elezioni —
scrisse - , il Paese ha diritto di pretendere un assetto “definitivo” del
Fascismo [...]. Il 1924 dovrà assolutamente assistere all’inquadramento
completo [...] del partito nella Nazione»!®?, Com’era lecito
attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una pronta levata di
scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però, Farinacci e
gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle Finanze Alberto
De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del governo
Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata” revisionista
9 Ivi. «L’Epoca», diretta allora da Titta Madia
(subentrato a Italo Carlo Falbo), dedicò — almeno inizialmente — molta
attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni
dopo la pubblicazione dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne
ospitò un’altra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le
origini e le finalità del revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on.
Bottai, Ibidem, 7 maggio 1924). 100 «Mussolini — ricordava Rocca a
questo proposito - mi fece pregare, da Paolucci de’Calboli Barone, di
abbandonare la polemica; rifiutai qualsiasi impegno in merito, perché volevo
[...] giungere ad una chiarificazione definitiva» (MASSIMO Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura, cit., p. 170). 101 «Il Nuovo
Paese» prese, di fatto, il posto che, nel settembre/ottobre 1923, era stato de
«L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di
Bazzi al revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo.
Tipico, sotto questo profilo, un editoriale del 7 maggio (Polemica
revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si accompagnavano
critiche all’eccessiva «astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in
una cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime
battute, dunque, apparve chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi
una via di fuga, nell’ipotesi, rivelatasi realtà, che i revisionisti
finissero per soccombere. 102 MassIMO ROCCA, Politica interna e
disciplina nazionale, Ibidem, 9 maggio 1924. Questo articolo
apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi
per normalizzare”. 193 I] veronese Alberto De Stefani,
deputato dal 1921 (era stato eletto - come si è visto - nell’ambito della
lista fascista patrocinata da Edoardo Malusardi), era entrato nel governo
Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare
Vincenzo 167 s’intrecciò con la violenta campagna
scatenata contro De Stefani da «Il Nuovo Paese» nel tentativo di
sottrarre i propri equivoci giri d’affari alla temuta opera
moralizzatrice del ministro'. Secondo Renzo De Felice, il coinvolgimento
di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre fu
probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il
sostegno di Bazzi”, ma è certo, in ogni caso, che il leader revisionista
ebbe in tutta quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto,
negò sempre di esser sceso in polemica personale con De Stefani'%; e in
effetti, sfogliando i suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che
sporadici accenni a questioni economico/finanziarie e mai un riferimento
diretto al ministro!””. E’ bensì vero che Rocca (il quale era convinto
che il programma elaborato con Corgini nel 1922 fosse il migliore
possibile e non aveva mai digerito il suo accantonamento da parte di
Mussolini) '°° pubblicò un intero volume contro la politica economica di
De Stefani, ma è anche vero che il libro uscì nell’estate del 1925,
quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese» non restava che
l’eco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale
Tangorra, avvenuta nel dicembre 1922, anche il Dicastero del
Tesoro. La sua azione di governo, sostanzialmente improntata ai postulati
del liberismo classico, si articolò lungo tre direttive principali:
raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della
spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte); contenimento della
dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale “controllato”. Cfr.
Dizionario biografico degli italiani, cit i Vol. 39, ad nomen. 4 fe
Su questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, p. 451
ss. «Il Nuovo Paese» rimproverava al ministro l’ostinazione nel
voler perseguire a tutti i costi l’equilibrio del bilancio, una politica
definita esiziale per le risorse economiche della Nazione; ma questa era
- per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”, essendo ben altri, in realtà,
i motivi dell’ostilità del giornale nei confronti di De Stefani. Tra le
principali imputazioni mosse al ministro, la più importante - perché più
strettamente connessa agli interessi della lobby sottostante
all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori
alla potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte
le attività industriali, bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto
della Banca di Sconto, già in via di liquidazione (ofr. Per gli uomini di
buona fede, «Il Nuovo Paese», 14 maggio 1924). si Cfr. Renzo DE
FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597. In una lettera
successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata il 27
maggio 1924 da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto
amareggiato del fatto che il suo nome fosse stato collegato alla diatriba
«Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver «mai attaccato» il
ministro. 1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria
(pubblicato da «Il Nuovo Paese» il 14 maggio), Rocca prese ufficialmente
posizione nella polemica contro la Banca Commerciale. Ra Cfr.
MAssIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103.
Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli, 1925). Il libro, che
faceva parte della collana “Pagine Politiche” diretta da Renato
Massimo Angiolillo, raccoglieva il testo di un
dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a De Stefani ebbe un
riflesso del tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle
province l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento
nella lotta contro gli “affaristi” romani"!°, all'opinione pubblica
moderata, che aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore
della normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva
considerato il principale organo revisionista ad un conservatore come De
Stefani (il quale godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità
del mondo politico ed economico liberale, come Luigi Einaudi) apparvero
incomprensibili e gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non
avrebbe mai accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi
collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera
dei Deputati il 19 dicembre 1924 (anch'esso, dunque, posteriore alla sua
radiazione dal PNF) e una serie di “note”, datate maggio 1925, nelle
quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla
linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneità
alla polemica tra il ministro e «Il Nuovo Paese», e definendo una
leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal
Partito Fascista a motivo di essa (cfr. /bidem, p. 4). Quanto alla sostanza delle
sue critiche a De Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva
nell’imputare al responsabile delle Finanze il suo «economismo»
professorale - troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se stesso -
e la sua incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione «sindacalista»
della produzione, colta invece dal programma economico fascista del 1922.
«Per un economista di tal razza — argomentava Rocca — esisteva soltanto
la libertà economica, cioè della classe borghese, ma non la libertà
politica, cioè delle altre classi», con la conseguenza di favorire il
dominio della «plutocrazia bancaria e affaristica», la quale rappresentava
«l’applicazione quotidiana, esagerata e unilaterale [...] della scienza
economica classica e borghese» (Ibidem, . 9-10). Pi
«La lotta contro De Stefani — scrisse Farinacci in tono minaccioso - deve
cessare. Il Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora
una volta il “Nuovo Paese” e i suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista
come l’on. De Stefani non può essere lasciato aggredire da chi è privo di
ogni diritto e autorità morale» (ROBERTO FARINACCI, Solidali con De
Stefani, «Cremona Nuova», 11 maggio 1924). !!! palla giolittiana
«La Stampa» (ATTILIO CABIATI, // ministro De Stefani, 14 maggio 1924) ai
filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul
“revisionismo” e pro 0 contro De Stefani, 14 maggio 1924) e «Il Resto del
Carlino» (FEDERICO FLORA, Per l'onorevole De Stefani, 15 maggio 1924), la
stampa liberale prese, compatta, le difese dell’uomo di governo veronese,
l’energico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento di Flora per
il quotidiano bolognese è forse il più indicativo di questo comune sentire.
«Nulla di più enigmatico e di più doloroso per il pubblico italiano —
scrisse l’articolista de «Il Resto del Carlino» — della campagna ostile
contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni con una politica
finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella,
a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della Nazione
dall’estrema rovina». I revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo
Paese» contro De Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli
osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al punto
che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il
ripristino della legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del
revisionismo, finirono per passare in 169 fe TE avitbicee
In un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si
avviò incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora
incerte al momento della sua intervista a «L’Epoca», si andavano
d’altronde sempre più definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio,
scese in campo a dar manforte a Farinacci. In un editoriale del 10 maggio
- J/ pugno e la biblioteca -, Emilio Settimelli prese le difese dei
“selvaggi” delle province (il “pugno”), accusando i revisionisti (la
“biblioteca”) di filosofare vanamente sui massimi sistemi, tradendo
l’anima “guerriera” del fascismo". A parte la disinvoltura dei suoi
ex alleati, è però indiscutibile che Rocca si compiacesse troppo di se
stesso, abbandonandosi sovente a virtuosismi da erudito (come testimoniato
da scritti del tipo di La rivoluzione e le fonti del Fascismo, uscito su
«L’Epoca» in contemporanea all’articolo di Settimelli), col risultato —
come si diceva - di togliere mordente e immediatezza alla polemica
revisionista, facendola apparire, appunto, uno sterile e noioso esercizio
di critica filosofica. A strappare definitivamente Rocca alle sue
speculazioni provvide il 13 maggio Arnaldo Mussolini con un fondo
durissimo per «Il Popolo d’Italia». Gli onorevoli Massimo Rocca e
Giuseppe Bottai — scrisse il fratello del “duce” -, ai quali non si può
negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a
demolire, a precipitare ciò che andava semplicemente attenuato [...]. I
patriarchi non si mettono a fare la boxe coi capi di provincia [...]. Se
non ci fossero stati gli squadristi, se non ci fosse stata la violenza
[...], l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la nazione italiana
sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici
secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembrò infine un
mezzo necessario per salvare l’integrità dei bilanci. Persino «Il Mondo»,
l’organo dell’opposizione costituzionale amendoliana, che pure precisava
di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni caso, non
aveva mai risparmiato critiche all’operato di De Stefani, convenne
sull’inopportunità della campagna contro il ministro. «Indifferenti come noi
siamo a qualsiasi esito - scrisse infatti il giornale diretto da Alberto
Cianca — [...] di una cosa sola possiamo rallegrarci: che non abbia vinto
una campagna che appariva troppo minata da rancori e da vendette di
uomini o di gruppi che si erano trovati in contrasto con le ragioni
dell’erario, ed avevano sferrato contro l'ostacolo De Stefani attacchi di
stile inusitato perfino nell’attuale depressione del costume politico»
(// caso De Stefani, 17 maggio 1924). 2 La logica del «pugno in
opposizione alla biblioteca» - replicò Rocca a Settimelli -,
l’esaltazione cieca della forza, il mito della «giovinezza», avrebbero condotto
il fascismo alla dissoluzione morale (Massimo Rocca, // problema morale
del fascismo, «L’Epoca», 15 maggio 1924). Il problema di educare — e
quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti era avvertito dai
dirigenti più accorti. Dopo la “marcia su Roma”, nel pieno delle polemiche
sullo squadrismo, Edoardo Malusardi - allora a Sestri Ponente - si era
battuto per l’apertura, nei locali del Fascio, di una biblioteca di
cultura varia, in modo da offrire ai giovani fascisti un'opportunità di crescita
“etica” e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza», 11 novembre 1922).
170 di oggi potrebbero parlare
da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il tono ieratico
degli eunuchi"! Le brusche parole di Arnaldo Mussolini, in
perfetto stile “farinacciano”, colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi
anche all’improvviso - ancorché non imprevedibile — voltafaccia de «Il
Nuovo Paese» ‘, Rocca provò dapprima a parare il colpo con una
dichiarazione nella quale precisava di non aver mai inteso offendere le
“eroiche” camicie nere; quindi, di fronte agli insistenti affondo di
Farinacci, si decise a pubblicare una lettera aperta al proprio rivale.
Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca era un fiero atto
d’accusa a Farinacci (il «viceré spagnolesco di Cremona») e al fascismo
provinciale che egli rappresentava, degenerante nella «volgare brutalità
del cazzotto o del randello»!!°. E” stato scritto, molto suggestivamente,
che in questo modo Rocca «ridiventava l’anarchico Libero Tancredi esi
preparava a riprendere la via dell’esilio»!!”. Non sembra, tuttavia, che
Rocca si fosse del tutto reso conto d’esser giunto al capolinea della sua
avventura fascista!'*, sebbene non fosse difficile prevedere, come riuscì
a un giornale !!3 ARNALDO MUSSOLINI, La Fronda, «Il
Popolo d’Italia», 13 maggio 1924. Lo stesso giorno, con grande tempismo,
«L'Impero» titolava: «Gridiamolo ancora: il Fascismo ha fatto la
rivoluzione per avere uno Stato fascista, non per appuntellare lo Stato
iberale». 3 ‘gu i i ni «C'è una fronda in giro? — si chiedeva il 14
maggio il giornale di Bazzi, riecheggiando il titolo dell'articolo di
Arnaldo Mussolini — Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che sia
spezzata». ; ; 115 [a dichiarazione di Rocca fu pubblicata il 14 maggio
da «Il Nuovo Paese» e ripresa, il giorno seguente, anche da «Il Popolo
d’Italia» e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo giornale, si
disse indignato per quella che considerava un’autentica «virata di bordo» da
parte del suo avversario («Cremona Nuova», 15 maggio 1924). In realtà,
Rocca si era DERER a esprimere il proprio apprezzamento per gli
squadristi della “vecchia guardia” (come sO resto aveva sempre fatto),
senza giustificare in alcun modo le violenze dei «teppisti pc quelli «di
tutte le seste giornate», ma anzi sottolineando che egli avrebbe continuato a
attersi per l’«epurazione all’interno del panic affinché questo potesse
realizzare «il suo genuino di disciplina legale e materiale». } {
Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova
riprodotta anche in ID., Come il fascismo divenne una dittatura, cit, pp.
175-184). j li Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffuse
un comunicato con il cbr no notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente
dell’INA, nonché da membro del consiglio di amministrazione della Società
Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica che ricopriva
da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», 16 maggio 1924, e «Il Nuovo
Paese», 17 maggio 1924). !!7 Yvon DE BEGNAC, op. cit., p. 341. è
ti 18 In. effetti, ancora dopo che il Direttorio fascista ne ebbe
sanzionato il definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutriva la
speranza che il suo caso fosse riesaminato, come già era avvenuto in
occasione della sua precedente espulsione. «Ed ora — avrebbe dichiarato
il 171 dell’opposizione, che la sua lettera a
Farinacci ne avrebbe «con tutta probabilità» determinato l’espulsione dal
partito!!?. La sera stessa del 15 maggio il Direttorio fascista,
riunito a Palazzo Chigi alla presenza di Mussolini (precipitosamente
rientrato da una visita ufficiale in Sicilia), decretò l’espulsione di
Rocca dal PNF!°°, Essa, commentava «Il Popolo d’Italia», non era solo:
i la punizione ad un sedizioso, ma [...] un monito severo e una
minaccia solenne a tutti quegli pseudo fascisti o falsi fascisti che
rinnegavano la Fede, offendendo la Patria e turbavano colla smania e la
follia dell’arrivismo quel che era il dovere fascista più grande: [...]
la ricostruzione nazionale"?! Il Direttorio decise altresì
l’espulsione di Giuseppe Bottai, ma questi, grazie all’intercessione di
Giovanni Marinelli («non si sa a quali eéindizioni» probabilmente la
promessa «di rientrare nei ranghi») '’?, ottenne la revoca del
provvedimento, cosicché Rocca si trovò, di fatto, a sostenere da solo il
peso dell’epurazione. Nel giro di pochi mesi, dunque, il
revisionismo passò da una concreta, benché ingannevole, speranza di
successo al più cocente fallimento, mentre 18 maggio
a «Il Giornale d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale
e disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere [...] un
po’ di giustizia, non Importa se più tardiva che nello scorso
settembre». «Avanti!», 16 maggio 1924. 120 : Cfr.
«Il Popolo d’Italia», 16 maggio 1924. 221 Ivi. «Ogni commento
da parte nostra - rilevava Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui
[Rocca], da noi, era considerato fuori del fascismo già da un anno» (ROBERTO
FARINACCI Virando di bordo, «Cremona Nuova», 17 maggio 1924). i
GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., cit., p. 75. La marcia
indietro di Giuseppe Bottai addolorò Rocca, che ne attribuì la ragione
alle preoccupazioni carrieristiche del giovane intellettuale fascista.
«Bottai — avrebbe scritto Rocca trent'anni dopo -, allora giovanissimo,
temette di veder spezzata per sempre la sua carriera» (Massimo Rocca,
Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 171). Il punto è che il
revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muovevano
da premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario
di Rocca, infatti, che vantava una militanza politica prefascista di
tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua breve stagione
futurista, si era formato politicamente con il fascismo, al quale aveva
dedicato tutto se stesso, e di cui — se così si può dire - poteva
considerarsi l’unico vero “intellettuale organico”. Nonostante
l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non era assolutamente
in discussione. Fu così — come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai,
il quale «credeva nel fascismo come teoria politica», non volle
rinunciarvi «sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi», mentre
Rocca, «assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che
accettare la disciplina di un partito che considerava irrimediabilmente
marcio, preferì rinunciarvi del tutto» (GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., p.
76). Rocca veniva abbandonato al proprio
destino”. Perché Mussolini abbia deciso di sacrificare Rocca, di cui
aveva personalmente preso le difese meno di un anno prima, è questione di
non facile interpretazione. La risposta può essere ancora una volta
ricercata nella duttilità strategica del “duce”. Mussolini, infatti,
coltivava ancora il disegno di un allargamento della maggioranza, da
realizzarsi soprattutto grazie a un’intesa con la CGL; un progetto a cui
il capo del fascismo teneva in modo particolare e che, se non fosse
sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in
porto. Un'operazione tanto importante — ha scritto Renzo De Felice
— doveva essere realizzata con le minime possibili scosse interne. Gli
intransigenti dovevano essere convinti ad accettarla [...]. Se il prezzo
o una parte del prezzo da pagar loro era la fine del revisionismo e la
testa di Rocca, Mussolini non poteva certo esimersi dal Rocca fu
quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è giusto ripetere che
egli scontò anche gravi errori personali. Con la sua definitiva
espulsione 123 | commenti della stampa italiana
furono variamente ma unanimemente favorevoli alla decisione del
Direttorio. Emilio Settimelli, su «L'Impero» del 17 maggio, ebbe parole
di stima per Farinacci («il suo programma semplice e schietto, energico e
fiducioso, è il nostro programma») e di riprovazione per Rocca («Massimo
Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione. E’
farraginoso e analitico»). «Il Resto del Carlino», che aveva visto con favore
la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarcò la degenerazione
personalistica della polemica revisionista — concretatasi negli attacchi a De
Stefani - augurandosi che «il Rocca si convincesse dell’opportunità di
rientrare in un completo silenzio» (// provvedimento contro l'on. Rocca,
17 maggio 1924). Con argomenti simili, «Il Giornale d’Italia», pur
riconoscendo la validità del revisionismo «degli inizi», ne criticò
l’involuzione dottrinale («non si capiva quale fosse la meta, per quali vie
concrete raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponevano») ed
espresse soddisfazione per l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube
risolta, 18 maggio 1924). 124 Renzo DE FELICE, Mussolini il
fascista, cit., p. 597. A una successiva riunione del Gran Consiglio
del fascismo, il 22 luglio 1924 (in piena crisi Matteotti), Mussolini si
mostrò ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche
revisioniste. «Dichiaro — disse il “duce” - che io non ho ben capito ancora
dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi
nostri amici specificassero. Si tratta di una ricaduta nello Stato
democratico/liberale con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece
rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere
le posizioni morali e politiche del Fascismo per adeguarle alla nuova
realtà, cioè al possesso del potere politico? In quest’ultimo caso, il
revisionismo avrebbe una reale utilità. E evidente che, assunto il
potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei
“ribellisti”. Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle
nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta
sul futuro, o è un ritorno al passato?» (PNF, // Gran Consiglio nei primi
dieci anni dell'era fascista, cit., p. 146). 173 dal
PNF, Massimo Rocca (che non si dimise da deputato e presenziò
regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera, il 24 maggio
1924) ©’ concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una
precisa coscienza antifascista, per tutto il resto della sua vita Rocca
mantenne, riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo
dire di odio/amore), di cui è testimonianza il suo libro del 1954, Come
il fascismo divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e
persecuzioni", in un primo momento Rocca - in accordo con altri
dissidenti - tentò la via dell’opposizione interna'””; quindi, alla fine
del 1925, lasciò l’Italia per la Francia, dove visse a lungo come
appartato (in rapporti di reciproca diffidenza con la concentrazione
antifascista) e in ristrettezze economiche, scrivendo saltuariamente per
«Il Pungolo», il giornale diretto dal socialista Dandolo Lemmi che
raccoglieva anche molti ex fascisti espatriati in seguito alla vicenda
Matteotti (fra i quali Cesare Rossi e lo stesso Carlo Bazzi) !°8, Dalla
Francia Rocca passò in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a
15 Cfr. «Il Giornale d’Italia», 25 maggio 1924.
Rocca, privato della cittadinanza italiana dopo l’espatrio in Francia, fu
dichiarato decaduto dal mandato parlamentare nel novembre del 1926. Cfr.
Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXVII Legislatura, Discussioni,
9/11/1926. 126 Rocca fu aggredito più volte: le più gravi a Roma,
tre giorni dopo la sua espulsione, ad opera di Gerardo Bonelli, Gigetto
Masini e Gaio De Nardo (rispettivamente il segretario del Fascio di
Genova e i comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i
riferimenti contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami
tra il fascismo genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. «La
Tribuna», 20 maggio 1924); e in Galleria a Milano, il 13 luglio, da parte
di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,
Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1923-1924, Busta 7 [Rocca comm.
Massimo]. 127 Un telegramma del Prefetto di Verona al Ministero
degli Interni informava di una riunione - avvenuta il 24 luglio 1924 in
una trattoria di Peschiera -, nel corso della quale Rocca, illustrando
«il programma revisionista», propugnò «la formazione di fasci autonomi»,
che avrebbero dovuto raccogliere tutti gli «elementi dissidenti degni di
militare nel fascismo» (a questo proposito Rocca lesse le adesioni di
Cesare Forni, Aurelio Padovani, Raimondo Sala e Pietro Marsich) e
ricercare «la collaborazione dei combattenti e dei mutilati». Ivi.
Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse
espressioni del dissidentismo fascista intorno a un programma e a degli
obiettivi comuni, prese corpo nella Lega Italica, sorta su iniziativa del
gruppo di Patria e Libertà — e sotto l’egida del poeta e drammaturgo Sem
Benelli, figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di
Gabriele D'Annunzio — a cavallo tra l’agosto e il settembre 1924. La Lega
Italica, che avrebbe dovuto costituire l’embrione di un vero e proprio
partito dei dissidenti, si dissolse però nel giro di pochi mesi, vittima
dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. Cfr. LUCIANO
ZANI, op. cit., p.420 ss. ‘8 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. Nel 1930, per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblicò il
libro in francese Le fascisme e l'antifascisme en Italie, anticipante
molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il fascismo divenne
una dittatura. 174
ci 129 giornali e riviste — soprattutto di lingua francese’ - e
sempre mantenendo, nei confronti del regime, un contegno
altalenante (nel 1935 lex anarchico approvò pubblicamente l’impresa
d’Etiopia, ma non ebbe esitazioni, in seguito, a prendere posizione
contro le leggi razziali). Rientrò in patria soltanto nel giugno del
1948, dopo un periodo di detenzione nelle carceri belghe",
riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista. Morì a Salò,
ormai novantenne, il 22 maggio 1973. 129 Tra questi
spiccavano il settimanale «Cassandre» e il quotidiano «Le manna entrambi
editi a Bruxelles. Gli articoli di Rocca, per lo più firmati con pseu
toni il più ricorrente), vertevano principalmente su questioni di
politica RENO È RAT: 136, Rocca fu arrestato subito dopo la sesta di sg Ù
tgp ° so ta I È Nel luglio del 1946 il suo nome apparve nella lista egl
de ni iale». L'ex anarchico negò sempre di aver avuto a che fare
con nig ela aa e nel maggio del 1948, su ricorso del figlio,
St cancellato dall’elenco (al riguardo v. MASSIMO Rocca, Come il dae pri,
i dittatura, cit, pp. 191-192). Ciononostante — a quanto i; a un FOA
È documentatissimo studio (MIMMO FRANZINELLI, / tentacoli dell OVRA. Seen
co ADEN e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati
Boringhieri, 19' ta pare ani Rocca avesse fatto effettivamente parte dei
quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero.
175 CONCLUSIONI Le battaglie perdute sono
generalmente dimenticate, poiché i vincitori non sentono alcun interesse
a ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o
una stessa Nazione. Ciò non toglie che, se non gli uomini, almeno
le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino, attraverso le
conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è più facile, ad esempio, che
deridere e sopprimere certi valori spirituali, quando si dispone della
forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo;
nei giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien meno,
si misura l’importanza negativa della loro assenza, e meglio ancora la
misureranno coloro che, più tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva
agli avvenimenti (Massimo Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo
del 1923, «ABC», 1 marzo 1959) Con l’uscita di scena di Massimo
Rocca, coincidente con il fallimento della linea revisionista, ha termine
questo libro. La caduta in disgrazia di Rocca (cui si accompagnarono,
pressoché contemporaneamente, la scomparsa di Mario Gioda — e, prima
ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco ridimensionamento delle
residue velleità “libertarie” di Edoardo Malusardi), può infatti essere
assunta a limite cronologico della parabola storica dell’anarcointerventismo,
quanto meno di quella parte dell’anarcointerven- tismo, qui presa in
esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali esponenti, che
confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova ripetere, sarebbe
improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica,
considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come
fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perché il
conflitto mondiale comportò un’effettiva trasformazione della società
italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche
prebelliche; e perché il fascismo, al di là delle sue molte anime, fu
comunque un fatto nuovo, impensabile senza la svolta epocale della
guerra), pure, come crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di fondo
con cui questi personaggi si accostarono al fascismo può in qualche modo
esser ricondotto 177 alla loro
formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa
parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena
anarchica, che, innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì,
progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere
della rivoluzione” fascista. ‘Renzo Novatore’ -- Abele Ricieri
Ferrari (Arcola) filosofo. Ferrari. Keywords: implicatura, l’anarchismo di
Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761244808/in/dateposted-public/
Grice e
Ferraris – filosofia italiana – Luigi Speranza (Galatone).
Filosofo. Grice: “I like Ferraris – he analyses all the implicata of The Lord’s
Prayer – pretty complicated – my favourite is his excursus on the implicatum of
‘thy will be done’” Figlio Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a
Nardò. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia.
Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza,
Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si
trasferì poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della
reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I. Si adatta a Gallipoli,
dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenità della sua vita
fu turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce
annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio
per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato
dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di
residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i
ringraziamenti a Ermolao Barbaro per la dedica ricevuta; è seguente la
redazione di Altilio Galateus εὐ πράττειν e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum
de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro
e il saggio Ad Marinum Pancratium de dignitate disciplinarum. Dopo la
morte di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto
l’Antonius Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove
forma assieme L’Accademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae
incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta
dal fuoco. Fu a Napoli, convocato dal re Federico d’Aragona che lo volle con
sé, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia
salentina. Godette dell'ospitalità di Isabella d’Aragona, presso cui ebbe modo
di comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime
trasferte dal Salento fu quella che effettuò a Roma presso Giulio II, a cui
offrì una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella
biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi
contemporanei, riuscì a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni
scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio
filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide.
Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come
Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò solo Boezio e
la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civiltà classica e autori come
Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio,
Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante,
Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di
Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associò Ippocrate
e Galeno.Non trascurò gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e
descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando
con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue
opere. Ma non sfuggì a Ferraris il quadro generale della società dei suoi tempi
e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa
soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle cattive
consuetudini. Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato
storico-geografico sul Salento. Mentre era a Bari ha notizia della
"Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna
tredecim equitum. Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le
seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium
Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio
indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo
Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de
nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae,
Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis
militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi
Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae,
ad Chrysostomum de pugna tredecim
equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad
Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ
elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De
educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum
episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo
Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae
ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum
Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo
bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro
Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas,
Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi
dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), “Gallipoli” (Lecce, Messapica
Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il
poeta nel marzo con l’apposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata
alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone,
in Treccani Enciclopedie.PULITEZZA SPECIALE, •tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne delle eatwersmUmi e specie. M AUorohè, dopo il IX -secdb, ff
mase sciolto quasi ogni vincolo governativo
in Europa, ciascun uomo, secondo le
sue forz6% procurò di rapire
o distrug* gerot £Dibbmar fortezze per
difendersi^ o adonar prmi per assalire.
Tra gli oggetti rapiti prìpieggiavano
le donne ragguardevoli per bellèzzà.
I cavalieri^ o sia gli uomini a
cavallOy che più de* fanti erano
anticamente pregiati alla guèrra, spinti da
avidità e da amore, da vanità e
da gloria» ^i assunsero il carico di
difendere il bel sesso » come
vedremo nèlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de'
principi i cavalieri per fare pompa delle
loro lAiprese, le doniM/ per onorare i
loro difensori e trarne vanto, i poeti
pec cantare il valore degli uni e
la bellezza delle altrer ^ «Le
donne, i cavalier, ràrme, gli aniiori.
, » Ile cortesie, le
audaci imprese io canto ». •
Siccome le dame e le principesse «
l'oggetto e- » rano della ^ poesia,
così ne* furono le sovrane in '
M giudizio e prò tribunali. Imperocché
tenevano » nelle lor Corti e castella
corte W amore o par" » lamentoi
oyè trattai^nsi i problemi^ le cause,
le » liti amorose e cavalleresche;
concorrendovi gen- » iiluomini e dame
dappresso e da lungi, e sopra- »
tutto
poeti e cantori, quasi avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che
se contenti non » erano { litiganti.
(kyUa sentenza de'{>ai:lamenti » »
allora sorgevano le Tenzoni o sfide
poetiche, eolle j> quali r un
contra T altro scrivevano i trobadori
» a difesa dìJoi^ eauÉT'e di lor
belle» onde erano » sempre in giro
messagi e proposte e risposte, e ^
* lamenti e disQde novelle d'^inore e
di poesia ^ Cresciuti in fom
i Governi ne* suasegnenti se* coli, e
cessati i pericoli delle belle, non
fu più necessario,, per ^ere ammesso
in queste conver- sazioni, Taver rotto- più
lancia in onore d-ona prin* eipessa o
d' una ^lama, ma bastò Q^ie vi
scendesse ^1) BeUifiellf. «
j ^ oj by Google vmmztA:
sfigxale 30& « > Per lungo
\ )> pi magoanimi lombi ordine
il sangue » Purissimo celeste »;
per appriezz^re meglio i sentiBientì
del poeta e salire air origine degli
usi, il lettore può consultare la
nota (I). . * , (4)
Xe ài Londra del 28 maggio 4820
dicono: Le péU^ni presentate .alla
carte dei rUelami nella circo» stanza dell'incofonazione
delFattufide.re d* InghQterra), cofi^
tengono pretensioni singolarissime, e che
ricordano usi antl- . chissimi. il
conte d'Abergaf enny, come signore della
cascina ' di Sculton, riclama l'uffizio
di capo deUe dispense^ cl:àedetìàa .
. di farne il servizio sia
personalmente, sia .col mezzo del sup
deputato, e riclama per suo emolumento tutti
gli avanzi deUe pietanze e delle
carni dt^o il pranzo. Due petizioni
furono presentale dal duca di Norfolck.
Colla prima, nella sua qualità di
conte maresciallo ereditario, egli chiede
di compiere personalmente o col mezzo
d'un deputato gli idficii di primo
boUiqUm'e d'Inghilterra, e di ricevere
perciò la migitor coppa. d'oro con
«Q[M$relìio, tp rimarranno sotto, il
inezzule, e tutti gii orciuoll e
coppe, ec- cetto quelli d'oro e d'argento
che resteranno nel celliere dopo il
pranzo. Colla seconda petizione li nobile
duca dimanda , come signore della cascina
di Workoop , di presentare al r^ un
guaoto di mano destra, f»'di soistoiieife
il destro- liran^lo dei re nel menti»
ch'e^ tiene lo scettro reale. n
duca di Montrose, grande scui^ere; dimanda
di fare il servizio di sargente di
lavatoio dell'argenteria, e di ricevere
tutti i piatti e tondi d'argento
serviti sulla mensa del re il giorno
dell'incoronazione, e cogli emolumenti che
ne dipen- dono, ^e di portare eziandio
gli speroni del re dinanzi S..M.
n 8lg^ CampbeU , come signore della
cascina fi Lyston , reclama il
diritto di fiir d^e cialde pel re ,
e d' imbandirle jsulla mensa reale al
banchetto dell'incoronazione. Rimasero quindi a
poco a poco e dovettero ri- manere
esclusi i poeti; giacché, se nello
stato pri- mitivo delle conversazioni, mentre il
poeta si mo- strava ricco d'idee, vantavano
i cavalieri destrezza^ e le donne
pericoli^ nel seguente stato il poeta
^ solo sarebbe rimaso oggetto degli
astanti, quindi ne avrebbe sofferto la
vanità degli altri. Muniti di
privilegi reali ed onoriQci che dalle
altre classi li separavano, facendo,
principalmente in Francia, professione
d'ignoranza, i nobili chiusero ad esse
la loro conversazione, e avrebbero creduto
di degradarsi, se alla loro confidenza
avessero am- messo chi soltanto di talenti
o d'altre abilità per- • sonali si fosse
potuto dar vanto (1). Appena
comparvero leprime scintille delle scienze,
i pochi spiriti gentili che non
rimanevano impa- niati nelle sensazioni materiali
del volgo, provarono il bisogno di
unirsi, per fare acquisto delle altrui
cognizioni e dare in cambio le
proprie. Questo bisogno era tanto più
forte, quanto che prima della stampa
altissimo era il prezzo de' libri,
come tutti sanno; nacquero cosi le
conversazioni letterarie od accademie, le
quali da principi illustri vennero pro-
li) Esistono scritture del XVH secolo,
sulle quali persone d*alto rango fecero la
croce perchè non sapevano scrivere.
Nello stesso secolo parecchi parenti
del celebre Cartesio si sforzavano di
cancellarlo dalla loro memoria, i)ersuasi
che la filosofia, di cui egli era
il corifeo, fosse macchia alla loro
schiatta ( V. Thomas, Eloge de
Décartes ). Digitized by GoogI
PUL1tBZZ4 SPB€ULE 307 tette, giacché
i principi illustri non temono le
sciepze è sanno che degli Stati il
principale pregio son MSe e lo splendore.
Per consimili motivi sors^ eonvecsi^ioni
di pit» tori, di musìei, e con
maggiore coneorrenza, giae* €bè la capacità
d' apprezzare le bellezze di questo, «ti
egregie è men rara di qa$Ua che
per appres* 2are le scienze richiedesi*
III. Lo spirito di commercio
svegliatosi dopo I." un* decimo secolo
in Itatta^ pisogfessivattiente 4)reseii|U> ne'
susseguenti, fu larga fonte di ricchezze.
Si vide allora che si poteva
essere ricco e con- siderato senza essere
nobile o possessore di fondi. Il
desiderio di far pompa di ricchezze, unito
al bisogno di conoscersi peraccrescere le
relazioni com- merciali, formò le adunanze de'
commercianti. La ricchezza de' mercanti
cozzò colla ricchezza de*possidenti, e
nette città libere ottenne quegli o*
maggi che altrove si era riservati la
nobiltà. IV. La classe direttrice de'
lavori nieccanlci si diviso in altrettante
masse quante sono le specie di essi.
L'analogia de'lavorit il desiderio
d'imporre legge ai lavoranti , la necessità
di conoscersi per ripar-^ tire le
imposte che i principi esigevano dall'
indu- stria, rkniirono i direttoli delle
varie arti, o sia i fabbricatori, in
altrettante compagnie o cow/rafer- nite che
ebbero te loro regole^ e tennwo le
loro Mssioni in gicrni
determinati» Le'ricebezze perdute ddia iiobiUàyer
ie ragimif ehe diremo , furono
raccolte da persone' intelligenti e attive,
che, senza appartenere al ceto de'commer-
cianti o de'fabbrieatori, sepp ero farle.
vafere. I<on contente delle nuòve
ricchezz e, aspimono tfUa siderazione, e
-giunsero ad otxeaerla colf affluenza
de'commengali: si fòrmaronò così de'nuovi
erocebi composti d'ogni specie di per
wne; vi si vide il fit- taittolo
che viene sovente alla città per ta
vendita de' prodotti agrarii; il sensale
i ^he propone de'oon- tratti prontamente
lucrosi ; il basso impiegato, il eol^
zelo è neoesBarìo al itadronc ) nelle
sue relazioni col Governo; il nobile
decaduto » cke ha semjj^re ' «
4 \ ' ' . prontf : 1^ E
sali e frizzi e lepijdi racconti il
militare che più d' ogni altro, abbisogna,
di pia- ceri rumorosi; il parassito che
« • il naso » Air
odor dell'arrosto arri ccia in alto »
e ia cambio, dell' arrosto vende
le novelle della ^ittà ai commensali,
e del padre ne « Le signorili
stupidezze in dora ». La plebe
che eseguisce i lavori materiali, non
rsi cedeva per r addietro fuorché .
« pubblici spet- tacoli sulle piazze, o
per bisogni momentanei alle «osterie, o p^r
pratiche religiose nt. Ue chiese.^ Oc*
c cupata più a gozzovigliare che a
di. «correre, si tro- ìsava inoltre
separata dalle altre clas: li pel
sucidume uii<cui era involta.. I
> P VI. cause per cui
aprjiréao eotmiaicaìiioDi tra . le varie
adunanize sociali, e dalPana aU^altta
Horo- membri trasaugrai'ono, sono le
segueati: li La passione del gioooa ,
Jartìssima io tutti i ^ tempi e
per faddietro di più, come vedremo
nel- . r articolo aegueote, rappe la
barriera ciie separava la nobiltà dal
eomtnereio : alenai n(*ili noli' ere-
. d^ero ài avvitire i loro stemmi
awicinandosi ai commercianti col non troppo
nobile desiderio d'ot- tener parte del loro
denaro giuncando. \ Molte famiglie
nobili^ rimaste rovinate dalle carte dai,
dadiy sen tirono pèr csperieuza ebe
tati i di* filomi gentilizi non
bastavano per comprare un . "Jbraceio
di panno o una libbra di caroe^
La plebe :Che ne era stata insultata,
cessò dì rispellartedacehè^ •'BOQ le vide
più in carrozza; quindi divenne popo- lare
proverbio i^e nobiità sema ricf^M&ia è
fimo ■^enza arrosto, II. Il
celiiba'oo cui erano condannati per l'
addic: tro i AobiH cadetti, mentre le
nobili, fanciiille sì- •senti .vano tutte
chiamate al chiostro^ gli spinse non
-di r jado ìft traccia di beUezse
plebee. Usciti dal • p»'iazzo pàtrizio
, non isdegnarona d* ei^ar nella» 1?
asaccia del calzolaio, del falegname, del
parruc- ' chiare, ecc., e talora .
^< airaer bruno , . .
* Seguir fanciulle che espugnò U
digiuno fn questa caccia la nobiltà
contrasse un poMi fango, e, quel che
è peggio, si lasciò rapire molto
sostanze; quindi per doppia ragione scemò
di credilo. u .1^ -o Google
310 ' c UBaO TEMO III.
I principU a eui Jiegli scorsi seeoli
a?éa fatta paura la nobiltà potente,
colsero tutte le occasioui di dìmìnùinie
i privilegi^ fonte di copiose riccbezze
e maggtadri angherìe; qtuiidì il coectiio
chiB«ra ti- rato da otto cavalli, non
ne ebbe che quattro, poi due, e
talvolta rimase polveroso nella rimessa;
audà per óonseguensa diradandosi la nebbia
ehe eòprìva gli alberi genealogi e li
rendeva, grandi agii occhi del volgo.
/ ' ' !V« I^a filosofia,
i cui delitti som precisamente misurati
dalle perdite subite dal feudalismo e
dalla superstbUone , vantando i diritti dei
meiito» personale, non volle riconoscere
alcun valore nelle vecchie pergameqe, e
disse ehe nao zoppo «ansava 4' essere
eoppo perohe sao nóniio aveva avuto
le gambe diritte, e che quiodi doveva
essere |RÙ Stimato -m artista che con
indmtria mmhit» accresceva il suo peculio,
di quello che uni nobile .che co^suoi
vizi daya fondo al suo patrimonio. La
poesia, più coraggiosa della fttosefia «
arA supporre, ridendo, che le nobili
matrone non erano siale tutte Luccesie,
e che talvolta la moglie £^
eompaefréde'figli men patriasii M attrito; iati soumi»
la purità del sangue soggiacque a
molti dubbi an- che neU'opteione dei volgo*
il quale dà sempre ragione a chi
riesce e farlo ridere fP^. l pometti
dell' inimitabile Parini) (1). , (
I ) la onta di tutto ciò vi
sono tuttora pAreeehie petsone ebe
appresEiaiD gli stemmi geiitittzii ed
«scludono dalla lem eon^ yersazione
clii non n' è fornito , per la
stessa ideutica ragione per cui i
pacftUtici apprezzano le stampelle.
Digitized by *FUI.mftM SCftCIÀIii^
L'aumento de'teatrì dimiouì il concorso
alle eonversaziODi particolari; quindi restando
istesso il bisogno di conversare, fu
forza essere meno ritrosi fieir ammettere
nuovi membri: dapprima Tetichetta voleva un
diploma, posdà sì eratenlò un abito
di seta. VL Le invenzioni teoriche
e pratiche mis^D in contatto f dotti
« gii artisti; «iaseanaf di queste elassi
* seuA il bisogno di consultare
Faltra; la prima per conoscere de'£atti,
la seconda per averne la spiegazione: il
dotto imparò a rispettar Tartista; Tar*
tista s' accorse che i consigli del
dQtto gli potevano essere utili. Crescendo
i punti di comunicazione ed i
contatti sociali, crebbero i bisogni del
lusso e si estesero; quindi ì
lavoranti ottennero meqo scarsa mercede che
negli scorsi secoli; disparve così a
poco a poco « almeno in parte
«il sucidume dalla plebe, ed ella
potè conseguire un abitof ebe sebbene
inferiore nella ùiìQZZà a quello del
ricco, ne imitò l'apparenza. Vili. In
questo stalo di cose, dissipato il
fumo géntìlizio, si vide qtioli persane
concorrevano al^ fMienda sociale^ e quaU
na; ciascuno ottenne un valor d'opinione
corrispondente alla ricchezza (ca- raitto reale),
o air abilità (caratto pemnale) di
cui era fornitQuindi fu concesso un
grado di stima alla bassa plebe, fu
tolto un grado .di stinia alla
nobiltà^ fu diviso il restante con
proporzione graduale. Lo aprezzo rimase
a quelli che volevano vivere a apese
aitnri, questumuUh ' i; ^J9ibami^ a
quatti dtie, volevo vivere a spese
altra« TiAa^do* ' "tkmf^^ lAi
pubblica beneficenza s'interessò per quelli
€he erano impotenti al lavoro 9 cioè
noa eiano caratìtisti per 'maacanga di
volontà» ma (fi potere. L'idea che
tutti i carattisti coDCorrevano all'a- mada
iMeiale^ e ohe ciaseuso a?^ bisogno
degli altri, fece allargare le porte
delle conversazioiii con miituO' vantaggio
de' concorreati , come , v^^mo i|iel
seguente gitolo. ^ : UtUità e nemtìtài
delle coiwersaziQni* • Le
conversazioni, questo mezzo di felipità
sociale, sì pronto, sì innocente, sì
facile a tatti gli uomini, sì
convenevole a tutte le condizioni, sì
necessario a ttttte le etsu la
conversazk^ni non "potevano sfug- gire al
morso della censura; giacché, essendo «w-
scettive di varii aspetti^ offeivano campo
ai poeti di farne delle caricatore;
esseialo /cm^i di piaceri^ dovevano essere
scopo alle declamazioni de'.mora- listi
pedanti. Gli uni e gli aitiri
imitarono le due donne ddia favola,
Tuna delle quali, un pp^ vec- chia,
strappa al marito i capelli neri, V
altra, un po'^ome^ gli strappa i
bianchi, tantoché il po- ver'uomo finisce
per restar calvo. Infatti^ siccome chi
non esagera, non djesta che lie^e
impressione, perciò ai difettnedi reali,
ddla conv^aziòni.ne fu- rono aggiunti de'
fittizi!, e, secondo il solito, si
bearono degli spetri a spavento de'
fanciulli e Digilizeci by Google
. ' ' 'pulitezza speciale- 313 •<
delle irnmaginazioni deboli : con eguale
logica si 'screditerebbe il sonuo , perchè
talvolta i sogni ci conturbano. ' ^
* § 1. Influenza delle convérsaziàni
. ' sulla felicità sociale.:'^
^l,- V.^J^ ?o^l miseri mortali
a cui sì spesso / Il
tesoro del tempo è incarco e noia
», trovano nelle conversazioni un
mezzo d'innocuo e piacevole trattenimento. Qualunque
in fatti sia l'origine del bisogno di
sentire, egli esiste. Questo bisogno ^>
- , Ot '^vs.' . > i •
^ , i*; , 1. È forte
in tutti gli uomini dopo il lavoro,
lO; studio, gli affari; yi^^ .
* . .p t * *
vr.rf 2. È più forte ne* ricchi
sciolti dall' obbligo del lavoro, dello
studio, degli affari; È fortissimo nelle
donne, sì perchè dotate di maggiore
sensibilità, sì perchè a maggiore mono-
tonìa di vita condannate (1). '
-y. ^ . . -7^ : 'Questo bisognò
viene alimentato dall'istinto della sociabilità
che induce gli uomini a raccogliersi
in- sieme per comunicarsi a vicenda le
loro speranze o i loro timori, le
loro pene o i loro piaceri; quindi
vediamo formarsi unioni sociali sì tra
le orde sel- vaggie de* deserti come
tra le persone più urbane delle nostre
città. Questo bisogno, a guisa di ca-
lamita, attrae spesso e lega insieme anche
le per- sone più indifferenti, e perfino
»I v^^^* VI
'•••i.'.- ^ ' (I) 'Che amabile
città si è mai Venezia, mi dicòva
una signora ! — E che cosa vi
avete voi trovato di sì seducente? Vi
parlavo lutto il giorno. ^ ,
18 Digitized . - »
Siiiipatizzaat|r,c|oaìe g&u^ cani ». ;
. f ■/ ' • -
* ...(.. ^ Le converisaziooi
considerate come m^zo^ diaria*
nimsffe'lefoi^jHanguidife, od^né^^ sensasibbi plccaoti
sul!' intervallo che . ì bisogni
BOddisfatti disgiiioée/'da! bisogni da
soddi^fàrsi^ fiume parte degfi altri
trastulli, e sì liiaocenti sono in sé
stesse come un passeggio in aoieap
giardino. ' jL 1 piisicerf die
gustiàoio mila «oUtodine^ ec- cettuato il
caso di speciale affezione, illar^uidiscooo
pcesto e perdono -parte delle lóro
attrattale. AU'op*^ postò "Àé^ii
GonAunicbiamo agli altri , sembra ebò si
riofolrzjao e si estendano; s^ polli
gustiaipo in loi^ ' oòqspàgnia , dnréno
di «più ^ . ci; «ièà^M frià cari /e
per tutto T animo si diffondono,
>* Ctf ombra è piacerj^se noi condisce
affetto » (I).. - '
'.. : III. In un crocichio
di* p'ei'sone che si stimano e si amano,
cresce il senti mento delia fór;ca
phe^inijoezaa Bile vicende' sociali ci
abbisogna. Ciascuno, oà^ noscendo le
disposizioni coniuaì, appliea;,nella sua jAiente
le foi^e altrui ai b^ogni [tfopri. La
ooqt yersazioiléio accerta che in caso
di calunnia tror .'.Vei^^^U apologisti; di
rovescio, de' protettori } -iil^^^Qì^v die^oonsigUen;
dWaoQK^t delle, perr (I) Possiamo
dunque t^ccUre^ di mansogna,!! nolissinHi^
misaritropo Timone: pcanzàva costui lin
giorno con Apenuuito, «Itr^ ihisaotrapo,
eelébnttido ii»ienie la festa delle
libazioni • fttfiebri. Dopo lungo
silenzio Apemarilo disse : Fa d' uopo
convenire, o Timone, «he il nostro
pramo è molto allegro: e questi rispose
: Lo sarebbe di più senza la
tua presenza. sone pronte a scemarlo
partecipandovi. Questa persuasione abituale
reagisce contro i vaghi timori che o
nascono neir immaginazione naturahnente, 6
dalle mosse de' nemici vengònb prodotti;.
Bror babilmente egli è questo il
motivo per cui, he^po- poli che
concedorto n^iplto tempo alla conversazione,
non suole essere-"^ sovèrchia T inquietudine
sul fu- turo j se ne potrebbero
trovare esempi a Venezia ed a'
Parigi, ^i- 't'^^- ^'^^ S if
J'Wflwnza delle conversazioni u ii. V,.
, \^ sull' istruzione. v; ì. Alcuor
!eggoB(> (>er spacciare le loro idee
nelle conversaziobi^altri per non mostrarsi
digiuni delle notizia più triviali. .
i / , . La lettura
cominciata per vànìtà, continuata per
abitudirte, talvòlta in passione si cambia,
e i fri- voli gusti tìghoreggia o
discaccia. Chi léggCi o per istruirsi
o innocentemente in- trattenersi, toglie sempre
degli istanti alla covi^ ruzione, e
talvolta le toglie de' capitali^ per
la compra de' libri di cui abbisogna. "
. I gabinetti di lettura sono una
conseguenza dello spirito socievole dello
scorso secolo; si procura a tutti un
mezzo d' istruzione con pochi soldi. '
Non tutti possono leggere tutti i
libri; ciascuno è costretto a ristringersi
nella sua sfera; ma nella conTersazione
i libri letti da uno, divengono mezzi
d'istruzione per gli altri; in caso
di bisogno egli vi dà in UQ
quarto d'ora il frutto di dieci ore
di' lettura. II. Se nelle dispute
che sogliona nascere nelle conversazioni, i
due contendenti restano per la più
dèi loro parere, l'influenza delle dispute
sulle opi- nioai non lascia d'essere
reale, giacché V i. Gli spettatori
disinteressati formano il loro giudizio
sulle ragioni allegate prò e contra
dai di- sputanti. La voce, il gesto,
il tuono di essi ren- dono, per così
dire, più acuti i tratti del loro
spirito e più profondamente neir altrui
memoria gli imprimono; :', ilé.
Quegli tra i contendenti che ha
torto, e che nella disputa chiuse gli
occhi alla verità, non con- serva questa
ostinazione, allorché riflette poscia di
sangue fredddo, e sovente s'accosta al
sentimento, che aveva combattuto (1); •
^ :/:if IH. In una conversazione
generale, quegli che parla, si vede
cinto d'una specie d'uditorio che lo
^nima e lo sostiene : questa
circostanza da allo spirito maggiore
attività, alla memoria maggior . fermezza,
al giudizio maggior penetrazione, alla
fantasia de' limiti che' non gli
permettono di diva- gare. I) bisogno di
parlar con chiarezza, lo sforza a dar
qualche attenzione allo stile e ad
esporre con qualche ordine le sue
idee; il desiderio d'es- sere
ascoltato favorevolmente, gli suggerisce tutti I mezzi d'eloquenza di cui la conversazione famigliare
é capace. Quindi la conversazione è la
prima . Intendo qui di parlare delle
persone di spirito e di buonafede;
giacché gli spiriti falsi e vani, o
gli uomini di parUto, pe' quali la
conversazione è un' areùa óve combat- tono
da gladiatori, non aspirando di giungere
alla verità, ma di conseguire un' apparente
vittoria, quesU non riescono nelle loro
dispute che a raddoppiare il velo che
ingombra il loro intelletto, e a vie
più nelle loro opinioni smarrirsi.
Google e la migliore scuola per
gli uQmini che ^ {tarlar ia pubblico
si dispongono. ; - '
Sj: f Air opposto un uomo che
vìve solitario nel suo gabjìiettOr noD
stimolato a farpas^re.le sue idee
tìjrii'Mtrui'anittio, noin^eriteiidosr'itvymffiairii a
fronte^ non avendo obbie;{.ioni da combattere,
non impà- rérà. fót^ gìàmàm qiiest'acle
delicata ebe ^ coa^ vincere gli
spiriti senza offenderV amor proprio,
^•€0Dà bel garbo costringe l'altrui inerzia
airesame «j^ttì prègiuritzie^ pungèndota con
x^iche tmjU* piccante^ Altronde sempre solo
con sè stesso, e ^imsM aggeUi^^L^4xm/twitoi
disposto a niguardmi x^iascuna 4rfea- che
gli si pcesèdtay.came^una sco»> perta ;
non mai esposto a queste piccole
lotte di ^cietà che danno* si
prontamente a tiascufiei. la • misura delle
sue forze, egli inclinerà a formarsi
mt ppinione esagerata de' supL talenti
e ad e- Bpone le ^nierìdee con
atìsi fmpfariosa edoffenshra. Si può dire
delle conversazioni ciò che Alfieri^ dice
dei. vhiggi;.v • '^^•^^^■j 'r<^
^ * ' Y| sì impara^ più
assai che in su le cartCi tH\
^ ^'^^ ^ stimare
o spregiar l'uomo^ ^^^j »;Ma a.cònoscer
sè stesso e gli altri jn parte
v. ^^i^ìLo studio ia£atti de'libri
rie^oe ua mol^ languido é. ddN)le^
che esercitai non agita!^ non riseaMa
la mente come la conversazione. S'io
discorpo con CdbustO/ ragionatore, dicis
Montaigne^, egli mi ein|[e e iB.Incalza
da tulteie parti; lé^sa$ fdee ri^egllaiio
le umi la^^osàia, la gloria, .la
QQnte^ziQpe mi spin- .gena, mi riali^aho
sopra di me, e non diradortni
presentano nuove combinazioni ideali. •
; - Digitizeò by Google S18
^ LWM tBBÌÙ. " 4 §
3. Influenza delle conversuA^ioni . sfil
costume* U de6Àderio 4i piacere a^i
atoi vaddoldsee ia pale mseefen dèir
mm^i ìnra questo Aderto si svolge, ci
aDiina nelle conversazioni^ e l' abitudiM
d!eq^ijmerl€t forma J'abìMdiBe di
aeotirlo. Dacché le conversazioni divennero
comuni, nac- q[iie ^ fiorì «/quell'eleganza
di tratto. e quella non 9 80 quale
gra^ìa^-d* urbanità^ quel ^Aresentorsi plà
9. disinvolto, quel più leggiadro atteggiarsi,
e quei n versatili modi e politi
cbe. imlla sentano V ioatr titudiiie
6 TimbaMaso; quindi quel wiàsm wtm u
più dilicato, e que' mutui riguardi e
qua' molti* » pliei uffieii di
olviltàt johe quaai ad egiH .ubante
»Ja vanità e l'amor proprio dona e
riceve. Le » passioni .medesinia c)ie
erano prima iutratta* ».iMtt'., Mnreggendo
in pfttte la toc nafitf wtm^ i>
biaoza , sonosi anch' esse , dirò
così, incivilite. ^ L'oigo^iosa superbia si
è maaobei^ata sotto la » spoglia d'
doa finta modestia ; T invìdia siesta
» sa pronunciar delle lodi, e il
puntiglioso e caldo ». risentimento V
obe quasi ad ogni parola aveva »
li fuoco negli occhi e la mano
sull'elsa, ha ».tesBiperato. queir indole
sua ferqee »; si è im« parato a
dissimulare un'offesa, a Dasedndelw tipatìa,
a rispondere pacatamente; e benché questa
re P if M
lusinghiera, gradita e di realissimi
vantaggi sociali /ecandq, ^jper-^^la.^[y&lio
ostacolo a mali gravU-. Finalmente sogliono
non pochi giudicare del me- nto 4'
uoa pecfiona dalla sua maniera di
caavMr* sare^' nè, si eiitano di
porre al vaglio sue buone 0 cattive
qualità^, ma ue^ formailo giudizio dalle
i- dfie cb'ella .presenta: Bé^ordeobi
sociali ; qoiadi £0^ forza entrare
nelle società, giacché le abitudini del
- ^eatil couversare aoit possooo in
soUngo gabinetto aljgnistarsi. Influenza delle
conversazioni , ^ '
sulla, morale. • ^ h
AUotcfaè gli uomini s'uniscono in
conversevole ecMohior^ 49orge tea di' essi
un' opinione la quale condanna gli
atti che riescono nocivi a tutti od
a qualcuno deglj uniti: ciascuno ò
costretto a nascosi* dere 1 eentiméQti
criminosi che per avventura cova neiranimp.
. * -
\ ^ £ aiccMie. anche ci» maàqa
éi virtù, vuole mo- strarne almeno
l'apparenza , quindi, se qualcuno d^li
uniU dà mentore di vì^i, la van^à
degli altri . si uniseè to6t» pericaeeierlo
dal loro imo, ae^ non corra voce
«che lo tollerano o f approvano. ^
Dnn^e quanto {mù. erescé lar bc^ma
di parteci» pare ai piaceri delle
conversazioni, tanto più cre- sQono i.
motivi per isciogli^sii dai vizii che
esse ooodamiaiiD. . « 1 ref
mordendo a lungo gioco, è d'uopo »
Che r oprare al gridar conforme eqch^ggi
)\ II; Screditando gli altrui vizii
ciascuno si lusinga ^ iter provn di
.contiaria virtù; quindi neUe con^
versazioni cìascuoo cbiSuna a ^indicato la
riprove- r vole condotta degli estranei
od assenti: ciascuno ride delle umiliazioni
cui è condannato un lecca- zampe; ciascun
parla con orrore d'un tradimento; ciascuno
sviluppa le circostanze che aggravano un
delitto ecc. Escono dalle conversazioni de'
gridi che chiamano gli sguardi del
pubbblico sul ma- gistrato corrotto, sul
giudice venale, sull' ammi- nistratore infedele
ecc. ^ . v'. ;>;i^.\;.
Allorché la condotta di qualche
persona potente non è ben nota,
ciascuno degli astanti comunica agli altri
le sue viste ; si mettono al
vaglio i fatti e le congetture, si
confrontano le realtà e le ap- parenze;
si richiamano le notizie anteriori e
con- comitanti , e dualmente si giunge
a smascherar l'impostura. • .
*»; v' Viii ci/v^raKUi- L'opinione pubblica
va ad attingere alle conver- sazioni i
documénti che giustificano i suoi decreti
di onore o d'infamia. . \ - -i.
/ • Le conversazioni sono come le
sentinelle not- turne che ad ogni ora
si comunicano il grido di sorveglianza,
onde reprimere ne' pubblici pertur- batori il
desiderio di far del male. • •
•> • ^.Le conversazioni offrono il
destro di pronte be- nefiche soscrizioni a
vantaggio dei poveri. L'inte- resse che la
padrona di casa sa destare neiranimo
de'suoi amici a favore d'una famiglia
o d'una classe sventurata , il
desiderio comune di dare prova di
generosità , l'altrui esempio che fa forza
anche ai più renitenti, tutto concórre
a far riuscire imme- diatamente un progetto
generoso, che senza le con- versazioni
resterebbe sventato o verrebbe troppo t^rdi
; quindi con piccolo incomodo degli
astanti si raccoglie ia più orocebi
una-samiQil ragguai:de* - voìfi e
safficieate ^1 Jbisoguo (1). §
Influenzji delle eonverisazioni sulte càrtL
Le conversioni avviemando giornalmente^ uomini
, e ciascuno bramando di comparire
ricco e4 legaste, €i:e5C0ifo i compratori
dette merci 4^.e adornaao le persone
e le case ; quindi si eslesero
toi^amei^te l^.arti così dette, di lusso.
Il popolo firàneese , "^tmiò H quale,
è massimo il bisogno" di conversare,
è divenuto il dominatore della moda.
JBari'addietrqi etmano scarsissime le
conversazioni, e moltissimi gli obbriachi ;
ti capitale che ora si spende in
abiti ,. allora sj spendeva in bagordi.
. Quelii cbe ftnaot rimprovero alla
filpsofia d'avere esteso lo spirito di
socievolezza , son^ costretti a dire cAte-
un uomo ubbriaco jè preferibile ad
,un nomo legante. * - Per
disgrazia dell' umanità questi Ostrogoti
sitrovano talvolta alla testa degli St^i ,
e con ottime (4) A Verona,
trovandomi unà sétat alla convetsadon'e •
d^iHia signora che non soleva andare
al teatro , ma univa* nella sua^eas£i
vaeii amici, ella ci disse : Signori
: dimani a sera no^ qi vedremo,
perchè uadcò A teatro, t t:ome al
teatro t ^ Si, gbusehè la serata va
avaatagato ^ povecL^- . Dunque ci vedremo,
risposero tulli.. fiaÉattì' la ««ra. susse-
guente non solo ciascuno degli astanjti andò' ài
-tealro , ma", condusse seco quattro o
cinque amici ^ cosicché il palco déUa
signora fu un andirivieni continuo, ed
una specie di goecrà a ÌMdamà V
ini4$mt0 > la ^àte si fonava neUa
sua sconfitta. — Beco la ^àvOlz^adone
: beaefioenònt ìuoit^ alpia^. cerei onore
al bel sesso cbe la proinoveiL
intenzioni li rovinano. Pio IV,
declamando contro l'uso delle carrozze,
indusse i cardinali a caval- care le
mule ; si moltiplicarono le mule in
ragione de'capitali che non erano più impiegati
nelle car- rozze^ cioè le ìnule
presero il posto degli artisti. Non
vi par bella e sensata questa
trasformazione? Andate avanti, beatissimo Padre,
e, giusta le mas- sime predicate da
altri moralisti (1), induceteci a privarci
del cappello , della giubba, delle calze,
delle scarpe ; e così dopo d'
aver fatto sparire gli artisti , se
pur questi vorranno sparire senza ca-
gionarvi qualche timore, venderete le vostre
der- rate agli uccelli. * . r <
V.:m!v:ì1|ì;*>> :\ . Torniamo al
fatto : in forza delle conversazioni
si sono cambiate le abitudini economiche,
e Tele- ganza è sottentrata
all'ubbriachezza- Quella massa di liquori
che per Taddietro consumavasi da un
solo con danno della salute e della
ragione, ora sopra dieci innocuamente si
distribuisce, cioè sopra gli artisti che
fabbricano cose comode ed eleganti.
Dunque nell'aumento delle conversazioni
hanno guadagnato le arti e la morale.
r II lettore che non fosse abbastanza
persuaso de' vantaggi che ho attribuito
alle conversazioni ed in generale allo
spirito di socievolezza, è pregato
a sospendere il suo giudizio sino all'articolo secondo,
ove esaminerò gli usi e i costumi
de'tempi barbari e semibarbari , ne'quali
di , socievolezza non v' era quasi traccia.
, (^) Accennate nel Tranató del
Inerito e ^elìt KieomfitnUe, toro. II,
pag. 8087. 1 « Gli oMPOstt
Oggetti V Rende più chiaro il
paragoo. Distìngua , » Meglio ciascun
di noi ; .» .
ic.i» : . .n
NeimalehegIiattnopprm««4lb9A€ - . Scelta deHe
tantféfsaatcni: r .f'/.v;r li Cki
.vcdesgft sfogare il coosoitia di tutti
f reprobi, correrebbe pericolo di
viver solo. Pupi restare ia casa
nfm ioKdarti kfijoarp^t ma restando in
casa ti privi d'una passeggiata utile
e 4^Uzio9a« Dpnque non potendosi p^r
noi crear uoniiiil perfetti, sarà
sempre miglior consiglio accrescere la
forza della j[M*opria virtìi5 di quello
che i'irrita- ^ biKtà agli altrui
vizi; ^ ^ . Dire che aoa
dobbiamo essere cestii a lordarci ^
le weqMi pi^ jurooucarci una buona
passeggiiitaii nm è dire che dobbiamo
innoitrarci nel fango sìao agli occhi
e con pericolo di spezzarci una gamba
: per anpdogìa dite lo stesso delle
conversazioni. Adombrati gh' estremi, dirò
al giovine che nella soelta delle
conversazioni , più ctie gli adulti ed^
i veoohi egli debb' essere riservato ;
giacché , man- candogli la loro esperienza»
può facilmente .restare tra queMaeei che
essi spezzerebb^o.. Inoltre il credito
degli adulti e de' vecchi è già-
formato ; le loro buone qualità, sona
note , un'abì- . tudine provaUi da
più "risponde ad ogni dub*
bia apparenza. All'opposto il giovine dee
tuttora £ar nascere questa b|io)ML, opinione
neir^ltrui animo^ Digitized by Google
* "^à4 - è di
hidd^oi^eail giadhao ebe gU/a^ dì noi,
quando dalie persone che fréquentiamo ci
giudicano ; e fa d' uopo osservare
che la yafiitÀ vieta lo«o di cambiare
j&KitiAièDte h ptàtàà opi- nione che di
noi concepirono, vera o falsa che
ella sia, Dun(]ue, beii|^è ^^iva Aacora
molto istrutto , otterrà il giovine più
gradi di stima se correrà voce eh'
egli conversa . spes$p.^^£on parsone di me-
rito e gode fa loro confidenza. Là
conversazione colle ballerine, colle persóne
di dubbia fede, o p^leseqiente scelleraté,
macchia la riputazione di clrinncpie: i
càm 'lodtì insudiciano queUi tui ft^no
maggiori carezze. ' ' ' IL
Tutti .consigliano ai giovani di non
trovarsi nelle conversazioni bve s! tengono
giuócW d'at^ zardo; giacdiè, quaiunqué: sia
la lóro risoluzione , ossi finiscokio peir
teàdere e rovinarsi; Essi cedono, alte
suggestioni ed all' esempio altrui, al
timore d'essere dichiarati' spilorci, paurosi,
vili o schiavi d^e^voiéiri patemi ;
essi cedono «1 defsiderlo di ìdlve* .
nire prontamente ricchi, desiderio che
prontaménte SI a<^de e divamìm. aUa
Tista deU'oro.^" T ' tia
passione del giuoco , principalmente sé
è {giuoco d^azzardo, produce i seguenti
danni. Perdita deità feliùità ifolividuale.
Le^^- òende del giuoco * quand' anche
siano favorevoli, - CHceitano scosse si
rapide e sì gagliarde che confi-
ììano ^co) dolore; Ora queste scossè
^gliono por : "lo più essere
sinistre , giacché la massima parte
D'altra parte la brama dell'oro che,
in vece di restare sazia, cresce
colie vincite , ed è- tormentata dalie
>peràite, 'la brama aìzsata'dell'oro è
i|tra caiH crena ciie rode l'animo
del giuoeatore, è una sot- tile fiamma
che lo consuma. Ommetto di parlare de'
suicidi prodotti dalle perdite nel giuoco. 2.
Perdita della salute. È questa una
conse- ^ guenza dell'accennato stato
dell'animo. Infatti sotto razione ripetuta
del giuoco si sviluppa un carattere
irascibile ed una viziosa energìa di
sensibilità che alla macchina corporea
riesce sommamente nociva ; perciò la
massima parte de'giuocatori sono decre- piti a
40 anni. ' * * r -v
-^^ 3. Perdita delle sostanze. Per
un giuoeatore arricchito dal giuoco ne
conterete cento rovinati. 4. Perdila
delta fama. Cicerone, per iscreditare i
giudici di Clodio , li paragona a
quelli che fre- quentano le case di
giuoco. — Benché tutti i gio- catori
non siano persone infami , ciò non
ostante la massima parte non lasciano
d'essere riprensibili perchè si espongono
al pericolo di divenir tali. .
Nissuno dà la sua figlia per
isposa ad un gioca^ tore ; nissuno
lo accetta per compagno in uh' in-
trapresa; nissuno lo vanta per amico ;
nissuno lo vorrebbe per padrone ;
ogni padre vieta a'suoi figli la di
lui compagnia come la peste. 5.
Perdita della sensibilità ai piaceri
intellet- tuali e morali. Siccome le
persone abituate all'uso del più acuto
rapè divengono insensibili ai soavi
effluvii del garofano e della rosa,
così le persone abituate alle scosse
gagliarde del giuoco rimangono insensibili
ai piaceri della commedia , della trage-;
dia, della pittura e delle altre arti
belle; quindi 1* momenti che i
giocatori non impiegano nel giuoco, sono
occupati dalla noia. Il giuoco accresce
il bisogno di sentire, e diminuisce
il potere di sod- disfarlo. Il giuocatore
s'espone al pericolo di perdere, e
perde talvolta quell'unico denaro che è
necessario alla sussistenza de' figli e
della moglie ; la sorte infelice di
questi fa dunque minor impressione so- pra
di lui che il bisogno di giuocare:
in quale punto sarà sensibile il di
lui animo alle loro carezze ?
Un giovine dedito al giuoco sfugge
la compagnia de' suoi genitori , sdegna
i loro innocenti piaceri , sprezza i
loro consigli , amareggia i pochi istanti
della loro vita, diviene ladro domestico,
e talora i disonora con azioni che
gli fruttano la prigionia 0 il
capestro. 6. Perdita del senso
comune. Ogni giocatore sragiona cosi come
sragiona il volgo , allorché dai sogni
deduce ì futuri numeri del lotto. L'
abitudine di prendere per norma a'
suoi giu- dizi i rapporti fantastici delle
cose distrugge l'abi- tudine di consultarne
i rapporti reali , costanti e ragionevoli.
Un giocatore non avrà vergogna d'at-
tribuire la sua perdita alla sua scatola;
un altro alla presenza d'un nemico
ecc. ; alcuni non gio- cano che
denaro tolto a prestito , quasi preserva-
tivo contro la sorte ; altri destinano
parte delle yincite ad opere pie,
quasi pegno di vincita, ecc. !! L'
idea del guadagno allorché soggiorna lungo
tempo in una testa debole, ardente,
soggiogata da ; vane, combinazioni,
converte il dubbio in certezza, e fa
riguardare come infallibile ciò che
fervida- mente desidera. L'illusione è sì
forte, che non è distrutta dall'esperienza
delle perdite, e in onta di esse
rinasce e si rinforza. Gli animi
fórtenfienté agitati, dice Tacito, incli- nano
alla superstizione, cioè la causa delle
loro sventure riconoscono in cose o
parole incapaci di produrle ; quindi
le invocano o le maledicono, ne
sperano o ne temono. La fortuna^ nome
vuoto di senso, agisce sull'animo
de'giocatori cóme se fosse un ente
reale : a lei attribuiscono le
vincite e le perdite. La fortuna è un
concorso di cause ignote ove la
temerità fa tutto y e la prudenza
nulla. I selvaggi dell'America , dice il
padre Lafiteau, si preparano al giuoco
con austeri digiuni , quasi volendo
interessare la Divinità al successo de'loro
stolti e ingiusti desideri.
'""'^ * ^ Dopò ^li
antecedenti riflessi è quasi inutile l'os-
servare che nel giuoco ogni sentimento di
decenza si perde e di gentil costume
; si diviene rozzo , villano , grossiere,
caustico, mordace: non si ha riguardo
nè alle qualità altrui nè ai diritti
; si of- fende l'altrui amor proprio,
si tradiscono ì sentì-' menti del
proprio animo, ecc. III. Dopo la
fama di decenti ed oneste il giovine
' preferirà quelle conversazioni ove è
maggiore la libertà. Siccome il piacere
è d'indole sì schizzinosa che non
sempre apparisce ai cenni del desiderio';
e fugge rapidamente allorché vede un
laccio, fosse anche tessuto di rose ,
riè di tempo serba regola nè di luogo
, riè a tutti i discorsi sorride
; quindi dirò al giovine: allontanati da
que'crocchi ove devi rendere ragione perchè
non venisti a tal ora, per- chè ti
parti pria del consueto, e t'è forza
al posto assiderti che non t'aggrada ,
e con tale foggia d'a- bito comparire
che non ti conviene, e sulle altrui
maniere irremissibilmente atteggiarti e deporre
sulla *» bigitized 328 - Libro
TEBzo 4 soglia il tuo carattere
originale per rivestirtene al- lorché n'esci.
Fuggi pure, perchè il rituale esat-"
tissimo delle cerimonie, i complimenti, gli
inchini, i baciamani si .frappongono ai
cuori che corrono a contatto , e
i sentimenti ora rispinti dall' altrui
• orgoglio , qui umiliati dai titoli ,
là repressi dal- l'aria di comando, e
tra imperiosi e inetti doveri allacciati,
non possono scorrere rapidamente qual
elettrica scintilla e propagarsi per tutta
1' assem- blea; quindi l'allegrezza sfuma
ed ilpiacere, e al loro posto va
assidersi mortai tiranna la noia. "
« Taccio il civile barbaro-bugiardo
- . ^; V Frasario urbano
d'inurbani petti,^ t w Figlio di
ratte labbra e sentir tardo. »
iVs. k IV. Il giovine non
fuggirà la conversazione delle donne
oneste, giacché solamente in loro compagnia
imparerà a rattemprare l'effervescenza dell'età,
a ingentilire colla grazia le maniere,
a piegare i mo- vimenti
a leggiadria, la placidezza del discorso
senza viltà, la modestia senza timidezza
, il co- raggio senza impeto, il brio
che sa rispettar la de, cénza,
l'allegrezza che non diviene smodata,
quelle fine attenzioni che prevengono i
desiderii senza mostrar d'occuparsene, e
quel conversare libero e cordiale che
non degenera in confidenza temeraria e
plebea. v ^ Swift attribuisce la
decadenza della conversazione in Inghilterra
all'esclusione delle donne; da ciò nacque
una famigliarità grossolana che porta il
ti- tolo d'allegrezza e libertà innocente,
« abitudine » dannosa , egli dice,
ne' nostri climi del Nord^ i) ove
la poca pulitezza e decenza che
abbiamo sì r DM.è introdotta,
per così dire, dì contrabbando e ^
contro la naturale inclinazione che ci
spinge » continuamente verso la barbarie,
^e non si man- fi-T tiene che
per artifizio.Soggetto delle conversazioni.
. 'Qualunque argomento frivolo o
grave ^ basso o sublime, lepido o
serio, p^rcAè piaccia agli astanti, €
noìi offenda la morale^ può essere
argomento di conversazione : qui più
che altrove debb'essere . é
ragione e legge « Ciò che il
consenso universale elegge. » ytl
poeti satirici hanno voluto ristringerci in
più angusti confini ; quindi 1.
Pongono in ridicolo le dimande relative
alla salute^ quasi che la salute non
fosse l'oggetto più interessante per gli
uomini, e una buona digestione non
valesse cento anni d'immortalità; r 2.
Non vogliono che parliamo del tempo.,
quasi che le vicende delle stagioni
sullo stato tìsico e morale della
specie umana, sui prodotti delle cam-
pagne, sul corso del commercio, e non
di rado sui pensieri degli uomini
grandi e piccoli aon influis- sero ;
c giornalmente non fossero occupati i
fisici ad osservarne Tandamento progressivo,
retrogrado, irregolare. ^ -
-'^7' • • . - ^
- y 3. Qualche poeta ci deride
quando nelle conver- sazioni parliamo d'arti
e di commercio, di pace e di
guerra , di governa e di politica ,
é vuole poi
x che ci occupiamo dé'satelliti
di Giove é dell'anello; di Saturno.
Certamente che anche Giove e Saturno
possono essere ogpjetto delie nostre
conversazioni, ^ ed è cosa desiderabile
che Io sieno, sì perchè pa- scono
l'animo di idee sublimi, sì perchè
servono di guida al nocchiero che va.
errando sulP immensa superficie de' mari
, ecc. Ma avreste voi vietato ai
Romani di parlare quando Cesare ottenne
dal Se- nato il diritto sopra tutte
le mogli ? Quando Ve- spasiano , che
si mostrava sì tenero pel bene del
popolo, pose un'imposta sulle orine ?
Vi sono delle cose che ci toccano
sì dappresso , che è assai dif-
.ficile di non tenerne discorso, come
è difficile di non gridare ahi !
quando il fuoco ci scotta. Se poi,
per opposta ragione, si riflette che
lo scopo prin- cipale di quelli che
s'uniscono in conversevole crocchio, si è
d'intrattenersi e ridere, si scorgerà che
è quasi impossibile d'allontanarne gli
argo- menti ridicoli, da qualunque sorgente
provengano. I Romani non potevano contenere
le risa allorché parlavano dell'imperatore
Costanzo, perchè costui, quand' era in
pubblico non osava movere il capo, né
fare un gesto , né tossire , né
sputare, lusin- gandosi in tale guisa di
rendere più imponente la dignità imperiale.
. Il retore Temistlo, il quale era
stato fatto senatore da Costanzo, trasformò
l'im- peratore , che non * sapeva
sputare , nel più gran filosofo
dell'universo ; avreste voi voluto che
i Ro- mani non ridessero né dell'
impeiratore né del re- tore ? /
Si può parlare, senza cognizione,
della pace e della guerra come delle
zucche e dei ravanelli ; dunque il
limite da fissarsi ai discorsi nelle
con- versazioni , rispettata la mòralé,
come si disse di sopra ^ non
dalia qualità- dell' argomeiita 8i-d«U)e
ildsomere , ma dalh'giioliàiiza.di ^ parla
o dalla noia di chi ascolta, '
' / 4. Dopo 4^ avere eseldso
dalle cQiiVèi^sjùtidid^l discorsi più
interessanti, si è fatto loro rimprovero
perchè spasso non s'occupano che di
coseJrivoJes eoitià jfoalè èènsbra si dà
a divedere d^aver diinìen^ ticato che
il principale oggetto delle coi>versazioni
•« si' è il piacere: Se il caippo
in cui il piacerò ap^ l^^cev è
di già anche troppo ristretto, per
quale motivo vorrete voi ristringerlo dì
più?. Vi furono* de' grand' iiòinini che
ridévanó di cuore alle tlSt^ tezze di
Pulcinella, vorrete voi condannarli? Più lò
spirito è 3tato avvolto in cose serie
, più assav\* porà il contrasto
delle'frfvolezze' Ne'momenti^'ózia non vergognava
Esopo di giuocare alle noci , Ca*
tbfifó alla pafla nel eàmpo Mairzio ;
Pascal facevi delle scarpe, Malebranche
cucinava delle vivande^ di Scipione e
di Lelio dice Cicerone, che, ritiràti
alla esfiìpagna, non isdegnavano di
bamboleggiare, incredibiliter repuescere. Queste
frivolezze .offrono uni trastullo necessai^io,
senza che lascino neil' a» ttimo alcuna
traccia da che sono svanite. ;\ ^
' « Rispettiam dunque la follia
gradita ' -.V . • - l^.QWBe
balsamo dolce d«Ua vita. » ^ . >
Cbesterfield dice che le frivolezze
delle conver- €l^0B& tòné ti compénso
delie àliiine piccole , ebé neri pensano
e non amano di pensare. — Avrei
' • «fimyandatQ volontieri a questo
scrittore s' 6|^i ad- dlìjMMMte per
pensare^ Le frivolezze defle con- '
versazioni, simili alle immagini scucite
4el sonno, ^ .1^ -o Google
332 . i-lBBO TÈRZO . *
servono a farci ridere e nulla
più. Io sono stanooc a segno che
non mi reggo in piedi, e voi
mi'con-À sigliate di passeggiare? Che cosa
direste d'un uomo che per sgombrarvi dall'animo
la melanconia , vi- ponesse tra le
mani le Notti di Yòung ? — Si
de- vono ammirare quelli che dopo d'essersi
occupati di studio 0 d' affari nel
gabinetto , possono ritor-" nare agli
affari o allo studio nelle conversazioni;.
. hna non si possono spregiar quelli
che dopo avere eseguito il loro
dovere, abbisognano di riposo. Sic, .come
i pranzi non sono eccellenti se non
quando possono soddisfare tutti i gusti,
così non sono, eccellenti le conversazioni
se una varietà di sog-^. getti
corrispondenti ai bisogni di ciascuno, non
pre- sentano. Generalmente parlando , i
discorsi serii non pos- sono piacere alla
maggior parte degli astanti, giac^ ;chè la
maggior parte vanno a ricercare nelle
con^ versazioni riposo alla riflessione e
pascolo alla fan- tasia. Non si può
quindi approvare la condotta dì Locke,
il quale, mentre tre milordi, Hallifax ,
An-^ glesey., Shaftesbury, jgiocavano tra di-
loro , egli ' occupaVasi a scrivere
ie parole che uscivano loro ' di
bocca. Per quale motivo ridete voi,
gli disse Ànglesey ? Perchè nou perdo
nulla di quanto voi dite, rispose il
filosofo, e gli mostrò la nota delle
parole poco assennate che ciascun giocatore
aveva detto Questa censura era fuori
di proposito, giac- ché da persone die
giocano , e giocano per diver- tirsi, non.
si deve aspettare che argomentino in barbara
o in baralipton. Quando prendiamo una
medicina , dobbiamo noi osservare se è
bianca o nera, leggiera o pesante,
bella o brutta, graziosa Google
0 no alia visita, di qualche astante
? £Ua ci ridona la salute,, e
bastai * • « Airincontro, dice
Gozzi, certi Catoni vorreb- » bero
che oca si uscisse mai dal
malinconica e » dal ^rave, come se
gli uomiiri fossero d'aeciaio » e non
di carne. Questi tali ci , vorrebbero
affo.- » gati nella noia. £ quando
Fanioio ò kifastfdilOt » non è buono
nè per sè nè per altrui. Il
meglio è un bocconcello colla salsa
di tempo in tempo, » e poscia
un grosso boccone delle vivandé usuaK.
La misura ne' passatempi è rimedio
della vita ; » ed io jtanto ve^
magri sparati è disossati quelli V
che non pensano ad altro che al
sollazzo, quanto >» queUi che tirano
continuamente quella benedetta li carretta
delle fecceade. » § 3. Soggetti
ge^ieralni^nte noiosi Sogliono essere
soggetti noiosi ed opposti allo scopo
della conversazione i seguenti : L
Gli incessanti lamenti sopirà viali a
cui non si può opporre rimedio..
Talvolta la conversazione in vette d'essere
un tessuto di piacevoli . discorsi e
ameni, è un vero piangisteo , o,
per dir meglio, un miserere. Se qualcuno
riesce a dìipenticare i Riali eomuni,
T unó o l'ailro degli astanti glieli
rammenta con circostanze nuove, e il
sentimento dolorosa ne aggrava colla
prospettiva «d'un avvenne peggiore. — Che
cosa direste di schiavi che per .
divertirsi parlassero delle loro catene. É
questo up difetto de' veccM che non
sànm aprir l'animo alla speranza ;
degli ignoranti , inca- paci di riguardare
le cose da più aspetti; delle menti
deboli che ad ogni lotta
succumbono. Alcuni velano questa incivile
abitudine col sentimento di compassione
pe'mali altrui, cioè per mostrarsi com-
passionevoli verso gli assenti tormentano gli
astanti. Pietro è morto improvvisamente;
Paolo si è ammazzato; il pane è
troppo caro; la tempesta ha distrutto
la vendemmia ; le imposte sono eccessive;
la guerra è imminente; la peste
s'avvicina, ecc. Poco manca che non
ci predicano la flne del mondo, come
si usava negli scorsi secoli, idea che tuttora
s' insinua ne' discorsi della plebe
quando è afflitta da qualche calamità., Sarebbe
pazzia il pretendere di non sentire i
mali della vita , ma è pazzia
maggiore il non sforzarsi di dimenticarli;
sarebbe imprudenza l'andare verso il futuro
colle spalle indietro , ma è
imprudenza maggiore il riguardare i mali
futuri come successi e non distrarne
lo sguardo. La novità della cosa può
qualche rara volta sciorre da inciviltà
1' an- nunzio d'una trista novella; ma
richiamare conti- nuamente r idea di mali
che tutti conoscono , è l'eccesso
deirinurbauità, giacché questa ricordanza, oltre
d' essere dolorosa per se stessa ,
conturba e piega a melanconia i
sentimenti degli astanti. In questa
situazione degli animi non osa spuntare
sul labbro il sorriso ; cento detti
spiritosi , pronti a ravvivare la conversazione
, tornano indietro : ora rinunziare a
cento piaceri per procacciarsi un do- lore
è un calcolo da matto. Si può
procurare agli spiriti de' momenti di di-',
strazione fissandoli sopra oggetti diversi
dagli abituali. Sì pùo 'Yìntiizzare la
sensazione 4el dolore ri- guardando le cose
dal lato ridicolo (1)» CìasGuno^ può
cogliere de'jnoti?! dì eoasolaaàone paragonandosi
con quelli che in più tristo statoci
trovano. « Chi vuol viver tranquillo
i giorni sui, » Kon conti quanti
son di lui più lieti, ' 1»
Ma gitanti sod più miseri di lui.
» Si può innalzare Tanimo aHa
speranza, mei]itre il volgo s'abbandona
al timore, considerando tutta Festeosione
delle eventualità possiinli (2)* {\)
Mentre , aeU' ulUmo assedio di Genova,
i soldati ca? scanti (li fame
facevano la guardia seduti , uno di
essi disse: Ma^séna non voiTà arrendersi
iìnchè non ci ha fatto mangiare i
«udì stivali. — -Questa facezia induce gli
astanti a dioie ai-^ tre, e intanto
U sentimento deUa fame fa tr^;ua.
Un generale francese, ferito in battaglia^
sta per far^ta-*. gliarc una ^aniba ;
il suo servo piange in un angolo
della stanza: Meglio per te^ <t*\idìce
il paziente; non vedi tu che quando
avrà una gamba di meno^ non ti
resterà più da lur sitare che un
solo stivale ? Quindi ritrova forza
per subire r operatone. Io ammiro
la notissima donna spartana, che dice
al fi^io tornato zoppo dalla battaglia:
Ad ogni passo rammenterai U iuo
valore e la tua gloria, Gbe -bella idea,
che idea in- gegoosa, si é quella
obe ia tacere U senUmento spia((Kev<^
un'jmpedeilone fisica 090 un sentimento
miòrale »^ desca V amor proprio, e
a sublime sfera lo innalza 1^
Si clìiama leggerezza 1' abitudine di
considerare le cose dal lato ridicolo
: preziosa leggerezza che ci fa
sorrìdere in mezzo al dolore , tratto
caratteristico che distingue i' uoma dai
bruti. (2) n seniimenio della
speranza si cambia ki finrza lMee^, qualunque
sia U modo misterioso con cui
siffatta 4ra8torma- Una bella
imipagmazioQe, un' iinaiagiiiazioiie ri- deate sa
creare delle róse anehe ia mezzo ai
deserti. S'ella è in parte dono della
natura, si può aecresceria coirabitudine e
migliorarla coirarte ( l). IL Le
insipide sottigliezze. ^ '
Profondere sfarzi di spirito suHe
parole, sulle cosev solfe idee senza
trarne alcun vantaggio o le- pore, è
eccitare nelF animo degli astanti il
senti- ménto penoso della fatica, è
indisporne ramon proprio coir idea della
pretensione , è rendersi* ri- dicolo pel
non successo. Un' uomo cbd tenta di
ziODé «tkseede. emrva questo fenomeno
negli stesKi ani* mali: il cavatto,
statico dal viaggio, aeeorgendoiii d'essere
vicino all' albergo, trova forza per
accelerare il passo. il Destrier che air
albergo é vicino , )» Più veloce s'
affretta nel corso ; » Non l'
arresta 1* angustia del morso, . »
Non la voce che legge gli diu
>» . ' ' (1) l'n imbecille
non crede che T innesto possa
costrin- gere r albero selvaggio a produrre
de' fruin domestici e sa- . porlti
: le anime deboli non credono che
possa lo spirito in- nalzarsi sul
senthnento d^I dolore e dominarlo :
tanto peggio per esse. Al contrarlo
lo ho conosdiito m nomo di tempra
' forte , che, detenuto per
opinioni politiche, non sog^^iacciue • che
un giorno alla melanconia in quattordici
mesi , benché gli fosse negato il
conforto de* libri. Far r elogio
della melanconia , come i^ero alcuni scrit-
tori detti sentimentali, è fere F elogio
delle nubi che f\ tol- gonp la
vista diìl lìriuaniento. In mezzo a
tante forze die* tendono a
dislrng^<»rci, vanteremo noi i pregi d'
uu seati- ; meato che accelera
la distrusdone /Itìtt saltare al di
là della sua ombra, rapi^resMM Udi**
fetto che ho io animo di censurare
: eccone degli 1 Far contrapposti
ad ogni paroluccja t » Stirar
con le tanaglie 5 concettwzzi , • »
Attaceonar le i^ime con Ja eer^i '
V Aé ogni aetento far éegìi
eqntvociasm ; É Lodsi^ le
inoscbe, f grilli e il raTanello\ »
Ed altre scioccherìe c'hanno corliposto ^
li Bernì, il Maiire, il Lasca ed ii
Burcbiellò.» Le tante quistìoni di
metafisica che si facevano per Faddietro
sopra cose ehe la ragione non intese
giammai, dovevano generalmente fruttar noia
agli ascoltanti.se non erano interessati
nella disputa pef amor proprio. Di sottili
insipidezze ei. diede un esempio d'altra
specie Uvezio, allorché esaminando dottamente
quale è la positura naturale diell'uomo
tra lo stare in piedi , «edato ^
coricate, genuflesso 0 passeggiare, dopo
d'avere discusso a lungo gl'in- convenienti
cai andremmo ìncdntro tenendoci con- tinuamente
nell'una o nell'altra di queste posizioni,
conehiude clie lo astato naturale dell'uomo
si è di panenderle tutte sticces^mmente.
Era forse neete-^ serio che l'erudito
vescovo d'Avranches si stillasse il
cérvello per provarci questa verità? Perciò
ma* dama Geoffrin, parlando d'iino di
questi stucclie- voli Ciceroni , diceva :
« Allorché egli mi parla , » vorrei
che Dìo mi facesse la grazia di
rèndermi n sorda senza che questi se
ne accorgesse \ egli n sarddbe
perisuasa eh' io T ,ascolUi$si , e
s^reòiflio » contanti ambidUie. ».
xii ^n k^-m^ ♦ ? Cresce
ri motivo di censuràre le> insipide^
6Mi«» gliezze allorché , divenute triviali
affatto , da uq Iato si ripetono eoo
pretensione di novità, con che si dà
-segno dignopàhza, daU'aUra riescono ofhn^
sive alfuno o all'altro degli astanti.
Il poeta Des- préaiix^ che iioa eika^
dotate della pazienza di ncia^ daina
€reoffriti ^ se^ténde'^un giorno Bordaloue
a rìpeteìre le vaghe analogie sulla
pretesa follia dei poeti^ gU dis9eH»xi(
pp^€auslieanlellte : « Io so, mio »
Caro padre, quanto si dice d'ingegnoso
su questo » 9fg0jQsento ; se v^i
y/»lete venir meco aU'o- » spedate de'matti
, io son pronto a mostrarvi dieci
« predicatori per i^u poeta ^ e^roi
vedrete a tutte lo 4(>ggb
deUdjiàaal «he dividanp il loto dteooiso^
in ti;e punti.-' r^Uriaql^oedenti
riiles^iiaioa condanaano Fuso dir propÌMie
quistioofdligegncile^ le quali, rispondendo
ciascuno a capriccio, servono di piacevole
esercizio ag^fipiiNiti ^'^liti iNToiy^ e vivaci
che sci^piana impftlìiéisamente y -e
talvélta a lode di qualche a« 8ti^t(^
v.|ieUa mwì^m^lkm^ della duchessa del
MaifMVféei^lìiB»^^ a dar risalto alle
pili sfuggevoli differènze tra i
diversi oggetti pro^ ||9^iM^>^^ dis$A,Ma
giorno ai cardinale di
p4>)igw%]^IÌnatot^difi6ie^ passa tra me e
il mio oralogio? — Il vostro orologio,
rispose il cardi* nia^e ^
($tliirieor4a(^/<w:ftViJ^ ee le iate
dimenticafei IIL Tutti i di^corsir^ehe
escono- dal limiti della conmmens,a^
j§^S^tk^<^^ si^o alla 98. BiitArà
qui aàmmi?^ il earattère degli astanti
è Ufi limite ^pwa^iii^iqQfP 'ir^iacchè per
quanto siano generalit per es., le
vostre iodi ad. toia vjrtà e le
vostre censure ad un vizio, vi
si attribuirà non di rado l'intenzione
di far rimprovero quello degli aistanti
ebe manca della prima q è allaceiato
dal secondo. IV. Finalmente il
saggetto della conversazione diviene noioso
allorché Tidea della nostra per* sona
e delle cose nostre presentiamo per lungo
tempo agli altrui sguardi j . come
Aireìùo nel e9« pitolo VII. «
$ 3. Soggetti aggrademli^ * »
Se una parte della civiltà* consiste
nel dire a ciascuno ciò che gli
conviene» è chiaro che, acpiò non
manchi soggetto alla conversazione, devi
par- lare ad ognuno delle cose che
più roccupano o più gli aggradano,
della sua arte o professione, de' suoi
gusti o * delle sue avventore , de'
figliuoli o della moglie, ecc. .
« Acgomento al nocchier son le
procelle « 1» I bovi airarator :
le sue ferite ^ Conta il guerrier»
conta il pastorale agneHe. »
Chiederai dunque al giovine galante
' / a ...... . A qual
cantore 9 Nel vicin verno si
darà la palma *> Sopra le scene;
e s'egli è ver che rieda »
L'astuta Frine che ben cento folli »
Milordi rimandò nudi al Tamigi ; »
O se il brillante danzator IXarciso 9
Tornerà pure ad agghiacciare i petti
» De' palpitsgoiti italici mariti.
Ai vécrthfo dfititafidefai conto degli
u^i eivlii, po*' litici, religiosi clie
negli anui di sua gioventù si
costuinarona, onde . procurarti il piacere
d! con* frontarli cogli attuali.
Preparati però a sentire ec- cessive lodi
dei passato ; quindi avrai Tavvertenza
^di separare i f alti dal giudizio di
chi "gli e^one. Spingerai anco con
bel garbo il di lui animo verso
l- piaceri che più Tadescarono ».
' . ' " . «
Onde misero cor, che il ben
p^dtita . » Non ha più di
goder speranza alcuna , , » Kesii
il conforto stiinen d'aver goduto. »
, Colle donne volgari Or di
polii ragiona, or di bucato* »
Colle donne galanti parla « Di
veli e enfile e femminili arredi. »
. . Colle donne gentili che
uniscono ii bel costiime airistruzione,
porrai sul tappeto le arti belle, e
a norma del loro genio particolare
proporrai quaiclie problema, acdocohè al
piacere di discorrere um- scano il
piacere di soddisfare la tua curiosità.
Ad una giovinetta ohe. occupa vasi a
dipingere, chiese un giovine, se provava
più diletto nel ritrarre gli uomini o
le donne ^ i giovani o i
vecchi. — Sono indififerente a tutti.
— Eppure? — Pre/e^ risco le fisonomie
sensibili senza riguardo al sesso. —
£ quali sono i segni fisionomici che
caratterizzano la sensibilità? ^ Qui
cominciò un discorso che durò due
ore, la giovine facendo pompa, di
sentimento , il giovine di metafisica. —
Le letture, cui talvolta sono occupate
le signore, Yf jfffft^mo U ctesbro di
jebi«der« loro ^ii^li f^m le colpiscano
di più, e quali autori in tale
ò tal altro ramo di letteratura
preferiscano, e se avrete l'av» mieuM
proporrà loro qualche obbiezione pet
dimostrare che non vi sfuggono le
loro idee^ prò* curerete ad e^ il
diritto di pmlan^ à lun^iit^ mmBM
^^nimm/^:èe9lL mUoMi poesn Uteek^lé d*
inciviltà y poiché ciascuno ba diritto,
di difen^ dflisi: e giustìicare cìòl
cbe dm*- ' Della fanciulla vorrai
yedere i dis!^, i ricàini, la
scrittura, ecc. ' - •
" Chtederstt «drifcaamom» ohe ms»
w^ò ^^IpM^ che brillano neH*azzurra
volta del cielo. Per quaH
€ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^ altri cambiarono. di
MlOfe. D' oode. amnga che i pidi^
si < inafapo nello stesso senso da
occidente in oriente. Perchà mail
eaegaiscjoao i laro fioti ia,,)ioa ^iBl|a
s^oa»V mentre te comete vanno errando
liberamente per latte le r^ipai del
cìe^o. Ove v^aono e d'onde veór gono
questi astri che. spa^epteeo 11 wlgo- éoUli
fatarba .e colla coda. Delle erranti
stelle » Segai il cammino, e le
eagion disveli ^ » Degli aerei
portènti ; onde Je nufci, v »
Onde il tuono e la pioggia, e
di qual fuoco- » Aceendesi il
balen; perchè sì. lenti . . »
I caldi soli estivi, e qua! ritardo
: ' » Le fredde notti
deirinverno^allQpghi. ». Inviterai T
economista ad esporti le cagioni del-
l'alto 0 basso prtìsìo de'generi,
dell'abbondanza o scarsezza d'una specie di
monete ; l'influsso delle imposte
suiragricoitura e sai mestieri; se
convengft dare la preferenza alle
manifatture nazionali; ia quali casi e
con quali mezzi debba il Governo pro-
moverle ecc. Parlerai al filosofo di
leggi, all'av- vocato di liti , al medico
delle malattie dominanti ecc. Ma guardati
bene di decidere tu stessQ, prin- cipalmente
avanti queste persone sugli accennati ^
argomenti, giacché, non appartenendo essi
alla tua professione, ti esporresti
facilmente al ridicolo cui si espose
un sarto , il quale avendo composto e
^presentato ad Enrico IV un libro di
regolamenti .•^civili, sentì il re a
dire agli ^stanti : Chiamatemi dunque
il cancelliere, perchè mi prenda la
misura d'un abito (1). f ^
Allorché ti trovi in una compagnia di
stolti, non mostrare né la distrazione
né lo spregio eh' ei meritar si
potrebbero. Lascia alla fatuità libero
' Campo di far pompa delle sue
scempiaggini senza farle giammai temere
d'essere repressa e né anche giudicata.
La Motte, persuaso del proverbio spa-
. gnuolo, che non havvi stolto
da cui non possa trarre qualche
profitto il saggio, applicavasi a ;
ricercare negli
uomini sprovvisti di spirito il lato favorevole dal quale poteva, sia per propria istruzione,sia
a conforto della loro vanità^ riguardarli.
Facendo cadere destramente il discorso
sopra quanto avevano veduto o sapevano
di meglio, procurava {{) Convengo
non essere impossibile che un uomo si
formi in mente idee ragionevoli anche
sopra oggetti estranei alla sua
professione; ma, essendo la cosa alquanto
impro- babile,è necessaria in simili casi
somma riservatezza e dif- idenza speciale
nel proporle.' tolto, senza il
piacere di smérthi^ il poco bene che
possedevano ; « mentre non annoiavasi
con es^ vH wodeite ^mtentr 4I di
14 delle lo»^ speranze. • 'Sargenti
di ridicolo sociale.] Tu mi dirai
che ti porti alia conversazione non
.p«r esenatare la pazienza^, me per
andare a ^écia d( piaceri innocenti,
e vorresti poterli córre 0 tra i.
fiori del discorso, 0 ndie maniere
delle persione^ 0 tra. ameni sentiiilenti
e gentili. ; Ti ricorderò dunque
la massima raccomandata di sopra, cioè
avvezzati a riguardare le cose dal
fatto, ridicolo : eéecotene aicniie fonti*
suceinla* mente. TI porgeranno grato
spettacolo. " ù Le variazioni
deile passioni pet em io jrteaso uomo
passe facilmente dal giardini d' Epicuro ai
portici di Zenone^ ed è a ticenda
di vota, e fiv>n* dano per
trimestre, e per cai non di' rad^
* ^ * Osan profoni e fetidi
servacci » Di libertà mentire il
nobil fuoco. » Quanti ancor ne
veggiam d'animo incerto 1^ E di dottrina
5 in cui fondarsi, ignudr, '
Che quel clie sol mattino era
lor Aoia, * » Chiaman perfetto al
tramontar del sole ? ^. » A
vicenda gli scorgi ora del véro
' . ^ : ' '» Difensori,
or del falso: ora baciarti 9 In
fronte amici, or affrontarti infesti,
» Tanto che sotto a due
stendardi e volti • • >»
A due partiti un dì solo li
yede. ^ m • :}/ Le qifMate^
ripugnanze. Più Qti gusto^ um aUbsrimfó
, wi senliflliefite 'è' tsemofie , piò
:AigMé alcuni dì mostrarsene^ alieni. Così
adoperando , i^etnbrà loro di «tacearsì
dalla massa volgare, e, collocatisi
in alto , divjenire r oggetto degli
altrui sguacdi.' n . • .
• Essi contrasto- eternò \ *
i. Fanno a ragion, per voler esser
sempre \ P, Singolari dagli altri ;
e picca occulta » Hanno in sè
.d'esser dì buon gusto soli/ !» Jton
d'altri àppresse, e veder soli il
vero; ;; V I più di quQSti
incaputendo avvezzi Son del sénno a c^rcpr
, lontani ognoi^ Dalle profane popolari
turbe. Onde se ayvjen-che il popolo
par caso Dia pur nel segno, e
ragiohevoi pènsi, Sc£i.nt.onan essi^ e mal
pensano e a torto;. \ Perchè
purificate eceèlse menti . » Non
seguan mai popolaresche teste. »'
ISome vi sareste voi contenuto con
Euripide, il quale assicbrava di non
amare le donne, dopo4'es- sersi
amìtaogliato tre volte ? Seguendo i
precetti sinora esposti, voi avreste
dovuto, senza lasciar {scorgere dubbio sulla
sua sinceritià^^avreste dovuto ^ c^tedérgli
la storia di questi tre^esseri tatfto
odiati, e con cui egli strinse,
alie^inz^ forse, ad esercizio di sua
pazienza. 3. Gli sforzi della vanità
per cui ciascuno tenta d* associare V
idea delia propria persona aWidéa delle
cose pregiate o delle persane il*
lustri. Se taluno vanta un bel libro,
un letterato yi accerterà tosto che
lo possiede, benché forse OdÉflii
ahbia and' vodafe fiè i^die pti^iAMii
r''^ si tratta d'un grand'uotno ,
questi vuo! essere suo parente^ e
qu^i ^la ^ide a Parigi .0 a
Londra ^ o viaggiò còn'lai tstXto
^ièséo meeilòV e wd tm vanto come
l'asino della favola , il quale portando delle
reliquie, slnun^gmava d'éèsere adorato»- Orasio
si vantava d'urtare impulitamente chiunque
inco»»' ' trava per if^rada^ purché
potesse giungere presto .^"^M^eeniib
i^irefdete l'asMKia o aia il eàttraito
dieK* ^i'àinclr proprio : egli vi dà
una parte della sua ri- -piitai^we^^
cieè ti concede d' essere- impulHo,
af« finché Io crediate in lega col
ministro' d'AiagteMU in somma quatti .ad
ogni istante si scorge che ^ ttMàini
iielle loro pretensioni sohcf pìù^
iirragione* voli di que'facchini che
seqtendo a lodare le belle sonate
d'un organista, si gloriane d'avere levato
i mantici. ' ' ^
A^'^Aeciocchè i giovani non prendano
abbaglio, farò >dHervare ebe il vantarsi
d'essere i'amioo di qiiid(die persona
virtuosa od altrimenti stintiablle , qtiando
10 si è veramente V non è un
vanto irsagtonevole èoftie gli anteeedenti
-, giaeeliè le petiOfle Y«MMia^ le
stimabili non concedono la loro amicizia^se
non 11 persone eh' elle stimano. »
>r / •*^4. / pregiudizi comuni.
QuéSIft torgenté^^i ri* dicolo non ti
può mancare se ti trovi in compa-
gnia di donnìeeiuole; giaeehè ae pe)r ea.
'favai og- getto del discorso un male
0 l'altro, esseti spac- ^i^attno tosto
de'rimedii simili a quelli del medico
Quinto Sereno, il quale, per guarire
tó quatìwia» ' j^neva sotto il
capo del febbricitante il quarto li-
%fo éeir Ilìade. Contìnua tu la
storia dellegaia* lattier ed «fisa
Mtttiiuieraiiil^ dei recale che ti
farebbero ridere, fossi anche moribondof/
Mi è stato di^and^to se e come
si può iotrat* teimrsi e ridere
eofievj^aeecherew yeramente il problema è
un po'difflcile, ma se il'tettora premelte
di noa tradisuii) gli affiderò il
' ' Le pinzochere chiamano chiunque
al loro con- toitton^e; e il. loro
eootoi^ cresce in ragione delle persole
ehé eoodamano; ^ Quando adunque mi .tcp
vo in compagnia d' una di queste
signore, le em^to avioti ' una
ventina di peccatori per te meno, e
tutti colle loro colpe sulla fronte :
qui si;iegge rnode^ ik ieàtfo^ più
Jungi pas^eggiy smmii "La vista
di questi piaceri, a cui per motivi
ri- spettabili, madama ha rinunziato , riscalda
la sua bHe; quindi eceolar assisa prò
tribunali, e scrivendo sentenze da
Radiunante, colle mani e co'{»icdi eac*
«la tìPotw* filpifi poveri profiud.
-Appunto perchè so che la pinzochera
è ineso-. rabitef io mi interpongo e
chieggo pietà ora per Vhi^. ora per
rsAtro : tento Tapologia della moda ;
dimando qualche tolleranza pel teatro ;
il concerto dèlie (Sfere mi serve ja
difendere i ^oni, gli au« gelli
vengono- in soccorso de' canti ecc. ;
succede dunque una contesa tra il
giudice e V oratore, e coi {a
siessioné. criminale continua^ giàcohò ie, ob*
bieziofifi ragionevoli ed a proposito sohq
uhq sti"- molante della conversaùow.
E eieoofm lo zelo di madama è .
scevro di mallaia , quindi riscaldandosi
ella facilmente , ini permette di i^ere
n$l/wdo delsuo euHmofÀ ravviso allora sotto
tinte superstiziose quelle false idee che
leggo in alcuni libri sotto tinte
poetiche, ed imparo a stimarne profondamente
gli autori ! Crescendo il calore
di madama , io diminuisco ; l'opposizione,
e le lascio assaporare il piacere
d'a- vermi persuaso e vinto : in questo
modo usciamo dalla conversazione soddisfattissimi
entrambi, ella di me, ed io di
lei. » - ìv ., 5. Gli
sforzi per comparire ricchi ; del che
vedi un cenno alla pag. 89 , §
4.Basterà qui il dire che il
ridicolo in questi casi cresce in
ragione della differenza che passa tra
l'apparenza e la realtà, sicché il
massimo ridicolo ci verrebbe offerto da.
colóro che imitassero i comici di
campagna, i quali, dopo d'avere
rappresentato Cesare e Pompeo, muoiono di
fame. La saccenteria^ la quale si è
di due specie:), appartengono alla prima
quelle persone che , non»^ facendo
mai uso del loro giudizio, spacciano
le idee altrui senza discernimento e
come proprie. Molti vedrai che
proferir non sanno ^ \% '
» Mai sentenza da sè ; corrono
in gìra'^ » Per la cittade di
pareri a caccia ; , 1
Intendimento è in casa lor, da cantò
3» Mobile disusato e inutil
ciarpa. L'opinioni più travolte e
false » Succian avidamente, e a
grande onore. / ^' ' »
Premon la spugna ad opportuno tempo,
E fan lago d'umor sorbito altrove. »
La seconda specie di saccenti
contiene que* cer- retani che, forniti d'un
capitale scientifico come 10, fanno pompa
d'un capitale come 100, e otten-
' . ,gono facile credenza
prineipalmeate presso le don- nicciuole che
pizzicano di letteratura. Non basta,
dice Gozzi, l'aver buone merci V»
nella bottega; ma il saperle mostrare
è di grande utilità. Succede
a'ietteral, quando sanno acqui- » starsi
l'opinione degli uomini, quello che accade
> a qualche benestante o giocatore,
che se il primo » ha tremila
ducati d'entrata, si dice cinquemila; »
e se il secondo ne vince cinquanta,
corre la voce '»^di cento. Così se
l'uomo di lettere avrà buona V maniera
d'insinuarsi nell'animo altrui, non vi »
sarà cosa al mondo che non si
creda eh' egli i^intenda. Una così
fatta avvertenza fu buona in » ogni
tempo. È vero che secondo i costumi
del- >» l'età e delle nazioni la
fu anche diversamente » posta in
opera. Ma che credete che fosse
quella » ruvidezza d'Antistene? Che quel
mantellaccio, quella valigia, quel bere con
le giumelle, e la casa nella botte
, e le altre poltronerie di quei »
malcreato di Diogene? Non altro che
un saper » vendere le sue mercanzie.
Perchè quando uno » f a con una
certa signoria d'animo quello che gli
»^altri non usano di fare, tira gli
occhi di tutti a * sè, e
a poco a poco la maraviglia.
Aristofane V che intendeva le cose
pel buon verso, e diceva " al
pane pane, per aprire gli occhi agli
Ateniesi, », volendo far conoscere
l'artifizio di certi studianti, » li
fece comparire sulla scena magri, smunti
e ^ del colore della terra, che
pareva che si fossero » distrutti a
studiare ; poi le loro dottrine
erano, • quanto spazio salta una
pulci, e se la zenzala » ha la
tromba nella gola, o, con riverenza
vo- » stra, di sotto. Le industrie
d'oggidì non istanno V più nelle
goffaggini di Diogene, o nel colorito
» della faccia che gialleggi. Non
importa più che ' » i letterati
siano magri o scoloriti, no ; chè
ce » ne può essere d'ogni corpo
e d'ogni colore ; so- » lamente
è necessario un poco di baldanza per
» dar cognizione di sè al mondo.
È vero che per » rendersi baldanzoso
bisognerà prima invaghirsi.^ » del suo
fare e del suo dire; e a forza
di dare » ad intendere a sè
medesimo, che si sa, comin- >»
fciare a crederlo finché la coscienza
noi nega più, » e allora poi
darlo ad intendere anche ad altrui. »
Poi entrare in ogni ragionamento tanto
animati, » e tanto a bandiera
spiegata da far credere che quello
che si dice abbia proprio la radice
nel- » rintelletto, e sia studio di
tutta la sua vita.' » Qualche
picchiata agli autori può ancora giovare,
M Verbigrazia , se un dice : Come
vi piace l'opera' ' » del tale
Non ho avuto pazienza di leggerla.
» Dante .J* È rancido. Il Petrarca?
Troppo lavorato;> » « poi malgrado
gli so, perchè ha fatti tanti Pe-
» trarchisti che sono una noia.
L'Ariosto? Divino; » ma molte volte
dà nel basso che m'uccide. Il »
Tasso? Semper corda oberrat eadem. Insomma
» eirè come disse il Leopardi:
^ a Vuoi tu parere un'
arca di' scienza ? Biasima sempre ,
e vedrai la brigata » Starti d'
intorno con gran riverenza. » »
Un grand'uomo , un grand'uomo è costui ,
dirà la brigata, che conosce dove
sono difettivi gli » autori. Proviamolo.
Si ragiona di questo mondo » e
dell'altro. Su due piedi l'uomo ha da
saper » rispondere tanto del corso de'
pianeti, quanto sentenziare deiinitivamente delio
arricciare ca- » pelli ; e s'egli
ha grande animo , sempre termi* »
nera col dire : In un mio
Trattato spero di far • vedere al
mondo eh' è goffo. Le signorie loro
» tra poco vedranno l'opinione ch'io
tengo sopra » ciò in un libro
che quasi ho terminato: per modo »
che empiendo il capo de' circostanti di
sentenze, » di libri e di simili
abbondanze letterarie, egli è » impossibile
che quando prende licenza dalla com- »
pagnia non si bisbigli : Oh che
uomo ! Oh che » profondo sapere
! Costui è una libreria che cam-
» mina. Una stamperia che tira il
fiato. » Ma se ti è permesso
di ridere delle stoltezze degli uomini,
come gli altri ridono delle tue ,
la pulitezza vuole che il tuo sorriso
al loro guardo s'asconda, e che,
d'ogni malizia spoglio, non sia diverso
dal sentimento che eccitano in te due
puU. Cini che vengono a contesa.
/ , giuochi
di società. Classificazione dé*giuochi e
vantaggi. Da un lato non è
sempre possibile nelle lunghe sere iemali
alimentare la conversazione con sog- getti
nuovi e interessanti ; dall ' altro
il discorso pende naturalmente alla satira.
. Ora è meglio giocare che annoiarsi
, è meglio giocare che maledire «
purché regola si serbi e misura. Le
jeu fùt de tout temps permis p9ur
s'àmuser ; Oh ne peut pas t^mjours
travailler^ prier , lire ; // vaut,
ìnieux s'óccuper à jouer qiià médire.
1 giaoehi poksoAo esheré indotti a
cpiattro-elattf: La 1.* esercita le
forze corporee (per es. , il «orso,
la lotta, il pigiato eec^«. )•
La 2.^ esercita le forze
intellettuali ( per es. gli teaochif
vari! giuochi colle carte; eec}« ^
La S.* lascia Inerti le fonie
corporee e intrilel» tuali (per es. i
dadi e tutti i giuochi d'azzardo)^
La . 4** esercita coDtemporaoeaoieDte
le forze fi» siche e tntellettualf in
diversi gradi ,- e In parte anco
dipende dall'azzardo ( per es. il
giuoco della palla « cavallo^ del
pallMe.eo'piedi ecc.). I*«r?{^ volanti divertono
nel verno tutte le corti d'oriente:
vi si appendono de' fuochi che
seml^rano astri in mezeo al cielo.
Quello del i« di Stam^ sèmpre in
aria ciascuna notte , e i mandarini
ne tengono alternatìvamente il cordone. In
Itàlia querto diiier^ timento è rimasto
ai ragazzi ne'giorni festivi d'e- state e
nelle ore pomeridiane, e unisce il
piacere deHa vista airesercizio delle
membra (t). * L' opinione comune
vuole ( ed io l'aveva se- gnita
Bell0 antecedenti edizioni di questo
scritto ) che Fuso delle carte da
giuoco fosse ignoto pria del XV secolo
, e che ne sia stato inventore
Già* cornino Crtn^nneur, pittore di Parigi,
verso la fine dei secolo XIV. Pare
che non si possa dubitare della
(!) I cervl-volanU meritavano una menidone
pnrtlcoIw?c , |H9cchè la loro storia è
unita a quatta deU' el^tlrieitè.
falsità di questa opinione allorché si
legge il mano- scritto italiano del 1295,
citato dal Tiraboschi e dal Dizionario della
Crusca, nel quale si parla del giuoco
delle carte, come già largamente diffuso
in quel- Tepoca. Forse ella è questa
un'invenzione asiatica come il giuoco degli
scacchi. Che che però sia della sua
origine, egli è certo che le carte,
ugualmente che altri piaceri innocenti ,
censurate caldamente da' predicatori , proscrìtte
con pene rigorose dai governi, resistettero
a tanti nemici potenti congiu- rati contro
di esse. Dopo che l'esperienza e i
pro- gressi dell'economia politica hanno
insegnato ai governi a trarre un
partito flscale da ciò che ave- vano
inutilmente proibito, le carte da giuoco
go- dono, per così dire, d'un esistenza
legale, impin- guano il pubblico tesoro,
occupano alcuni fabbri- catori, e il
piacere deglr uni diviene sorgente di
lavoro per gli altri. Le carte
formano parte de' divertimenti delle
quattro parti del mondo. Le prime
carte differivano dalle attuali nell'ap- parenza
e nel prezzo ; esse erano dorate,
e le loro figure dipinte e alluminate,
sicché la fabbricazione richiedeva
talento e lavoro particolare; quindi ne
era alto il prezzo, in conseguenza
raro Tuso. L'invenzione delle carte
introdusse de' cambia- menti ne'modi di
divertirsi. I differenti giuochi a' quali
esse aprirono il campo, costarono più
tempo che dertaro ; quindi anche nel
loro abuso furono meno fatali de'
dadi. In generale i giuochi d'industria
, ì quali appar- tengono alla seconda
classe, possono essere utile e innocente
esercizio allo spirito di combinazione •
ed io dirò francamente alle madri: Se
il vostro Digitized by Googl
ligliuoio è stupido i inspirategli qualche
gusto pe^ fuochi d'industria; k vanità
punta ed aaiouAa ^Ue vìaende delle
pmlile a deHe Tioctto risyeglìà Tattenzione
e dà qualche iittività allo spirito.
- Aggiungete che una persom ohe UM
sa gioem^ costringe altre due o
tre a rimanere oziose come eis^ in
una coaversazione. :■■ : r o:
Additando i iWDtaggi det giooéo tmè
paioob al bisogno d'intrattenersi, non
intendo di vantarne la passioiie^ «amo
ehi addita i pragl4el vino, io- lande
di gkistifioare rubbriaebeeza.. : vi
.v>iJE che dite dei degli scacchi?
« Quello earia è mutile
JiilfatteDHMBta ai kh » gegnoso
(risponde il Castiglione); ma parmfebe » un
sol difetto vi si trovi ; e
questo è che si può » saperaé^
troppo, di modo che a cui vuol
^ssaere » eccellente nel giuoco degli
scacchi, credo bisogni » consumarvi molto
tempo, e mettervi tanto studio 9
quanto ii^ vatésse^iiiiparar qoaiehe wbil
aefeaza, » o far qual si voglia
altra cosa ben d'importauiia ; » e
pu; ìd utolme^ etn tanta letica, non
w altep » che un giuoco.
GU^^fOiiiAi^gi^o^i qtiai eh' essi siwa^ purché
noi! eseatiè 'dal liaMi . della deeema^
s$ao imta pià pregiabiUy quca^o maggiore
esercizio offrono ^iifoftj%roei;iq»ipHfi^^
alU/0rze^is»tellet' tuali; quindi tra tutti
i giuochi t meno pregiabiii e i
più^daiinoat aooo i giuochi d'azzardo.: ^
' ' § 2. Regote di
civiltà neL giuoco. iVoti mQSif4Ue mal
umore se vi. toccano cat' ièbe coorte
o se perdete ; giacebè , altvimenli
fa- cendo, dareste a divedere che la
vostra tranquilK può essere turbata da
un'inezia, e cte apprezzate WfmhiiaMnlle
una pieeola niQneta« - . If •
Nm siate troppo fento nel giocare,
sia per non dar prova d'inerzia
intetlettpale, sia per non Se il
vostra compagno commette degli ^r- rorif
ó&rreggetelo €on gwbo^ iberna fare
schia- iNMS^ 6 dar wgM 4t troppo
dispidoere R che violerebbe la prima
regola; d' altra parte dovete fiewdarvi di
^fuiatli %ìt» eonunetlete steasò. Se
giocate con persone schizzinose, difen-
deté il vostro diritto seaza riscaldarvi
e soprattutto «iiM paiéfo «iSniiiKe ;
#^ Ae^po é'a?^ sposto }e vpstre
ragiooi) cedete con beila maniera. «
Io giòco per diletto e per conforto;
. » chi vuol far quistion vada
aila^guerr^ E giuochi ad ammazzare o
ad essèr morto. Non moxtrMe ecee$sÌoa
é^ili^rwsa fpumdo vincete , sì percbò
Waii^prez» maggiore dell im- pmtattca éeila
Msa t dtnot» picooiMza di apicito sì
perchè la vostra allegrezza produce nel
perdente im (dispiacere più sensibiie d^a
perdita,. ed è ri- guardato cornai m
prìmo''gmb d'iMuttOk Infetti nissuno ama di
perd^e a nissun giuoco, non tanto per
h^resse guanto «par amair propria ;
giaacbè dalla perdita risultane idee
umiliamli eeonlrarie aii/opinione abituale
die ci3scuno arasi formata in mente della
stia destrazza e della sua fortuna.
Vod* taire, benché uomo di spirito, o
perchè uomo di . troppo spirito, non
poteva tollerare il padre Adam, quando
guasti lo vinceta agli scaccili oé al
tò* ie;lìardo. Un principe assiro uccise
il Aglio di ^>o- Jbyas alla
i:accia, perebè quel giovine era riuscito
a ferire un orso ed pn (ione,
contro tsni il pnriiicipe aveva slanciate
le sue freccie inutilmente. Un uomo probo
non si permette la minima sùperchieria
nel giuoco ; egli vuole poter dire»
io non ho fraudato giammai, senza che
la coscienza Io smenta : egli temè
che V abitudioe d' ingannare neHe cose
piccole diminuisca la sua delicatezza nelle
grandi. ' Ogni frode dovrebbe essere
punita- còlla perdita una , due o tre
partite , secondo la sua impor* tanza ,
ed a giudico inappellabile d^gli astanti.La
somma giocala deve essere tenuissìiha e
sempre inferiore alle finanze del men
ricco tra i giuocatori ; altrimenti
alcuni non giocheranno per non resbré
esposti a gravi perditè , altri gio-
cheranno con grave lo^ro daqoo per non
comparire spilorci : Tono e l'altro
caso annuUa il piacere delibi conversazione
e lo deprava. Il prodotto delle
vincite debb' essere m- pSeguito 4Z
vasutaggio tornirne ; questa regola dimt-
i)uisce il dispiacere delle perdite^ e
neutralizza l'a- vidi del guadagno. Il tempo
destinato al giuoco non deve su- perare
i due terzi del tempo consecFato alla
cw^ ireflsasione i e questa non deve
succedere a ^e»e 'de' doveri e degli
affari di maggiore importanza. . X»
Jiton ai deve costringere con importuniià
sèsamo a giocasi , come non ti deve
èoatriogere . jaissuno a bere. Non si
devono accoppiare mi friwM >er* sos^ie
nemiche o reciprocamente odiose. Egli è
quf$ta un probienia teìvoita dilGcile per
la padrora iiratO TÉMÙ di casa,
e a scioglierlo beae ci vuole occhio
Qao e pratica di aioDdo. . «
Lieto così tra ramichevol turbai » L'
ore dividi delle amene sere, )* E
n'abbiao parte gli eruditi detti, « £
parte ancora al genial oe dona »
Breve «ommercio di piacevol gioco, »
Cui mutua gioia e scarsa speme
avvivi, •> Ma sete d'oro non
corrompa, o il renda ' » Torbido
e taciturno, e tal che dopo »
Al vìnto Insieme e al vincitore
incresca. Doveri nella conversazione.
> .4 1. Attenzione. ' '
L'attenzione ne' crocchi sociali si divide
in doe rami distintisdmi* * ' Il
prim^ coDuprenda quatf a^ttnsa sansibiiilà
che immagina i bisogni degli astanti ,
li previene od asseconda; Il secondo
oom|ltettde le affetftudini «steHori di-
mostranti che Taitrui discorso occupa interamente
il nostro anunob* L Supponiamo una
signora, che, animata dal-, raoeenaata
sensibilità ^ dirige ufia conversazione ,
0d «serviaoMMie ^v%ibM^ La ptontezza -era
mii ella risponde alle dimande, vi fa
supporre che la sua attenzione sia
tutta ooeupata nelle risposte ; V
ingannate; ella si diiFÌd6, si moltiplica
, ed è presente a tutti i
pensieri degli astanti ; non vi S&7 sfogge uno
sguardo eh' ella noi vegga ; non {or-
inate- tto degiderk) ch'elici non conosca}
noa pfo^ ferite una pàroia eh' ella
non ascolti ; non v' ha individuo
nella conversazioae eh' ella dimentichi
iQ&tti ella vede là Ja un angola
ehi wa paria per timidezza, 6 gh
dirige con sorriso di confidenza una
dimanda." Ella s'accofge^ che U
discorso d ;qualcuQó eomiaeiab ad annoiar
la brigala, e gli . cambia cofx
bel. garbo il soggetto tra le mani.
Il vosl^ ^vvtirsacio vi stringe»eoa
afgomenti.iQeal»Dtì a segno che siete
vicino succumbere; ella viene in ip(ra
soccorro, con una celia. . Vi jsf uggì
di bocca dna parola a cui sh dà
sinistro senso,? ella spiega la vostra
intenzione e la presenta in beir
aspetto. Cadeste per inavvertenza iiv uno
sbaglio che può divenirvi nocive ?
ella vi trae d'imbarazzo colla sua
presenza di spirito Uh Voi non ardite
leggere una iatteira che vi viene
pre^eotida/netta ewiversaziaiie ; ella dimanda
per. voi. il permesso agli astanti, pro-
^testando che ne conosce Timportan^a. Voi
vorreste .partire e non osate ; elja
vi & rimprovero che 4ih 1 '
(I) Ferdinando VI re di Spagna,
benché di carattere buono jed amano,
era alquanto severo contro- quelli che
facevano uso di tabacco proy[>ito. -
tJn gìomò in sua presenza un grande
di Spagna trasse di tasca una scatola
piena della polve proscritta. Il re
slanciò sopra di lui uno sguardo mi-
naccioso. L' ambasciatore di Francia ( M.r
di Duras ) , ac- cortosi della faccenda, s'
avvicinò alio Spaludo e gli disse: Ohi
ecco la ndaia|iaocbierache V.E., per
prenderai giuoco di me, mi aveva
tolta. Questo felice espediente trasse d^
im- paccio il reo 6 disarmò il
monarca. (NB. I membri del corpo
diplomatico non erano soggelU alla legge della
proibizione ). menrichiate i vostri
affari pe'vostri amici, e v'or- dina di
partire sotto pena della sua disgrazia.
Vinse ella , è vero, al giuoco, ma
se la destrezza del suo compagno non
avesse corretto i suoi er- rori, sarebbe
rimasta succumbente. Quest'oggi ella è
libera dalla sua emicrania e ne
furono medicina i bei motti della
scorsa sera. Osservate con quale
compiacenza arresta di quando in quando
il suo . sguardo sopra uu astante,
e pare che la sua fiso- nomia
s'animi e s'abbellisca : ne volete
conoscere il motivo? Questi le presentò
l'occasione d'essere utile ad un infelice.
Senza pretendere dominio nella conversazione,
sa dirigerla con destrezza , e quasi
direi fa comparire sul palco i personaggi
, restando essa tra le scene. Ella
sa far valere cia- scuno senz'aria di
protezione, perchè sa distribuire le parti
secondo V abilità, il genio e i
talenti di ciascuno. Voi avete fatta
una bella azione, e non ne parlate
per modestia; credete voi ch'ella non
la conosca ? che l'abbia dimenticata?
Aspettate che la conversazione sia piena,
ed ella verrà, per così dire, a
prendervi per la mano e vi presenterà
agli sguardi di tutti in mezzo ai
raggi della vostra gloria (1).
Parecchi scrittori che frequentarono i
bordelli , hanno fatto la satira del
bel sesso : essi avevano (f )
Nel testo ho abbozzato con lievi
tinte il carattere d'una signora, la
cui amara perdita lasciò profonda
sensazione nel- r animo di quelli che
ne ammirarono le virù : parlo della
si- gnora Marianna Morigi Réina. ragione
: il primo dovere d' un viaggiatore
si è d' essere esatto. A. chi ha
conosciuta deile dooae che il flore
delia gentilezza uDivana aHe fià- ama- bili
virtù, iocumbe l'obbligo d'esattew eguale.
IL Mostrare che degli altrui discorsi
nóu f«t» dete una parola, e che
le affezioni risentite che il parlante
tende ad eccitare, è dovere si
evidente, che. d' ulteriori schiarimenti non
abbisogna dopo quanto è stato detto
nel libro primo. « Se npn
mostra che il turbi o che il
conforti • » Ciò che sente chi
ascolta , non dirai ' f O
ch'egli è sordo o che poco gt'
importi ? » Con somma attenzìon
dunque dovrai » Ascoltar ehi proponga
o chi risponda, , n Se avrai iuteìrrogato
o se il sarai* » £.se avversa
al tuo genio o pur seconda Sarà' la
eosa iM^t dèi mei visito. Mostrare
impressione aspra o glo<M)ndd. Conviene
assistere ai discorso di chi parla
come si assiste In teatro ad una seeua
nuova ; n E però sii disposto
ad ascoltarlo » Come di tutto
ignorante tu fossi , » E n^suoi
vari! sensi a seguitarlo. » ^ ^
« . • È quindi grave
inurbanità, allón^è qualcuno parla, trastullarsi
ooHentaglio, col cane, coi guanti, colla
td^oduera, eoi cappello, ovvero Volgere qua
^. là il capo, e far gesti con
questo e sorridere a qucHo , ioBomma
mostrare un' aria di volto che , alla
sensazione comune eccitata dai dkeeni. del
pariante non eorri^poada. In forza di
queste distrazioni, quando il discorsa è
innoltrato e diviene interessante, siamo
costrettJ ^ a confessare che ce ne
sfuggì il filo, e con altrui .
noia preghiamo chi parla a rannodarlo
nella nostra mente. « Egle distratta
intanto Torna, disse, a ridir, ch'io nulla
intesi. L'altrui distrazione, oltre d'essere
un affronto . a chi parla, giunge
a turbare le di lui idee , mentre
all'opposto l'altrui attenzione le raccoglie.
' « E se ascoltando astratto o
per stanchezza « Volgi l'occhio , si
ferma chi favella ; » Ma guardalo,
e il discorso raccapezza. » ^
La distrazione poi è dannosa a
noi stessi in tre modi nella
conversazione A ,<vr riv i/, 1'.
Ci fa ripetei^e le stesse dbnande ^
^^^prova labilità di memoria, • (
Una principessa volendo dire qualche cosa
gra- ziosa ad una giovine dama, le
dimandò quanti figli aveva: tre, rispose
la dama. Un quarto d'ora dopo , la
principessa , la cui attenzione era
stra- niera a questo trattenimento , dimandò
di nuovo alla dama quanti figli
aveva. — Siccome non ho partorito
dopo la prima dimanda che aveste la
bontà di farmi, replicò la dama ,
così i miei figli , restano
tuttora tre ) Ci fa commettere sbagli
e contrassensi che ci rendono ridicoli.
( Un negoziante cui fu esibito da
sottoscrivere • l'estratto battesimale
d'uno de'suoi figliuoli, scrisse : Pietro
.... 6 compagni. Egli non s'accorse
della sua stoltezza se non se dopo
la risata generale che eccitò. )
3. Ci fa si^elare i sentimenti
del nostro animo contro nostra voglia. .
^ ^ . ( Una dama alla presenza
di suo marito parlava 4ella destrezza, di
cui si era servito un galante per
introdursi nella casa d'una signora ch'egli
amava, in assenza di suo marito. Ma
nel mentre, disse ella, se la
intendevano tra di loro, eccoti il
marito che batte alla porta : Ora
immaginatevi V imba- razzo in cui allora
io mi trovai. La verità sfuggita alla
moglie pose il marito in altro imba-
razzo maggiore. Sogliono essere causa di
distrazione 1. La noia prodotta da
discorso poco interes- santeo già notoy
e il poco concetto che si ha di
chi parla ; quindi dell'altrui distrazione,
siamo non di rado cagione noi
stessi ' - 2. V abituale
irriflessione che lascia errare sbrigliatamente
la fantasia senza riguardo alla realtà
delle cose da cui siamo circondati ;
3. La voglia di rispondere per
vanità od altr, simile sentimento. Allorché
qualcuno parla, alcuni concentrano il
pensiero sopra ciò che devono ri- spondere.
Tutto occupati nella risposta, non resta
loro alcun grado d'attenzione per ciò
che ascol- tano. Temendo che sfugga loro
l'idea che vogliono esporvì , il loro spirito
s' occupa a conservarla, e ad impedire
che altre al di lei posto
sottentrino. 4. L'astratto è una
testa debole che si lascia predominare
dalle idee che gli vanno per la
fan- tasia , 0 un uomo vano che
si finge occupato in grandi pensieri. In
atto -^4.^^ - ^\ / * ^^'^
Di pensator profondo, altero sembra
^ vl? * kr'Ét^ '> Quasi
seder della ragion sul trono , }
E il semi-chiuso ciglio
abbassa appena .ijfilt- V »
Sul non pensante vegetabil volgo. » ^
Pretendere di mostrarsi filosofi
mostrandosi stratti e sgarbati, è
pretendere di mostrar ricchezze con un
tabarro rattoppato. Chi alla coltura delle
scienze accoppia gentil costume, dà segno
di forza d'animo come due; chi alla
coltura delle scienze rozzo costume unisce,
dimostra forza d'animo come uno: poiché
se la rozzezza è naturale, la genti-
lezza è figlia dell'educazione; dunque,
rigorosa*' * mente parlando, in vece
d'innalzarsi, l'astratto si degrada, giacché
la sua condotta prova o può pro- vare
ch'egli basta a coltivare le scienze,'
non basta a coltivare le scienze e
sé stesso. Si possono dun- que coltivare le
scienze senza essere villano. Le scienze
vogliono che dalla solitudine passiamo alla
società, più amabili, perchè vogliono de'
seguaci^' non degli stupidi ammiratori o
de' nemici. È quasi straniera sulla fronte
dell' uomo buono la severità, mentre
non di rado comparisce sul suo labbro
un dignitoso e piacevole sorriso, f.^^
L'uomo buono non s'offende d'uno
sgarbo, non ' fa rumore per un'altrui
svista ; dissimula le man- canze d'ossequio
e di rispetto che a prava inten-
' zione non si possono attribuire.
Non isdegna d'occuparsi di cose
frivole, se pia- cevoli agli altri :
e nelle partite di piacere più l'al-
trui genio consulta che il proprio.
iìlLìmaii Di contrasti
ignara » Condiscendenza che alle propri
voglie » Cede coàì, che delle altrui
s'indonna. », ^ liwiisilegoa di
prestare orecchio agli imbecilli che non
gli dicono BuUa, e Ji toUwa,
lofitaoissiuKi 4 i . « •
• « Gli altrui detti e qualche
» Sbaglio sfuggito e naturai difetto
AiranouDcfo d' un vizio egli inc^inà
a porlo in , dubbio ; e se
il vizio è certo, ricorda il
pentimento «^he potrà cancellarlo. Quindi
egli prende spesso ta- liKesa degli
assenti, e conchiude, quando può, Hi
modo analogo a quello che usò
Boiingroke^ ai- Jorchè intése a laccfriiré
la riputsbsions éi Maftou- , Tough :
Egli ayeva .tante virtù, che ho
dimenticato I suo» mi. . \ , ,
t . Egli scusa gli altrui
difetti anche a spese della P.erità
allorché non ne viene danno ad altri
^1). (I) IMusladin Saadì nel suo
Mosarium poUticwm riferisce «che un cèrto
re condannò a morte naa de* tuoi
sehiavi , e ^lie quesU} non vedendk»
speranza ^ grazia, ^ede sfogo al .
suo dolore con nalèdieloini e ìmpreeaslofxl
d'ogni genere ' - contro il re.
Questi non intendendo ciò che diceva
lo schiavo, \ ne chiese la
spiegazione ad uno de' suoi cortigiani
: il corti- . ji^iono , il
quale, per rara sorte aveva il cuor buonore
desi^ ^ • derava salvare la
vita al colpevolé^ riiposè: fflgilore,
questo povero diavolo dfeè, che U
parafo srta preparato perqueUi (
c:{]c moderano la loro collpra , e
che perdonano i difetti \ ed
; , Egli è il
primo a sottoscriversi ad un progetto
di beDeficeneà ; non è loataiio dall'
imj^rtunare per ottenere ^ un beneficio
a vantaggio di 'qoalchè bisognoso. ;
' Egli ha la delicatezfsa dare
ad un brae&iio l apparenza d\un obbligo
, e conta pel massinno ptqioere il
piacer di beD6fic9re (1). È inotile
rag- iH quésto tfodo egli Implora
la tostrà d^iDenza. AUora ir '
re perdond éló woìàmo, e gU aiscordà
dinuovi» A sua gmìi. Cn altro
cortigiano iniquo per carattere , facendo
rlmpro' veri al primo, gli disse che
non cpnveniva ad un uomo del
,8U0 «Ugo il mentire alla presenza:
del re; quindi rivoltosi al , principe
, te vi svelerò la verità , gli
disse : i^ppiale che lo «eMavo fak
proferito gouIbo di véf 1^ pUi;
«BecraUMi/in^ " rioni , e questo
signore vi vende una merizegna.
• ; . M re, offeso da
questa graluila e inopportuna malvagìtìu •
- dò può ben essere^ replicò;
Kta la menzlogna che voi gU r
^cimbroverate, eliè la vostra ^^ìk
è pregevole ; giac- 1» cbè con
questo mé^ egli procacciò dfc>a)vare la
vitàad « un uomo , mèùtre voi tentale
di togliergliela : ignorate vo^ »
questa massima? La menzogna die frutta
un bene, vale » più della verità
che produce un danno. » (4)
Turenne avendo veduto nella sua armala
un olBciale imesto ma povero, fornito. di
cattivo cavallo, lo invitta pranzo , e
dopo pranzo gii disse in disparte con
speciale bontà d'animo: io devo farvi una
preghiera che forse voi troverete un
poco ardila ; ma spero che non
vorrete rica- li lìtillà al- vostro
generale, lo sono vecchio ed anemie
ma- laticcio } i cavalli Uroppo vivaci
mi ca^^ianano disagio e pena; voi ne
avete' uno sol quale starei còmodissimo.
Se non te- messi di domandarvi un
sacrifizio troppo grande , vi preghe- rei
di cedermelo. L' officiale non
rispose che con profonda . riverenza,
andò ^ pifendero il suo .cavallo e
lo condusse nella «cudfHriA di Turenne.
^ Questo generali^ gii spedì il
giorno ap- presso uno de* più belli e
migliori cavalli dell* acq^ta. ^
Digitizec Ly v^oogle gfO^re ch'egei
si astiene dalle commi ^UHaipai a iBer
di labbro^ no» aeeompagnaté èA desiéeria
d'eseguire^ e che si debbono
chiamai'e r « YeiMi iógafinì in
mmzognere offerte, r - fissare sei^ro
co' suoi simili è dtmenticare di
quante qualità siamo sprovvisti , da quanti
difetti funifflio lur^ervati dai solo
azzardo, quanti oggetti, qpante circostanze
sulle debolezze degli uomini influiscano. *
^ * ; * > - Ma
per e^eré buono non siate imprudente
} e ricordatevi che la bontà inclina
naturalmente a giu- dicare gli uomini no^
quali som^ ma quali do* vrebbero
essere; la quale illusione se riesce.pia^
cevole, perchè ci libera dalle spine
della difliden^a, spesso di molti, e
gravi sbagli è fonte. § 8.
Modestia^. Per Qiodéscià inteiAlesi quella,
virtù, die si a- stiene dal
prevalersi de' proprii talenti e della
prò* pria abilità In modo spiacevole
a^ j^uèlli con cui viviamo. Ella
è veramente una virtù ^ gi^hè riesce
a reprimere la nittùrale tendenza che
spinge ciascuno ad esagerare i proprii
pregi e farli sentire agli altri.
^ Io non credo ch'uom sia sotto
la luna, » Ch'il suo ingegno cambi^^e
con Platone, » Quantui^ue egli non
skppia cosa aìcuna. Perche a ciascun
par esser Salomone, , » £ ui
essenza^si giudica da tanto « Che
meriti ogni onor da le persone. ^
Quindi Timmodestia cresce in ragione
dell'ign^^ . ranza , o per dir meglio
del falso sapere ; perciò »
Digi vi,' la Bruyère dice : //
vanaglorlosOy misto di sciocco e di
petulante^ sta tra questi due estremi.
Un giudizio troppo favorevole di noi
stessi of- fende i nostri simili , ì quali
, volendo giudicare liberamente le nostre
azioni , veggono con dispia- cere che si
assegni a se stesso nella loro
opinione un rango o delle ricompense
che essi non ci as- segnarono.
L'uomo modesto somiglia a que' fiori
che umili steli tolgono all'altrui vista,
e che solo il loro pro- fumo fa
conoscere. La modestia dà ai talenti,
alle virtù, alle abi- lità quell'incanto
che il pudore aggiunge alla bel- lezza
(1). ' « Ippolito, che sài più
in là A\ tanti '"^ "
*^ • . » Fra lor che sanno,
e di saper dan mostra, Mentre a
te ignaro de' tuoi proprii vanti -
.* ^ Schietto pudor Tonesta
guancfa inostra. » " "' '
« LaseianK), dice Gozzi, il commendarsi
da se » medesimi a coloro i
quali, temendo di sè e delle y>
opere loro , tentano di sostenerle
coi puntelli , » come gli edifizi
vecchi e cadenti. Non sia di- »
sgiunta da noi giammai queir onorata
modestia » che è condimento e grazia
di tutte le virtù , e ^> le
rende più care e pregiate. Qual
baldanza, vi (I) L* umiltà,
differente dalta' modestia, è una qualità
cha brama mostrarsi agli occtii altrui ,
perchè , mostrandosi , In vece d' offendere
la loro vanità , X adesca \ ella
suppone per lo più in quelli che
la ostentano , un sentimento segreto d'amor
proprio od anche d'orgoglio ch'ella si
sforza di re- prmiere , desiderando che
le si sappia grado della sua
vittoria. prego, sarebbe la nostra
se volessimo privar le » genti della
facoltà di dare il proprio giudizio »
sopra di noi ? Perchè vorremo noi
essere niae-^ » stri a tutti coloro
i quali ci ascoltano, e conian- »
dare ad ognuno che a nostro modo
favelli ? E » se per avventura
V intendessero altrimenti da » quello
che andiamo noi vociferando di noi
me- » desimi , che sarebbe allora ?
Le nostre voci si » rimarrebbero
offuscate nelP immensa furia delle »
contrarie , e noi verremmo giudicati senza
cer- » vello. Quanto è a me ,
così penso e tengo per » fermo,
che farà sempre inutile opera colui
il » quale a dispetto di mare e
di vento vorrà essere » d'assai con
la sola forza delle sue ciance. »
r Giusta gli esposti principii , l'uso ha
introdotto nel conversare socievole certi
modi di dire che , lungi dal
dare segno di confidenza eccessiva nel
nostro giudizio, lasciano scorgere dubbio e
difll- denzà. Franklin ci dice che
conservò T abitudine di non impiegare
giammai nelle quistioni contro- verse le
parole certamente, sicuramente^ indubi- tatamente^
od altre simili che il dimostrassero
ir- removibile nella sua opinione. Io
diceva piuttosto, egli soggiunge i fo
credo^ io suppongOy a me pare che
la cosa sia così, per tate a
tale ragione: ov- vero la cosa è
così, se non m'inganno (l)'. •
{\) Prima di Franklin, aveva detto
Monsignor Della Casa : « Bisogna che
tu ti avvezzi ad usare le parole
gentili e rao* » deste , e
dolci sì , che ninno amaro sapore
abbiano* e in- » nanzi dirai :
Io non seppi dire, che Voi non m'
intendete , j» e Pensiamo un poco, se
così è, come noi diciamo; pint: »
tosto che dire: Voi errate, o E' non
vero, o Voi non la Poiché gli
scopi della conversazione sono d'i- Vr^struirsi
o d'istruire gli altri, di piacere o
di per- » siiadere, è cosa
desiderabile che gli uomini in-- »
telligenti e ben intenzionati non
diminuiscano n^vjl potere che hanno
d'essere utili, affettando » d'esprimersi
in modo positivo'^ presuntuoso che »
vi|i9n lascia di spiacere a quelli
che ascoltano,, e » non è proprio che
ad eccitare delle opposizioni' » e
prevenire gli effetti pe' quali fu concesso
al- . uomo Jl.s dono della favella*/ ,
«tr . . r « Se volete
istruire, ricordatevi che un tono af- ^,
fejrmativo ^fi- dogmatico, proponendo la vostra
. . -Ili sapete
; perciocché cortese é amabile usanza
è lo Incolpare M altrui, eziandio
in quello che tù intendi d'incolpaclo;^
anzi<^ » si dee far comune
Terrore proprio dell'
amico, prenderne prima una parte per sè,
e poi biasimarlo e ripren- i>
derlo. Noi errammo la via : e
Noi non ci . ricordammo À ieri
di così fare* ^ome che lo smemorato
sia pur colui A solo e non
tu : e quello che Restatone disse
ai suoi com- » pagni non
istette bene: « Foij se le vostre
parole moìi men' M lono n ;
perché non si deve recare ili dubbio
la fede al- »> tmi: anzi, se
alcuno U promise alcuna cosa/e non
tela » attende, non istà bene che
tu dica: Voi mi mancaste della
•) vostra fede ; salvo se tu
non fossi costretto da alcuna ne-
»♦ cessiti , p«r salvezza del tuo
onore , a così dire : ma se
n egli ti avrà ingannato, dirai
: Voi non vi ricordaste di così
fare : e se egli non se ne
ricordò, dirai piuttosto : Voi non
» poteste ; o Non vi ritornò
a mente ; che Voi dimenUcastc,
» o Voi non vi curaste
d'attenermi la promessa: perciocché »
queste sì fatte parole hanno alcuna
puntura e alcun ve- » neno di
doglianza e di villania ; sicché
coloro che costu- » mano di
spesse volte dire colali motU , sono
ripulaU per- » sone aspre e
ruvide ; e cosi é fuggito il
loro consorzio M conie si fugge
di rimescolarsi Ira' pruni e tra'
triboli. S6ft » proposizione ^
è sempre causa per cui si cerca
di eontraddìpvi'^ e p«r non si^
aicoltato 1» con attenzione. Da un
altro Iato se, desiderando » d'essere
istruito , e di profittare delle
coignizteiii » «degli altri ^ toì ti
esprimete eooie pensona for<- )>
temente ostinata nei suo modo di
pensare, gli 9 MouNAt modesti e
sensibiii che nm amane la H disputa ,
vi lasceranno tranquillamente in pos- »
sesso de' vostri errori. Seguenda un metodo
or-» y> goglioso, raire volt» potete
speme, di piaeefs af » vostri
uditori, di conciliarvi la loro
benevolenza, » e di convincer quelli
cui voi eravate vago di £a9 »
aggradire i vostri pensieri (1). » *
La ragione non lia giammai maggiore
impero che quaodo alla si presenta
non come una legge che si deve
seguire, ma come un'opinione che può
meritare d'essere esaminata ; perciò ne'
crocchi di Filadelfia pagavasi un'ammenda
tutte le volte die facciasi uso d'un'
espressione decisiva.e dogmatica. Gli liQmini
piià intrepidi' nella loro c^rtsasa 4^rano
obbligati d'impiegare le formole del
dubbio, e pren- dere nel loro linguaggio
l'abitudine della modestia^ la quale,
quand'anclie s*|uerestasse alle sete parole,
• (I) L* abate Polignae sapava
presedtave le ime Idee i^a aria
sì modesta e gentile, clieil Pontefice
Alessandro VIU gli diceva: Voi sembrate
sempre essere del mio parerei ma alla
line de' conti é sempre il vostro
che prevale. Luigi XIV, dopo d*avere
ascoltato U suddetto abate sulla
ìiegoziazkme Intrapresa à Boma per le
celebri proposiztoid idei clero Oallleano,
disse : R!l sono Inlratlenuto con un
nomo, e glovìre uomo, U quale mi
ha sempre controddetUi c mi e smifte
piaciuto, / ai* Digitized by
Google 390 ' uno xiMa ^
* avrebbe già il vantaggio di
non offendere 1' altrui amor proj^io,
ma che^ per rinfluenza delle i^aaroie
MHe idee y ém fiiialMefite etftfindent
4mU6 fltetse opkìioai. .Ii6 pmone
gemili sapendo die ralttni wiità
soffre allorché si vede convinta,
sogliono terminare la contesa con una
lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo
icrtet» dall'oppoeisimd, eh0 El- lero offendere
il loro antagoniata,. che non si,
van- tano 4Mla vktona» . § 4. C&a^imazi(me
dello stésso argomento. ■ Siccome
T ombra sola della pretensione offende
Faltmi amor proprio, perciò i titoli
di vano, su- IUrbò, anrogantef tallita
si regalane a tollo^ a torto si
dichiarano offensive le giuste ragioni con
cai l'Qinocenza e il nierito rivendicano
i loro. diritti. Costretto non di rado Tuomo
grande ad imporre silenzio air orgoglio
soperchialore , £a conoscere dè di* egli è,
sbalza nella tua possa e torreggia
dinanzi alla mediocrità impertinente che
vorrebbe avvilirlo. a Di modestia »
Tempo or non è, voce d*oner
n'appella. » Infatti la vera modestia
è eome la vera bravura, ÌJ
quale non oltraggia giammai, ma sa
rispingere gli oltraggi y fuorché quelli
che. li fa non sia vile à segno
da non meritare che disprezzo. Chi
avrebbe potuto tacciare d'arroganza Cicerone,
allorché, tot- nato dall'esilio, pregiavasi
d'avere salvato gli Dei del Campidoglio,
il Senato dalla vendetta di Ca-
tilina, il popolo dal giogo e dalla
schiavitù ? Non era egli giusto
che mostrasse a'suoi nemici il suo
Dome cancellato , i suoi, monumenti
distrutti, la, sua casa demolita, e
c6l peso della sua gloria gli
opprimesse? I^aseiando da. banda il caso
assai rara di Cice*«- ronC) e
consultando la giornaliera esperienza, ve-
dremo che ì^Uoìtdi.. l'esternare giusto
sprezzo per gUr aUH e giusta sHtim
pctsé^ è gittstij^ato, ^al- r
altrui insolenza (1). • . . Gbe
cesa dite di quelH ohe scrivono la
propria vita? Il severo Tacito non ha
osato fare rimprovero a parecchi' famosi
ingegni dell' antichità, che le loro
gesta pubblicarono, non per ostentazione e
({) Un prelato cortigiano, il cui
merito consisteva ne'suoi avi, ccedevasi
disonorato vedendo in Flechier un
confratello, che Dio aveva fatto
eIoqu$inte, caritatevole, virtuoso, ma non
gentiluomo : egli era ^sorpreso che
Fléchier fosse passato dalla bottega de*
snoi paventi affa ^e tescovfle , ed
èMie r impertinenza di dirglielo :
Con questo modo di jwmare^ ri- spose
il vescovo di Nìmes, temo assai che
se voi foste nolo f ai posto m
cui io aono^ rum ne feski disceso
far delle eandéU» Anche H «lareseiallò
de la Feuììtàde, tanto più soper-
cliialore con quelli che credeva
inferiori a sè , quanto più era
vile alla Corte, disse al sullodato
Flechier, eh' egli non' era a' suoi
ocelli che un meschino borgliigilino di Nimes,
e SQg^nset Gmmdt» ehs vostro padre
sarebbe 6m sér^ preso nei vedérvi dà
che voi siete. Forse men sorpreso che
non vi sembra^ rispose il prelato,
giacché non il figlio di mio padre^
ma io^ fui fatto vescovo. — Il
diritto di difesa giustificava questa
risposta; poiché l' alta opinione che
U buon vescovo mctetiava di sè, oltre
d' essere fondata sul veiO} ten« deva
a reprimere un ioigjusto
8pcegio« arroganza ma p«r quella tonfideasa the
.la 'pvobità inspira. Alfieri* che ci
ha lasciato. la sua vita confessa candidamente
che il parlare e molto più lo
scrivere ^.^i se sl^esso nasce da
molto amor, di se stessa. '^ìkipo questa
ingenua confessione rautece giustifica * la
sua condotta nel modo seguènte: '^-Avendo
ia oramai scritto naolto, e troppo
pià » forse che non avrei dovuto ^
è cosa assai nàtu- * » rate che
alcuni di quei pochi a chi non
saranno » dispiaciute le mie Opere (
ée non tra' miei con^, » temporanei,
tra quelli almeno che vivran dopo ),
» avranno qualche curiosità di sapere
qlial i<^ mi » fossi. Io ben
posso ciò credere , senza neppor »
troppo lusingarmi , poiché di ogni altro
autore 1» andie minimo quanto ad valore
, ma voluofiinoso » quanto alle opere
, si vede ogni giorno e seri- n
ver^^e leggere^ q vendere almeno la
vita. Ondo^ » quand'anche nessun' altra
ragione Vf fosse ^ è )».jQ^^pur sempre che,
morto io, un qualche » lyÉsJo peir
càyaore alcuni più soidi da una nuova
edizione delie mie opere, ci farà
premettere una » qualunque mia vita»
£ quella verrà verisimil<* » mente
scritta da uno che non mi aveva
o niente » 0 mal conosciuto, che
avrà radunato le materie » di essa
da fonti o dubbi o parziali; onde
co* » desta vita per certo verrà
ad essere, se non » altro, alquanto
meno verace di quella che possa dare
io «team; E ciò tanto più, perchè
lo scrit« » t<(^ a soldo
dell'editore suol sempre fare uno »|,smto
panegirico dell'autore che si ristampa^
sti^ » mando amendue di dare così
pià ampio snriercio » alla loro comune
m^canzia.; L'illustre Alfieri adunque, a ragione
persuaso che il suo iiome sarebbe
grande ^ucbè restasse scintilla di ;gusto
sul nostro globo ^ scrisse la sua
vita, acciò Aa stolta e mercantile
adulazione non venisse presantata ai postai
sotto falso aspato. ' Questa difesa
è modesta nel tempo stesso e sa«
gace. L' auto re avrebbe dovuto aggiungere
« che anche lo spirit o psfrtitp
s'accinge spesso a scri- vere delle vite
o de'romanzi, e di censure è largo
o di lodi ugualmente contrarie al
vero (1). ^ Ossian, diòe Cesarotti,
non ha difBcoItà di far Assentire la
goista estimazione ch'ei possedeva V presso
la sua nazione. L'uomo grande è
sincero; » parla di se stesso come
degli altri, ed è giusto 3»
Ugualmente con tutti. La decenza moderna
è (I) È compftrsaìn Franeia ima
cosi delU SiUtoteca de- gli uomini
viventi ecc. GU ignoti autori di
questa misera- bile rapsodìa mettono i vivi
nel sepolcro , contaoo i morti tra i
vivi , di più individui ne fanno un
solo , squartano un Individuo 10 tre,
C8nd>iano U medica in «rrocato^ lo
stam- patore in consigliere, ll^canieiioe in
arlecchino: raccontano fatti che l' opinione
locale smentisce , citano libri di cui
non conoscono il frontispizio , alterano
le date per creare odio- sità od affezione
, censurano quelli che non li pagano
, ven- dono le lodi a tre centesimi
per jMigina, gindicano ^ af-* lui
coir acume della stupidezza, parlano degH
uomini come ne parlerebbe un Ourangoulangh,
ecc. ecc. : speculazione libraria che né
dà, ne toglie riputazione, perchè nissuno
gua- rentisce nè i fatti, né i
giudizii, ma che può far ridere sin-
ceramente le persóne di éenno, giacché le
persone di senno hanno diritto di
ridere, quando veggono lin' impòsta «icfAi
credulità^ sidV invidia e tuUo $pitii0 di
fmrUio ^ affezioni tanto più pronte a
pagare quanto più. goffe son le menzogne
die lor $i vendono» molto schizzinosa
su questo punto: gli uomini, » non
osando lodarsi in pubblico, si adulano
più » liberamente in segreto, e sì
credono in diritto^ » di risarcirsi
della loro Onta modestia col detrarre'
» alla fama degli altri. Così non
abbiamo guada-* » gnato che virtù
apparenti e vizi reali. » Eccettuati
i casi di difesa accennati di sopra,'
a me pare che il giudizio di
Cesarotti dia in falso; giacché chi
vanta i proprii meriti, in vece di
far^ parlare gli altri a suo favore,
li fa tacere; In vece di farsi
degli ammiratori, si fa de'nemici ;
quindi il dignitoso silenzio della modestia
sarà sempre preferibile: • •
- . ; .ft II merito più
grande è il più modesto. » )
Se facesse d'uopo confermare questa
idea popolare con autorità , sceglierei tra
gli antichi Catone , il quale , a
detta di Sallustio , faceva grandi cose
senza menarne rumore, e avrebbe potuto
dire : a Cedo a tutti in
parole, a nullo in fatti. » Tra
i moderni v' additerei il poeta Despréaux
, il quale, eccitato da un incisore
a far qualche verso pel suo ritratto
: Io non sono sì malaccorto ,
ri- spose , da dir bene di me ,
nè sì stolto da dirne male. §
6. Rispetto ai pregiudizi. I giovani
non conoscendo ancora per esperienza quante
passioni vegliano alla conservazione degli errori
, ignorando che tra gli errori v'
è una for- tissima lega, e tale che
scotendone uno, gli altri si risentono
e CQjrrono in difesa: i giovani, dissi,
Digitized by GoogL si danno a
credere che ogni verità potssa essere ,
sRa- presenza di chiunque proclamata , e
fanno le maraviglie se più ostacoli
le si oppongono. Come inafi ha
(iNDlnto il sensate Bandi riguardare il
ri* spetto ai pregiudizi come un
legame inventato dai eapriccio e dalla
moda? Se qualcuno, entrato in una
moschea zeppa di adoratori di Maometto,
grl-> classe ad altissinia voce che
Maometto era un im* postorcr credete
voi. che farebbe HK>lti proseliti, e
che non verreUe in pezzi dagli
astanti? Ma senza anco voler calcolare
i danni cui si espone ehi spaccia
una verità imprudente, fa d'uopo con-f
venire che, offendendo i pregiudizi contrarii,
non le rende più agevole la strada^
ma più scabrosa. Ella è infatti cosa
difficilissima il convincere un' uomo dopo
che abbiamo offeso ilsuo an^or proprio,
' Se il -sole, dice d'Alembert, ^lene
ad illuminare in un istante gli
abitanti d'una caverna oscura, e dardeggia
impetuosamente i suoi raggi &m loro
occhi non anco disposti e preparati ,
e quindi gli irrita soverchiamente ,
renderà loro per sempre odioso lo
splendore dei giorno , di cui non
cono- scono ancora i vantaggi, mentre
sentono il dolore che loro cagiona.
Se ai contrario introducesi in questa
inverna un debole raggio che per
insensi- bili gradi vada crescendo, si
riuscirà a dimostrare il pregio della luce
, e gli abitanti stessi ne bra*
nieranno l'aumento. Per la medesima ragione
con- viene rattemprare la luce dei vero
, ed aspettare che rintelletto a poco
a poco si sciolga dalle false idee
che l'ingombrano , divenga gradatamente più
forte. I s' abitui e s' addomestichi cpl
nuovo ospite f^he non conosceva per
anco. >^ Pretendere che tutti gli
intelletti ammettano tosto le stesse
verità, è pretendere che tutti gli stomachi
digeriscano egualmente le stesse vivande.
La pulitezza vi fa dunque un
dovere di cono- scere il carattere
personale e la situazione sociale delle
persone che al solito crocchio concorrono ,
acciò le vostre idee ed affezioni non
vadano a dar di cozzo contro quelle
degli astanti , e con reci- proco
risentimento rimbalzino. § 6. F'élo
alle antipatie. Lo sprezzo che merita
la vile adulazione ha in- , dotto
a fare distinto elogio della franchezza ,
e come virtù assoluta raccomandarla. , .
La massima di velare le proprie
antipatie , come quella di rispettare i
pregiudizi, è stata riguardata qual legame
inventato dal capriccio e dalla moda
da più scrittori. Si dice che dassì
prova d'integrità allorché la lingua ed
il cuore essendo d'accordo, le parole
rappresentano i sentimenti. Ciascuno per
altro s' accorge , o sente almeno
confusamente, che se merita sprezzo un cortigiano
che ci protesta stima, affezione, amicizia
, mentre nell'interno dell' animo egli
si ride di noi , merita disprezzo
maggiore un cinico, che senza necessità
viene a dirci: Io v'abbomino e vi
detesto. . Dunque tra la menzognera
adulazione e la fran- i chezza
eccessiva vi debb'essere un mezzo. La
necessità di questo mezzo è dimostrata
da tre ragioni. f i. L'amor
proprio di ciascuno , costantemente avido
di farsi degli amici e degli
ammiratori, age- volmente lusingasi di
ritrovarne dappertutto , e sente in
lui sorgere e crescere il dispiacere
in ra- gione delle persone da cui si
vede sprezzato. ^2. Il dispiacere
risultante dallo sprezzo è copiosa fonte
d'antipatie, animosità, odii , e perciò di
gra- vissimi danni sociali.-Noi c'inganniamo
sovente nell'opinione che concepiamo degli altri
, e più volte siamo costretti a
ritrattarla V senza riuscir sempre a
giudicare più sanamente. Laonde quando alcuno,
giusta l'interno suo sen- timento, dice ad
un altro, Vi sprezzo, è sempre certo
che gli cagiona un dolore , non
è sempre^ certo se colpisce nel vero,
-^y, * Ora, escluso il caso di
necessità, fa d'uopo essere 0 crudele
ò pazzo per cagionare ad altri un
dolore' che ppò essere ingiusto, e
farci un nemico che può riuscirci
funesto. • ^>^^i^V'-Alcuni dicono: Da un
lato v' è sèmpre piacére neir
esprimere i sentimenti quali nascono nel
no- stro animo, mentre si prova pena
nel reprimerli ; dall'altro noi non
abbiamo bisogno di nessuno*f^i . Di
questo raziocinio la prima parte è
sempre vera, ma la seconda è sempre
falsa, finché re^* stiamo nella società.
Voi non avete bisogno di Pietro, e
forse senza danno presente o futuro
po- tete dirgli : Ti disprezzo ; ma
la faccenda non va così con tutti
gli altri uomini. £ntrate in una
conversazione con quella franchezza encomiata
da alcuni scrittori, e presentandovi
successivamente a ciascuno , dite a
questo : Voi pretendete di piacere a
tutti, e tutti si ridono di voi
; — a quello : Voi siete sì
sciocco che m'eccitate compassione; — a
un terzo : Non saprei dirvi il motivo
, ma sento ars avversiófte Contro
di voi, ecc. Se voi così operate^
'mi par certo che tutti s'alzeranno
per cacciarvi' . / fuori della
conversazione a ceffate ; e vi
succederà lo stesso in tutte le
altré. ^^'o^mii ' • ^ • '
La franchezza non consfete nell' offendere
inu^ tilmente l'altrui amor proprio ,
ma nel difendere con coraggio i
dirìtti deWinnanità contro r or- ■^goglio
che li calpesta^ e nel convenire
de'prqpri difetti ed emendarsene. ' •/ ^
,»iliisidu6m;2 In vece dunque di dire
al giovine : Alza il vélo che
copre il tuo animo e mostra a
tutti Podio/ lo sprezzo, la noia, il
dispiacére che in te produ- cono le
loro debolezze e i loro difetti ;
gli dirò piuttosto :; Jpl^; Uflf' lato
sii pronto a compatire le loro
debolezze, dall'altro non crederti infallibile
j ne'juoi giudizi. L'uomo franco può
conservare. il j suo sentimento senza
offendere l'altrui amor prò =5 prio ;
non si deve offendere l'altrui amor proprio
se non in vista d'un vantaggio
maggiore, come nònr si taglia una
gamba se non per salvare la vita.
Mi spiegherò meglio con un esempio: ^
Uno de'confratelli di Guettard lo
ringraziava un giorno perchè questi gli
aveva dato il suo voto 4 allorché
quegli fu accettato membro dell'accadenriia
delle scienze, roi non mi dovete
nulla, rispose il ' Botanico :
s'io non avessi creduto che era
giusto it darvelo ^ non r avreste
avuto ^ giacché io non v' amo.
». Questa risposta , benché lodata
da Condorcet mi sembra riprensibile ,
perchè gratuitamente of^ fensiva. Per quale
motivo cagionare un disgusto e dire,
non v'amo^ a chi viene a protestarvi
un sentimento di riconoscenza.^ Se Guettard.
avesse ,SW' * d(^V Nèl^ire
tt 'mi§^i^ te eoasultù te giù- sUzìa
e niente altro; non ringraziate ddnqiié
me^. ina voi stessè, giicebè se nra
avessi creduto cto lo meritaste^ ndw
?ir«fcMè »v«to ;<catìh riq^^mileaddi^
Gtiettard sarebbe stato^^ franco senza
essere offea- siw é «liand. *
; - - ^ ^ ;
^ : ; • *
• - ■ ' L'abAté S. ae«l
(Aragofift* la indotta 4egH4t9^ mini
nel mondo a quella de' ciechi in uiìà
casa* vàs|sì è ^nregoiare : rj^^iH^^
I più sensati a tentone. Quelita
irregolarità di condotta non succede per
Tapplicarle. Non uscendo dai limiti
deirargomento che jdiscitto^ dirò aduncfue, che
in mezzo a tanti earattefi diversi,
tr«*te-vtóc pMftéser^Ue ^pasaitini^* neK'aod^giQjnento
costante de' gusti e de* pareri , tiatf 'si
eMre 'pericoiè di sbaglio, «dlforicbè
attenlèii- dòsi allo scopo della
conversazione^ che è il rfi* ^rtimento,
si ha riguarda alla vanità di tia^
scuìw, che talvolta è-il prineifmte\08tàiiUù^
fatti, se; nelle botteglie predomina l'interesse,
nelle cooversaÈtoni prevale la vanità, e
I bkdgtii -deila vanità sono anteriori al
bisogno di trastullarsi. ' "La vanità
è più o meno maneggiaste secondo
iindole delle altre qualità eiA f&
trova uffitt ; Mvl^ viene dunque, tener
queste presenti al pensiero per rttrovkre
i bieztl onde adescai qaè)la { o
dmetio iVon irritarla. • - ' '
• . ' . - -
^ 1. Vanità e ignoranza. AUorisliè
la vanità è Hìnalgamatà coH'ignoranza, apre
foreccbio aHé più sciocche menzogne, e
delle più improbabili illusioni si pasce.
L'uomo vano ed ignorante, per es.,
gongola di piacere alle Iodi che voi
date al suo eappello, alla sua giubba
, al suo abito,: mentre un uomo
di spirito ne rimane offeso. .^• 2.
f^anità e riflessione. In questa combinazione
le lodi impudenti, anche desiderandole per
altri fini, dispiacciono: i Romani non
sapevano come contenersi con Tiberio, il
quale non voleva la li; berta e
odiava la schiavitù. A Traiano éfie
aveva Io spirito sodo , non andavano
a sangue le basse maniere e servili
che usava seco lui Adriano. Carlo»
^.V disse ad un adulatore: IVF
accorgo che pensate a me ne' vostri
sogni. , . ,3. Fanità e
viisantropia. In questa combina- .'zlone
la vanità è sì schizzinosa e
bizzarra, che una | lode, benché
veridica, e ravvolta in gentile scorzi
V la offende , amando essa meglio
^ssere contrad- idetta che encomiata.
Infatti egli è un mezzo quasi
infaUibile per conciliarsi l'animo del
misantropo il somministrargli occasioni di
esercitare la sua bile contro quanto
succede, e procurarsi così una specie
^di celebrità, essendo ohe nessuno
maltratta il ge- nere umano se non
per occupare di se stesso il genere
umano. 4. Fanità e sesso debole.
Benché le lodi alla bellezza non siano
vere lodi , ciò non ostante suo- nano
piacevolmente all'orecchio delle donne co- muni,
ed anche degli uomini. Osley, famoso
men- dicante a Londra, fece fortuna
servendosi del se- ,guente stratagemma.
Quando era permesso di men- dicare in
Inghilterra , egli si appostava ove
era maggiore la concorrenza delle persone
di buon tuono; e allorché vedeva
delle donne eleganti, cercava loro la
limosina. Se esse gliela ricusavano ,
Madama , diceva egli all' una , In
nome di questi begli occhi neri ;
all'altra, In nome di questa bella
capellatura ; a quella, In nome di
questo bel taglio incantatore ; a questa
, In nome di que' labbri di rosa;
finalmente venivano le gambe divine, i
piedi leggiadrt, il portamento da regina:
nulla era di- menticato : ed egli
andava a casa colla borsa piena.,
inanità combinata con qualunque sorta di
carattere. La qualità più costante della
vanità in qualunque combinazione di cose,
o sia considerata nell'uomo in generale,
si è il piacere crescente in ragione
delle persone che parlano di lui
senza svantaggio. Un principio d'involontaria
allegrezza scorgerete sul volto di chiunque
, appena gli dite che avete fatta
menzione di lui in tale conversa-
zione; che Pietro ne ha parlato in
tal altra, ecc. È successo un piccolo
urto nell'amor proprio di due famiglie,
il cui rumore non è giunto alla
fine della contrada ? Gli individui
di esse vi diranno che ne ha
parlato tutta la città ; e se
voi mostrate qualche dubbio ivyi^ si dimanderà se siete caduto
dalle nubi: tanto è vero che là
brama d' essere r oggetto degli altrui
pensieri c' induce a credere d'esserlo
realmente, e la supposta esistenza nell'ai:
trui opinione è centupla dell' esistenza
reale : in somma gli uomini in
generale somigliano quel miserabile principe
dominante sulle coste della Gui- nea ,
il quale seduto a' piedi d' un albero
, avente per trono una grossa pietra
, per guardie quattro ISegri armati
di picche dì legno, diceva ad alcuni
-francesi : Si parla molto di me
in Francia ? — Atteso questa forza
estensiva della vanità, ciascuno,
Digitizei. ^2 5«rr».?tlBR0 TERZO 'W'
/ ' spesso di buona fede^
rappresenta la sua opinione^ privata comè
opinione pubblica, di modo che nel
^progresso del discorso vengon affibbiate
al pub- blico cinque o sei opinioni
talvolta contraddittorie sullo stesso argomento.
Conoscendo le principali combinazioni della
va- ;ìiità , e i prodotti sentimentali
che i^'e risultano > saprà il
giovine adescarla con garbo senza com-
promettere la dignità dell'uomo ; ritroverà
il limite che separa la dissimulazione
dalla simulazione, e idalla vile falsità
si terrà lungi ugualmente che ridalla
sincerità gratuitamente offensiva. - Dapprima,
in vece di mostrarsi stupido e silen-
zioso alla vista dell'altrui nierito,, il
giovine ne sar \ pronto encomiatore,
esternando gradi di sti?nu proporzionati
alle qualità utili e lodevoli, asso- ciando
alla stima gradi di rispetto, se di
partico- lari virtù si tratti e di
grandezza d'animo; in tulli i casi
egli procurerà che il sentimento rappresen-
tato da' suol atti e dalle sue parole
s'avvicini ìi quello che gli altri
vogliono ritrovare in lui, non dimenticando
che quando sì tratta di riguardi; e
men male peccar per eccesso che per
difetto. « Sta dunque attento nel
passar del guado,
^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli,
» Da cui scampano pochi, o almen
di rado. » ft ben che in questo
mar la nave sciogliCol rischio a
destra ed a sinistra, ancora :^ »
Salvar ti puoi, se il mio consiglio
accogli. . ^ Va per la via di
mezzo, e se pur fuora ^.;»vDel relto
calle fantasia li mena , .» AH
pilo, e non al basso tien la
prora. » ' PULIIBUA MAQUIS .
383 d'avvilirsi^ isostràndosi indulgente
alle umane de- ^lez29e, aUoìr«][iè nmaa
dmm ne risulta^* EUa^Mftì isdegna A
tendere agli altri tachè dì più di
quel,c^e hanno diritto d'esìgere, sapendo
ejie nel com* smercia < deUa vita
cU ai ostinàsae^ a coVmmr^ gli uonuni
nel loro vero posto, correrebbe pericob
di ppjRsi ia coi^esa eoja tutti.
>Le aote anima ficoole^
jpqttìtfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando
come furto fatto a se stesse lutto
ciò (^p c(NM«doiif^ figli aitai >
Ungotìé goolàùiaf^^ là tfiiancia in mano
per pesare a rigore ciò che 4«!^oiiq|
fat^f^iiidaie o musare : é sg^s^
sotto pr^ testo di non degradarai, si
im»lmiio*iiliiv^tlaeif|i .(^io^Q usfmli eà
inferiori (1). ^ ^ ; (I)
I Lacedemoni, che- neri peccavano per
eccesso di bas- sezza, hanno lasciato
un beli' esempio dell' indulgenza che
si debba alla follìa de' grandi.
41e^s^"^^o ^^^^ piccolis- ^iiaio, qMlido
péélèadava drenare figUo 4i Giove, e
JHo egli stessè, ^ireeheper Melo
rieooosotaeiDo tutti gU 8ta(l.éella Grecia
: in occasione dì queste pretensioni
i Lacedemoni fe- cero il «eguente decreto,
veramente laconico ~ Poiché Ales- saneÉto
vuol essere Dio^ che lo sia. '
. Attai meao ladolgeiito si moslflò
FilosseiMr een Dioiiigi fttotteo. Questo
ttasniio, peidiè era vètf laceva de*very,
pre* tendeva al vanto di pòela. Ef^li
prff^ò un giorno Filoss^ne a correggere
una sua opera teatrale; e questi,
avendola rap- pezzata e rifatta 4al primo
verso air^Himp, il re lo con- dannò
alla lettere, ^acciò- fi Imipamse a rispeltase
ia regia pc^la. li giómò sussegnèiYte^
tra(toìòdi cacGasKe,^K>'amiiiis8 alla sua
mensa, e liniio il pranzo, dopo
avergli fettOfaleciDl versi , gli domandò
il suo parere. Il ponila , senza
rispon- 384 iV?^ Raccomanderò finalmente
ai giovani di non imi- tare la vile
e perfida condotta di coloro che lo-
dano alcuni collo scopo di denigrarè
altri. Ih ciascuna carriera alcuni
personaggi distinti occu- pano gli sguardi
del pubblico : cbe cosa fa V
in- vidia per defraudarli ? Suscita loro
de'rivali, colma di lode degli imbecilli
che appena hanno il senso comune, e
si sforza di ripeterne i nomi,
acciocché il pubblico s'induca ad occuparsi
di essi e dimen- ,/tichi i
primii -^^Nel corso della giornata si
riproducono ad ogni vistante de' casi ,
ne' quali alla sola azioiie d'inno-
cente lode si può ricorrere per
conseguire l'assenso di alcune volontà ,
e diminuire la resistenza di altre ;
perciò ad esercizio de' giovani soggiungo
i seguenti problemi, ciascuno de'quali
ammette, col dere, si rivolse alle
guardie e disse loro: Riconducetemi in
ctarcere. • ^' ^f**^ -^u ^. •> i
Un uomo ^11 «pirilo nel case di
Fllossene sarebbe uscito d* impaccio con
una celia. Infatti la condotta di
questo poeta sarebbe ammirabile, se si
fosse trattalo d'una cattiva legge od
alli-a operazione daivàosa al pubblico ;
ma scegliete jl carcere pcrclié un
Uranno vuol essere poeta, é paizrja.
' Maggiore imprudenza commise rarchitelto
Apollodoro , il quale, sapendo quanti> l'
imperatore Adriano era avido dì lodi,
criticò un di lui tempio in modo-
un po' burlesco , os- servando cbe se gli
Dei e le Dee si fossero alzale
in piedi , si sarebbero rotta la
testa nel soffitto. Questo scherzo gli
costò lii .vita. 11 quale fatto Ù
dice che i coltivatori dozzi- nali delle
belle arti hanno una vanità atraordinaria,
supe- riore a qualunque sentimento^ e
capace di sacrificoì'c la slessa amicizia, mezzo
della lode , soluzioni indefinite nelle
varie circostanze sociali. ' - ^
1. Disarmare la collera. . ...
.^.( Aureliano faceva rimprovero a
Zenobia , per- chè non aveva riconosciuto
gli imperatori romani ; la principessa
lo calmò, dicendogli : Io riconosco
voi per imperatore , voi che sapete
vìncere : Ga- lieno e i suoi
pari non mi sembravano degni di
questo nome.) (1) . , 2.
Addolcire l'amarezza d'uri rifiuto. '^ ^
( 11 gran Condè, pregato dalle
dame di lasciarle uscire da Vezel
ch'egli assediava , prevedendo che Ja loro
uscita ritarderebbe la resa della piazza,
ri- spose che non poteva acconsentire ad
una dimanda che del più bel frutto
del suo trionfo lo prive*, rebbe. )
. • , * Accrescere
pregio ad un favore.' ( Luigi
XIV nominando al vescovato di Lavaur
Flechier, che predicava alla corte, gli
disse: Vi ho fatto aspettare alcun
poco un posto che meritavate da lungo
tempo, ma non voleva privarmi così
presto del piacere d'ascoltarvi. ) "
' 4. elare il lato offensivo
d'una verità. ( Despréaux interrogato
da Luigi XIV sopra alcuni versi da
lui composti: Sire, rispose, nulla è
impossibile a Vostra Maestà : ella ha
voluto fare de' cattivi versi, e vi è
riuscita. ) . ^ , /
(I) Un soldato francese si faceva
chiamare col nome d| Turenne, celebre
maresciallo di Francia: quesU mostrò d'es-
serne ofifèso: il soldato rispose: Generale,
io sono invaso dalla gloria de*nomi:
se ne avessi conosciuto uno più bello
del vostro, l' avrei preso. . / .
22 1 386 ZiIBBa ISBZO
* • . § 8. Continuazione
dello stesso argomento. ' L'uso della
lode è ragionevole finché, fondato *
sul vero o verisimile , è stimolo
o ricompensa ai talenti, all'industria,
alla virtù. i L'uso della lode
è riprensibile quando o fondasi sul
falso , 0 di gran lunga oltrepassa
la misura del merito encomiato, e
allora dicesì adulazioìiél * Vi sono
de'Iodatorì eterni, i quali non vi
danno una lode fuggiasca e dilicata ,
ma vi inondano e opprimono d'elogi;
e ciò per ogni inezia, ad ogni
istante, alla presenza di qualunque persona
; • cosicché se non rispingete
le loro lodi smodate, acquistate taccia di vanità ;
e se le rispingete, essi '. le
replicano con usura , e per così
dire non vi in- censano, ma vi danno
il turibolo nel naso. ^ * Tre
caratteri distinguono l'adulazione dalla lode
' ' ragionevole 0 meritata:
! I. L'adulazione cambia i vostri
vizi in virtù; ^ m||||( 2. Ella
vanta in voi delle qualità che non
avete ; 3. Ella innalza eccessivamente
quelle che avete ; « .... Nel
mentire esperto, * » Maestro in
adulare , egli senz' onta V Chiama
faconda indotta lingua , e bella I
* " » Schifosa faccia ; un
sottil collo e lungo I )) Agguaglia
a quello d'Ercole, che innalza I
. » Di terra Anteo; magnifica. una
voce ) • » Stridula e chioccia
qual d'irato gallo » Che alla
mogliera sua morde la cresta. •
» L'adulatore adunque - I
I Digitized by Google È
un ipocrita che finge &entimeoti
c^^ptmru a qutìlìi ohe cg^ ffi^U'
animo ; ^ Z m vile - «
Buffon , perpetao l^ioMM' di eaptf «,
* » * die trama ai cenni
del rìccOf e Ib.ecQ ai detti deUd
persgy|;iefiu viziose i % wó
soroccatore cl)e.)dà .menzogne per fitleoi^rj;
vantaggi personali (1) ; É un
ladro che toglie alla virtù r.eiicomio
ehe profonde al vizio; £ un
infame che » io^i^^^^i^te ali' onore
» non teme il pubblico disprezzo;
L infamia delPadulazione cresce in
ragione della pubblieU^ ddta aUe lodi
menzognere. Pera colai che sa malnati
fogli « Famelfto eerifter vende sue
lodi, » E d'aura popolar Talme
rigonfia. » Sid labbro a lai le
venenate tazze » Vota menzogna , e
Favvilito incenso » Onde frodonne di
virtù gli altari , » La lusinga vénal
pria^nde a Itti ; » Che col
prestigio d'un error che piace 19
Cangia il ?izio in virtù, traiforma
in mmie » T» Ignoranza , follia ,
viltade, e mira » Sorger Tersità emulator
d'Achille ^ » E nn Sfida infame
in an Traian rivolto. » (i)
Allorché Filippo di Macedonia divenne
guercio, il cor- tigiano Clisofo usciva di
casa con un empiastro sulF occbjo, e
si traeva dietro una gamba allorché
il re zoppicava per una lecita. Sono
arcìpochissimì quelli che facciano sforzi
per acquistare le qualità che loro
mancano allorché vengono accertati che le
posseggono ; e meno sen- tono stimolila
salire ad alto grado di gloria se
quelli che li circondano dicono loro
ad ogni istante che sono giunti alla
cima. Si può asserir anco che più
personaggi potenti non divennero tiranni se
non perchè fu fatto lor credere che
tutto era loro dovuto , e che il
loro rango scusava qualunque colpa
potessero commettere. , y^-
Da un lato essendo utile l'uso
moderato e ragio- nevole della lode , dall'
altro non essendo difficile d'essere
tacciati d'adulazione , perciò ricordecò la
regola dì Montaigne, il quale , nel
lodare le virtù e i pregi reali
de' suoi amici , compiacevasi bensì
d'esagerare alcun poco, ma limitavasi a
cambiare un piede in un piede e
mezzo : secondo Montaigne adunque il
rapporto tra il merito e la lode
che possiamo tributargli, non deve
oltrepassare il rap- porto di uno ad
uno e mezzo. Quindi pria di
profondere lodi dobbiamo esami- nare le
qualità delle ji^rsone ; e se ci
accade d'es- serci per bontà o generosità
d'animo ingannati, non essere restii a
ritrattarci. — ^ Squadra ben
ben Tuom che commendi, ond'onta » De'
falli altrui non ti rifletta in viso,
w Diam talor nella ragna ,* e
ottien l'indegno M Da noi favor;
dunque la man delusa « Sottrai da
chi va di sua colpa onusto. »
; GOO Delicatezza animo. Si' dic0
delicato oa fiim aUovcbè al ooniatto
' d'aurà un po' pungente s'attrista,
e al raggio me- ridiano piega ti capo
suUo stelo. Pèr drantMre quanto è
dUiaiad r onora dette donne, lo
parago;iiaDao a terso cristallo, i,
' * « :A debìl canna y »
Ch'ogn'aur9 mchina, ogni respiro appanna
Si ,ah)ai;pa animo dilicató quello
che alle tnioime seai^kKÌon|,m&raUj^iK^ od
a vanjia^o aly 4rui si risente.
\\. pi^Q 4^, essere bontà d'animo
senza de. Rcatezzas ^ uoma ìytiòno vi
&rà tosto il piae^ ^ebcgli domandate
: un uomo dilicato farà dì più;'
egli Vif risparmierà la peqa 41
domandare,, e éa^rà tenere segreto il
beneficio. Vi può essere giustim
Sj^nza^ delicatezza : un uomo giusto
difenderà con calore i vostri diritti
nel consiglio: un uomo dilicato difenderà anco le vostre convenien^, e s'
affiretterà a .spedirvi la Booi^ del
felice enccesso. La delicatez^ d'animo
è un misto di speciali qni^ità e'si
manifesta coi caratteri di esse, ^esie
.qualità sono le seguenti. Finissima
sensibilità. 1 generali Ateniesi a '
Maratona, ecc^itati dall'esempio d*ArÌ9tide ,
cedet- tero intero a Milziade quel comando
che gionial- mmte^ed a vicenda toccava
a dascuno* Milziade, acciò la vittoria
che lusingavasi di conseguire non fosse
cagione di rincrescimento a qualcuno de'ge-
9erali, spinse la delicatezza al segno
da non dare la faiOtagli^ che
giorno ia cui gli dpparlBomirjeoinandd.
«iW^^^^h-T^ % Cemdido disinteresse. Nelle
cose di.seasibite vitloree boa hm^wYv^laà^fe^^^^
kk^eosa offerta e Ja cosa (zccettata.
serve à misurare la' delicatez;uhi [wgìio
àir^ che è t^Qto < aiaggMtr^ Jid
dftlieatez» quanto è mifiore raccettazione
a fronW deirofi^rta^ Neirampiezza del
terreno che i Mitl- l^nesi offerserb
a Pfttaco« loro cooeittadiao» la ri^' compensa''
averiò per la repubblica acquistato, non
accetto egli fuorché io spazio che
perocMrsa un dardo per esso lanciato.
E tra ta iikunifiteàza de* doni che
il console Postumio mise avanti a
Marzio per ncojfj^seiaieiUo del sjao
vatoré, idtro non volle il generoso
romano ch0 un prigionièro col quale
ebbe comune l'albergo, ed un eavallo
da guerra di cui potesse natile -biittaglie
^sl^irvirsi. ÀU'opposto non si vedé ombra
di ^éélloiieas net ée^ guente fatto.
Il sopranlcnclente delle finanze francesi
BuUion , nel ^640 fece battere a
Parigi i primi luigi che comparvero
in JPrancia; e avendo invitato a
pranzo cinque nobilissinù •signori/ fecfe
postare A deueré .^6 badll' pieni di
i|uesle wm, specie, e diése loro di
pMnd^è quanto ne VolévatfO; Clàacun signore
si gettò avidamente sopra questo nuovo
fruito, ne riempì le sue tasche e
fuggì colla sua preda, senza aspettar
la sua carrozza, di modo che 11
soprantendente rideva di cuore dell'imbarazzo
che ciascun signore mostràva eànoninando.
Io vece di delioateàa qoà vedAwM^ vmssimo'
interesse^ e liiffà y. IndiacSMzione,
giacché ciaseano, di cosa non bisognevole,
accetta quanto gli viene ofiferto e
se ne carica in ragione della
capacità delle sue tasche. V Ne' casi
comuni V indiscrezione cr^^e a misura che
è ptà '^keoìù U vafitaggiù chei'eonkBgue
accettante y^ejiiù grande it danno che
re$ta alt offerente. Vo6ite fierezza. Il
tratto più hello che som- ministri la
3to];i^-)re]^tijKaiiiaate airargpmeittP^ si è il
wgaeaté, se la memprìa noii m*in*
gauna. Roberto, duca di Normandia, padre
di Gu^ gUelmo ll^^tmgttistatore ^
trovaadasi a Xgfitif|tìDQr poli diretto per
Terra Santa , erft eéldbre p# tt
fiv^cità del suo spirito ^ per la
sua a£fai^iUtà t, fi* WaMlÀ sd altre
'vir^^^^^ L^jQipera|M)ré ^ ^ogHo farne prova^
Io invito co' suoi nobili a pranzo
nella «graiijsàla del.palazz^ iniperial^i
quindi^or^inò che tutte lè^ tavd^v é
tutti gli seaniii £MSerd':bQé^patt dagli
altri commensali pria deU'ajr^iì^Q de*
quali prescrisse* clie nissunà A prendlésse
> stero. Giunto > il duca
co'suoi nobili, tutti riccar m^te vestiti,;
avendo os^rvato che gli scandi erano
oecopati, « die nissano rispondeva alle
sue gen* . tilezze, si diresse, senza
mostrare la minima sor- p^^. joè II
4iiniQiO turbamento., veysp jl'una delle
estremità della sala che rimaneva vuota,
si levò il mantello, lo piegò con
bel garbo, lo pose sul pa- ▼imento
e vi si assise sopra, nel che
fa imitato dal suo seguito. Pranzò in
questa posizione colle vivande cl^e gli
vennero polite, dando segno d^lla . più
fèrfetta soddis&zione. Finito ìi pranzo,
il iw» e i suoljaobìli s' alzarono ,
presero congedo dalla ^mpagàrai
nel moda più grasìoso ed uaeiroao dalia
sala colle loro giubbe , lasciando sul
pavi- mento i mantelli che erano di
gran valore. L'im- peratore che ^y^Va
ammirato b tòro condòtta, fa sorpreso
da quest^^ul)imo tratto, e spedì .upo
de' suoi còrtigìani.jal sappUcare U dqcft
iiA il sao. se^ guito a riprendere
i loro mantelli. Andate , a dire
al vostro padrone, rispose il duca,
che i ]!>{ormannì non usano
portar via gli scanni di cui si
servirono a pranzo. — "Questo rifiuto
era delicato, nobile, convenevole e fiero
nel tempo stesso.^ r*- vi—*--^^ "'4.
Gentili sorprese. Il czar Pietro, che
viag- giava in Europa per istruirsi nelle
manifatture eu- . ropee , si fermò
alcuni giorni a Parigi , e tra gli
altri stabilimenti visitò quello della
zecca. Si co- niarono molte monete alla
sua presenza : una di queste essendo
caduta a'suoi piedi, egli la raccolse
e vi vide da un lato II suo
ritratto in busto, dal- raltro una
faRia appoggiata col piede sul globo,
e questa leggenda : Fires acquirit
eundo^ felice al- . Iasione ai viaggi
ed alla gloria di Pietro il Grande.
; D( queste monete ne furono
presentate a lui ed 'alla sua
comitiva. Il czar non potè ritenersi
dal dire : I soli francesi sono
capaci di simili genti- lezze (o.*^'*;2'!!C
-^..rT.'^'' Dopo d'avere^ adombrati i
quattro principali elementi che caratterizzano
la delicatezza dell' a- nimo, passiamo
ad osservarne' qualche combina- zione.' *
\ *vV v. "v-;-* -
r (I) Lo spirito vivace e la
pronta sensibilità di questa na- zione
rendono T uso delle sorprese gentili
men raro che al- trove, anche nelle
basse classi sociali. Dopo la battaglia
della Marsalte, vinta da CaUnat, egli
passò la notte sotto la sua tenda
alla testa delle truppe» Trovavasi egli
in mezzo alla gendarmerìa e dormiva
inviluppato nel suo mantello. I gen- darmi,
che avevan presi ai nemici 28 stendardi
, immaginarono di circondarlo di quesU
trofei: gli altri reggimenti portarono essi
pure gli stendardi conquistali. 11 giorno
comparisce : Catinai si sveglia circondato
dai trofei della sua vittoria , e
salutato dalie acclamazioni dell' esercito.
* . V%Mm
Waniniù diHcata sa mggeHrìs de* vtm*
sigli senza mortificare V altrui vanità y
ad imitew zione di Livia , la quale
gettava , per così dire , a e^w nella
convèrsazione delle fdee trtlK ad Aogostò
senza che egli s'accorgesse ch'ella aveva
più spirito di lui. . # .
Non suole offrire alta per rinfacciare
penuria^ contento di mostrare la sua
disposizione a chi volesse approfUtqme*
Nelle poe«e d'Ossian^ men* tre Gaulo
viene circondato da Svarano, Fingal s'alza
ma non si dà fretta d'accorrere; egli
non vude rapire a Gaulo l'onore di
rimettersi e liberarsi dal nemico ;
troppa sollecitudine sarebbe stata un' of-
fesa alfa sua gelosa delicatézza su* questo
pùnto. ' Egli sa coprire il soccorso
con qualche p7 etesto plausibite^ e
all'idea sì mortificante della Kmosìnà sostituisce
quella d'un credito, d' un compenso, d'un'
indennizzazione, d'un onorario (1). '
* (1) Eccone alcani esempi: Un
sigDoi»! per mr 'eampd di benefleare
un aVvooatò miserabfle, ed aUonlanare dal
suo animo l'idea umiliante del soccorjK),
lo consultava $opra cause immagiaarie, e
pagava largamente i consulti. 2.
AJCcesUao visitando il suo amico Ctesibio
ammalato, e vista la sua Indigenza,
trovò modo di cacciargli destramente sotto
II capeuftle U denarb che abbisognavagll.
5. Il signor Dubois all' epoca
del terrorismo in Francia, essendo stato
destituito dalia sua carica e rinchiuso
in pri- ^one, il botanico (^ll^ei^t
portò ciascun mese, e finché durò Uk
detenzione,. alla fl^posa dell' amico detenuto^
la metà del proprio onocario , acclorcb',
ella non sospettasse la desti- tuzione del
marito , e non iscoigesse tutto il
pericolo cui rimaneva esposto. Facendo de'
benefica , egli si guarda dal ram- mentarli
sì perchè aspira al piacere delle belle
anime , non a quello dei despoti
; sì perchè sa che la ricordanza
de'beneiizi riesce gravosa al be- neficato.
CiLstode deW altrui gloria y e
quasi dimentico della propria y si
trova infinitamente lontano dal più vile
di tutti i sentimenti , F Invidia Che
d'altrui ben, quasi suo mal, si
duole. » Allorché Ulisse e Diomede
ritornano dal campo troiano, conducendo i
cavalli di Reso e riportando le
spoglie di Dolone, Ulisse, che poteva
dividere col suo amico la gloria di
questa spedizione, si fa un dovere di
lasciargliela intera : egli racconta
minutamente tutto ciò che fece Diomede,
e nulla dice di se stesso.
Dimenticando ch'egli ha dello spirito ,
sa far valere quello degli altri, ed
incoraggiare il merito nascente talvolta
timido, si perchè non crede che possa
essere offuscata la sua gloria , sì perchè
si regola coll'idea del pubblico vantaggio.
Apre r animo a tutti i sentimenti
che ingrana discono la natura umana ,
e vorrebbe pur chiu- derlo a quelli
che la degradano. Egli sarebbe slato
buon credente in Grecia ove si
divinizzavano gli eroi, miscredente in
Egitto ove si divinizzavano gli animali.
Riceve con riconoscenza gli altrui
avvertimenti anchè quando offendono il suo
amor proprio, e ne profitta, mentre
le anime piccole e grossiere ingrognano
e riguardano come nemici quelli che
additano loro i mezzi per divenire
raigliori. S#S buisce a
virtìt, collo scopo di ravvivarne l'imagioe
e promoverne resecozione (!)• Ltmgi
dal brigare sotta mano là carica del
sm amico i egli è disposto a
rinunziare ad una pen^ sione a
vantaggio di chi la merita più di
lui (2). Proporziona la riconoscenza
non al beneficìoy ma air intenzione
di chi V eseguì, nè crede che
cessino i suoi obblighi se ìì
benefattore cKvièhe sventurato. Egli è
penuaso che la rottura deW amiditAa
non Vautorizza a manifestare i segreti
che furono affidati alla sua onoratezza,
e non vuole screditare la sua
causa con un tradimento, come fu
detto a suo luogo. * Costretto
a correggere qualcuno, egli nùn lo fa
alla prssenza di estranei, e quando
può ^ il fa a quattr'occhi ; sa
anco condire la correzione con lodi.
che animano, in vece di ricorrere a
{i) Dopd Ta tn?6«n dèUa fertem
di SoltneU'riainiflt, nid 4657 , ì primi
soldati che entrarono nella piazza avendovi
ritrovato una bellissima donna , la
condussero al celebre maresciaUo di Turenne
come la parie più preziosa del bol-
lino. U maresciallo, fingendo di credere
che essi altro scopo non s'avessero
proposto che di sottrarla alla brutalità
de' loro compagni, il colmò di lodi
per si onesta condotta , fece quindi
ricercare il di lei marito , e gli
disse alla loro pre- senza: Voi dovete
alla morigeratezza de' miei soldaU l'onore
della vostra sposa. (2) Dugnay Trouin
, dopo una campagna gloriosa nel
1707, ricusò una pensione che II
ministro voleva dargli, ma la dimandò
e V ottenne per Saint- Auban, ^uo
aiutante, ciie aveva perduto una coscia
nella steslsa campagna. t è
f4i. villanie che avviliscono. Egli
procura di scemare la colpa attribuendone
parte alle circostanze ; e per
eccitare la voglia del ravvedimento^ ne
lascia intravedere la speranza. Egli dice,
per esempio : .<(. Nissuno di
quelli che vi conoscono e vi stimano
') vi credeva capace di tal errore,
ed io meno degli » altri. È
vero che i compagni sorpresero la vo-
» stra buona fede, o l'impeto della
passione v'ac- » ceco, ma io sperava
di più da quella perspicacia » e
forza d' animo di cui ci deste tante
prove, e ^> che certamente non è
estinta ; in somma Y er- » rore
è indegno di voi. Come mai non
vi cadde » in mente che esponevate
i vostri genitori alla w taccia d'
avervi istillato cattive massime ? Do-
» vranno essi cogliere disdoro dove
speravano lode » ed onore? I vostri
amici che tentano di nascondere il
vostro fallo , accertano che ne sentite
w profondo rammarico : Vorrete voi
smentirli ? » Dovrò io accertarli che
s' ingannano ? >^ ecc. Vuomo
dilicato^ nelle contese co^nemici sdegna le
vie segrete , le quali , essendo favorevoli
alla calunnia e alla frode , sono
preferite dalle anime vili Non abusa
della vittoria perchè non v'è me- rito neW
abusar del potere^ e v' è viltà
nell'in- sidtare i cadaveri. li Son
frmvde ncque occuUis^ sed palam et
armatum populiim romanum hostes suos vlcisci
, diceva Io stesso Tiberio. Achille,
che fu da Omero divinizzato , insulta
Ettore moribondo, e gli protesta che,
in vece d onorata sepoltura , Io
farà pasto de' cani. Dopo che Achille
ha attaccato egli Digitized by
Google i /V fl sentimento della
vendetta confondendoci coi bruti, egli si
sforza sempre di reprimerlo, perché, ^
.ogniqualvolta il può, vuole distinguersi
da essi. Egli tenta quindi di
soggiogare il nemico più ^ colla
generosità che colla /orsa i' pffl
'<H)f menti nobili che con atti freddamente
feroci ; é . neri può reprimere
il sorriso dello sprezzo alla vista
di chi aspira alla gloria del
carnefitcefi — r S varano nelle poesie
d'Ossian è vinto da Fingal: ^ la
condotta e i discorsi di questo ,
l' artifizio cgrtV cui s'insinua nell'animo
del suo nemico, sono e-r qualmente
ammirabili. « Poteva Svarano esser esa-
cerbato verso di Fingal per quattro
motivi : per ' » l'inimicizia
nazionale degli Scozzesi e dei Da-.., ;»~'nesi;
per l'inimicizia personale tra lui e
fingal » per la vergogna della sua
sconfitta; e per desi- derio di
risarcirsi. Fingal prende a superare tutti
-^^ 0» unesìi ostacoli colla nobiltà
de' suoi sentimenti./ ^» Comincia dal
primo, e mostra che le guerre delle
loro famiglie non venivano da un odio
ereditario, » ma da una gara di
gloria , e che anzi esse da »
principio erano amiche e congiunte. Passa
indi » ad allontanargli dall'animo l'idea
della vergogn ch'era il punto più delicato
e più necessario ; e .» f^ì\iì
grande elogio del valore di Svarano,
|n- V '■■rslesso
il cadavere d'Ellorc al suo carro,
dopo die Io ha strascinalo tra i sassi
e il fango, sferzando a più non
posso .1 suoi cavalli^ dopo che ne
ha fatto il più feroce strazio ,
il poeta viene a dirci' » Ch'ei
non è ^lollo, nò villan, né iniquo
il suo eroe 11 ! ; * j^v,
• • • ^ 198. v dicando
che nel suo spirito egli non ha
perduto V^Al^iuUa dell'antica sua gloria.
La lode non è mai \ « più lusinghiera
quanto in bocca d'un nemico, i ^
f Riconfortalo l'amor proprio di Svaranp
con que- •:^.filo calmante, Fingal mette
in uso ì modi più *^ >>
blandi. Lo chiama delicatanriente fratello
d'Aga- nadeca, per destar in lui
Sentimenti teneri ed amichevoli coll'imagine
d una sorella amala non ij^rjf^^^no
da lui che da Fingal. Mostra che
sin dal ^ » tempo di quella,
egli avea concepita molta pro- ))
pensione per lui, e gli rammemora la
prova sen- /^h sibile che glie ne
diede in quella occasione. Con •
> ciò égli induce Svarano a
vergognarsi di con- . .^^^seryar odio
e rahcore con una persona che già
;s;3i;:da gran tempo 1* avea provocato
in affetto e in ..p benevolenza.
Finalmente mette in opera un tratto
di generosità singolare che doveva espugnare
l'a- .:;t4.oimo il più indomabile. Svarano
era vinto : Fin- gal era padrone
della sua vita e della sua libertà.
• >»^« questi si scorda della
sua vittoria ? suppone ^,>) (:he
Svarano sia libero come innanzi la
battaglia, jfc)»/^- propone, per soddisfarlo, un
nuovo cimento personale, come se il
passato non dovesse deci- -jf^' dere.
Svarano non è un nemico vinto ,
ma un ospite nobile a cui si
desidera di far onore^ A ;d tanta
generosità Svarano s'ingentilisce, e la sua
V ferocia si va cambiando in grandezza. Svaran,
disse Fìnga], nelle mie vene »
Scorre il tuo sangue : le famiglie
nostre , » Sitibonde d*onor, vaghe di
pugne , jj w Più volle s*aCfronlàr,
ma più volte anco - W^iti n^^l^
cqnv.ersa:;>ioni . § 1. Cohcorrenza
superiore alla capacità " . y'^^ :
'del locale, ' *JL. '
\ * ' j I • <
Invitare più persone dl qiiel che
possa compreu dere il locale , è
invitarle ad essere soffocate dal ^ (ialore
, a restare in piedi con sommo
disagio , a i non i^ssere servite se
h<innQ^ sete , ecc. Quest'\jsQ *
.'X Festeggiarono fnsiéme , e Tona hU'
altta . ' * . W " •
V i • ospitai cortese dono.
^^^À ^ '^l^^j^ Ti rasserena dunque
, e tiel tuo voltò' - '^f »
.f^-V ^' » Splenda letizia, e alla
piacevol arpa-Apri rorecchio e '1 cor.
Terribil fosti ^ ^ iij » Qual
tempesta, o guerrier ; de' flutU tuoi
' . i> Tu sgorgasti valor; l'alta
tua voce » Quella valea di mille
duci e mille. • » 'Sciogli doman
le biancheggianli velCj;' 'Pt^lu^'^w Fratel
d* Aganadeca ; ella sovente •* ^
» Viene all'anima mia per lei
dogliosà ' /J^ ' . Qual sole
in* sul merìggio: io mi rammento. Quelle
lagrime lue ; vidi il tuo pianto. Nelle
sale di Starno , e la mia spada
òt^ » Ti rispettò mentr'
io volgeala a tondo • -
« Rosseggiante di sangue, e colmi
avea » Gli occhi di pianto, e
'1 cor ruggìa di sdegnò^J ^
»> Che se pago non sei,
scegli e combatti : \x
' » Quell'aringo d'onor, che i
padri tuoi ' ^ »>
Diero a Tremmor, l'avrai da me :
gioioso ...^ (; » Vo' che
tu parta, e rinomato e chiaro Siccome
Sol che al tramontar sfavilla, n
regna in Inghilterra ne' così detti
routs 0 grandi conversazioni. — Una
signora sceglie una giornata ^ .
" in cui terrà un rout. Ella
spedisce de'biglietti d'in-;. , - .-^vìto
a più centinaia di persone, non
perchè sono suoi parenti, suoi amici,
suoi conoscenti, ma per^, chè le ha
vedute, e. perchè la loro presenza
acqui» • • sterà credito alla
sua assemblea. , . « .
.un vano * » Secreto
genio femminil che gode >» Di
un numero maggior, non sceglie i
buoni, Ma tutti accoglie, e popolando il foco.
D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando
li piacer. Pria delle 11 ore della
sera (il clie si chiama il momento
dell'alta marea )^ la casa brulica di
persone d'ogni rango e d'ogni sesso.
Si pongono \ i tavolini da giuoco
in tutti gli angoli della casay e
tanti in ciascuno quanti ifc può
contenere, la- , sciando appena spazio
bastante onde i giocatori possano passare
o sedersi. Il caffè, il tè, la
limo* nèa circolano negli appartamenti. ^
La confusione è la vera essenza
d'un rout. Una dama che tiene queste
assemblee non consulta la capacità delle
sue sale, ma la lista delle persone
.. di buon tuono. Elia invita sempre
più persone di quel che possa
ricevere ; ella si compiace degl'in*
convenienti della stanchezza, del rumore,
del ca- lore con tanta soddisfazione, con
quanta un attore ' ascolta i gridi
e il fracasso degli spettatori che
assistono ad una scenica rappresentazione
destinata a suo beneficio. Gli sbagli de'
servi, la perdita di qualche gioiello,
le ripetute esclamazioni buon Diot come
fa caldo! sono vicino a svenire!
riescono estremamente piacevoli alla padrona
di casa. Non manca nulla alla sua
felicità s'ella viene a sapere \ che
v'ha tumulto nella strada, che I
servi d'alcuni Pari si sono battuti^
che de' cocchi si sono spezzaiì j e
che qualcuno della compagnia è stato
de- rubato alla porta ecc. ; giacché
tutti questi acci-denti romoreggiando per
la città porteranno il nome di madama
da una estremità all'altra. Il giuoco
è il solo piacere che vi si
trovi : delle perdite considerabili procurano
rinomanza ad un róut, e se un
giovine erede vi resta rovinato, la
celebrità della casa è sicura per
sempre. Talvolta si .danza nei rowte, e
il ballo è seguito da un^|;,gran
cena; ma vi manca sempre ciò che
fa la delizia della danza, la grazia
e l'allegrezza. Il locale destinato ad una
conversazione è semM ' pre difettoso
quando i concorrenti , atteso la situa-^ .
*\ 1 zione de' canapè, non possono
unirsi in linea ciri ^ colare, o
stare a fronte gli uni degli
altri. Allorché restano seduti in linea
retta da una sola banda,
la conversazione si spezza, e da
generale diviene pa^^ ; tìcolare., il
che va soggetto a più inconvenienti^
come vede nel seguente paragrafar
Conversa&ioìie particolare sostituita v.'^T
alla conversazione generale. > * *
La conversazione è gehèVatè allorché
ciascuno defili astantì vi contribuisce
come attore o spettatore; ; La
conversazione é particolare quando gli
astanti * si dividono in più crocchi,
stranieri^ per così dire, j gli uni
agli altrii benché riuniti nella stessa
stanza. Supponiamo, a cagione d'esempio,
una conver- ,, sazione di dodici persone
; è facile cosa Io scorgere che
se esse restano unite in un solo
crocchio ' ! ' conseguiranno
maggior effetto con minore sforzo; dì
quello che se in quattro si
dividessero. ; . . Infatti
nel caso per intrattenere dodici
persone ne basta una ; nel 2.o
per intrattenere dodici persone se ne
richieggono tre. !' Nel 1.^ caso
una celia fa ridere dodici persone;*
I • ^ ngl2.« s'arresta nel
circolo di quattro. VAllorché la
conversazioni è generale , un'idea vera
ma inesalta annunziata da un'individuo,
viene rettificata da un secondo, commentata
da un terzo, dimostrata da un
quarto, ecc., sicché alla fine del
discorso si ha per prodotto una verità
lampante. All'opposto separate in quattro
crocchi questi' contribuenti, e vedrete che
in vece di quella verità penduta comune
a dodici teste, restano in ciascuna '
delle semi-idee, delle nozioni inconc^Iudenti, delle
\ notizie qui inesatte, là false, e
dalle quali nulla si può dedurre.
Succede nella produzione del piacere •
nelle conversazioni ciò che succede nella
produ- ' . ^lone delle ricchezze
neìragricoltura o nelle arti : Pietro
possedè l'aratro. Paolo i buoi, Giovanni
ra))llitó tì' arare ; se questi individui
s'associano, ^ Taratura $\ leffetliia, non
si effettua se restano di- : sgiunti.
Allorché dunque qualcuno trae a se
due o tra / astanti , commette
una specie di furto verso gli altri,
poiché li priva del piacere che
produrreb- bero in essi le persone spiritose
e gioviali ch'egli ' bà rapito. Egli
stesso debb'essere riguardato come ^ un
disertore od un contribuente moróso. È
un fatto dimostrato dall' esperienza ,
che le scosse sensibili s'accrescono
comunicandosi, atteso la forza sussidiaria
che loro presta l'immaginazione degli
astanti; quindi una celia che fa
ridere quat- tro persone in un grado
come quattro , ne fa ri- dere dodici
in un grado come cinque o sei..
Inoltre, se assistono dodici persone
al discorso del parlante, con maggior
cura ed attenzione egli svolgerà le
sue idee^ di quello che se
assistessero quattro solamente. Allorché la conversazione è generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad agitare dodici immaginazioni, nelle quali sì trovano associate
altri fatti e diversi in ciascuna; dunque
si deve sperare maggior movimento nelle
idee che alimentano la conversazione e
maggior varietà. Se in vece di dodici
persone (numero preso per ipotesi), gli
astanti fossero di più, i crocchi a
parte sarebbero meno condannevoli; giacché
ammettendo gli accennati vantaggi della
conversazione generale, bisogna anche ammettere
che in molti la voglia di parlare è
vivissima : e che questa meno nella
conversazione generale resta soddisfatta ,
che ne' , crocchi parziali. D'altra
parte, quando la conVfet-^ sazione è
troppo numerosa, scema in alcuni l'al-
legrezza, perchè scema la confidenza. È
cosa rara che la conversazione resti
generale, i allorché in dodici concorrenti
si trova più d' una donna; giacché
ciascuna diviene centro particolare, intorno
al quale parte degli astanti naturalmente
si unisce. Ho detto è cosa rara ,
poiché non é cer- tamente impossibile che
una speciale gentilezza nelle donne si
sforzi di prevenire la divisione. V
* \ % Z/parlare motti insieme^
' « • V v ' ^ IMa lsto^^
idi tàiite : ^ . '
»,'Vòcr distordf e gareggianti iiisiéme
- ' - • » Pur, ua senso
accoppiar? Tutti ad un tén^o; »
VoglioB la boeèa aprire' é n^n^ i^/^
^ " Affastelfano insieme. Quanti argomenti. Ad
ua sol puQtot AKri di cuCQe ed.
«tiri «failli ragiona: Qui ài iMe;;
Là ^si contrasta^ e la quisti^ja si
. cribra ' r-^» Con oàikktò ttpljcàre
altertm ' v vf . r" ^
Di sì e dì no. Di trenta
voci acutaV/f -Stridule,, rauche, reboanti
e gravi, ; '^^ * ^ V
DIssoiiaQti tra ior odi lin eóiifiise
: . ì ». Frastuono ingrato di parole
e d'^rK , ' .1» fìi. tumulto e
di «tiMa^^nde Jà T^ta * ; Concava
echeggia e riinbombahdò à&sorda , » Là
civile modestia ed il , buon senso
i^ v / y> Lèi ift'iifi
àngolo stringono le labbta E Storditi ai
tarano gli wecchl ». /^^^^^ "^^^
f^iimando ii^Iti^fBirJdiio Jnsiemip i
Yh9^wfȈ' d'M^ . gara per superarsi a
yieè(ida, «.tpro^\irii^^^ 4'a8sor49tffe:^gli ^istanti^
> A > ? '
^ • :ì * / . Ili alcuni
SI uniscono tré _d[i|etti ' , 1 .
La sfnania, di int^rrpmp^e glt alt^i^ ;
jlk X'impazkiDza di seiitìr Hiténrétii .m
stessi ; ' a. La pretensione
che gli alJLrì uoa siano 4istratti>
«lontre es^i li aiuioiaiiò. Allorebò iiHrfli
parlano insieme . * ' L Si .
stancano i iK>liuoni f gli iBSofi^
d0' par-! istori'}'- V. \ ^ V t'O'V.
\- I &i annoiano gii astanti
con un fraatiMno in*- intelligibile;
8. Si è costretti a ripetere
più volte la stessa cosa; 4. Si
afferrano male le idee altrui. Si oonsuma
tempo e fasica a combattere delie
eliimére. Siccome poi si parla per
piacere o istruire, non j)er fajr
pompa, 4i cognizioni» quindi allorché Tal-
trui impazienza ci interrompe, è miglior
consiglio lasciarle libero il campo, e
tacere, di quello che battere inutilmente
gli orecchi di chi non vuole ascoltarci
CO* (1) L*imp^iua e la vivacità
che domìDano mi carattere della Jiazlone
francese r assoggettanó al difetU accenùaU:
mi testo. Cornino^, riportaiado B
Trattato di Vercelli segnato ft 40
oUobi^ 4495 tra Carlo Vili e gli
Ualiani, osserva come un tratto
caratteristico dello spirito francese la
suania di pae- lare , per. cui
molte («rsone parlando insieme ed alzando
a vicenda la voce ^ nesaùna é
realmen^ inte^. AH* opposto, egli aggiunge,
degli Italiani nessuno parlava, 'ftioréhè il
duca . Lodovico , il quale perciò
diceva ai francesi : Gii I ad
uno ad uno. le memorie dell*
Accademia francese hanno conservato per
IradlikHQé no moUirdI If^ miran, R quale
,/oireso: piò d'ogni aHeo dell'aeeennato difetto,
disse un giorno seriamente a' suoi confratelli:
Signori, io vi propongo di decretare
che non parleranno qui più di quattro
persone Insieme \ forse così riusciremo
ad intenderci 1 ! * ' Un
francese diceva a numel, vescovo di
SaUsboiy/ oMe il fàesi eei^Uisini eea
stola cosa' molto merìtosia per cjH'Imglfeaf)^
non potendo essi die difficilmente
rinunziare ad un pezxo di manzo. Al
che iiurnet mpo.se : Non è men.
meritoria per voi altfi francesi, atteso
la legge del silenzio.
. , 23* « y .i^co
L.Allegrezza clamorosa. Un grado moderato
di sale rende lè vivande gradite a
tutti! palati : i gradi' maggiori , 1
quali non riescono piacevoli che a
poeliissimi, estinguono Tappetito negli altri*
L'allegrezza moderata nelle conversazioni
passa facilmente d' animo In animo >
ed è accolta con lieta fronte da
tutti. L'allegrezza clamorosa si co- munica
a pochi, e spesso muore sul labbro
di chi Tolle eccitarla* Del quale
fenomeno tre sono le cagioni. 1 .
I caratteri freddi non essendo suscettivi
d'aU legrezza clamorosa , s'armano contro
di essa e le oppongono la reazione
deirindifferenza. ' 2.<> allegrezza
clamorosa dipendendo/ da un ino4o particolare
dì vedere le cose, alquanto strano, 6
spesso* da ^ccolezza di spirito, i
^'arett^ ragio* nevoli e sensati non
possono approvarla. • ' 3« L'jiUegrezza
moderata più facilmente che la clamorosa
si coniiunica agli ^stariti, perchè dista
meno dallo stato abituale degli spiriti.
Qualunque sieaa te dause deli'
accennale fono* meno, egli è fuori di
dtfbbio che se V allegrezza moderata
fopienta ta conversazione, l'allegrezza clamorosa
tènde ad estinguerla, e la cosa non
può ^essere altrimenti; infatti, • .
U Durairte lo scoppio dfille risa
smodate ma potendosi comunicare agli animi
i moti d' un aU legrezza piti
mite, tutti quelli che non. parteoi|iane
aHe prime , si veggono 'ditfraudaft
de' secondi ; quindi mentre alcuni
ridono a piena gofà, restano gli altri
atteggiati a sprezzo o sbadigliano ;
essi pro- vano quell'ingrata sensazione che
prova chi attento al dolce suono
dell'arpa viene im;«rovvisainente as- sordato dal
rumore delle campane. , 2. Dopo
lo scoppio di risa smodate succede una
serietà agghiacciata, come dopo un fuoco
d'artifizio ci sembra T oscurità più
profonda. Un'allegrezza clamorosa ci balza
improvvisamente fuori di strada, e , per
così dire , sopra un'eminenza , ove
non sap- piamo d' onde siamo venuti ,
nè dove dobbiamo andare ; da ciò
poi la serietà, il silenzio, qualche esclamazione,
e la difficoltà di riprendere il filo
di ameni discorsi. L' allegrezza clamorosa
non comunicandosi agii altri, ed assai pochi
essendo capaci di rianimarla, quegli che
la eccita si trova nella necessità di
farne tutta la spesa; quindi se vuole
restare sulla scena è costretto a
rappresentare il personaggio del,
buffone. L' allegrezza moderata , figlia d'
una buona coscienza, animata da un'
immaginazione ridente, trova facilmente motivi
d'innocente trastullo e di- gnitoso sorriso
nelle scene morali esposte dalla pag«
343 - 350. /4 L'allegrezza clamorosa,
figlia talvolta dello stravizzo, talvolta d'un
immaginazione irregolare,
per lo più d'una sensibilità ottusa e piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza,
trova pascolo nella goffa derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti
sguaiati, plebei, vHlanì. Loquacità eccessiva. La conversazione è come un’azienda
commerciale; ciascuno dee pèrvi il suo caratlo e
ciascuno partecipare al prodotto. I^'uomo
che tace sempre in una conversazione è
uomo che vuole essere a parte del
prodotto senza essere carattista. '
L^uomo che parla sempre è* un
jearattista che vuole tutti i prodotti
deirazienda. In generale nelle
conversazioal ciascuno ama meglio spacciare
la propria mercanzia di quello che
acquistare V altrui ; e , in vece
di formarsi giusta idea degli altri ,
aspira a darla di sé stesso:
Agitati dalla smania di parlare, non
pochi bra- mano di comparire sempre alla
tribuna , senza vo- lerne mai discendere
: quindi vi tengono discorso su di
tutto, d' un libro nuovo dopo la.
lettura di quattro ò cinque pagine a
salti , d*una nuova mac* china dopo
d'averne veduto un pezzo, d*un quadro
dopo d'averne ammirata là cornice ccCm
e decidono e sentenziano senza
interruzione, simili al giudice d'Aristofane,
che, chiuso in casa dai parenti^
vuole almeno dar sentenza tra due
cani (I)* (I) Il Go7.2i fa il
seguente carattere dell'imperlerrito par* latore.
< « SIgpor jS. N. y a
penai la algaoria; vostra «ente un cct-
» stailo, un luteo, o un ebfeo
a oomlnclaM uara^hmar » mento, eh'
ella si scaglia ìà^ e glielo rompe
a mezzo col » dire : La
non é così : io so l' ordine
delle cose , e ve la D iUcò lo
; e dàlie dàlie dàlie, non la
finite più , tornando Gir irteoiiTenienti a
coi va incontro uu uomo che paria
troppo, sono i seguenti: • molte
volle da capo, con molle cosette di
mezzo, clje sono » uno sfinimento,
come sono, per esempio, que'vostri colori
» r^ttorici : E dov' era io
oca? Ah sì. E» toeno due passi
« indietro: e la fu da rìdere, e
verbi^eazlai ecceleira, tanto • ohe
mm lasciate più tirare il fiato a*
poveri drcaslanti. • Così quando
avele assassinali e ammazzati ì primi
a uno » a uno, eccovi a volar
via di là in qualche cerchio d'amici
« -o di patenti, clie cagionana
de'fatU lorO| e piombate sopra » que*
povereUi come un uccello di rapina, sbaragUandogliì
» e facendogli andare qua e colà
per paura della furia vostra. » M'
ha dello un certo maestro, che
qualche volta andate al » suo
collegio, e che, appena entratovi, stornate
i discepoli n dallo studio, e i
maestri dall' insegnare , parlando di dot*
• tftoe , di scienze-, d'armeggiare ,
di salière U cavallo, e di »
tutto quelló che volete e potete, si
che nessuno si può « salvare dalla
furia vostra. Se un pover* uomo prende
U- » cenza da voi per andare a
casa sua, e voi subito volete »
accompagnarlo per forza come se foste
V ombra di lui , petseguitandoto fino
In sali' nscìo e sulle scale, e nette
» stante ancoia. Se per caso si
narra qualche novella per la » citt;i
, voi slète come, ma rondine , ora
qua , ora colà a » dirla e
ridirla a tulli quanti. Nè giova
punto eh' altri vi • iaficìsL
intendere che la sa: perche voi
volete cominciarla » a dispetto di
ttUU, aggMtigendevi anche Im proemio. Par-
li late di predicatori, dlmiàinoranenli, di
battaglie, del vostro » servo, e
delle fmestre di casa vostra con
tanfo tedio di chi » v'ascolta , che
, appena avele favellato , Tuno si
dimentica • tutto, Taibro sbadiglia
sonniferando , e c'è chi vi pianta là
» nel meo» Aet ragionamehto. Siccliò
se vi trovato con uno » ch*ahliis
'4a sedere .a un magistnito , a una
predica, a » mensa, a una commedia,
siete cagione che slede mezz'ora A
dopo il bisogno alla sua faccenda. E
credo che piuttosto » vi contentereste
di morire, che di non superare il
cicala- t' mento delle gasze, de'
pi^papHii delle rondini, e di quanto
Digitized by , 4Ìd IMBO
TBBXO 1 . Egli affatica i suoi
polmoni ; 8. É spesso costrétto
a ripetere^ le stesse cose il che
cagiona noia agli altri e svela i
limiti del suo «pirUo ; .
. 3. S'espone a dire degli
spropositi vc^ndo par^ . tare di cose
che non gli sono familiari^, e
dimostra di non saperne alenna , giacché
quelli che sisinno una cosa bene si
astengono dal parlare di quelle che ignorano
(1) ; ' 4. Offende quelli che
vorrebbero parlare in vece di lui
(2> ; ^ ^ « bestie Gidiio,
schiamaizo. Oh |^ é puie un eraii
peccato » a non aver (ante gole
quante canne hd l'organo, da poter »»
cavar fuori le parole da tutte 1
Basta cbe siete i^unto a Il tale,
che non v* Imporla più che
ciascheduno si fugga da » vqL cpme
da un can guasto, e cbe fino i
fanciulli di casa » vostra si ridano
di voi: petcliè- quando la sera il
sónno » comincia ad aggravarli , vi
pregano a contar lo;*o qualche i)
cosa per dormire più presto. •
(1) Saggio e cauto ad un tempo
j e spesse. voHe Timido un poco ,
lentanijenle sffgno . . Dà di stia
decisloa uom che ben vede, E in
brevi detti ognor spiegarsi agogna^ Clii
ragiona a proposito , di rado ,
S'allarga ragioiUMiKlo > ma la folle .
^. SupecUa ) che a
scloe&bezza si cong^mge Si diffonde In
loquela ^ e s^gue solo , I.
suoi fantasmi ^ e a sè paria e
risponde. (2) « E alcuni altri
tanta ingordigia hanno di parlare, che
» non lascian dire altrui. E come
noi veggiamo taUolki su » per r
aie de* contadini X un pollo torre
la spLca di becco % atf allvo;
^^osl cavano costoro i EagtonaoieiiU di
bocca a . colui. che li cominciò,
e dicono essi.. E sicuramente che »
eglino fanno venir voglia altrui
d'azzuffarsi con esso loro. 5, Rende
gli altri più severi nel giudicarlo ;
\ 6. Impedire la diffusione di idee
migliori delle sue ; ?• Svela
talvolta, per procurare alimento al dì-
scorso, ^11 altrui segreti ; quindi
si mostra indegno e si "pfwù deirallrui
confidenza; * 8. Dimentica spesso la
convenienza , non ha ri- guardo al
caratterie delle persone con cui i^rla,
al luogo In cui si trova » alla
situazione degli animi. Per concentrare in
sò viémmargiormente gli altrui sguardi ,
balza in piedi (1), molti gesti
facendo colle mani e col capo; e
se qualcuno ardisce non di t»orre in
dubbio la di lui infallibiUtà, che
verar mente la sarebbe un'impertinenza
senzjj pari , nia » perciocché «e
tu guardi bene , ninna cosa muove Y
uomo 9 piuttosto ad ira, die quando
d' improvviso gli è guasta la sua.
voglia e U suo piacere , eziandio
minimo ; siccome » (|umd0 i^ avrai
aperto la bocca per isbadii^re, e alcuno
!>' té la Cura con' mano, ò
quando tu liai alzato il braccio «
per trarre fa pietra, e egli l' è
sùliitamente tenutò da colui, che V è
di dietro. Ecco l'origine del pedanlimo:
quegli è pedante che, s(M*gendo io .piedi
ed alzando una voce magnale e dura
» detta le sue opinioni e pronuncia
l& sue sentenze eoi tuono che
adopera il maestro di scuola co' suoi
scolari. Pedantìfimo si dice anche rusò
troppo frequente e inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione
ordi- iiìarte, e la- presunzione ebe
ravvisa in esse importanza ec- cedènte ;
quindi i seni-détll Geminano ^ppertutlo H
lor6 .falso sapere, allegano Platone e
S. Tommteo in eosii ebe ai accertarle
ba«ta Tasserzione d'un facchino. Pedantismo
finalmente s'appella un' eccessiva severità
ed uu^ndeféssa affettazione nella scelta
delie parole e delle frasL solo
di fargli qualche obbiezione ,
esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra sè dell'altrui dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia
la quale furiosa mostravasi allorché non sapeva
come sottrarsi ad una dimanda importuna.
Questi eterni parlatori, per lo più
teste super- ficiali, e talvolta prive
dì senso comune, affettano di sapere
ciò che non sanno, d'intendere ciò
che è superiore alle loro cognizioni
, di possedere ciò che loro realmente
manca. Si tratta egli d'una notizia?
essi la sapevano ; —d'una
scienza? Thanno studiata; d'un fatto
straordinario ? ne sono stati testimoni
; d' un giuoco ? i' hanno
insegnato al loro nonno , ecc. : e
per voglia di comparire i- strutti,
allontanano da essi l'istruzione. Chi ha
poco senno e dovrìa starsi ignoto,
Vuol far tutte le carte in compagnia
: » In simile maniera un carro
vuoto ' )' Fa il fracasso
più grande per la via ». '
La loquacità presuntuosa de'giovani è una
con- seguenza necessaria. Della vanità generale
comune a tutti gli uo- mini. Dell'educazione
particolare, supposta scientifica,e veramente
insensata che ne'prim'annì della loro
giovinezza ricevettero. Siccome ciascuno
procura di mostrare ricchezza collo sfoggio
degli abiti, così molti procurano di
. mostrare spirito collo sfoggio delle
cognizioni. Essi crederebbero d'aver perduto
tempo e fatica se apris- serola bocca
senza aver detto qualche cosa spiri- t,.cT
Volendo presentare tratti ingegnosi e
superare T altrui aspettazione^ fanno degli
sforzi che tormentano gli astanti, e
ad essi fruttano ridicolo. Presumer vanto
di sagacé, arguto, . .» E
senza aver punto di sale in zucca
, . Imprudente mostrarsi e
linguacciuto v. Rendere eunuco V intelletto
e feconda V imma- ginazione^ tale era
il problema che si propóne- \ vano
grinstitutori nello scorso secolo. Un sonet-
, tino, una canzoncina, un po' di
latino, uno sche-T* letro cronologico detto
storia, un elenco dei nomi ' delie
città e de'fiumi, chiamato geografìa, ecc.,
in • somma parole e poi parole,
e non mai cose, èò*v,.^. stituivano
il capitale intellettuale , l'immenso fo- gliame
sen?a frutti che i giovani compravano
s caro prezzo. Abituati ad accettare
parole senza' conoscerne il significato. nelle
prime scuole, accet- tarono parole in
filosofia senza corrispondenti idee; ; fi
pronunciando per es., le parole mistiche di Kant, redetterjo di essersi innoltrati nella scienza dell'uomo;
e così dite di tanti altri sistemi
cui la sola magìa delle parole e
Tbitudine di ammetterle r'^ senza esame
acquistarono rinomanza. Quindi le conversazioni
brulicarono di cianciarelli,
che, essendo verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d'
istruire }Ma fatai cosa eli' è ch'ove
più abbond)a Un bel parlare, ivi la
specie umana Sia seccatrice almen
quaut' è faconda ti dono di parlare
con facilità e prontezza è cosa '
. ; } pregevolissima, e. non può
essere Irascui'alo doq da chi
- \Pìtagorà , ìper reprìmere ne*
giovani I ' eccessrvà'^ loquacità, esigeva
da' suoi discepoli un assoluto. . silenzio
ne'cinque primi anni delle sue lezioni; il
che era spingere le cose all' estremo
opposto, e spezzare il ramo per
raddrizzarlo. Più saggia Tao-tìca cavalleria
diceva a' suoi seguaci : Siate
semjore rultimo a parlare in mezzo
agli uomini che vi, superano in età^
e il primo a battervi alla guerra.
Non arrogarti dunque il diritto d'eterno
parla- tore , ma « Solo i tuoi
detti nel comun discorso » Ifitreccia
a tempo, e in un civile e cauto
» Le tue parole e il tuo
silenzio alterna. >♦ Colui che- si
finge dotato di cogm*zioni che non ha
, perdi» ì| , diritto d' essere
creduto negli affari sociali. Volendo
mostrare troppo spirito, si resta caricati
di tutto il peso della conversazione,
e si perdé in • affetto ciò che
si acquista in ammirazione ; gidoo ^
ignora che, per convìncere lò
spirilo, spesso é forza sedurre le
passioni che gli fan siepe: ma questo
dono per se stesso ilion è sicuro
indizio di profondo pensare. Parecchi buoni
spiriti non riescono a svolgere le
loro idee fuorché col mezzo . della
meditazione; ed è stato osservato che
gli scrittori di professione non sono
quelli che brillano di più ne' crocchi
sociali. Ne' discorsi di Rousseau neppur
V ombra scorgevasi di quello stile
che ne' suoi scritti si ammira.
Nicole , uno de' primi scrittori del
XVn secolo, stancava quelli che Tascol-
tavano; perciò egli diceva del sig.
Treville, U quale parlava . con
facilità : Egli mi batte rulla camera
: ma egli non è g^cora in fondo
deHa^caìa eh* io V ho confuso, t
4t&l chè, generalmente parlando, gli
uomini non amanq ' quelli che li
offuscano. > -^pm > ^Allorché
non avete argomento interessante da .
proporre, la civillà vuole che vi
astenìate dal par* lare, in vece di
mettere alla tortura l'altrui pa- zienza
con puerili e non gradite scempiaggini.
Perciò r abate S. Pierre , il quale
non discorreva gran fatto nella conversazione
, non per sterilità nè per disprezzo,
ma per tema d'infastidire i suoi
ascoltanti, diceva : Quando io scrivo,
nissuno è ob- bligato a leggermi ; ma
quelli ch'io vorrei costrin- gere ad
ascoltarmi si darebbero la pena dì
farne almeno le viste, ed io la
risparmio loro per quanto, posso. Inoltre
chi vuol parlare di ciò che non
in- tende , al quasi certo rischio si
espone di guada- gnarsi il titolo
d'ignorante. Quindi l'abate Choisj', il
quale non era dotto, ma lontanissimo
dal volerlo comparire , scrivendo ad
un suo amico sulle sue conversazioni
o sul suo silenzio coi dotti missio-*.
narii che nella sua ambascerìa egli
aveva ritrovati a Siam , si esprime
così.ii^^ Io occupo un posto » d'
ascoltante nelle loro assemblee , e mi
servo . » . sempre del vostro
metodo : una gran modestia » e
nissun prurìto di parlare. Quando la
palla mi » viene naturalmente , e
ch'io mi sento istrutto a fondo
della cosa di cui si tratta, allora
mi lascio »v forzare, e parlo piano,
modesto egualmente nei D fono della voce
che nelle espressioni. Questo metodo
fa un effetto mirabile, e sovente,
quando » non apro bocca , si crede
ch'io non voglia par- li lare, mentre
la vera ragione del mio silenzio si
è un'ignoranza profonda ch'egli è pur
bene di nascondere agli occhi altrui.
tjttl^ ^ Da qiiesta modesta confessione,
soggiunge d^A^^. lembert , si raccoglie che
l'abate Choisy non ras- somigliava certi
ciarlieri, i quali, presi dalla manìa
di parlare di quanto ignorano,
meriterebbero la risposta che un artista
greco fece nel suo labora- . .
torio ai ridicoli sragionamenti d'un
dilettante:,. Guardatevi dal farvi sentire da'
miei scolari. *^ Infatti parlano costoro
con leggerezza tale, che spesso l'uomo
pulito si astiene dal far loro un'ob*
i biezione per tema di vederli
ammutolire. I chiacchieroni si fanno tacere
col non dar . retta ai loro
discorsi, come appunto un suonator di
violino ferma i danzatori cessando di
sonare. » ' ♦
6. Co?itimcazione dello stesso argomento.
; La loquacità eccessiva è un
difetto che i mora- . listi
sogliono rimproverare al bel sesso. Quindi
essi dicono, che mostrare molto spirito
* colle donne non è il
miglior mezzo per conciliarsi, , ,
il loro animo. Una dama
d'alto tono che si era; I '
, scelto per amico un giovine
di beli' aspetto e di ' • ^
molto spirito , gli disse un
giorno che poteva ri- i tirarsi,
perchè ella non amava le persone che
par^ lavano troppo. . vFin dal
pergamo fu rimproverato alle donne '
• . - l'accennato difetto : un
predicatore parlando avanti I UA consesso
dì monache nel giorno di Pasqua/
I diede loro ad intendere che
Cristo risuscitato coin- ' parve alle
donne prima che ai discépoli , acciò
la nuova della sua risurrezione più
rapidamente si diffondesse. i 11
suddetto difetta potrebbe essere confermato
} dall'uso delle donne negre della
riviera. di Qs^m- d j tot. le
^uaH essendo applio^tisshne ai labori ;
glioBO , a fina ^'^fitace hi maldicdiusa
0 i diseoiti inutili , empirsi la
bocca d'acqua mentre lavorano.. La
leqoacità dette, domiet seoondo che io
ne giu« dieé, a due Ani d^lta
fimportanzia* éorridi^nde. L'uno si è
che, essendo é$$e. te prime educa-triei éé
faneiiilll') detona esiereltttfe te fero
.tenere^ orecchie con un cicaleccio
continuo, e imprimere Ìb ^ue'édb^li cernili
oiolte tracce ideali, che senza,^ questo
soccorso- diffleHmente Vi «gioirebbero. ' .'1)
seeogdq si, è . che, essendo esse
destipate a «ìMi^iEnfel^ra aspra la vita
airaomo,. dover* vano essere dotate
d'una sensibilità squisita che a lotti
ì di lui affetti prontamente si
risentisse, e della facoltà d' insiniìàVs^
gqrbo nqf di l«i allibo, ìi|jtrattenerlo
oaa sentimentale colloquio ed àHeirtariiét
té pene: tton saprei ben dire se
questo sia il motivo per cui
generalmente le donne supe- rbie gli
n^minLoella gra^^ia della voce e del
canto. Giovenale, come tanti altri
poeti dopo di lui v ha eensurato
la loquacità deUe donne letterate ne',
segufati^'veirn: « / * . .
. . . SI tosto , ^ '
i> T'assidi a mensa, essa 1^ mensa
in scuola^. » EcQO ti cangia ^
é dà sentenze e.-npr|Be, / » Loda
il cantor d'Enea, s'intenerisce. Per la
pQv.era Elisa ^ i due poeti ' '
» Mette al paraggio; a ima bitaneia
appende , » In un, gùscio Maron, neir
altro Òmero. » Orammatici , rettorìd,
seolastiei «.^ . ' i> Ite
a rfporvi : i convittor son
muti PiissuQ fisponde; e chi tentar
latria . s ; »
D'arresUrue la foga? Un avvócatd,
y - . B'altre donne uno
stuol ; tal dalla bocca < Vei^
(NTi^vio ^ parote^ e tale
^ r-Stridor mòtesto; e tintinnìo di
voei^ Che un picchiai di patini e
cauipaneU.! ' » D'udir ti sembra i
»rrà piHtrìa sot- ; .)i Senz' altra
aggiunta^ di caldaie o trorobe. Recar
^eoisso ^ti! ii^iHuitata inaa «^t» -
- . Qnestà gairrulita è condannabile
n^lle.dQnàè gualmente che iiegli uoinini i.
e ciò che Aiolièjre ba detto nella
sua commedia cóntro le donm sac^
cenli^ ai saccenti in generale sì
applica. La noia che- viene prodotta
dalla loquacità noq. scema in milione della
barba di chi parla, meatre air op-
posto un bel detto cresce di |^regio
se esce da bel labbro. TaciturnUà. ,
lia storia d' Atene e di Sparta
due estremi -ci piTe^nta nel modo di
parlare. Gli ^Ateniesi érana talmente invasi
dalla manìa ciarliera ^ cbia lunghe
dissertazióni dicevano so|tfa Inezie, vi
spiavano dottamente in quanti modi può
eseguirsi una CA- vriola, parlavano ad
alta vo((e in pub|ilic0| dispu- tavano per
le' strade, si fermavano eui mereati,
e ricoveravansi sotto d'un portico per
risolvervi dQ* problemi nel modo più
rumoroso. Plauto li de- scrive in
atto di portare sotto le pieghe del
loro manto pateechi libri per convincere
i loro avver-» Mrii eon assiomi e
sentenze decisive. Gli SpUrtUfir-all'opposto
erano più silenziosi delle pietrcr
Disapprovando la verbosità degli Alenicsì e
la V taciturnità degli Spart.an?,
condannerò con maggior y ragione il
laconismo degli ultimi, i quali non
ri- | >^'1^pondendo che con monosillabi,
lasciavi^no scor- ^ '^gere un orgoglio
offensivo.. Filippo re di Mace- '
donia avendo scrìtto agli Spartani che
avrebbe fatto i le sue vendette
se entrava nel loro territorio, que-
^ Bti aljro non risposero se non
che Se. Gli stessi Spartani scrivevano
lettere molto laconiche, cioè H
impertinenti ; ma dacché furono
compiutamente. 'i. i battuti
a Leutre , cominciarono ad allungar loro frasi.
Son io, diceva Epaminopda, che ho
inse- ^ guato loro questa civiltà. La
taccia d'inurbana data alla tacilurnilà è
dun^ 'ì' ì que molto antica, e
con ragione / principalmente i quando
son le persone adulte che tacciono;
giacchè se è necessaria la riservatezza
per non esporre pensieri che poscia
si vorrebbe invano rivocare, ' non fa
d'uòpo spingerla al punto da rendersi
muto. Una persona taciturna nella
conversazione è una persona che vuole entrare
in teatro senza biglietto d'ingresso; è
una persona che vuole godere senza
contribuire. Una persona taciturna diviene
incomoda per più ragioni. Ella arresta la
comunicazione de'sentimenti , i quali sogliono
acquistar forza diffondendosi. Presenta l'idea
d'un censore severo che sem- r brà
accusare gli astanti di frivolezza. Eccita
una diffldenza non favorevole alla
giovlalità. Una persona chè parla ci
dà, per cosi dire, la - misura
delle sue forze : le sue idee,
i suoi sentimenti , i suoi gusti , i
moli della sua fisonomia , \a qualità
de' suoi gesti la palesano al nostro
sguardo : noi sappiamo come fa d'uopo
regolarsi con essa. All'opposto una persona
che tace, in- spira difUdenza, perchè si
diffida di tutto ciò che non si
conosce. D'altra parte non si sa
che cosa 'possa piacerle o spiacerle:
questa incertezza diviene un limite
illegittimo alla facoltà d'agire e di par-
lare , quindi è penosa. Finalmente ,
siccome nel i^commercio V amor
proprio d' un negoziante resta offeso
allorché vede rigettate 1^ sue cambiali,
cosi nella conversazione spiace all' amor
proprio degli astanti la vista d'una
persona che non corrisponde alla loro
allegrezza , e ricusa d' accomunarsi con
essi; perciò più facilmente viene perdonata
la frivolezza che la
taciturnità. La taciturnità può essere prodotta da cinque cause.
Mancanza d'idee o stupidezza. In questo
• caso è certamente miglior consiglio
tacere qhe par- lare; giacché parlando
si procurerebbe spregio a se stesso e
noia agli altri. Le persone taciturne che
appartengono a questa classe sono tollerate
"nelle conversazioni come si tollerano
nella società '^1 bisognosi impotenti :
la pubblica beneficenza gli alimenta.
Non potendo contribuire alla conrersa-
izione, esse devono rappresentare il
personaggio ' dèlia scimmia , cioè
atteggiarsi a norma de'seuti- : menti
che si dimostrano dagli
altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualità
si trova talvolta anche nelle persone di carattere
amabile, e proviene da mancanza d' educazione e
di pratica: è una debolezza che
merita Indulgenza, almeno sul principio,
benché faccia torlo alla società privandola
di molte idee utili ; dico almeno
sul principio , giacché un po'
d'esperienza dandoci la misura delle altrui
forze e delle nostre, questa diffidenza
deve sparire se non é unita a
stupidezza, ii» Scarsa scienza è molta
vanità. Alcuni non osano di contraddire
perchè non soffrono d'essere contraddetti ;
la loro pazienza non é che un timido
orgoglio; il loro silenzio é un mezzo
di sicurezza; essi tacciono per non
esporsi alla censura. /4. Stolto orgoglio.
L'amor proprio raffinato e tronfio sdegna
di prendere parte alle frivolezze della
conversazione, e di comunicare agli altri
i suoi più che sublimi concetti. Si
danno anche uditori disdegnosi che, per
non accordare legger- mente la loro
ammirazione, ricusano l'approva- zione più meritata. Malizia.
L'orgoglio va spesso unito a cattivo
carattere ; quindi il silenzio é non
di rado effetto della malizia. Ritornando
dalla conversazione, in cui non proferirono
una parola, alcuni passano a rivista
tutto ciò che vi fu detto, con
intenzione di censurare i discorsi più
indifferenti ; osservatori malevoli , il
silenzio de* quali é uno spionaggio
sempre pronto ad abusare del vantaggio
che le anime false e fredde sulla
franchezza e la veracità agevolmente
ottengono. Fu dimandato a M.r Fontanes
9 celebre matematico, che cosa faceva
nelle conversazioni ove slava sovente
taciturno : Sto osservando^ diss'egli, la
vanità degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo!
Alcuni finalmente non sono taciturni nelle
con- versazioni, ma misteriosi : essi
dicono alcune cose^ e poscia troncano
il discorso con aria d'impor^^ *
tanza e mistero. Questa condotta è
doppiamente censurabile ; giacché da un
lato eccita una curio- sità che non
resta soddisfatta , dall'altro fa sup-
porre che crede gli astanti inoapaci di
silenzio o capaci di tradimento. Egoismo.
# r ir Se alla loquacità s'
unisce V egoismo, cioè se parliamo
sempre di noi ste&i , de* nostri gusti
, delle cose nostre , in somma di
quanto ci appar- .tiene , siamo certi
d'annoiari» gli astanti oltre mi- sura. È
difficile di ritrovare un viaggiatore che
sia sobrio nel racconto de'suoi viaggi
; un cliente delle sue liti ;
un*galante delle sue avventare» ecc., .
senza aspettare che l'analogia delle idee
guidi il discorso ove essi vogliono ,
taluni parlano della loro moglie che
è un'ottima creatura, de'loro figli cJiie
hanno sortita ìndole divina , de'
loro maestri che sono altrettanti Socrati,
de'loro affari che tutti vanno a maravigliai
de' loro nemici che sono il fior
de' birbanti , ecc. : u Di sé,
de' suoi pernierà de' sogni suoi »
Perpetuo citator, storia e giornale »•
* Invasi da questa manìa si
mostrano spesso i gip- vàni poeti,
perchè lusipgandf^i facilmente d'avere composto
sublimi versi, vogliono recitarli anche ai
sordi. inedtartoir acerbo » In fuga
volge e ignorante è 1 dotto ; '
» Se poi ne abbranchi alcunOf il
tìen, l'uccsMIe* 1» Leggendo ognor ;
mignatta, che la cute » Non. lascia
pria che ae rilK)cchi ii saague. La
stoUem e la vanità giungono talvolta
a segno^ che non potendo far oggetto
dell' altrui attenzione te nostre heUe
qualità, le presentiamo i nostri in-
comodi^ lenostre . debolezze 9 la nostra
pusillani- mità, e talora que'raali che, essendo
comuni, non meritano speciale riflesso.
« i' A che lai lezzi, »
Schizzinoso mortai , e con qual dritto
' i> Pretender puoi d' esser tu
solo esente )» Da la sorte comnn,
come se fossi r> Il figliuolin
della gallina bianca, 1» Moi vili
polli e di vii uovo usciti ? »
Cresee r impertinenza, se alla voglia
di ptflmre sempre di sè, si unisce
la pretensione di superare in tutto
gli altri. A sentire qualche stolto,
i suoi cavalli ilono più veloci di
quelli d' Achille, i suoi jiervi più
avveduti di Ulisse, il suo cuoco più
sagace d'Apicio, ecc. Il sole comprimi
ed ultimi raggi saluta il suo palazzo
; l'aria non è pura fuor- ché nelle
sue campagne ; in nessun gianlino
olez- zano sì soavemente i fiori come
nel suo. Chi si move in una
danza con maggior > garbo di lui? Al
paragone della beHesza non potrebbe egli
con- tendere il ponto alle tre Dee?
ecc. Quindi ora pretende al sublime
onore di passare prima degli altri (I)
; ora si lagna , perchè non
pieghi sino a terra la fronte chi
gli fa di cappello ecc. I suoi
vanti giungono sempre alla menzogna quando
parla con persone che non lo
conescono. !• • a E sei miglia
lontan dal suo paese » Tal faceva
il signor, barone o conte.Ch'ivi guardava
i porci per le spese ». f ^
Siccome gli uomini vogliono più applausi
die istruzione , inclinano più a
censurare che ad ap- plaudire; perciò
comparir nelle conversazioni più di sè
occupali che degli altri , voler
primeggiare sopra tutti , pretendere di
singolarizzarsi a spese altrui, è il
più sicuro mezzo per rendersi sprege- vole
e ridicolo, /j/vj . La smania
di rappresentare un personaggio di- stinto
nella conversazione e rendersi lo scopo
di tutti gli sguardi , è il difetto
principale degli uo- mini di spirito ^
i quali perciò amano meglio tal- volta
di conversare con persone di poca
levata cui possono dar legge coloro
discorsi , di quello che ritrovarsi
in crocchio coloro simili, da cui
temono di .riceverla ; cioè preferiscono
d'essere re in una cattiva compagnia,
alPessere sudditi in una buona. Ma
solamente una vanità puerile può
compiacersi dell'omaggio di quelli ch'ella
disprezza (2). * (I) Due donne
di primo rango ti movevano querela^
pre- tendendo runa suir altra il passo
in una chiesa y e assorda- vano colle
loro dispute i tribunali. Carlo V,
per impedire le cabale .cui poteva dar
luogo questa sì seria contesa, stimò
a proposito di farsene arbitro , e
decise che 11 diritto d' an- dare
avanU apparteneva alla più stolta delle
contendenti. (2) L'abate Testu , dice
d'Alembeit , dominava principal- nieDte all'
Hòlel-Richelieu, ovo era l'oracolo e
l'amico intimo ^iqitif L'amore disordinato
di noi stessi ténehdoci fissa avanti
lo spirito V idea delle nostre
qualità , V in- grandisce snrìisuratamente,
come il sol eadente in- grandisce l'ombra
del nostro corpo e la fa com- parir
gigantesca. Può essere citato sotto questo
articolo il difetto 4i coloro che la
loro arte o professione innalzano '
sopra tutte , e vi mostrano i beni
immensi di cui è fonte; e vi
provano con cento argomjenti, che se
sparissero tutte le altre, essa sola
sosterrebbe la, società cadente e le
darebbe lustro. Da ciò nasce una
serie indefinita di sgarbi, di>spregi,
di censure alle volte ingiuste, spesso
false , sempre ìmpulit;e. Un buon
prete cui confessavasi
Despréaux , gU dimandò Qual era la
sua professione. — Io sono poeta ,
rispose il penitente. — Cattivo mestiere,
replicò il prete : e poeta in
qual genere ? — Poeta satirico. —
Amora peggio ; e contro chi- fate
voi delle satire ? — Contro i
compositori difxommedie e di romanzC '^^Òh
! per questo aggiunse il prete, alla
buon' orix ; e gli diede fas- soluzione
immediatamente. In conseguenza delPac- cennata
impulitissima pretensione Alcibiade diede uno
schiaffo ad un maestro di rettorica,
perchè non aveva un esemplare delle
poesie d'Omero ; ed un altro
adoratore di questo poeta fece voto
di . della duchessa di questó
nome, ^lìceome egli non amava d'essere
contraddello, ma molto di essere ammirato ,
perciò gli andava poco a sangue il
commercio degli uomini , più conlenlo di
brillare in un circolo di donne che
talora col suo dir sorprendeva , talora
adescava, secondo che meno o più gli
piacevano. ^ ^ , t leggere
Ogni giorno mille versi di esso» a
ripara- zione tarli gli
venivano iattL - ^ . \Irritabilità
e ruvidezza. Lo spirito stizMso è
ii flagello deH^^Niéi^tà'i come il
carattere dolc« ne è il ba)san(M),
^ ^ .»Iiiriitàbilità rende
deeuplo-'il.fientìmjeiito.ctolAh supposta offesa: e
spesso ha fonte neir ìntima p^sijasiooe di
non meritare alcun riguardo. Quindi le*
peiisMe più ^irtilei)Ui smé' per lo fiià4e?
teste più piccole, più vuote, più
prive di qualità reati." Gcnìvinte
dqlla ..kro .BiiUftà.> iMiinam a- mdenl
scopo dell'altrui spre^?o, e si confermano
in questa idea ad j^oi/miaima eerknoma
che per ioavverf lénaa vengà cdii
«ssè traseuràta.^ Uina parole eftig« gita
in un momento di calprCi- di vivacità,
d'àlle^ grezza, viene da ^se esaotlnata con
tutto il rigorè, non dico della
logica, ma del puntiglio, staccata da
quelle circostanze che se non la
giostificanò pienain6iite< la^dimò^tranO' figlia
pintlMto''4eH' , riflessióne che delio
malizia. ' r^-r I L-esser
tenera e vezzo6CKaBìci»*(it ditdiee aseai;"
»:dicc monsignor della Casa, e massimamente
agli M. i^omioi; iNsreiocchè l'osare con
si &tta maniera «: di pet*s0Be
non pme eompagnia-me servitù re »
certo alcuni se ne trovano ohe sono
tanta tenerr '> e fragili 4, che
il viv.ere e dimorar con «asdoìfo, »
ninna altra cosa è, che impacciarsi
fra tanti • » sottilissimi vetri;
così temono essi ogni leggier
'^ercosisé, e così conviene trattargli
e riguardar* »• gli : 1 qijali
così si crucciano, se voi non foste
1* così pronto ^ fioUeeìto a sduladii
a visitarli , a » riverirli , ed a
risponder loro, come un altro*. farebbe d'un' ingiuria
mortale; e se voi non dato »
loro così ogni titolo appunto, le
querele aspris- » sime e le
inimicizie mortali nascono di presente. »
l^oi mi diceste messere^ e non
signore. E per- » chè non mi
dite voi S. ? Io chiamo pur »
voi il signor^ tale. Ed anco non
ebbi il mio » luogo a tamia !
E ieri non vi degnaste di »
venire per me a casa, come io
venni a trovar i^voi Valtr* ieri.
Questi non sono mòdi da tener con
un mio pari. Costoro veramente recano
le » persone^a tale, che non è
chi, li possa patir di » vedere ,
perciocché troppo amano se medesimi »
fuor di misura; ed in ciò occupati ,
poco di » spazio avanza loro di
poter amare altrui; senza » che gli
uomini richieggono che nelle maniere di
w coloro co' quali usano , sia quel
piacere che può » in cotale atto
essere ; ma il dimorare con sì
ì> fatte persone fastidiose , l'amicizia
delle quali sì )^ leggiermente , a
guisa di sottilissimo velo , si w
squarcia, non è usare ma servire, e
perciò non * solo norf diletta , ma
ella spiace sommamente. » Altri a
nissuno mai fanno buon viso; e vo-~
» lonlieri ad ogni cosa dicono di
no; e hòh prèri- dono in grado
nè onore nè carezze che loro sf
>i faccia, a guisa di gente
straniera é '^barbara ; non » sostengono
d'essere visitati ed accompagnati ; e
» non si rallegrano de'motti nè delle
piacevolezze; » ^ tutte le proferté
rifiutano. Messér tale m*im- » pose
dinanzi ch'io vi salutassi per parte
sua. » — Che ho io a fare
dei suoi saluti ? ^ E- >l
messer cotale mi dimandò come voi stavate.^
» — Fenga , e sì mi cerchi il
polso » La naturale rozzezza dell' uomo
, fa mancanza d^educazione , una stolta
vanità , la piccolezza di spirito ,
talvolta dei risentimenti amari , talvolta
Fimpossibilità di partecipare ai piaceri sociali
, ba- stano a spiegare in generale
gli accennati difetti. Una causa
speciale d' irritabilità e ruvidezza si era
per Taddietro uno stolto orgoglio di
famiglia, per cui alcuni, persuasi d'essere
vasi d'oro, e cre- dendo tutti gli
altri di fango, sfuggivano ogni con- tatto
con essi , si mostravano alieni da
ogni con- fidenza, s'atteggiavano a sprezzo
abituale come queir Omberto Aldobrandeschi
a cui Dante fa dire, « L'antico
sangue e l'opere leggiadre » De'miei
maggior mi fèro sì arrogante, » Cbe
non pensando alla comune madre , »
Ogni uomo ebbi in dispetto tant*avante
, ^ Cb' io ne morii »
Finalmente vi è una irritabilità e
una ruvidezza che è figlia di timori
immaginarii. — Un asino sta mangiando
il suo fieno ; voi gli passate
a fianco senza pensare a lui ;
egli si volge e vi mostra i
denti, temendo cbe vogliate rapirgli parte
del suo pasto o tulio. — In
questo stalo d'allarme si trovano non di
rado alcuni, percbè credono d'avere sempre
qualche nemico a fronte ; quindi
stanno continuamente sulle ditese, pronti
anche ad assa- lire chi non ha
giammai pensato ad essi. Uno sguardo
incerto, una parola dubbia , un atto
che non sanno spiegare, eccita tosto
il loro mal umore; quindi succedono
degli sgarbi, parecchie amicizie cessano ,
delle nimistà sottentrano , e l' allegrezza
dalla conversazione sparisce. Contro i
quali difetti . vatgpna i seguenti ri-
flessi. I. La società è una piazza
di commercia, ove 8i dà amor per
amore « .stima per stima, odio per
odio, sprezzo per sprezzo. Jn.q«iesto
camliia d'affetti ciascuno procura di non
essere ingannato, e rieiisa é} dar
più di quel ctie riQeve. L'orgoglioso
vorrebbe violare queste due lef^i ;
egli dà sprezzo, e vorrebbe
ammirazione : egli dà poco o nulla ,
e vorrebbe motto ; quindi s' irrita
non rfeevendo !n proporzione delle sue
pretensioni ; egli è irragionevole come
colui che con pochi cen- tesimi volesse
eomprar delle gemme. Il tempo che
perdete in lagnarvi inutilmente, in
prepararvi a difese , in mulinare contro
chi non pensa a voi , occupatelo a
rendervi stimabile in qualche cosa, e
coglierete rispetto e contentezza >
mentre attualmente cogliete sprezzo e
rammarico. II. É ottima cosa la
sensibilità airopinione pub- blica, perchè è
stimolo alla virtù e ritegno ai vizi
; ma è pazzia il far dipendere
la propria felicità dairopinione eventuale
di questo o di quello. « *
« Brami invan d'esentarti alle punture
, » Se fòf d' A pelle infin
Topre Immortali » D'un ciabatti Q soggette
alle censure ». Pretendere che la
nostra condotta ottenga Tappro- vazione di
tutti, è nretendere che a tutti
piacciano le stesse vivande, i falsi
giudi%i del volgo non tolgono pregio
alle nostre azioni, come le nubi non
tolgono pregio alla hice del sole.
Chiama in Roma più gente alla sua
udlenea » L'arpa d'aoa Ucisca cantatrice^
» Che la eampafia della Sapienaa. »
Laseino omai> le dispute e i
litìgi » Il Portico e il Liceo,
poiché' et MllM • » Più di Talete
un aarto di Parigi. » *i^ì sono
delle persone dalle quali essere lo4a(p
sa- rebbe infamia, e lo sprezzo delle
quali è segnò 4| merito. $iate dunque
sensibile air opinione pub- blica^ e sordo
alle yoci .p^rtioolari cbe da es^
discordano^ ricercate l'approvazione delle
per- som assennata 2;iV^2^o5e,^e ridetevL4f)U§
dpgli sciocchi e de'yiziosL \
*t Uq .vi^giatore, dice Boccalini,
era importunato dal rumore delle cicale
; egli yolle ucciderle, e sì
allontanò dalla strada; egli doveva
continuare quie- tatneate il suo viaggio,
e le Qical^ sarebbero wprJje 4a se
9|M8e alla fiue di otto giomL .
I •lE fo come il villan,
che, posto in mez^ ' r i V
Al romor delle stridule cicale, -
" • * » Semai eurare H
fimeo strido toro D Segue traa^uìUamente
il suo lavoro. » III. Se avete
qualche difetto fisico, siate il primo
a riderne voi stesso ; in questa
maniera sfuggirete airaltrui motteggio :
facendo altrimenti, mostran* dovi tenera da
questo lato , ognuno si procurerà il
piacere di pungervi. Alfieri, costretto a
portare la parrucca nella $ua gioventù,
allorché trovavasi in collegio, divenne
iminediataBiente lo scherno di tutti i
suoi compagni. « Da prima , egli
dice, io m'era messo a pigliarne
apertamente le parti; » ma vedendo
poi ch'io non poteva a nisBua patto
» salvar la parrucca mia da qaello sfrenato
tor» » rente che da ogni parte
assaltavala , e ch'io ao- » dava i
rischio di perdere anche con essa me
» stesso, tosto mutai di bandiera, e
presi il partito » più disinvolto,
che era di sparruccarmi da me »
prima che mi venisse fatto quell'affronto,
e di » palleggiare io stesso la
mia infelice parrucca per D l'aria,
facendone ogni titapero. E io fatti,
dopo » alcuni giorni, sfogatasi Tira
pubblica in tal guisa, » io rimasi
poi la meno perseguitata, e dirci
quasi v ìa più' risj[léttàta parroeca
fira le due o tre altre » cb^
ve n'erano in quella stessa galleria.
Allora » imparai che bisognava sempre
parere di dare. » spontaneamente quello
ebe non si potea impedire » d'esserci
tolto. » ; >^ Benedetto XIV fece
di più: un cattivo poeta aveva
stampata una satira contro di lui: il
Pontc- 0è9%^jBsaminò , la* corresse , la .
rimandò air au- tore, accertandolo che cosi
corretta la venderebbe iV. (%esterfi0ld
aggiunge: « IVon mostìrate iriai » il
più piccolo segno di risentimento se
non potete i in qualche maniera
soddisfarlo: ma- sorridete^ » sempre quando
non potete punire. Non si po: »
trebbe viver nel mondo se non si
pocesserana^ » scondere o almeno
dissimulare i giusti motivi di » risentimento
che incontrano ogni giorno in »
un'attiva vita e affaccendata. Chi non^è
padrone » di se stesso in tali
occasioni, dovrebbe lasciare ilmondo e
ritirarsi iu qualche romitaggio o de«
» serto. Mostrando m inutile e cupo
risentimento^, Digitized by 4^
LIMQ^EUO , » autorizzate quello di
coloro che vi possono. of«* 3»
fendere, e oh/f voi olCeodigre aoa
potete} porgete 1» loro quel pretesto
eoa cui forse desiderano di ».
Komperla cop voi e d'iugiuriarvi, mentre
un op- » pqsto coQtegBO li forzerebbe
a star ae'liiniti delia » decenza
almeno, e sconcerterebbe o farebbe pa-
» lese la loro otalfgoità V * J
^.^ ^ii^' In somnia^ sodo le deboli
canne che si lasciano turbare da ogni
soffio di vej^o , pentrj^ le alte
gtt€pr0e réslstoiK) agli aquiioni. Finché
dunque si tratta d'ingiurie lievi, la
mi- glior^ risposta, si è il sorxiso
del dispre^ui^o; ma Quando iti tratta d'
ingiurie gravi ché offendano l'onorey chi
le soffre le merita; il risentimento
in 'questi casK è cosi jiusto come
è giusta^lsi legge che le punisce. .
. ^à^l \ i 10. Curiosità degli
affari altrui. > Non può
abbastanza censurarsi, perchè contraria alla
confidenza e quindi. all'allegrezza, la smania
di eeloro che vogliono conoscere tutti
gli affari altrui^ saperne le più
minute circostanze, e dei nomi chieg- gono
notìzia a de' luoghi , e , per trarvi
di bocca qualche cosa di più , pria
fingono di non avere bea intesot poi
vi dimandano schiarimento ad un dub-
biti^ orarvi piantano avanti un sospetto
come in* fallibile, e, vedendo che lo
respingete, mostrano di riciedersì passando
al sospetto opposto, e dalla nuova
vostra negativa o maraviglia fatti accorti
si ripiegano aopra se stessi per
ritornare airattacco ; e 0 non gran
pompa «di tolleranza v' invitano ad
aprir V animo , o con improvvisa ed
isolata interrrogazione vi sorprendono : e
tenendo gli occhi fissi sopra di voi
, cercano di leggervi nel volto V
im- pressione che fanno i loro discorsi
, la quale, pav - ragonata e unita alla
vostra risposta , serve loro di via
per giungere al vero. Questa curiosità
conduce -i ciarlieri, i parabolani, gli
invidiosi, i tristi per tutte le case
, i palchi , i caffè, onde
raccogliere e. raccontare i^.^^ •
• • > ' it ......
ie vicende ascose :
' . w Degli instabilì amor, le
cagion lievi ^^ X
» Dei frequenti disgusti, i varii
casi » Del dì già scorso, le
gelose risse, \ ^ »
Le illanguidite e le nascenti fiamme Le
forzate costaiize e le sofferte.*' '
» Con mutua pace infedeltà segrete,
• » Dolci argomenti a feraminii
bisbiglio »^ . Questo prurito
d'indagare le faccende altruf è tanto
più attivo, quanto più si manca di
idee e di sentimenti proprii; giacché
il nostro animo volendo ^un continuo pascolo,
se non ne trova in se stesso* .
va per le altrui case a questuarne
(1). v • ^ Senìbra che anco la
vanità concorra a rendere il pungolo
della curiosità più attivo. Si crede
acqui- " — *i ' ir
(I) L'Imperatore Claudio sarel)be morto
di noia se noi) • si fosse
occupalo ad ascoltare tutte le cause
che si agitavano :nel foro, ed a
conoscere tutti i segreti, gli accidcnU,
le sven- ture,i piccoli odii, gli
intrighi, i pelegolezzi delle famiglie. Gli
avvocati, cui era nota questa sua
debolezza, lo prende- vano alle volte per
i piedi e lo trattenevano in
tribunale al- lorché egli voleva partirne.
Le dimande inopportune, le ri-
spostestolte, i riflessi ridicoli di
qlieslo preteso giudice mei \ levano
in tale evidenza la sua stupidezza,
che un avvocato * : ,v.'
, .Starsi qualche grado di gloria
nel poter dire lo^lo io l'ho veduto
: infatti gli stolti e gli scioperati
• amniirano queste notìzie, e credono
uom d'acuto e ; perspicace ingegno
colui che le spaccia; mentre tutto :
il suo ingegno si riduce a prestare
le sue orecchie ai discorsi degli
altrui servi e nio;izi di stalla.
>^ Siccome in tutte le classi
sociali sta la realtà all'apparenza come
la grossezza della rana alla grossezza
del bue ; siccome ciascuno si sforza
di coprire con color lusinghiero le
proprie debolezze, quindi il curioso che
vuole spingere lo sguardo /sotto al
velo delle cose, offende sensibilmente
l'al- trui amor proprio, e tanto più ,
quanto che da un lato si temono
maligni commenti, dall'altro si vede
minacciata pubblicità alle proprie miserie
ed ai difetti, sapendosi da ciascuno
che il curioso è in- discreto e
ciarliero. Sarebbe desiderabile che i ^
curiosi venissero a scoprire nelle loro
impulite ri- cerche ora un'azione virtuosa
che la modestia vo- leva sottrarre agli
altrui sguardi, ora qualche ac- cidente che
offendesse il loro amor proprio, come
•successe a Catone, il quale stimolando
Cesare a mostrare una littera che
questi ricevette in pien senato, e di
cui faceva mistero , Catone , dissi,
vide con sua sorpresa una lettera
galante scritta i"di pugno di sua
sorella. Allorché sì tratta di cose
alcun poco ragguarde- voli, il curioso
corre pericolo d'assicurarsi Tono- ratissimo
titolo di spia (I). » (I) U
Gozzi dipinge nel modo seguente la
comune curio- sità de' faUi altrui e
i suoi ridicoli commenti. (« Sarà
uno nella sua slanza cheto , solitario
; penserà , Franklin ci dà un metodo,
se non per liberarci dai curiosi ,
almeno per troncarne Y importunità ;
1 ^-.v. . — — •
Jegc;erà, scriverà, o farà qualche altra
opera onorala : » uscirà di casa,
anderà un poco inlorno a ricrearsi
all'aria ; » saluterà due o tre
amici, perché pochi più ne avrà
voluti^ » sapendo che di rado se
ne trova anche uno che sia vero:
» e appresso rientrerà come prima a
fare i falli suoi. Che » uccellaccio
è questo ? diranno alcuni : non
è possihile che )» un uomo sia
fallo a questo modo. Si comincia ad
inter- » prelare ogni suo atto, ogni
parola. Sapete voi che ha voluto
• dire quando alzò le spalle ?
quello che significò queir oc*, »>
chìala? e quella parola tronca ch'egli
ha proferito? Sicché il pover uomo,
senza punto avvedersene, ha dietro il
notaio » e Io strologo, e chi
nota, chi indovina, chi fa commenU
» alla sua lingua, e a quante
membra egli ha indosso. Vo- »
lete voi più? Tanti sono i sospetU
del fallo suo, che egli » avrà
fatto nell' opinione d' alcuni quello
che non ha fatto» mai, o che
non avrà sognato di fare. Le cose
di questo mondo sono come una matassa
di filo ; chi non sa trovarne
il capo , la lasci stare , perchè s'
impiglierà sempre » più. A me
pare che quando s' ode a raccontare
qualche » cosa d'uno, si dotesse
prendere questa matassa, metterla »
sull'arcolaio, come fanno le femmine
appunto del filo, scio- »» gliere
con accortezza il primo nodo, e preso
il bandolo in » mano, cominciar
a dipanare con diligenza, e, secondo
che » si trovano gli intrighi e
i viluppi, tentare se col
candore dell'animo e con la verità si
possono sciogliere. Se non si H
può, buttisi via la matassa, ma quasi
sempre credo che sì potrebbe da chi
non corresse troppo in furia, per vo^
H lontà d'ingarbugliare piuttosto che
di snodare. Questa u-^ r ganza
è quasi comune. Benché la logica
insegni in qual » forma s' abbia
a fare per venir in chiaro di
certe faccende incredibili o inviluppate,
pochi se ne vagliono, e menasi il
n basloie alla cieca, e suo
danno a cui tocca. Quando il »
capo é principalmente alteralo da sospetti
o dal mal volere » contro una
persona, si può dire che questa sia
una specie ivi- 4Sfl umm tmM
e . questo n^do coo»ste nel precisare
il disMMio e limitame H soggetto in
nòde^ da 'Weliidero quai^- lunque eventuale
dimanda. Allorché questo filosofo ni
1 0 * che doveva
prenderei sapendo quanto erano curiosi ^
kiterrogatorì gli Americani, usava dire
alle per- soAe cui dnrigevasi: 11
mionome è.Franklm, staoH' patore di
professione ; io vengo da tale luogo
, voglio andare a tal altro :
quale strada devo tenere? Dichiarando impulita
l'eccessiva curiosità , av-^ verto i giovani
, che in molti casi la curiosità
è ; vinù ; perchè Tindifferenza, la
non curiinza^ Tin^ sensibilità sono la
massima offesa per Tamor pro- prio x^he
vuple occupare gU ititn ili S9 atpsso
V é ^ conservare le apparenze della
modestia. La puli- tezza v' impioiie
adunque dt chiedere frequenti ap- tfeàief
di mostrarvi inquieto suH' . altra! aorte ^
«d esternar piacere o dolore alle
altrui foi tnne o di- sgrazie. L'infelice,
come è stato detto altrove ^\ sente
alleviarsi il peso de' suoi mali
allorché gli 4j^e^ al suo simile; ma
q^olte volte temendo d'im- v ^tf^unaito ,
si pasce di cordoglio in segreto , al-
lora fa d'uopo che una tenera sensibilità
gli faccia una dolce vio^enzaf e
"versi il balsamo della eon« ^
solazione sulle piaghe del suo animo:
la curiosità de' superiori o degli amici
in questi casi diviene imlesto rugiada.
• Parimente, «ccome II timore dV
equistarsi la taccia di vani, consiglia
alcuni a ve* lara le loro fortune
ed onori : qòindi la pulitezza^
, _ 9 •* y
d'ubbriache/za , per la cui forzii l' uomo
non vede , né sa » più quello
che si dica o faccia , e appena
coiX)sce più sé » medesimo 4Sr
eome. attrai» ai àìm ^ vgoto^ehe
éiiigtaM il di* scorso da questa
banda , ma con destrezza e tale
eanfeaiaQsa di parole , dm la congratulazione
e l'elogio seovri é'adiilaamie si mostrino
e di men^ « 20goa. V
In «oMkia > Ja cnriofiità ò
ripronslbile qomdo mi- naccia pubblicità alle
altrui debolezze e imperfé« zioni ; è
lodevole quando tende . a dare risalto
al merito o porger aoeeorsò al bisogno. Burrasche
delle conversazioni i o dispute. 'I
glardiAf de'iilosofi d'Atene si estendevano
dalla rive deirillisso sino a quelle
del Cefìso. Gli Epi- curei sì erano stabiliti
al centro, i discepoli di Piatone
vèrso il Nord, e quelli d^Aristotite
al Sud. Non si videro giammai vicini
men turbolenti nè man geloìsi: un
sentiero d* ulivo ^ un boscbetto di
mirto, una siepe di rose separava i
sistemi e ser- viva di limite al
regno dell'opinione. Le conver* sazioni non
«ono sempre ugualmente paciliche; la
diversità delle idee apre il campo a
lotte rumorose accompagnato e seguite da
parecchi inconvenienti. § 1. Idea
della personalità. Discutere è allegare
le ragioni e gli argomenti cui due
opposta opinioni si ' 0 sione
degenera in disputa al momento che
qualche personalità vi si frammischia.
Per personalità non si intèndono qui
quelle pa- tenti ingiurie che la buona
compagnia interdice , ma quelle che,
sebbene meno gravi, non lasciana d'essere
nel tempo stesso pungenti per Taltrui
amor proprio, ed estranee alla cosa.
. Due specie di personalità sogliono
per lo più introdursi nella discussione,
e le fanno degenerare in disputa. •
> Colla 1.3 spede si fa
rimprovero air avversario ch'egli parla per
motivi particolari, d'interesse per se
stesso, d'affezione pe'suoi amici o per
la sua classe, d'odio contro i suoi
nemici, ecc. « Voi » parlate così
perchè siete militare ; e voi negate
» perchè siete prete, ecc. » Ognun
vede che queste non sono ragioni ;
e quanto è facile di farne uso
ad uno, altrettanto riesce spedito
all'altro il ribatterle. Colla 2.3
specie sì dice all'avversario ch'egli non
conosce la materia di cui si parla
; ch'ella suppone cognizioni superiori alle
sue; eh* ella è estranea alla sua
professione. Anche questo modo d'argo- mentare
tende bensì a deprimere la persona
del- l'avversario, ma non scioglie i dubbi
eh' egli pro- ipove. Inoltre, senza
essere, per es., giureconsulto, non è impossibile
d'avere delle idee giuste e nuove
sulla giurisprudenza. Cause delle dispute.
Si direbbe che gli uomini inciviliti
amano le di- spute, come i selvaggi i
combattimenti. Sono cause di dispute :
I. // desiderio di conservare la
propria libertà. In parità di circostanze
ciascuno preferisce all'ai'*. litti^ Ja«ia
»9§iMm^ «ppunto perahà ò sm ^ jqumdi siamo
tanto più resti! ad ammettere l'opinione
altri, quanto è maggiore 13aria di epmaoido
con om ei viene proposta, fiiif
sottopond al nostro giudizio un'idea sotto
le forme del dubbio, riesce fià
,f«eibiimt0 a eonYtnemi. dr ^oello ^
ehi > senza produrre argomenti maggiori,
nfH>stra di vo* ler dogmatizzare e
vietarci ogni obbiazioiie* L'uoma ò ai
geloso detta sua libertà intellettuale,
eoitae la è. della «ua libertà civile
e politica. ^ « Dopo molti
acutissimi argomenti 1» E molte
riflessioni pellegrine » E belle cose
détte da^taienti » Sì grandi, la
questione ebbe quél firó v '\l
. » Che soglion tutte le
quistioni avere v " ' • Cioè
^estò ci€iscun,4el, mo parere ». IL
La vanUé^^eàe^ uaa apecie d'avvilimento^
tìst sommettere la propria alF altrui
opinione , percKè' lo crede segno
4'iaferiorità intellettuale. Il dispia- ,
cere dì questa supposta infèricirità, sensibile
in ttìtì^ cresce in ragione dell'alta
idea che ci formiam di noi stessi,
e può ( tant' è la. debolezza
umana j ) . giungere al plinto
da cagionare la morte, come successe
ad un filosofo dell'antichità detto
Dìodoro. Erano state fatte a questo
sedicente filosofo alcune, obbiezioni, alle
quali egli non seppe rispondere : lo
sgraaiato .fu punto da sì vivo
malincuore e di* spetto, perchè il
suo spilli to lo aveva tradito, tìm
spirò air istante. è si ver4
die* la. vanità è cavia di dispute^
che il silenzio d'uno de' disputanti che
resta nella propria opinifma diviene offensivo
;per Taitro. Il silenzio in questo
caso sembra provare che si ha sì
basso concetto dell'antagonista, che qualunque ragione
non basterebbe per convincerlo; quindi si
risparmia la pena di parlare. Costui
vede dunque che mentre egli si
sfiata, il nemico sorride, e lo
lascia abbaiare come i cani alla
luna; e che quindi egli non ottiene
lo scopo che si aveva proposto, cioè
la superiorità sul suo avversario. La
Mothe aveva detto male d'Omero ; il
poeta Gacon pretese di vendicarlo; la
Mothe non rispose]: roi non vo- -
lete dunque rispondere al mio Omero
vendicato'? gli disse il poeta, f'^oi temete
la mia replicai Ebbene , voi non V
evltet^ete ; io pubblicherò un libro
che avrà per titolo : Risposta al
silenzio di la Mothe. Lo spirito di
contraddizione. Alcuni par che non godano
d'altro che d'essere molesti e fa- stidiosi
a guisa di mosche , è fanno
professione di.. contraddire dispettosamente ad
ognuno senza riguardo. « Pria che
tu parli , M Nega quel che vuoi
dir, e se consenti . » Pur
d'aver torto, Non è yero^ ei grida^^^"
É vuol ch'abbi raglotii"»/-' ^ *
* E siccome taluni si mostrano
terribili nelle dispute per la forza
e capacità de' polmoni, perciò sembra
che lo spirito di contraddizione si
debba primiera- mente a stolto orgoglio
attribuire, o sia indistinto bisogno di
dominare. Lo fomenta fors'anche una causa
fisica non ben nota, chiamata temperamento,
quella causa per cui il can rosso
dell' abate Casti neinilustre adunanza
degli animali parlanti. Di petto Instancabile
e di voce » Ringhia ; con tutti
ognor brontola e sbuffa , » Pronto
con tutti ad attaccar baruffa. Le
inimicìzie sogliono essere una delle pri-
marie ragioni per cui si rigettano le
idee altrui ; giacché all'odio sembrano
vere e reali vittorie le mortificazioni
alla vanità dell'odiato. Secondo che
racconta il Castiglioni , trovandosi due
nemici nel consiglio di Fiorenza , V
uno di essi , il quale era di
casa Altoviti , dormiva; l'altro che gli
sedeva vicino , e che era di casa
Alamanni , per ridere ; toccandolo col
cubito , lo risvegliò e disse : Non
odi tu ciò che il tal dice ?
rispondi, chè i signori dimandano del
tuo parere. Allor TAltoviti , tutto
sonnacchioso, e senza pensar altro, si
levò in piedi e disse : Signori,
io dico tulio il contrario di quello
che ha detto T Alamanni. Rispose
rAlaiiianni: Oh! 10 non ho detto
nulla. Subito disse rAllovitì: Di quello
che tu dirai ! ! i V. V
imperfezione inerente a qualunque cosa
umana apre il campo a rinascenti
dispute. Questa imperfezione risulta :
. Dagli oggetti che hanno
molti lati, e de'quali ciascuno considera
quello che più gli piace ; 2.
Dalle persone che non hanno gli
stessi occhi, gli stessi interessi , gli
stessi principi!, le stesse *
cognizioni, gli slessi gusti (1).
1*4. ^ • (I) Petrarca parla
iV un uomo, il gusto del quale
era si depravato, che non poteva
tollerare il dolce canto degl'usi- l^nuoli,
e gongolava di piacere al crocidar
delle rane. Dalie parole che non
sono abbastanza molti- plicate ne abbastanza particolari
per essere sempre esatte ^ e
corrispondere ali^ varie modiGcazioni de'
sentìment!. Quindi tutto ciò che si
dice e si scrive essendo SQfi^ettfvo.
di «varietà indefiaila^ non deve recare
maraviglia se a costanti opposizioni va
soggetto, ^»1ra le eansa delle dìApntei
e sotta questo arti* colli fa d'uopo»
ace^nram- ia monto di spiegm^ i futti
prima d'esserBi accertati della loro esistenza
^ e .per col si dispala con- taMd
maggioi* calwes quanto che ciascuno parla
y ccilne si dice , in aria , e
M batte con strali di nebbia. Nel
lì>05 corse rumore elio essenilo caduU
ideali ad qiì faiìciailo df sette
anni nella Slesia, gUe.tté era sorlo
uno d'drd al poslo d*tino de'ipollftri
eadutt. HorsHus , professore di meileina
mellf università ^i ffelmaMftd, sf rìsse
nel ^595 la storia di questo dente ,
e pretese ch'egli era in parte natu-
rale, in parte nìiracoloso , e. che era
stato spedito da Dio a questo
fanciullo^ a fine di consolare i
Cristiani afflitti per le vittorie
de'Turéhi. t^lguratévt quale consolazione poteva
re- care al cristiani tm dente d' oro ,
e quale rapporto poteva unire un
dente e i Turchi. Nello stesso anno,
attìnchè questo dente noB-manoasse di
storici, RuUandtui ne diede una nuova
storia con VMOvI cijmiDelitIt SuaUnni dopo
^ IngloBlerns ^ altro, dpU^ tedesco,
scdsse contrq II sistema esposto da
iW- landus^ W quale rispose cpn una
pix)fonda arcihelllssima re- plica, come è
ben naturale di supporre. Un altro
dotto d'e- guale calibro raccolse tutta ciò
i^ìha era stato detto sopra questo
dente maravtgliosOi e vi aggiunse i!
suo parere* A tante béHe òperé aitro
non mancava se non che la cosa
fosse vera, doè òhe II dente fosse
d'oro. Onando un orefice Tebbe esaminato ,
risultò che questo preleso dente d'oro
era umi Incmvementi delle disputé/-
• > 1, L'imn araltya éelle
sopraece&nate peirsonalità suole inacerbire
gli animi nelle discute : Ordiìia-
riamente ricorre piò spesso aite
personalità chi più scarseggia di ragioni,
3. Nel calore delia disputa ^li
animi perdano di vista rargomento'
primitivo^ 'e vanno divagando fra idee
accidentali Tuno all'oriente, Taltro all' occi-
dente , questi in >Icò ; quello al
bassé ^ èDsicchè dopo lungo alternare
di sì e di no, dopo un'ora di
tempesta , dopo d'ayere perduto la voce
e i pol- moni , i conteodeati più
cbe pria trovansi lootàn! dalla meta* , ,
. . . ]^fiMii0 di 4U08|ta dUpQsizione
d^ loro che la decisione della
disputa temono con- traria alle lor viste
; quindi s'arrestano sopra «oa parola,
contendono sopra una slhfiìfrtudine , scÌMa-
inazzano sopra un'idea accessoria ecc.; il
perchè .talvolta- /a cdlwosa i^ntesa sopra
circoif^s^nze ac' cideìitali potrà smprirpi
la dubbia, fede di lai uno da'*
coniendentL foglia d'oro destramente
applicata al dente ma sì cominciò «A
disputale e aompprre de'libn, posd^ ^
consultò l'oreiice. foMaeeademfeo A Seeliao
, me^ibro d' altre acc«deoUe , in vm
giOg^Mti |MdÉb1k»ta ael 4821, j^ailmdb deUa
pcovinda Lodigiana, dice che ivi si
fabbrica .iV- celebre formaggio deUo parmigiano
; nel che ha ragione : ma il
bello si v che ag * . SiWgB
cbe questo ((nrmaggio si fabhi:ie^ col
latte di asina. ' Se quaala
gcariaso M^ddoM> ò oneduto , possiamo
aspi^tacci uoa feoiioa di dissertazioni sui
nostri formaggi ffasipati Digitized by
Google 3. Dal riscaldameato contro
le ragioni si passa al risealdtmeiiio
Mnlro Je feraipei»; e :i disputanti
dimpslrano « Negli occhi il fuoco
e sulle labbra il tosco In
somma dalla disputa sì pass^ alle ingiurie
, gen- tilissiiue ed edificanti ragipni degli
eroi di Omero. Iqfatt^ Giove non
parla mal a .Giunoné .senza dirle
molti improperi!, e Giunone non risponde
che sullo stesso tonOì. Dopo sì npbiU
esenipip figuratevi come dovevano parlare
gli Dei minori (i). ' 4* In
forza di questo riscaldamento, o in,
mezzo a questa lotta di vanità ,
ciascuno a'osti^ia nel pri- (i) jF^ra
i IraUi caratterisUci.degli awpcaU iligìéiil,
1 an'impudeittà. * Que* <sai^dìet.
à permettoBÒ I sarcasmi 'più indecenti,
le personalità più ingiuriose contro la
parte avver- saria;^ essi apostcatapp A|¥rt^^
i iestimoDii nel mado più vil- lano
ed .offeosivo, colio scopo di turbarne
ranimo e indebo- liroe te deposizioni/ EMI
per attro Urano Ulv<^ addosso delle
repliche che gli espongono àlle risate
deir udienza. In una causa che
discutcvasi avanti il banco del re,
fu prodotto un testimonio che aveva
il naso estremamente rosso: l' av- vocato
avversario volendo intimidirlo, gli disse,
dopo che 11 testimonio ebbe préstato
il fjlufaiiiento : Vediamo ciò che
r avete da dirci col vostro
naso di rame. Pel giuramento che ho
prestato, repricò il testimonio, io non
vorrei cambiare il mio naso di rame
còlla vostra fronte di broDso* .^ Ua
paesano det Berkslìire andava a ^tepoMre
isT una oauM che dteutevad ^ GnMinH
« Cdmo dàVMUÈ ét ^lle/ gH «disrie
» V avvoi^alb ' Wallace / quanto
guadagnate voi ^ giurare ? 1» —
Signor avvocato onoratlssimo, rispose il
paesano , se voi non guadagnaste ad
abbaiare ed a mentire più di quel
che ' lo a giurare, voi portereste
ben prèìrtn^m abllo di^ili9;€0iiie lo porto
io^ mitivo parere, benché il discorso
il dimostri per- suaso del contrario. Gli
amici delFabate Regnier gli davano il
titolo di abate pertinax, perchè
''^<'*V?'Pìù*duro ed òslinato degli
incudi » , » egli aveva
l'abitudine dì disputare '^fehacemente ne^
crocchi, lìnché i suoi avversari!, più
per stanchezza che per convincimento,
fossero costretti a sotto- * mettersi
al suo parere. Tra cento contendenti
forse se ne trova un solo che
finisca col dire , et lo parlo
per dir vero, r. f ». ' •'^'*
\y\ .^jil» Non per invidia altrui nè
per disprezzo ». . r4^oi)>;.Mia
gloria non ripongo in ostinarmi,, i
<:Iì;» Nel mio pensier. lia debolezza
è questa ri » Delle piccole
menti, ed io mi credo oii^(ffiiGrande
abbastanza per lasciarti tutto ^ iMi^P
L'onpr d'avermi persuaso e vinto Regole
per impedire o diminuire . gli
iìiconvenienli ielle dispule. , i .
... 1. Nelle assemblee numerose
astenersi dalFindi- care col nome proprio
l'individuo cui si risponde^ ' *
«(4) « Quando un uomo s'è ostinato a
dire: La non ha » ad essere
allrtmenii, io Intendo che la cosa
vada così, o )» così ; va,
picchialo, spingilo, dagli d'urto, tu cozzi
con una >». torre, hai a fai*e
con un greppo, e non ti riesce
altro se » non ché tu medesimo t'
induri, e a poco a poco senza
*») avved<^rtene, come chi é tocco
dalla pestilenza, che dall'uno »> s'
appicca air altro, tanto sei tu
ostinato e duro nella tua n opinione,
quanto egli nella sua, e non c'è
più verso, che » né l'uno nè
Taltro si creda d'avere il torto. Nella
camera de'comuni d'Inghilterra, chi discute
r altrui mozione o risponde ad un
argomento , in vece di 'designarne l'autore
col di lui nome indivi- duale, ricorre
a qualcuna delle seguenti circonlo- cuzioni
: l'onorevole membro alla mia destra
o si* nistra , il gentiluomo dal
cordone bleu, il nobile lord, il mio
dotto amico (parlando d'un avvocato)* ecc.,
ovvero semplicemente il preopinante. La
ragione di questa regola si che la
specifi- <;azione del nome è un
appello più vivo all'amor proprio che
qualunque altra designazione. Col primo
modo di parlare si dimentica, per
così dire, la persona individuale, e
non si considera che il di lei
carattere politico. Si scorge Tutilità di
questa regola , se si riflette che
nel calore della dìsputa i contendenti
durano fatica a sottomettervisi , e la
passione tende a violarla. Allorché
Tex^ministro Decazes montò alla tribuna
della camera dei depu- tati per rispondere
al notissimo segreto di Rignon, e
cominciò per chiamare a nome il Bignon
, mo- strò tutta l'amarezza del risentimento,
e dimenticò le regole della pulitezza
francese c delle assemblee numerose. ^
t.fn . Non attribuire giammai a pravi
motivi od intenzioni perverse V altrui
opinione. Anehe questa regola è
osservata rigorosamente ne'dibattimenti brittanici.
Voi potete con tutta li- bertà rimproverare
al preopinante la sua ignoranza, i
suoi errori, le sue false interpretazioni
d*un fatto, ma fa d'uopo che
v'asteniate dall'accusare i motivi che
riaducono a proporre od a rispondere.
Esten- detevi sopra tutte le conseguenze
nocive della mi- Sttm poopoata o
doiropinioQe «h'egli- dtf&nde ; di-
ìnositraie ehe saifann^ fenestè atta Sl^,
ehe.-la?»^ riranno la lirannia o l'anardua;
ma non fate giam*f mei siipporrèch'egH
abbia iiMvediite a ¥ol«teqìieslfi
conseguenze. - , f^-^^oi'^ii
.vRigorasamente parlando,,V aocennata regola
è fondata nella giustisia ; potùhè se
è dfffidto U conoscf^re i mi e
segreti motivi che agiscono sul no^tta
aiilmo « è edsa taneruria il preMiém
di ravvisare quelli che movono Faltrui
; e ciascuno sa. per pisoptfia
«sperienra quante volte i nostri .409
spetti diano in fate» in queste ricerche. La
risérta^ tMZza imposta d^UA suddetta regola
è olile a tutti, perchè è
scM»tegiia> aOa libertà delle opitueitì
é schermo contro le ingiuste accuse.
Nei dibattimenti pplitieìii com(9 HeUa^gju^rra^'
ciascuna deve. asteneESì da que' mezzi
che ragjionevoitnente non yorrcèbe Msati
opntro di sè. » *) ? ^ 1
> -Ma sQi^rirttutto poid'Memoata^^liegek
ètepiiliMr^ alla prudenza. Infatti , voi
credete che il vostrb a^jta^aui^
«'apfiig^ al. torto^^ oi^. egli ummrk
torse restìo ad abbracciale là vostra
opinimie* sé gliela presentate nella sua nudezza
scortata sold dagli argofwoti elM la
dinioetiaadv Me< se eontet ciate
dal rendere sospette le sue inten2ionì ,
voi Toffendete , voi lo provocate , voi
Mn igH toseiete la calma neeessaria
per ascoltafvi con atteKione. Egli diviene
parte contro di voi. Il calore Sì
oem munied dairun^idraltro ; i suoi
amici sMotereasMit per lui; e tfiiindi
nascono non di rado de'risenti- ^
associano alV opposizione politica tutta
l'aqj^retua 4e;gB- od&if^iia»opti|b. Un uomo
di carattere benevolo ^ modesto nella
superiorità , generóso 4iieHa siDei for2a ,
* confida solo ne' suoi argomenti, e
sdegnerebbe di dovere la vittoeNiv alla
Intenwopi siiippioste prave del rao nemico.
' ^ • .
- % 8; Gmrd(VFU- dal perdere tempo
e parole nel eùnfuiar^ èùse pafpàbttmenl^
fake. ' In questi casi è meglio
troncare il discorso e fkàMatA
allTopiniaiie degli astantì ) giiBicehè la
di- scussione recherebbe noia ad essi ,
senza riuscire a persuader ravver^ariou
Zenone negava, l'esistenza * M NfnMo Diogene
, -senza spendere parole V sì mise
a passeggiare : Zenone persistette nel
suo pnadoiw y ' e Dìo^e eontÌlm6
il sùo passeggio; Allorché Didone s'
incontra negli Elisi con Enea ,
da €w «ra stata si ingiustamente
e là barbaramente abbandonata, s'airesta
ella per argonventare con lui e
convincerlo ? Enea cerca di riacquistare
il di lei aflhMt dia gK tolge
spregevolmente le sptflè senza dir
verbo. * *
- , • ^ ? »
• Badale bene elle nel -caso
pratico rorgéglio potrà ingaummled ff^durvi
a sopporre palpabilmente false le >altnù
idee , o palpabilmente vere le vostre.
La mAt 0» r^ppfovairtmi» 'che 4wdrete
sut<vdlto degli sitanti, v*r servirà di
norma per troncare la discus* skma o
oantiomrla. 4. NoH rispondere alle
ingiurie thè net co* lùT della disputa
fuggono di bocca aWaivver* Battiy ma
ascolta , dicf^va Temistocle ad Euri- biade
« il.qsale alzava il bastone per
provar la sua tesl^ Questa fermezza
d'pnimo in un uomo che era tutt'altro
che vile i ci dice cbe si
devono lasoiat uigiii^LCi Ly Google
4^ &è sentite, e* difendere le
proprie idee con tutto il sangue
freddo deJla ragione. ' IitfAtti ib^
in^lalfi^l della disputa sfuggon di
bocca parole che si ritrat- talo appena cessata
; dialiaitro l 'altriii (?;4iit»'*ftifi^ .
giustiflcberebbe la nostMi. ' • -
-^^^^ la questi casi, una risposta
urbana che dimos^i. torrente di
villanie. Perchè mi dite voi delle
in- gmiy^ in luogo M rg^ionVf Avreste
voi preso if niie ragiónt per
ingftif^^iN^w ion. all'impetuoso^B^^j^^ BQiUiOW^.as:
salilo da ^if^jT Menai^ev^^' ùiia dlà^wiéy
'' ne raccolse un centinaio delle
più villane , quindi vi. aer4s^^Mtl,Q
qi^e^te {K^cha psirol^ : ìuAi^z^^i^r
polito. jiv '';^''^"'^'ì'^'^'^^T''-^òJ (4)
La fissa concilio degli Dei tra Gipve
e Ciunone, relativamcnle alla causii de'
Greci e dtMroiabi . fa assopita dalla
deitrem^dl Vincano. - . , j
; ;. ^ * «
Vulcano ^soM'^ . e i sereMi» ìa
spirto » Retta ìnadre abbat|u(o; Oh,
dfssé, ìnrvéto / » Strana fia questa
e memoranda istoria^ . » Che per
la dispregevole e meschina " »
^a2ià idectri v&da a soqnjaadro H
clélo. ' » brande è fl perigito :
'addiovconittt e èè^^e, • Se preval
la discordia; addio retema ») Gioia
che ne fa Dei : sei saggia , o
madre , » Né d'uopo hai tu de' miei
consigli; ah cedi » (U pur dirò )
, VolgiU a Giove, e .paìià »
CompiacenUi *, sòmniessa, onde dal'ciglia -
» Sgombri quel cupo nuvolo cbe
offusca^ ' f > Digitized
by Google 40^ - nSMI'iBltM^'^ I
me ii^KmMà^ cAft» ee^Hunà^ Urisùt
faecia ces- \ queista me:&2;o già
iicceooato di sopra. Chi ael eà<«
-, • ' \à ».
. * . n ^éiien d^lfa leste^^ -
'* ' .>. Qqanlo forte e pòsseote
: e sì dicendo , . ' -
v\ * Prende capace coppa , e a
lei con questa, . ; * .
»; Presentandosi innanzi : Ah soflri, o,
.madre ^ . ' ^ n
SommessameotéJ^lgllando a^unse'^ ,
. \ " -, ^ i $Qnrif
èiiie'yoòH^^ Impiinem^EHtftlei * *
* . * 9 N<m'''SI còzza 'con
Giove; ab se noi tutti'* - ^
' » » Ei vuol cacciar da' nostri
seggi , il sai j - 4 Sì
sei potrebbe; q 4Uor che fora (ip
tf^igio): . , » pel tuo
VulcaD»,sé'8i ioateoricio atioor^ ' V
fio^mi dal «^n^i^ > ' *
' ' r Stramassaf Bulla teìrra ?
A coUi detti » L' afflitta Dea V
annuvolata faccia /• ' « Rallegrò
d'un sorriso. Or che ^i tarda , i(
.Gridò 'lesali già vineitor;; a* Assaggi
-i là tazza della gioia : el ff
alt» tefaa " ' * •
' V Neltarè afiMfWanre, e posto
a fronte, . ' * »♦
Alza il nappo alla Diva. Ella
lo prese . , \ Dalle
mani del figlio : e| poscia Jo
giro » N'andò agli fdhi .m^sceBdoV id
volto ^ agli atti,- , ; • .
All' qfDr^ttar ddlModampante passo, '. »•
IJn ìIso sollazzevole si sparse
" * ' « Fra la
turba dei Numi, ognun applause • t
Al vivace coppiere , ed ogni fronte
' 9 Basscjreoossi : fra letizili e
festa ^ . <ft /Pràscorre II ^rno ,
^ hon vi nùiDca i^^o* ». Cpnla dorata
cetra, e non le Muse » Con
rarmonìca voce e l canti alterni ,
' » E tutto di gioia
esulta Olimpo » ' hJre (Sella
disputa scappa fuori con una celia
ai»* gaia, sembra direi dlie rimo^a.alla
vìltaria^^^ vi rìhuDzfa spontaneàmente, e
die mfoìe iestarei amico liei tenipo
stesso chejn iuìla nQ$tra vanità iir
ftiigeira W nemleio. t^óeslo tirAtfa-^g^AeiféM^
sorprende piacevolmente; e quella vanità
che vo- lea vineere n:0lia .dìapQta>
non vuole mtate-fiirta' in generosità;
quindi gli animi si acquietano. Lo
spiritoso Voiture aveva punto e ìnareeiNto
un cor* ^hHoi queétf vt)léva èomingerlo a 'battersi*
in duello. La partita non è uguale,
rispose il poeta; siete grande io
soa piceola; \voi siete bravo- ed io
poltrone: voi volete uccidermi? ebbene, ec-
comi morto. £gU dissirmò il suo nemico
facendéM Quando i contèndenti non la
finiscono , e kt disputa è ' alquanto
loalorom y pànM dàvèf^ degli astanti
d'interromperla con suoni, cantij giuochi^
soniniinistraziani di Jiqwri o «ifn|li.
V " " ■
« Al suon {piacevole .» D'arpe
trèniafitr , » Mescete, o vergini,
' ' ' / » Mescete i canti
' \ ' Satira itréanà.
t I. UtilHà della satira
urbana. , ' * Condannando come
inurbane le villanie e le ìn- giuriC)
non intendo di vietar Tusa savio ed
op^ pòrttino deli' ironfa o idetta
a^ttn eh» flUt^ pregiU'* - tifiao
tElujO » volta giunge a porre
sul trono il vero, )ridendo« . -
Jà'amor pri^Mifo, che non ahbaadana uomini
m aoQ qiiMd^ ,9m abtoodoiiwo la, vk»;
iìi toi^ temere sópra ogni altro male
la derìsione, e scuote Jovb dì dos89
.r uidolenza , e daUe^ i^j^ cai^
feUìe gir spoglia per non rimanere
esposto ai frizzi del ridicolo^: i)
che jpes^. non , ottime la piìi l^mpaoti^
Térìià 6d ligguerrìta >ragiònir./$e
Aristo&iie avelie dato agli Ateniensi
In una concione quegli ani* ma^brameoti.
etie died^.loro .aeU^ cooiniedie, l'a- vrebbero
lagnato a pezzi; laddove in teatro
ride- vano smasc^llatamente e di^vaiio eh' egli,
aveya vagioiie. Bèi^chè i Geniti aTesaerc^
veduto CiaerOQe assalire Tedificio dellldolatrìa
con armi prestategli dalla, filosofia V.
poro iiea. aapavafio lodimi .ad ab-
bandonarnei tempii. Comparve in mezzo
d'essi Ladano, il ^uàiQ fece la
guerra al gentilesimi. doI .«lotteggio, fi
se non ne distrMse gli altari, ne
d^ sperse in gran parte gli
adoratori. Il buon senso aveva {iròseritte.
la^ mz^ia cavallefescfae in fspagna, pria
che nasces^è d^rvanfes ;C mà quella
nazione non riuscì a spogliarsene se
non dopo ^'tgii abbe preÉcutato al
ptibbli^, 11 suo ridico* Kssimo Dpn
Chisciotte. Tanto è , véro ciò che
dice Orazio: . '
- . « fPnoa graVf sèstenza
ottieB più spesso » II desiato Cne
arguta celia ». Si deve adunque riguardare
la satira come una apecia d'ammenda
censoria che aerve a corriere quei
difetti i quali, senza cessare d'esser
molesti e talora 4muk)sì alla aociatìb
non triy^Qsijaei codici , St
inosservati dalio stesso colpevole seoza
la - caule àmmo9lmùe della satira \
del an^tteg^ ; « dello scherzo. Il
suo pungolo viva e leggiero, vi- brato
a tempo , può divenire suppUmento alla
le* < gìslazioue, più ef&eaée dei
gravi sèrmoni, più acutd di qualche pena
afflittiva, e il rimedio blando e
specifica dei morbi lìpn ^ilcerosi
fleiranljsgo, e f^ec così dire cutanei:
/ . .
^ V \ « Seguasi il Venosin
, che ride e taglia _ .
. ..^ » Chi sfugge a) Fpro. IJ
satiresco uffizio - f » .Piiif
die II fratesco può levarti il pelo
^ ' ». P%chè il frizzo piii
scotta che il y^j^^^^^^ L'ironia però
e la satira sono armi pericolosissitne
di cui egli è^estMmametite foeìle di
alm^ sare , sia perchè questo genere
di discorso non è il più difficile
(1)^ sia perchià la sottra, .presenta
UM . fat^B sembi^^^ sia perche^
deprimendo gli altri, sembra airaniòr
proprio d'io- nateaiÀ 80 stesso:, perciò
riesce iiiiripido 11^k»gio% • e il
motteggio piacevolissimo (3); ed Ennio
sog-* gittiige^ ch'egli è più facile
ad uà uomo di spiriló il wlbeare
««Ha bocctt* de' carboni^ àeeeal , di
quello, che riteoere .un iiiottti s^tipco
che gli corra {i) Un giovine
gloriandosi d' avece composto una satira^
CiebiUoD^gU disse : lUcón^spele cpsnfo è
JMle qiiesl^ niera di scrivere, giaccbiè
ij siete riusdto aUa^^vesbrft et^u
(2) Maliffnilad falsa species liberiate
inesL Xacit. , Hist., I. ^. •
* . ' * OblrectaU<K et Uvor
prouU wiuihm accifiuntuTn Idem, m ^^
r ' . Digitized
by Google ' '-^fi* tiimo
s'assoèia spesso l'invìdia, la quale
stiilerf>ià mtnvte azioiii' altrui ^l»U&ee
severa inquisizione, A fiiie ét iìtùywfì
qualche» «aeGateBa^ e ;.coii wAì^ gni
>ep]orì. adoaibrarla: - . r •
' • € Di tutti
invidioso diceà malQ ■ Sénisa rispetto,
e pretendi^vii ardito ' . » Piovra
i costumi altrui far da fiscale
Quindi suUe cose , sulle follìe
^ sui pregiudizi , sulle |ti*€itensi(^ai
d^lj'aiuor proprio, ' sui vizi in ge-
nerale àevc H 'jmotteggit) più spesso
cadere che .non suiruomo particolare, àccioecbè
alpri, vo^ndo eedtaré iH .rteOi non
apra una piaga mortale mei- 4'altrui
animo, e non s'esponga all^d^o delle
per- SOM emeste se la /SMira dà
in ialso, . ^ -, • • •
' . FqItio che< per diletto
o per malignò V Animo Valtrui
fama è a morder presto^ ' * .
. » Ch'infin giunge a sp^ieqiar pef*
corbe un cigQps ' » IQ ebt^nt'odio
vìen^ eh' ogn'uoin ené^^^^ i Lo d^nna
con ragion, l'abborre e fugge \VÌ»:Con9e
mostrò all'umah éóusdrzio inlissto Meii
voglioT^f ' ommettere d'és8èrvà?e, ehe ai
rinvèi^iore di falsa maldicenza o
d'ingiusta sdittra è ripr^sibiie , lo à
pure quello ebe la difiba^e:
lAi-'appiceando il fuoco all'altrui casa si
scusasse dicendo, che ha ricevuto il
fuqco da altri, non oV Mrrebbcf
cotnpatimento ; per he stessà ragioné
t>t-. tenerlo non debbe chi spargendo
false maldicenze e ingiuste satire, dice
d'averle intese da. Pietro a d9 Martino,
io un caffè o in un'osteria, enones^
i^ne egli rinventore^ ' » SenCilor
W raceontar, fti un trombe]^
* » Preso una volta da'nemici
in campo / * ' r » Mentre
stava sonando alla veletta: ' V
\\ qiial, per ritrovar riparo o
scampo/ » Dicea che solamente egli
sonava, ' " » Ma eoi stio
fèrro mai non tinse il campq. Gli
fu rispo$to allor, ch'ei meritava •
Maggior iien^ pero; poichò sonando^ >
Alle stragi, al. furor gli altri
irritava ». Dopo (Tavere stabilita la
legge generale , fa d' uqpo aggiungere
le ecceziotU, - le. qvali per lo
piiij dall' e$amé delle ragi«ni w cut
fondMli là 4lessa legge^ risultano. • .
, . . - y
url^nità jno!» coBdaQQa ne nel convenar
ab* eiale nè nella repubblica letteraria
i modi satìrici più. 0 .iDeoo
.piccanti, ma veri, contro gìi indk^i^,
dui tÈ^ seguenti casi e pe' seguenti
motivi: / , 1^ Rispingere m
impertinente aggressore» ^ jMtiasiiiio Oacier^
entuaiasta della àeiMza ^digb' antichi ,
ascoltando un giorno una dama che non
ne parlava Qon troppo rispetto , e
prioiHpdknj^qt* del divino Platone , le
.disse con tatta la genti- lezza degli
eroi d'Omero: Certdment;^ madama non
degnasi di leggete dtro Sèrittere anticò
che Petronio (ciascun sa che Petronio
è ràutore pre- diletta de' dissoluti^;
Perdojiate^, replicò ellat fò aspetto , per
leggerlo \ che voi fie abbiate Jatto
un santo. Chi vorrejìèe dare al
{rizao di quella dama ia ttisoiii dimpulito
(i)? . •" » « (i) Un
principe volendo divertirsi a spese d'
un suo cor- tigiano I eli' egli avm
impiegido ip diversè amb^^ecie , lo
Mendicar la ragione degli attentati d*
uno stolto o d'un impostore. Socrate adoprava
l'ironia colle persone presuntuose , con
que' pretesi dotti universali che, non
sapendo nulla, davano ad in- tendere al
popolo di saper tutto, e pronti mo-
stravansi a rispondere sopra qualunque
argomento. Luciano smascherò il celebre
Peregrino, il quale profittando della
dabbenaggine popolare , e fa- cendo false
predizioni , aveva aperta una bottega
d'impostura nella Grecia e s'era arricchito
a danno del senso comune e del
pubblico costume. Mendicare i diritti
del giustOy delVonestóy .della patria dagli
attentati de* malvagi , per falsa opinione
potenti o per forza' reale. Chi
avrebbe potuto condannare Cicerone, allorché
met- teva in evidenza i vizi di
Catilina e i suoi atr tentati cóntro
la Repubblica? Il giudice che espone
un delinquente alla berlina con un
cartello sul . pettOj ove t\ leggono
i suoi delitti, è senza dub- bio un
maldicente; ma questa maldicenza perso- nale
è necessaria a scorno del delitto ed
a fine ;di prevenirlo- '
rassomigliava ad un barbagianni. Io non ,
so bene a obi mi ral^omlgli , rispose
il cortigiano : tutto ciò cb'io so
si é, che ho avuto l'onore di
rappresentare molte volte vostra maestà.
' Anche nel «eguente madrigale il
frizzo è giustilìcato dal diritto di
difesa: - . - \.\ . •
... • •ov ' «
D'un ponte al passo stretto^ •
» Stando sopra d' un carro Tommasetto
y ' • * » hicontrossl
In due fraU zoccolanti ^ -,
n Che disser : Villanaccio , Ur* avanU.
— " • • V •
* Ed egli : Aspetto che passiate
voi ; •^ » Non to' mettere
11 carro innanzi t* buoi ».
> - Digitized by Google
a.. m f-Il pdjdrone che,
interrogato sulle qualità d'un servo licenziato ,
dietro la sua esperianza lo dì-
chiara ladro, è senza fallo un
maldicente; rna que* sta maldicenza o diffamazione
è utile, giacche è meno male che
resti senza padrone un ladro, di
quello che vengano derubati più innocenti.
• ' ChesterOeld non distinse con
precisione i con* fini che la satira
, la derisione , la maldicenza utile
e necessaria separano dalla maldicenza inu-
tile 0 ingiusta, nel. seguente paragrafo: ,
. a La privata maldicenza non deve
giammai es- *^ sere accolta e
divulgata volontariamente, perchè » sebbene
la diffamazione possa al presente ap-
» pagar la malignità e Torgoglio
de'nostri cuori, i> pure la fredda
riflessione trarrà da sì fatta in* »
clinazione conseguenze sfavorevolissime per noi.
» In fatto di maldicenza, come di
ruberia, chi la » raccoglie è sempre
creduto colpevole quanto il ladro
stesso ». ' * / .
Distinguete la maldicenza che svela
le altrui innocue debolezze per sola
voglia di denigrare, dalla maldicenza che
svela i vizj veri e i delitti
reali che possono essere dannosi al
prossimo. La prima è ingiusta e
riprensibile, la seconda utile e
necessaria. L'uomo cui siete per affidare
la direzione della vostra cassa , è
un truffatore , xxn giocatore, un
dissoluto: mi farete voi rimpro- vero se
ve ne avvertisco? Qualcuno vi imputa
dei vizi e dei delitti falsi: vi
lagnerete voi di me, se gli strappo
dal volto la maschera , e Io
dimostro bugiardo ed impostore? È giunto
in città un ca- valiere d'industria che
co' suoi ingegnosi stratta* gemmi scrocca
l'altrui denaro: vorrete voi che noR
ne dia avviso a' miei amici ,
acciò la loro jomoaa fede, non cada
in laccio? AU^ corte; sevo] - amate
il gregge, darete la caccia ai lupi;
e se gli uoiiiiali. accennerete loro
i cani arrabbiati. Jieyole ^er V uso^
della satira. Tre sono le fegole che
debonsi osservare motteggiatore , acciocché
il motteggio riesca one- sto e Jegittiibo,
cioè non offenda nè la giusti^à^ ijè
Yumanitày nè la convenienza. Il
motteggio è ingiusto in due modi: 1^
quando t>un^e (^ersóne esent! dal vizio
ìniputato;' 2^ qMando cade su difetti
che non possono ascri- ' versi a
colpa, come le imperfezioni fisiche ^
òv- * vero le sventure accidentali.
• L', umanità rimane offesa quando il
motteggio ^ nialigno ò acerbo. Dà
segno dì malignità chi mostrasi avido
del male altrui y M si delizici^
e còn^piaep neirinsuJtare e nel
nuocerer^$idà segno d'acerbità, qualora il
motteggio è sproporzionato alla jcolpat .e
flagella a sangue chi ^on merita che
un lieve colpo di stafile (I). ,
* ' ; ' (\\ V
itotàh' SoMÉe m rattopprata
.^iHn'^Mee» delle sue maniere ^ dairameDìià
abituale de'suoi sguttdi, dal tiorriso dì
bonlA ^ sempre pronto a Dc^cere sui
suoi labbri, di modo che 4'icoDia
cessava d'essere aiuara, e diveniva, per
oqsì dite , ua agro-dolce eondile dalle
'grazia. Cresceva or ' t*inK>, or
riiRro di ifuéstt due efemeiilt, secondo
cbe 11 difeifò Tdie Socrate voleva
correggere, era amb nodfO.
- ' . ' Voltaire dice,
che volendo censurare Cornelio, imiterebbe
' iioid4> Il Quatoy nellA poomi^edl»
del Uakiouuto pet ior^a > »
• . y .i.Lo u - Si Tìola
la convenienza, quando i motteggi di-
' sconvengono al motteggiato o al motteggiatore
éHa «iveostanza di ioogo e* di tmf^
; qrówto sono sconci o villani,
quando si scialacquano senza ' misara^
e : se ne fa professione aperta
« perpetnà» L'ingiustìzia nel motteggiatore
o è maliziosa o ' irriflessiva^ la
prima nasce dal bisogno di umiliar
PMtrttì merito ptat inoftlnorsi sulle
f«^tie deli" ftb^* battuto rivale: la
seconda proviene da un errore d3iiteUetto
originalo de rislielftesie di idee^ siste*
mi esclusivi, rigidezza dì carattere,
tenacità d'opì* nìoni. Da quesi^a causa
derida j^e tal,Y9|ts^ l'aicer* Utà prodotta
p*^ii spesso umor eausticeié. etra-
biUariqi^ JLi|i causticità è sovente figlia
4/ ^ <^uor depravato i ebbro d' orgoglio
malefico, e pasciuto del fiele deirinvidia;
talora una cattiva organizzazione, o le
persecuzioni ostinate deUa Tortutia giungòtiò
e guastare aiidie unendole Me^'-e ad
avvelenarne Io spìrito. ' • / r.
' Le: e^ ke peir 'sóei pìriii-
dpii 0 una natura grossolana, 0
la mancanza d'e- ducazioney o una
vita isolata e lontana dalla so^ eietà,
0 il pocò studio dell'uomo, o le
compagnie yolgi^p^^ ioQne T abitudine; di
parlare spensier^- taméirter;■ '^t -
^' ' ' * ■ .
> « ji ■ non dà giottliBat
ma<> bailaalata a' Sganardio'w non
previo un eoDipUmento rispeUoso, e colla
protesta d'essere disperalo per essere
caj[tr41o di Cario. Questo inpdo.di^ceosarareiM»ja
debb' esjsere escluso dai croccili. sociaB
*, se ma cb0 in vece di porre
in m&no al censore uh bastone j
fa d* uopo dàrgfr un fltigeRò di
jNMe. ' Jl}ìm^ li6)Ia
ùimwènms^h satira appoggiate al falso va
mordendo lievemente i costumi degli assenU
, non ta 99vero cepsore aggrotterai
tosto ki eiglia, uè tomi icon mano
ardita qoeatò tenoe piiiBere alla
mediocrità che si consola della prò-!
|lrìa batwzza sfoirmndosi4i4«pcimi^V J'alte^^^
n»e- rito V ma a condiscendenza
atteggiato più che ad a88.ei)8p9 .ammirerai
lo spirito di ehi censura, e^ter^
modo dabbii mU'applicaaioQa. Sa *poi U
piacere di satireggiale gua4dgi]ia gj[i
9Staim al puntp,,(^e 'aQi;ga qwlcha* ».
^ ;vt.-(:;-^; . ^^r^y-^M^^ ^ «
Tewité et6lrti0 nrò?atord^^ f'':: ^ ^
» Motti protervi, onde a maligno
riso ^^^ V » Mover la dorma e
la virtù schernire ^ ' ti sarà
permesso di. troncare em jdigailà V
altrui aiscorso, e assumere la difesa
degli assenti; ma, per non scemar
fede alle tue parole ^ non devi
mostrare alterazione di spirito; giacché,
altrinieriti operando , al piacere di
satireggiare si assoeierà , nell'animo .del
satìrico il, piacere di conturbarti, e
gl} assenti verranno ad essere danneggiati
dalla tua stessa apologia. L' e^peri^jdza dimostra
infatti che il calare della difesa
rendè , tahotta gli assa- litori più feroci,
e allora la conversazione rasso» miglia
i^ue'aiigrifizi sbarbarì ne' quali immola vansi
ijjttime omaiie. ' Lascia dunque qualche
pascerlo .alla malignità, se vuoi ch'ella
ti permetta un elo- .gìo; MBt per
prosare la. itiocei^ità del, 4iio ttlo,>
allorché tu stesso produrrai in mezzo
le azioni di qualcuno, in cui siano
difetti frammisti a vir^, userai la
dèstrézza di quel pittore che, dovendo
ritrarreAntigono guercio, lo pins^ di profile. Facezie.
Un discorso che inaspettotanieiile e
contro JTap- paranza caoibid il rimpjTovero
in. lode, it male. in .tiene, il
lisGMHre iO; sqi^exanza, lo spmzo iii
istinni^ e talora anche ali'oppostcs si
chiamai face zùa La facezia si divide
in due. specie; La l> ^ un
hréYé raceoitto che fa passare IV
nimo tra alcune d\Tenture, e dopo d'
averne ali- mentota la curiorttà , ikiisce
con iin sentimento non preveduto. ^.
(I) Dionigi il tiranno avendo sapulo
che una sua coni-' me^Ua^ dajui spedita.
4l: concorso in Atene, era^t^ta eoro- oata^
ne injpti «r«lleg)nem. ^ CiH Ateniesi
dissesn cbe^ise *av«flh aero preveduta' questa
tdaf^t^jotià i vsu^hf^eio cèronatQ.Dlou^ venti
anni prima. * * ' in qiieslo
caso la iode copre un vero disprezzo,
e mmì- testa la Viziosa compiacenza
ct^e dovevano provare que' repubb|i^|AMr la
moi>t€i d'un tiranno tanto abbòminato;
Sorge^^fftiBrmo piaqèvolissitna sorpeesa nel
vedere etie «gli Ateniesi potevano liberar
Siracusa onorando Dioniiii in Atenei* Jjl.
padre Le 'i'cìlier, che mentre era
confessurti di Luigi XÌV,* teneva il
protocollo de' beneticii ecclesiastici, diceva
ad uti giovine abate : Yoi altri
esitanti agli impieglil sièle oost^ amfei'
finché aVeté, bisoerio di noi ; 'ma
qìiéaida siete saziati^ ci dimenticate. —
Ah , non temete nulla, rispose ridendo
Tabate: io iK>n vi dimcoUciierò
giuiumai, giaccliè solip iosa^ In
questo ciùo tt timore si cambia in
speranza^ e nel -tempo slesso éi si
pres^ta improvvisamenfe nùi^ upa brama
I • che con somma gelosia
suol tenei:sì nascosta. , i, ^ Eia
è un semplice detto pronto,
rnaspettàtoi opportuno t un vivo ^^apidgi£ripo
che vellica e' punge piaeevoimente. *
Con maggiore chiarezza e precisione di
ter^ Quni>- giusta il suo costume,
spiega la cosa il dot- tissimo Gberardffil
dksemkK. La giocondità delle lacezie par
che nasca ordinariamente da un ingé^
gIMMt»' ed iroproiovlM 'aecoppiftiBentcr W
d«ie idee disparatCL tra loro e
disconv^jiienti (1). ' ' lì
riso, semjira il prodotto 4i due sensai&ioni
u- iike, sorpresa e piacere ,
eccitate da Jien elitra»-, stì 0 da
finissime analogie. L'impressione oagionata
nel nostro animo da un oggetto nuovo
o inaspettato sidsiiania sorpfesia. La
sorpresa è maggiore quando T oggetto
.coni- 0 la' eosa * raeectea' è
eonivìirìa a/ qiiai^ suole comuneipente
succedere. ♦ * ' •
Quindi la aorptesa. è massiin»
allorché è mas- sióio il contrasto
tra il fatto ^pcaditio .eJa-Hft: stifi.jaspettazione*
Ciò posto: 1. v '
• v . I. jChie éel jtUo
abbia: kmga la sorpresa^ è di^
mostrato dai seguenti notissimi fatti: •
' ' Ridono frtù spe&so gli
ignoranti che gli o^-, mini cotti,
poiché ì primi nón conosGéndo i rap-
porti die uniscftpo, ie cas.e, 9, WAggiori
sorprese soggiacciono. 11 saggio appena sorride
mentre lo sciocco • t'abbandona a^
riso sgangherato, ^acchè il sagg^ìo ^
. r -t's, ♦ •
> • " .
\ . • \{) EIcmonti *
peesla ad uso delle scuole.
Digitized by Google trava presto le
idee intermedie che imi»sip>pi^jlor^ liuie'
afeiluate. ddto «òse .«col fi^ k»q^«if^ì^^
successo e che sembra smentirlo. ^ r
" ^^^ > a<« fy. mette*
«bea fUe^ Ue9ggiOt4t^^l<^ f^eioe- co non
ride; e questo accade quando il
contrago' ma è immediatamente espresso »
ma dietro rap-* porti pBBfiìm.ài idee
s'asconde « e quaìdie mé^ noento di
riflessione per essere EientUp o ricono-
4.0 '6H uomini faceti e lepidi
dicono e sanno rHl^yar jOOi^e che
lanno ridere gli altri, ^senza die .
«et irfdeno^tesifi. Man vidptin* esa perchè
veggenti* ril nodo/cUe^unisce le idee in
apparenza contrastanli; ^Qao*. ridwe gli.
altri. 4^rehè hfinBQ T artiiisio. di.
^asconderlo ai loro occhi. >' *
r^r? II riso die ecdta .una
facezia^ sentila la fush ma yoitai
è'«moltn pjéore alte sead^a, e posbin
diviene millo, perdiè le cose note
fioii lasciano Ittoga^^liia ijorp»^. / ^
sw*. v >^ ,
>à>^I^* , IL Che a/ riso
non basti una sorpresa q^it^*'^ limqu^f
ma si riohicgga Vaggiìmla^i sensaziaue
piacevole, seop^ira rieattare -dat ft^^fuenti
ietti: .< ^ 1. " Noi ridiamo
ricordando le nostre passate fi^lÀ^ Qv^j^m^
aUoiaOia annessa jd^a del .disi^-
nore, perchè questa Vicordanxa dà risalta
al sen^ limentOc:4^4.;POSti;a #Utuaj|^e .saggezza
» e!, quasi « dissi, le accresce
piregio; . . t , ^
evi^ rvjV/. 2. <> Noi
ridiamo aH'udire le altrui goffaggini ;
il,* cl\e fiorse d^riiui dairamor (HPQpriOr
il qmlei gica-f, see nello scoprire
in altii de'difetti de'quali egU ait
crede esente. - . i n % /? ;
> c^^ ^f i ^j
"^' ^.^^ Koi rìdiamo alle sveMure^dei
ncNMvl^nemicti. allorché non sono sì forti
da interessare la nostra compassione ;
poiché le accennate sventure adé^ scano
piacevolmente il sentimento dell' inimicizia
e della vendetta. ,i^>>i -^^t^^fi
r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i - 4.« I beffardi
ridono nello scliernìre questò o quello,
giacché il loro orgoglio coglie tanti
gradi di piacere, quanti gradi di
depressione ed avvili- mento fa subire agli
altri co'suoi motteggi. • ^fi.p Noi
ridiamo nello scoprire somiglianze tra
oggetti che credevamo non ne serbassero
alcuna, come rìdiamo in generale sentendo
ingegnosi tratti di spirito; perchè il
facile esercizio della no- stra intelligenza
nel rapido passaggio da un' idea dtf
un'altra, ì cui rapporti lontani non
erano ben noti e distinti , é per
se stesso piacevole , com' è piacevole
un moderato passeggio, il respirare aria
nuova, la comparsa d' un lume neiroscurità
e si- mili; 2.0 perchè quella cognizione
diviene argo- mento della sagacità nostra^
la quale ha saputo cogliere un
elemento che, i:estìo all'analisi, al co-
mun guardo ascondevasi* V . ^
"4(^j»* , .' .'«' «..V,
. III. j4cciò la sorpresa e il
piacere cagionino riso, vogliono essere
prodotti da lievi contrasti 0 da
finissime analogìe; ecco qualche fatto:
• 1.° Alla vista, per es. d'un
bel quadro, all'udire una bella musica,
noi proviamo sorpresa e pia-» cere,
ma non rìdiamo; dite lo stesso
allorché al' vostro occhio sì presenta
l'arcobaleno od altro si- mile grandioso ed
innocente fenomeno. "i.^ Vi cagionerà
sorpresa e piacere senza farvi ridere
la vista d'un animale selvaggio non
mai veduto prima, per es. la grossa
scimia chiamata Qurang-outang. Ma se
la scimia vi si presenta con berretto
da cardinale in testa, voi non po-
trete comprimere il riso: v'è qui un'
contrasto. Osservate bene che non
tutti i contrasti fanno ridere^ ma
solamente i contrasti lievi, e son
quelli che escludono la compassione e
l'orrore. Se un uomo millantandosi di
poter saltare un fosso vi cade in
mezzo come un animale, voi ridete
sgan- gheratamente; ma se, cadendo si rompe
una gam- ba od altro, voi non ridete
più; qui il riso è com- presso dalla
compassione. Dire con Aristotile, che
il riso è prodotto da una deformità
senza dolore^ è ristringere di troppo,
secondo che io ne giudico, il campo
del ridicolo; poiché spesso noi ridiamo
saporitamente senza che alcuna ombra di
deformità al nostro spirito si appresemi.
Infatti ci fa ridere la sco- perta di
finissima analogìa non prima supposta (p.
471, nota i), l'unione di qualità che
sogliono essere disgiunte (p. 461, nota
i), la disgiunzione di qualità che
vanno ordinariamente unite insieme (i).
fj* ,J m .... .
, . " (I) TI rasllf^'lìone
raccoma come un dottore vedendo uno
che per giusti/.a era frustato intorno
alla piazza, e avendone compassione, perchè
'I meschino, henchè le spalle lìeramente
gli sanguinassero, andava così lentamente,
come se avesse passeggiato a piacere
per passar tempo, gli disse :
Cammina, poveretto, ed esci presto di
questo affanna Allora il luion uomo,
rivolto, guardandolo quasi per maraviglia,
stette un poco senza parlare , poi
disse : Quando sarai frustato tu, an-
derai a modo tuo \ eh' io
adesso voglio andar al mio. Vediamo
in questo caso disgiunte due quaìilù
che sogliono essere unite; cioè, sotto
Fazione delle percosse, non scor- giamo né
I segni del dolore , nè lo
sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque da
un lato una forte sorpresa, daU'
altro Fonti 4ija0ezie€^^ * Le numerose
fonti dà cui s^possoikl tram ìetà^
cezie, vogliono esser ridotte a
cinque capi generali. Deformità logiche;
Deformità morali; Deformità fisiche;
Opposizione artifiziale tra tó iHile
e il sog-getto. Somigh'aoze e contrarietà
lontane o latenti ed miprovvisamente
svelate. Sono deformità logiche le
deviazioni dal retta raziocinare; e ì gradi
di esse saranno sempre maggiori, quanto
più peccheranno coatra le regole del ginsto
raziocinio. « L'rghpranza quindi delle 1)
pili facili combinazioni, la credulità
soverchia,, i> la scimunitaggine sono
fonti sicurissimi dia'qiiali » emerge
quella deformità logica che provoca il
» riso senza eccitare nè rodjQ nèla
compassione: » quindi le parole^ o
prive di senso o storpiate, » le
interrogazioni, le risposte fuor di proposito,
M le incoerenze, la pertinacia negli
errori evidenti, e quella abitudine
che i goffi hanno dì dir seni*»
» pre e. credere le cose a
rovescio dei logici detr » tand ».
un sospettò dié quel padeiité o
non gòffrissC} il che fa ta- cére n
denttinéoto penóso della compassioné ^ o
ituscisae a deoilnare 11 dplòre ^ il
che dà luogo ad anudirazione scevra
d'invìdia. lo non saprei come
innesLire sulle azioni e sul discorso
di quest'uomo Videa della deformità^ mentre
vi veggo cbia- rrsslmo un bel
contrasto con qùanto succede 'comunemente;
DUn esemplo di ^&r^giooaaieuto logico
cagionato aà ' bijióna dó^e d'òirgotglia
sì vede nel discorsa 'die l'Alfieri meite
in bocca al suo conte, allorché co-
stui viene a contrasto eoU'abate, futuro
mae^a .de'suo] pglì^ sup'ofiiararto che gli
vuol dare.. ' « Ora, venendo
al sodo, ' .S. ^'" » Del
salario parliamo. V do tre scudi; ^'
; » Che tutti in casa far
star bene io godo. — Ma,
signor, le, par egli? a me tre scudi?
" S Al cocchier ne dà sei.
—Clie impertinenza? ^ > » Mancan
forse i maestri anco a du'scudi? Ch'è
ella in somma poi vostra scienza ?
'^r% Chi siete^D somma voi, che al
mi' cocchiere * Veniaté a cootrastar
la precedenza? ^ l ìK GU è
nato in casa, e d'un mi'cameriere: i
i> Mentre tu sei di padre contadino, E
lavorano i tucti r/altrui podere^ H
» Compitar, senza intenderlo, il
latino; ' > Una zimarra, un
mantello n tallare, ^^ i » rCn>
coUaru^cia sudi-rcelestrino , > * - Vaglion
iòrse a natura in voi cangiare
r . Poche paròle: io
p^go^ereibeiiissimo: C . u '
>» Se a lei npn quadra^ ella
è padron d'andare ». Atteso una
grata sorpresa sono parìmente ma- te)*ie
di riso le imle^ intelligenze^ "
come' allorché un discorso vien preso
ih un senso opposto a quello che
gli fu dato da chi. Jo pronunciò
; d' onde na- sce una contrarietà fra
la dimanda e la risposta, ed una
sensibilissima divergenza : per es., Pietro
dhnanda a Paolo dove va^ Paolo
^rispofìde jparfii pesci. ' V .
* ij,.i^L.o i_.Appartengono a questa
ètasse té ISu'tle^^^^ contengono un certo
inganno inaspettato, per cui nasce molestia
ad alcuno senza dolore però e senza
grave incomodo. IL Per deformità
morale intendesi quella che non è
consona all' usata maniera con cui
conver- sano gli uomini, ma sì però
che non turbi o funesti Tordine
socievole, poiché allora questa de-
^formità andria congiunta con la
scelleratezza, e ingenererebbe odio, non riso.
Quindi fanno ridere 1. V incongruenza
de'caratteri : perciò sem- brano piacevolmente
assurde le millanterijs in bocca d'un
vile, e le gravi sentenze sul labbro
d'una me- retrice e simili. Tutti i
caratteri e tutte le azioni che hanno
l'aria di singolarità^ cioè che si
scostano dalle ri- cevute costumanze; 3.
*> La discordanza tra i mezzi e
il fine prò- postosi^ 0 le
pretensioni maggiori delle forze. Le passioni
gagliarde svegliate da lievi cagioni;
talvolta per es., resta annullato un
pro- getto di matrimonio, di commercio, od
altra as- sociazione, per contesa sui
titoli de'contraenti da inserirsi nella
carta di contratto; e le reciproche
vanità rimbalzano come rimbalzano e
retrocedono due palle elastiche che,
moventisi in opposte dire- zioni, vengono
ad urtarsi in mezzo al bigliardo (?)•
' (I) * Allorché il Cardinale
Mazarino, miuistro francese, e dòn Luigi di
HarO) nìinislro spagnuolo, convennero neirisola
de' FaggianI ( in mezzo alla Bidassoa
sul contine de' due regni), per
concertare tra le altre cose il
malrimonio d'una
» S. Gli sforzi per attribuire
agli altri la col- po, de nostri
sbagli (1). *r A scanso dì
ripetizioni vedi la pag. 343 eseg. f
HI. Deformità Jìsica si è quella che
emerge dalle deformità visibili, corporee,
naturali. « Va- M stissimo campo di
ridicolo si è questo, poiché »
iufinite sono le aberrazioni che notar
si pos- » sono nel regno della
natura, e nell'uom princi- w palmente,
che per eccellenza fu detto re della
» natura medesima. Quante mai numerar
si pos- » sono deformità corporali,
sia nei membri, sia* » nel
portamento, tutte sono giocondissima fonte
» di ridicolo, purché le deformità
che prendonsi D per oggetto di
scherzo non siano indecenti o » col
dolore congiunte, poiché allora non riso,
ma . » ecciterebbero di leggieri odio
o compassione. Un uomo urbano per altro
non farà mai og- getto di scherzo
quelle fisiche deformità che non si
possono attribuire a colpa, come ho
già detto più volte. Ito f '
Infante di Spagna (Maria d'Auslda )
con Luigi XIV re di Francia, furono
tante le recìproche pretensioni, sorsero si
gravi difficoltà sul cerimoniale e V
etichetta, che trascorsero due mesi prima
clie i ministri potessero accordarsi.
(I) Un ingegnere mezzo ul)briaco e
barcollante prende a . misurare un
terreno, e commette: ercoli tali die
gli astanti ne fanno le maraviglie.
11 buon uomo in vece di rendere
, giustizia a sè stesso, se la
prende col suo strumento, e dice
balbetttUìdo: Ehi ma il difetto é
nella mia pertica: ora ella lia otto
piedi, ora non ne ha (|uattrOj e
la getta sul fuoco. In questo esempio
primeggia la deformità logica sulla
defor> niifà moràlo. Ceretti. .j^ xxl
i^\.^r Jife àctoi^ v ti.
"'llr, 11 ridicolo nasce alle
volte dal veder trattali con uno
stile lepido e scherzevole gli argomenti
gravi e severi, il che vellica
piacevolmente la ma- lignità del cuore
umano, il quale gode nel veder posti
a livello gli oggetti eminenti coi
più comu- iif, ed è questo il
copioso fonte delie parodie. Talvolta
all'incontro s'induce riso col ragionar di
^ oggetti bassi e plebei in un
tono grandioso ed eie-, vato, dal che
vengono essi a ricevere un'aria co^^ mica
e faceta, mentre sotto aspetto di
lode son fatti ridicoli, e la critica
riesce tanto più salsa, qiianto più è
dissimulata. Senza alcuna specie di
discorso si può eccitare 'ridicolo con
una lode apparente smentita dal fatto.
Batru, che aveva motivo di lagnarsi
del duca d'E- pernon, fece un libro
che aveva per titolo: Le grandi
imprese del duca d'Epernon: ma tutti
i fogli del libro erano bianchi.
tt Debbono essere collocati sotto
questo titolo » que'concetti d'ambiguo
significato, onde può » trarsene una
grave sentenza ed una arguta fa- ì)
cezia. Così a dire d'un uomo
liberale, che quello •» che ha, non
è suo, può divenir salso ove si
V torca a biasimo d'un ladro: e
salso riesce per D non dissimil
ragione quel motto citato da Tullio,
. )i a proposito d' un servo
infedele, lui essere il y> solo,
per cui mdla vha in casa disuggellato
« e di chiuso; il che a lode
d'un servo leale po- » irebbe dirsi
ugualmente. Se non che sì fatti
>p scherzi vengono commendati più per
ingegnosi .?>> che per festivi,
essendo manifesto indizio d'a- •» cuto
ingegno il tor le parole in altra
signiUca- w zione da quella in che
sogliono esser usate. ^^Ordinariamente questi
scherzi riescono insipidi, perchè per Io
più da un lato lasciano scorgere la
voglia di scherzare e l'impotenza di
riuscire, dal- l'altro non producono
effetto sensibile sull'animo per mancanza
d'acume. - V.^' <t Tra tutte
la maniere onde si perviene a movere
riso, piacevoli senza fine riescono, tanto
il torcere contro d'altrui quel frizzo
che a farci ridicoli era stato
proferito, a quel modo che Ca- tullo,
interrogato da Filippo perché abbaiasse,.
Perchè vedo il ladro, rispose; quanto
dal conce*^ dere argutamente all'avversario
ciò stesso con che ti morde, trarne
appunto occasione di vituperarlo, siccome
usò avvedutamente L. Celio, al quale
es- sendo da taluno di bassi natali
rimproverato che egli fosse indegno de*
suoi maggiori: Affé, ripi- gliò, che tu se'
degno de' tuoi » (i). In questi
e simili casi il piacere risulta da
dop-* pia fonte: l.*» dalla depressione
d'un impertinente, aggressore, o sia dalla
cessazione d'un dolore; il che, quando
succede rapidamente nelle cose mo-.^ fall,
equivale a piacere; 2.o dagli improvvisi
rap- porti di somiglianza tra la proposta
e la risposta. ^* ' 11 ridicolo
risultante dalla scoperta improvvisa di
somiglianze o contrarietà non comuni, non
si " ' (() • Luigi XV
disse un giorno al conte Eric di
Sparre, jche fu due volle ambasciatore
in Francia pel re di Svezia :
./SigfioF di Sparre, provo dispiacere
vivissimo in pensando che voi non
siete della mia religione; un giorno
o lallro io an< derò in cielo,
e non vi troverò. — Perdonatemi,
Sire, rispose f ' ambasciatore : il
mio padrone m' ha ordinato di
seguirvi dappertutto. " . • * •
472 , f può assolatamaote
attribuis^ alia iiialigQilà|ii»Ma, come si
dovrebbe, se in queste indagini si
preip*' (fesse peK gttidé la ^ola
teoria d' Asistoteteì il che multerà meglio
dall'analisi del seguente fiattóv;Un contadino,
yenuto a dolersi pon un podestà
perchè gli era stato rubatali sto «ino^
dopo d'a- erare; parlato della. Sfla povertà
e deiringanno fat- tégH dal ladro,
per. fine pjè grave la perdita sua,
disse; Messere, se voi aveste veduto
il «lio asioo^ ,aiio0r,fiitt riconoscereste
quanto io ho ragion di dolermi; chè
quandi ^veva il suo basto a^osiSiH f
iHraa :f sopriam^iM^ *ii8^^i^hevci cagiona
qiipste 4i8Cor^^ non n^sce dal vedere
depresso TulHo a livello delPasino, ma
DèVoiedei^x^^^^ s£orz;aur dosi d'ingrandirne
Videa, scappa &ori improvTl^ ^saQiente
con un confronto nuovo, e si Insinga
^ t^^ré sowiigliaiwa.tra Basilio e
TiilfiQ^r lù ttóte- le cose vi
sono certi limiti che non si éebboào
oltrepassare, certe, condizioni alle qu^lì
jEa d'uopo sottomettersi; altrimenti facendo,- si
va lungi, dalla meta cui si proponeva
di giungere, non si consegue Io scopo
che si vagheggiava. Lo ^opo cui
miriamo, i mezzi che possiamo porre m
<>pera, servond a farci ricondscere
quelle condizioni e que'limiti. ' '
Le facèzie x) celie che teodono
a rendere festiva a brigata, sì
possono considerare \ \ Nella persona
che le dice;. i.o Ifelia persona
che m è l'oggetto;r3«.^ Migli «auuiti
eh» , le aseetbp^i' < Persiona
che^ celia* . 1^*0 uomo geutila
nè ride nè fa ridere aUa foggin
de'pazzi^ degU seioeioliii id^IL iilériichif
degli inetti, de'buffoni, Fenelon non
ischerza come arleccliioo: uè Xmsm 4ì
§M8to eaft£<)iìde.il «mono de^G^'. dfiH' a||ia
C9I fracaaso assordante ddle campane. .
Vupmo dmiene^ bttffime, Mihrchà Mace^
altri a ridere per le sue
sciùcchezzey allorché ai4eiU axgiuti smtilm$c$
de'mUi arJecJmetehif ed a misura che
si fa attore in vece, «fi restare
semplice narrale; perciò alquanto buffonesca,
aeeottdo <die 10 Be.^iiuiieo, fa. la wnéatta
iK IMo*- gene nella seguente occasione.
Ne' giuochi pub- blici d'Ateoe si
distribuivano uu giorno de'piemii a quelli
che davano saggio di maggior destrezza
neg^l esercizi dell'arco, .della Jotta e.
delia €om« « Ira qnoUi v^Ae ^tiravmo
Tareo,. prìmèggiaìFa 4100 per la sua
gofiferìa. Diogene andò a collocarsi pre-
cisamente alla meta cui mirava Tarciere;
gli si di« mandò perchè sceglieva
quel posto: Per non es- ser ferito,
rispose il cìnico. Il motto è arguto,
ma la condotta era bu£fonesèa per un
filosofo; ed oltre a ciò troppo
acerba p^r Tarciere ^. . (I)
Minore taccia, perché accompagnata da
minore pub- blicità , merita * la
condotta di SoeriOe , «norcHè Alcibiade
rKoniò da Olimpia vincitore di tre
premi al cdi*8o deH^tìt Tutta la Grecia
lo aveva celebrato per questa sua
vittoria. Al suo arrivo tutta Atene
andò a ritrovarlo. Socrate solo non
Digitized by i.^ iloiiici 'ébe fiol^iioi
detti argutt impirtii ad eccitare negli
altri il riso, nofì^debb'igssere il priino
a rideriie;,iina facezia. detta cojxsei^età
riei^eepiù piccante; - '
^ . Egii si tenderebbe ridieak) m
per si fatte ^ver ti questa 0
quella brigata coi» tale o tal altra
ciUa^ < 6 vJd^iJpÉltaatf ' 0MÉ i^ipateMa
di- vanto; . Non
conviene fare oggetto di celia mordace
Gli uomini generalmente stimati^ e
non taiiitave JiliisMfiMM^ al qlMpte'dól^
tanfiNBeoolt rifèane an- cora la macchia
d'aver messo in deriso Socrate; ' .
La peiaM» troppo atolido«' pat«hè nott
v*è glo^ im'nel venire a contesa con
esse; * .1 miaer» ed- ìi^ìcÌy perchè
sarebbe (grude^; eÓMtMatd a ^isaÉo cbe
immé^ mmaMMori; GU ttomini troppo
sensitivii peròhè motteg*^ gio ^
alvvilifiM; I vendicativi, perché ci
esponiamo a pagarne ii ioo lo «tesso*
si diea^ degli igMraQtl«^|K)l^tf9 ai
1pllaI^^tlri strale acutis8i«M €be ai
pianta nel loro animo* - •
1 comparve che il giorno appresso
, e , in vece di domandare
il vincitore, dimandò i vincitori, (ili
schiavi non comprendendo il suo pensiero,
egli ordinò loro di conduco alta
stalla. Ejf^li vi étitrò col suo
seguito^ ed essendosi fatto mosiràre iisavalli
iIMNmati da Olimpia, si avvicinò ad
essi, li salutò con rispetto, fece
loro de'gran complimenti sulla loro agilità
e sulla gloria che si erano
acquistala. Alcuni del suo seguito
recitarono loro l'oite cl^e Euripide i^veva
composto in onore d'Alcibiade, Dopo questa
scen^ i^oiffonesqa^ Socrate si ritirò senza
doman- dar di vedere il Iripoiiilbre.
Digitized by Google m , la
calimi» «W» si 4^ iii^o^teggiare alj[a
cìepa; It.' Persona cui è diretta
la eeiia. it^ . l^aiwlla è.pegUa
4^i9r cadere, una eelia senza disposta, di
quello - elie^ ifnpegnar<A hi im 4Kmi}^atUi|i^to
con p^r$pua che forsp non . mirò 1^
yvWWfH; (»Hr«4|^ «l wilapfi dagU
scbiarimenti che, ìoi vj^ d'^vj^icio^r^
g^lj ajoÀmU, gli allontaDano ifi
QMfidla BOB Vi è pcmHHle dUsimulare,
e vedete gli altri a ridere a
vostre spese, ridete voi iwret e
topralMiO' hm imetiste- lAsMtbneDto dispiacere,
come è stato detto di sopra. Si
veg-^ goao ogai giorno persooe incivili
che non sanao rispondere ad-mi ìnnoceote
scherso fncMrchè con > ingiurie e
viHapì^ pgiKJiq pgpi, ((erflQpa prudepte
cli^ qQ|i,.vi|ote {s^ii^Qin^ 8filg(;e il
loro in- • contip» ^ •
' a.* Se nQg.èyfk^m^ dirìiy^ -
^ to, è penDcsso re4argi|ìre, e
ripnandare la palla a chi la gettò;
è que||9 |i dii^itto dal ^iit^cp^.
ob^ Le facezie che piacciono al
volgo, riescono il . #iii d«U«
y9H&. tPWH^ (Ursone aeasat^. !
<P^(^'lwmle p9S9<wkQ sembrai^ tra gravi
matrone qpelie ce|'^ cbie, proiferite in
un croccilo d up- . Altronde
Ya?iaipo 4»^Qto i giudizi degli no- li
jnini interno 4, n^P^T^^i^ $SO)hra qnasj
iip- » Dosaihile il iiSBarae 11 véro
ed essenzial caratatère; conciossiacliè a
taluno parrà lepido e gen- » tile un
molto che ad altri riescirà dispiacevole
e » rozzo^ Sappiamo in sfatti che
a Cicerone, ricco » altronde del
talento della facezia, ivano a san-
'fi'' » gue gli scherzi di
Plauto, mentre Orazio li ri- » prova
siccome illepidi ed inurbani Ed ecco
buovi motivi per conoscere intimamente il
carattere e il gusto delle persone
con cui si con- versa, acciocché ì
nostri detti non facciano nascere nel
loro animo la noia, mentre aspiriamo
ad ecci- tarvi il diletto. ^ 'ik'
IV, Qualità delle celie. ^ È
necessario iin"^tìsto fino e delicato
per di- Stinsuere ...ì,j*»«u«u^
y-mm-^: , l.« Ciò che adesca da
ciò che punge. Ciò che punge da
ciò'ché è insipido 3.0 Ciò che
è insipido da ciò che è triviale;
^ 4.0 Basta il senso comune per
discerncré ciò che è triviale da ciò
che è ributtante. - • ' -
Questi quattro gradi servono, a i^oèì
dire, di scala per apprezzare le celie. La finezza del gusto è il risultato di certa facilità
d'immogrnazione, volubilità di spirito, feeoudità
di idee, rapidità di confronti, acutezza
di giudizio, delicatezza di sentimento.
• ' • • Colla scorta di queste
facoltà si riesce a coii4- porre un
misto felice di serio e di giovfale,
a ve- stiredi forme leggiadre le idee
piò astratte, a ri- trovare una massima
che corregge piacendo, uri pungolo che
scuote senza irritare, una censura che
nè il rispetto offende nè
ramìcizia. Allorché dunque muniti di queste
fàcòltà Vac^ cagete che gli asMatì
fiono disposti ad éseoltarvì; che n
soggetto vale la pena che parliate;
che tutte le circostaii^e vi sono
favorevolij se ^udebe idea festiva e
cap^ di irallegrare una società amabile
si presenta al vostro spirito,
commettereste una ispeéfe d'ingiustizia se
ne la privaste^ qualunque.' sia n
vostro carattere^ qualunque carica occupiate
nello Stato. ' •» -y:-
• ' ■ ^^i'-r'-^^ti ^ Le
celie fehe si possono chiamare il
fiore dello sphrito, vogliono essere
dilicate. D' Alembert rK . portando il
deita*M padre Bourdaloué relativo à
Despréaux — Se Despréaux mi mette in
ridicolo netà sue satire, ìq gli
rènderò ta^rigtia Mite mie prediche —
D'Alembert con tutta la delica- tezza
attica soggiunge: V'ha, apparenza che que-
sto non sarebbe sueeesso nella predica del
perdono delle ingiurie. . ♦ ' .Per
non ripetere ciò che è stato detto
iòtaTear pttolò antecedente, mi ristringerò
ad accennare alcuni difetti che si
debbono sft^ire:nel maneg- gia delle celTe.^
. v .^ - / *
: : 1.® Le celie non vogliono
essere insipide. Sono , sempre insipide
le celie che si risolvono in èqui*
voci, iperboli esagerate, giuochi di
parole, verbi a doppio senso, cui la
vera significazione si toglie per
sostituirle un'altra che non l'è. Ssseudo
più facile il ripetere delle parole,
dei suoni, delle sii- labe^ di Quello
che awiéihare le qualità lontane delle
cose o scoprirne le latenti; perciò
le suddette , celie piacciono al
volgo, mentre danno noia alle persoa#
seiiHAe» I fanciulli confondono le carte
nel mezzo della^ partita quando non
hanno buoa giuoco : gli scìoli non
potendo alimentare la con- , versazione
coiramenità dei sentimenti e delle idee,
• le interrompono con bischizzi (1),
calembonrg^ discorsi che sembrano dire
qualche cosa, mentre non dicono nulla,
e sono il tormento di chiunque è
dotato di qualche spirito, ij 2.0 Le
celie non devono essere scurrili. Esse
sono tali allorché versano sopra cose
la cui im- magine offende il gusto,
come la loro realtà of- fende i sensi
(2). Si chiamano anche scurrili quelle
\ celie che fanno arrossire il
pudore. . Le celie non de vono
peccare per eccessiva ' . ìiìalignità. Le
celie non devono peccare per eccessiva
acerbità^ dovendosi bensì far uso del
sale, ma . • con moderazione
(4). (f) I bischizzi consistono nel
mutare ^ ovvero accrescere o minuire una lettera o sillaba
d' una parola ; cóme colui che
disse : Tu dèi essere più xlollo
nella lingua latrina cUe nelia lìngua greca.
Pecca pec bassa e villana scurrilità
il seguente epitaffio che il Lasca
fece ad un Grasso : . , .
. • « Qui giace
il Grasso ( noli ben chi legge)
, . • » Che avendo
il viso simile al cui molto ,
L'alma, non discernendo il cui
dal volto, » Se n' uscì per la
via dette coregge. » .
- ' . (5) Alla consccrazione d
up' abadessa, le magnifiche tap- pezzerie,
i vestimenti ricamaU, i diamanti, ì
profumi, Ianni- sica, i molli vescovi
esecutori delle ecclesìasliche cerimonie ^
sorpresero una buona donfia in modo
che ella disse: Ecco il paradiso.
Qualcuno rispose malignamente : Non vi
sarebbero tanti vescovi. (4) Una
vecchia contessa assai ricca avendo
sposato'un giovine marchese malagiato , e
nel contratto di matrimonio. Le celie,
allorché il soggetto lo comporta^ de»ono
richiamare gli spiriti alla morale. Non si
deve cambiare il mezzo in fine, cioè
non conviene consecrare alle celie quel
tempo che è dovuto alle cose più
gravi. Da tale pas- sione pe'combaltimenti
di spirito o duelli di mot-, leggi
e di celie erano invasi i Normanni,
che anche neir ardore d' un assedio
i nemici sospendevano talvolta le ostilità
per abbandonarsi ad una guerra meno
dannosa, guerra di motti, di redarguziom,
d^' buffonerie. Allorché qualcuno dei
due partiti, era preso da questa
vaghezza, si mostrava all'al- tro in abito
bianco, il che era riconosciuto ed
ac- cettato come una sfida di celie.
La qual cosa cer- tamente non era
riprensibile in tempo di guerra,
giacche Non distrugge città guerra di
lingue avendogli falla la donazione di
luUi i suoi beni, lemelle, dopo molte
infedeltà, che il marito volesse disfarsi
di lei, e un giorno sentendosi male,
credette e disse d'essere avvele- nata,—
Avvelenata ? rispose il marchese alla
presenza di più persone. E chi
accusate voi di questo delilto? —
Voi, replicò la dama. — Ah Signori,
nulla di più falso, esclamò il
marito. Sventralela subito, e toccherete
con mano la calunnia..Qui l'acerbità e
la malignità vanno insieme. . • (I)
Si faceva rimprovero ad una giovine
perchè accon- sentiva a sposare un uomo
che urtava di fronte gli usi e
le mode del suo tempo, un orUjinale
in una parola; ma la sin- golarità di
quest'uomo non era che un vizio dello
spirilo, e nissuno aveva V animo più
onesto di lui. Quindi la giovine che
lo conosceva, rispose con finezza :
lo acconsento a spo- sarlo^ perchè spero
che sarà buon marito per singolarità.
ed è meàe male dileggiarsi che
iieoidev9Ì; ma 6ao^ vafìiìi di
Salisbury rimprovera ai detti popoli quel-
l'eccedente p^issiona aoebe ia tempo di
pace. Kantagqi che si possono trarre .
. . dalle /ae^ie.
Benché le celie sì riducano a
momentanei tratti di npirito^ i^e,
^imiU^alle sciatillc, jcoin|^ariscooo -e eeìssano
m un utante^ Don segue pero che
dì grandi eventi non possano esser
cagione. Infatti, alloiìch^ ei tvatta di
coscT mòrali, gli effetti dipeo* dono
dalia determinazione della volontà; ora a
de^ terminarle la volontà i più
frivoli motivi bastano, sì .quando mancano
motivi più gravi, sì quandi questi sj
trovano in opposizione/ come una sein-
pliee dramma basta per'&r traboccare la
bìlaacta<t allo^hè i più gravi pesi
là tengono in equilibrio.- L'aftlisi de'
fatti porrà in maggior luce il mìo
pensiero.^ - . . Coloro che
nel calcolo degli effetti consi- derano
solo le ma^se,. apparenti, inarcherapnò le
ciglia se dirò loro che tma celia
può in forza essere uguale ad
t^ailamato; eppure bisogna ri- gorosamente
ammettere questa eqtiaasione, aile^cbè si osserva che un'armata atterrita da maggior numero
di nemici, può. da uoa celia ricevere
tanta torza coraggiosa da riuscire a
vincerli, come lo* ba provato più
volte r^^sperieoza (i}^.^ . ^.
(I) Prima della battaglia successa a!
Trasknene, I Cartaginesi erano ì»pa\ untati
dai iìuuiux^g esi^rcilu rumano ^uppi
m . 2.*^ È noto che
l'orgoglio de' tiranni non sof- fre indugi;
che le loro volontà si eseguiscono in
ragione del loro potere; che, sordi
alla clemenza, alla giustizia, alla
ragione, mandano a morte chi fa loro
rimostranze, sicché per fare equilibrio ai,
loro desideri!, converrebbe avere un potere
uguale al loro. Questo potere si
trova in una celia: una celia può
cambiare le più risolute voglie del
più feroce tiranno (1). del loro.
Glscon ne esternò la sua sorpresa ad
Annibale: V* ha una cosa, rispose
questo generale, che mi sorprende ancora
di più, ed è che in questo gran
numero di nemici non v' ha un
solo che si chiami Giscon. La storia
dice che questo' sangue freddo animò U
coraggio de' Cartaginesi; giacché non potevano
essi persuadersi che il loro generale
fosse disposto a scherzare in un
momento sì importante, $cn/a essere sicurp
di battere i nemici, come infatU li
battè éJi vinse. 1^ In caso
simile un altro, generale veniva
sollecitato a far riconoscere i nemici
che s'avanzavano in gran copia: Noi
li conteremo, diss'egli, quando gli avremo
disfatti. Queste pa- role bastarono per far
passare i suoi soldati dal timore
alla speranza, dall' avvilimento al coraggio,
e renderli vincitori di quelli da' quali temevano
pochi momenU avanti d'essere vinti.
(I) Tutti sanno quanto era dispotico
e feroce Enrico Vili re d'Inghilterra.
Avendo egli de'moUvi di scontentezza contro
Francesco I re di Francia, gli spedì
per aipbasciatore un ve- scovo inglese eh'
ci volle incaricare d'un discorso pieno
di fiele, d'orgoglio e di minacele.
Questo prelato scorgendo tutto il pericolo
della sua missione , cercò di farsene
dispensare. Non temete niente , gli disse Enrico,
poiché se il re di Francia vi
facesse morire, io farei abbattere la
testa a molU francesi che sono in
mio potere. Va benissimo, replicò il
vescovo, ma di tutte queste teste
nissuna s'adatterebbe sì bene al mio
49S - '
LIBBO Tomo SiTO MnMwto dàlPidea
impoiiml» Moveri dTitn mioistroi «lalla
gravità de' moti?! che devono de«-
ternmarlOt dai dami tnm aeea. demaail»
chiamato^ atle pubbliche cariche, si dora
fatica a comprenda <die una ceiia
si possa j^om^ pén- queiMmpiego «fttr*^
em ^tefe mepatù pér demerito; e pure
gueata posaihUità ceaUuata fili Mita tOv
^ / • % fyìsìo come quella
che vi é. ^ ^^ta celia,
«heloee.Bidéee. Bnlriè^ idasci a fario
candMàre.'df rlsolufeimiie ; senza di etto
.'forse l'Inghilterra e la Francia
conlecebbero una guerra di più. IVouchirevan,
re di Perula, aveva condannato a
morte uno de'suoi paggi per aver
^uesU kia)i{vertéDteaiea(e:8pas8a sopra lui*
della salla ^intti)dèii> a mensa i
il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo ^mmà di perdono/ 'ifMò
tutto II piatto sopra tjùèll'liii||lah
cabile re. Nouchlrevan, più sorpreso che
sdegnalo, volle sa- peri la ragione di
siffalta temerità. « Prìncipe, gli
disse i( .• paggio, io desidero
die te laia morte non rechi niacclìia
. 1» alia «ofiiii» Hplitazioiia; com
vóe^ . • de'moffiirehi, ma- voi
perdereste quello bel tìtolo se là
po» » slerìtfi "sapesse che per
lievissima colpa condannaste a morie •
ano de' vostri sudditi ; perciò ho
versalo tu Ito il piatto. Nouchirevan
rientrato lo se stesso ^ vergogpò
della sua. col- lera, e gli f(?ce
grazia. 11 Marelìesé dì Andrea tnristeva
pressò Lòuvóis ministro della guerra in
Francia, onde ottenere una carica^ il
ministro die aveva ricevute parecchie
lagnanze contro questo officiale^ gliela
ricusava. S io eoiniociassi a servire^
so. ben io ciò ^he faéel, ri8|Mstf
roffieii|le un po^ eómmosso; fi che
fareste vd ? gli disse fl mli^stro
con un tono risentila Regolerei sì
bene la mia coikloUa, replicò l'officiale,
che non vi trovereste nulla da ridire.
Il ministro sorpreso plaeevol- lafDte da
questa òsposia, ac<;ordò dò che aveva
ne|{alo. Digitized by Googlj 4.0
Una celia può ottenere quel premio
che , non ottenne la ragione^ che
non attenne C im^ portunità^ talvolta
più valevolé detta fazione (I). Non
v'ha cosa nè più comune pè più
no- iosa idè'n^lHantatork nàOB votte odirotia
«si le ra- gioni <die condannano la
loto condotta, e mille Tòlte toroano
iii oamjio. eolie toorn celia può
agevolmente ridérre' à '^ 'Hlimzio titt
wiWantoioìre; giacché, in genejrale riesce
più dif- ficile il rispondere ad unà: ieHai
chà ad ma tuona ragione. Gli poeta
aspettava tutu i giorni Augusto a
certo pas- saggio còn un epigramma' alta
mano : eglli' sperava qualche ricompensa,
mai la ricompensa nòn '^Éttritic Blair Un
giorno l' impilatore, per divertirsi a
spese del poèta è IrastuHarlò
^cevolmcnle).gli.pi;sBsentò deVyéssi eh' egli aveva
composti 10^41 Ijoi'.oiiore. Il poeia
degpo4*«ieiji Mtt ti(Ui| trasse (U tasca
dèi deuaiO) e lò diede ad Augusto,
dicéndo^lt ch'io v*ò£fro non è degno
del vostro^ merito, ma iò nórt poss^
fere di più. Augusto incantato da
questa risposta nuovia« piccante, gli fece
dare fOO,(HW sesterzi (circa ^ 30,000 fr.)
— Ecco und ttiolui ì&àst»-^ oiprale
suttor u ^elo d'una facezia. ' V
(2) Iki gie«iDe a^'A vantava CU/Sapare
Hutto e d'aveifo imparato in poco tempo
, aggiungeva ^ à-avere speso grosse
somme per pagare i suoi maestri. Uno
degli uditori non po- tendo più contenersi
a tali iat(tanze, gii disse freddamenté:
Affé , se V voi trovato cento
scudi per tutto ciò ebe sapete >
ef«dètefni, Mn fiidagteite>*a* pABderiL- *
, . n detto era eccellente,
ma pùngeva un poHroppo fUA'iM. Uno
spiantato lagnavasi in un crocchio di
molte perscibè •pel gK^asto che la
grandine aveva fatto nel suo paese e
mas- irimanento Re;siR>l pcNlerl.- tin
ii|le >cl)e a fondo conosceva qitel-
mQlantaiofe^ è che sapea^ qaaiilk>^
tasse povero in ràiim; non potendo
più contènersi a laìl .iattanze , gii
inosse soìbi^ Grice: “Ferraris’s Galateo was so famous that, unlike
Vico with his ‘new science’, a few philosophers cared to consider seriously a
‘nuovo Galateo’. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferrariis. Galateo. Ferraris.
Keywords: il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, “Ferraris e
Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689504373/in/photolist-2mLQ1Vx-2mLGwVU-2mKKMt4-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKHtgX-2mPsh7f-2mKT4G5-2mKCdPg-2mKEftR-2mKRu2r-2mKC3nj-2mPvmTf-2mKbpiZ-2mKk6t5-2mKbkhx-2mKiTu1-2mKJXuD-GWQbEe-GWQbE4-25edKkz-23QXPsh-GWQbP2-23QXPTN-23QXPqU-23QXPAJ-25vgDZG-25vgDYu-GWQbEV-23QXPP9-GWQbEp-26Aotmx-26AotYK-DndBhH-23QrfQy-GWQbNR-23QXPKm-BNWJaB-BK5mza-BmcDUi-BFQviK-BDuNmW-AEEHqM-rrjLo5-o8fd2A-oa4qxd-nBU5Co-nSmehQ-nUgagC-nUiDq1
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