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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 19

 

Grice e Ferrando – CORIOLIANO, ovvero, la filosofia – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e S. T. Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. Fu inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con Salvemini alla propaganda antifascista e firmò il Manifesto di Benedetto Croce. Espatriò a New York, dove continuò la sua attività antifascista, divenne professore d'italiano e filosofia presso il e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adottò la figlia Vasanti. Contribuì più tardi a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove gli studenti imparano *come* pensare, non *cosa* pensare".  RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND and WEST FARMS (BRONX), NEW YORK  Guido Ferrando appointed Chairman of italian dept. in «Vassar Miscellany News», Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” --  Wikipedia Ricerca Gneo Marcio Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Modifica Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus (527 a.C.? – ...), generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano.[1]  Secondo Tito Livio[2] e Plutarco[3] a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa[senza fonte].  (LA)  «Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.»  (IT)  «Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I,15) L'Eroe della presa di CorioliModifica Nel 493 a.C., consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito Livio annota:  «....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33) Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio                                         Modifica Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, nel 491 a.C., Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XVIII, 4) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio[4], Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio[6], ospite di Attio Tullio[7], eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino.[8]  «... Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. ...»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXVI, 1) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma[9], ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito[10]. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani[11].  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città[12], Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini[13].  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci[14]. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi[15]. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium[16], Bola[17], Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium,[18] senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie[19], dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino[20], senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani[21].  Leggermente diversa la versione di Tito Livio:  «Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 39) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus(nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma[22].  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40) MorteModifica Tito Livio[23] riporta come non ci fosse concordanza sulla morte di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma; secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano fu ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si stava difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove era stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.[24][25] Poi, però, fu dimostrato che l’azione non era affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi.[26]  Cicerone, nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.[27]  Critica storica     Modifica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico.[senza fonte]  Note                                                    Modifica ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, III.3, pg. 123 ^ Tito Livo, Ab Urbe condita libri, Lib II, par. 33 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XI, 1 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 35 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XX, 4 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXII, 1 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 1. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 36, 37, 38 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 11. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 12. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 13. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 14. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 15. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 16. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 17. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 18. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 19-20. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 22. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 23-28. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 36. ^ Appiano, Storia romana, Liber II, 3-5 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXXIX ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 58-59. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 62. ^ Cicerone, Laelius de amicitia, XII, 42. Cicerone, Brutus XLIII  Bibliografia                                    Modifica Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,33 Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 14-15 (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (op. 62, in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di H.J. von Collin.  Voci correlate                    Modifica Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di William Shakespeare Altri progetti                                                 Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Gneo Marcio Coriolano Collegamenti esterni                  Modifica Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Gneo Marcio Coriolano / Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                    VIAF ( EN ) 60149294309280521736 · BAV495/317465 · CERL cnp00546507 · LCCN( EN ) n85196364 · GND ( DE ) 118522159 ·BNE ( ES ) XX5035782 (data) · BNF( FR ) cb149789004 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007275094605171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-n85196364   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Ultima modifica 3 giorni fa di No2 PAGINE CORRELATE Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  Wikipedia Il contenutoCORIOLANO Tragedia in 5 atti Traduzione e note di Goffredo Raponi 3  NOTE PRELIMINARI 1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello del prof. Peter Alexander (William Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London & Glasgow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la “Claredon Press”, New York (USA), 1994. 2) Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Nicolas Rowe (1700). Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1); Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori(2), con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario(3), per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  ATTO PRIMO SCENA I - Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo(4). La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli,(5) ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà(6). Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia(7). MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura(8). L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso(11)! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco(12), ch’è la fogna del corpo(13)... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così(14) dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli(16), l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio(18): chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti(20); perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria(21). MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore(22), e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più(23). Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo(24). Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi(26)? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna(27). BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA II - Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta(28)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia(30). Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso(31)... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma(32)!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA IV - L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui(34), sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci(39) PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo(44). MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA VII - Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie(47) in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA VIII - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA IX -Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata(51) Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà(52). Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco(54) per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate(56) non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano(60) ) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata(61)... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) SCENA X - Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città(64), informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi(65)? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SECONDO SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza(66)? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana(72) e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte(73), v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare(75), e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima(76); col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio(77)! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca(78). Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno(81) è uno specifico da ciarlatano(82)! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio(84) le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio(85). MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami(89). VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori(93) dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo(94). La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa(95) e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino(97), espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori(100), a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento(101); e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra(103), che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo(105) che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene(107), si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia(108). Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta(109). Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli(110).  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo(112). CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA III -Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali(113). SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi(114) il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato(119) diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui(120)? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota(122). PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”(123), da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra(125) di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro(126) non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile(127). MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe(128), è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza(129) - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato(130), ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione(131) rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge(133). I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo(135). CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare(136). È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo(137). Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini(138). SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza(139). BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso(141), mi minaccino morte sulla ruota(142), o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione(147), o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona(148)! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso(151), e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce(153) metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume(154), vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi?(158) - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé(159). Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA II - Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti(160) ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini(161)? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone(162). Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA III -La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi(166). TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168). Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito(170)...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio(171)! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate(172)... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega(173). MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti(176). Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là(177) appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA VII - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo(180). Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda(181), un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA II - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento(186)! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore(187)! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA III -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò(188). Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia(189)! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma(190). VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!(191)... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo(192), quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato(193)? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana(194)... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio:(198) tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA IV -Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria(199). A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA VI -Corioli, una piazza(201) Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci(202) quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore(204)! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo) FINE (1) Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, I, 2, 24, citato da Jaqueline de Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, 1995). (2) Giorgio Melchiori, “Shakespeare”, ed. Laterza, Roma/Bari, 1994, pag. 536. (3) “Il préférait l’opportunitè aux principes” (J. de Romilly, op. cit. pag. 62). (4) “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri. (5) “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”). (6) “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. (7) Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. (8) “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. (11) “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. (12) “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II”, II, 1, 38: “Light vanity, insatiate cormorant”). (13) Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”, XXVIII, 26-27: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. (14) “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo.    (15) “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. (16) “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. (18) In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica. (19) “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. (20) “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa. (21) “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. (22) Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. (23) Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. (24) Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. (25) È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. (26) “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. (27) La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. (28) “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. (29) Cioè al momento della loro messa in atto. (30) Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”, III). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini (496 a.C.). (31) Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. (32) “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”. (33) “It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. (34) Cioè conquistare la città di Corioli assediata. (35) “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. (36) “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”, II, 13-16: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). (37) “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. (38) In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. (39) Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. (40) “... their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).   (41) “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. (42) Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. (43) “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. (44) La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”. (45) Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. (46) “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica. (47) “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. (48) “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. (49) “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. (50) “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. (51) Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. (52) Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. (53) Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. (54) “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. (55) La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano (per i quali v. nota 51). (56) Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. (57) “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. (58) Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). (59) “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”. (60) D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. (61) Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (G. Melchiori, “Shakespeare”, cit., pag. 540). (62) Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. (63) Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. (64) A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. (65) “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. (66) “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. (67) “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. (68) “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. (69) “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. (70) Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. (71) “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. (72) Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. (73) Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica. (74) “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. (75) “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. (76) Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. (77) V. la nota 18. (78) “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. (79) Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. (80) Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. (81) Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! (82) “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”. (83) “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. (84) “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). (85) Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. (86) Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori. (87) “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso! (88) “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. (89) Si scusa con Valeria per non averla vista prima. (90) “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese del XVI sec. aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. (91) “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. (92) “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. (93) “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato.   (94) Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!). (95) “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). (96) I Flàmini (“Flamines”) erano sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). (97) “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. (98) Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi del XVI sec., e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. (99) Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”, cap. XIV) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. (100) “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. (101) “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. (102) “Ti ascoltiamo” non è nel testo. (103) “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. (104) “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. (105) Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. (106) “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. (107) Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. (108) Vedi la nota 30. (109) “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. (110) “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. (111) “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. (112) Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. (113) “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!   (114) “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. (115) “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. (116) Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. (117) “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. (118) Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. (119) “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli. (120) “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. (121) Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. (122) Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices” (v.nota 114). (123) Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Il Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”, è vissuto nel III sec. a.C.; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore nel 144 a.C. (124) “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. (125) Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. (126) “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. (127) Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica. (128) “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). (129) “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. (130) “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. (131) “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. (132) “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. (133) “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. (134) Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano (VI sec. a.C.) si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. (135) “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. (136) “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   (137) “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). (138) “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. (139) Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. (140) Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. (141) “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. (142) La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando. (143) “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. (144) “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Ribert Greene (1592) “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). (145) “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). (146) “Figlio mio” non è nel testo. (147) “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. (148) Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente Machiavelli (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”, cap. XVIII); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. (149) Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. (150) “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. (151) “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. (152) Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”, X): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. (153) “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. (154) Le piume dei loro cimieri, s’intende. (155) Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. (156) La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. (157) “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. (158) “Ti ricordi?” non è nel testo. (159) Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. (160) Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”).   (161) “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. (162) Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. Virgilio, “Eneide”, I, 4: “saeve memorem Junonis ob iram”). (163) “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. (164) “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). (165) “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. (166) Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo il Bradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. (167) “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. (168) “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. (169) I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. (170) “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. (171) “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. (172) “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso. (173) “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. (174) “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”, II, 1, 7: “Where is thy leather apron?”). (175) Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone. (176) “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. (177) Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti. (178) “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. (179) “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. (180) La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. (181) Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni. (182) “A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. (183) “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. (184) “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   (185) “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale). (186) “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano. (187) “Col tuo superiore” non è nel testo. (188) È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. (189) Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”, I, 1, 33-34: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. (190) Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. (191) È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. (192) La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi. (193) “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. (194) Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. (195) Indica Valeria. (196) Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. (197) Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. (198) Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. (199) Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. (200) Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. (201) Plutarco (“Vita di Coriolano”, XXXIX) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered” (v. 50), e da quelle dello stesso Aufidio al v. 151: “Though this city he hath widowed...”. (202) Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”; ma vedi, in proposito, la nota 201. (203) “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. (204) “... thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene...”Guido Ferrando. Ferrando. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716947844/in/photolist-2mN4WQf-2mN4Wkh-2mN3SNy-2mPV6V9-2mKDSn5-2mKDQAF

 

Grice e Ferrari – FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La strana sorte di Vico,’ of Vico!” essential Italian philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di Romagnosi.  Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla verità oggettiva. Grice: “The problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. Ferrari define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto. Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto – errore intersoggetivo. --  una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid ‘objective’ and ‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero relativo’ a S1-S2. Introdotto nei circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin, Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana, fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare  non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione.  L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza.  Per quel che concerne la forma dello stato italiano, Fdomandava una costituzione federale, con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile.  Dopo essersi recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale.  Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno.  Nonostante riconoscesse nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo, non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo. Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare. L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette. Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. E fatto senatore.  Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.  Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione” di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati italiani.  L'opinione pubblica dove essere preparata alla rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali.  Insieme a Pepe elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana.  Consta dai registri della Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati, Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati, Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. Giuseppe Ferrari, Milano, Garzanti, Altre opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e letterari”; “La mente di Giambattista Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti politici, Silvia Rota Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma,  “Scritti di filosofia” e di politica, M. Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario Franco Della Peruta, "Contributo all'epistolario di Giuseppe Ferrari", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta (ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C. Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Robertino Ghiringhelli e F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle opere di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "Ferrari e  Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo Colombo, "Il Ferrari del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Maria Corrias Corona, "Il filosofo "rivoluzionario" visto da Giorgio Asproni", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe Ferrari", Studi storici, Carmelo D'Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Franco Della Peruta, "Il socialismo risorgimentale di Ferrari, Pisacane e Montanelli", Movimento operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta, "Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari, Giuseppe Ferrari, Saggio critico, Genova, Luigi Ferri, "Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, " Angelo Oliviero Olivetti e Giuseppe Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Virginio Gastaldi, "Nella galassia dell'Estrema", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli, "Romagnosi e Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema della storia in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Anna Maria Lazzarino Del Grosso, "Il Medioevo in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di Giuseppe Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano, “Ferrari, interprete di Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia, rivoluzione. Saggio su Ferrari, Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma, Angelo Mazzoleni, Ferrari. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti, "La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica politica, Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La teoria della fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento Italiano", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Zanzi, "un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giuseppe Ferrari, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Giuseppe Ferrari, su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del Movimento RadicalSocialista.  Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filo-  sofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno  della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'in-  tento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivo-  luzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma  traditi dalla metafisica , sentivansi solitari , impo-  tenti , inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando  i demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un fe-  lice inganno , cadevano sotto il felicissimo inganno  della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto     362 PARTE TERZA — SEZIONE TERZA   la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo  prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras-  mise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla  terra colla forza della scienza e con quella del diritto.  Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia  alla rivoluzione trasportando il problema della scienza  nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'egua-  glianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che  abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla  verità, il regno della libertà falla astrazione dai dogmi,  il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il  regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e  s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'uma-  nità; si pensava perfino a fondare un impero meno  l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse pro-  posito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la  rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'im-  possibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero  morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a di-  segno non li avessero tratti in piazza per stabilire  una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione.  Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo  avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può  parere lontano, e se altri possono consigliare di dare  tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede  che quando la scienza scopre un errore per quanto  sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi  lo difende più non regna, e se sì ostina cade scon-  fitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede  negli avvenimenti imprevisti non è cieca e viene au-  torizzala dalla forza del vero che oggi tradito si ven-  dica domani col corso naturale degli affari , delle     CAPITOLO NONO 363   guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni  verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa  e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le  forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai  progresso che non toccasse alla proprietà o alla reli-  gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza  e che non si dovesse irnaginare con ardimento scanda-  loso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo  che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt  ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già  dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare  dalla teoria alla pratica e per sostituire una genera-  zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori,  di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filo-  sofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino pro-  tetti tanto sembravano lontani dalla realtà. Quanto a  noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri  da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la  metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili  tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto  che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno,  ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si  gradui il progresso e possa prendere delle forme mo-  struose e talora nemiche, dal momento che sentimmo  compiersi nella nostra mente la filosofia della rivolu-  zione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il Ferrari tacque : non pia stu-  di pubblicati sulle riviste francesi per far conosce-  re al mondo T Italia del passato e del preseme,  non più opuscoli politici per tracciare piani d'a-  zione pamphlets violenti contro i suoi avversa-  ri: gli amici lo avrebbero potuto creder morto.     - 8o —   EpIHjre la sua operosità si svolgeva occulta sotter-  ranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno  era visibile: abbandonato il campo del giornali-  smo dove le tracce del lavoro sono ben presto  cancellate dall'incalzare di sempre nuovi proble-  mi e dalle richieste di gusti sempre mutati, la-  sciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si  era dedicato totalmente alla pura scienza. Il pre-  sente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato ;  l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abie-  zione, ed egli la volle studiare libera e regina,  quando marciando a capo di tutte le nazioni tra-  smetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al  mondo.   Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua  attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il  suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più  piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad  ogni interpretazione razionale e organica, come  se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go-  vernava le continue rivoluzioni di cento stati dif-  ferenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi  fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio  dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano  uno svolgimento storico organico, una forma po-  litica costante che le contradistingueva in ogni e-  poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di  Napoleone III la Francia era sempre stata la na-  zione della monarchia unitaria; la Germania era  ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilter-  ra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Otto-  ne I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia     — 8i —   Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politi-  ca; uè al principio della monarchia né a quello  ddla repubblica, né all'Impero né al Papato :  ftemmeno ad un sistema federale che raccoglies-  se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege  dei ^uoi stati. {Rivoluzioni d'Italia, Voi. I, pag.   Il):   Da molti anni queste considerazioni si svolgevano  lentamente nel mio spirito, per rendermi enigma-  tiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Fi-  renze di Roma di Genova di Venezia, di tante città  unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze.  Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran  pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza cau-  sa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione.  Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi  apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti,  medaglie sparse di un museo che una vandalica igno-  ranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simme-  trie essendo dissestate da una mano sconosciuta; po-  tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua  ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mez-  zo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussu-  reggiante degli avvenimenti si rivoltava contro o-  gni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gio-  co delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei  cronisti e degli artifizi della retorica; se essa com-  piacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le  analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e  una tal forza nel minimo frammento, da non potermi  arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e  della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa de-  stata dal sentimento del bello, .per non essere se  non un cumulo di accidenti eslegi.   n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi   A. PnutUU — Oiit80pp€ FtrrarL •     — 82 —   misteriosa apparenza, la legge vitale di un orga-  nismo così complesso, lo scopo di una coA ab-  bagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia me-  dievale fino agli occhi : senza fermarsi alle com-  pilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò  su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italica-  rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere  erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi  signori del buon tempo antico: e cosi mentre la  turba degli gnomi, non comprendendo la sua soli-  taria libertà superiore alle borie del nazionalismo  miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la  sua lingua e la sua patria, egli preparava in silen-  zio airitalia uno tra i più bei monumenti di glo-  ria che potessero inalzarle i suoi figli.   Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la pri-  ma volta a Parigi in francese nel 1858, ripubbli-  cate in italiano tradotte dell'autore nel 1870-1872 :  in questa seconda edizione, nonostante gli studi  posteriori in seguito ai quali credette di avere  scoperto la filosofia della storia e la legge perio-  dica del movimento storico, guidato da un istin-  to fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò  guastarla per farla servire alla sua teoria; quin-  di noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedi-  zione italiana, da cui son tolte le citazioni e a  cui si riferiscono i rimandi.   Per quel che già conosciamo della costinizione  intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giu-  dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli  riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione  filosofica e al criterio di un sistema formato. Tut-     - 83 -   ti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'inter-  pretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresen-  tarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che  sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filo-  sofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui  traggono i criteri della interpretazione e del giu-  dizio; ma di solito il loro sistema non è che im-  plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi indivi-  duo che non si dedichi di proposito alla filoso-  fia; qualche più rara volta c'è, ma preso a presti-  to, non rielaborato né rivissuto individualmente,  rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza  unica del Ferrari, la sua caratteristica qualità, con-  siste nell'avere a fondamento della sua interpreta-  zione un vero formato originale sistema filoso-  fico.   Non solo. Questo suo sistema, che anche og-  gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso  delle grandi concezioni, è il più adatto a dare u-  na base filosofica all'interpretazione storica; per-  chè considera la reahà come movimento, ed è tut-  to pervaso dalla persuasione della razionalità che  governa la realtà e la storia. Cosicché per quan-  to il Ferrari come politico sia un uomo di parti-  to militante e quanti altri mai fermo nelle sue  idee, amante delle posizioni nette, insofferente  degli equivoci; come storico noi possiamo essere  sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giu-  dicare libero totalmente dalle preoccupazioni po-  litiche del momento, saprà rispettare la veneran-  da grandezza del passato senza querimonie per  gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non fa-     - 84-   rà ddla narrazione dd passato un pamphlet <x)n-  iro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà  imparzude. Questo è il suo significato ragioaevo-  le di una simile rìciiiesta dd senso comune, il  quale esige non che lo storico non abbia un pun-  to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che  abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi-  chi, non si faccia il processo alla storia.   Riepiloghiamo brevemente il sistema del Fer-  rari, integrando la sua concezione più propriamen-  te filosofica, cioè di valore assoluto, con le deter-  minazioni empiriche onde egli cerca di dare una  formula generale al movimento storico.     II.     Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzio-  ne; la storia è la narrazione di questo movimen-  to intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle  contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lot-  ta delle contradizioni positive reali che si cond-  liano in una specie di equilibrio dinamico. In o-  gni momento nel mare enorme ddl'umanità l'in-  dividuo che ne fa parte come tm'onda o meglio  ancora come una goccia ha suoi interessi parti-  colari su cui nasce una sua rivdazione morale  <1); messo di fronte a nitti gli altri innumerevoli  suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche e  morali varie e a volte contrastanti, lotta per eon-  dUare le contradizioni in tm dstema politico, che     (i) Non è se non la proclamazione del determinismo econo^  micCj che egli applica poi nel coreo della ina storia.     -85-   si attua sopramtto d^tro i confini dello stato.  Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^  nutre dentro di sé un sistema opposto destinato  a succedergli (1). La stocianoa è altro se non la  narrazione del succedersi di questi sistemi nati  da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili  dell&'masse» divise tra loro> da una specie di lot-  ta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la  democrazia e a conquistare una più larga egua-  glianza.   Come si attua questo progresso dentro Io star  to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra-*)  stanti che polarizzano gli interessi delle moltitur  dini, il pardto rivoluzionario e il partito conser-  vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio-  nale dello stato a nome di un nuovo principio, di  una più larga democrazia^ con la forma politica  opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ fe-  derale negli stati unitari, cattolica contro i pro-  testanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è  necessità fatale della storia; ma appena il prin^  cipio da essa propugnato è stato accettato essa  viene vinta dal partito conservatore, che traspor-  ta il nuovo principio sulla base politica tradiziona-  le onde lo stato si difende dallo stranilo.   Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi  confini un altro organismo nemico vive con in-  tere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'uma-.  nità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni  che si prendono vicendevolmente a rovescio, un     (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx.     — 86 —   enorme meccanismo di ruote dentate ingranate  runa nell'altra che girano in senso contrario, un  sistema di forze disposte cosi che il partito oppo-  sitore intemo di uno stato i sempre d'accordo col  partito dominante dello stato vicino e rivale. O-  gni stato è quindi straziato da una guerra inter-  na e nello stesso tempo combattuto da una guer-  ra estema : la lotta sociale domina e regge la  lotta politica. Poiché appena dentro uno stato  trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una  nuova forma che allarga sempre più la democra-  zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde a  tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da  una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema  sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze  oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato at-  tarda troppo nella strada della rivoluzione socia-  le! Esso vien conquistato da altri stati di civiltà  superiore. Guai se non adotta la forma opposta  dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più po-  tente.   Gli stati le nazioni le razze possono quindi de-  cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de-  cade e su una linea di progresso continuo passa  per una scala ascendente di sistemi sempre supe-  riori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba-  rie e più nefandi di cormzione si ha decadenza :  Anche un popolo vive esso è in progresso, pro-  gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi-  sico della sua totale disparizione per un catacli-  sma naturale o per un eccidio universale. Rice-  verà l'impulso politico che una volta egli dava al-     - 87 -   le altre nazioni^ accettando le nuove progressive  forme politiche dall'esterno invece di crearle per  sua spontanea originale vitalità; perderà magari  Tindipendenza, ma la compenserà con un miglio-  ramento sociale per cui accetta il vincitore; vedrà  succedere al fiorire delle arti alla ricchezza indu-  striale e commerciale sterilità intellettuale e mi-  seria, ma avrà sempre un progresso sociale che  lo compenserà di questa sua decadenza.   Poiché fra popoli in lotta, come fra più indivi-  dui, è naturale che il più forte vinca. Ed è an-  che razionale. La forza dei grandi aggruppamen-  ti storici non è la forza fisica, non è il peso bru-  to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pu-  gno del facchino che tappa la bocca al tribuno;  ma è ordine, disciplina, saldezza economica, co-  scienza nazionale, è in una parola forza spiritua-  le. Non è la pura forza fisica brutale che vince  nel gran campo di battaglia della storia, ma è la  superiorità intellettuale e morale: la vittoria co-  rona sempre il più degno, fatalmente destinata  come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita;  chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente con-  quistare per godere di una civiltà superiore che  colle sue forze non poteva raggiungere, o si è  dimostrato nel paragone delle forze inferiore al  suo vincitore che in compenso della libertà per-  duta gli dà i vantaggi di un miglior sistema so-  ciale.   Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sot-  to l'impulso di bisogni materiali e di egoismi per-  sonali, ma la storia li adopera a tm fine che li     - 88 —   trascende; quella che Vico chiamava Pwwedenr  za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio-  ni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar  gi per un'opera buona, della cupidigia delle con-  quiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni  selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la  gran democratizzazione dell'Impero romano, di  Fernando Cortez per conquistare l'America a u-  na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^  ste come non esiste in natura : esso non è che in  quanto ha in sé il bene, un granello di bene che  solo gli permette di esistere; non è che un con-  cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun-  que razionale. Non stiamo a spargere lacrime su-  gli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li  ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto  quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente.  La storia dà dunque la vittoria al merito, pro-  gredendo con la legge del minnno sforzo. Date  tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in  un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il  valore delle forze; a quella maniera che in un  sistema di forze flsiohe il loro rapporto è deter-  minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne»  cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tem*  pi antichissimi arriva Ano a noi non poteva esse^  re diversa da quella che fu per arrivare a questo  punto. Questa è una necessità a posteriori:  non una necessità metafisica o teologica che     (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. — Na-  poli, Giannini, 1912 — pag. 24. — Questioni storiografiche^  Napoli, Giannini, 19:3 — passim.     • - 89 -   obblighi uomini e cose a seguire le linee di  un piano traéciaro in antecedenza» ma una neces^  sita interna che nasce dal gioco delle forze uma-  ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze  fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli,  la catena sarebbe certamente cambiata arrivando  fino a noi : non si sarebbe giunti allora a questa  mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno  necessaria secondo il valore di quelle forze. Cosi  dalla storia vien cancellata la parola ca^o, che u-  na volta si usava a indicare la ragione ignota co^  me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una  regione sconosciuta ; cosi vien cancellata là paro-  la Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere  deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua  volontà potrebbe alterare il corso degli avveni-  menti determinato dalle forze di volontà delFu^  manità intera. Per quanto un individuo voglia an-  dar contro corrente, egli è sempre Aglio del suo  tempo; per lottare contro esso deve accettarne la  base comune di credenze ^e perflho le parole del-  la discussione e le armi della battaglia; per quan^-  to sia isolato non può mai impedire che la società  lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per ac-  clamarlo.   Non lasciamoci impressionare da certe parole e  frasi, che potrebbero far credere a una costruzio-  ne astratta a priori della storia : era nel carattere  del Ferrari di calcare la mano troppo violentemen-  te sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in  rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la  forma assiomatica d'una verità assoluta a certb     — QO —   generalizzazioni di cui egli stesso riconosceva la  relatività. Cosi quella storia ideale, che secondo  certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa  che rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su-  periore, assoluta sopra essi contingenti, come se  nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuo-  ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto  quasi totalmente il significato primitivo e non è  altro se non una generalizzazione e semplificazio-  ne dei fatd storici fatta a posteriori, per poter  raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente  didascalico onde non dover tornare ogni momen-  to a ripetersi. Del resto il Ferrari stesso afferma  che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a  coincidere colla positiva; ma una prova ben più  decisiva ce Toffre la sua storia stessa, la quale è  tutt'altro che una storia astratta a priori. Così il  Ferrari si compiace spesso, sforzando al solito  l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici  certi movimenti, di dare come perfettamente e-  quivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di  uno stesso principio — viceversa poi nella narra-  zione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso  principio, si svolgono con forme individuali.  Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità :  ma questa non è affatto l'opposto di libertà indi-  viduale che leghi con un misterioso potere pro-  veniente dalla natura o da Dio ; non è altro se non  la forza storica dell'ambiente, forza umana e im-  manente dell'umanità, della massa, che soverchia  naturalmente il conato d'un individuo.  Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo     — 9» —   sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non  è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti  i casi colla stessa necessità e precisione con cui  si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue  esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era per-  suaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vor-  remmo noi interdirci la generalizzazione, che è un  processo necessario del pensiero? Che non si  prendano le generalizzazioni, queste entità astrat-  te, per realtà metafisiche; che non si costringa  nel loro letto di Procuste l'individuo — d'accor-  do. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricer-  ca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E'  generalizzazione evidentemente la divisione in pe-  riodi storici (sistemi o principi): la storia è un  corso continuo di avvenimenti simile a un fiume ;  ma come il corso del fiume si può dividere in  superiore e inferiore, così si può dividere, cosi  si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione  il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno sta-  to in regnante e opponente, ma essa semplifica e  spiega la realtà. La legge di opposizione, che or-  ganizza gli stati vicini in senso inverso gli uni de-  gli altri ,è pure una generalizzazione — e guai  se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure la  forma politica de^i stati è una generalizzazione,  perchè questa forma un tempo non era cosi e in-  sensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso  movimento dei prìncipi considerati come qualche-  cosa d'assoluto, di perfettamente identico per tut-  ti gli stati che li traducono nelle loro forme poli-  tiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ;     — 92 - -   perchè qui contenuto o principio e forma sono  ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal-  l'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come  fossero delle entità metafisiche.   Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac-  ciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non af-  ferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito,  sdegniamo un procedimento che distrugge colla  pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran-  d'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro  autore cercando di intenderlo.   Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap-  plicati airinterpretazione della storìa d'Italia.     UT.     L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver  va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al  dispotismo imperìale, per eguagliarli in una de-  mocrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio-  nali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero .  greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i eb-  bero conquistati i benefìci della civiltà e della de-  mocrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Ibe-  rì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-,  gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il  sentimento di patria li rivoltarono contro il fisca-  lismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle  onde del grati mare barbarìco minacciante ai con-  fini, era costretto per le necessita della difesa a  caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je  invasioni cacciandole l'una con l'altra — e un prò-     — 93 ~   cesto di dissolvimento federale decompose la ci-  clopica unità romana. Una invasione barbarica  stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al  flagello delle invasioni perpetuamente rinnovanti-  si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la ca-  duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata  come una liberazione economica e politica, che  conservava intatto nitto il progresso sociale di Ro-  ma (476).   Odoacre venne dunque accettato dall'Italia co-  me liberatore; Teodorico, spedito contro di lui  per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore  d'Oriente, una volta signore della terra doveva  assumere la posizione e continuare la missione  della sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512).  Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi deside-  ri non si ferma mai sotto la spinta di sempre  nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente  quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo im-  periale, gli Italiani vollero conquistare una mag-  gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa  cattolica repubblicana e federale per assalire il  regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la  Lotta contro il regno barbaro estemo (512-774).  Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^  erede di Roma cadono gli eroici Goti (555) ; Nar-  sete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizan-  tina per rialzare una specie di regno bastardo,   (i) Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire che parerle una benedi-  zione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli  e più sovvertitrici.     — 94 —   non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.  d'it. — Voi. I, pag. 69) :   ... Ecco i Longobardi che giungono [568]. In ap-  parenza marciano casualmente; formano una molti-  tudine densa sozza vorace, che scende lentamente  dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta  ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città  che invade, le petriflca colFalito suo; nella sua bru-  talità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li cir-  conda oltrepassandoli — ed invade metà della peniso-  la fermandosi subitamente senza ragione alcuna.  La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto ce-  de a leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi  obbediscono al peso della loro propria materia.   Senonchè questa massa in apparenza bruta  di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei  Goti : non errano come soldati, ma si stabilisco-  no come un popolo di conquistatori nell'Italia del  Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vitto-  rie del Mezzogiorno; fondano una rete strategica  di fortezze che sorvegliano e imprigionano le  grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat-  tano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla  legge della spada e derubandoli del frutto del lo-  ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica ri-  mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio-  ne di Bisanzio ; e S. Gregorio Magno papa (590-  604) divenuto capo della federazione romana e  rappresentante anche dei vinti del Regno, volta  contro la barbarie longobarda tutti i miracoli del-  la religione e la potenza spirituale del pontefice,  a cui una nuova teologia dà il potere di condan-     — 95 —   nare o assolvere i morti prima del Giudizio uni-  versale.   Le due forze antagoniste rimangono dunque di  fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente :  ma se i Longobardi eccitano col loro esempio  r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza poli-  tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do-  po; non possono sottrarsi all'influsso della Chie-  sa, che con una rete sotterranea di silenziose co-  spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per  mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re-  gno opponendo al re ariano di Pavia, la capita-  le longobarda, il re cattolico di Milano, la capi-  tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del cat-  tolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'er-  rore di accettare il principio imperiale, i Longo-  bardi commisero quello di accettare il principio  cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei  cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della  rivoluzione romana e della eroica devozione fran-  ca (1). Per quanto più tunani dei mostruosi re  franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già  seminazionalizzati da un processo di fusione coi  vinti del regno; non furono mai accettati dall'I-  talia romana, che organizzata antiteticamente li  combattè con la rivoluzione col Papa coi Franchi.  L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno     (l) Cfr. G, Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici,  Pisa, 19Ò1, pag. 412:.. Non il re franco fu il vero vincitore,  ma 1* Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine delle  genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica costituzione  del popolo e dai modi della eonquista.     - 96-   .l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione so-  dale, legato i gran centri romani nella rete delle  città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu-  vione barbarica le reliquie della civiltà romana  conservate dal cattolicismo.   E per impedire che potesse mai formarsi un  regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, de-  stinata a spandere il fuoco della libertà su tutta  l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente  (800). Come rappresentanti del nuovo patto so-  ciale che doveva essere la base del diritto pub-  blico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e  l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad  essere la custode del loro duplice potere euro-  peo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Pa-  pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia  meridionale con le isole da conquistarsi ancora  3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocdden-  te: 774-888).   L'Italia perdeva quindi l'indipendenza naziona-  le, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini  del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale  migliorava le condizioni dei Romani, non più sot-  tomessi alla legge della spada barbarica, ma alla  giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte  delle città dell'industria e del commercio a danno  (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde del-  la coltura romana ad attivarne nuove scintille .So-  lo le terre ancora escluse dal patto papaie-impe-  riale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Si-  cilia, scontavano amaramente la loro indipenden-  za politica con una inferiorità sociale, prodotta     — 97 —   dalla confusione bizantina dd potere temporale e  del potere spirituale, la quale impediva la gran  libertà del pensiero.   Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava  decomponendosi sotto gli inetti successori di Car-  lo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del-  le nazioni insegnando loro a conquistarsi una li-  bertà federale (888).   Ma poiché da questa risorge lo spettro micidia-  le d'un regno barbaro interno, la rivoluzione pa-  pale e imperiale sempre regnante approfittando  delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il  regno d'Italia, lo condanna a non essere che una  lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a  due rivali e rialzando sempre il vinto contro il  vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno :  888-962) finché invocato dalle rivoluzioni italia-  ne giunge Ottone I a rinnovare il patto papaie-  imperiale. Egli distrugge per sempre il regno, di-  sorganizza le marche dei discendenti dei barba-  ri, esalta il clero romano, protegge i comuni ita-  liani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte  le nazioni europee e modifica al suo esempio an-  che la Chiesa. {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 250) :   L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di  «no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli u-  m unitari gli altri federali; presso gli uni la reli-  gione prevale sulla legge, presso gli altri la legge  primeggia sulla religione; i primi progrediscono con  l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità  della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al ro-  vescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della guer-   A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari. 7     - 98 -   ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle  due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Ci-  gni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé  stesso che non prende la sua base d'operazione in  opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente  in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si  cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta»  uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se inve-  ce si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che  si estendono opposte le une alle altre.... si vede dap-  pertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con  esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlo-  vingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un  nuovo stato libero colle diete o popolare col re.   IV.   Liberata cosi per sempre dalla tirannia unita-  ria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìe-  ra magica delle sue rivoluzioni, che sembrano  frantumare in moti individuali variati disordinati  la sua ideale unità di nazione, e a prima vista ci  appaiono refrattarie a qualsiasi principio organi-  co di interpretazione (Riv. d'Italia — Voi. I, pag.  256):   Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto al-  l'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva  una e logica, dominando i più svariati avvenimen-  ti con una specie di continuità drammatica un tem-  po vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera  nazione col fatto unico del regno proclamato contro  gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a  Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un-  ni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di  Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta     — 99 —   l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali ca-  pitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so  Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria-  nimavano con un risorgimento quasi repubblicano.  Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale  e dell'invasione regia si spartivano materialmente la  penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda,  rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mez-  zodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora  una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche  cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'in-  fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che  consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Im-  pero d'Occidente. L'unità sopravviveva nel patto di  Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente  da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei  Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti  egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unità  si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori con-  tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re  italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di  quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or-  dinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trion-  fo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della  Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t  due principi della rivoluzione cattolica e del regno  nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le  lotte; dal momento che una guerra scoppiava dove-  va essere la guerra dei due principi : ci bastava il se-  guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio-  nale senza esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva  all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di  sottomettere ad una unità eccezionale il moto ecce-  zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia,  Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se  stesse per lasciare il posto alla geografìa pontifìcia  imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio  della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio-  naria, la sola che importava di seguire.     — lOO —   M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena;  il moto generale scioglie ^uestltalia che già scon-  certava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue  rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni  non sembrano punto associati; nesstma federazione,  nessuna lega, nessun' unione generale e apparente:  Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì  o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti  si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono in-  numerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre  si estendono colle conquiste, giungono i Normanni,  la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'i-  noltriamo, tanto più le forze della guerra e della li-  bertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si tur-  ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi  storici non abbracciano più l'insieme della penisola:  Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando  non hanno successori; più non si scoprono se non  dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più  tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrit-  tori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Ci-  merò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di  cento storie distinte diverse contradittorie, senza le-  game palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto-  ria d'Italia?   Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui-  da attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impa-  droniscono del suolo per interpretare la vittoria da  essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguo-  no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni  rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge,  la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei  re; questo è lo scopo loro; essi marciano contro il  Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nel-  l'altro ogni principio che conserva le tracce dei Go-  ti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Euro-  pa. La storia dei comuni non è dunque altro che la  storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e  sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a com-     — IDI —   battere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della  barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale,  donde spariscano in modo cosmopolita tutte le trac-  eie della dominazione delFuomo sull'uomo.   Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne  sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso,  e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è  l'errore che la considera come il racconto di una  guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per  conquistare l'indipendenza politica del governo o, co-  me si dice in oggi, per respingere l'invasione dello  straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe  mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riu-  scirebbe a questa assurdità inammissibile: che do-  po cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiun-  to, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nac-  que l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, con-  tro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e  burgundi; nacque creando e interpretando il gran  patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse con-  quiste carlovinge cogli incanti della religione e colla  magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi  di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i sim-  boli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni  sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e  nel possibile; e con la costituzione dei due poteri  essa ha organizzato una rivoluzione permanente, uni-  versale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avve-  nire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è  l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti fede-  rale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il  più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei  sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suo-  lo italiano, ed al contrario il regno che era conquista-  tore venne schiantato con una guerra così violenta  che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Per-  tanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indi-  pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se  non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi     — I02   sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti,  si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che voglio-  no riformare il patto» che chiedono sempre un mi-  glior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'es-  sere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen-  denza; ma sostengono una guerra costituzionale in-  tima organica per trasformare le idee le istituzioni  la religione, una guerra dove il principio di respin-  gere gli stranieri è sempre posposto al principio di  distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il  Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se  non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle  reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta,  imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ulti-  mi giorni del risorgimento italiano. La storia dei co-  muni, considerata in tutta la sua durata, non è dun-  que la storia di una guerra contro lo straniero, fatto  unico materiale mille volte impotente; ma è la sto-  ria di un fatto ideale organico sempre crescente: e  poiché là dove le idee regnano il caso non può re-  gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e  qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio-  ne è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo  stesso punto di partenza — la caduta del regno, lo  stesso punto d'arrivo — il risorgimento italiano; da  per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla  medesima logica; lenta o rapida, squallida o splen-  dida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determina-  te anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza  i principi a generare le loro conseguenze. Che i mil-  le accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es-  si saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi  sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune  a tutte le città da Ottone I alla flne del risorgi-  mento.   La storia ideale della città italiana si ripete a un  patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra-  sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore  noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tar-     — I03 —   do, se ne dichiarano apertamente conservatori; la  loro opera è sempre una restaurazione imperiale e  pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella sto-  ria? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che  diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e  non trionfano se non accettando Topera del tempo, e  non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di  rappresentare i principi che la fatale ignoranza del  governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessa-  mente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro re-  staurazioni così dette eterne, seguendo passo passo  la storia delle città italiane di cui amnistiano le ri-  bellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che  resistano; se non resistessero la rivoluzione non a-  vrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel me-  desimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma e-  gli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si rista-  biliscano, accettando il progresso che si è fatto stra-  da e che passa allo stato di fatto compiuto o di fa-  to ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della  storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Ma-  gno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto-  no in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il  Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Oc-  cidente? bisogna dunque che propaghino da per tut-  to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli  stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni  contro gli altri? devono quindi accettare ogni pro-  gresso, non foss'altro per combatterlo.   Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut-  te le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa  la varietà a prima vista irreducibile di forme, e  le costringe ad essere incasellate entro il quadro  di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il  periodo storico che il Ferrari ha studiato con più  amore e trattato con più larghezza i la storia an-     — I04 —   t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdva-  mente conaiderata come imrochizione e come epi-  logo alla epopea di quel che egli chiama risorgi-  mento italiano.   Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirai^  nide regia colla rinnovazione del patto papalo-  imperìale e col trasporto dell'Impero in Germa-  nia, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Pa-  pa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma  non per distruggerli, bensì per riformarli, tra-  scinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartie-  re contro ogni rimembranza del regno.     La rivoluzione dtì Vescovi (962-1122) apre la  serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^  gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte  goto longobardo o franco di discendenza, che vor-  rebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia dd-  le mura cittadine la tinmnide regia, che governa  cdla legge ddla spada il popolo di discendenza ro-  mana; e il vescovo romano di razza e di tradi-  zione che protegge i deboli contro la prepotenza  regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del  suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone  impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B.  popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol es-  sere giudicato dalla sua giustizia superiore a quel-  la del conte come la ragione alla spada, si appas-  siona per tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo  voltandde come armi ideali contro le alabarde de-     — I05 —   gli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia im-  prowisame&ie una sollevazione annata. Il conte  si trova espulso, e nella città si comincia a sboz-  zare colla formazione dd primo popolo raccolto  dalla corte del conte e da quella del vescovo Tor-  ganismo comunale italiano, che non è una deriva-  zione germanica o romana ma nasoe adesso oomh  battendo contro le memorie del regno. La rivolu-  zione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>  ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce fa-  miglie pie di tradizione romana e avversa al re-  gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen-  denti dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^  ralizzato dalla confusione bizantina dei due pote-  ri, al seguito delie schiere avventurose dei Nor-  masni; e in RomB trionfa coHa libera elezione  popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei  conti e dei patrizi.   Ma i centi espulsi daUe città da un esercito d!  straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'au-  torità legale del loro supremo tutore, l'Imperato-  re, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado  II di GebeHno comincia la reazione contro i ve-  scovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano,  che oppone alla cavalleria feudale le picche dei  popolani raccolti attorno al carroccio novdlamen-  te creato, vede la sua reazione abortire nelle cit-  tà e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e  deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano dd-  ritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai  seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi  spetta di guidare la necessaria reazione contro 1     — io6 —   Normanni rappresentanti meridionali del princi-  pio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano  S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E  cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e  legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu-  ropei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino  ndla Chiesa, la quale si appassiona per la vergi-  nità mistica in odio dei preti ammogliati, che pro-  fanano la sua repubblica immacolata con una spe-  cie di feudalità clericale (1050).   Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata  del conte, la rivoluzione entra in una seconda fa-  se (1050-1122), continuando contro i vescovi no-  minati dall'Imperatore che li incarica di sostene-  re la parte dei conti, per strappare la libera ele-  zione dei vescovi stessi — e una volta vittoriosa  vuole la libera elezione del più grande dei vesco-  vi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il di-  ritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce  tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma  ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola  II, poi con quella di Alessandro II contro l'anti-  papa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul tro-  no pontificio assale per la prima volta la suprema-  zia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivolu-  zione vescovile compita predicando la crociata.   Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il  germe d'una reazione pontificia contro la libera  elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto tra-  sportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del  Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della  rivoluzione passano nel campo nemico; dichiara-     - I07 —   no che il Papa non è il padrone della Chiesa ma,  sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili, è  il servitore dei servitori, e può essere deposto se  manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del-  le investiture che è la reazione papaie-imperiale  contro la libera elezione dei vescovi : i due capi  sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in-  terpretando con mente retograda l'antica tradi-  zione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi,  come avevano atterrato il vecchio Impero sotto  1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa-  pato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le  città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono im-  periali quando il Papa trionfa e pontificie quan-  do l'Imperatore prepondera, e finiscono col se-  guire l'alleanza imperiale sulle terre della dona-  zione e quella papale sulle terre dell'Imperatore.  Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla  Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV  a resistere e gli danno la vittoria nonostante la  sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quan-  do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il  suo campo e rialzano il Papa; e continuano in  questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ot-  tenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa  e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con-  cessa — a tutta l'Europa.   Anche la prima crociata cade sotto la legge del-  la rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e-  lementi della città italiana, la moltitudine il popo-  lo i consoli e i vescovi, altro non è se non Te-     — io8 —   spetrìazioae volontaria della feudalità che lascia  libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi.   Abbiamo dato un sunto diffuso di questo perio-  do per offrire un esempio più chiaro del metodo  interpretativo del Ferrari : ora potremo procede-  re più rapidamente.     VI.     Qi stati dell'Europa non avevano ancora com-  pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi  che nelle città italiane dov'era nam essa era as-  salila da una nuova rivoluzione, nei principi o-  scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo-  sa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano  scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^  2i(U22-1184) passava anch'essa per due tesi:  prima sostituiva il governo vescovUe ed governo  consolare (11^1137); poi scatenava le une con-  tro le i|kre città consolari, divise in due campi  per conquistarsi con la guerra una più larga li-  bertà dentro il patto papaie-imperiale (1137-1184).   Nella città vescovile il vescovo essere religiosa  e u-asmondano si trovava a capo della moltitudi-  ne, agitata da tend^ize industriali e commercia-  li completamenie mondane ch'egli non poteva  soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce  rifisurrezione : la città si muove prima conser-  vando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova  le sue istituzioni e crea un nuovo popolo più al-  largato e democratico chiamato a legiferare nd  parlamenti che, col tradizionale intervertimento di     aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa  e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, as-  sale il diritto del regno a nome nel risorto di-  ritto romano.   La. immancabile reazione pontificia e imperiale  procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il  suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cat-  tolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secon-  do la formula generale di tutte le reazioni oppo-  nevano il passato sempre vivo in essi al presen-  te da cui erano assaliti ; e combattevano i conso-  li fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed al-  tra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma  non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta.   Ed ecco che appena vittoriosi della duplice rea-  zione i consoli spingono le città le une contro le  altre in quella guerra municipale, che fa la ma-  raviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con  le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fra-  temo. E' questo uno dei misteri più profondi del-  la storia ditalia: la guerra municipale non si  spiega né colla volontà del Papa e dell impera-  tore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità,  nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia,  nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla  HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia — Voi. I,  pag. 515):   Guardiamo alla terra dove sorgono le città libe-  re : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da  una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco-  vi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la     — no —   capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari  che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun-  zioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri se-  condari che erano padroni delle vie dei fiumi del  commercio di tutto. Le città romane sono state rial-  zate, opposte alle città militari; restituite all'impor-  tanza naturale che loro davano il conmiercio, la ric-  chezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizio-  ni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero del-  la civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in ogni  parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le  città le une contro le altre: ogni centro militare si  trova in presenza di un centro romano a lui ostile;  Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'al-  tro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era  dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora  apparente, la legge imperiale e pontificia regna an-  cora, la guerra si dissimula; e se i conti sono con-  gedati, la metà della gerarchia sussiste ancora col ve-  scovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e  non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi-  lano non combatte le città dei dintorni se non per  ordine dell'Imperatore... Ma nel momento dei conso-  li la disorganizzazione vescovile del regno si fa lai-  ca, la dualizzazione delle città diventa economica:  più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio-  ni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchez-  za, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istru-  menti di prosperità o di miseria; il mercante, il fab-  bricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessu-  na gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf-  freni le rivalità; non i giudici per decidere sulle  vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse so-  no in contatto immediato; il contatto diventa lotta,  la rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po-  trebbe forse evitarla? — Guardiamo sempre la ter-  ra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo  stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per rad-  doppiare la disorganizzazione del regno e la degrada-     — II I —   zione delle città militari. Questa degradazione è fat-  ta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria  dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali :  i primi son condannati a difendersi sotto pena di mo-  rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare  guerra perchè basta loro il vivere il progredire per  spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono t  frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse ri-  fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rove-  scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra-  tegia regia quella del commercio che procede lenta  sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci.   Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'o-  stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle armi,  coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa  buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria.  Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della li-  bertà e della civiltà contro le città più libere, più  civili; si spingeranno alla ribellione i comuni inter-  mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà  di smembrare le città romane, di attorniarle con bor-  ghi insorti, di disorganizzare questo centro di disor-  ganizzazione — e ne nascerà l'aff razionamento del-  l'aff razionamento, la guerra della guerra.   Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo-  lo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, dispo-  sto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in  tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sot-  to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo  ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la  guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circo-  scrizione della terra ove sorgono i consoli? La città  vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è oc-  cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co-  sa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzio-  ne ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dal-  l'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse  rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo-  vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento     — 112 —   ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco  grazie alla sua attività che moltiplicandosi trabocca  oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinno-  vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del co-  nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'in-  grandisce e più non può capire nel proprio territo-  rio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i  suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti  intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tem-  po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città  smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto-  ie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si  trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fonda-  no delle colonie consolari; ma per le città delFin-  temo non hannovi terre vacue, la campagna appar-  tiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son ar-  mate, i confini sono spietati — e le città si getta-  no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della  rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi  consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura  stessa del consolato, e si presenta come la preda na-  turale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius:  9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed  ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capita-  le; la guerra deve durare fino alla liquidazione gene-  rale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta  per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore a-  nimati da sentimenti patemi e da benefiche intenzio-  ni; supponeteli sempre pronti a intervenire per pre-  dicare la pace l'unione la concordia; supponeteli ab-  bastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazio-  ni ,per riparare mille torti, per render giustizia agli  oppressi; supponeteli protettori, conservatori come  devono essere secondo il dato primo del Papato e  dell'Impero: le città riporteranno vittorie che non sa-  ranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nes-  suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto otte-  nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana-  te, ricostruire le mura smantellate, riedificare le ciN     — 113 —   tà incendiate, restituire il territorio conquistato; e al-  la partenza del Papa deirimperatore e dei loro de-  legati, le cause della guerra sussistendo ricondurran-  no le città al combattimento; si rimarrà per secoli  a battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba-  stione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vit-  torie inutili, per subire mille sconfitte sempre ripa-  rate.   La guerra municipale che rimane dentro i con-  fini della regione viene quindi ridotta al dualismo  delle città militari e delle città romane costrutte  le une a controsenso delle altre : di Milano e di  Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Ve-  rona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di  Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di  Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle cit-  tà latine : anche il regno di Napoli si toglie all'a-  nalogia degli altri regni per seguire la legge del-  le città italiane, funzionando come una gran città  cambattente con Palermo contro i rimasugli fe-  derali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa  guerra che oggi si considera come un disordine  odioso era nel secolo XII un progresso, una ri-  voluzione, il primo passo delle città per determi-  nare i loro confini a nome della propria libertà  insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdi-  zioni.   Intanto Fed. Barbarossa ,capo della rivoluzio-  ne vescovile in Germania, si propone di combat-  tere in Italia la seconda fase della rivoluzione con-  solare, sopprimendo la libertà della guerra muni-  cipale che insulta alla sovranità dell'Impero: e   A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. «     — 114 —   la sua reazione subisce vicende diverse secondo  che si muove sulla terra delPantìco regno o su  quella del Papa o del regno normanno. Nell'Al-  ta Italia diventa capitano municipale delle città  romane, manovrante da bandito con l'uniforme  d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra  la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle  città che lo secondavano nelle prime discese, vin-  to dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e  dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit-  to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan-  za le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia  di Legnano non è dunque una lotta repubblicana  e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore  tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui-  date da Milano è le città militari guidate da Pa-  via, per ottenere dentro la gran giurisdizione del-  l'Impero la libertà della guerra.   La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla  duplice repubblica europea del Papa e ddl' Im-  peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni  nazione dei governi con missioni consolari : perfi-  no nella Chiesa, che assalita da ogni parte pren-  de al rovescio i suoi nemici colle creazioni conso-  lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini  francescani; e sostituisce la conquista vicina del-  l' Inquisizione alla conquista oltremarina della  Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bo-  naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap-  puccini.   (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,  Macmillan, 1912 - png. 173. Non si dichiaraTano prìncipi repub-  blicani, né si faceva appello alla nazionalità italiana.     — 115 —  VII.   La terza grande rivoluzione italica prende no*  me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9-  sa per le fasi della guerra ai castelli (1184-1198)  e della guerra cittadina che provoca la creazione  del podestà (1198-1250).   La città consolare, la quale non è altro se non  un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno  che copre ancora tutta la campagna inceppando il  libero espandersi del commercio, una volta otte-  nuta la libertà della guerra riflette che le città ri-  vali sono troppo radicate alla terra, mentre i no-  bili della campagna si presentano come vittime  facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibi-  le della sua espansione economica e politica. Le  città romane specialmente combattono con furore  contro la moltitudine dei feudatari che le accer-  chiano impedendo loro il respiro; e questa ulti-  ma rivoluzione che estende la libertà alle campa-  gne si presenta come la conclusione della gran  guerra contro il regno, distrutto nelle sue soprav-  vivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Ita-  lia, che funziona come un gran municipio, la guer-  ra ai castelli si confonde con la continuata guer-  ra municipale di Palermo contro gli antichi cen-  tri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo  sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.   La soluzione della prima fase, vittoriosa della  reazione, apre una nuova lotta. I castellani, na-  turalizzati e deportati per forza nel cuore della  città che loro impone l'odiosa legge dell'ugua-     — Ilo ^-   glianza, si vendicano costruendo delle fortezze in-  teme, armando i loro servi, conquistandosi coil'o-  ro la moltitudine che voltano contro il popolo —  e ricominciano un combattimento che come quel-  lo fra città e città non può finire ; perchè il denaro  è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la fi-  nanza colla finanza : i proprietari della terra (con-  cittadini) sono almeno forti come i possessori dei-  fabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Im-  peratore si presenta ai cittadini e ai concittadini  per riassumere ed eternizzare il loro combatti-  mento: con la solita interversione d'alleanze i  cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli  di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperato-  re; al contrario i concittadini dell'Alta Italia se-  guono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa I-  talia invocano il Papa contro Palermo.   I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,  l'anarchia imperante, conducono alla creazione di  un nuovo governo : i consoli nella loro qualità di  capi dei cittadini come parti in causa non hanno  quell'autorità imparziale che possa giudicare i due  partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato  nel tempo stesso giudice e capitano, ad una spe-  cie di dittatore annuale che si chiama podestà.  Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli  stesso giudica e applica la sua legge con potere  discrezionarìo — ma spirato il suo mandato è  sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è con-  dannato a multe a prigonia e talvolta alla morte.   La reazione immancabile questa volta si sem-  plifica. Il Papa è il protettore delle città romane     — 117 —   del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran pode-  stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non  opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero,  mentre la reazione pontificia non percuote che i  popoli della Chiesa. Federico II assale qua! con-  sole della Germania i podestà della Lombardia,  diventa capo dei concittadini delle città romane  e dei cittadini delle città militari; ma dentro al  laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si  trova impegnato in un combattimento a cui l'e-  quivalenza delle forze non permette nessuna so-  luzione — ed è costretto a riconoscere col fatta  della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv.  d'ItaUa — Voi. II, pag. 211):   Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo,  Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio  di console della Germania e di podestà delle Due Si-  cilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^  te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e  la poesia, che segue le grandi figure della storia per  trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le  sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende  silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi ab-  bia seco perduto non si sa qual misterioso destino  d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebeli-  ni, condannati alla demenza delle reazioni impossi-  bili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pen-  timenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo tem-  po nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mil-  le geroglifici che la stenografia della storia traccia con  la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Uti-  le al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non po-  teva né essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar  runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del  Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di-     — ii8 —   screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di com-  pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o  di despotismo beneflco erano anticipatamente elimi-  nate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni del-  ritalia, che si svolgevano diverse variate affraziona-  te da cento stati contradittori, la cui suprema feli-  cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male  fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a  Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con  alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode-  stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano;  un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la  penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto  all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar-  chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede  sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tut-  te le montagne, una devastazione inaudita di tutte le  libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei  Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un  tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi-  dente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la  sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto ri-  portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le  sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas-  so come la libertà generale... Al certo l'elevazione  non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su  lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo del-  l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco-  pre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem-  pre m tutte le epoche della storia ; nel momento del-  le grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo   (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di  Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* 1910 • pag. 363:... N*to in un  secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si  pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^-  mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto  una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura oppo-  sto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costrui-  to con 1' altra.     — IIQ —   del dolore dimenticavano un istante di essere tribu-  ni re imperatori, per chiedere alla natura e agli  astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie  deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islami-  smo, per cercare delle verità che la sua religione gli  vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose in-  terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza,  sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla fur-  beria dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un  califato d'occidente, col quale la ragione gli rende-  rebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno al-  la Chiesa. La tradizione profana lo segue appassio-  natamente e, guerreggiando con le calunnie cattoli-  che, gli attribuisce confusamente il pensiero di vo-  ler regnare quale podestà delle tre religioni che si  contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Ge-  sù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori  dell'umanità, che ingannano i mortali, che semina-  no sulla terra il furore delle crociate, che bisogna do-  marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa  ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno,  per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli  ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo  disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amo-  re per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo-  co della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli  ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che nume-  rosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'u-  niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia  imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero  arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle  più astratte possibilità, non serve che a rivelare di  rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i Ce-  sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di  parere ancora più religiosi degli altri; devono im-  porre il silenzio l'obbedienza la cecità, e farsi ipo-  criti impostori e persecutori di ogni filosofia; perchè  la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i  suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli     — I20 —   di miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi-  ca i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le  promettono con maggior energia di continuarne gli  errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico II-  gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo  condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat-  tolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare Tu-  manità.   Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazio-  ne è guidata dal Papa, che come console dei con-  cittadini del Mezzodì assale con le armi della ri-  volta federale e della superstizione cattolica il suo  vassallo (1) Federico 11 supremo podestà, ma è  vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta  Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che  organizzata a forma repubblicana lo obbliga a ce-  dere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà  bolognese. La libertà della democrazia della sedi-  zione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia  proclamando il grande interregno, e si diffonde  per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i  dottori combattono come cittadini e concittadini  prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa di-  venta il giustiziere universale di tutte le dissiden-  ze presenti passate e future come un podestà mi-  triato.   Vili.   Ma nemmeno il podestà poteva durare sulla   (i) Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa  posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. — '  BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.     — 121 —   scena un tempo maggiore di quello concessogli  dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella  nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide  in periodo delle sette (1250-1280) e dei tiranni  (1280-1313), al momento in cui la guerra civile  straripava al disopra del governo pacificatore e  i combattenti disprezzavano gli ordini del pode-  stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a  vicenda proprio adesso che il grande interregno li  libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi  di adorare il loro Papa, ai Meridionali di vene-  rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal  Papa e dall'Imperatore (1) non sono altro che le  due sette dei cittadini e dei concittadini che rina-  scono con duplicato furore, per darsi delle sem-  pre nuove battaglie al seguito della quale una me-  tà degli abitanti deve prendere la via dell'esilio.  I cittadini delle città romane sono guelfi, all'oppo-  sto dei cittadini delle città militari di Roma e del  Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città  romane sono ghibellini, mentre quelli delle città  militari di Roma e del regno sono guelfi. Con u-  na guerra tutta sociale» figli di una stessa città,  essi combattono per conquistarla non per distrug-  gerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i-     (i) Cfr. G. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi  storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e varie cagioni delle lotte inter-  ne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Impera-  tori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di pro-  prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preeti-  stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del  Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co-  mandare.     — 122 —   deale della nazione si stringono in alleanza coi  settari del loro stesso colore, onde tutta la peni-  sola è corsa come dalla rete di una circolazione  di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pa-  ri è la forza degli interessi, pari la forza delle i-  dee; la lotta adunque nel complesso della nazione  è eterna e senza soluzione come una antinomia  metafisica; ma prende possesso delle contradtzio-  ni della guerra municipale, secondo la legge che  dopo una minore o maggiore alternativa di espul-  sioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei  cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle cit-  tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa  allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto  di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più  numeroso dilatando la democrazia, e mira a crea-  re secondo il tipo ideale formatosi con la genera-  lizzazione delle sue due tendenze una nuova Chie-  sa democratica e un nuovo Impero legale.   Minacciato dalle due sette che fanno traballare  il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se  non facendo un passo indietro per fermare la ri-  voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla conqui-  sta della Sicilia affinchè domini come un podestà  imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa  guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione pa-  pale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è  rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca  innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola-  re, estende la libertà alle arti ai mestieri alla  plebe, compensa il decadimento delle città milita-  ri col fiorire delle città romane arricchite dall'in-     — 123 —   dustria e dal commercio, rivela attraverso il colle-  gamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e  dà due linguaggi due poesie due nuove religioni  all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dal-  l'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia  l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Fede-  rico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai  dialetti di tutte le città ; finché viene a trionfare la  nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze.   Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso  nella seconda fase dei tiranni (1280-1313). Il ti-  ranno è il capo di una delle due sette che gli con-  cedono un potere dispotico sacrificando la loro  libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria :  esso compensa la violazione di tutli i diritti ac-  quisiti coi favori prodigati alla moltitudine e col-  la condotta vittoriosa della guerra estema, e per  la prima volta rappresenta la terra sotto una for-  ma individuale. Ma, capo di un partito destina-  to dall'equilibrio delle forze ad alternare te scon-  fitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una ca-  tastrofe certissima. Le città che non entrano nel-  l'era dei tiranni si contorcono nelle angosce del-  la guerra civile non ancora disciplinata imbriglia-  ta e mitigata, e in ritardo di una generazione nel  corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali co-  me Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian  della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni  stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul  tiranno di Napoli.   Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op-  ponendo la guerra pura e semplice all'ordine na-     — Ì24 —   sceme delle tirannie, per suscitare attraverso al-  la penisola un ondulazione guelfa che distrugga  le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di Valois.  Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le  città i Guelfi si trovano senza capi senza ripu-  tazione senza potere e disonorati dall'invettiva  immortale della Dmna Commedia.   Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Ar-  rigo VII, che in ritardo come la sua patria di due  rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibel-  iino; e guida quindi una reazione opponendo ai  furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del  podestà. Ma appena messo il piede sul suolo fa-  tale ditalia, come i suoi predessori vien preso  nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto  a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si di-  ce avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buon-  convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron-  to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti-  ranni penetra infine nel patto di Carlo Magno col-  le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio Co-  lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro-  pongono come stato modello gli uni la tirannia  guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina  Commedia è la grande epopea della tirannia ghi-  bellina trasportata nell'universo soprannaturale,  dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo;  Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rab-  bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^  prema di salvare il genere umano ; che da per tut-  to immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tem-     — 125 —   pò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la  democrazia guelfa del passato.   La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta  l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a Bo-  nifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; pe-  netra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghi-  belline dei domenicani tomisti e dei francescani  scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e  perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar  gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni del-  l'inferno.     IX.     A un certo momento il tiranno s'accorge che  per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe  e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità  col disarmo colla corruzzione o con la distruzione  dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse del-  l'agricoltura dell'industria e del commercio che  vogliono ora la pace. Il reggimento repubblica-  no già compromesso dai tiranni viene quindi abo-  lito dai Signori (1313-1402) che regnano da de-  spoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di  traverso al Papato e all'Impero senza prenderli  mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le  guerre municipali fin qui insolute, dando predo-  minio alle città progressive romane; si estendono  colla forza della necessità, migliorando la sorte  delle città conquistate trattate coll'imparzialità u-  sata verso le due sette; e sempliflcando la geogra-  fia delle due Italie, utilizzano ormai direttamen-     — 126 —   te il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel  Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori : 1318-  1336).   Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che  dimostrava in qual modo si poteva vivere nello  stesso tempo nei due campi o passare sapiente-  mente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibel-  lini non avevano altro mezzo che d'invocare ^  uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno  dell'Impero, per disfare con una reazione gene-  rale le nuove costruzioni delle signorie imparziali.   Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre  reazioni, una papale una imperiale e una combi-  nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i  giureconsulti proclamano per la prima volta la so-  vranità popolare di ogni nazione astrazion fatta  dalla Chiesa e dall'Impero.   Nella seconda fase della Prosperità dei Signori  (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si pro-  paga in tutte le città : le terre più timide, i centri  più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono cre-  arsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni  città prende definitivamente il posto che le era  stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione  del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulan-  za di Verona, l'inferiorità della Toscana e del  Mezzodì.   La signoria di Milano era frattanto giunta a  tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la  reazione di una federazione repubblicana pontifi-  cia e imperiale, in cui le città minacciate dalla vo-  racità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogra-     — 127 —   di per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava  a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva col-  la catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV al-  Timperdonabile bassezza di farsi mercante di di-  jplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra  Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savo-  ia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la  ragione individuale dalle catene della religione.   La terza fase del periodo dei signori è domina-  ta dal dualismo fra Milano e Firenze (1378-1402).  Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can-  cellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche  Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione  illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi  Tidea di sopprimere la dominazione temporale  della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica si-  gnoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la  signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo  il suo raggio legittimo in un flagello per il resto  della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la  liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei  popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni  della nazione si spiegano col contrasto fra Milano  e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuo-  le dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superio-  re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar-  tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo  a profitto dei moderni e impersonano l'empietà  del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contra-  dizione col suo classicismo accademico feroce so-  lo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando '  le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per     — 128 —   mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le im-  posture del Medio Evo sotto le risate della sua  novella federale. E* questo il momento in cui la  bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vesco-  vi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia — Voi.  III. pag. 108):   ...Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena  frammista qua e là alle battaglie lombarde e friula-  ne come una terra secondaria e affatto straniera, qua-  si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno  che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat-  tò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di  simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sa-  rebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo  da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente.   La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove  tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore  riprendono il loro atteggiamento naturale; e la  Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i so-  stenitori dell'individuo e quelli del genere, per  diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del  Petrarca.     Le conquiste sociali e politiche della signorìa  vengono adesso minacciate dalla Crisi militare  (1402-1494). I signori avevano composto i loro e-  serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i  Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizio-  nalmente antimilitari; ma poiché, affascinati dal     — 129 —   demone della conquista vogliono mantenere eser-  citi superiori alla loro potenzialità economica, fi-  niscono per fallire e per cadere in balia della ple-  be irritata e dei soldati insorti. La crisi si com-  pie in tre tempi : prima la plebe insorgendo con-  tro il flagello della miseria distrugge la signoria,  risuscitando le forme politiche sorpassate della  repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel-  la libertà la ripiomba nelle demenze del passato  accetta una nuova signoria, che limiti le sue am-  bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen-  titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi  ritemprato da una nuova consacrazione plebea  si trova adesso di fronte al condotdere capo di  una signoria volante di soldati su d'un territorio  che non può sostenerli tutti e due, bisogna che  uno scompaia : ora è il condotdere che diventa  signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa  che toglie di mezzo il condottiero come Venezia  fa del Carmagnola.   La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora  in mezzo alla derisione universale di tutti i prin-  cipi, conserva tutto il lavorio dei secoli preceden-  ti : la federazione italiana si semplifica colla vitto-  rai dei gran centri romani sulle città militari e le  dualità invincibili; detronizzando diciassette dina-  stie e distruggendo diciassette indipendenze inuti-  li, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran  legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or-  goglio della nazionalità alle necessità della demo-  crazia, perchè la fame è superiore all'ambizione  delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti   A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. •     — I30 — .   nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe se-  colarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484,  in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, di-  chiarando di assoldare un condottiere a spese co-  muni, stabiliscono il principio di tutte le federa-  zioni : di formare uno stato solo contro al nemi-  co benché ogni stato resti distinto e sovrano nel  proprio territorio. Le reazioni di questo periodo  sono appena accennate e non servono che a con-  fermare la rivoluzione flnanziaria.   La quale si riflette nelle lettere, dove si ha pri-  ma la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere del-  le opere originali con Lorenzo col Poliziano e col  Pulci, che malizioso come un signore liquida il  Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del  Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella  Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federa-  le del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi ta-  zione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un  incendio universale di democrazia, che presto a-  vrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori del-  la libertà e delle riforme; inventa la visione bea-  tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il pur-  gatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indul-  genze per rendersi visibile nei capolavori del-  l'arte.     XI.     L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale  della rivoluzione; marciando alla testa della civU-  tà essa creava man mano le nuove forme politiche.     — l$\ —   che diffondeva per mezzo del Papa e dell impe-  ratore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che  durante il periodo della Decadenza dei Signori  (1494-1530) la civiltà trasporta i nuovi centri in-  cendiari in un'altra nazione (1); e la Francia chia-  mata da Ludovico il Moro straripa improvvisa-  mente con una espansione militare nellitalia, la  quale sorpresa da questo imprevedibile progres-  so è costretta a difendersi restaurando il Papato  e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi  esiliato, e resuscitando le forze indigene delle  sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei si-  gnori aveva addormentato. Il meccanismo politico  cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che tra-  smetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre  nuove forme politiche per mezzo dei poteri euro-  pei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror  pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del  Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso al-  litalia (1494-1512). Succede un altro passo indie-  tro quando l'Italia è costretta a mettere il Papa e  l'Imperatore sotto la Spagna (1512-1530) per difen-  dersi dall'insurrezione germanica e federale di Lu-  tero contro le sue rivoluzioni, contro la sua ci-  viltà passata attaccata nel Papa ; che rappresenta-  va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema-  zia mondiale e che era pure uno dei due membri  della federazione europea da essa creata (Riv.  d'ItaUa — Voi. III, pag. 381) r   (i) Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia - Voi. I., pag.  297: Finiva V età del primato (qualunque fosse) d* Italia; ioco-  minciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia,  poi Inghilterra.     ~ 132 —   L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due  patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la  sua espansione; le regioni che avevano respinto il  giogo della centralizzazione dell'antica Roma si le-  vano con nuovi Arminii, per respingere con le for-  ze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era  sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i po-  poli la cui antica barbarie aveva imposto le sue fe-  derazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove fe-  derazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di  Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del-  l'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0-  gni individuo, diventato libero nel fòro intemo del-  la propria coscienza, formulava cento gravami contro  la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni  d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque con-  tro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia  aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ; con-  tro il prestigio magico che essi avevano messo ne-  gli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e del-  le reliquie a confusione dei barbari; contro la san-  tificazione dell'antica capitale con una gerarchia mi-  steriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e  contro la superstizione incendiaria che aveva dato al-  l'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di  sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re.  Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Car-  lo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la  donazione che faceva della Chiesa una potenza poli-  tica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al  di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra  di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il  culto col fascino dei canti, delle pitture, delle scul-  ture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga-  torio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'in-  ferno, per far luogo agli incanti delle preghiere cle-  ricali; né in una parola il pontefice che arrivava al-  l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi     — «33 —   della giustizia divina e proconsole di tutti i procon-  soli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione  luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori :  e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei  preti e tutte le riforme che fornivano armi  spirituali temporali ali* unità pontifìcia; dell* e>  ra dei consoli gli ordini mendicanti, le feste impo-  nenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnan-  te e rimplacabile inquisizione; delfera delle due  sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis,  le dotte puerilità che profanavano Dìo trasformando-  lo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo  dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, ma-  teriale, e abbandonato al despotismo della frase ai  periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti al-  rinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi  fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti  i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le  assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far  denaro con una religione già materiale, e per molti-  plicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli  di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più  ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano  contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi  dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale  denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore  funzionario e papista come un nemico del genere u-  mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni  uomo diventato il proprio pontefice, la religione in-  catenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'an-  damento divino ridotto alla stessa legalità di questo  documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu-  zioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una  epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma ma-  ledetta come un sacrilegio commesso contro la li-  bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più  violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri-  spettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'ave-     — 134 --   vano protetta — Lutero la fulminava; e se prima di  lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si  attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi  e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magni-  ficenza.   Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Impe-  ratore che rappresentano le loro rivoluzioni lega-  lizzate, e questi si mettono sotto la protezione del-  la Spagna per resistere al federalismo protestan-  te dei luterani; mentre i signori rinunziano alla  lega del 1484 che aveva congedato silenziosamen-  te il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova  per un'ultima volta il patto di Carlo Magno col-  la Chiesa. La restaurazione di Cario V non era  una reazione: delle rivoluzioni italiane rispetta-  va nitto il lavorio geografico e sociale, ben diffe-  rente dalle reazioni anteriori che pretendevano  farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata.  Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei  suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem-  po si burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar-  te e la scienza trasportano nel campo ideale la  rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette  l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem-  po deride ed ammira il Medio Evo, dove sono  ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della  politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve-  nerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non  meno rispettabile delle favole della Chiesa — e la  sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole ita-  liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia-  velli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo inse-     — 135 —   gnare le norme della politica rimane vuoto e a-  sirattOy mentre fonda la teorìa che determina le  leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni  possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido  senza importanza, ma la sua fama si estende len-  tamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto  di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'u-  manità si svincola dalle credenze soprannaturali  e si basa sul razionale.     XII.     La nuova era politica della Rivoluzione prote-  stante (1517-1648) propagata dalla Germania con-  siste in un movimento che estende la fraternità  umana oln*e assai la benedizione del Papa e la  memoria di Roma e, conservando la distinzione  dei due poteri che aveva inaugurato il regno del  pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive-  nuto papa di se stesso una volta in regola colle  leggi del suo stato. Essa si attua in forma oppo-  sta negli stati germanici e negli stati latini: nei  primi individuale legale federale distrugge il po-  tere di Roma confermando quello dei prìncipi;  nei secondi riforma le antiche dottrine della teo-  crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote-  stante la fraternità e la democrazia, le concentra-  zioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In  Italia produce il trìonfo degli stati ghibellini (Mi-  lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen-  ti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei  Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guel-     - 136 -   fi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La ri-  volizione rinnova la letteratura col Tasso, il poe-  ta della tenerezza che celebra la grande impresa  cattolica della prima crociata; fonda la musica; e  ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie  della fraternità in opposizione alla libertà prote-  stante (1517-1573).   La riforma appena vittoriosa è assalita da una  reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti,  protestante e federale nei paesi cattolici, essa non  fa che confermarla; sacrificando in Germania  Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati  ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vac-  chero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli  d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve-  nezia. La letteratura nazionale sta per soccombe-  re airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ra-  gion di stato liquida senza parere la religione e  spegne il senso morale cogli scritti di mille me-  diocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno  e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo  che afferma Punita della materia e la pluralità dei  mondi; Taltro il rappresentante più grande dei-  Tutopia politica dei popoli latini esagerante al-  Tinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, con-  tro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero  colla forza della libertà delle federazioni delle  leggi (1573-1648).   XIII.   Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al     — «37 —   1789 e che si potrebbe definire del Despotisma  illuminato è guidato dalla Francia; la quale in-  segna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza  religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazio-  ne del governo colla distruzione dell'indipenden-  za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder-  nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di  stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si at-  tua in senso inverso negli stati monarchici e ne-  gli stati federali colla centralizzazione o colla le-  galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo-  crazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im-  pero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della  Francia. I politici della ragion di stato sospendo-  no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal-  le loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu-  cono il secolo di Luigi XIV nella lingua univer-  sale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Eu-  ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) :   ... La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia  coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affret-  tano mai : gli eroi si precipitano al combattimento  colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po-  tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel-  iì, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i  cui accenti riempiono le più vaste sale, si danno le  pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibra-  zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per-  chè rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le  leggi delle verosimiglianze.   Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbia-  mo l'immancabile reazione (1714-1789) guidata     - 138 -   dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquista-  re alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni  stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo pro-  gresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto in  Francia dagli uomini della reggenza e dai filoso-  fi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Eu-  ropa le idee del despotismo illuminato, mentre la  Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria  prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Na-  poli diventa indipendente, il Piemonte si ricosti-  tuisce e si estende ; mentre le repubbliche riman-  gono indietro attardate dalla loro retrograda ari-  stocrazia. — La nazione rivela la sua grandezza  nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de-  spotismo illuminato mette a livello tutte le società  e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il  più tenero nemico degli dei, e con l'Alfieri il tra-  gico poeta della guerra che vuole tutte le idee  alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'Italia — Voi.  Ili, pag. 595) :   Deliziosamente illusa da queste cantilene rimate  [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i  teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sor-  presa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo  che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orche-  stra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza  rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena  squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle  figure astratte, impegnati in una azione unica stincata  rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquat-  tr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in  terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e  della virtù sacrificata — questi miserabili mezzi a     — 139 —   controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un  drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Ser-  se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa-  rabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati,  i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun  poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero  soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti,  con parole vuote di senso che si chiamano ancora in  oggi le parole — e la poesia lasciò per sempre le ri-  me effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì ri-  dicolmente languide e i cantanti castrati delle cappel-  le principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi-  brare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i  drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei.  Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, e-  gli inventava dei personaggi poetici per formarne dei  veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazio-  nale, che nella sua immobilità secolare non sapeva-  si ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo  spasimante il patito il cavalier servente ed anche il  signor marito si sentirono ridicoli, le civette si mor-  sero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dal-  le code impdverate si guardarono intomo, e i capi-  tani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuo-  co sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al  cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabi-  netti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il  lettore a casa sua — e i suoi spettri inattesi gli in-  timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi,  di pensare...   XIV.   L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso  quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu-  zione francese (1789-1858). Il suo principio con-  siste nella divulgazione dei misteri del despoti-     — I40 —   sir.o illuminato per modo che il razionalismo libe-  ro pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristi-  mzione del codice che uguaglia politicamente tut-  ti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghe-  se figlia dell'industria e del commercio. La rivo-  luzione francese ricorre alla forma repubblicana  antipatica alla nazione come a strumento di di-  struzione, finché Napoleone trasporta nella for-  ma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuo-  vo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le ar-  mi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi asso-  lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa-  nia dal despotismo della conquista napoleonica  necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna al-  la sua federazione quasi repubblicana, alle specu-  lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au-  stria ritorna alla patema democrazia e alla bu-  rocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra ave-  va già avuto nel suo territorio la esplosione che  creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri-  voluzione francese ; ma la Russia copia il progres-  so francese direttamente coli' assolutismo degli  Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere  Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro-  gresso ; e ad una prima tenue succede una secon-  da più radicale trasformazione all'unitaria, Anche  conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio  lento alla sua tradizionale federazione (1789-  1815).   Al solito la rivoluzione francese è assalita da  una reazione, che impone alla Francia la liber-  tà costituzionale della dinastia borbonica, e vice-     — 14» —   versa air Europa il despotismo; ma essa si avvi-  ticchia alle forme stesse della reazione per com-  batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia colla  repubblica che conduce al governo assoluto di Na-  poleone III, presso i suoi avversari col ristabili-  mento delle libertà costituzionali. In Italia abbia-  mo pure assolutismo al rovescio della Francia;  ma assolutismo che è costretto a diffondere il  contenuto della rivoluzione, a far riforme ammi-  nistrative, ad appellarsi alla moltitudine che ten-  ta di voltare contro i liberali. Però la nazione  volle scuotere questo odioso giogo dell'assoluti-  smo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'e-  splosione unitaria del Piemonte accettata per ri-  formare il Papa e l'Imperatore; finché la religio-  ne e la politica federalista si volsero contro Car-  lo Alberto, che trasformava la guerra di libertà -  in guerra di conquista interna non legittimata  nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villa-  franca a Novara si distrusse un regno immagina-  rio a profitto della federazione italiana. Ma il pro-  gresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle  riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Pa-  pato compromesso politicamente dalla doppia oc-  cupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi  cedono ai principi deir89 per il rumore confuso  delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dal-  la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e  i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli  uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nel-  la necessità di proporre una più vasta democrazia  per risalire al potere.     142   XV.     Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo  steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'au-  tore basterà a dare un'idea adeguata della impor-  tanza unica di quest'opera, in cui il Ferrarì di-  spiega netta la sua incomparabile grandezza di  storico. Per averne la misura paragonate la sua  storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali  in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno  dietro all'altro come una corona di nocciole, ma  anche coi libri di coloro che vanno per la maggio-  re fra i moderni : con la voluminosa storia poli-  tica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la sto-  ria del Villari, che passa per il migliore dei no-  stri storici viventi, in corso di pubblicazione a-  desso presso Hoepli (1).   Anche per una persona di quelle cosidette col-  te che frequentano le società di lettura e fondano  le università popolari la storia, secondo l'idea che  ne ha portato dal liceo, è come una fantasmago-  ria irragionevole, che sarebbe comica se non stil-  lasse il sangue di innumerevoli vittime. II capric-  cio la pazzia il caso sembrano movere questi in-  numerevoli fantocci di un dramma senza processo  e senza scioglimento; dove si vedono degli indi-  vidui che si scannano senza ragione, delle na-  zioni che si combattono senza sapere il perchè,  delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e so-  pratutto una incessante lotta intema dei popoli   {ì) Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L' Ita^  Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., 1910,     — 143 —   contro i governi che pare non proporsi mai uno  scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo mol-  ti manuali di storia sembrano scritti da gente che  la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più  elevati, più scientifici diciamo, mancano del me-  todo interpretativo in una maniera impressionan-  te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata  ai personaggi ufficiali per avere almeno una u-  nità apparente, è un seguito di biografie e di rac-  contini legati gli uni agli altri dalla meccanica  successione cronologica o da metafore vuote. A  quel modo che i letterati seguaci del cosi detto  metodo storico — che è per eccellenza il metodo  antistorico — credevano che la critica avesse e-  saurito il suo compito, una volta dimostrato che  la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella  tale occasione per quel tal personaggio; cosi mol-  ti storici credono ancora che il lavoro della sto-  ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più  o meno particolare è accaduto in quel dato mo-  do, se quella data istituzione politica era costitui-  ta così e non altrimenti. Ma come di fronte a  quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi-  tà di completare e integrare il loro lavoro da pu-  ri manuali della letteratura con la ricostruzione  con l'interpretazione col giudizio; cosi contro que-  sta specie di positivismo storico non sarà mai ab-  bastanza forte affermato che la storia non deve  limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li  deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in  una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle  apparenti fermate o alle parziali decadenze lo     — M4 —   sviluppo continuo e progressivo della civiltil u-  mana. Sta bene la ricerca del documento nuovo:  noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro  che è anzi la base necessaria su cui si deve svol-  gere il lavoro veramente storico, ma affermiamo  che il documento di per sé è inutile se non è u-  sato, che è muto se non vien fatto parlare, che  deve essere bruciato per rischiarare la storia; la  quale non è soltanto, la Dio grazia, scovamen-  to e pubblicazione della nota della lavandaia di  Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del  comune di Simifonti, ma è narrazione dello svi-  luppo civile dell'umanità. Non basta raccontare  un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al  di sotto della sua superficie squallida o brillante  per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i fat-  ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un prin-  cipio che è il loro motore e la loro spiegazione;  bisogna il succedersi dei diversi principi, dei di-  versi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una  legge di continuo sviluppo, di progresso continuo.   Or bene l'opera del Ferrari è un modello in-  comparabile di storia interpretativa, di storia cioè  vera.   Di più, il Ferrari è uno storico completo. La     (i) Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous Wri-  iififTi — Longmans, Green and Co.. London, 1906, pag. 139 :  Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti ,  nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi; e lo scritto-  re che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li nar-  ra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplice-  cernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li pe-  netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale che la mas-  sa deriva tutto il suo valore.     — 145 —   Storia vera è la narrazione e interpretazione di  tutta l'attività umana, quindi non semplicemente  della politica ma anche della artistica e della fi-  losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani-  festazioni. Lo storico completo deve dunque dimo-  strare come tutta l'attività umana di uno stesso pe-  riodo abbia unità di caratteri, come arte e filoso-  fia e politica siano tutte dominate da uno stesso  principio storico; questo, come abbiam visto, il  Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di  aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il  pensiero dal puro punto di vista filosofico.   Ma la sua dote migliore è quella di essere to-  talmente libero dai pregiudizi della morale miope  dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridur-  re la storia a qualche cosa come un dramma a  fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per perso-  naggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teo-  logali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi  signori, perpetuamente scandalizzati di fronte al-  la vitalità umana potente nei vizi come nelle vir-  tù, perpetuamente predicanti contro le orge di  Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese,  ridotti alla disperazione di dover ricercare a  forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro mo-  ralità di scomunicare il 90% della storia. (La  Chine, pag. 14) :   ... Non c'è niente di meno storico che Io scopo  morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i  quali trasformano la storia in una specie di catechi-  smo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti :   A. Ferrari — Giuseppa Ferrari. 10     — 146 —   ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele,  non si incarica di punire di ricompensare alcun e-  roe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri  dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vor-  rebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente,  là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sosti-  tuisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il  loro merito; che fosse in una parola edificante per  le madri di famiglia e per i bambini poppanti!   Che l'arte debba essere giudicata da! puro pun-  to di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è  finalmente cominciato a capire : pare che non si  sia invece capito ancora che, per intendere e  giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto  di vista superiore a quello della propria moralità  individuale e contingente.   La storia è un tessuto di azioni pratiche, che  io posso quindi giudicare sia dal punto di vista eco-  nomico che dal punto di vista morale ; posso cioè  determinare se l'azione di quel dato individuo fu  prodotta puramente da fini individuali, da Ani  universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene  che la moralità è formale, che è morale quello  che l'uomo crede e sente morale; devo quindi ri-  nunziare alla mia rivelazione morale — come di-  rebbe il Ferrari — per rimettermi nei panni del-  l'individuo che pretendo sottomettere al mio tri-  bunale; e non portare le idee del secolo XX nel  secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valen-  tino coi criteri con cui si giudica un onesto im-  piegato municipale padre di numerosa prole.   Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in     — 147 —   sodo se Gian Galeazzo Visconti tradì lo zio Bar-  nabò per pura libidine di regno o per beneflcare i  suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della  tirannia a nome di una più completa imparzialità ;  anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fa-  zione sia determinata dal solo interesse individua-  le, lo storico vero deve saperci discernere il bene,  quel bene che l'individuo non cerca e non cura  ma che il destino gli impone di compiere, e che  solo permette alla sua azione di essere e le dà un  senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che  la storia è il trionfo della moralità, che non è  quella degli storici pudibondi; della moralità che  non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta  contro il vizio; della moralità che si vale per i  suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di  tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino  ad essere sempre e dovunque angelo e bruto.   E veniamo ora a giudicare il valore della inter-  pretazione concreta.   XVI.   Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor-  tante storia d'Italia era il Sommario di C. Bal-  bo (1), il quale in fondo non è molto superiore  ad un manuale scolastico, come del resto ricono-  sceva l'autore stesso:   Finché non avremo un grande e vero corpo dì sto-  ria nazionale, da cui si faccia poi con più facilità   (i) Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n,     — 148 —   ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar  per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k>  non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore,  ma tal mi pare possa esser questo (1)   e dove lo sguardo dello storico è velato dal pre-  giudizio deirindipendenza. Con le Révolutions  d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non  ha altro serio punto di contatto che l'identità del  titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va-  ga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia  spiega l'Europa — la sua lotta è per la libertà  non per l'indipendenza — Venezia è estranea al-  la vera Italia) si tratta di osservazioni ormai co-  muni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari  stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848  (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il  Ferrari stesso mette in luce nella prefazione al-  l'opera sua la deficenza interpretativa, per cui al-  cuni volevano spiegare l'Italia col principio del-  l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello del-  la Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri-  durla sotto la forma politica dei principati (Guic-  ciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Si-  gjmondi).   Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo  vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato  da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia  e forza di rappresentazione la storia d'Italia?   (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, — Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 6.   (2) Paris, Dagnerre, 1857.   (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina (1765).   (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88.     — 149 —   Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fat-  ta del ststema politico italiano impiantato sulla  gran repubblica papato-imperiale che ha fatto del-  l' Italia una nazione senza confini, perchè possa  diventare U centro d'Europa che irraggia le sue  continuamente nuove creazioni politiche a tutti  gli stati? Solo questa idea può dominare e spie-  gare coU'unità d'una legge la esuberante varietà  delle forme politiche che prende lo spirito italia-  no, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e  dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concet-  to che gli Italiani lottano non per l'indipenden-  za che sottragga la nazione al patto papaie-im-  periale, ma per la libertà e per il progresso so-  ciale, non per distruggere ma per riformare la  repubblica dualizzata che è la loro franchigia ; di-  ventano intelligibili le innumerevoli battaglie che  ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non  contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la  sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al-  la nazione la gloria di essere il centro politico di  tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi  Ghibellini per conquistare il lustro vano di una  gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma  per riformare il Papa e l'Imperatore e costrin-  gerli ad ammettere grado a grado nel loro patto  il progresso sociale delle nuove forme politiche  create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^  polo italiano è il gran protagonista che adopera i  Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti  che devono recitare sulla scena mobile ddla sto-     — I50 —   ria; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta  tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi  come strumenti per conquistare una sempre più  larga democrazia. Tutta la gran guerra delle ri-  voluzioni italiane si riduce, come per Vico la guer-  ra intema della repubblica romana, a un con-  trasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che  diventa anche contrasto di razza perchè il po-  polo è italico e romano, l'aristocrazia è formata  dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli  invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra  contro il regno barbaro estemo dei Goti e Lon-  gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be-  rengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi  contro i conti sono nello stesso tempo lotte di  classe e di razza; da una parte il popolo romano,  dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i bar-  bari hanno piantato piò profonde radici nelle cit-  tà militari da essi colonizzate; la lotta fra le città  romane e le militari si classifica pure sotto que-  sta doppia antitesi; come la lotta ddle città con-  tro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini,  dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man  mano che si procede nella fusione barbarica, la  lotta attenua il suo carattere di razza per accen-  tuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1  castelli i feudatari combtttoti daDe città altari  barbare di tendenza si romanizzano facendo ami-  cizia colle città romane; cosicché nell'era seguen-  te noi vediamo la lotta incrociata in modo che  nelle città romane i Cittadini sono romani e i Con-  cittadini barbari, mentre nelle città militari è vice-     — 151 —   versa ; e nel periodo ancora successivo il popolo è  guelfo nelle città romane e ghibellino nelle milita-  ri. E siccome la vittoria è data all'elemento roma-  no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve-  diamo trionfare le grandi città dell'industria e del  commercio; e il progresso della democrazia va  di pari passo col risorgere dei grandi focolari del-  la civiltà romana; finché colla costituzione della  lega federale del 1484 il processo indigeno è com-  piuto e i nuovi progressi della democrazia vengo-  no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dal-  l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini.  Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza  i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi  nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si-  stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale  ma democratica per riformarlo non per distrug-  gerlo, rimangono sempre le due idee che ci dan-  no la chiave della storia nostra.   Ma non meno giusta è l'interpretazione che il  Ferrari ci dà dei particolari periodi storici. Alcu-  ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi  e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu-  ra scoperti; ma anche quegli altri che erano già  conoscenza acquisita di qual luce non vengono da  lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni  che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo  e di sottomettere la nostra storia a un principio  straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu  sempre combattuto dall'espansione originaria no-  stra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che  va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompo-     — 152 —   Sto nei due perìodi della lotta contro il regno bar-  baro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha  saputo spiegare la gran catastrofe dell* Impero ro-  mano, che percuote di spavento come un mira-  colo — dimostrando che fu rovesciato dai popo-  li irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piut-  tosto una invasione stabile che il continuamente  rìnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate  dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lot-  ta delle investiture, condotta non dal Papa e  dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si gio-  vavano dell'uno contro l'altro per modificarli a  vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat-  to di Carlo Magno la gran rivoluzione della li-  bera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha  saputo ritrovare il filo del progresso logico in mez-  zo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi-  litare ; chi ha meglio di lui definito il periodo del-  la decadenza dei signori come restaurazione pa-  paie-imperiale non conquista, perchè liberamente  invocata e accettata dai popoli che non si difendo-  dono nemmeno con una battaglia? Nella storia  moderna il Ferrari è un po' meno preciso e la  interpretazione in qualche punto è ancora sogget-  ta a completamento e a correzione — come egli  stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Fran-  cia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'ir-  radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe-  riodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aqui-  sgrana (1748).     — 153 —  XVII.   L'opera del Ferrari è in conclusione la messa  in valore degli Scrìptores rerum Italicarum del  Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che  anche oggi è comunemente considerato dalla gen-  te cosi detta di cultura, la quale giudica coU'oc-  chio velato dal pregiudizio classicistico del Rina-  scimento, come un periodo di decadenza di bar-  barie di traviamento mistico. I romantici special-  mente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel  loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendi-  care il Medio Evo, però più dal punto di vista del  sentimento che della ragione, finendo col consi-  derarlo come un territorio di sogno dove la fan-  tasia urtata dalle volgarità del presente potesse ri-  coverarsi, in mezzo allo splendore magico di una  società fantastica in cui un cavaliere poteva col  suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i  cattolici che lo celebrarono come la loro età dei-  Toro ; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età  in cui tutta la terra, popolata di gente che passa-  va come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era  sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva  imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa.  Questa è per es. la concezione di Gioberti che,  combinando col sentimento cattolico l'orgoglio na-  zionale, celebrò il Papato come la ragjone della  grandezza medievale d'Italia, dominante il mon-  do colla religione come una volta coll'armi (I).   (i) Del primato civile e moraU degli Italiani — Bniael-  Us, 1843.     — 154 —   Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e  appunto per la stessa ragione la folla delle perso-  ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco-  ra per loro come un enorme deserto di schiavitù  di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono  non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer-  to punto distrutte dal simoun delle signmie.   Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giu-  stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata  l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando  come anche nei secoli più bui il progresso sociale  continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non  sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato libe-  ramente le invasioni perchè gli portavano un pro-  gresso sociale, o lottato contro i conquistatori co-  sì terrìbilmente da distruggerli; come egli solo  protagonista oscuro e possente abbia creato e at-  terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug-  gere il regno o combattendoli per riformarli. Non  si tenti dunque di far passare per un popolo di  puri mistici questo che, anche nelle epoche più  teocratiche volto alla terra, si giovava della reli-  gione come di un'arma spirituale più terribile del-  le spade gotiche e delle aste longobarde, per raf-  frenare e dominare colla magia di tma supersti-  zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu-  lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio  dei Romani; che poi al tempo dei consoli, riget-  tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si vol-  tava con una energia meravigliosa alle opere del-  l'industria e del commercio e diventava il banchie-  re dei re dell'Europa ,ritenendo la religione co-     — 155 —   me una tradizione da cui gli artisti potessero e-  vocare un popolo di capolavori — che passò nove  secoli in mezzo alle passioni forse più forti della  vita, quelle della politica, colla spada alla manp.  La decadenza poUtica comincia proprio nel perìo-  do del Rinascimento, quando la civiltà trasporta  altrove i suoi centri incendiari e V impulso vie-  ne dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non  c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero roma-  no, come non c'è all'avvento delle signorie sopra  il comune: il gran processo sociale della demo-  crazia aliargantesi continua, anche se non origi-  nario proviene dall'Europa più avanti ormai nel-  la scala storica ; questo progresso sociale della de-  mocrazia si traduce in un continuo aumento di  potenza dei centri romani, delle città industriali e  commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden-  za, non si può quindi accettare l'interpretazione  del Rinascimento come di un movimento che pren-  da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la con-  tinuità ideale; anche qui il Ferrari è confermato  dai resultati ultimi dell'investigazione particolare  dei nostri storici:   Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo  siano profondamente penetrate e ramiflcate nel ter-  reno dell'Italia comunale; come esso sia intimamen-  te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata  dal blocco di marmo. (1)     (i) G. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, —  Bari, Laterza, 1905. Pag. 74.     — 156 —  XVIII.   Ma il Ferrari non è solo un interpretatore ih  nico, è anche un artista di primissimo ordine, che  il buon Cantoni non si peritava di paragonare per  la sua potenza drammatica di rappresentazione a  Shakespeare :   D*uno sguardo psicologico acuto e profondo, d'u-  na mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore  agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò  le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici,  e avrebbe potuto forse divenire il più grande dei no-  stri se un*altra tendenza più forte non lo avesse  spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in  lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su-  premi ed etemi che regolano la vita degli individui  e delle nazioni (!)   Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a  dare una idea della forza artistica con cui sa ca-  ratterizzare uomini e cose, descrivere città, rap-  presentare movimenti politici. Un periodo ampio;  una vivezza calda e mossa di rappresentazione;  un sottile humour tenue come il sorriso d*un uo-  mo superiore che compatisce alle debolezze uma-  ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una  foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la  grandezza epica della storia in ogni minimo  fatto; la forza dell'immagini che, atteggian-  do come esseri viventi città e stati, vi si piantano  nel cervello senza abbandonarvi più; formano le     (:) G. Cantons: (/. Ferrar/, pag. 87.     — »57 —   doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche  nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immor-  tale. Con una fecondità versatilità profondità ve-  ramente shakespeariana egli ha saputo creare una  folla di personaggi e rappresentare una serie in-  numerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi,  perchè sa colpire nella sua caratteristica la real-  tà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua  forza drammatica leggete per esempio la narrazio-  ne della lotta di Milano contro il vescovo papista  Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 395) e  delle imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II,  pag. 278); per dare ancora un esempio della sua  vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di  Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) :   Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il  mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti non  possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza  ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che  riuniscono tutti gli estremi della miseria e della mu-  nificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inac-  cessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che  disegnano le linee della loro abbagliante architettura  sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni  lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che  vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cen-  ciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città on-  deggia dall'aristocrazia alla democrazia come una go-  letta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non  possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie  di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino  a insabbiare il potere del vescovo.   Superiore in questo al De Saiictis in cui il D'A-     - 158 -   nunzio poteva notare tante manchevolezze artisti-  che e stilistiche da presagire a torto la sua dimen-  ticanza, il Ferrari — anche dovesse la sua inter-  pretazione essere dimostrata falsa da una critica  superiore — rimarrebbe ancora immortale in que-  sto capolavoro, che continuerebbe ad essere let-  to come uno dei più bei romanzi storici d* Italia.   XIX.   Eppure con tanto valore artistico e storico que-  sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima e-  dizione francese fatta per T Europa, né nella se-  conda edizione italiana. Quello che è il suo pre-  gio caratteristico fu appunto la causa del suo in-  successo*, la concezione filosofica cosi profonda  che era a base del suo lavoro di interpretazione  rese quest'opera inintelligibile in un periodo di  barbarie, in cui il positivismo dominante ottun-  deva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di  giudizio Io fece trascurare da quegli uomini an-  cor tutti accesi delle passioni politiche dal cui coz-  zo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la  recensione larghissima di G. Rosa alla edizione  del 58; essa univa a qualcuna delle solite imman-  cabili osservazioni di dettaglio la critica di uno  che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della  nazionalità e del liberalismo astratto, pare spa-  ventato che si possa refutare l'apologia dei Lon-  gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; seb-  bene abbia una certa confusa sensazione che in  ciò consiste la grandezza del Ferrari :     — 159 —   Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle  idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente  noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se  non possiamo accettare tutte le di lui argomentazio-  ni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno al-  la prova della scienza storica progrediente; egli avrà  prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e-  ducato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche,  dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e sco-  lastici. Per lui i giovani apprenderanno a contem-  plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quel-  la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas-  sioni, dove il male parziale appare coordinato a più  vasto bene (1).     Gli accade in piccolo e in breve come a quel  Vico ch'egli venerava col nome di maestro: trop-  po alto per il suo tempo non venne compreso.  Anche coloro fra i moderni che citano questa sua  opera, come per es. il Romano (2) o il Gianani  (3), paiono non comprenderne affatto la terribile  profondità il metodo l'interpretazione — e somi-  gliano un po' a fanciulli che giochino colla cla-  va di Ercole. Solo uno straniero, che amò e stu-  diò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella  Renaissance in Italy non meno importante del piiji  noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione  dell'importanza di questo libro. Infatti come nel-  la prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor-     (i) Archivio storico italiano, — Firenze, 1858. Nuova se-  rie, tomo 3, pag. III.   (2) Le Invasioni barbariche. — Milano, Vallardi.   (3) / Comuni, — Milano, Vallardi.     — i6o —   dava espressamente (1), nel cap. II {La storia ita-  liana) ne ripete con parole diverse e con qualche  ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee»  però da un punto di vista un pò* meno alto e non  del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu-  ne, e nel seguito del volume non ne tiene molto  conto.   Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne  sono diversi molto meritevoli per ricerche parti-  colari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Fer-  rari che rimane ancora unico solitario gigante, per  darci un'interpretazione completa della storia d'I-  talia.   O meglio ci fu uno che tentò sebbene con for-  ze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a u-  na folla di positivisti che abbassavano arte e sto-  ria alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani  ben comprese — e l'aveva appreso in gran par-  te dal Ferrari — come la storia sia interpretazio-  ne, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione se-  condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno  di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la  condotta poco delicata di quello verso quest'ulti-  mo, rammentato con citazioni che nascondono più  che rivelare la derivazione, non deve indurci a  negare il valore storico all'autore della Lotta pò-     (i) J. A. Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei  tiranni (vcrs. it,). — Torino, Roux e Viarciigo, 1900, pag. XX:  Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del  quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia  italiana scrìtto per la seconda edizione di questo volume,   (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi, 19 1 2  — Pag. 168.     — i6i —   litica. Esso fu il solo degno continuatore di Fer-  rari; continuatore in quanto non propriamente  storico del Medio Evo — i libri I e II della Lotta  politica come è stato dimostrato (1) non sono al-  tro se non un riassunto spesso colle stesse parole  dal suo gran predecessore — ma storico del Ri-  sorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto  sia runico che possa tentare la prova del parago-  ne, Oriani soccombe; come storico per l'inegua-  glianza deirinterpretazione ora indovinata ora su-  perficiale, come artista per la non rada enfatica  esagerazione romagnola inferiore alla potente pre-  cisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una  posizione sentimentale un po' meno adatta che  non quella del Ferrari. In questo il senso del su-  blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran-  dezza va accompagnato a una calma serena, a  una specie di fine bonario umorismo che sa tro-  vare l'uomo magari contro il suo volere benefi-  co anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha  della storia solo il senso tragico; brontola un po'  troppo; troppo spesso va in collera col passato;  non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei  suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia  che qualche volta egli vorrebbe correggere. Que-  sti difetti sono più sensibili nei due primi libri  per mancanza di quella conoscenza diretta che è  necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio,  ma anche qui c'è da notare un po' di semplici-  smo e astrattismo, più nelle forme che nel con-     ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella  Voce, 1908, Num. 17, 18, 19.   A. Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11     — 102 ^   cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco  delta rivoluzione del 48 la sua forma federale,  mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'e-  quivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi.  Ragionando a questa maniera vedrebbe più giu-  sto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto.  Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani  storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte- ^  se (2), spetta di diritto al Ferrari, di cui sono tre  fra le immagini che quello cita per dare un esem-  pio della forza rappresentativa del suo autore  (Venezia — I Condottieri — Silvio Pellico).   Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa  l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva,  perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vi-  ta né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma  come una filosofia è viva finché non è sorpassata  e inverata, così una storia. Orbene — prima di  buttare il libro del Ferrari fra le anticaglie — bi-  sogna averlo sorpassato, e finora nessuno non so-  lo non Tha superato ma non si è nemmeno solle-  vato al suo livello. Noi consigliamo quindi a stu-  diarlo: primo per imparare il metodo di Inter*  pretare la storia ; secondo per meditare la sua in-  terpretazione concreta, anche oggi tanto vera che  1 moderni studi particolari la confermano invece  di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta  l'Europa il Ferrari merita un posto a parte su*  periore ai più famosi : al Macaulay al Mommsen  al Taine, per la stessa ragione che rende il De   (ì) La Critica^ genn. i<)og.   (2) La vita e il libro. Parte I. — Torino, Bocca* 1911.     - 163 —   Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^  per il senso filosofico che gli diresse la potenza  interpretativa a risultati così grandi. Per racchiu-  dere in una frase il resultato di queste mie osser-  vazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia poli-  tica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esi-  tiamo a considerarlo come il più gran rappresen-  tante della storiografia romantica (1), sorpassato  nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor  degno come storico concreto di essere il gran  maestro della nostra generazione. Grice: “I use revolution occasionally – minor ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used ‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more than the collocation ‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did ‘American revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Domenico Romagnosi. L’uso del termine ‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione, la rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a revolution.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762131860/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrari – l’anarchici di Mussolini -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arcola). Filosofo. Grice: “I like Ferrari; he was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at Oxford!” --  Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore  «Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.»  Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza di volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo portò a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire.  Non rinunciò comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività meditativa.  Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il resto è fango!”  (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte tra il 15 e il 16 maggio: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Abele Ferrari.  Contrario alla guerra, nel 1915 venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia.  “E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, fu protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa.  L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo del 1931 costui avrebbe accusato il defunto Novatore.  Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Abele Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva con sé una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di Giovanni Governato.  Si define anarchico individualista. Lotta per la libertà e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo:  «Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano.»  «Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare.»  Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista).  «L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità. L'individualismo ha per fine sé stesso.»  (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo d'individuazione.»  «Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me stesso come meta suprema.»  Rimaneva salda nel suo pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un demonio.  Su di lui restò sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche.  Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico.  Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al già citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi).  Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco".  Libri ed opuscoli  Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde  Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti, citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Wikipedia Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito come la filosofia politicaapplicata[1] o il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario e dannoso[2][3][4][5][6][7] o in alternativa come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane.[8][9][10][11][12][13]   La A cerchiata, il più celebre simbolo anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni volontarie[14][15] e non gerarchiche.[8][16][17] Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva.  Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo.[7] Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili.[18][19][20]  L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario,[21] che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi.[22] La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo)[23][24] mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica.[25]  Noam Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala libertaria del socialismo".[26]  PremessaModifica Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero.[27] Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese come The Ego and Its Own nel 1907[28] e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche)[29][30] e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca.  Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte.  In realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario.  Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione.  Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato.  A questa visione è contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri (principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia.  EtimologiaModifica I termini anarchia e anarchismo derivano dal grecoαναρχία, ovvero senza archè (principio regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.  Origini dell'anarchismoModifica Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.  Specificità della dottrina anarchicaModifica L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile.  In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di tutti.  Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – ha scritto Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".  Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile.  Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione (…) L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia".  Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della società.  Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività umana.  Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato.  Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della società.  Così definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale.  Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice).  Azione anarchica                           Modifica Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito.  Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Nel 1872, il Congresso Internazionale di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.  L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere.  I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori.  Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale.  Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:  cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente.  L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune.  Dottrine di carattere libero-mercatista              Modifica Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro.  «Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto»  (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo.  Anarchismo di ieri e di oggi             Modifica Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.  L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di aderenti.  L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri Paesi.  Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.  In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti.  La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo.  All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica(FAI) e la Federazione Iberica delle Gioventù Libertarie(FIJL).  Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre più le correnti anarchiche.  Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo.  Oggi il movimento anarchico è ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà.  Note                          Modifica ^ L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità, variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanità Nova, Roma, 1922 ^ ( EN ) Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 16 maggio 2007). ^ ( EN ) Anarchism, su Encyclopædia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. «Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both possible and desirable.» ^ ( EN )  Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, ISBN 0-7546-6196-2. ^ ( EN )  R. Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, 2000, p. 24, ISBN 0-631-20561-6. ^ a b ( EN ) Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità, sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel seguente modo: «They found that they must turn either to the right or to the left, — follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who accept her only so far as they think she will subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 3 maggio 2012). ^ Colin Ward, Anarchism as a Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the League's central committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State» ^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. 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Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 18 marzo 2012). ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g., illegitimate) authority, in other words, hierarchy — hierarchy being the institutionalisation of authority within a society». B.1 Why are anarchists against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 15 giugno 2012). ^ Geoffrey Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier Dover Publications, 2002, p. 5, ISBN 0-486-41955-X. ^ R. B. 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Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito nel 1911 completo per i tipi della Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, PM Press, 2010 ISBN 1-60486-064-2 ^ Benjamin Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org. ^ Brown. Susan Love. 1997. The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The Free Market in Western Culture. p. 107. Berg Publishers. Voci correlate                                   Modifica Anarchia Economia anarchica Anarcopunk Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo (economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio 2000 Blackout Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici Umanità Nova A/Rivista Anarchica Altri progetti           Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo completo di alcuni canti sull'anarchismo Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «anarchismo» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su anarchismo Collegamenti esterni                                                         Modifica anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. 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Tra  questi, Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo  Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo  delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle  esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo  integrale e di “sinistra” del repubblicano Malusardi al  revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca), la  loro azione all'interno del fascismo fu caratterizzata da  uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla  comune formazione anarcoindividualista: una residua  eredità “libertaria” inevitabilmente destinata ad  esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della   “rivoluzione” fascista.   Questo libro ne ripercorre la. "comlilisa Niiindi  politica, dall'anarchismo al fascismo, ‘attraverso i  decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra,  sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più  drammatici della storia d'Italia.                     Mita              Alessandro Luparini è nato a Firenze nel 1967. Si è laureato in  Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri”...  dell'Università di Firenze ed ha conseguito il Dottorato di  Ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Politica  dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività O  didattica e di ricerca. di Lineta               ISBN 88-86873-98-0    © Copyright 2001 by M.I.R. EDIZIONI    Tutti i diritti riservati - Vietata la riproduzione anche parziale di qualsiasi  parte del testo senza autorizzazione.   M.ILR. EDIZIONI - Via Montelupo, 147 — 50025 Montespertoli (Fi) Italy  Tel. 0571 671106 - Fax 0571 675835 — e-mail: info@miredizioni.it    mirediz@logo.it — http://www.miredizioni.it    Finito di stampare dalla Litotipografia SAMBO s.n.c.  nel mese di Dicembre 2001    e    Alessandro Luparini    ANARCHICI DI MUSSOLINI  Dalla sinistra al fascismo, tra  rivoluzione e revisionismo    M.I.R.    EDIZIONI              INTRODUZIONE    Quanto a quello che succederà domani, caro Berneri,  non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per il  passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi  sinora, che si possono muovere rimproveri in anticipo  o intentare processi alle intenzioni. Plechanov, teorico  bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico, si  pronunciarono in Russia per la guerra nel 1914;  altrettanto fecero il socialista Mussolini e gli anarchici  e sindacalisti Rocca e Corridoni in Italia [...]. E”  consigliabile dunque che nelle discussioni relative al  domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso  coefficiente di male e di bene, di deviazioni possibili e  di fedeltà irriducibili. Gli uomini passano, le idee e  anche i movimenti restano. (Carlo Rosselli,  Discussione sul federalismo e l’autonomia, «Giustizia  e Libertà», 27 dicembre 1935)    Così, in una garbata polemica a distanza con l’anarchico Camillo Berneri  (che aveva avanzato dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e  Libertà), Carlo Rosselli poneva l’accento su un principio spesso ignorato:  l’inopportunità in politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende  umane in generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche  sul futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno  consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo di  matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio di  variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro storico  del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per l’appunto,  una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità incomprensibile,  prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento collocabili nella famiglia    anarchica, ma un evento - sia pur anomalo e, al cospetto dell’ortodossia  libertaria, scabroso - riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente  di diritto alla sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista,  la “conversione” di Benito Mussolini nell’ottobre del 1914, tenuto conto  dell’anima volontaristica e sostanzialmente antidogmatica, non solo del  socialismo mussoliniano, ma anche di larga parte del socialismo italiano tout  court, non costituì poi una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso,  una certa sua coerenza.   Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”, l’anarcointerventismo è  stato a lungo trascurato, quando non del tutto rimosso, in sede d’indagine  storica, e solo in anni recenti un ottimo studio di Maurizio Antonioli ha  restituito visibilità e, per così dire, dignità storiografica, ad un fenomeno che,  se non fu certo tale da smuovere grandi masse (ma tutto l’interventismo  rivoluzionario fu, a conti fatti, espressione di una minoranza), ebbe tuttavia,  oltre che una sua specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla  vicenda interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,  quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente anarcointerventista  (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto schieramento  dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo momento, provare  a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in relazione all’avvento e  all’ascesa del fascismo. Molti anarchici interventisti, infatti, confluirono nei  Fasci di combattimento fondati da Mussolini (altro motivo per cui  l’anarcointerventismo è stato il più delle volte espunto dai trattati di storia  dell’anarchismo), e alcuni di loro, come Massimo Rocca, Edoardo Malusardi  e Mario Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che marginale. Questi tre nomi,  pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo) negli studi sul fascismo iniziale,  restano tuttavia, a. nostro avviso, ancora avvolti in una coltre  d’indeterminatezza. In queste pagine si cercherà pertanto di ripercorrere la  complessa vicenda postbellica di Rocca, Gioda e Malusardi —  dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del delitto Matteotti -, senza mai  perdere di vista i loro trascorsi anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un  altrettanto forte senso d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse  almeno in parte alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per  condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione al  fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso che il  caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo, Leandro  Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non potesse  a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo volume. In altri  termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun peso reale nel  movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia pur in qualche    maniera caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo e  grazie al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al  culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel caso di  Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi  portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe  potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali  esperienze dell’interventismo e della trincea. .   In definitiva, quindi, un’opera su più livelli, che — così almeno speriamo -  dovrebbe consentire di far luce su una componente poco conosciuta  dell’interventismo rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di  uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia d’Italia.          INTERVENTISMO    Eretici tra gli eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di  coscienza    Pe    Lo scoppio della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in  un momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già  all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici della  penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le spinte  centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con le masse  (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista e la nascita  dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio  di manovra degli anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione  internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze, che  doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e il  successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra  dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine  all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei  rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana rossa  avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione con le forze  più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la  guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.   Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da «L’Iniziativa», organo  nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la  necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”.  Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta       ! Su questi punti v. soprattutto MAURIZIO ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano nel  1914, in «Storia e Politica», 1976, n. 2, pp. 235-254. Sulle vicende dell’anarchismo italiano  nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla  settimana rossa. Per una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, 1977, p. 142 ss.   2 Cfr. MARIO GIODA, La necessità della repubblica. Io difendo il blocco rosso, «L’Iniziativa»,  1 agosto 1914.   3 Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi  ACS, CPC], Busta 2416 [Gioda Mario].    11       con la passione per le belle lettere e le scienze filosofiche (un «pensatore...  proletario», come sarebbe stato efficacemente definito molti anni dopo) ‘,  poco incline, in verità, all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima  della guerra aveva scritto per numerose riviste, non solo di orientamento  libertario, cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica  letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di  temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena  polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile ad  alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente aperto  anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo strettamente  politico, una spiccata e mai celata propensione al repubblicanesimo. In ogni  caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa ammissione - un “quasi  repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione dovesse prima di  tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”, è altrettanto vero che, specie dopo       4 Così scriveva Domenico Ferrara nel 1923, introducendo la prefazione di Gioda — allora  segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino Quattro anni di  passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e di vignette dai giornali satirici fascisti  «Il Pettine» e «Il Sonaglio».  * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi versi sentimentali una sensibilità  quasi crepuscolare. Ancora in età matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava  l’ambizione di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue  rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, a cura  del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino, Stabilimento grafico Impronta, 1938.  ° Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra  i quali il vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di  Bezzi a Gioda si trovano in ERGISTO BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere agli  amici (1903-1920), Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963.  Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli articoli  Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista  repubblicana torinese «La Ragione della domenica», il 30 luglio e il 6 agosto 1911. Nel primo  di essi, scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il «conformismo  monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la sorte del re, e  aveva affermato l'imperativo morale, per i «rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere  «settariamente repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria  fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere la  repubblica — la repubblica sociale — un passaggio necessario sulla via della rivoluzione, il solo  mezzo per giungere a trasformazioni più radicali e definitive, «senza il pericolo di sfasciare la  rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le opinioni  espresse dall’anarchico torinese su «La Ragione della domenica» avevano incontrato la  disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Mario  Poledrelli aveva definito «tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una  «balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano (MARIO POLEDRELLI,  In ritardo? Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno dopo    Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e  dello “scomunicato” Mario Gioda.    12    la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA  con favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .  apprezzavano e condividevano  l’intransigentismo Lila emi  diffusione, il. 15 agosto 1914, dell’appello della DE pel 3  repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi i ppi far  quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de Lira sog  riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg n  fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero segu sa  conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa + i  decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di larg;    _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell’intervento (tanto    Te i ; ; li È  che Renzo De Felice faceva risalire proprio al discorso di De Ambris la -  d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà  non meno traumatici, fino alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.       isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e  * Il manifesto, redatto da Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb  ripreso nei giorni seguenti da tutta la stampa repubblicana. irc: a on si a  anarchici a questo riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa %  i Volontà», 29 agosto , nel q r i  repubblicano e la guerra (« 3 Z reti cc A  icani di i lla causa della rivoluzione, per egli  repubblicani di aver abdicato al : izione rp  iti bbri replicò il repubblic: i  sperava definitivamente tramontate. A Fal i ibblicano © Me  Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli anarchici di siente si Lac i  politica (cfr. Anarchici e socialisti, «Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi  inelli i i più ivi trema sinistr: , que  @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £  peri ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san  5 ) . . . . .  i i i i i i giorni gli ambienti sovversivi. a  del clima di forte tensione agitante in quei gi i : cine par  iù n quanto inattesa, ripropi a  ‘odotta dalla guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i  divisioni del srt che la comune battaglia sa coord pa via utili panta  ui is, segretario della Camera  agosto Alceste De Ambris, segi della ( T n  an Sirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe  ema “I sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn  della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA  dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A  i Cat io alla tesi interventista di De E :  Carrara, nettamente contrario al i A  Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re  i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti,  ”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne)  Em " Coni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Edmondo Rossoni) pe prio Di  pia de «L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n  opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di  i i ioni si li repubblicane. , rimas  seguito anche le organizzazioni sindacali ì : i  ufficiale prese a pubblicare «La Guerra di com a sta o se Di > rd  ? i is è ri to in « i; k  conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | .  n sn commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So  dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, «L’Inizia ;    agosto 1914.    13       Li H x )  rs sian Belgio € n Francia ad opera dei tedeschi determinò la  1 posizione a favore dell’Intes i i  Sr a da parte di alcuni degli ini  più rappresentativi dell’anarchi “qualiv iS  chismo, non ‘solo fi i i Pi  Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr  Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il  rio “colonnello” della Com ichi o)  e 1 une. Le loro dich ioni  Poni a Cc € ichiarazioni, che  a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso  di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e mezzo,  ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei  » suscitarono polemiche e divisioni i  dici” ni anche tra gli anarchici italiani  primo intervento eterodosso di ico i dia  i 1 segno anarchico in materia di i  neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i  io di Mario Gioda. Ad ui i i  ì fu o c i na settimana dal  on \ suo articolo  BIO Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale periodico  go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e devastante  He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione austriaca  , anche gli anarchici impu i i i  } >, pugnassero le armi per difendere il  È ici i il suolo  azionale ‘. «La Folla», la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo    Sì »8  assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di precisare    In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti — è  ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi  Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i  ILL pposizione socialista e democratica ne’paesi  I social esi dell  FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia       S  : Ag its do UGO FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in®  Rec ana ngi ni Vac i due volumi di RENZO DE FELICE Mussolini il  nario, , Einaudi, , p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i  rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si  , per il valore della testimonianza, ARM o di  (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [ANDO BORGHI, Mezzo secolo di anarchia  dat Psa reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di  sti (cfr. Gli anarchici intelligenti son  “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate  j ale», 25 marzo 1915), fu i  da parte del movimento anarchico itali i i GATE ROMEA  taliano (si veda, in particol: ’arti i  nba } _In particolare, l’articolo di ERRICO  ; governo, «Le Réveil communiste- i i  N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915  si n arts rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14.  9 re di Valera, aveva contribuito alla ri; ita di e  1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai  12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I  torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat  rese). mentali, per pporto tra l’anziano scrittore e agitato! iali  Porlinia gli articoli di quest’ultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai  Fa = inni i ll o 1911. Su questo punto v. altresì Miano  i LI, rchici italiani e la prima guerra mondial 1 ici  interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1995, TCA ig    14    di difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità  di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],  reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità"    Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di    posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza fra  l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella Giacomelli,  una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì ben presto  anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda,  recandovi nuove e più profonde inquietudini".   In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del    compagno.          !* MARIO GIODA, Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9 agosto 1914   U Sul numero di «Volontà» dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin  (pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a  .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che  lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva  paragonato il dubbioso direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé, l’araldo  dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nell’esercito francese subito dopo la  dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera  nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza di  «Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non  aveva esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in  un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da  Mario Gioda a Oberdan Gigli, «Volontà», 22 agosto 1914), molto critico nei riguardi di  Gioda e degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una lettera  dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo, affermava però il dovere degli  anarchici, proprio in quanto tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata dalla  Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi  avvenimenti v. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.  Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1994, n.1, pp.7-33.   !5 Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era  formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere  mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo dell’intellettuale che  dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti  anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo.  Nel 1902 la Prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: «Individualista,  professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca influenza sui  correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell  instancabile nella propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale  propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta 2407    [Gigli Oberdan].    15          I problemi dello spirito — affermava — sono tramontati per ora:  forza e della razza e della nazionalità ritornano a predominare coi  ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione. L’internazion  spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'°    i problemi della  n raccapricciante  alismo operaio è    Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro «comune  anima umana», non escludendo l’opportunità di combattere gli invasori  austriaci (quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non governative»),  il giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!” i  Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li Il  concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il crohn  della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai rt   le questioni della libertà e dell’indipendenza nazionali. son    L’anarchismo — sosteneva l’autore — non rinnega, ma supera il concetto di patria:  rinnega però il patriottismo, che è concezione perfettamente borghese e sibi la  rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali [...]. Ma l’anarchismo curdo  me, è una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon  presupporre una società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia  ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi  essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente clara    verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere  libert: fr: I bi è Ilo dell  pi Il lità, da risol    A Tar n 1   Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non solo   cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto  . TEC . . Z   il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì determinato un       ' «Volontà», 22 agosto 1914.    un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme  que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!!  dr parole di Gigli la redazione di «Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi  esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una  de i aperto disappunto. «A noi pare — vi si leggeva — che la situazione di quelli che, come  io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico [...] sia la medesima di quegli  E rici che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei  cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso    esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo incoerente se si arriv:  i anarchici, e può ‘entare c  P qi Incoe; si ‘a    18 Ibidem, 5 settembre 1914    16       regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema «feudale e militaristico»  sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che ciò avvenisse  aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava combattere per la causa  anarchica e, allo stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento,  riportarlo a contatto con le masse, ravvivato «alla fiamma dell’umanità  dolorante»!?.   La condanna fatta seguire dalla redazione di «Volontà» alle parole di Gigli  hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il  giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Mario Gioda ed Oberdan  Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”,  segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario.   Maria Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una  delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un  sorprendente ‘articolo per «Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,  richiamandosi alle «tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva plaudito  alla fine della Triplice Alleanza, il «patto infame» già vincolante l’Italia agli  Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, «i  carnefici di Oberdan»?   La Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era  stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi  legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese (con  cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami comunemente  ritenuti la ragione principale della sua — invero repentina — conversione       !° Ivi.   20 |a stessa Nella Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li aveva definiti «i nostri migliori  uomini»; mentre Errico Malatesta, nella suà prima affermazione ufficiale contro la guerra  (l’articolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre  della rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari italiani), si  rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero dei «compagni che amiamo: €  rispettiamo profondamente».   ?! Maria Rygier, nata a Firenze nel 1885, aveva militato nelle fila del sindacalismo  rivoluzionario. Nel 1907, con Filippo Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista  «Rompete le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la  campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il  carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti sovversivi.  Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, //  movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), Vol. IV, Roma, Editori    Riuniti, 1975-1979, ad nomen.  22 Per una breve storia de «Il Libertario» v. GINO BIANCO, CLAUDIO COSTANTINI, Per la storia    dell'anarchismo. «Il Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in  «Movimento Operaio e Socialista in Liguria», 1960, n. 5, pp. 131-154.   2 MARIA RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, «Il Libertario», 13  ngosto 1914,    17    all’interventismo. «Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo  ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dell’intervento — ha scritto a  questo proposito uno storico dell’anarchismo — Maria Rygier trova la sua  strada proprio con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente  di Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà  assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’ Avanti!”»?,  A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno  dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della  Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto né più né meno  di «tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in  considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel  fascismo, non è difficile capire il perché, a posteriori, si sia finito  semplicemente per negare loro il diritto di cittadinanza nella storia  dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di là delle durissime e       2 Gino CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL,  1968, p. 34. È   Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu  uno dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti  pensare alla nota questione dei fondi de «Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel  che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione  italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la  questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era  sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele Nerucci,  si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato dagli avversari,  fin dal suo apparire, di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista  dell’«Avarti!», commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero  unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21 marzo 1915), rimproverò a Nerucci e  agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché  del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, «Avanti!»,  30 marzo 1915). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Raffaele (in realtà Raffaello)  Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa), nel 1876. A  Marsiglia, dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a  lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che l’ambasciata italiana  aveva definito «audace e pronto», ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che  egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Negli anni tra il 1906 e il 1910  Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario» e  de «L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento  marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per indegnità morale e politica». Condusse il  resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526  [Nerucci Raffaello].  ° PIER CARLO MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in  «Rivista Storica del Socialismo», 1959, n. 5, p. 210.    18    comprensibili polemiche del momento”, che hanno spesso sisi  anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta i campo c  Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell immaginario  simbolico dell’estrema sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe  riassorbito, cui può essere paragonato (ma solo in minima parte) quello a  fece seguito alla professione di fede interventista di un altro protagonis  delle battaglie antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn  Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il  mutato atteggiamento della Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e  stata sindacalista rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga  46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti  rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come  emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr  precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,  appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan  veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n  lei medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni  repubblicano, fino - come vedremo 2a n la confluenza di tutte le  [ *interventismo rivoluzionario ne È  i manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li  lettera di adesione alle tesi di Alceste De Ambris, che ella pn 20  agosto, all’indomani della discussa conferenza milanese del dirige       i i i i i in «Volontà» del 19  2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini  settembre 1914: «Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo  dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per morbosità di   i i; inti i spirito». NOILIA .  sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG  27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria   i i impatie anarchiche, eri  San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma  i imilitari È inistra (battaglia che egli stesso avi   battaglia antimilitarista dell’estrema sinis ‘negre   i ie di l carcere, regolarmente pubblicat   limentare con una lunga serie di lettere dal ere, ) d  ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa DRSAATE  campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no A vs ci de   i del sovversivismo; il che pu  era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E  i i vecchi compagni allorchè egli, al Ì »  della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E  i i ì tari garibaldini (a ti  dove finì per arruolarsi fra i voloni I  prese la via della Francia, i i $ I IN Arti  i *arti i l'i L’Avvenire Anarchico», 8 g 6   lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, « i  Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad  Oltre i Iniziati i ì ropria penna a  28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci  molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente «La Libertà» (Ravenna),    Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero» (Ancona).    19       sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto  yg spirat le ‘anife degli  anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3  gli di  ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma, le  manif riprende a, ordinandole in fi d prog!  8 Si 5) =  1 gia espresse nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1  tesi già espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120  sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno  ne del mese, era sottosi  ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1  noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I  1 ns d  t tal ; sinda alisti, socialisti  dissidenti e repubblicani , e non fu un caso ch Ve pressi In  e vedesse la luce essoché  contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista diramato dalla  e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi  Direzione del PSI d I anche in chiave anti  nu ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’.  el testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia libertaria,  SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici  e mazziniani («noi riteniamo che | Internazionalismo sarà possibile solo  q o nazioni saranno libere, P' iché là dove odio divide l’Irredento  uando le na: i, po là di l’odio divid I ‘eden  dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può trovare  ppi p! P' liti n ti  SO uzione»), romantiche visioni camicie rosse («la ri Li I, è per  mi isioni di camici («l  I neutralità. 088 P'  utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni  lett ‘gO. ional p legazione  tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la recisa neg  dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e sacrificio, che ci ha spinto  sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia») e roboanti  ! p  proclam di stampo roto-mussoliniano («I Inerzia è vigliaccheria e la    neutralità, che ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora  ) pop: , ti 1 I       29 ì n E, n  kia pon fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi Ed.Naz.], 12  4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia  t i i YG ia di  Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24 drain  questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli più di  cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr. ACS,  pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25  e firme apposte al manifesto erano i: e igli i  1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i  pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit  Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len  } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini  eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle  63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici  caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i  sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA  appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato    dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914 i  rivolazionario, ite pp, 250251, colato REbiz0 DE FELICE, Miasolini:1    20    L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la  “loro” Francia, la Francia «della libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in  verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane  Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il  momento per un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”.   In calce al manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di  Libero Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Mario Gioda,  di Oberdan Gigli, di Maria Rygier — e di altri che ne sarebbero seguiti —  destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse  per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica  cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione  alla guerra di Libia. Un giudizio di Camillo Berneri del 1924 (mentre  volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in  poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma  buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.  «Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato anarchico. Fu  individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere, è  però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico dell’anarchismo       V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v. MARIA RYGIER, Sulle soglie di  un'epoca, cit., pp. 27-29.   Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a stralci su «Il Resto del  Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della  guerra), su «Il Corriere della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento  del quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in  piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar  mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio  della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dell’individuo e  della nazione: la nostra!»   Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi  guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di Gigli a  Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei  falliti, «Volontà», 3 ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì UGO FEDELI. Note su! 1914-  1915. Gli anarchici e la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628.   35 Cfr. MARIA RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26   36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, «La Rivoluzione Liberale», 18 marzo  1924.   Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere  personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna  interventista intrapresa da Rocca, «Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva «un anarchico  che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano, in  suo intervento su «L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto  a dirsi anarchico, almeno «nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si veda  anche la voce corrispondente in FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV.    24,             gra n. che si formarono uomini come Massimo Rocca e che questi  Icolare si pone come una delle fi iù  i x i igure più controverse e a tutt’oggi  cin definite della storia politica italiana del Novecento. seal  so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste condizioni  , operaio tipografo come il compagno Mario Gi i  i ; io Gioda, Rocca  accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole  ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi  prime suggestioni nietzschiane e all’inqui IRR  € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si  TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt  mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil  ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de  n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a  iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa  nferenziere, collaborando nel frattem i gi i  ttività d ere, collal po a numerosi giornali  o anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della Folla» di  ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita  PR lata rino del «Novatore», rivista improntata a un marcato  alismo intellettualistico; esperienza che gli  d | istici e gli era valsa lunghe ed acri  polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi       37 è Pics E ;  a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel  P i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, già i  gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua FR  pera di Max Stirner, una i i i  del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero  Ì $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i  libertario italiano furono - con i i an  eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda  Sulle fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i  ell’individualismo anarchico nel nostri  DA A ’ pu  Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di.  Italia (1881- , Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici  vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg  « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i  «Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i  HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad  i ovanni Gavilli, cessò le pubblicazioni cinque anni più tardi i i  7 Vai toi PIER. . ardi. T  CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico  » (Firenze, 5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire  1907-1908), «Sciarpa Nera» (Milano, 1910 veli Gil INIT A  | , -1911) e «La Rivolta» (Milano, 1910  ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i  9 i loro più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi  i loda.  V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore  oca, 1 protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do) ì  convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi paria  ; i ; rtù della stretta amici  Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira  gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi  40 : . 13  Ra SS anni (poi semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la  Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi  ‘alia per gli Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i  i a i 7 i } e 1910 al 4  de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al  « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù Libertaria» accusò    22    MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR    polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il  carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua  formazione di autodidatta.  Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e  degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si  sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'.  Con la sua propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo  Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate del  1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva tentato  di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di  poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze®.  Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di  autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva  continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico.       Rocca e Consalvi d’essersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la  rivista. Cfr. LEONARDO BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, 1972, ad indicem.  dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista rivoluzionaria. In  pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice Partenopea, 1912.   Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il  1911 suoi scritti erano comparsi su «Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero  Olivetti e su «La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra  sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La  tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca  ne aveva seguito con grande interesse l’avventura politica, come anche testimoniato  dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il «Novatore» di New York nel dicembre del  1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la trasformazione del  movimento in Associazione. «E’ notevole — aveva scritto Rocca in quell’occasione — che  nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini  abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in    Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col    quale bisognerà confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di sincerità  lia, e che non manca d’un lato    che avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia d’Ital  onorevole e grandioso».   #? Gioda (un intervento del quale —  figurava nel programma congressuale) av    “Gli anarchici di fronte agli altri partiti sovversivi” —  eva accompagnato una nota di raccomandazione alla  lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella lettera -  che «Volontà» rifiutò di pubblicare — Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire  «di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi ammesso  come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo assicurando che la sua tesi era  «meno eterodossa» di quanto potesse sembrare € di essere in grado di spiegarsi  «fraternamente su Tripoli». Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., pp. 92-93.    23    Nelli 7 f 4 7  ell’introduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come    La programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva  ritto: i    Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi  dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che l’anarchismo  quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le  affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi  funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo  ve ne sia molto oggidì — fuori degli anarchici ufficiali — nelle minoranze ch  formano la parte più viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i    A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente  elitaria  dell anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo  di dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel  mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli    richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni  assunte all’inti del ito!  interno del partito".       4 E È n 5 È  RSA ott ; “regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il  Punto focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità formale  dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria dell’anarchism  Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, «una concezione trascendente [ n  superiore e padrona anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104  disposizione dello spirito «l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell:  rivolta, «nel senso più puro ed etico del termine», al punto che «tutte le rivolte passate è  future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI  libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti  ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che  Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore, definendolo «uno degli scrittori politici più  Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli  revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda, sei tra i pochi che mi furono  compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che  volevano esser tali per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della  nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive di  allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia  [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è  oggi il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del sentimento  nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta indispensabile al progres  umano [...]; l'immortalità dellò stato e del diritto, pur attraverso le sue trasbordo fol  organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess  concretandone la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi  veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libertà    24    «Non mancherà di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la  quale io milito — scriveva Rocca all’esordio della sua campagna interventista  - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni  sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero della  nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita  fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della natura  sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e l’espansionismo   desco in difesa dei popoli latini, dal momento che «Ia latinità aveva sempre  rappresentato la libertà, il progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza  degli anarchici rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio  ideale del vero anarchismo, «quello che combatteva Mazzini per  completarlo, più che per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo  dell’opportunismo ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti  ufficiali”.       interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimità della  coazione su chi non si eleva a tanto» (MASSIMO ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce,  1924, p. 12).  4 LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, «L’Iniziativa», 29 agosto 1914.  Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o  rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia,  Milano, Il Rinascimento, 1918.  ‘° Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa», 12  settembre 1914, Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3 ottobre 1914, e Gli anarchici, i  sindacalisti e la situazione internazionale, «Il Lavoro», 24 settembre 1914.  4? LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, cit.  4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», 19 settembre 1914.  L'organo del PRI pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia  che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici  favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni  Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27 agosto e del 10  settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente  ammesso di trovare «realistiche e più positiviste», rispetto alle astratte prese di posizione  dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito  dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però ogni addebito  Interventista, dapprima con un nuovo articolo su «Il Libertario» del 24 settembre (La guerra  no!), poi con una lettera di poco successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna  dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.  Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un  nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Nel giugno  del 1904, il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercitava il  mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non  averne fino ad allora segnalato il caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica».  ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato].  4° Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al  volume di EDMOND LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno, 1916, pp. 5-38.    25             L’ardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del  resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del  movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a  esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le  intemperanze, da una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria  Rygier s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza  sulla “Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi  per la sede prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da operai  anarchici e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e l’annunciata  discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di  sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui  il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio”.       50 Il 28 settembre si era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand — in Italia allo  scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa del proprio paese — in occasione del  quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che «i  repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti erano per la guerra  all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le  file!» avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli  anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata  dall’«Avanti!» il 3 ottobre).   ®! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5 ottobre  1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, «Il Corriere della Sera», 6  ottobre 1914.   Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione politica di  Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. STEPHEN B. WHITAKER,  Leandro Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in «Italia Contemporanea»,  1994, n. 196, pp. 471-489. Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di Leandro  Arpinati sono mediate dal vecchio volume di TORQUATO NANNI, Leandro Arpinati e il  fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia, 1927), un’opera agiografica, scritta nel  pieno delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con molta  cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la pubblicazione (sembra per  volontà dello stesso Arpinati) e mai più ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di  Arpinati, da DUILIO SUSMEL (Leandro Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36  pp. 16-20) a AGOSTINO IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato  il 29 febbraio 1892 a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a  Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio alla  fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei  maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato  all’anarchismo intorno al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e  divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo  anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini, all’epoca direttore de «La Lotta di Classe»,  chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa.  Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura  contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è traccia di quest’episodio  nelle pagine dell’organo socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra    26    PPANTPP 777 VIP PRRPPIA       Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine Rei  effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar — -  campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n  proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i  dopo l’episodio di Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ;  Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >  rapporti con Mussolini e l’«Avanti!» , ottenne anzi il suo per più  yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua  Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i temp:  del suo strappo interventista"‘.       citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt  î E) ri . . A  icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica  amicizia. Quel che è certo è che la partecipazi T a Fi i  ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino,  anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr  arti i i Socialismo e anarchismo («L’ Alleanz ;  che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent  i he rilevante, e che solo l’intervei  20 e 27 maggio 1910), era stata tutt'altro cl ] ) i re  ) A ità di i notare. Secondo la figlia, autrice anc!  futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na  iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i  iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4  a Fira dopo quello famoso della Società Operaia, in papea RE  incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda  all'oscuro la madre delle sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i  r ittari ttera a firma È  io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O (  Civitella che si proclamava «al fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr,  i i Italia» del 25 novembre . Impiegato ,  comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È | pi  aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di madre vedova,  rese parte alla guerra. i iris fi ida A  I} GIà i 6 ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii  artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure SR  ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. «L’Inizi: n  ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca  S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni cbr  scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr n  del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i ì  del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie  zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi a  collaborazione con l’organo social 1 i i  juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi. , «ve  Guidi), conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin  isagli i P in Dieci anni di nazionalismo — di ui 2g (  avvisaglia — ricordava l’autore in n eta  A is la censura di Mussolini, allora fe; t  d'interventismo», non aveva passato la cei h IR  M Si i articoli // direttore dell’«Avanti!» smascherato. 9 i  Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa  aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed  del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7 e  sd Ai abissi è. nÎ, , o 9  ‘sì questa vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., €  MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 39 ss.    27    I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del  famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed  emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli  anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco,  suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che,  se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di sostegno all’intervento,  fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o non andando oltre un generico -  e del resto largamente condiviso - sentimento di simpatia per la causa  dell’Intesa, testimoniavano di un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti  inevitabile, considerata l’asprezza della prova, capace di segnare in modo  indelebile la coscienza di molti. Così, via via che gli eventi bellici  maturavano e si modificava la situazione politica interna, numerosi altri  anarchici (alcuni dei quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro  giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa    °° Roberto D’Angiò, nato a Foggia nel 1871, era stato redattore de «Il Libertario». La sua  attività si era dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato per  quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e  diretti («L’Operaio» e «Lux»), a rinsaldare la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a  Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio  «La Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta  dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella propaganda per  l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali  destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo - D’Angiò avrebbe  rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di  raccogliere i superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo.  Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto D’Angiò v.  altresì LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   5° Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di Leandro  Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano  appena diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato  dapprima lavoro nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come  tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava l’anarchico «Il Grido  della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di Mazzucato con  l’anarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai fogli libertari milanesi, «La Protesta  Umana» e «L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto  per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di sangue” in  Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di reclusione per  aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del  1910 aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come  sembra - conobbe il conterraneo Benito Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per l’organo  dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con  queste parole: «Lo ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910,  quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema di obbrobrio, di  patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale del Partito  Socialista. Fu una rivelazione» (EDMoNDO MAZZUCATO, Governo di pigmei, «L’ Ardito», 31       28       proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle  ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per  indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato  opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella  quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di  Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del  manifesto del 20 settembre.   Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti aveva appena  venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli  ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata  la collaborazione con il foglio bolognese «L’Agitatore», per il quale aveva  curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi  ‘Turbolente e Odroade, e rivelando, già allora, una naturale propensione per  la polemica giornalistica”. Attivo nella propaganda spicciola, specie in  ambito sindacale, e noto alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei  comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento  libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo  tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa  importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola  D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva  avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era  stato Massimo Rocca”. ; i  Benché influenzato dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo  di Malusardi appariva intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -       maggio 1919). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì dunque Mussolini  nell'avventura interventista e si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra  wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta 3192 [Mazzucato  Edmondo], e EDMONDO MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE  1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i  rappresentazione significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche del cl   >) a il primo movimento fascista). È È  Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze  personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a  la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi   Paolinelli Attilio]. 7   liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta  stato uno dei più importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di  alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li  da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i  aveva occasionalmente collaborato a «Il Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico» e alla  sindacalista «L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana.  Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    29          aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua  collaborazione a «L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione  proletaria», avente per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli  nazioni» e per compito quello «di combattere ogni tirannia”.    Noi però — aveva concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la  realizzazione di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla  realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di violenza  diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine costituito, poiché [...]  fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e fintantoché vi cardio  diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i quali, facendo getto della  propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!    La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e  pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo  eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella  fraseologia dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza, il  germe dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si  può affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente.  l’intero percorso politico. i  Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor più  spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa  rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che  con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo.  che investiva proprio la consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle  tesi interventiste, finì per coinvolgere il direttore de «Il Libertario», Pasquale  Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi  sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo  italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli anarchici  in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che «il  condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro-       °° TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale «Il Cittadino» di  sal «L’Agitatore», 28 aprile 1912.  vi.   ° La prima sortita interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12 settembre 1914  (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dell’organo nazionale  repubblicano, Malusardi si scagliò contro Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25  settembre, aveva definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli  ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più favorevoli  all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto  Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta  a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    30          tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far  attiva propaganda per l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo  indiscutibilmente anarchico del suo giornale.   In verità, la condotta de «Il Libertario», improntata, rispetto a quella di  «Volontà» e de «L'Avvenire Anarchico», a una maggiore elasticità,  costituiva di per sé la spia di un non trascurabile disagio. Non si può negare,  infatti, che il foglio di Binazzi — che, come si è visto, aveva pubblicato il  primo articolo “revisionista” di Maria Rygier — concedesse ampio spazio ad  enunciati e proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano  apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Alighiero Tanini, di Marino  Baldassarre e del socialista-anarchico Giacinto Francia (collaboratori di  lunga data del giornale e figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci,  scritti ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto  violento per 1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove orde  di Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà  occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal «pangermanesimo  delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di Francesco  Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani [...] avvinazzati, due  bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio militare»; e si evocava  «il tragico lievito rosso» della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle  rovine delle antiche tirannie, la palingenesi rivoluzionaria”.   Il fatto che, col passare del tempo, queste posizioni si andassero mitigando*°  è che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza con       ©! PASQUALE BINAZZI, Non equivochiamo, «Il Libertario», 8 ottobre 1914.   © ‘Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività politica e propagandistica €  nonostante la giovane età (era del 1889), godeva di molta considerazione. Costretto a riparare  In Svizzera per sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una  rubrica per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa. Cfr. ACS,  CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].   © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: ALIGHIERO TANINI, La guerra dei titani, «Il  Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza è morta per il bene del mondo, Ibidem, 27  iigosto 1914; MARINO BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi; GIACINTO FRANCIA,  l.'apocalisse storica, Ivi.   ® Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono  che la loro manifesta simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il  desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di una  eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una  soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una  provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero  pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, «Il Libertario», 22 ottobre, 15  novembre, 17 dicembre 1914; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi    dell'agonia, Ibidem, 22 ottobre 1914).    31       Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli  anarchici nel nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che  il suo giornale, si consideri o no un segno di «discutibile larghezza»,  rappresentò, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di  confronto, anche estremo, sui temi della guerra.    Fondamenti ideologici e riferimenti politici dell’interventismo anarchico    Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è   già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché  l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile  cercare di definire i contorni di questa comune matrice dell’interventismo  anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti.  A tale proposito, considerata la sua influenza, è il caso di soffermarsi ancora  una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante l’iniziale  infatuazione per Stirner, l’individualismo non s’identificava - e non si era  mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua  accezione più diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di  Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli  imputava la responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non  riteneva meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista  kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e “sentimentale”  dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che  costituirà il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici.       AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Giacinto Francia (che era nato nel 1869 a  Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file dell’estrema  sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con «Il  Libertario», si schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti  garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e prese  parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale  fascista (cfr. «Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea socialista-  anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di  destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in  virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento)  Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica  Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia Giacinto].   © Gino CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit., p.37.  Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo alla guerra europea v. anche CLAUDIO  COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale, in «Movimento  operaio e socialista in Liguria», 1961, n. 2, p. 101 ss.    32          Egli — aveva scritto di Stirner ai tempi del «Novatore» — non predica il delitto pel  delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella Germania  profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il suo  “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una portata non  Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è dunque lo scialbo  calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo  che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha  trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili,  dalla gigantesca statura della sua personalità individuale”    Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di  Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nell’esaltazione  del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo significava riconoscere,  accanto all’individuo, «ogni entità collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla  nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale»; significava,  in una parola, «negare l’astratto a favore del reale». Muovendo da queste  premesse, Rocca era approdato a quello che definiva “liberismo  rivoluzionario” o “novatorismo”, che era poi «l’individualismo anarchico  ampliato e confrontato con la realtà».    Noi — sono ancora sue parole — affermiamo altamente l’importanza dell’individuo  singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle che  rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una minoranza  rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia soggettivamente  dell’avversità sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si  forma per lunga eredità storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo  Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le  rivolte [...]; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le  esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza al di  sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in  nome di un principio confessato e francamente servito sono infinitamente più nobili  e rivoluzionariamente più fecondi dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi  corrompendole nella generale mangiatoia”       °" LiBERO TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico, «Novatore»,  New York, 16 febbraio 1911.  69 Ivi   Ivi,  "Ivi,  A proposito dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo auto-apologetico,  Una difesa postuma (agli ex amici della «Vir»), in «Quand-meme» (un numero unico  pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel  quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di «morbosità»    33          Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere i  presupposti teorici dell’interventismo di segno anarchico-novatoriano  (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli, come Oberdan Gigli) e le  ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi  protagonisti.   Quantunque il “novatorismo” fosse il tratto saliente dell’interventismo  anarchico, pure quest’ultimo non può non esser considerato nell’ambito di  quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu  l’interventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni  risorgimentali e dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze  dell’estrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i  miti dell’azione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo,  rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti  quanto ai discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua  carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici  propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del  tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non  trascurabile nella campagna interventista”.       mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per  l individualismo, «Vir», marzo 1908, n. 3).   Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli   inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI  Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma,  Edizioni de «L’Iniziativa», 1916.  ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel — e, in senso  più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista — v. GIAN BIAGIO FURIOZZI, Socialismo,  anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo  e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e all’attività dell’USI, v. anche  l’introduzione di Maurizio Antonioli a ARTHUR LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti  scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici  italiani (1900-1922), Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss.   A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina «Lacerba», fondata l’anno  precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un  appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel quadro di un indirizzo  sostanzialmente nazionalista, le pagine di «Lacerba» non disdegnarono di accogliere posizioni  di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre,  Per la guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio  di Gustave Hervé.   Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto ALBERTO CIAMPI, Futuristi e anarchici.  Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni (1909-191 7),  Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1989,    34       Le differenti impostazioni ideologiche, cui però sottostava una molteplicità  di riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque nella complessa  trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani  andarono a costituire uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal”  (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento  violento del militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi),  la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a «Il  Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna interventista  dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra rivoluzionaria - come lo ha  chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche dell’interventismo anarchico.  Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a  Milano il 5 ottobre 1914, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario  d’azione internazionalista, punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi  mesi, avrebbe messo radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel       " L'intervista a Ottavio Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e germinal») si trova in «Il  Resto del Carlino» del 25 settembre 1914.   La biografia politica di Dinale (1871-1958) offre un esempio emblematico del clima culturale  nel quale prese forma e maturò la corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,  organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i  promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore, nel 1905, del primo giornale  ufficialmente sindacalista, il settimanale «La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva  Iniziato la pubblicazione — prima a Nizza, poi a Milano — del periodico «La Demolizione»,  caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti richiami sia  all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo  collaboratore del mussoliniano «Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore dell’impresa  fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicinò infine al  fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu  nominato Prefetto del Regno. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. II, ad  nomen, € ALBERTO CIAMPI, op. cit., ad indicem.   "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca,  da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris,  Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio  Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da «La Folla» del 4 ottobre 1914, quindi, sei  giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di «Pagine Libere» (la rivista quindicinale di  Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla  guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier.   Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il  classico BRUNELLO VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia  neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e RENZO DE FELICE, Mussolini il  rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v. altresì il breve saggio L 'interventismo  rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, 1968, pp. 271-291. Infine, per  una riflessione sui primi giorni dell’interventismo rivoluzionario v. UGO SERENI, Luglio-  agosto 1914: alle origini dell’interventismo rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn.    2-3, pp. 525-574.    35       momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci,  collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate  dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre  conservato una loro specificità. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con  Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e Torquato Malagola””, pubblicò «La  Sfida», “giornale di polemica anarchica”, un numero unico che, se  testimoniava dell’organicità del manipolo anarcointerventista in grembo al  neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarità  ideologica rivendicata con fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle  pagine de «La Guerra Sociale»”*. Poco dopo la nascita de «Il Popolo  d’Italia», Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo giornale di  Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario)  scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,  addirittura un precursore ‘°.       7 Il fiorentino Antonio Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo  rivoluzionario, collaboratore de «La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi  contributi di parte anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono  interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave,  1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino nel 1916 per  la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi compagni, a  cominciare dalla Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo  proposito, una sua lettera pubblicata da «La Libertà», organo del PRI ravennate, il 5 dicembre  1914). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si ritirò sostanzialmente dalla  vita politica. «Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,  proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi — si è allontanato dai compagni di fede  e non professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La Tribuna”,  uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].   7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come  Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti con  l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato].   7 «La Sfida» si apriva con una dichiarazione programmatica — a .firma «gli anarchici  indipendenti d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (ATTILIO PAOLINELLI, Comunismo e  individualismo.  Ideologie metafisiche e realtà anarchiche; LIBERO TANCREDI,  Dell’anarchismo; ANTONIO AGRESTI, Oggi e domani; MARIA RYGIER, Per la civiltà contro la  barbarie; TORQUATO MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres à un francais sur  la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale  trasparivano le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),  comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.  Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando «La  Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico»,  12 novembre 1914, e Luigi BERTONI, Agli “sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914.   ?° «Caro Mussolini — scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un  foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma,  come vedi, precorre il tuo bel quotidiano» («Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914).    36 ,          Inesorabilmente, più gli schieramenti si andavano definendo e più  l’accanimento col quale il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il  diritto alla qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La  sera del primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe  luogo un comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de «La Sfida» ed  altri anarchici dissidenti. «A proposito di questi ultimi — commentava quasi  divertito un quotidiano liberale — occorre notare che essi sono invasati  dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e  stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero  attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di  principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di  fronte alla spinosa e assai più concreta questione dei volontari.    Anarchici o garibaldini?    ]    Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento  la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver  educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva  però gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo  anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo  internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al  mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la “malattia infantile”  dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento  generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto distoglieva i partiti  popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la  rivoluzione sociale”.   Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico  risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente anche sui più       0° Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati,  «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914.   Alla fine di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione  Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi  propugnatori (cfr. «L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i   ' Al riguardo v. soprattutto OTTAVIO TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione,  «L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario  romano “Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ «Avanti!» del 7 novembre.   "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne  veda la prefazione a MAx NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il  Risveglio, 1928, pp. XV-XXXI.    37          accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il  garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima  guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del  sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani, i  quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni di  politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane, non  deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito Socialista, quanto  meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al socialismo delle origini.  Allo stesso modo, sebbene gli anarchici indulgessero assai meno alle  suggestioni della camicia rossa, anche in seno al movimento libertario  sopravviveva, qua e là, un residuo di mentalità risorgimentale, in cui - com’è  stato scritto - «libertà dei singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si  confondevano e in cui la pianta dell’internazionalismo affondava le sue  radici in un terreno impregnato più del volontarismo mazziniano che del  determinismo del socialismo scientifico».   L’esempio più noto e certamente più suggestivo di questo modo di  concepire l’anarchismo è senz'altro quello di Amilcare Cipriani; ma egli era,  in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di quell’epoca di mezzo che aveva  visto germogliare l’idea internazionalista dal tronco del mazzinianesimo,  sotto il pungolo della predicazione di Bakunin®'. Quel medesimo clima  ideale che aveva generato uomini come il romagnolo Pietro Cesare  Ceccarelli, compagno di Carlo Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del       8 MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di  anarchici interventisti (1914-1915), cit., p.82.   Su «L’Internazionale» del 5 dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra”  - inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare  Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario  (fu ripresa anche da «Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo-  intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Guglielmo  Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. «Cipriani — scrisse Boldrini — è  l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti:  Amilcare Cipriani è dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi  uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo del  processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale è la rivoluzione  dell’indipendenza italiana, che, con l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi,  per gli uomini d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di tutti i  popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però qualunque forma di stato»  (GUGLIELMO BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani, «L’ Avvenire  Anarchico», 17 dicembre 1914).    38 ,    ibdiaibbici.       Matese (di cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito  la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®.   Ma qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari  anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non  avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e  all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,  sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio  com’era nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e  poi di nuovo, nel 1912, non ancora spentasi l’eco per le agitazioni  antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!”  Sulla scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva  pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto,       ‘* Sulla figura di Pietro Cesare Ceccarelli v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, 0p. cit.,  Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo v.  FRANCO DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti,  1973, ad indicem.   “© Cfr. «L’ Alleanza Libertaria», 27 luglio 1911.   Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi  libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni  onoranze funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra  gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il  racconto che di quell’episodio aveva dato «L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del favore  e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava  al garibaldinismo. «Cosa non può aspettarsi —aveva scritto l’anonimo articolista de  «L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e malefica sbornia  di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque  pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca  del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un nostro  eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni  della leggendaria camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla  dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e  violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano, cittadino del  mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva combattuto, si era volontariamente  sacrificato, per la libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,  un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e  cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata  libertà a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.  l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del  ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare alla Turchia, da loro oggi  combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo  combatté contro di loro» (SPARTACO, // caso Troja, «L’Agitatore», 15 settembre 1912).   N Le insegne rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra  d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico napoletano Oreste  Ferrara. Cfr. FRANCESCO TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella coscienza dell'estrema  sinistra italiana (1895-1898), in «Spagna Contemporanea», 1995, n. 7, p. 67.       39       PROPONI PORN I A    dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica anzitutto come  ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di  spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con l’epica del  garibaldinismo.   Pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi  confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le  infuocate polemiche dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di  Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta  della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano  repubblicani? Erano anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche  tempo dopo — Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione  che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del PRI, si  trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un  veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla seconda  spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque  dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello  scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914”.   «Era anarchico — scrisse di Colizza l’organo romano del PRI — il suo ideale  muoveva verso l’ universalità, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta  contro ogni ingiustizia»”'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci,  che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo  ideale che merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere  l’anarchismo cui si è più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci —  era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato  il suo credo [...]. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul  campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come  contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il       88 L'appello di Ricciotti Garibaldi, incitante «la gioventù italiana a prendere posizione di  difesa e, in caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Mario  Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v.  ASTERIO MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima  guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.].   * AUGUSTO MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, «La Libertà», 12 settembre  1914.   °° Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti,  Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la  loro fu un’iniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi,  infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in Serbia  (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini),  già il 9 agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la quale  sconsigliava apertamente l’invio di volontari.   °! Eroi italiani caduti in Serbia, «Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914.    40          turco che aggrediva la Grecia e, come nell’ultima sua trincea, contro  l’austriaco che aggrediva la Serbia»?   La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti  rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i  garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di  Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale sezione del Partito  Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di un  certo rilievo dell’interventismo di sinistra (anticipante, non solo sul piano  simbolico e iconografico, ma anche su quello più strettamente politico, le  assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni  anarchici, fra i quali Maria Rygier e Attilio Paolinelli”. E’ indice ulteriore  delle incertezze e delle ambiguità di quel momento il fatto che la Rygier  avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi  anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno  nettamente contrario all’iniziativa repubblicana” , e che, ciononostante, ella  fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte del movimento. «I miei  compagni — aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del  Popolo — saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le  percosse di secolari violenze».   L’episodio aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della  capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Aristide Ceccarelli,  personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno  infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a «Il Giornale  d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi  trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in questo  modo:       ® In ASTERIO MANNUCCI, op. cit., pp. 8-9.   " Cfr. «Azione Socialista», 12 settembre 1914 e «Il Fascio Repubblicano», 13 settembre  1914.   I due soli superstiti della spedizione, Ugo Colizza e Arturo Reali, erano rientrati in Italia da  ochi giorni. Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il Lavoro», 9 settembre 1914.  “ «Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e «Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare la   cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici   “Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”.   * Cfr. «Volontà», 19 settembre 1914.   % «L’Iniziativa», 14 settembre 1914.   ®? Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione  Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione   del 14 settembre   " Polemiche fra anarchici, «Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914.    4l       In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro  l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra, si  convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che  possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato, interpretato e letto da  alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli  anarchici, come se egli fosse l’unico depositario della verità e della coerenza?”    Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato  clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in Francia,  ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della  camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore  di utopie ottocentesche prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate  condizioni della lotta politica facessero piazza pulita d’ogni residuo  romanticismo.   Già ai primi d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si  ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici,  sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia,  ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con  organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in molte  località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani, erano  cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia. L'indirizzo  all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello politico vero e proprio,  era dato dal Partito Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio  inizialmente ricevuto dalle autorità francesi, mirava ad organizzare una  spedizione per la liberazione di Trento e Trieste, nonché a strappare  l’iniziativa dalle mani della diplomazia sabauda, così accelerando la  formazione di un vasto moto insurrezionale all’interno del Paese e la caduta  della monarchia'. All’intransigenza dei dirigenti repubblicani (soprattutto  di Eugenio Chiesa, il più risoluto sostenitore della spedizione adriatica,  mentre il segretario del partito Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più  possibilista) '°°, avrebbe fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di  Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza  perpiessità (legate più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio),  in molti riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino       °° Ibidem, 19 settembre 1914.   1°° BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 236.   10! A questo riguardo v. OLIVIERO ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit.   12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v. anche  VITTORIO DE CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del  XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del  Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss.    42       Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla  costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il  semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era  dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a  Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly all’inizio di  novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto orientamento  repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento  uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una precisa disposizione del  Comitato Centrale del PRI". La maggior parte dei suoi membri aveva fatto  ritorno in Italia; altri, come Massimo Rocca (che aveva raggiunto la  compagnia il giorno stesso del suo scioglimento) 104. si erano aggregati alla  Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi  combattimenti delle Argonne nel dicembre-gennaio.   Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro  che più si adoperarono perché la Legione fosse inviata al fronte) !%,  facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i quali sono certi  il veneto Gino Coletti, autore fra l’altro di una breve storia della  spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Domenico Pezzi       !0 Su tutti questi punti v. BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 828 ss.   La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto del progetto politico  repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione dell’impossibilità, per  l'interventismo rivoluzionario, di costituire un movimento davvero autonomo, in grado  d’influire in modo determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento  all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti sovversivi  erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di rientrare in Italia avevano agito  correttamente (cfr. MARIO GioDA, A proposito del battaglione Mazzini, «La Folla», 15  novembre 1914).   104 |a data del 14 ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche da  Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione  ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS  MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18.   08 La Legione Italiana lasciò il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo  temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino  Garibaldi e quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un  accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) «per partire al  fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non fosse giunto per la fine dell’anno, V.  OLIVIERO ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo  Zuccarini, FI e 1/3. + ì   10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento Poligrafico  Emiliano, 1915.   Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario  dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di rimandare a  ALESSANDRO LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una  lettera a Mussolini, in «Nuova Storia Contemporanea», 1998, n. 3, pp. 95-104.    43       e Agostino Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)   » e un certo Mario Perati, descritto proprio da Coletti come «anarchico  romagnolo profugo della settimana rossa», che perse la vita nel secondo  scontro delle Argonne, il 5 gennaio 1915". A tal episodio partecipò anche  Massimo Rocca, che pare vi rimanesse ferito!!°. Di sicuro egli si trovava  ricoverato in un ospedale francese il 24 gennaio, quando «La Folla»  pubblicò un suo articolo presentandolo quale «eminente anarchico [...]  disilluso, [...] andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un ospedale       !0” Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia,  nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani  erano sottoposti dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione  Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Agostino “Tino” Masetti era nato a  Ravenna nel 1880. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate d’inizio secolo,  collaboratore assiduo de «L’Agitatore», amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti,  già prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica.  All’epoca dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo  insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori  repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur  parteggiando per la causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in  quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo con il  riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato  dalle simpatie di Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre  Masetti a dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro («L’Agitatore» 21 agosto  1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo  nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di  omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata  l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a Ravenna, dove, nel febbraio 1915, fu tra  i promotori del locale Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà»,  Ravenna, 20 febbraio 1915). Richiamato alle armi il 5 maggio 1916, cadde in battaglia nel  luglio del 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti Agostino].   ‘°8 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915.   Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale  godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza nel 1879. Nel 1901 era  espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno sino all’inizio del  conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto  costantemente sotto controllo dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la  guerra, progressivamente abbandonato l’impegno politico, nel 1937 — dietro sua esplicita  istanza — fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato  «buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta 3704 [Panzavolta Agostino]. Domenico  Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini,  segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della  polizia doveva risultare iscritto alla loggia massonica “Italia” (nota come focolaio di  opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente  abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta 3919 [Pezzi Domenico].   !°° Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915.   !!° Cfr. «L’Iniziativa», 30 gennaio 1915.       gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà le  ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del misterioso, se  le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di far piena luce  sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione  Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia  Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti  delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava  ricoverato perché «ammalato di febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome di  Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa anarchica italiana.  Ancora a distanza di due mesi dall’episodio, scrivendo sotto pseudonimo  (Dyali) per la milanese «La Libertà», la nota scrittrice e propagandista  libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse stato ferito in battaglia e  affermò trovarsi egli in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo  preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella  Croce Rossa. «Libero Tancredi — ironizzava Dyali — fino a oggi ha portato  alla Francia un aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva  servire a un ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima  ancora del diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio  anarcointerventista «La Guerra Sociale», sostenendo che, se effettivamente  Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia respiratoria che da  tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri del 26  dicembre e del 5 gennaio, restando ferito a una mano!"*. Fu lo stesso Rocca,  in una lettera da Parigi del 15 marzo, a chiarire definitivamente la questione.  Egli — raccontava - ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si  era aggiunta una «stupidissima» bronchite, era stato ricoverato per motivi di       ll L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di  far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Aristide Ceccarelli serisse fra  l'altro: «Costoro [gli individualisti] — hanno arrecato danno al nostro movimento più di  quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme» (ARISTIDE  CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, «La Folla», 31 gennaio 1915).   !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !!! «La Libertà», Milano, 1 marzo 1915.   Il «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno  pseudonimo (Emme). ]   La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima,  rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un  intervento della Rafanelli sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale l’autrice aveva  riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei pontificanti dell’anarchismo»,  sostenendo però essersi egli, mercé il suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del  movimento anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno — e  quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il diritto a dirsi anarchico (cfr.  EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, «L’Iniziativa», 23 gennaio 1915).    45       MA A A Ai    salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva  nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi  stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di  poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9,   Durante il soggiorno nella clinica militare di Chatel Guyon, Rocca aveva  inviato a «Il Resto del Carlino» una lunga corrispondenza. In essa,  prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario garibaldino, era  giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico”  (per le quali il garibaldinismo era «l’espressione più genuina e più profonda  del rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che  «l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di sovversivismo  nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il  modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta  combinazione tra libertà del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una  nuova Italia.    Il fenomeno garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate  del proprio “anarco-nazionalismo” — è un egoismo intimo, perché lungi d’imporsi  collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e la spinta nell’individuo  singolo che sente, da solo, tutta la propria nazione!"    E ancora:    Io sogno ed io scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia  garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della  disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza nella  nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo eternamente libero,  pur nei limiti della compresa e voluta, perché necessaria, disciplina"!       15 Una rettifica di Libero Tancredi, «La Guerra Sociale», 20 marzo 1915.   16 Fatto rientro a Milano, dove — come si affrettava a comunicare la Prefettura — era  «convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30  marzo era alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e nazione”.  ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !” LiBeRO TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, «Il Resto del Carlino», 10 marzo 1915.  L’articolo recava la data del 15 febbraio.   18 Ivi,   19 Ivi.   In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò  a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e  «Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della  pubblicazione di detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente  recensito l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per    46          Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente cogliere  un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in  seno al fascismo.   Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria,  destando anche a sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare  che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in  grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio  anarchico di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai  volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto di  tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del Lavoro di  Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non approvando  «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si sentiva per  questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si augurava comunque la  sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti mali e di tanto danno»!?!.  Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione  alla guerra, non poté evitare di esprimere simpatia e financo «ammirazione  sincera» per quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di  Francia'”°. Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a  riprova che spesso, anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni  erano ben più sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far  credere.    La conquista di uno spazio politico    Quando si esuli dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti  interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di       fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri di originalità e  di onestà intellettuale (cfr. ALDO VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre  della vigilia, «Il Resto del Carlino», 9 febbraio 1915). «Il Resto del Carlino» occupò un posto  di primo piano tanto nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito  politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale  dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal “caso” Mussolini). A tale riguardo (in  merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MARIA MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere  politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978, p. 301 ss.   120 «Il Solco», 17 gennaio 1915.   «Il Solco» era diretto da Ottorino Manni.   !:! ALBERTO MESCHI, Contro la guerra, «Il Cavatore», 9 gennaio 1915.   «Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese.   12 Ancora dei volontari e la guerra, «Volontà», 30 gennaio 1915.    47          quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole  d’inquadramento e di organizzazione, è difficilmente quantificabile. Un  aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei giornali"? e soprattutto dalla  rubrica “Adesioni” de «Il Popolo d’Italia», che ci offre uno spaccato  significativo delle divisioni in atto nel campo libertario. In appena dieci  giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che aveva iniziato le  pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici  anarchici!”, svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno  scorcio su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’.       ‘2? A titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di  Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo libertario di Santa Croce sull’ Arno  (cfr. Ad un emerito girella, «L’ Avvenire Anarchico», 28 gennaio 1915), e Gino Baronti, di  Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro  dall’anarchismo, dichiarandosi di «idee nazionaliste» (Una lettera significante, «L’ Alfiere»,  20 febbraio 1915). L’individualista Gino Baronti, un violento con numerosi precedenti penali  (e senza «alcuna influenza nel partito», secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina  nel settembre del 1914) si fece strada nel fascismo. Nel 1921 s’iscrisse al Fascio di  combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra,  divenendo capo squadra della milizia. Nel 1926 fu addirittura chiamato alla segreteria dei  sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica  Sicurezza come «un puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC,  Busta 356 [Baronti Gino].    ‘124 Nell’ordine: Pietro Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo    Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova (22 novembre); L. Navacchio, «operaio  anarchico individualista» di Pisa (23 novembre); Enrico Farè e Aldo Franceschelli «anarchici  novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti,  Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Edoardo Monaci, tutti piombinesi (25  novembre); Arturo Ferrari, «anarchico non fossilizzato» milanese (27 novembre); Leopoldo  Facchini, del «gruppo anarchico bresciano» (29 novembre). Sfortunatamente, con l’eccezione  di Pietro Battaglino, la sommaria testimonianza de «Il Popolo d’Italia» è tutto ciò che ci è  stato tramandato di questi uomini. Battaglino, nato a Novara nel 1890, di professione  venditore ambulante, aveva collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel campo  dell’organizzazione sindacale, nel febbraio del 1914 aveva dato vita a una “lega di  miglioramento fra venditori ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era  stato eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di  combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta  407 [Battaglino Pietro].   125 E? il caso di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra  neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati  da «Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del  Piano in provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei  liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa partecipazione agli imponenti  scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma  venne allontanato dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,  CPC, Busta 3343 [Monaci Edoardo].    48          Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso  legate fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere;  come fece ad esempio l’organo del partito Social Riformista con chiaro  intento provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per  l’intervento) 126. lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche nei  primi mesi del 1915 e il fatto che i nomi più autorevoli dell’anarchismo  italiano sentissero la necessità d’intervenire personalmente nel dibattito. In  particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei  sindacalisti parmensi!””, poi con una serie di articoli su «Volontà», Luigi  Fabbri dovette ribadire le motivazioni ideali e politiche dell’opposizione  anarchica al conflitto in corso, contestando una ad una le affermazioni degli  anarcointerventisti, ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata  puntigliosità'?8.   Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dell’intervento,  l’accanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori  personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo    10 «Egli [I «Avanti!»] — scrisse il 3 ottobre 1914 «Azione Socialista»- ci accusa di malafede  |...] perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in  campo il deliberato dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di  questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese,  crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento i  sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che  rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella vita  nazionale». ; Ù  127 Si tratta di «Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 «a cura di un gruppo di  sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea politica di De Ambris.   28 Si veda in particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra («Volontà»,  20 febbraio, 6 e 20 marzo, 3 e 24 aprile 1915).   Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de «La Guerra Sociale», furono  bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale  anarcointerventista (nell’ordine: MARIA RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, «La  Guerra Sociale», 27 febbraio 1915; MARIO POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO  Giona, Contro una stupida speculazione, Ibidem, 10 marzo 1915; OBERDAN GIGLI,  Anarchismo: concezione storica e concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita  e nella teoria, Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi;  LIBERO TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio  e c., Ibidem, 24 aprile 1915). ubi,  Circa la posizione di Luigi Fabbri v. altresì MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la  prima guerra mondiale. Il diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1999, n. 1, pp. 71-89.   !° Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un  manifesto anarchico contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che  ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a portarci questa  civiltà, o sono più barbari e che vengano a civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un «documento    49          clima e su questo sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta  aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese,  una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico  genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per  avere tra l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,  condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu invece accolto con  soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore” del  foglio anconetano", sia da «L'Avvenire Anarchico», che laconicamente  commentava: «Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere rispetti  umani»,   Nel frattempo il processo di organizzazione  dell’interventismo  rivoluzionario e della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti.  Tra il 25 e il 26 gennaio 1915 si era riunito a Milano il primo convegno  nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, al ipa avevano  preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno          penoso», esortando gli anarchici «più consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi  Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a non  farsene complici con un «ancor più penosissimo silenzio» (MARIO GIODA, Ben vengano?, «Il  Popolo d’Italia», 22 febbraio 1915).   150 Per la cronaca degli avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo  d’Italia», 27 gennaio 1915, e Argomenti neutralisti, «L’Internazionale», 30 gennaio 1915.   Il 28 gennaio il giornale di Mussolini pubblicò una «lettera aperta» di Gigli al deputato  socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio elettorale si era verificata l’aggressione. In tale  missiva, scritta all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in  maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In questa folla feroce — scriveva — non vi  è più, se mai v’è stata, l’anima socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza  socialista al Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni  (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, «Il Resto del  Carlino», 2 febbraio 1915).   13! Cfr. «Volontà», 6 febbraio 1915. Alla riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da  parte degli irruenti neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un commento  significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano — che è persona di cuore e  ragionevole [...] deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del fatto lamentato. Pensi  egli all’impressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo  fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei  loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima libertà  individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se  ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la  guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai».   12 L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», 11 febbraio 1915.   153 GIUSEPPE CHELOTTI, Giuste argomentazioni, «L’ Avvenire Anarchico», 12 febbraio 1915.  134 A questo riguardo v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306.   Per il resoconto del congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» del 25 gennaio e  «L’Internazionale» del 30 (ma anche gli articoli di «Azione Socialista» e de «L’Idea    50       degli anarchici nella campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la  definitiva consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La  Guerra Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico  interventista» uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La  Guerre Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé!*, mentre il  motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non  dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della  commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,  tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e  risorgimentale.    Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo della redazione — è ben preciso:  rivendicare cioè ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico  [...] che i teologhi dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro  comandamento” ci vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte  migliore degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di  femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può  camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La Guerra  Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente anarchica"    In prima pagina, Oberdan Gigli riassumeva a titolo programmatico i  fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche dell’anarcointer-  ventismo.       Nazionale», organo ufficiale dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi  contemporaneamente all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, il 24  fignnaio, si era riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa.   «Il Popolo d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli anarchici  interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Carlo Cattaneo di via  Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di  un giornale di segno anarcointerventista, che, «oltre che propugnare le tesi dell’intervento dal  punto di vista anarchico», proponesse anche «di iniziare una sana ed audace discussione  d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i  pontificanti dell’anarchismo ufficiale». NES Rui   Gustave Hervé (1871-1944) era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo e  dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale», aveva condotto una  feroce battaglia contro le istituzioni militari. E” singolare che gli anarcointerventisti italiani si  richiamassero a quella storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto  un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato alla  causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La Victoire», organo del nuovo Movimento  Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro  pnese v. RUGGERO GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo  Bartalini e «La Pace», 1903-1915, Milano, Angeli, 1990.   !!? «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.    SI             Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — [...] e accettiamo la guerra per  evitare una oppressione [...]. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta  liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con  Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella rivolta  contro gli inglesi [...]. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un  enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo  cattolico più inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più  prepotente: sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel  riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali [...]. Noi vogliamo al contrario  che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione  proletaria [...]. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico!»    Più oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera  che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario  Poledrelli negava di sentirsi un revisionista dell’anarchismo per il fatto  d’essere favorevole alla guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco  della migliore tradizione libertaria!”.   «La Guerra Sociale», che uscì in sei numeri, fino al 24 aprile 1915, con una  discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in forma  unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le  passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto importante, sotto  questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale apparivano nitidamente,  nelle varie coloriture, gli umori della “base”. Così, fianco a fianco  all’anziano «anarchico rivoluzionario» Alfeo Davoli, già garibaldino, che da  Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che abbattesse per sempre  «qualunque sia forma di governo»"‘', si schieravano il maestro elementare       138 OBERDAN GIGLI, Perché siamo interventisti, Ivi.   13° Cfr. MARIO POLEDRELLI, Revisione?, Ivi.   Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era  trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva anche  progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi «L’ Adunata», ma  era stato fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché disoccupato.  Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053  [Poledrelli Mario].   10 Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a  Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal capoluogo  lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano  grandi cifre — tanto che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato «ai compagni», la redazione  invitava apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni —  ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente  eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale).   14! «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.    52       Alceste Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si  dichiarava per l’intervento, a dispetto dello «slombato anarchismo  menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Adolfo Costa, di Verona, il  quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virtù dei propri  «convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Tomaso Dal Ciotto  chiamava a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredità del  bakuninismo e del mazzinianesimo!‘*.   Sulle pagine de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali  portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da  Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta  però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile  ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono  comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura  approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle  sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla  maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il  valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto  all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non  automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per  caso. Ciò a conferma che la semplicistica equazione anarcointerventisti    prima-fascisti poi, non è motivo sufficiente - e d’altronde nemmeno       Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630  Davoli Alfeo].   4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.   Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a  Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie, antimilitariste e  radicalmente anticlericali (era membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo  ruolo di educatore, era dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea politica».  Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente)  Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di  Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno  più tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543  {Salvadori Alceste].   4 «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.   14 Cfr. /bidem, 10 marzo 1915.   Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse  persuaso che la divisa non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la  speranza di tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la guerra» per  combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un anarchico interventista, «Il Popolo  d'Italia», 5 luglio 1915).    53       ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo degli  interventisti di estrazione libertaria!”       145 Scrissero per «La Guerra Sociale»: Alfredo Consalvi, Giovanni Canapa (Brunetto  D’Ambra), Carlo Rivellini, G.Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando  Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango.   Giovanni Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era nato a Firenze nel 1875. La sua  partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose  disavventure giudiziarie. Nel giugno del 1907 la Prefettura fiorentina lo aveva dipinto «tra i  più entusiasti seguaci delle dottrine libertarie a Firenze [...], assiduo a tutte le riunioni e  manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici, «attesa  la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi  fogli anarchici, specie d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto  D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro del Fascio  rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare accanimento, per lo più  ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome  (come nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, «L’Iniziativa», 20 febbraio e 6  marzo 1915). Canapa si arruolò volontario (cfr. «Il Popolo d’Italia», 20 giugno 1915) e cadde  sul Carso il 12 aprile 1916. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne  celebrò la figura di «eterodosso dell’anarchismo [...], eretico impenitente [...], scomunicato  del “Santo Sinodo”» (ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa», 6  maggio 1916); mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe  richiamato il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo.   Carlo Rivellini era nato a Milano nel 1895, da famiglia poverissima. Carattere «fra i più  irrequieti e impulsivi» - come scriveva di lui la Prefettura milanese nel dicembre del 1912 -,  Rivellini, nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo  lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività sovversive. Allo scoppio della guerra  fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di  difendere così «i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo d’Italia», 25  novembre 1914). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria, lo stesso  di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un  encomio solenne. Si congedò con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte  all’impresa di Fiume (e come delegato fiumano presenziò al secondo congresso nazionale  fascista, nel maggio del 1920), conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica.  Nel 1930 risultava iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].   Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di  Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni Gavilli,  che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era  non vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla». Nel  dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera.  Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato «disciplinato,  rispettoso e contento della vita militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e morì,  ancora giovane, nel 1927. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo].   Armando Senigallia era nato ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso»,  Senigallia, pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva  collaborato assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al romano «Il  Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata, numerose condanne per  «istigazione a delinquere». Attivo nel campo dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva    pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777       Grazie a «La Guerra Sociale», per un periodo di tempo tanto breve quanto  decisivo, gli anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio  autonomo ed ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio  particolare punto di vista all’interno della multiforme realtà  dell’interventismo rivoluzionario.   La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risultò comunque assai  intensa, specie là dove il movimento era più forte. A Parma gli anarchici  collaborarono fattivamente al quindicinale «Guerra alla guerra» (24 gennaio-  I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica  deambrisiana e fra i principali centri propulsivi dell’interventismo  rivoluzionario. All’incirca nello stesso periodo in cui vedeva la luce il  giornale di Malusardi, era anche degno di nota (vuoi per il rilievo dei  protagonisti, vuoi perché Pisa era una delle città italiane dove il movimento  anarchico era maggiormente radicato) il contributo degli anarchici Alberto  Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del  Popolo», organo del Fascio rivoluzionario pisano!‘.       preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno  anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi alla  struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914  la Prefettura di Ancona annotava sul suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di  Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico “Studi  Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la  mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con  una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò coraggiosamente,  finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al fascismo e, nel gennaio del 1935,  divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti.  Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando].   Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra  parmense, in quanto segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario”  intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò volontario,  combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta 1406  [Colla Silvio].   Di Raffaele De Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco,  se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come  mezzo per far piazza pulita di tutti «i rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di  rivoluzionari, «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento  libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a  Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica  italiana, collaborando al foglio di San Francisco «L’Emancipazione». Da oltre oceano  l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico  Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [De  Rango Raffaele].   14% 1] primo numero de «La Guerra del Popolo» uscì il 18 marzo 1915. L’iniziativa di Ruffo  Sarti e Alberto Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare    55       D'altra parte, proprio nella primavera del 1915 i Fasci compivano il  massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la  preoccupazione principale di tutte le forze che componevano lo  schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare  l’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover  accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il  10 aprile «L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il  gruppo dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la  monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel  documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile  l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi) !”.   Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per  protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente  Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una  manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito anche  i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori principali),  Massimo Rocca auspicava che non si verificassero più simili episodi,  temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un pretesto per una  manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo       l’articolo in tre parti di OTTAVIO TONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, «L'Avvenire  Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale  estraneità dei due interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare ai  compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa, con l’anarchismo era una  delle scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia  ha sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”. Così, nel  caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due rappresentavano «poca cosa,  politicamente e quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino» (GIORGIO  SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà,  Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la  Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana (1868-1942)  era stato redattore de «L’Avvenire Anarchico» per quasi tre anni, fra il 1910 e il 1913. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2105 [Fontana Alberto]. Sarti (1879-1943) era noto anche a livello  nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il Grido della Folla» e potendo  vantare, come sembra, stretti rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori.  Nell'ottobre del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei  carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente anarchico e che gli  era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di carcere. «Durante la detenzione —  annotava la Questura — fu largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono  anche le spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo].   14” Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a RENZO DE FELICE,  Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 695-697.   ‘® Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, «Il  Corriere della Sera», 13 aprile 1915.    56       con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la  guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a «tutto subordinare»    all’eventualità del conflitto!‘    Il periodo bellico    A poco più di un mese dalla proposta de «L’Internazionale» per la tregua  “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’ Austria realizzò gli  auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei principali  esponenti dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di  generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non  certo propizia al normale dispiegarsi dell’attività politica, contribuirono  peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei Fasci. ua  Tra il luglio e l’agosto del 1915 anche Rocca, Gigli e Malusardi, si  arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dell’anarcointerven-  tismo, Mario Gioda, che a suo tempo era stato riformato, partì per il fronte  soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse  d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo di Azione Civile” di  Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e di svolgere propaganda a       4° LiBERO TANCREDI, A proposito di sciopero generale, «La Guerra Sociale», 24 aprile 1915.  150 Massimo Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò giuramento in una  caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7° reggimento fanteria prestano  giuramento, «Il Corriere della Sera», 12 luglio 1915) e fu inviato al fronte alla fine del mese.  Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di  complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di  guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si  arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi  Edoardo]. mia i o  Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all intero  svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di guerra di Malusardi - un  memoriale di un certo interesse, anche se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore  - si trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma il  23 ottobre 1929-VII, Torino, Druetto, 1930, pp. 51-62. £  !5! Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al 7°  reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo d’Italia», 22 luglio 1916, e «L’Iniziativa»,  12 agosto 1916). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo  pochi mesi.    57    favore della guerra) ‘°° si batté con passione, che non c’è motivo di non  ritenere sincera, per la revisione dei riformati!”,   Insieme ai nomi più celebri dell’anarcointerventismo, partirono,  volontariamente o perché richiamati alle armi, la maggior parte degli altri  anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli  quasi parossistici. L’anarchico romagnolo Domenico Ghetti, ad esempio,  riformato per evidenti questioni di salute, passò gli anni di guerra  nell’estenuante tentativo di farsi arruolare.    Cosa c'entra la visita — scrisse ad un periodico fiorentino alla fine del 1917 —  l’abilità o l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei  difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi  minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di un  popolo, dell’umanità [...], voglio dare il mio sangue, la mia vita contro  l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di coraggio,  così è il mio sentimento di libertario!5*    Qualche giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da  bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato!*5.       !5? Il “Gruppo di Azione Civile” si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Terenzio    Grandi e di altri esponenti del repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del  1917, quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr. «L’Iniziativa», 1  settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di  Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in  ottimi rapporti.   153 In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato e  spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto riconsiderata la  posizione di tutti i riformati. «Io poi — scrisse — prima categoria della classe 1883, sono stato  [...] riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli  amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati, «Il  Popolo d’Italia», 23 giugno 1915). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato  l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente sull’argomento. «E  un’umiliazione — affermò — inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è  quasi un bollo, che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e  discutibile [...]. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi ardentemente  sollecitata — e poscia magari — se necessità assoluta l’avesse richiesta — la tassa applicata ai  veri riformati, a quelli cioè che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero  rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza  nazionale» (MARIO GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva avere la  precedenza, Ibidem, 16 ottobre 1915).   154 «Il Nuovo Giornale», 21 novembre 1917.   !55 Domenico Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato  in Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In  quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore    58       D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e  propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al movimento  libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del  1915, amplificata dal quotidiano romano «Il Messaggero», si diffuse la  notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra  anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi  libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i  propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina  riportata da «L’ Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non  si corrompono), Aristide Ceccarelli condannò senza mezzi termini  quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo anarchico intitolato a  Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblicò una  dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate,  a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella quale si affermava che «il  comunicato apparso su “Il Messaggero”, invitante gli anarchici a inscriversi  nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al  richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella  della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e  dunque ch’era «erroneo il commento dei compagni che avevano creduto  sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced  adesione di anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,  quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse parte  degli anarchici all'indomani del 24 maggio 1915. i   Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione  tra gli opposti schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte (ed  è significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava  evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda di       di un “Comitato di difesa sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità  anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Nell’ottobre  del 1914 un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?, «L'Avvenire  anarchico», 22 ottobre 1914) gli era valso un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due  mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato in  possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò  dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di  un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo  arrestato (questa volta a Torino, il 4 giugno 1916) per aver causato gravi incidenti durante un  comizio di Maria Rygier. Nell’aprile 1918 Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    59       è 156 dea SPERO da 9  polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non si    sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine  delle ostilità.   La crisi dei Fasci, seguita all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a  rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il  movimento. L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario,  d’altronde, prima ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica, in  ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente  ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere.  Così, lungo tutto l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre  fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie  fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli  avvenimenti, la propria specificità ideale.   In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo  Corridoni, una delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo  rivoluzionario, acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per  assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-  simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”  sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come  a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare  le parole di Mario Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre,  perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione politica che       ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di “managgia” («Il Risveglio  Comunista-Anarchico», Ginevra, 24 luglio 1915), nel quale il giuramento di Massimo Rocca  era fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli.   Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato d’animo è rappresentato da un  volumetto di Raffaele Nerucci, pubblicato all’inizio del 1916 su interessamento di Alberto  Fontana e con prefazione di Charles Malato (Da/ di là del Rubicone, Pisa, Tipografia  Mariotti, 1916). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della propaganda  anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la  necessità di difendere la civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del  pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari. L’apologia  interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine,  appariva ancor più incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra  dell’Italia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci  abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di Marsiglia, annunziò di  aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. «L’Eco d’Italia», 27 agosto 1916).  Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare la trincea,  ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta  3526 [Nerucci Raffaello].   !57 Per un quadro complessivo delle traversie dell’interventismo rivoluzionario negli anni  della guerra, v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al  quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte.    60       aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della  vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella  tragica sorte di Corridoni.    Egli era — scriveva Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra gioventù,  tutta la nostra vagabonda, ardente gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa  politica e il dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia  de’mercanti !5    AI combattimento che costò la vita a Filippo Corridoni prese parte anche  Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico lombardo  inviò all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio di  autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che, ricolmo di  fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come  prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni che cade  eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in  breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista,    Malusardi in testa.    Mi trovo degente in un ospedale da campo — riferiva dunque Malusardi — ferito in  quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto alla  baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci perché  impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del  romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo  Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando  l’inno d’Oberdan'°    158 «Il Popolo d’Italia», 30 ottobre 1915. i 3 ni  Sulla figura di Filippo “Pippo” Corridoni v. il contributo di MARCO MELOTTO, Filippo  Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in «Storia in Lombardia», 1994, n. 1, pp. 107-  19 Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, «Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione  er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe.   © «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1915. i  La battaglia del 23 ottobre, detta della “trincea delle frasche”, fu fatale anche ad un anarchico  interventista toscano di nome Adino Contini. «Egli era - scrisse di lui Edoardo Malusardi - un  anarchico novatore. Un eretico su cui gravava l’anatema del “Sinedrio Anarchista” [...]. Il  suo anarchismo, come il mio, non era la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso  [...], ma bensi la teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I  suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Filippo Troja, caduto per 1 indipendenza  ellenica, e Cesare Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in  difesa della Serbia aggredita» («L’Iniziativa», 11 marzo 1916).    61    RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N    Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più  interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di  far confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito  Repubblicano. Nel novembre del 1915 Maria Rygier (che dallo scoppio della  guerra era andata sempre più accentuando la sua vicinanza al  mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale — anche in vista delle sfide  politiche del dopoguerra — rinsaldare l’unità del fronte interventista  rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di  ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito della Rygier fu  raccolto da Edoardo Malusardi. In una lettera inviata a «L’Iniziativa»  l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di unificare tutti i  partiti della sinistra interventista e d’accordo con la Rygier nel ritenere che  ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a condizione,  però, che questo non significasse un appiattimento sui programmi  repubblicani.    Gli unici che potrebbero trovarsi a disagio — notava a questo proposito Malusardi —  saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli  impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto  d’accordo [...]. Noi siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso  esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al  falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi  codardi capeggiatori [...]. Mentre i repubblicani subordinano la volontà individuale  a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici,       !©! Il definitivo approdo di Maria Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo  L'ombra sua ritorna ch'era dipartita («L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e  sentita celebrazione di Giuseppe Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e  destato speranze negli ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della Rygier — aveva  scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito Mazziniano Italiano — ch’era partita, ne’suoi  primordi, da premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera  politica dalla Romagna, «La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra,  Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensificò, se possibile, la  collaborazione con la stampa repubblicana, massime con «L’Iniziativa». L’infatuazione della  Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti  rivoluzionari (a cominciare da Alceste De Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in  particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per i  programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica, «Il  Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi,  «non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o  intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di  guerra il proprio filo-repubblicanesimo.   " Cfr. MARIA RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, «L’Iniziativa»,  27 novembre e 4 dicembre 1915.    62          pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione collettiva, non intendiamo che si  È RA ERI F 16  debba tarpare le ali alle iniziative individuali e le minoranze    Il rispetto delle minoranze e delle singole individualità era stato a  fondamento dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il Partito  Repubblicano avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva  Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze  dell’interventismo rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto avanzato  dalla Rygier rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra le forze della  sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte, durante come dopo la  guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua proposta, il cammino  personale di Maria Rygier verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di  rotta. Il 27 e 28 febbraio 1916 ella fu al congresso nazionale repubblicano di  Roma!95.    Non ho ancora la tessera — disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma  voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza  nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul determinismo  economico più gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini"    L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a Mazzini, e quella  tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano l’ebbe in realtà  pochissimo tempo dopo!.   Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora  crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla  propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli  interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera  disgregatrice del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza  molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della  nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per la  “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia, gli  interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati il       !0% Ibidem, 20 dicembre 1915.   !% Cfr. Ibidem. e su   !55 AI congresso giunsero anche i saluti di Mario Gioda, che diceva di seguire «con vivissima  simpatia il lavoro dell’unico partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano  sconvolto»; di Massimo Rocca, il quale auspicava che l’assise repubblicana potesse porre le  basi «per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo di  sentimento»; e di Duilio Lotti. /bidem, 4 marzo 1916.   106 Ivi,   !0? Cfr. Ibidem, 25 marzo 1916.    63             più delle volte in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a  Roma nel giugno del 1916 ad opera di forze prevalentemente democratiche,  che finì assai presto per essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo  di destra, infatti, e in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla  radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese  senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle  sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari.   La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella, più o meno  consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei propri ideali,  dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riunì a  Milano il 21 e 22 maggio 1916". Pochi giorni prima dell’inizio di quel  congresso, Mario Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande  perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo  spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria,  agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio  dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità, Gioda si era  augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di malcontento che  stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era detto convinto del buon  senso e delle virtù patriottiche del popolo italiano. Malgrado ciò, l’anarchico  torinese aveva avvertito la necessità di ribadire la ragionevolezza della  guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perché  «risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via «per maggiori conquiste, in un  ambiente europeo non più accidentato da agguati tedeschi e da barbarie  prussiana»!       !6* Per la cronaca del convegno v. «Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le  dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La grande adunata  di Milano e la parola dei nostri compagni, «L’Internazionale», 17 giugno 1916.   '5° MARIO GIODA, Perché questa guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia», 17 maggio 1916.  Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare  lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. «Mentre il  mondo — aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva per  l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste  di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non conquisterà  se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni» (MARIO  GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, «L’Iniziativa», 1 maggio  1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da «Il  Popolo d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non avrebbe  mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso  socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto  risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non  avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare  secondo le circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di classe sarebbe diventata fine    64       AI convegno milanese presero parte Maria Rygier, che vi svolse una  relazione sul tema “Neutralismo e neutralisti”!’°, e Massimo Rocca, in  licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece portavoce di una convinzione che,  in forma più o meno velata, cominciava a circolare anche tra gli interventisti  di sinistra: la convinzione, cioè, che il Governo dovesse adottare dei  provvedimenti, i più severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista.  L’azione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi:  «positiva» e «negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero  dovuto intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era  giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure  energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”.    Noi — affermò Rocca - dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti  abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di  domandare che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di  porre un freno!”    La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui  sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di una condotta  realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti, in       a se stessa, e nessun alito di umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso  nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso Gioda -  non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini «economici», ma un insieme  complesso di individui, formanti una comunità con più alte e profonde aspirazioni; ed era  pertanto «inutile, sciocco e disonesto il ripetere [...] al popolo che solo la lotta di classe lo  avrebbe dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese». Questi î  passaggi sono — a nostro avviso — di capitale importanza. E” infatti in questa visione dei  rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che  deve rintracciarsi il motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle  ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per successive  corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro  dall’antisocialismo all’antioperaismo tout court.   !7° In «Il Popolo d’Italia» 19 maggio 1916. sati   !! «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio riportava le adesioni al convegno di altri due  anarcointerventisti: Adolfo Fanelli e Tomaso Dal Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo  qui per la prima volta, può esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è  giunta notizia. Il panettiere Adolfo Fanelli era nato a La Spezia nel 1889. «Anarchico  convinto, che prendeva parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito» (come lo aveva  descritto un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto del 1912), Fanelli era stato  gerente responsabile de «Il Libertario» dal dicembre 1912 al gennaio 1913. Divenuto  interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di La  Spezia. Nel dopoguerra aderì al fascismo, iscrivendosi al PNF nell’agosto del 1922. ACS,  CPC, Busta 1943 [Fanelli Adolfo].   172 «Il Popolo d’Italia», 23 maggio 1916.    65                sede di discussione, avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente  l’operato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore  realismo politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva  assumersi per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la  quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?.   Nei restanti due anni di guerra Massimo Rocca fu, insieme alla Rygier, il  più attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde, già  nel settembre del 1916 egli venne ricoverato all’ospedale militare di Milano  per una grave forma d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei  mesi (rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di  dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione  politica’. Il 1916 vide altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica  predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come attestato  dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro // Mare  Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni dei  nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un interesse  passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in modo  drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di politica  economica. - la nota predominante dell’attività di Massimo Rocca nel  biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entrò nella  redazione del quotidiano milanese «La Perseveranza», avviando, sulle  pagine di quel giornale, una serrata campagna a sostegno dell’italianità della  Dalmazia, campagna che gli attirò gli strali polemici di Gaetano  Salvemini!”       173 Cfr. Ibidem.   !74 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca Massimo].   !75 L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un attivismo capillare che non  disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione  indetta dal Fascio interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in procinto  di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 23 settembre 1916). Ancora nell’aprile del  1918 la Prefettura romana annotava che Rocca, «pur conservando le sue idee sovversive»,  continuava a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca  Massimo].   !7 La posizione di Salvemini (espressa a chiare lettere nel volume La questione  dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di  nazionalità, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di  Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale,  «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal  canto suo, non risparmiò le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per  l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, «La  Perseveranza», 5 e 17 marzo 1918).    66       L’approdo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un  foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti,  sebbene Rocca avesse già in passato manifestato simpatie per la destra, fu in  questo arco di tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della  guerra, che si consumò la sua definitiva trasformazione politica; fu allora,  per meglio dire, che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto  dal movimento libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni  residuo sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale,  passando attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,  Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni  che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo “illuminato” sul  piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul  piano economico. In entrambi i casi, però, i legami con il fondo elitario del  novatorismo restavano evidenti. L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla .  sua personale convinzione di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte  nobile - più meritevole perché più capace - del popolo italiano (proprio in  quegli anni, d’altra parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il  suo ciclo di studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo  passaggio era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Massimo  Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto  monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,  fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca  non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo del 1918.   Nel maggio del 1917 Rocca aderì al “Comitato d’azione per la resistenza  interna”, sorto a Milano su iniziativa di Ottavio Dinale allo scopo di  coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro  opera'??. In qualità di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al  secondo convegno nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato  a Roma all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una       !?? Rocca conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla  facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano.   17% Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava  un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato il 7 maggio 1917: «Reclamare dal.  Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che  infestano il nostro Paese» («Il Popolo d’Italia», 8 maggio 1917). Alla fine del mese il  Comitato inviò un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche  l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro  tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da «Il Popolo d’Italia» del  27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA,  Fascicolo 19.9.2 [Movimento interventista].    67       sorta di documento programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?.  Nonostante il tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo,  tanto sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le  grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle  misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa  all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità  rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne al  Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne seguì, a  livello politico-militare come a livello emotivo, e la conseguente  demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe contribuito non poco a  mischiare le carte in tavola, spostando decisamente a destra l’asse della  politica interventista. Le divergenze tra le diverse forze dell’interventismo  finirono per appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi  riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine  della guerra.       19° V. «Il Popolo d’Italia», 2 e 3 luglio 1917, e l’articolo // Congresso Interventista di Roma in  difesa degli operai e della pace giusta, «L’Internazionale», 21 luglio 1917 (l’organo  sindacalista parmense riprese le pubblicazioni proprio il 21 di luglio, dopo una sospensione di  quasi un anno).   10 E° molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli  anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è ragionevole credere che  la loro opinione non differisse da quella degli altri protagonisti dell’interventismo  rivoluzionario, sempre più orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza  importante, anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi, il  quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli  ‘amministratori socialisti da Costantino Lazzari (un gesto che, nell’opinione del segretario del  Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe  potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano  perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante fenomeno di perfidia e di vigliaccheria»  (EMME, Son purl..., Ibidem, 22 settembre 1917).    68       I    FASCISMO    L’anarcointerventismo alla prova della “nuova” Italia    Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del dopoguerra non  è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio, il blocco  dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un tutt'uno, per  disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la nascita di nuove  formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte i Fasci di  combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé  già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per  sua stessa natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo  processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio  Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé, è  tuttavia possibile — come si accennava nell’introduzione -, attraverso la  vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i  segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti,  alcuni, come Oberdan Gigli e Maria Rygier, finirono per isolarsi  progressivamente dal gioco politico e per non avere che una parte di secondo  piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri, come Attilio  Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il movimento  anarchico, rientrando a pieno titolo nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine,       ' Nel caso di Gigli, si può affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto  termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la politica,  tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., p. 84.   Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si  ivvicinò all’Associazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un  atteggiamento sostanzialmente ambiguo. Nel 1926 fu comunque costretta ad espatriare in  Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la sua  travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Morì a Roma nel febbraio del 1953.  (fr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV, ad nomen.   ? Nel luglio del 1919 Paolinelli fu arrestato con l’accusa di aver preso parte al complotto di  Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e arditi, tentò  d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli  anarchici individualisti - a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione antifascista.    69          come Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo Rocca, si guadagnarono  un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,  quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda  all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel  prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in  relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare in  essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente    riconducibile alla doppia e complessa eredità dell’individualismo anarchico ©  riconoscervi, pur |  nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non |    e dell’anarcointerventismo, è però possibile  pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel  valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al movimento  mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo trascurabile),    occorre poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un |    monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini,    si distingueva piuttosto - come lucidamente notava Renzo De Felice ©    nell’introduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per  essere una «serie di stratificazioni»ì, un accumulo di passioni e d’idee    diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e |  contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena.    anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicità — evidente nei  diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per  così dire, un modello in scala ridotta.   La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in  ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità, anche  se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio, si  verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della  corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in  grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal    rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come quella |  partita da Domenico Ghetti‘, l'esperimento di maggior sostanza in questa |       Nel 1927 fu condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo  nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli Attilio].   i RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII.   4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Domenico  Ghetti agli «anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione alla  nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno  del 1919 la Prefettura di Milano, città nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla  fine del conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi mussoliniani» in  seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    70       direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera del 1919,  gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La Spezia a guerra  in corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal  noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un  nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista.    Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annotava il 31 marzo il Prefetto di  Genova — non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del  periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto  deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato «La  Protesta», che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione  avrebbe come programma l’illustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi  tempi sortiti in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra”    Il prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo,  delle dure polemiche d’anteguerra, indussero «Il Libertario» a prendere  nettamente le distanze da quell’iniziativa.    Parecchi compagni da varie località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono  spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò, colla quale si  annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in  blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha più nulla di comune cogli  anarchici di Spezia e tanto meno con noi del «Libertario»®    Alla fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» - ormai organo ufficioso dei nuovi  Fasci mussoliniani - ospitò un accorato appello di D’Angiò a tutti i «libertari  interventisti», affinché dessero il loro contributo, anche economico, alla  realizzazione de «La Protesta».    Ciò che io desidero — scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto di vista — è che  tutti gli anarchici d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,  abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star  zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo  reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le  nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci  opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri  anarchici”       + Ibidem, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].  ® «Il Libertario», 22 maggio 1919.  ? «Il Popolo d’Italia», 29 maggio 1919    71       IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA    Il primo numero de «La Protesta» uscì il 16 luglio. «Noi — si affermava  nell’editoriale — facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né  meno». Come prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli  anarchici interventisti era quello di rivendicare la propria appartenenza alla  famiglia anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che  mai propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva  passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.    Lo sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La Protesta» -  ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di  emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del  socialismo ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri, è tutto  [...]. Noi, nel rivolgerci alla massa, dobbiamo parlare all’individuo”    Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in  ambito anarcointerventista'’, il giornale di Roberto D’Angiò non sopravvisse    al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stesso D’Angiò a ritirarsi _    a vita privata".  Lo sforzo, tentato da D’Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici    interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente |  “rinnovatrice” del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli .    anarchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu fecondo    anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con |    l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare brevemente. E’ nota, ad  esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso biennio 1919-1920, gli    interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - _    guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due  schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi    d’incontro, particolarmente la comune ostilità nei confronti dei socialisti    “bolscevizzati” e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e  “parolaio” (Errico Malatesta manifestò a più riprese le sue riserve nei  confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul piano puramente strategico non       8 «La Protesta», 16 luglio 1919.   ? Le coscienze volitive, Ibidem, 14 agosto 1919.   0 Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni  - per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de «La Protesta»  ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Oberdan Gigli a Ruffo Sarti,  da Alberto Fontana ad Alberto Senigallia. Cfr. /bidem.   È D’Angiò morì a Milano nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].   © L’iniziale cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò  gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo    72          era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad un’intesa d’azione  in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la vicenda del progettato  tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto  estendersi da Fiume, occupata dai legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta  la Penisola. Il piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in  Italia nel dicembre 1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione  dei lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto  favorevolmente dalla stampa filo-fiumana) '*, fallì, a quanto pare, solo per la  ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto  all’impresa'‘.   La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si  manifestò anche per altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non  devono però meravigliare più di tanto, quando si tenga conto. della  multiformità delle posizioni all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il  processo di ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita  di connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de       autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione  di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati  all’argomento tra il 1919 e il 1924. Una scelta significativa di questi scritti (originariamente  apparsi su «Umanità Nova» e «Pensiero e Volontà») si trova in ERRICO MALATESTA,  Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,  Edizioni e/o, 1998.   ! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di  Malatesta, rilevò, a proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli era  forse «meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti  dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore  strumentale (al riguardo v. ARMANDO BORGHI, op. cit., pp. 203-204). Del resto, l’infatuazione  del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il  duro articolo Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, ancora per  tutto il 1920, l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai   iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”.   4 Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel  carteggio De Ambris — D'Annunzio, cit., p77 ss.   !5 Tra gli esempi più significativi di questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato  quello degli anarchici triestini Luigi Marcello Andriani e Carlo Ukmar. Nell’ottobre del 1918,  dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che erano membri di riguardo  del gruppo libertario “Germinal”, il più importante di Trieste) entrarono nel Fascio Nazionale,  costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta alla  madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava il manifesto del Fascio  Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo  costituiti in Fascio Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con la  Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!, «La Nazione», 1  novembre 1918). Su Andriani e Ukmar v. ENNIO MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il  dominio asburgico, Milano, Giuffrè, 1977, ad indicem.    73          «La Testa di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto dall’ardito e  futurista Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo d’incontro e di  confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e  certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste  dal titolo emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso  la rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le       !6 Mario Carli, nato in provincia di Foggia nel 1889 ma fiorentino d’adozione, era stato uno  dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del  giornale «Roma Futurista» (Emilio Settimelli, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Rocca,  Giuseppe Bottai, ecc.) fu tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il futurismo politico, al  quale dettero un apporto considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano  degli arditi, si fece promotore, nel gennaio 1919, dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), era  decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,  contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. «Il programma dei Fasci di  Combattimento creati da Mussolini — commentava «Roma Futurista» nell’aprile del 1919 - è  sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le due istituzioni  finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei  combattenti».   Sulla figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma, Istituto  della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché il contributo di ANNA SCARANTINO,  L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12  ss. Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. RENZO DE FELICE, Mussolini  il rivoluzionario, cit., p. 474 ss., EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista (1918-  1925), Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalità e al  ruolo di Filippo Tommaso Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,  Ravenna, Longo, 1989, pp. 107 ss.   Li «Nichilismo», diretta da Carlo Molaschi, uscì a Milano tra l’aprile del 1920 e il marzo  1921; «L’Iconoclasta», fondata da Virginio Gozzoli, vide la luce a Pistoia in due periodi  distinti, lungo un arco di tempo compreso tra il maggio del 1919 e l’aprile del 1921. Cfr.  LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio  individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su «L’Iconoclasta» del  15 maggio 1920 (ma se ne potrebbero citare molti altri). «Quale differenza — vi si leggeva -  corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo  paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione collettiva? Nessuna! [...] Nella stessa  guisa han perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile [...].  Sono dei deboli [...]. Essi non sentono la propria individualità che vuole affermarsi, godere,  vivere [...]. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico [...]. Vorrebbero  che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare [...]. Io che voglio bere il  profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare l’aere della Libertà  sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla mediocrità [...]. Io  lotto per me, unicamente per me [...]. Sono al di la del Bene e del Male». In ogni caso,  posizioni di questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli (che -  come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un articolo significativamente  intitolato /ndividualismo o futurismo?, Camillo Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze  e vuote», gli scritti di Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro autori,    74       pubblicazioni nel febbraio del 1920, si aprì ai contributi di quegli anarchici  individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla retorica  “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano un’arma  potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un mezzo di  realizzazione personale"8.   In polemica con «Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento  anarchico italiano, fondato da Malatesta all’inizio del 1920), che guardava  con naturale diffidenza alla “rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive  dei futuristi”, Mario Carli affermava recisamente il carattere proletario e  progressista del futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con  l’anarchismo:    Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del  mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il  papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E°  per questo che, non potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né  avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla  concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero  e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”    A sua volta, Filippo Tommaso Marinetti, rispondendo a un anarchico che,  pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno  dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!, invitava gli  anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il pessimismo vano», per aderire alla  lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre  gli anarchici erano «tutti più o meno dei futuristi antipratici, platonici e  pessimisti», i futuristi erano «degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un  campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria»??.       ! Tra gli anarchici collaboratori de «La Testa di Ferro» si contava anche Domenico Ghetti,  responsabile dell’ufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia.   !9 Si veda, in modo particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Gigi Damiani), in  «Umanità Nova», 28 settembre 1920.   20 MARIO CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro», 3 ottobre 1920.   ?! Cfr. BrUTNO, Patria, Ibidem, 10 ottobre 1920.   22 Ivi.   In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni de «La Testa di Ferro»,  l'opuscolo A/ di là del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”. In  esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della  sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario. «Vogliamo —  affermava tra l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei  carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di  individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci».    75       K }  Sisonialitga al quale facevano riferimento Carli, Marinetti e  u uristi de «La Testa di Ferro» era il medesimo c  in l’individualista Abele Ricieri Ferrari  ov. o ETTARI FRI 3  atore, descriveva come «agilità volitiva,  poesia»    i gli altri  he, in quello stesso  meglio noto come Renzo  violenza creatrice [  dl . »_ x . O . uo: 4  ca di ei o minoritario, puramente concettuale, pio  Ismo nietzschiano, che niente a 6  $ d F Veva a che veder  il movimentismo malatesti ì sconti  stiano, così pervaso di i È  i mala umanesimo, né con il  comunismo libertario di «Umanità x i  ità Nova» (col qual i, si i  munism i i quale, anzi, si poneva in netta  antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo storico    I primi contatti col fascismo    Chiusa questa parentesi, è dunque il momento di tornare alle vicende dei  protagonisti dell’anarcointerventismo in procinto di vestire la cami ta nese  di seguirne il cammino nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di  Massimo Rocca. i vandi.  In questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca era per lo più  rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd  dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità di  propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri” Sebb  Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la vera.  Rocca non ne condivideva le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai       23  MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro», 7 novembre 1920.  Bocea È, pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de «L’Iconoclasta».  sponenti della corrente anarcoindividualist: i È  Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri;  va in RENZO NOVATORE, Un fiore selvaggio, Pi  A pr E; beds  seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Alberto Cimmii o ui  fr vm Testa di Ferro» del 12 dicembre 1920, un certo Atomon ribadiva che i futuristi  Ri nino ma sh individualisti, bollando come «antianarchica» l'Unione Anarchica  ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi  e À comuniste, si limitava a fare della  a , la vera anarchia non doveva dare al i  «fattore economico dell’esistenza», ma rici i FI nat  ) ; ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i  sopra di ogni pregiudizio o di ogni do, Ò ITA a  opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo futuri  distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a  s ova» dal Partito Socialista, mostrando di ire i  primo al secondo, e definiva Errico Malatesta, d i quaglie  do, lel I  morale», un «agitatore e apostolo». - AE  Rocca era membro del “Fascio delle iazioni iotti  2€1 ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i  L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo] Faggi  Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98.    76       suoi numerosi articoli per «La Perseveranza», a cui continuò a collaborare  fino al luglio del 1919 (quando il mutamento della linea editoriale,  sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consigliò l’abbandono), la sua  posizione non andava oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che  egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente  italiane. Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì  di attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida  Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning Post», sia  dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Il 17 gennaio 1919 Rocca prese  parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che  fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader socialriformista,  comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire  Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare incidenti»”8. Ai primi di  marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana,  da Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta  dell’ Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece  pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la  consueta e un po’ pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare  l'italianità della Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due  nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di  aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire da  vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson agli  italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale  francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del  “wilsonismo”, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”, abbandonò       7 A questo riguardo v. LIBERO TANCREDI, // ministro della piccola Italia, «La Perseveranza»,  11 gennaio 1919, e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo, Ibidem, 13 gennaio  1919.   28 Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491.   Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919.   29 Cfr. LiBERO TANCREDI, La passione di Spalato, «La Perseveranza», 12, 14 e 17 marzo  1919.   30 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 13 marzo 1919, e «La Perseveranza», 17 marzo 1919.   3! Cfr. MassIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77.   32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega  latina, fondata sull’alleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”  anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi  favorevole ad una partecipazione italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola — scrisse -  avrebbe potuto garantire «giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani  dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi» (LIBERO  TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, «La Perseveranza», 5 gennaio 1919).    77                ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito dell’annessione, ormai  - a suo dire - «l’unica via percorribile». AI congresso “per l'annessione di  Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a Milano, su iniziativa del “Fascio  delle associazioni patriottiche”, il 28 aprile 1919, Rocca non lesinò le accuse  a Wilson, denunciando il torbido «retroscena bancario internazionale che si  nascondeva dietro la figura del presidente filosofo».   Da questo momento i toni della propaganda estera di Massimo Rocca si  fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo torinese  dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare «la  necessità di un imperialismo senza confini», qualora la crescente ostilità  internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero» all’interno del paese, con  i suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto  danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di  provvedere pacificamente all’acquisto delle materie prime indispensabili”.  Questi ultimi accenni alla situazione interna dell’Italia ci consentono di  soffermarci sugli aspetti più propriamente economici del pensiero di  Massimo Rocca. La sua visione economica, infatti, che rimarrà pressoché  inalterata negli anni a venire, si veniva proprio allora configurando come una  mistura di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano.  Così, a proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca  esprimeva l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema  otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il  rendimento degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo  economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro  accresciute responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra  capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei  lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi dalla storia e  dal divenire sociale [...], dai problemi, dai doveri e dalla responsabilità  ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena compartecipazione al  ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo nazionale. Quanto alla  borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un lato quello di  comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di prendere  consapevolezza dell’ormai inscindibile legame tra politica ed economia;  dall’altro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di       33 Ip., Audacia (appunti per l'On. Orlando), Ibidem, 29 aprile 1919.  34 «Il Popolo d’Italia», 29 aprile 1919.    3° LiseRO TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa  Nazionale», 8 giugno 1919.    ID., Le otto ore internazionali di lavoro, «La Perseveranza», 26 gennaio 1919,  2 ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di industriali, Ibidem, 2 febbraio 1919,    78       opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di provvedere  all’integrazione e all’educazione del proletariato”. «Occorre che la classe  dirigente - scriveva Rocca - od almeno i suoi elementi migliori,  comprendano che il loro ufficio non è solo di “resistere” o di “concedere”,  ma di persuadere e di guidare»??. o  Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale,  nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti  e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione  che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la “demagogia  bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai «Fasci di  combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”. Questa  affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però altrimenti  accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non  dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per  l’iniziativa di Mussolini. Di  Fin dai primi di marzo del 1919 «Il Popolo d’Italia» aveva lanciato un invito  per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le  molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo,  ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il «vecchio anarchico»  Vittorio Boattini (che si diceva «toto corde» con Mussolini, «per le sante  bastonature interventiste ed anti-bolsceviche») 4 Carlo Rivellini e  Domenico Ghetti. «Gli anarchici coscienti — scriveva quest’ultimo al suo  conterraneo Mussolini — non potranno che aderire al vostro appello» “. i  Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu senz'altro presente Mario  Gioda, che aveva da subito aderito all’appello di Mussolini i Secondo Mario  Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa  riferimento alla cronaca de «Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte       3 Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.   sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. 7   4° Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31.   "i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT  i era nato a Meldola, nei pressi di Forlì, nel 1862. Fin da giovanissimo aveva  manifestato idee anarchiche. Nel 1903 si era trasferito a Milano, dove aveva a Li  collaborato a «Il Grido della Folla». Nell'ottobre del 1919 la Prefettura milanese scriveva che,  avendo egli, durante la guerra, «militato [...] nel campo interventista», si dimostrava «un  fervente nazionalista», in tal senso svolgendo «attiva propaganda». Il figlio di Boattini, pe  fu per qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta  679 [Boattini Vittorio].   #2 Il Popolo d’Italia», 21 marzo 1919.   4 Cfr. Ibidem, 7 marzo 1919.    79          anche Edoardo Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in un  telegramma di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto dispiaciuto,  trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente,  limitandosi a garantire la sua presenza «in ispirito», per «riaffermare  recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni dopo,  Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è affatto  probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a  retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di coscienza”””.       4 Cfr. MARIO GIAMPAOLI, /9/9, Roma, Libreria del Littorio, 1920, pp. 97-98.   In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare «Il Popolo  d’Italia» del 24 marzo 1919), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e  di Bologna. *   4 «Il Popolo d’Italia», 9 marzo 1919.  4 Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e Commiato, in «Audacia», 28 maggio e 18   iugno 1921.   D Degli anarchici interventisti che sposarono la causa fascista, uno fra i più intraprendenti fu  Leandro Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, aderì al Fascio di Bologna soltanto nel settembre  del 1919, a più di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese - nato  nell’aprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica -  Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la notorietà  conquistata nel novembre 1919, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di  Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio  d’ordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia», 14  novembre e 20 dicembre 1919). Fu a partire dalla primavera del 1920, in parallelo con  l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata  con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati iniziò una  spregiudicata ascesa politica. L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli  affidò la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso fascista di  Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. «Il  Popolo d’Italia», 29 maggio 1920). Tra il settembre e l’ottobre successivi, Arpinati, complice  il subbuglio seguito all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria  riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi  il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più conservatori. Il Fascio di Bologna, così  ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di primo  piano, divenne una delle centrali dello squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi  protagonista di un’impressionante escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le  elezioni amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo  D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti questi punti  v. FIORENZA TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note sulle origini del  fascismo a Bologna (1919-1920), in Bologna 1920. Le origini del fascismo, a cura di Luciano  Casali, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 93-114, e NAZARIO SAURO ONOFRI, La strage di Palazzo  D'Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, 1980,    80       Mario Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo    A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e  con un certo distacco‘, Mario Gioda si gettò anima e corpo nella nuova  avventura. Il 25 marzo 1919, due giorni dopo l’adunanza di Piazza San  Sepolcro, Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i  promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la  segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda -  come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un ometto  dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito  marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che quello del  tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente il 28 marzo,  prese sede nei locali della “Lega d’azione antitedesca”, un’associazione  patriottica di destra sorta nel 1916 ad opera del nazionalista Vittorio Cian” .  Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura  notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire incontro  alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di far apparire il  fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) 5°. nacque  dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi da       4 Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu  dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto  granché in simpatia «colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato nell’estate del 1914,  obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe  preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia  di un regime, Roma, Editrice La Rocca, 1959, p. 339).   49 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 marzo 1919.   50 CARLO ANTONIO AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, «La  Stampa», 25 marzo 1931. : :   5 In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro Torino”, in Galleria Nazionale,  un'associazione patriottica di stampo sabaudo presieduta dal conte Barbavara di Gravellona.  Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono  un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il 29  marzo, l’anarchico “trincerista” Vincenzo Boario recò le adesioni dei gruppi fascisti del  Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr. MARIO GIODA, Il fervido lavoro dei  fascisti a Torino, «Il Popolo d’Italia», 30 marzo 1919. i )   5? La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente ammantata di retorica,  appariva sincera. Già prima della nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si  era fatto promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di congedo  agli smobilitati, rappresentanti «l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio verde» (ID.,  Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919).    81       PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA       subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari  tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo l’avvento di Cesare Maria  De Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice piemontese  («cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la definizione che  egli dava di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne  divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La  convivenza tra i due uomini forti del fascismo torinese, così diversi per  indole, per estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito  molto difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra  l’ironia e la commiserazione, che De Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha  lasciato di Gioda: «un povero diavolo dalle molte vicende».   Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla  simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino - come  rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era «stanca di essere  diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*, allora il  fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento  d’ordine, «più che mai indispensabile» a svolgere una decisa azione «di  vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di  combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali  torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente  frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire la  graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. «Il lavoro —       53 Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto  efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino  riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di  seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico»,  vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,  Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e  riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].  Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,  »p.I/.   Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad nomen.  3 CESARE M. DE VECCHI, op. cit., p. 15.   «La Riscossa Nazionale», 20 aprile 1919.  57 Ibidem, 11 maggio 1919.  58 Cf. «Il Popolo d’Italia», 24 aprile 1919.  Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa Eleonora  Contini di Castelseprio.   Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di un’occasione, sulle  pagine de «Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento  riservato ai fascisti torinesi dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna  diffamatoria della giolittiana «La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.    82          scriveva Gioda a Michele Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del  Fascio - procede benissimo e tra molto entusiasmo». «Il Fascio si è  imposto — confermava di lì a poco a Mussolini — e se noi non ci lasciamo  sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!.   Ma qual era, in tutto questo, il vero ruolo di Mario Gioda? Se egli era  senz'altro consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino  dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però  scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della  reazione antipopolare «l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio  dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a quella,  più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e sempre  sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il  carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso  accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane», senza distinzione di parte  o di colore politico (perché il fascismo doveva essere — anarchicamente -  l’”antipartito”) 4, teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e  antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per «dei nemici  del proletariato». Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo  convegno regionale dei Fasci piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e       a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito  Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta 17, Lettera di Mario  Gioda a Michele Bianchi, 29 aprile 1919.  ©! Ibidem, Lettera di Mario Gioda a Mussolini, 2 maggio 1919.  © EMMA MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di  Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, 1987, p.246.  9 L'idea di antipartito era già da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda.  L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo  individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e  antiparlamentari del dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda nel febbraio del 1919 —  vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i  politicanti». Contro il «feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi «coll’elettamente  dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva suscitare  «l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa «iconoclasta e squisitamente anarchica»,  in grado di restituire dignità e centralità ai singoli individui (MARIO GIODA, L'antipartito, «Il  Popolo d’Italia», 10 febbraio 1919). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del  produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo fascista  Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di una simile  impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik  Ibsen uno dei padri spirituali dell’antipartito).   Sul concetto di antipartito nel primo fascismo v. EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia  fascista, cit., p. 70 ss.   © MARIO GIODA, Aspetti del fascismo torinese, «Il Fascio», 15 agosto 1919.   95 Cfr, «Il Popolo d’Italia», 3 giugno 1919.    83       riaffermata poi in più di un frangente. Il 19 giugno, ad esempio, «Il Popolo  d’Italia» riportava un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto,  che l’autore stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel  campo dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva  sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto  ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che «l’approvazione, da  parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri» non poteva non  destare «un senso di legittima soddisfazione», dal momento che vedeva  tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il fatto che poi, in occasione dello  “scioperissimo” del 20 e 21 luglio, il Fascio di Torino assumesse, nei  confronti degli scioperanti, una posizione di aperta sfida‘, non muta i  termini del problema, in quanto l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata  contro la politica “irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente  condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la totalità  dei lavoratori!”.   E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente  sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Renzo De Felice - espresse  qualche perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta  pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio  Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche quella  definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e       5 Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza  mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela  dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos bolscevico». Allo stesso tempo, il  manifesto ricordava ai lavoratori che «nessun partito socialista ufficiale aveva scopi  violentemente innovatori come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione». /bidem,  17 luglio 1919.   Sullo “scioperissimo” a Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. «La  Stampa» del 2., 22 e 23 luglio 1919.   9 L’atteggiamento dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato dalle  lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla  redazione de «L’Ardito», il giornale dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a  Mussolini (che ne definì la lettera «un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna  intenzione di «subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a  cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro («Il Popolo d’Italia»,  20 luglio 1919). Su «Il Giornale del mattino» del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio  bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve una lettera non meno polemica del ferroviere  Leandro Arpinati. Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica  proprio in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il  20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli all’astensione dal  lavoro (cfr. TORQUATO NANNI, op. cit., p. 44).   67] programma, elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la  rappresentanza integrale, fu reso noto da «Il Popolo d’Italia» del 13 maggio 1919,    84       chiarire i nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di  Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri  interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in netta  preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni  un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato  le vicende successive alle elezioni politiche del 1921, non aveva rinnegato il  proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da  considerazioni di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello  di un suo personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur  numerose concessioni alla destra.   La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la  sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti  riformisti), si presentò con sempre maggior forza in previsione delle elezioni  politiche dell’autunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il  movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano  a ridosso del voto) ”, ma che, a Torino, prendeva un significato particolare.  Già il primo agosto 1919, in una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda  definì l’eventualità che si addivenisse a un blocco elettorale di tutto  l’interventismo di sinistra — la soluzione preferita da Mussolini - «una sterile  palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del  Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non  avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i  propri obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de «La  Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute  dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i  fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”. Gioda,  consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi,  intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini — sostenne -  esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta,  almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista.  Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali  di sorta.       © In RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 518.    7° A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla  decisione, votata il 22 ottobre dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla  “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr.  Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale romana, «Roma Futurista», 2 novembre    "! In Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, p. 541.  7? Massimo RAVA, Posizione di battaglia, «La Riscossa Nazionale», 3 agosto 1919.    85          Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo politicamente certi nazionalisti di  indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne conosco nessuno. Così come  ignoro repubblicani, monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI  Fascio, che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un  dato programma di realizzazione immediata [...]. Tra parentesi, sono stato proprio  io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e  De Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio”    Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno  scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere  antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica della  vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso  specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche misura)  anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di significato,  d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità rappresentata dal  fascismo rispetto alle categorie politiche d’anteguerra, richiamasse tuttavia la  propria identità di anarchico, e non già come semplice attitudine o abitudine  mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il  fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda  poté confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito «l’asse  per una grande intesa degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che  questa. sarebbe appunto avvenuta «fascisticamente», fuori dagli schemi  destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal «colore della tessera di  partito».   La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di  Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di  unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di  in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta Italia), nel  quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di sinistra e di destra, dai  repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero,  che avrebbe ben presto ceduto il passo a una più grande incertezza.       73 MARIO GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, Ibidem, 10 agosto 1919.  tai Ip., Gli aspetti del fascismo torinese, cit.   Il 2 settembre, nel corso di un’adunata del Fascio torinese alla presenza del segretario politico  generale del movimento Umberto Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero  battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 4  settembre 1919.   ?° Cfr. Ibidem, 3 ottobre 1919, e «Il Fascio», 4 ottobre 1919.    86       Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto, contrariamente alle  aspettative del segretario del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo  defilato), un’indicazione univoca in senso elettorale. Alla relazione di  Michele Bianchi, fautore di una linea politica possibilista (la politica del  “caso per caso”), fece da contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in  modo non esplicito, lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire  l’accordo con le sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del  giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli  Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra, finì  per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella sola  Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una lista  autonoma) 7”.   I deliberati del congresso di Firenze, nella loro elasticità, andavano  sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il quale, libero da  condizionamenti di sorta, poté rivolgersi alle forze politiche torinesi con  l’invito ad abbandonare «le fazioni» e a dar corpo ad «un potente fascio di  energie», in funzione antibolscevica e antigiolittiana”. Per questa via si  addivenne infine alla costituzione di un “Blocco della Vittoria”, peraltro  chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne  facevano parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali  alcuni membri del disciolto “Fascio Parlamentare” (Edoardo Daneo,       Sull’occupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. ROBERTO  VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo (1918-1922), Vol. I, Dalla fine  della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967, p. 503  ss., MICHAEL ARTHUR LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, 1975, FRANCESCO  PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, 1988, e MICHEL OSTENC,  op. cit, pp. 131 ss. Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a GABRIELE  D'ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, 1974, pp.  VII-LXXVIIL   7% Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 568 ss.   Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni 9 e 10 ottobre  1919 (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia», 10, 11 e 12 ottobre 1919). Cesare Maria De  Vecchi entrò a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei  Fasci piemontesi.   Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di  combattimento di Milano al momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori  della sede dell’ «Avanti!», il 15 aprile 1919. «La sua candidatura — scriveva «Il Popolo  d’Italia» del 16 novembre 1919 — significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per  formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione [...]. Nella lista dei Fasci egli  rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°,  su un novero di 19 candidati, con 56 voti di preferenza.   78 MARIO GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919,  e «Il Fascio», 1 novembre 1919    87          Giuseppe Bevione e l’ex Presidente del Consiglio Paolo Boselli), mentre il  Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale  Donato Etna, già comandante del corpo d’armata di Torino (deposto su  ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini Giovan Battista  Garino e il capitano Luigi Revelli”. L’Unione Socialista Italiana, che in un  primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se ne tirò fuori quasi  subito, per far causa comune con i repubblicani nella “Alleanza Elettorale”®°.  A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una  strada a rischio. Si nota infatti, nella sua attività politica prima delle elezioni,  la preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del “Blocco della  Vittoria” troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo  illustrativo per «Il Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più  rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un  contenuto sociale «notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora  una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i  lavoratori nel loro insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra  “pussisti” e socialisti rivoluzionari.    Un accenno alla lotta contro il bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un  passo della piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da       9 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919.   AI “Blocco della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale  Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio,  il 29 ottobre, Gioda criticò duramente la scelta dei combattenti, non tanto perché non ne  condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta  parlamentare), quanto, piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano tattico. «I  fascisti — disse Gioda — hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e  comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo  originale autografo del discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il  carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 111 [Documenti].   ° «Il Fascio — commentava a questo riguardo Gioda — non ha potuto far blocco con l’Unione  Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto  per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe  impostare la campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo»  (MARIO GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, «Il Popolo  d’Italia», 6 novembre 1919).   8 Ip, // programma elettorale del Blocco della Vittoria, Ibidem, 1 novembre 1919.   Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria” figuravano:  l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema  doganale (per abbattere «parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione  obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi  legislativi che garantisse «alla classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza».    nisticntiititnm       parte dei redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.  Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario  sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da  Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo  rivoluzionario*”    Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei  fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del “Blocco della Vittoria” i soli  Bevione e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riuscì De  Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino 83. Rispetto alla vera e propria  débacle registrata dal fascismo in altre parti d’Italia, non si trattava di un  esito disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non  ottennero alcunché (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo  parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne,  sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di «brillante  risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una  ben magra consolazione . su   In verità, la sconfitta bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento  all’interno del Fascio di Torino. Il 13 dicembre 1919 si riunì l'assemblea  generale dei fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo  Ruggeri, spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del  Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori  delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiarò:       8 Ivi. pri  83 Per l’esattezza, il “Blocco della Vittoria” riportò 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti  unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito  Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro  esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. «La Stampa», 21, 24 e 25  novembre 1919. I   84 MARIO GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia», 28  novembre 1919.   #5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l  Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala  operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso  del 29 settembre 1919 al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più di  socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria e  proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma anche le affinità con  quello socialista, in ciò rivelando il timore — comune anche a molti altri fascisti - che una  troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento  fascista dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le  aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti    89          Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggidì occorra molta, ma  molta circospezione prima di avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo  [...] negare sempre la nostra giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio  dei vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti*”    Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo,  entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Antonio Cantinetto e Pietro  Giraudo) ®. L’allargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda  (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la  ripresa, in vista di «nuovi cimenti» e di «più gagliarde lotte politiche e  sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilità a sinistra  restò senza seguito. L’assenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un  movimento operaio forte e, a Torino più che altrove, schierato su posizioni  di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor  più stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le  resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più  opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima  metà del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per  non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le sorti”,  tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la  costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”, In  occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio,  Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si discostasse  granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo  mutamento di prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione delle velleità  operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il  prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo       e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta  112 [Fascio di Torino].  80 «Il Fascio», cit.  n Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919.  di MARIO GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi.   AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss.  2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta  dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova  Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il Fascio», 8 maggio 1920.  Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e  associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane quella di PAOLO NELLO,  L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1978,    90       marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del  fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della grande agitazione dei  metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle lancette”), un manifestino del  Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il  bolscevismo - che aveva corrotto «l’idea socialista di giustizia e di libertà» -,  per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali «erano per le più ardite  riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non  significassero «la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel  discorso del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire)  dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione  dei temi più strettamente produttivistici.    I fascisti — disse Gioda — sono delle volontà e delle capacità che seguono direttive  senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari  e conservatori [...]. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo  sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è  una bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica  possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una  questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e  parlamentari. E” una questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza  produttiva di tutte le energie nazionali”?    Gioda prese parte al secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a  Milano il 25 e 26 maggio 1920, quello della svolta a destra e della       °! ACS, MRF, Esposizione, Busta 111 [Documenti].   92 «Il Fascio», cit.   Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e  repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza però tralasciare di considerare che la  disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo  fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei Fasci  piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di  Umberto Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato, della  legittimità dello sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte,  «un cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non  dovevano essere «organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile» e avevano il  dovere di battersi per qualsivoglia riforma, «sia pur audace», quando essa avesse arrecato  beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto caro  all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese auspicò la trasformazione del  movimento politico e sindacale fascista in un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 125 [Documenti]. Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €,  più in generale, sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo, v. EMILIO GENTILE, op.  cit,, p. 76 ss., e soprattutto PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista,  Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 73 ss.    91             conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di  Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi,  rappresentò - come ha sottolineato Renzo De Felice - l’unico successo  dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano  nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua leadership  nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il  rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta  affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la  Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria  influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano Gioda  a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da questo  momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui De  Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua  espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a       I nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista, approvati a Milano,  modificavano radicalmente — in senso conservatore - il programma fascista del 1919.  Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta dell’assemblea  costituente (l’anarchico Domenico Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i  pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo,  Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonarono il movimento.   Per il resoconto del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 25 e 26 maggio 1920, e «Il Fascio», 29  maggio 1920. Sull’intera vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp.  594 ss.   % Cfr. Ibidem, p. 594.   95 Cfr. «Il Fascio», 31 luglio e 7 agosto 1920.   Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo  torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea straordinaria  del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo.  Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a  Giovanni Giolitti: una soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso  dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni  intesa con i giolittiani, definendo «un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il rientro sulla scena  nazionale dell’uomo politico di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i  fascisti di Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata  assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro  Giolitti, «Il Fascio», 26 giugno 1920). Di fronte alle resistenze incontrate all’interno del  Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire  l’accordo con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di  affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la nuova  assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi  avvenimenti v. EMMA MANA, op. cit., p 254 ss.   % Con l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze  fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre contribuirono a  legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei    92    setter cirrretricdatietnttittztt sac       partire dal febbraio del 1921, allorché assunse la direzione del nuovo  settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio»””.    Massimo Rocca: il fascismo come nuova élite    AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue  conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto -  che egli non si era entusiasmato all’originario programma sansepolcrista,  giudicandolo troppo «impeciato di socialismo». Ma Rocca, sia pur attento  osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un  giornalista. Il 25 marzo 1920 aveva iniziato le pubblicazioni la rivista  settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento della redazione, guidata dal  conte Arrivabene, ex direttore de «La Perseveranza», era chiaro: occupare lo  spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la sua  conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse le idee e le  aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno dei  più continui e più stimati collaboratori, le credenziali dell’ex novatore  anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite.   Sulle pagine de «Il Risorgimento» Rocca riprese la polemica adriatica. E’  indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu proprio su tale delicata  questione che si venne realizzando l’incontro definitivo tra Rocca e  Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza,  scagliandosi contro la «Lissa diplomatica», cui, a suo parere, la politica dei  rinunciatari avrebbe condotto il Paese”. Quasi nello stesso tempo, tuttavia,  prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, più conciliante e  realistica. Di fronte alle mille difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla  Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si persuase che la sola via       loro interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul  iano dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Cfr. /bidem, p. 258 ss. srng   7 «Il Maglio», fondato dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel   gennaio, evolvendo dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista vicino ai nazionalisti.   Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la   rubrica “Senza guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin),   una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a   distanza con la stampa avversaria, in particolare con «Ordine Nuovo», organo del PCdI   torinese.   9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura, cit., p. 82.   °° LIBERO TANCREDI, La lingua nostra, «Il Risorgimento», Milano, 6 maggio 1920.    93       d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915.  Consapevole che ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che  pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si  disse convinto che la città, «confinante con un'Italia signora del Carso, delle  Alpi Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita «infinitamente più  forte», che se fosse stata abbandonata, senza continuità territoriale, «ad una  larva di sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume  in stato indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non  dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo del  26 agosto gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione  fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano di  D’ Annunzio.    Noi - scrisse Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di Fiume  all’Italia [...]. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può  contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra:  anzi, che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati,  l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto!°?    Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro  (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate sul  piano dell’ordinamento politico) '°?, non ne scalfiva l’opinione che la  reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni  internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era, in ogni  caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato il 12 novembre       100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi  Rocca, giunto a Fiume subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi,    durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si erano  ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Edmondo Mazzucato e — come vedremo  - Edoardo Malusardi.   !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa, Ibidem, 26 agosto 1920.   193 In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta da Alceste  De Ambris e messa in “bello stile” da D’Annunzio) fosse sancito «il dovere di produrre»,  quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte questo, egli  condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un camera tecnica, espressione delle  diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano «l'istituto  fondamentale», il solo in grado di «raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro «una  norma e un’idea». (ID., La costituzione di Fiume, Ibidem, 9 settembre 1920). Nondimeno, al  di là delle convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore  di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla  costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di  Gabriele D'Annunzio, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973.    94    eli ita       1920 tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro  colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi interventi  su «Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo italo-jugoslavo,  Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si  trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo  politico (in questo modo il “duce” avrebbe realizzato «il suo inserimento nel  gioco politico-parlamentare a livello nazionale») ', che disorientò la  maggior parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo Rocca.   Il giorno 15 novembre, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si  riunì per discutere della questione. Rocca, presente come semplice  osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte  di Mussolini, imitato dal solo Cesare Rossi!°. Il Trattato di Rapallo - disse  Rocca - risolveva il problema adriatico «dal lato di terra», mentre lasciava  insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a  quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso a  cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto senza  assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si trattava -  sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli articoli di  Mussolini!” - solo di una ragione di opportunità, in quanto «il problema  marittimo per l’Italia [...] non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno  sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico  obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione più ampia dei  problemi di politica estera.    O noi — concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni  d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure persuadiamoci  che impiantare una politica estera armata accanto a quella ufficiale, senza essere  capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo       1% Cfr. BENITO MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, «Il Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e  Ciò che rimane e ciò che verrà, Ibidem, 13 novembre 1920.   Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit. p..645 ss.   !°5 Ibidem, p. 662.   !° Mario Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e  fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il  Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, «Il Popolo d’Italia», 16 novembre  1920.   107 «Gli italiani — aveva scritto Mussolini nel suo fondo del 13 novembre — non devono  ipnotizzarsi sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo — un vasto mare” di cui  l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive  dell’espansione italiana sono fortissime».   108 La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit.    95       Dopo accese discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava  completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un  successo della corrente filo-dannunziana'!, in realtà non andava oltre una  generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva  affatto la strategia del “duce”, come gli avvenimenti delle settimane  successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del “Natale  di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione del  Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro  l’ordine del giorno (come aveva fatto Cesare Rossi) solo in quanto non ne  aveva «legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà al “duce”!!!,  Da quel giorno Rocca entrò a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non  soltanto, infatti, riprese la collaborazione con «Il Popolo d’Italia» (per il  momento continuando ad occuparsi del problema adriatico, sempre  nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi  mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di  Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta  dal fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli  era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua  riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed  economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che  nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità delle  classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite allo  sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un  «gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il  dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre  politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte  di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente «il dovere di resistere e di       1°° RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 647.    110 1 ’intesa italo-jugoslava - recitava l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro  Marsich, De Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché «deficiente ed inaccettabile  per la Dalmazia».   !!! «Il Popolo d’Italia», 17 novembre 1920.   !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello  marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre  1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal  titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate  del 1921 per le edizioni de «Il Popolo d’Italia».   !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   Gli articoli citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca era il  principale curatore.    96       vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti,  burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di comprendere «i  fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il  nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, «nella  perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la  classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre  l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle le  sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva rispondere con  la «rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della classe borghese. La  borghesia produttiva, la sola capace di gestire «con criteri tecnico-  produttivi» tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva  l’obbligo morale di realizzare «un rivolgimento aristocratico» della società  italiana. Solo così, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando  effettivo sarebbero tornate in mano «ai migliori, anziché ai molti, ai capaci e  ai competenti». Alla borghesia, finalmente consapevole della propria  autorità, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in  questo processo la parte migliore e più responsabile del proletariato”. In  attesa che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a  suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema  economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se si  vuole che si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo  dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento  delle responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;  all’abolizione radicale dei privilegi [...] di cui godono i funzionari  pubblici»!!8,   Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure  “draconiane” contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un  governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di  reintegrare «il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi       !!4 LIBERO TANCREDI, Scioperi politici, Ibidem, 22 aprile 1920.    L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici torinesi.  !!5 MAssIMO ROCCA, La crisi maggiore, cit.    Ivi.   ID., La disperazione dei servizi pubblici, Ibidem, 10 giugno 1920. si  In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla convenienza di restituire ai privati l’esercizio  dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il  pubblico, in Ibidem, 20 gennaio 1921). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini  del programma economico fascista del 1922, elaborato da Rocca con Ottavio Corgini.   !!° Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici, Ibidem, 2 settembre 1920.    118    97          democratici. Come si rileva da un articolo del 21 ottobre, Rocca pensava a  una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo nuovo», che avesse già fornito  prova di «volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto far cessare «l’orgia  di tutti i disordini»'?°. Non è chiaro se egli si riferisse direttamente a  Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque significativo - come si evince  da quello stesso articolo - che Rocca ritenesse l’assunzione dei pieni poteri  una soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata  l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,  ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile a  frenare le prepotenze e le intemperanze dei “rossi”!’, Quando la violenza  fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe  indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo  squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione  nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da  Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”.  Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza  delle violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle  violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica, visione  connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo (e prima  ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un disegno  rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva  il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente che Rocca  si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a dire da una  prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da  guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie  nere fosse la risposta più che legittima alla violenza antinazionale dei       120    i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920.  121    In un commento a margine dell’assalto a Palazzo D’Accursio guidato dalla sua ex guardia  del corpo Leandro Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo  squadrismo. «I fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare alle  masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un pietoso alibi per  giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice penale non ancora abolito, una  propaganda ed un’azione da veri delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la  violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno atroce»  (Ip., Bologna, Ibidem, 2 dicembre 1920).   122 Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dell’azione politica fascista v. il  fascicolo n. 6, 1982, di «Storia Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,  particolarmente il saggio di PAOLO NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo  nazionalrivoluzionario, pp. 1008-1025. Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito  contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e Liberalismo,  democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995,    980       “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa al potere di Mussolini,  reputando esser venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni  dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare il perdurare  dell’illegalità fascista.   Nel corso del 1921 Massimo Rocca consolidò la sua già rilevante posizione  all’interno del movimento fascista. Nel febbraio, un suo articolo in difesa  della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini,  contribuì a rinfocolare il dibattito circa l’orientamento istituzionale del  fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a tutela  dell’istituto monarchico, non solo per motivi di opportunità strategica (una  rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del  sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo  stesso), ma anche in ossequio a più complesse valutazioni politiche  (monarchico «di ragionamento», si autodefinì Rocca molti anni dopo) 1a,  che investivano l’intero assetto della realtà nazionale.    La società economica e politica che va sotto l’appellativo convenzionale di  “borghese” - scriveva Rocca - si è capovolta nel suo contenuto produttivo ed  ideologico [...]. Economicamente essa è sindacalista e non più individualista: tanto  che l’economia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera [...]. Se una  rivoluzione è matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da  arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se  divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi  sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi [...]. La funzione dei  Parlamenti è oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi  erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui il  popolo rispecchiava se stesso [...]. Oggi il Parlamento [...] è diventato pur esso una  casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie [...]. E allora resta da  chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di  fronte una sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche  quella monarchica, per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione  sull'altra !°*       !23 MAssIMO ROCCA, La realtà italiana, «ABC», 1 luglio 1958.   24 ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, «Il Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921 (anche in  Massimo ROCCA, /dee sul fascismo, cit., pp. 3:11).   L'articolo di Rocca, scritto in forma di lettera a Mussolini, faceva parte della rubrica  “Orientamenti e discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione delle adunate  regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento nel gennaio,  avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee  orientative dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui  era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da  Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema agrario, i    99          A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta  emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione  di Rocca. Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver  rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,  riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così come,  più tardi, avrebbe riscoperto ‘l’importanza etica” del cattolicesimo) '°5. Del  resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche e  di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse il  convincimento che «l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale,  d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che «l’ascesa e l'emancipazione,  come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, un’auto-ascesa,  un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento»"°°. Era dunque necessario -  chiudeva Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile la  matrice individualista della sua cultura politica) - “tornare agli individui” e  farla finita una volta per sempre con il culto demagogico della massa.    Edoardo Malusardi: il mito del fascismo libertario”    Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Edoardo Malusardi.  Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,       rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti  chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe  luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci  “ i combattimento, «Il Popolo d’Italia», 22 febbraio 1921).   25 Cfr. MASSIMO ROCCA, Una questione da non risolvere, «Il Risorgimento», 14 luglio 1921.   La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse  essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il  proprio carattere di universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della  «funzione storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e  la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’ probabile che quest’interesse  fosse da attribuirsi ad un’autentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in  seguito, Rocca pareva interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità  e di disciplina interiore.  te ID., Quarto e quinto stato, Ibidem, 24 febbraio 1921.  La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3  marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso, oltre che utile, “educare” il  proletariato, così da poterne estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di  cooperare con la borghesia alla gestione della produzione.   ? Spintovi dalla passione “trincerista”, Malusardi aveva aderito entusiasticamente all’ ANC  (per qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo  della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso  nazionale di Napoli, nell’agosto 1920, perché contrario ai ventilati propositi di trasformazione          Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con «Il Fascio» e  (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una altrettanto  frammentaria attività di propagandista per conto del Comitato Centrale  fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove, nell’ottobre del 1920, era  stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa  anche quell’esperienza, all’inizio del 1921 Malusardi giunse a Verona,  chiamatovi da Italo Bresciani, segretario politico del locale Fascio di  combattimento (nonché ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare  l’ala di estrema sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e  apprezzava le doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di  segretario propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè  l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo un  maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come prima  cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che doveva  immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al  graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera. Egli, in particolare, vi  affinò le proprie qualità giornalistiche, rispolverando tra l’altro una rubrica  dei tempi de «La Guerra Sociale» (“Foglie d’ortica”), che divenne un punto  di riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si è detto,  Malusardi proveniva da Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla  fede repubblicana e a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni  libertarie, retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la  Carta del Carnaro e il sindacalismo nazionale di Filippo Corridoni — il “suo”  compagno di trincea - e Alceste De Ambris'’°. Nel Fascio veronese,       dell’Associazione in partito. A parte i suoi articoli per «L’Eco della Vittoria», per lo più  improntati al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di Malusardi in  seno all’ ANC non è agevolmente documentabile.   28 Anche sulle date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. «Il  Fascio» del 30 ottobre 1920 riportava un «avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle  Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la Segreteria  Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più l’incarico di segretario propagandista  del Comitato Centrale, in quanto, già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città  “olocausta” Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La Conquista», del quale non ci è  stato possibile reperire una collezione (lo stesso Renzo De Felice, dal cui Sindacalismo  rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa  informazione, cita da fonte indiretta).   n Bresciani, classe 1890, già convinto militante anarchico, era stato fra i promotori del  Fascio veronese di azione internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta 833 [Bresciani Italo].   15° Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in EDOARDO MALUSARDI,  Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico  Commerciale, 1930,    101    PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP    decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale per  portare avanti le proprie idee.   Il 13 febbraio 1921 si riunì a Venezia l’adunata regionale dei Fasci del  Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento  Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe  modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla controversia  repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio che i fascisti si facessero  portavoce di un «fiero atteggiamento antimonarchico». La monarchia  sabauda — affermò - aveva tradito in più di un’occasione: prima della guerra  perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante perché colpevolmente  “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja”  Nitti, a Fiume perché’ complice della repressione sanguinosa    dell’insurrezione dannunziana'”.    Noi, che siamo repubblicani e libertari — concluse Malusardi - in determinati  momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere gettata  nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una monarchia  esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non è  per noi che un anacronismo inutile e ingombrante!    AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine    del giorno repubblicano, che raccolse però soltanto nove voti (quanti erano i |    delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione  Pasella, rivendicante il carattere «antidogmatico e antipregiudiziale del  fascismo» in materia di regime!”*.   Fu sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che  Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema  dell’organizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della  dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione  Italiana dei Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati  autonomi, d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si  usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda,       131 Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, «Audacia», 19 febbraio 1921.    326:  Ivi.  133.1,  Ivi.  Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza libertaria del proprio   fascismo.  134 yi  Ivi.    135 Pi n toda re: 4 det H rado   In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, nel gennaio del  1 920, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente antioperaio. Poiché la UIL, il  sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il    102          che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era  se l’azione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale a  dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci  di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se  dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire  nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel  suo intervento al convegno veneziano, Pasella affermò che i Fasci dovevano  ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi -  facendo così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati  Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso per  caso”. Infatti — rilevò -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli  scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle legittime  richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano «un più ampio diritto alla  vita», e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con «gli  interessi superiori della Nazione». Le preoccupazioni operaiste di Malusardi  si rivelarono ancor più manifestamente allorché egli dichiarò che, «quando i  lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed  una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e  delle officine», i fascisti (che non dovevano essere «la guardia bianca di una  classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere loro «il  diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del  giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte  relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali — recitava - i  fascisti, pur non condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di  prendere posizione “volta per volta”, in base alle circostanze.   Anche in materia di politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze  dalla linea ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale  di sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato  D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a  Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di       momento di misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei  sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo più di  modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo  sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il  16 febbraio, dalla fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a  questi argomenti v. principalmente FERDINANDO CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti  (1918-1926), Roma-Bari, Laterza, 1974, e FRANCESCO PERFETTI, // sindacalismo fascista.  Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988.   196 La grande adunata fascista di Venezia, cit.    103       «feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver ingiustamente  sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.   Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero severe  critiche da parte sia di Umberto Pasella, sia di Luigi Freddi (il segretario  generale delle Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare  della demagogia. In un fondo per «Audacia» Malusardi, quasi lusingato di  aver suscitato tanta apprensione nei “piani alti” del fascismo, replicò ai suoi  detrattori con queste parole:    Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un aggettivo che _    non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati è prodigalmente distribuito a  tutti coloro che si permettono di pensare con la propria testa'**    Riaffiorava - come si può notare - lo spirito polemico che aveva    contraddistinto il giovane anarchico nei giorni dell’interventismo;    riaffiorava, soprattutto, l’orgoglio individualista, la presunzione di sentirsi |    fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato  come “eretico”.    Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su «Audacia», Malusardi fu |    comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista del  Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza    lunedì 21 febbraio, respinse all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti |    veronesi apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato  di dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale del maggio.       157 Cfr. /bidem.    Queste affermazioni di Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a  quanto Massimo Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il  fascismo. «Per provare poi — annotava Rocca - che [...] non tutti i primi fascisti erano  mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti nel 1919,  e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedicò  all’organizzazione operaia, come [...] Edoardo Malusardi ed altri. [...] Degli anarchici di cui  mi ricordo nessuno è stato squadrista, nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma,    parecchi anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta    a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un uomo; la mentalità di questi anarchici era  l’antitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano l’intransigenza  settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale [...] solida e indipendente»  (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 108).  i EDOARDO MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.   L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al nostro  direttore, Ibidem, 26 febbraio 1921.       Dalle elezioni del 1921 alla “marcia su Roma”    Le consultazioni generali del 17 maggio 1921, mercé l’inclusione dei Fasci  di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso  del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana. Il 7 aprile,  una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche  Mario Gioda) ratificò la decisione — che Mussolini aveva preso già da tempo  - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali”!‘°. Il  giorno successivo, a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca    difese la legittimità di quella scelta.    Non è colpa nostra — disse — se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i  comunisti malgrado il rosso di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra  l’Italia com’è, con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne  derivano [...], e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla  Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni  costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo che noi non  rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e  rinnovatore nello stesso tempo [...]. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta  contro la proprietà e il capitale improduttivo, quando è tale veramente e non secondo  le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della  Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né contro  lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le  funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e  collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘    Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda,  giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di  salvare l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del       0 Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d’Italia», 8 aprile 1921.  Su questi punti v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere  (1921-1925), Torino, Einaudi, 1966, p 64 e ss.  1! «n Popolo d’Italia», 9 aprile 1921 (Rocca riprese questi concetti in un articolo del 16  aprile per «Il Maglio», intitolato Arrestare la dissoluzione).  La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. //  programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera», 9 aprile 1921).   Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d'Italia», 10 aprile 1921.  Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda faticò a  imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessità della sinistra interna — che    105             (Ai li A A ici    Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che agevole.  Il 15 aprile (il giorno prima i fascisti torinesi avevano inaugurato la  campagna elettorale con un comizio di Massimo Rocca) "4, Gioda annunciò  l’avvenuto raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune  condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,  l'Associazione  Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito  Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e  l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò  trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione  Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza  antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica  fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione  Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare  dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un Blocco  che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità di  affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo la corda.  Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda definì  “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco, con    l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così, non soltanto i |    fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda  lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse il    veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura dell’ex  parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile dell’Ufficio i       egli personalmente condivideva — riguardo all’opportunità di far blocco anche con gli odiati    giolittiani, il segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i    e, riprendendo un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il    carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere «né radicali, né liberali, né anarchici», |    ma solo fascisti, uniti nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta  elettorale, «Il Maglio», 16 aprile 1921).   143 Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, «Il Popolo d’Italia«, 15 aprile 1921, e  Un poderoso discorso di Libero Tancredi, «Il Maglio», 16 aprile 1921.   Rocca si dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo  l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della  campagna elettorale fascista (cfr. // primo comizio elettorale a Milano, «Il Popolo d’Italia»,  16 aprile 1921).   14 Queste prevedevano: «schede elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che  comprendesse la valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti, la  tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta  [...] dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e la  valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata» (MARIO GIODA, Un primo    accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti,  Ibidem, 15 aprile 1921).          Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi —    unici candidati fascisti — Cesare Maria De Vecchi e Massimo Rocca, che  faceva così il suo ingresso nella lotta elettorale!‘°.   Dove la linea bloccarda incontrò fortissime resistenze fu a Verona. Il 10  aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della  provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non  avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero  compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata  e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello  schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a  definire l'eventuale accordo con i fascisti una «necessità sacra») ‘’, il Fascio  di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il Blocco.  Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono  una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non negò il proprio assenso  all’operazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si  congratulò con loro per aver agito «fascisticamente», giacché, ove  mancavano «certe elementari condizioni di probità politica», occorreva «non    50  bloccare [...] ma sbloccare»!5°.       45 Cfr. Ibidem. pl so  Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la formazione e  Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti, Ibidem, 23 aprile 1921). i  146 la candidatura di Rocca fu particolarmente spinta da Gioda. «Rocca — scrisse  quest’ultimo, presentando l’amico agli elettori torinesi — è stato un novatore e un divinatore.  Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è Stato  scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I  candidati fascisti, Ibidem, 12 maggio 1921).   147 . “   Cfr. «Audacia», 30 aprile 1921. i sb   A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, «Il Popolo d’Italia», 20  aprile 1921. I DTA  148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico:  fascisti a voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i  fo La composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion  fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale  Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare  Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor  Alberto De Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia», 3 maggio 1921. i   150 «11 Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche  in BENITO MussoLINI, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Vol. XVI, Firenze,  La Fenice, 1956, p. 455). î   Il 13 maggio Mussolini si recò a Verona per la campagna elettorale e riconfermò  l'apprezzamento per la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle  urne. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 15 maggio 1921.    107          Massimo Rocca figurava dunque candidato fascista a Torino. Il 21 aprile, la  Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia  decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse    «Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un colore patriottico e passionale  alla listay!°*.    Rocca espose le linee del suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il  maggio, in una serie di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi  (importante soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di  Competenza) Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma  tecnocratica della rappresentanza parlamentare.    Una riforma seria e duratura — scriveva - dovrebbe consistere nel riconoscere  l’impossibilità della politica astratta [...], l’immoralità parassitaria dei politicanti  puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le  sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che fanno  e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie elettorali l’incarico di  eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di più, per affidarlo alle collettività ed ai  nuclei organizzati sulla base di un’attività specifica a profitto della vita sociale,  attività alla quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile  allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte alla  Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è competente: e i  Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e  meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli!5*    A questo intervento ne seguirono altri, più specifici (una sorta di vera e  propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i  princìpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libertà economica,  decentramento, rispetto della legge. L’economia liberista - argomentava  Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva accusata di essere  «caotica, anarchica, antisociale ed egoista», ma ciò non rispondeva a verità,  poiché il vero liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso.  Esso, infatti, “trascendeva” e “comprendeva” tanto l’individualismo quanto  il collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i «sistemi di vita», tutte le forme  economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in  atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era «l'economia  spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo  significava, né più né meno, tornare all'economia «naturale della vita       15! Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera», 22 aprile 1921,    ne «Il Popolo d’Italia», 23 aprile 1921.  MASSIMO ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimento», 14 aprile 1921.       sociale», al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le  affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo  pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo  senso, non v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti  moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere  quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja  definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita  economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-  individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica verso  lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere là  dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto” elettorale, additava la  necessità del decentramento amministrativo e politico quale condizione  essenziale per una maggiore libertà e una miglior gestione delle risorse  nazionali'?°. -  Nel terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della  legalità. La legalità — scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto  esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti  preordinati, si risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima,  attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non  sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la  disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: «disciplina di governo,  di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era anche sinonimo  di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare «Ia gerarchia  in ogni campo», affinché il «valore cosciente» tornasse a primeggiare sul  numero. L’articolo terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse  ristabilita la legge «contro tutti !59, i  Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano, in  altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata contro gli  scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle camicie nere.  In futuro - come si accennava - Rocca non avrebbe esitato a prendere  posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora, nella prima metà  del 1921, anch’egli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che  legittimo di lotta politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo  articolo su «Il Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di       1% Ib., Ritorno all'economia, Ibidem, 21 aprile 1921. i ) y  “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio nei  locali dell’Associazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano (cfr. «Il Popolo  d'Italia», 7 maggio 1921). y   155 Cfr, MassIMO ROCCA, Ritorno alla semplicità, «Il Risorgimento», 28 aprile 1921.   156 Ip,, Ritorno alla disciplina, Ibidem, S maggio 1921.    109    a A mm PPTIPONI    violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),  Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro il dispotismo comunista,  «dopo mesi e mesi di longanimità»!?.   La sera del 25 aprile, in circostanze misteriose, l’operaio fascista Cesare  Odone fu assassinato da un militante comunista!*. All’alba del giorno  seguente, bande armate di fascisti presero d’assalto la Casa del Popolo. Nel  terribile conflitto che ne seguì restarono gravemente feriti tre comunisti e un  giovane studente fascista di Reggio Emilia, Amos Maramotti, che morì poco  dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti,  furono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi -  riportava «La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle  fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati  dall’assalto fascista furono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni  successivi, l’autorità giudiziaria ordinò il fermo di nove fascisti, tra i quali il  segretario della sezione torinese dell’ Associazione Arditi, Bruno Ricolfi,  mentre gli stessi Gioda e De Vecchi furono denunciati con l’accusa  «d’istigazione e complicità morale»!° (senza peraltro che la denuncia  sortisse alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda fosse coinvolto nella  decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto riferiva il  Prefetto di Torino Taddei al Ministero il 29 aprile - era stata organizzata  «prontamente e nel massimo riserbo») ', ma appare evidente dal suo  comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse  prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un       157  ll    ID., Che cosa è “già” il controllo operaio a Torino, «Il Popolo d’Italia», 7 maggio 1921.  ® Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, “La Stampa”, 26 aprile   1921.   Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente MARIO Giona, Un fascista  mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, «Il Popolo d’Italia», 27 aprile 1921,  e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, «L'Ordine Nuovo», 26 aprile 1921.   Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, «La Stampa», 28 aprile 1921.   L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo  (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma gli  avevano persino assecondati (cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro  di Torino, «L'Ordine Nuovo», 28 aprile 1921). Il comportamento delle guardie regie fu  oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta, voluta  dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli  squadristi, ma accertò altresì - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la  «deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi incapaci di  fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].   ‘9? Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 aprile 1921.    !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit,    110          aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo senso,  accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento coessenziale  imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un esempio di  questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di Gioda di poco  precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da  Antonio Gramsci ad opera di alcuni squadristi’, il segretario del Fascio  torinese aveva definito «sacrosante» le ritorsioni fasciste contro «le vili  imboscate» e «la violenza liberticida dei pussisti», ma, al contempo, aveva  vivamente deplorato quell’episodio, del quale non comprendeva la  necessità'. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del  Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa la reale  portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza dei fatti, che  essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout couri n  Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittorietà della  propria posizione non è dato sapere, ma è certo che egli non aveva la forza  sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai al suo  controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. i ;   All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35  seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una lunga intervista a  Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte  alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio    Emanuele III, il “duce” rispose:    Il fascismo non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane, ma è tendenzialmente  repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono       !62 Gramsci era stato aggredito il pomeriggio del 20 aprile, all’uscita dalla sede di «one   Nuovo». Il leader comunista non subì in realtà alcuna violenza, mentre il giovane ‘ardito del  polo” Giovanni Torrero, accorso in suo aiuto, restò gravemente ferito. Cfr. Ibidem.   5 MARIO GIODA, /n tema di violenza, «Il Popolo d’Italia», 22 aprile 1921. E   Che Gioda non nutrisse molta simpatia per gli eccessi degli squadristi è me provato   dall’impegno che egli mise-nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa Lo   recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo   pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis   e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza li ata  fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata «ad attizzare MEA ‘odio  olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921).   to Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo, Ibidem, 31 aprile 1921. |   165 Rocca non fu eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza  (cfr. «Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE  35,282 voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. «La Stampa», 18 e  maggio 1921).    111       pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà  ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$    Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente  tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti Fasci,  fu stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione congiunta  dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei segretari delle  Federazioni regionali, fissata per giovedì 2 giugno al Teatro Lirico di  Milano'!. Tra i Fasci dove la questione ebbe un'eco maggiore vi furono  quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di «Audacia» (poi  rivendicato da Malusardi) fece giungere a Mussolini il consenso dei fascisti  veronesi. L’originario programma fascista - vi si leggeva - quello di piazza  San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, era stato purtroppo messo in  disparte, mentre era giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario  del fascismo! Le dure apostrofi dell’organo fascista destarono viva  apprensione negli ambienti moderati di Verona, al punto che, rispondendo  all’articolo di «Audacia», il liberale Gaetano De Carli lasciò addirittura  intendere che la borghesia veronese non avrebbe esitato a difendersi con le  armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista!. Il 29 maggio  l’assemblea generale del Fascio si chiuse con l’unanime approvazione di un  ordine del giorno Malusardi.    Il Fascio Veronese di Combattimento — recitava il documento - richiamandosi alle  origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria  incondizionata solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta questione della  tendenzialità repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano  parte anche di altri partiti!” i    Dopo che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno  successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una «soluzione molto  confusa e contraddittoria», secondo la definizione di Renzo De Felice) !”!       !6© «Il Giornale d’Italia», 21 maggio 1921.    L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio.  !57 Cfr. Ibidem, 24 aprile 1921.    Sulle conseguenze dell’intervista di Mussolini v. RENZO DE FELICE, Mussolini il ‘fascista, cit.,  . 95 ss.    » Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia», 28 maggio 1921.  GAETANO DE CARLI, Difendo il Re, «Arena», 1 giugno 1921.  170 . .  «Audacia», 4 giugno 1921.  !7! Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.97.    \    112       che eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio  malumore e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale  sciogliesse definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo.  «E? ora di finirla — scrisse tra l’altro — di vedere e liberaloni e nazionalisti e  rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo di  rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla anche con  questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro programma e  mascherano gretti interessi individuali o di classe»!”?.   La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a Torino, dove portò a  un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in  un’intervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiarò che i deputati fascisti  del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale'”. Il 24  maggio, per testimoniare il proprio dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si  dimise dalla carica di segretario politico del Fascio di Torino e dalla  direzione de «Il Maglio»'”. La Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi  il giorno seguente, ne rigettò tuttavia le dimissioni, inviando altresì un voto  «di piena, assoluta solidarietà» al “duce”. In un articolo di commento alla  vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si  lasciò andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto di  meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini. Ben  più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il giorno dopo le elezioni,  fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o sorvolare su una  delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di essere un movimento  tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce” - secondo Gioda - era  giunta a proposito, così da smontare una volta per sempre «la favola di un  fascismo antiproletario e incatenato al servizio della borghesia agraria e          L’ordine del giorno approvava l’operato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo  parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta  reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale.   !72 EDOARDO MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!, «Audacia», 11 giugno 1921.   !73 Cfr. «La Gazzetta del popolo», 23 maggio 1921.   Il 24 maggio, nel corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in guerra  dell’Italia, il futuro quadrumviro riconfermò quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano  torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 maggio 1921). Nelle sue memorie, De Vecchi si  compiacerà di ricordare che Gioda, nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più  pallido, finché, esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. CESARE M. DE  VECCHI, op. cit., p. 42).   !74 Cfr. «Il Popolo d’Italia», cit.   In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le pubblicazioni per quasi un  mese.   !75 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 26 maggio 1921.    113          industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e  libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona fede.  Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza nella  situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello nazionale,  ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.   Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea del  Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata, de  «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale tra Gioda e De Vecchi.  Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un ordine del  giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma politico  fascista) che, in definitiva, suonava come un’attenuazione della linea  intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione al Teatro Lirico, nel corso  del quale De Vecchi non mancò di fare «una manifestazione di fede  monarchica»!?8, confermò la vittoria dell’indirizzo moderato.   A distanza di pochi giorni De Vecchi prese l’iniziativa - del tutto personale -  di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose  all’invito e non si recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che  riuscì a far passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in  materia di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il    nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un uomo    di sua fiducia, l’avv. Ruella'”, Il 12 giugno tornò a riunirsi la Commissione  Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando  capire di non aver intenzione di recedere dalla propria decisione'*°. Dieci    giorni più tardi, un’ennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘|  provvide all’insediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua |    volta, riunitasi il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di  De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione  82    dalmata a Fiume **. Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un |       176    la disciplina fascista, Ivi.   17? Ibidem, 2 giugno 1921.   All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia  intervenire nella discussione.   LOI ‘imponente convegno fascista di ieri a Milano, Ibidem, 3 giugno 1921.   17° Cfr. «Il Maglio», 18 giugno 1921.   180 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 14 giugno 1921.   La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario  Gobbi.   18! Cfr. «Il Maglio», 25 giugno 1921, e «Il Popolo d’Italia», 26 giugno 1921,   I membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei.   182 Cfr. «Il Maglio», 9 luglio 1921.    114    MARIO GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per       mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di pacificazione nel  frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6  agosto, a riprova della gravità della crisi, «Il Maglio» interruppe nuovamente  le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una  settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, il 25  agosto, l’assemblea generale fascisti torinesi votò la nomina di un’altra  Commissione Esecutiva".   La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Il  13 giugno si svolse un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei  Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema  dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,  contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro  Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad  autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di Malusardi, per il quale, mentre la  prima rivelava chiaramente la «qualità di agrario» del suo suggeritore, la  seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il  fascismo doveva adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto  nel “testamento politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità  dell’adunata furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico  all’interno del Fascio veronese, «per motivi di salute e non politici»'*°. Al  riguardo mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua  decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più  o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai  suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo tutt’altro che  dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che,  persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava la propria  indipendenza di giudizio.       183  184    Su tutta questa vicenda v. EMMA MANA, op. cit., p. 270 ss.  Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già espresso il proprio  punto di vista in un precedente intervento su «Audacia». I sindacati - aveva rilevato -  dovevano mantenersi il più possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano  rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi  interessi padronali. «Come fino ad oggi — aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono  serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi serviranno [...] per prelevare a domicilio  quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente» (ALESSANDRO  MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, «Audacia», 11 giugno 1921).  185 Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani  d’intesa con il presidente dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale),  per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici «nazionali», aventi autonomia  «finanziaria e politica» (/bidem, 16 giungo 1921).   Ivi.    115             Ho sempre pensato — scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai  avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte  venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dell’anchilosi  cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho    irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono d’aver la privativa  dell’infallibilità!”    E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi, il modo in cui  egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il tono e i    contenuti - come si può vedere - non erano granché mutati dai tempi de  «L’Agitatore».    «Benché sono [sic] orgogliosamente individualista — affermava - fui tra le masse  lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella  elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità e  delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto  livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non dimentico che la storia è  sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze [...]. Il sindacalismo, quale io  lo intendo [...] è individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il  “mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo  superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo  statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8*    Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dall’evidente sapore  programmatico.    lo non sarò mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera  bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e  pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver  molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e  ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista!*”    In definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il  suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che da cattive  condizioni di salute, da valutazioni di opportunità “ambientale”. Egli, del  resto, non abbandonò affatto l’attività politica. Al congresso provinciale       87 s  187 EpoARDO MALUSARDI, Commiato, cit.    8  Ivi.  189    Ivi.  A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di «Audacia» fu ereditata da Luigi  Grancelli.    116          fascista del 7 agosto, Malusardi era infatti presente in rappresentanza dei  piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì quale  segretario generale della Federazione fascista intermandamentale del basso  veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole  al patto di pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, «per ragioni di  ordine nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti  a favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Giuseppe Bernini, del  Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto del 3 agosto!”.  Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese  manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la strategia  distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile desumere dalle  sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi riconosceva il  bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre (la sua intransigenza sui  principi non dev'essere confusa con l’estremismo squadristico), ma è anche  presumibile che egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle  gerarchie!”, Tra l’agosto e il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa  opera di propaganda a sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la  provincia di Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a  collaborare con «Audacia», di cui riassunse la direzione il 29 ottobre, poco    tempo prima del III congresso nazionale fascista!”       19° Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca, benché, in un    articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta  di un eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica  aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, «Il  Risorgimento», 21 luglio 1921). Dopo che l’accordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi  incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribuì la  responsabilità del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una  pacificazione, Ibidem, 24 novembre 1921).   Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. RENZO DE FELICE, Mussolini il  fascista, cit., p. 100 ss.   19! Cfr. «Audacia», 13 agosto 1921.   192 A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale, mentre  rimproverava a Luigi Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di Verona, il loro «semplicismo  politico», si disse piacevolmente sorpreso che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse  l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (OTTAVIO MARINONI, Dopo il Congresso  Provinciale, Ivi).   18. 11.30 ottobre, in preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si  radunarono a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata trasformazione del  movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello  dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri  fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilità  di un sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la funzione dei  Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli    117          Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il 10  novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo Rocca.  Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli d’indubbio  interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto - formulò la sua  proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di Rocca, i Fasci  avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di avanguardia politica e  ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica  italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno di «un eccesso di  spiritualità», tale da bilanciare l’eccesso «di politicantismo mercantile» che  la sommergeva; e solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi  della cultura e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe  potuto svolgere questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella  tradizione risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e morale»  dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che «non le  masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso  consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non ne  dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di  rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza  politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi,  alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato.  Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati  Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e  rappresentavano la tendenza «filoproletaria» del movimento: una tendenza,  sia pur degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici  della sinistra, plasmando una sorta di «demagogia fascista», non meno  deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva       esponenti della gerarchia fascista, da Michele Bianchi a Dino Grandi, da Massimo Rocca allo  stesso Mussolini (su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 45 ss.). Al congresso  veronese Malusardi si pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e  difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale  da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità  di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il  monopolio dei sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le divergenze son  profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello  miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio  miglioramento economico e morale». Di concerto con Italo Bresciani, Malusardi presentò  dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse, «all’infuori  dello stesso Partito Fascista», un «forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo  vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realtà Nazione» («Audacia», 4  novembre 1921).   “ Massimo ROCCA, Pér una nuova destra, «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1921 (anche in  Ip., /dee sul fascismo, cit., pp. 44-51).       la destra reazionaria, «formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da  residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di difesa e  di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile del  carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del Paese,  Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto centro  moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del primo  nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di destra, del  liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una  zona media del fascismo, dunque, fondata sulla «disciplina verso la Nazione,  al di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che  Rocca confidava sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a  costituire il perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento al  congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo — disse  - doveva innanzi tutto svolgere «un’opera di educazione sulle masse», per  volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi  italiana era una «crisi d’incompetenza» e le questioni economiche e  amministrative, per le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere  demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali  avrebbero potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati  divenissero strumento «di selezione delle élites proletarie»'?”.   L’assise dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia  Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza)  198. sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al       193 Ip., Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento”, 22 settembre 1921 (anche in Ip., /dee sul  fascismo, cit., pp. 31-43).   196 Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì EMILIO GENTILE, Le  origini dell'ideologia fascista, cit., pp. 227-228.   19? «Il Popolo d’Italia», 10 novembre 1921.  L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui  problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la convinzione che  l’Italia dovesse avere una politica estera «rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato,  e che spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle  “glorie” e alla “potenza” d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che  l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di  Massimo Rocca, «L’Idea Nazionale», 10 novembre 1921).   !°8 Cfr. «Il popolo d’Italia», 10 novembre 1921.   Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato  inaugurato nel luglio del 1921 alla presenza di Massimo Rocca, che aveva fatto da padrino.  Ne era segretario Giulio Schejola e contava 67 soci, in prevalenza operai e impiegati.  L'assemblea generale dei soci designò Rocca a rappresentare il Fascio al congresso nazionale  di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i  Fasci di combattimento, Busta 25 [Castellanza].    119       congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in  partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo organigramma fascista:  Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione Esecutiva del PNF°%,  mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo,  rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”   Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo articolo  celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema  dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli       199 ; A Errante "  Il 17 ottobre si era radunata l’assemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua relazione    Mario Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare -  la stessa parola partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che il  movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava, perciò, soltanto di ratificarne  ufficialmente l’esistenza. La creazione di un partito fascista era altresì indispensabile per  imprimere un carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato alle  singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte infeconde» tra le sue diverse  correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, d’interessi localistici o addirittura  personali. Si noti, a questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di  Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, «Il Popolo  d’Italia», 18 ottobre 1921).   Anche Malusardi, in occasione del già menzionato congresso provinciale veronese del 30  ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto  che la nuova compagine politica ereditasse «il patrimonio ideale del vecchio partito d’azione  mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle  esigenze della vita moderna» («Audacia», 4 novembre 1921).   In seguito, Rocca riferì che De Vecchi, «a nome di amici nazionalisti e sindacalisti», gli  aveva offerto la segreteria del partito, da egli rifiutata, «malgrado le insistenze», per non  venirsi a trovare in una situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del partito —  scrisse Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un compito  amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del  Duce» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del  PNF fu quindi nominato Michele Bianchi.   Per la cronaca del congresso dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia» del 7, 8, 9 e 10   novembre 1921. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo v.  RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 182 ss.  Stando al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro 0  contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’ Associazione Nazionalista. In  base a quanto da lui stesso riferito anni dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la  doppia tessera (cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Il  tema dei rapporti col nazionalismo dominò a lungo il dibattito interno fascista all’indomani  del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca, dopo aver  sottolineato lo «spirito aristocratico» che animava il nuovo Partito Fascista, si disse «convinto  che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando  qualcosa che, un giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò la  formazione di un unico «partito nazionale» (// fascismo e la crisi italiana in una nostra  intervista con Libero Tancredi, «L’Idea Nazionale», 23 novembre 1921),             Tecnici. Rispetto ai sindacati - rilevava il neo dirigente fascista -, il partito  poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente» su di essi (come egli si  augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione  demagogica della lotta sindacale. Alla necessità di delineare gli orientamenti  sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi  elettivi, «in armonia con la economia sindacale moderna». Secondo Rocca,  un primo passo verso questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa  in ambito congressuale, di dar vita a organismi professionali ristretti - i  Consigli tecnici appunto -, da affiancare ai «Parlamenti generici e politici»,  inadatti per loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero  competenze tecniche specifiche °°°.   Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati del congresso  nazionale fu Edoardo Malusardi. In primo luogo - com’ebbe a scrivere su  «Audacia» - egli dissentiva da Mussolini in merito alla «concezione statale».  Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a  Roma, gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del  fascismo.    Quando egli [Mussolini] — rilevò Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,  superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici nella vita  della Nazione, ecco che viene ad ammettere che [...] dalla Carta del Carnaro  possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più, poiché appunto nella  Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo,  secondo lo stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare    Quanto all’annosa questione istituzionale, Malusardi ribadì il proprio  repubblicanesimo, solo in parte stemperato da considerazioni di opportunità    politica.       202 Massimo Rocca, Un congresso di vivi, «Il Risorgimento», 17 novembre 1921 (anche in  ‘cismo, cit., pp. 52-61). DIE   n prete anre ie del PNE, approvato nel dicembre del 1921, accolse le indicazioni del  congresso circa l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).  Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli  organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei  Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di  servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul piano  nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema  politico, economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e  Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, 1922, pp. 24-  25 (lo statuto/regolamento del partito fu pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo d’Italia» del  27 dicembre 1921).   29 EDOARDO MALUSARDI, /n margine al congresso, «Audacia», 19 novembre 1921,    121          Anche Mazzini — scrisse - pur mantenendo intatta la sua fede repubblicana, per  raggiungere l’unità d’Italia, scrisse la famosa lettera al Carignano e non ostacolò di  salire al trono Vittorio Emanuele II. Ma il veggente ligure, però, mai si adattò a  servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur riconoscendo  inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato  dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria  tendenzialità repubblicana?    Infine, Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta dai congressisti ai  problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa  grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di «agrari  dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò la necessità di  combattere il latifondo, per giungere alla «sproletarizzazione» delle  campagne, incrementando la piccola proprietà e la cooperazione”,   L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona fu la partecipazione al  congresso provinciale fascista del 22 gennaio 1922. Anche in quella  circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede sindacalista e di  celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano [...] genialmente  dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale  delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei  Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione  Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente  ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e       204  205  206    Ivi.  Ivi.  Ibidem, 28 gennaio 1922.   Il 21 gennaio Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che fu rilevata da Luigi  Grancelli).   ? Intorno a questi avvenimenti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 53 ss.   AI congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre  posizioni: quella di Edmondo Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso  Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Michele Bianchi, per l’istituzione dei sindacati  “di partito”, e quella, mediana, di Dino Grandi e Massimo Rocca, a favore di un’autonomia  “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si veda PAOLO NELLO, Dino Grandi: la  formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca sostenne  che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi  di Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di  sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro  la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come  proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi  motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di «sindacati semplicemente    122,          deambrisiana, usciva dunque dall’orizzonte programmatico del fascismo, ma  Malusardi parve non rendersene conto. Lasciata Verona per Brescia, dove  rilevò la direzione del locale organo fascista?”*, Malusardi si presentò ai  “camerati” bresciani con queste parole:    Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi  dittatura bolscevica [...], ciò non significa che siamo dei conservatori e dei  reazionari. Noi siamo, invece, profondamente novatori”°”    Se Malusardi si considerava ancora e sempre un novatore, Massimo Rocca,  ch’era stato l’iniziatore e il “maestro” del novatorismo anarchico, era ormai  un integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del  liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo dei  primi di febbraio carico di reminiscenze “sonniniane”, ad invocare la  restaurazione di tutte le prerogative della corona (usurpate dal Parlamento),  secondo la lettera dello Statuto albertino?!°. Di pari passo con la maturazione  conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e  organizzative all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo  prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato a  Pietro Marsich, avrebbe pienamente rivelato.   A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale  vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e  rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria del  partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione” parlamentarista del       nazionali, [...] guidati da fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile  dubitare» («Il Popolo d’Italia», 26 gennaio 1922).   Massimo Rocca prese parte anche al primo congresso nazionale delle Corporazioni (Milano,  4-6 giugno 1922), durante il quale svolse una relazione sull’emigrazione italiana all’estero  (cfr. «Il Lavoro d’Italia», 8 giugno 1922).   208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di  febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale  sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito  (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva  sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo  del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento, Busta 24 [Brescia].   20° EDOARDO MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma», 18 febbraio 1922,   210 Cfr. Massimo ROCCA, La più grande crisi, «Il Risorgimento», 9 febbraio 1922.   2!! 11 3 marzo 1922, col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex legionario Alfredo  Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo  autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si  concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a capo  provvisorio dell’esecutivo.    123       fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di Mussolini,  contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il  “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo sfogo  nient’altro che una «tragicommedia»?!, Lo scontro tra Marsich e Mussolini,  che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale, concerneva l’indirizzo  politico del partito, innestò una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a  Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale  uscente, Giuseppe Minniti) °!*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a  prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in  una lettera a «Il Popolo d’Italia» - era una leggenda priva di fondamento.  Quanto alla “deriva” legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si  sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di  aver contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo,  dal momento che l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non  aveva, perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si  domandava Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta       12 } RIENEII 3 SIRO Gebo a :  21 Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Piero Marsich, «La Riscossa    dei legionari fiumani», 5 marzo 1922 (la lettera fu ripresa anche dall’«Avanti!» del giorno  seguente).   La filippica di Marsich, già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico  del fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini  sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio 1922), nella quale il “duce”,  commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale  rientro in scena di Giovanni Giolitti.   Sul caso Marsich v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197 ss.  us «Il Popolo d’Italia», 7 marzo 1922.    214 Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi  prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,  tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente adeguato  alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto nell’assenza di un orientamento  politico univoco; una lacuna grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano  elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del  lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e di corruzione».  Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole, soprattutto perché la discussione  intorno alla vicenda Marsich toccò anche il tema della violenza. Augusto Turati affermò che i  rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò, soprattutto  dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto, notoriamente “feudo” di  Marsich, non conducesse all’apologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al  “manganello”, affermò il futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe  fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, «non riconoscendo  nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,  reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta politica fosse  «restituita la forma di un civile contrasto» («Fiamma», 18 marzo 1922).    1124          entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema rappresentativo,  semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe senz’altro avvenuto,  grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti tecnici. Riguardo a Gabriele  D’Annunzio - proseguiva Rocca - l’atteggiamento di Marsich era poi del  tutto irragionevole: non solo perché, dopo le infinite vicissitudini dei  legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee  politiche del “comandante”, ma anche, e soprattutto, perché era privo di  senso attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle  seduzioni del dannunzianesimo. «Il fascismo — concludeva Rocca —  dev'essere anzitutto un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una  causa ed un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio  di un uomo»?"9.   Il 20 marzo la Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro  Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio  Nazionale del fascismo del 3 aprile”.   Nel lasso di tempo compreso tra il luglio e l’ottobre del 1922, Massimo  Rocca conobbe forse il suo periodo di maggior popolarità come dirigente  fascista?!8. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di Mussolini,  sembrò per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi in un  progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che il fascismo (com'era  nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero configurarsi come élite       215 MASSIMO ROCCA, Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia», 17 marzo 1922. nonna  Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge  «lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella  intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (EDOARDO MALUSARDI,  Sincerità delle sincerità, «Fiamma», 1 aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e  Malusardi — se così si può dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn  politiche dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;  fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del tiberalismo i  destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare l’ispirazione  i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione mazziniano.  una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato, «Il Popolo  "Italia», 21 marzo 1922). ù  dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 4 aprile 1922. ;  Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv  temi importanti, dalla vicenda di Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a  quest’ultimo punto, Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -  affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega "  rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilità, si doveva avere il coraggio di  fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del  Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 5 aprile 1922). % $  2!8 Per un breve periodo, tra la fine di marzo e il maggio del 1922, Rocca diresse anche la  Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    125       PARETI RIE IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT       dirigente, capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra  e di guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio di  luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di procedere alla  costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo  statuto/regolamento del dicembre 1921, erano rimasti sulla carta) ‘!; quindi  nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale.  Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare l’opera dei  singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo tale ch’essi  servissero «da legame e da organi d’informazione fra il Partito Nazionale  Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da punto di raccolta dei  «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe dirigente del  futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da  anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione dei competenti, si  trattava di un riconoscimento personale importantissimo e di una grande  occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di  Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte dalla  “oligarchia” fascista e dai «capi locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per    Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne |    il mutato atteggiamento riguardo al fascismo.   A fine agosto «Il Popolo d’Italia» rese noto un programma in due parti “per  il risanamento finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento,  che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia  economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed era,  in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a  motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini suscitò commenti  benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”? e valse, insieme       21° Cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 luglio 1922.    Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello  statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli “assicuratori fascisti  triestini” (cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 101).   «Il Popolo d’Italia», 29 agosto 1922.   Su tutti questi punti V. principalmente ALBERTO AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del  primo fascismo, in «Nord e Sud», 1964, n. 52, pp. 109-127, nonché FERDINANDO CORDOVA,  Ka cit., p. 101 ss.  si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 132.   pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico,  pubblicato dall’organo mussoliniano il 18 luglio.   «Il Corriere della Sera», in un fondo del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente  (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul  programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di risalire alle  «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere alla facile demagogia          alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?”4, a spazzar  via le residue diffidenze dell’opinione pubblica moderata nei confronti del  fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di  governo.   AI centro della riflessione di Rocca e Corgini era l’idea che il Parlamento  italiano fosse ormai diventato un «organo di sperpero», in balia di gruppi  parlamentari «irresponsabili», e che occorresse per questo abolire l’iniziativa  parlamentare «a proporre nuove spese». Tra i provvedimenti atti a risanare  l’erario, il programma annoverava: la riforma della burocrazia (affinché gli  uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati  nella lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle  industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la  soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai  privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione all’essenziale dei  lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che “inceppavano” la  produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero sistema tributario, nel  senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a detrimento  della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle dirette, che,  colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle esportazioni”,  La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli Enti Locali,  era senz'altro molto più “politica”. La responsabilità prima del dissesto dei  Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli estensori del       “socialistoide”. Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,  scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse oltre  l’ideologia liberale» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103).  224 1 20 settembre 1922, nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini  affermò che la “rivoluzione fascista” non avrebbe insidiato il trono dei Savoia. «Lasceremo in  disparte — disse —, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili,  l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che la gran parte dell’Italia vedrebbe con  sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto» (Un forte e chiaro  discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità  storiche della Nazione, «Il Popolo d’Italia», 21 settembre 1922). Il discorso di Mussolini fu  molto apprezzato — e non avrebbe potuto essere altrimenti — da Massimo Rocca, che, in un  telegramma al “duce”, dichiarò di condividerne «entusiasticamente» ogni parola (/bidem, 22  settembre 1922). Più sfumata la reazione di Mario Gioda. Le considerazioni di Mussolini in  ordine alla questione istituzionale - scrisse il segretario del Fascio torinese - dovevano essere  «valutate serenamente». Dopo tutto, osservava Gioda, anche repubblicani intransigenti come  Giuseppe Mazzini e Francesco Crispi si erano piegati, nell’interesse d’Italia, ad “accettare” la  monarchia. (MARIO GIODA, // discorso di Udine, «Il Maglio», 23 settembre 1922).   225 MASSIMO ROCCA, OTTAVIO CORGINI, Pel risanamento finanziario dello Stato italiano.  Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 29  agosto 1922,    Ae 127                                           documento - era delle amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari  dell’azione «immorale, disordinata e dilapidatrice dei sovversivi». Un  rimedio poteva consistere nell’obbligare gli amministratori “rossi” «a  preparare e fare approvare i bilanci comunali e provinciali nei modi e nei  tempi stabiliti dalla legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi  termini ed eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del  problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale  Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia,  di un «comitato centrale di difesa dei contribuenti»?5,   Dalla metà di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli del  24 ottobre Rocca fu impegnato a dirigere la campagna di comizi per il  risanamento finanziario, che attraversò tutta l’Italia??”. Quattro giorni prima  dell’inaugurazione del congresso partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblicò lo  statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a  ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del primo  fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale  l’autore esponeva in modo lineare la propria “dottrina della competenza”.  Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti  e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli  effetti, «formazioni di massa», all’interno delle quali «i produttori restavano  raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità singole», al fine di  salvaguardare «interessi particolari e soprattutto economici»; i primi  dovevano configurarsi come «nuclei esigui di persone», le quali, in quanto  «partecipanti ai gruppi medesimi», non dovevano avere «alcun interesse  specifico [...], né personale né di classe» da tutelare. Ai Gruppi doveva    quindi competere una funzione eminentemente «consultiva e di studio», ma    anche una funzione, per così dire, di “armonizzazione” dei diversi interessi,  un’opera «il cui precipuo carattere spirituale» fosse quello di favorire «la  concordia fra le diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito  e le corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non  erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni e       226 i Lo (1g ARA  ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda    del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922.   Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza  pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria  dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.   Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i comizi.  Questi si articolarono in tre serie successive: la prima ebbe inizio il 12 settembre, la seconda il  24 settembre, la terza il 14 ottobre. Rocca fu l’oratore principale a Genova, Livorno, Savona,  Alba - dov’era previsto un suo contraddittorio con Don Sturzo, saltato all’ultimo momento  (cfr. «Il Popolo d’Italia», 17 ottobre 1922) - e Palermo.    128       di discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la  diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito»?”*.   Nella sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato  per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il  progetto di statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di  Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione  meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Massimo Rocca, che egli avrebbe in  seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una  parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo,  che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere  radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai sempre più concreta - di  una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione  politica e militare anche nei territori a sud della capitale. Il 6 e 7 settembre  1922 si era riunita la Direzione del PNF, «per studiare l’organizzazione  fascista in rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole», e  definire l’ordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso  della discussione Rocca si era mostrato scettico sull’opportunità di  considerare la questione meridionale — anche in relazione alle tematiche  riguardanti l’ordinamento del partito — un problema a se stante, slegato dalla  più complessa realtà nazionale, e aveva espresso il timore che il congresso  del 24 ottobre potesse risolversi in una contrapposizione artificiosa tra nord e       228 «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1924.   A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i  Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria, commercio, agricoltura,  trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali e  nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato  nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi,  scelti, secondo il criterio della capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,  iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un  sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere  indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni», che  servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di  circondario e a quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual  volta avessero dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e quando  si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che  i Gruppi, o parte di essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a  comporre i conflitti tra capitale e lavoro.   Lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in  Massimo Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista del marzo 1923 sui Gruppi di  Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella  nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della Marcia su  Roma, Milano, Imperia, 1923.   229 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 ottobre 1922,    129                sud del Paese, o, peggio, in una guerra «di frazione o di campanile» tra le  diverse regioni del Mezzogiorno””°, Nell’insieme, si può dire che il torinese  Rocca non manifestasse una particolare sensibilità verso i problemi del  Meridione; eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del  Governo, egli fu uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Alla  fine di marzo del 1923 Rocca compì un viaggio di studio in Sicilia per conto  della Direzione del partito, e ne riferì al Gran Consiglio del 30 aprile?  Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli  rimanesse invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio  zolfifero), che ne avrebbero in qualche misura condizionato il futuro  politico. Il punto è oscuro, ma deve essere richiamato, dal momento che, tra  le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno  della polemica revisionista, quelle di corruzione avrebbero avuto un peso  non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca nel novembre  del 1922 al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trovava per  seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani),  egli avrebbe avuto i primi contatti con i responsabili del consorzio zolfifero  siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio  palermitano nell’ambito della campagna fascista per il risanamento  finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiarò Rocca al suo intervistatore -  doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dell’industria zolfifera  siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche «attenuando» il  proprio intervento «nelle faccende del Consorzio». Ora, a quanto risulta da    un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto anonimo datato |    26 agosto 1924), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti    dell’industria zolfifera sarebbe in realtà corrisposta una ricca contropartita. A.    cavallo tra l’agosto e il settembre 1922, i produttori di zolfo, riuniti in  consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di  esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del    settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato       2) Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo d’Italia», 7 settembre  1922.  23 Cfr. PNF , Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova  Europa, 1933, p. 61.  Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato nella «regolazione delle  acque e nel miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e necessaria,  sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (MASSIMO  Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 130).  ? Cfr. CAMILLO PELIZZI, La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo  Rocca, «Il Popolo d’Italia», 15 novembre 1922.   Ivi.    130       arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato  zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo di rendiconto. La decisione,  chiaramente illegale, aveva incontrato l’opposizione tanto del Ministro del  Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel nuovo esecutivo a  guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo punto - secondo la  medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro  adeguata “ricompensa”, avrebbe fatto valere il proprio peso politico,  intercedendo con successo a favore del consorzio zolfifero??’. Le  informazioni contenute nella relazione citata rispondevano probabilmente al  vero, ma non è da escludere, tenuto conto del momento in cui il documento  in questione vide la luce (al termine, cioè, della seconda “ondata”  revisionista), che esse fossero montate ad arte nel tentativo di screditare  Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un oppositore dichiarato del  Governo.   AI di là dei proclami ufficiali, l’assise napoletana del 24 ottobre 1922 servì  quale adunata generale in vista della “marcia su Roma”. Già da tempo, e  precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione  dello sciopero “legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di  luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori  del fascismo, riunitisi a Milano il 13 e 14 agosto, a pochi giorni dalla  conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sull’eventualità o  meno di un'insurrezione armata”. Insieme a Dino Grandi, Rocca era stato il  più convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea insurrezionale  aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Roberto Farinacci, Italo    Balbo e lo stesso segretario del partito Michele Bianchi”. Dopo la “marcia       234  235    Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo  parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle Corporazioni)  era stato dominato dalla relazione di Michele Bianchi sulla situazione politica. Il segretario  del PNF aveva chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza  offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più disposto a tollerare lo sfacelo del  Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due  tendenze, la legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla  relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del  giorno votati il 13 agosto (il primo, per l’istituzione di un comitato militare ristretto; il  secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della  Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del “duce”.  Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 15  agosto 1922.   2 Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano, Rizzoli, 1972, p. 331 ss.    131       su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla  Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa al  potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa comportava,  dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della rivoluzione e inaugurare  quella della ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e — soprattutto -  nell’assoluto rispetto della legalità.   L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo era del  resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della “prima  ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli  stesso amava definirsi un “nomade”), dopo aver retto per qualche tempo la  Federazione Sindacale padovana??”, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in  provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario  politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista”, Il 21 novembre  1922 i fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria.  Era in discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati  episodi di squadrismo verificatisi dopo il 28 ottobre in molte zone del  genovese. Malusardi, secondo l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e  ai fascisti più moderati (una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i  limiti intrinseci), rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima  fintantoché si manteneva «chirurgica e cavalleresca», non era giustificabile    quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al |    governo del fascismo, le camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e  politico, di essere disciplinate.       Su questo punto di grande importanza v. altresì GIORGIO ALBERTO CHIURGO, Storia della    Rivoluzione fascista, Vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 257 ss., e PAOLO NELLO, Dino 4    Grandi: la formazione di un leader fascista, cit., pp. 168 ss.   297 Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].   Malusardi era stato chiamato a Padova nella seconda metà di maggio del 1922 e vi si era  trattenuto fino a settembre, contribuendo, grazie alle sue capacità di organizzatore e di  propagandista, e alla vena “popolare” del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il  suo maggior successo era stato il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione  Agraria, alla fine di giugno. L'accordo era tendenzialmente favorevole ai lavoratori  (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano d’opera e la  creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai  propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i  più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dell’associazione  padronale, il congresso sindacale provinciale del 20 agosto si era concluso con un ordine del  giorno molto duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far piegare,  innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro» («Il Lavoro  d’Italia», 24 agosto 1922).   228 Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964  [Malusardi Edoardo].    132             Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a proposito dell’autorità politica I  scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e vigilare perché applichi  inflessibilmente lo imperio della legge”*°    E concluse:    Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile,  e chiedete invece [...] delle biblioteche e delle scuole di cultura    Aspettative e delusioni    Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del  Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi subirono  un’impennata, culminando nella strage di Torino del dicembre 1922.  L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche nella  storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze  che ebbe sulle sorti politiche di Mario Gioda e di Massimo Rocca. Dal 18 al  20 dicembre (accampando come d’abitudine il pretesto di vendicare  l'uccisione di due camerati”), gli squadristi torinesi, capeggiati da Piero  Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le  organizzazioni socialcomuniste””. In quella che Gaetano Salvemini definì  «una vera orgia di sangue»? trovarono la morte una ventina di persone, tra  le quali l’ex anarchico Carlo Berruti, consigliere comunale comunista e noto       239 L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza», 25 novembre 1922.   240 Ivi sn  «i pa del dicembre fu solo l’apice di una lunga teoria di fatti di sangue, iniziata  nell’estate e proseguita per tutto l’autunno del 1922. In un telegramma al Ministro Di  Interni del 13 agosto, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la  situazione («Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O  rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni comuniste  accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma violenta ed improvvisa») e  chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris.,    1922, Busta 157 [Fascio di Torino]. : It i  La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in RENZO DE FELICE,    I fani di Torino del dicembre 1922, in «Studi Storici», n. 1, 1963, pp. 51-122.  22 GAETANO SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 103.    133                      esponente del Sindacato Ferrovieri”*. Mario Gioda, il cui potere effettivo  all’interno del Fascio torinese era andato vieppiù scemando (tanto che, negli  ultimi mesi, la sua attività si era limitata a curare le corrispondenze per «Il  Popolo d’Italia»), non ebbe alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al  pari di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi.  De Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti,  se ne attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non    quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva    incaricato una commissione d’inchiesta di far luce sull’accaduto), «la sua |    figura di ras di Torino e del Piemonte»? Con una mossa a effetto, carica  però di significati politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri    interni del fascismo torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di    fiori sul feretro di Carlo Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi -    notava Rocca a distanza di trent'anni - non gli avrebbero mai perdonato quel  gesto”.    Episodi come quello di Torino contrastavano drammaticamente con la |  necessità - posta in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una |  normalizzazione del fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini |       243 Sulla figura di Carlo Berruti v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. I, ad |    nomen.  244  Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr.    RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 78.    Popolo», 1 gennaio 1923.  RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.    % Cfr. MARIO GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il Popolo  d’Italia», 28 dicembre 1922.    Gioda scrisse di Berruti ch’egli era «indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di    qualità intellettuali non comuni».   248 Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 148.   L’inchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Francesco Giunta e Giovanni Gasti, accertò le  gravissime responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il  Gran Consiglio del 13 gennaio 1923 si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino,  delegando l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario con  pieni poteri, mentre Pietro Gorgolini e Mario Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario  Gioda), autori di un memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per  esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente  compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a De Vecchi la sua  indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo,  ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la  sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia.    134    In una vibrante lettera del 27 dicembre a Mussolini, poi allegata agli atti dell’inchiesta, |    In un discorso al Teatro Ambrosiano, il 31 dicembre, il quadrumviro difese l’operato di |  Brandimarte e si assunse la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del |       furono segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo  equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e propositi riformatori,  ricerca del consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli  interessi del partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizzò la vita  politico/parlamentare italiana nella primavera del 1923, fu uno dei pochi  momenti realmente costruttivi del fascismo. Rocca, già da tempo schierato  per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale commissione  per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio il 16 marzo, primo  passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un certo       MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale, in «Il Risorgimento», 2    giugno 1921.   Sulla delicata questione del sistema elettorale Rocca ebbe un vivace scambio di vedute con  Roberto Farinacci, fautore di un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci,  Rocca definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale vigente (che  se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue nuovo» nell’asfittica vita  parlamentare italiana), un’eventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula  dominata «dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con  mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di acutizzare «Io spirito  campanilistico» (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca  all'on. Roberto Farinacci, «Cremona Nuova», 10 febbraio 1923). Nella sua pronta replica,  Farinacci obiettò che la “rivoluzione” fascista aveva a tal punto innovato i costumi politici  degli italiani che il ristabilimento dell’uninominale non poteva considerarsi un semplice  ritorno al passato. «Se allora, nel passato — sosteneva Farinacci — erano le clientele [...] che  decidevano, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione  provinciale fascista [...] e dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo  giudizio, non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza del valore del  candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al  problema del campanilismo — questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si  consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al fascismo  provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più esplicito. «Tu [...] — rimproverò infatti a Rocca  — prescindi dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali  sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia con quello della  nazione, subordinando l’uno all’altro» (ROBERTO FARINACCI, // perché del ritorno al collegio  uninominale, Ibidem, 11 febbraio 1923).   250 116 aprile, a conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a  Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Cesare Rossi, Maurizio Maraviglia, Giuseppe  Bastianini e Nicola Sansanelli) si pronunciò ufficialmente per il sistema maggioritario —  secondo uno schema elaborato da Bianchi — e contro l’uninominale. Rocca, che si trovava in  Sicilia e non poté esser presente alla riunione, inviò una lettera di piena adesione, di cui diede  conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 aprile 1923). Il Gran Consiglio del 25  aprile accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore,  contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era  fascista, pp. 55-56), dopodiché il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo  Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto all’esame  preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione dei    135    VIT       PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI    periodo, parve che alla riforma elettorale — com'era negli auspici di Michele  Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più ampia azione  di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della sessione di aprile il  Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo di Competenza per la  riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi  all’allarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si  affrettò ad «assicurare ogni patriota [...] in buona fede» che né l’istituto  monarchico, né i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in  discussione”. In realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti  della maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul  cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni  velleità riformatrice?5*. Rocca, che aveva finalmente intravisto la possibilità  di legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera  propositiva di riforma”, ne restò amareggiato.    Questa volta — scrisse a distanza di tempo — la delusione fu profonda [...]. Il  movimento fascista, che da quattro anni parlava senza tregua di rivoluzione e già ne  invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la  più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa” attuata da D’ Annunzio a  Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le  gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo  nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze  verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta,  dal significato puramente negativo, comodo pretesto per trascurare la legalità |  vigente, senza però curarsi di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava    diciotto) - che lo approvò il giorno 16 giugno -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo   una lunga discussione. Su tutti questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.  518 ss.   251 Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 60-61.   Il Gruppo comprendeva anche: Michele Bianchi (presidente), Carlo Costamagna (segretario),  Enrico Corradini, Maurizio Maraviglia, Giulio Casalini, Edmondo Rossoni, Attilio Tamaro,  Sergio Panunzio, Ettore Lolini, Salvatore Gatti e Giorgio Del Vecchio.   252 «Il Popolo d’Italia», 3 maggio 1923.   253 Cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 524.   254 Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno  schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni  categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni sindacali, di    consigli tecnici dell'economia, «comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e —    nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato  vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro ogni preoccupazione elettorale  ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di    proporre nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il  fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138).    136              un'occasione unica di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore,  ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti esteriori    La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto all’accantonamento dei  disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante naufragio dei  Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale egli aveva riposto le maggiori  speranze. Il 15 marzo 1923, in un’intervista a un quotidiano romano  (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur ribadendo che  i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente aristocratica»,  rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe che la loro  attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di utilizzarli»?9°. Dietro  questa semplice constatazione si nascondeva l’amara consapevolezza delle  grandi difficoltà fin lì incontrate dai Gruppi all’interno stesso del fascismo  (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dall’entrata in vigore dello  statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello  per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione, quest’ultimo,  peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) 257, AI Gran Consiglio  del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione generale dei Gruppi,  affermò la necessità di riconoscere loro una «franca autonomia», sola  condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi  qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio,  Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza  provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito  avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le  apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza  stentata, senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria  nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del  partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima crisi  revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo       255 Ibidem, pp. 140-141.   256 NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola,  l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Massimo Rocca, «Il Giornale d’Italia», 15 marzo  1923.   257 A questo riguardo v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., pp. 166-167.   258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 47.   V. altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di Massimo Rocca  al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1923.   259 Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 98-99.   260 E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema  dei Gruppi di Competenza. Cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 164.    137       colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del  governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di  Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex  anarchico alla sua ultima battaglia polemica.   Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre Mario Gioda tornava  faticosamente alla vita politica (il Fascio di Torino, sciolto in conseguenza  dei fatti del dicembre, fu ricostituito soltanto nel maggio del 1923) °°°, il  biennio 1923/1924 vide la consacrazione di Edoardo Malusardi come  dirigente sindacale; e tuttavia — non sembri un paradosso -, proprio nel 1924  la carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi  vecchi compagni — sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trovò a  dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in regime.   All’inizio del 1923 Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la  Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire  all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed  efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu    nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco  costituita”95,    Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e  quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di Malusardi,  alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostrò chiaramente il    cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato il 19 dicembre del 1923 tra la |    Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segnò  «il fallimento, almeno nell’industria e in quel momento, dell’ipotesi di       20 In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni attività di partito, il 12 ottobre 1923,    Rocca lasciò la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Carlo Costamagna, che la  assunse a titolo definitivo nel marzo del 1924. Nel frattempo, il Gran Consiglio del 16  novembre 1923 aveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici nazionali,  organismi ancor più evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.  ALBERTO AQUARONE, op. cit., p.  26251195 maggio, al Teatro Scribe, ebbe luogo l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo  Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario  Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 1923,  253. Cfr. EDOARDO MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, cit., p. 75.  264 E A n past p   In base alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze al 30 giugno 1924 — sei mesi  dopo il suo arrivo a Firenze - erano 14 (agricoltura, commercio, industria, impiego,  professioni intellettuali, scuola, sanità, dipendenti monopoli e aziende statali, stampa, teatro,  trasporti e comunicazioni, ospitalità nazionale, industrie artistiche, belle arti), per un totale di  circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», 7 luglio 1923.  255 Ctr. Ibidem, 1 settembre 1923.    138    /          sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della  collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,  sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Il 22 maggio  1924 si riunì a Roma il secondo consiglio nazionale delle Corporazioni, nel  corso del quale si manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e  che finì per prevalere) facente capo a Sergio Panunzio e sostenuta dal  segretario generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il  riconoscimento giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda,  rappresentata da Domenico Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione  diretta contro gli industriali”, Il 19 luglio, nel clima di confusione seguito al  rapimento e all’assassinio di Giacomo Matteotti, Malusardi si dimise dalla  segreteria dei sindacati fascisti fiorentini (dove fu sostituito da Aldo  Lusignoli) 2°. Fu un primo atto di ribellione, al quale fece seguito, ai primi  di settembre, la costituzione - con Virginio Galbiati (segretario della  Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi -  di un “Comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni”?99, Nell’ordine del  giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza,  l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che contraddistinguevano  l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invocava «un totale revisionismo»,  nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni —  proseguiva il documento - dovevano agire «in senso nettamente  sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della classe produttiva»,  senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di  collaborazione aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con le  masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale». Quanto  ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di  libera e consapevole alleanza»?”°. Pochi giorni dopo, il 18 settembre, il       266 FRANCESCO PERFETTI, /l sindacalismo fascista, cit., p. 57.   267 Su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 265 ss., € FRANCESCO PERFETTI, Il   sindacalismo fascista, cit.. p. 90 ss. Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 23  maggio 1924, e «Il Lavoro d’Italia», 31 maggio 1924. i   268 Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La Giustizia», 26 luglio 1924.   269 Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La Voce  Repubblicana», 10 settembre 1924. AEREI ; i i  Dal 13 settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea  Sindacalista». Jai   270 Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce  Repubblicana», che, da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali  del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una «diagnosi [...]  perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato milanese).    139       Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal |    movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però,  all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del  decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si decise a  quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la propria  carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le proprie radici  anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione nell’ambito del    sindacalismo fascista continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi — —  la cui fedeltà al fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |    disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti dal  regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga dittatura, si  concluse quindi — almeno formalmente — la vicenda “libertaria” di Edoardo  Malusardi: un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a  Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica.       Negli stessi giorni, 8 e 9 settembre, si riunì a Roma il Direttorio nazionale delle  Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come l’atto «di quattro persone  che non avevano alcuna autorità e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia», 9 settembre 1924.   Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni, Ibidem, 19 settembre 1924.   Sull’intera vicenda v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 283 ss.  2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista», 18 ottobre 1924.    Un mese dopo Malusardi presenziò regolarmente al secondo congresso nazionale delle    Corporazioni (Roma, 23-25 novembre). Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 novembre 1924.  Esemplare, a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione  provinciale dei sindacati fascisti di Torino (carica che detenne dalla fine del 1927 a tutto il  1931), segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare  (al riguardo v. GIULIO SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino,  1929-1935, Milano, Feltrinelli, 1975). Le aspirazioni “libertarie” di Malusardi trovarono un    ultimo rifugio nelle utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ebbe —    comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmiò dolori e amarezze (uno  dei suoi figli, divenuto partigiano, fu fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte,  Malusardi si rivolse a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al giovane  “ribelle” fosse risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria  particolare del duce, Busta 25, Fascicolo 188). Nel dopoguerra, nonostante la non più verde  età, Malusardi partecipò attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il  suo approccio alle questioni del lavoro restò di fatto immutato, sentimentalmente ancorato  alle memorie di Corridoni e D’Annunzio (a titolo di esempio si vedano gli articoli Filippo  Corridoni e Socialità di D'Annunzio, pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il  Maglio», 23 ottobre e 15 marzo 1960). Morì a Torino il 29 giugno 1978. Sulla figura e l’opera  di Edoardo Malusardi, quale rappresentante dell’ala sinistra del fascismo, v. infine GIUSEPPE    PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad  indicem.    140          II    REVISIONISMO    La prima campagna revisionista    L’inizio della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L  pubblicazione su «Critica Fascista», il 15 settembre 1923, dell articolo  Massimo Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al  protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I  ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di  un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento  del fascismo nell’ordine statutario. Il 29 maggio, intervenendo alla Camera,  l’on. Alfredo Misuri, già parlamentare fascista”, aveva anticipato, di fatto,  alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel suo celebre articolo. In RT  Misuri aveva chiesto la smobilitazione delle squadre e | inclusione le ;  MVSN nell’esercito regolare; la cessazione, da parte del segretario si  Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i  affari di competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va  base del Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr  deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di  breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di  furono altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen       ! L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale d’Italia», che lo definì  «notevole». Lira : Epi  ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn  i fasciste, dovette abbandonai  Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f , d a r i ua  ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li  1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di  i P ta nel PNF rientrò per bre  i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr |  lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a del  1923 Cfr. ALFREDO MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un  uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924.  i i i 95-122.  | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘ ,  hà vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri  fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs  sull’episodio v. Per l'aggressione all’on. Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i  ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun  concreta nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”, evocante, gi:    141          speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse  dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul revisionismo e su Massimo  Rocca , tra le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale. Come  già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non  nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di autoriformarsi  (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito), Rocca s’illudeva di far  trionfare la propria idea “da dentro” il partito”; credeva, in altri termini di  poter cambiare il fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con  le sue parole - che esso potesse realmente diventare «l’ala marciante e  riformatrice del liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che  nei mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e  «degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo  (che avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa  «lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della  sconfitta di Massimo Rocca.   Come detto, l’articolo di Rocca vide la luce su «Critica Fascista», la nuova  rivista di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno       nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti  I associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da Misuri  nell’immediato secondo dopoguerra). n  Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e  ramificazioni, v. principalmente PIERANGELO LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza  fascista tra mussolinismo e Aventino (1923-1925), Milano, Angeli, 1990, ma anche con più  esplicito riferimento all’operato di Misuri e Corgini, LUCIANO ZANI, L'Apsocio4iali    costituzionale “Patria e Libertà” (1923-1925), in «Storia Contemporanea», 1974, n. 3 PI  393-429. 1 05-00.  ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano  la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione del fascismo».  Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa del  ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo, «Campane  dicembre 1924), PSR A E e  Cfr. Giacomo LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 107 ss.  Giacomo Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime  manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci  Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle  origini. «Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle pagine  ug se suo da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del  cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i  f ì iu  indegni» (Ibidem, pp. 8-9). RIA: dae Re) 2a  ” Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 107.  LUCIANO ZANI, op. cit., p. 402.    142          1923”. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una  concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da  premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca -  riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del  partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova  élite» che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese!°. Un mese e  mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro  collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Augusto De  Marsanich, aveva chiarito in modo inequivocabile l’orientamento della  rivista.    Noi — aveva scritto De Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare  subito un’opera di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi  metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad intorbidire le fonti  della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio  uno dei nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta  nel parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo  istituto storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione col  Parlamento [...]. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità di  *smobilitare” e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi  nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di ieri"!    Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da  tempo andava esortando alla “normalizzazione”, trovasse in Bottai e nella  redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma       ? Sul ruolo avuto da Giuseppe Bottai e da «Critica Fascista» nel dibattito interno al fascismo  durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.  soprattutto LUISA MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo,  Bari, Laterza, 1974, p. 65 ss., EMILIO GENTILE, op. cit., p. 295 ss., © GIORDANO BRUNO  GUERRI, Giuseppe Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 49 ss.   10 GiusEPPE BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista», 15 luglio 1923.   Che il fascismo, compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse por  mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un programma  propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti più “politici”. Lo stesso  Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di «Critica Fascista» (e  riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima  ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un  gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto  il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacità di controllo e di critica».   !! Augusto DE MARSANICH, Revisione, Ibidem, 1 agosto 1923.   Su De Marsanich, figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo  dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neofascista, v. Dizionario biografico degli  italiani, cit., Vol, 38, ad nomen.    143       cosa scrisse Rocca che destò tanto clamore? La “rivoluzione” fascista —  questo in sintesi il suo pensiero — aveva avuto il merito di strappare l’Italia al  baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto  se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria  autoconservazione. Il fascismo - spiegava Rocca - doveva servire il Paese e  non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a  perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare  dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che  ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella battaglia intrapresa per la  sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era convinto di trovare in  Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione, se non mancava di  riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto la spregiudicatezza  tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di  una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha  I impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione  di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire al  duce” la propria personale visione del fascismo. I segni più evidenti della    volontà conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano  stati:    la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del  Paese tutti gli elementi di valore [...], persino se provenissero dall’estrema sinistra:  [.. ] l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di  diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; [...]  I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere  l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari; [...] la costituzione di un governo  non esclusivamente fascista; [...] l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri  della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; [...] il rifiuto  ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di favori da  parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dell’ultima pes;    Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in  disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di  Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e  proprio esercito di profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava  l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della       12  » Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista», 15 settembre 1923.  Ivi.    L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri ilti i  STE , con , prodotto — sotto il titolo //  l'Italia - anche in ID., /dee sul fascismo, cit., pp. 63-70. pan    144          sua sfiducia negli uomini, trovò sempre inutile opporsi) 4, abbiamo la  misura di quanto Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene  accolto da «Il Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e  nel complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il giornale  diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò apertamente le fatiche.  Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona,  dette una mano alla campagna revisionista, ma la ragione di questo suo  favore non derivava tanto, come credeva Rocca, da un’intima convinzione  ideale, bensì - come ha ben sottolineato Renzo De Felice (e com'era,  d’altronde, nel carattere del “duce”) - da considerazioni di opportunità  politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti, era quello di una  graduale apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche  socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento — e dunque un  consolidamento — della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano  scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza  di una corrente revisionista, moderata, all’interno del fascismo, poteva  servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica  sulle “buone intenzioni” del Governo e a tenere a freno i ras, in vista di un  possibile compromesso!   Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Massimo Rocca  sulle pagine di «Critica Fascista» poté uscire «dall’ambito piuttosto limitato»  della rivista di Bottai per diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi  di stampa, «un fatto politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito  strettamente fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di  assecondare i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di  Filippo Filippelli, «L'Impero» di Mario Carli ed Emilio Settimelli, e,  inizialmente in misura più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si  trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più  conta - legati a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno       14 Su questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE FELICE,  Mussolini il fascista, cit., p. 461 ss.   !5 Cfr. IL FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo  d’Italia», 18 settembre 1923.   !6 Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 457 ss.   !7 Ibidem, p. 456.   18 «Il Corriere Italiano» era sorto alla fine di luglio del 1923 grazie a finanziamenti di origine  imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti  ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Aldo Finzi, sottosegretario al Ministero degli  Interni, e Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran Consiglio del  fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni nel 1923 e si distingueva per  l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi    145          dette a Rocca l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più  vasto, è altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto  alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato Rocca  anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche, offrì a suoi  avversari il destro per muovergli accuse, più o meno esplicite e motivate, di  corruzione.    Il Rocca — rilevava al riguardo Giacomo Lumbroso — poteva ridersi di certe accuse  poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di fatto [...] che i giornali di  cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua  campagna non erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è  innegabile che certo fascismo provinciale [...], illegalista, dispotico e violento, in       del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli  strettissimi con Filippelli e il suo giornale («L’Impero» apparteneva alla stessa cordata  economico/finanziaria editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui  Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro esasperato    “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due |    reduci del futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico,  tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise in  imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che  caratterizzava la redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il  giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e la  soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda,  Mario Carli avrebbe pubblicato un libro, con la prefazione di Roberto Farinacci, (Fascismo  intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad, 1926), che era  tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. «Il Nuovo Paese» aveva aperto i  battenti nel dicembre del 1922, su iniziativa di Carlo Bazzi. Questi, che era stato compagno di  Massimo Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del  movimento repubblicano che, in polemica con l’orientamento antifascista prevalso in seno al  partito d’origine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del  fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore, all’inizio del 1923, di una Unione  Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri d’affari,    essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito dopo la “marcia su |    Roma” si era annidato ai margini del fascismo al governo»; una lobby multiforme «che aveva  tutto l’interesse che il fascismo rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una  normalizzazione che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale di  Bazzi alla causa del revisionismo (RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., pp. 450-452).  Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda MAURO CANALI, Cesare Rossi: da  rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1991 (rispettivamente p  218 ss., e p. 255 ss.). Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico  sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel  primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 87-303. Su Mario Bazzi in  particolare v. GUGLIELMO SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati  bellici (1920-1924), in «Storia Contemporanea», n. 5, 1990, pp. 805-891. Infine, a proposito  de «L’Impero», v. ANNA SCARANTINO, op. cit., p. 49 ss.    Ì       complesso si era mantenuto puro dalla piaga dell’affarismo, e non vi ha dubbio che  ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede di giovare alla causa del  fascismo e dell’Italia, dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed  incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari governativi"?    Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di Rocca su «Critica Fascista», «Il  Corriere Italiano» prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe  sollevato l’indignazione di Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro  «l’arbitrio capriccioso e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a  prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento  del PNF, il quale, vivendo ormai «di rendita» alle spalle di Mussolini,  costituiva «l’inciampo più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi  insinuata dal quotidiano di Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo  di polemiche. «L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il  «feticismo ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna  giustificazione e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della  “rivoluzione” fascista ed essendo stati «lo spirito e [...] la mentalità» del  fascismo «gradualmente ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non  vi era più ragione di conservare in vita il partito?!. l i i  Nel frattempo, Massimo Rocca non aveva perso occasione per riaffermare il  proprio punto di vista??. Personalmente contrario, almeno nel breve periodo,  allo scioglimento del PNF°, il /eader revisionista proseguì imperterrito  lungo la via intrapresa il 15 settembre. I problemi più gravi del fascismo -  insisteva Rocca - consistevano nell’equivoco perdurante tra partito e  Governo, vale. a dire nell’identificazione del primo col i secondo;  nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella       !° Giacomo LUMBRO50, op. cit., p 122.   20 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere Italiano», 16 settembre 1923.   2! MARIO CARLI, EMILIO SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero», 20 settembre  1923. i i i 7 ut  2 Così, ad esempio, il 17 settembre a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei  Gruppi di Competenza. Nel suo discorso, che ricevette il plauso di. Mario Gioda, Rocca non  tralasciò di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche agli  intransigenti (cfr. // discorso di Massimo Rocca sulle funzioni dei Gruppi di Competenza, «Il  Piemonte», 18 settembre 1923). \ i   23 In una lettera pubblicata da «L'Impero» del 22 settembre (Partito e Governo fascista),  Rocca scrisse non essere ancora giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e  consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non escluse  che, «in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei Gruppi di  Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo» gli strumenti. necessati di questa  trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribadì i medesimi concetti in un’intervista a «Il  Corriere Italiano»,    147       «parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia»; nel predominio  «degli organi esclusivamente politici di partito» su tutto ciò che. «pur  rientrando nella vita corrente del fascismo», non era strettamente ulivo (ad  esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa ragione, il partito  ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca - conduceva ad una  «vera forma di nuovo bolscevismo [...], dissolvitrice dello Stato e  dell’Italia», cui si doveva assolutamente porre rimedio”.   Contro la campagna revisionista, che raccolse i favori dell’opinione  pubblica moderata variamente  filo-fascista””, insorsero invece gli  intransigenti. Già il 17 settembre, nell’ambito di una riunione del Consiglio  Provinciale di Cremona, Farinacci difese il principio dell’intransigenza, si  disse contrario all'inserimento della Milizia nell’esercito regolare e minacciò  una «seconda ondata» rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza  fede» che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici’”, Più  avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò  seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero — scrisse - che  Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.   costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito in  modo schiacciante al trionfo del 28 ottobre 1922.    Se si distrugge il fascismo delle Provincie — si domandava Farinacci — che cosa  resterebbe del fascismo? [...]. Io non ho l’acume di Massimo Rocca, ma come  caffoncello” di Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale — pari a quello di    he pero della terza elementare — calcolando che Provincia più Provincia fa  ‘azione!          ” MASSIMO ROCCA, Partito e Governo fascista, cit.   Tra gli organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna  revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si  segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da Olindo  Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e  «L’Epoca», un giornale d’ispirazione combattentistica sorto nel 1917. Proprio «L’Epoca», il  23 settembre, pubblicò un’intervista di Domenico Montalto a Massimo Rocca (// momentà  attuale e il fascismo), dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un  pubblico non strettamente fascista.   di Un forte discorso dell'on. Farinacci, «Cremona Nuova», 18 settembre 1923.   ROBERTO FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia, Ibidem, 23 settembre 1923.   Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese Gino  Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note del fascismo  emiliano/romagnolo (su di lui v. PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader  fascista, cit, ad indicem). L’articolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in  contemporanea anche da «La Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto»)  era una difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”, interessato e    148       Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica  e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al  cuore delle contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle  provincie, caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero,  assai più del fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma  e di Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole,  tant'è vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una  liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno  ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più  difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la propaganda       senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e  violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per  mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento  riservato ad Alfredo Misuri, in quanto il suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far  pari col famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PIERO PEDRAZZA, Polemica fascista.  Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera», 22 settembre 1923). A Piacenza, il conte  Barbiellini puntò l’indice contro le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista.  «Per quali anonimi lestofanti — tuonava il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di  torbidi nel fascismo?!? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai ras  provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui  realizzato ai danni dell’Erario Nazionale?» (BERNARDO BARBIELLINI, Perché non molliamo,  «La Scure», 25 settembre 1923). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche  dell’estremismo provinciale fascista — con particolare riguardo a Roberto Farinacci — v.  EMILIO GENTILE, op. cit., p. 263 ss.   28 E” interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura  antifascista, Piero Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e gli altri ras  del suo stampo erano gli autentici e più genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli  non certo teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrisse di  preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di spirito di  sacrificio, al «politicantismo senza pudore» e al «trasformismo, senza decoro e senza  intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi, «professionisti della politica» il cui  revisionismo era nato in mezzo alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A  parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la predilezione,  tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale dell’intransigenza), l’intellettuale  torinese coglieva nel segno allorché metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e  culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce di  sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive, aspirazioni palingenetiche, e  godeva di un seguito che mancava invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti.  Dietro ai vari ras di provincia - notava lucidamente Gobetti - vi erano «centomila giovani, che  al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria  disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata aberrazione, la repugnanza per i  compromessi e gli opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, «La  Rivoluzione Liberale», 9 ottobre 1923; le restanti da Secondo elogio di Farinacci, Ibidem, 19  febbraio 1924. Anche in Piero GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino,  Einaudi, 1960, pp. 526-529, e 606-610)    149       revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia  di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio.   Queste considerazioni parevano sfuggire a Massimo Rocca, il quale, vittima  forse anche della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo  arco più frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla  reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,  perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso  suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse.    Non ci si è ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per  «Critica Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda  che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e  ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello,  dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il Governo che fa le  leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere in  galera anche i più autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si  adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,  facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale e  continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo [...]. Ma quest’opera è  indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito non  riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario instaurare repubbliche  dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare  degli staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e  fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli  platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopportata col platonico omaggio di un  alalà. Bisogna disfarli [...]. Tutto ciò per la Fronda fascista, nuova specie di  sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e  ingombrante oggigiorno [...] ‘Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente contro  una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un  modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se  non quello del Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile  dal procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?”    La “fronda” non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di  questo articolo, il pomeriggio del 27 settembre, la Giunta Esecutiva del PNF  - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca dal partito «per grave       ?° Massimo Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista», 24 settembre 1923 (anche in ID.,  Idee sul fascismo, cit., pp. 71-78).   Questo articolo di Rocca era preceduto da una significativa postilla della redazione. «Siamo  perfettamente solidali con l’autore — vi si leggeva - [...] e con gli scopi altissimi della sua  battaglia, che è anche la nostra battaglia».    VIPATTTTRA VENTO ile A       indisciplina e indegnità politica»?°. La mattina del 28 Mussolini ricevette  Rocca, in qualità di vicepresidente  dell’Istituto Nazionale delle  Assicurazioni”, ufficialmente «per trattare di questioni riguardanti l'Ente» 4  ma in realtà per aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del  “duce”, da cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva,  ebbe invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè  di una parte soltanto della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il Popolo  d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto, come ben  notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di conti.    Ora — si domandava il quotidiano romano — è per le espressioni crude ed aspre  adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione è dn  stabilita? [...]. Se è vero che [...] il “Cremona Nuova” di Farinacci [...] sarebbe  dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito, sarebbe da  dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così, provinciali, localistiche [...]  avrebbero prevalso?”    E proseguiva:    La lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono  Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali IRPROI Crisi i  coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli  che vogliono avvicinare il fascismo all’anima, del Paese e quelli che vogliono  mantenerne la formazione chiusa e intransigente       30 La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della manetta  compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia», 28  settembre 1923. tif, side Hib:   La Giunta Esecutiva del PNF, istituita nel maggio in luogo della disciolta Direzione, sa  composta da: Roberto Farinacci, Ferruccio Lantini, Michele Bianchi, Giovanni Marinelli,  Nicola Sansanelli, Attilio Teruzzi, Piero Bolzon, Giuseppe Bastianini, Maurizio Maraviglia,  Antonello Caprino, Alessandro Dudan, Michelangelo Zimolo e Achille Starace. La decisione  contro Massimo Rocca fu presa all’unanimità. i i   31 Rocca ricopriva la carica di vicepresidente dell’INA dalla fine di febbraio del 1923 (cfr.  Ibidem, 3 marzo 1923).   3° Ibidem, 29 settembre 1923.   33 ;   Cfr. Ibidem. TSI VII j ;  La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,  Starace e Bolzon. bri Bata  3 La Giunta esecutiva del PNF espelle Massimo Rocca il “revisionista”. Mussolini inten le  che tale decisione sia riesaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni  al Duce, «Il Giornale d’Italia», 29 settembre 1923.   35 .  gii vl    151          Nell’insieme, l’espulsione di Massimo Rocca sollevò un’ondata di sdegno  Si scrisse di «procedimento sommario», di decisione «grottesca» che aveva  il sapore della «rappresaglia»?”, mentre anche il Consiglio Nazionale dei  Gruppi di Competenza fece sentire la sua voce, votando un ordine del giorno  di pieno sostegno al proprio segretario”. A Torino, Mario Gioda, che fin  dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca” si  dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio  compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra  Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle    mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte  significato politico.    Non è la prima volta — riconosceva a questo proposito l’organo mussoliniano — che,  durante clamorose polemiche, Mario Gioda si schiera apertamente per la corrente  temperata [...] del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora ricordato a Torino  l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista  Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso dicembre‘'    Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie dimissioni anche  dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito più che esplicito, con  parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti.       Li «L’Epoca», 29 settembre 1923.   «L'Impero», 29 settembre 1923.   _ Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un fondo del 24 settembre per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon  senso), Gioda aveva definito gli articoli revisionisti di Rocca un «meraviglioso,  poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo». In un articolo di poco  successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista, perfettamente in  linea con gli assunti dei revisionisti. «I Fasci — scrisse tra l’altro Gioda — non sono sorti per  soddisfare le ambizioni militari o politiche di Tizio, Caio o Sempronio, ma per l’Italia,  unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia» (MARIO GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo,  dl Maglio», 29 settembre 1923).   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.   Gioda aveva riassunto la carica di segretario del Fascio e la direzione de «Il Maglio» da  pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua  grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, fu rilevato dall’avvocato Giorgio  Bardanzellu, già presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti.  Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo,    ufficialmente «per ragioni di carattere famigliare» («Il Maglio», 6 ottobre 1923). Mongini fu  sostituito dal milanese Claudio Colisi Rossi.    4! «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.    152       Le polemiche de’ passati giorni — scrisse - mi hanno trovato pienamente,  apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta revisionista  capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che è Massimo Rocca  [...]. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi parve inconcepibile che si  potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi  uomini più formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta  gramigna ‘    Il 29 settembre Mussolini convocò Michele Bianchi a Palazzo Venezia.  Questa volta Il “duce” richiese espressamente le dimissioni della Giunta  Esecutiva, decise il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali (previsto  per il 2 ottobre) e decretò la prossima convocazione del Gran Consiglio del  fascismo‘. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della  Giunta non restò altro da fare che obbedire‘.   Massimo Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così  almeno rivelava «Il Giornale d’Italia» del 29 settembre) dal provvedimento  disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al contrattacco,  dichiarando in un’intervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva  diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non  sarebbe indietreggiato «di un millimetro». A primi di ottobre Rocca si ritirò  nella sua Torino" e lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e  ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese  l’ex anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente  retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in  ossequio alla «grandezza» d’Italia.       4 MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio», 6 ottobre 1923.   L'articolo di Gioda uscì accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di  Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore uscente.   4? Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un editoriale del 30 settembre (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di  dimissioni avanzata da Mussolini alla Giunta Esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo  milanese - aveva mancato di rispetto al “duce”, il quale, oltre a non esser stato messo al  corrente del proposito di mettere fuori gioco Massimo Rocca, era allora interamente assorbito  da impellenti questioni di ordine internazionale e non doveva essere trascinato in polemiche  artificiose. «Egli — scriveva il giornale diretto da Arnaldo Mussolini — ha altro da fare. I capi  fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo [...]. Se i fascisti locali non intendono  ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di appartenervi».   4 La Giunta Esecutiva si dimise infatti il primo ottobre. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre  1923.   % «L’Epoca», 30 settembre 1923.   4 Cfr. «Il Piemonte», 4 ottobre 1923.   4? Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    153    AI cospetto di un fatto così grandioso — scriveva - [...], noi, uomini che alla nuova  creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo sentire la nostra  pochezza individuale al confronto con la creatura che non è soltanto nostra e ci  sovrasta nello spazio e nel tempo [...]; dobbiamo comprendere che nulla sarebbe più  folle, più sterile del voler monopolizzare l’Italia nuova per noi [...]. Dobbiamo  sentire che anche il Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del  fenomeno storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del    ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le serve di  ase    Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero dovuto «placare ogni  dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo temperamento, Rocca si  era ormai invischiato in una fitta ragnatela di polemiche. Tipica, in questo  senso, la controversia che lo oppose in quei giorni a Ferruccio Lantini, uno  dei maggiori esponenti del fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale  Lantini — ch’era membro della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato  Rocca, definendo la campagna revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed  offensiva», e denunciandone la «ben meschina» origine, «di carattere  prematuramente e comicamente elettorale». In una lettera di poco  successiva, Rocca replicò al suo detrattore con una serie di accuse  minuziose, in particolare rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia  fascista» nei giorni infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi       4 MAssIMO ROCCA, L ‘intangibile grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID.  Idee sul fascismo, cit., pp. 79-86). f  L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da «Il Piemonte» (10  ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre).  di ID., /dee sul fascismo, cit., p. 86.   FERRUCCIO LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova», 29 settembre 1923.   AI breve editoriale di Lantini faceva seguito una chiosa di Giovanni Pala, il Fiduciario  provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si professava  «completamente solidale» con l’autore. Fin dal suo apparire, nell’estate del 1923, «Il Giornale  di Genova» aveva suscitato sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con «Il  Messaggero», che in un articolo del 26 luglio aveva svelato i legami esistenti tra il nuovo  quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala aveva smentito seccamente,  dichiarando che la proprietà del giornale apparteneva alla società anonima “Compagnia  Editrice”, di cui egli era presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 luglio 1923).   A Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero “legalitario” del  luglio/agosto 1922 aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle  agitazioni, il 31 luglio, il Fascio genovese aveva dato corpo a un “comitato d'azione”, del  quale facevano parte, tra gli altri, Ferruccio Lantini, gli onorevoli Edoardo Torre e Alberto De  Stefani, e Massimo Rocca, il cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache  de «Il Popolo d’Italia», la qual cosa farebbe pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro    154    isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS             servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere  Consigliere Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascinò a lungo, in un  intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello  (peraltro sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le  armi) *, a tutto scapito della credibilità complessiva della campagna  revisionista”*.   Il 12 ottobre, come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al  termine di una lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava  l’espulsione di Massimo Rocca in una ben più blanda sospensione di tre       leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i  fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta  offensiva fascista era stato il Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a  Genova, che riuniva le cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto.  Nel pomeriggio del 5 agosto, dopo che nella mattinata i capi fascisti avevano lanciato un  manifesto contro «la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti» («Il Popolo d’Italia», 6  agosto 1923), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da  Alessandria e da Torino, avevano assaltato Palazzo San Giorgio, sede del Consorzio  (nell’attacco, che fece numerose vittime, era rimasto ucciso lo squadrista carrarese Primo  Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista). Il senatore Nino Ronco,  presidente del Consorzio autonomo, era stato costretto a firmare una dichiarazione capestro,  con la quale si era impegnato a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative socialiste.  Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia»,  8 agosto 1922. Su questi avvenimenti v. altresì ANTONINO REPACI, op. cit., pp. 45-49.   5 La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo Rocca a  Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX», 3 ottobre 1923 (anche in «Il Giornale d’Italia», 4 ottobre  1923).   «Il Secolo XIX» seguì con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti,  mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risentì dell’avvenuta  pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla pubblicità» - e ne  chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza  cavalleresca, «Il Secolo XIX», 5 ottobre 1923).   5 A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda assunse i  contorni di un vero e proprio «torneo».   5 Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e Lantini celava un più vasto conflitto  d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova» costituiva un  risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il controllo di  Genova: da una parte il trust formato dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di  Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente  capo a Giuseppe Mastromattei, amico ‘di Rocca; dall’altra la potente azienda armatoriale  Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva l’appoggio di Lantini e dei suoi  (su questi punti v. ADRIAN LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929,  Bari, Laterza, 1974, pp. 300-301). Tale contrapposizione travagliò a lungo il fascismo  genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi, il 29 settembre, fu il  pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, il  professor Luigi Loiacono, di cui erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia»,  2 ottobre 1923),    155          +55 de i fee .  mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si risolveva in un    accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia» allorché scriveva  che:    Senza esaminare il merito delle polemiche da questi [Rocca] sollevate, è certo che  tra la prima condanna all’espulsione per indegnità politica e la sospensione per tre  mesi inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di  un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze  che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili    Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio riordinamento del  partito””, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della  Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val Cismon dall’Italia (un  provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le  irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il  quale - come si è visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel  dibattito sul revisionismo e poteva ora, mercé la messa in disparte del suo  rivale, aspirare a recuperare credito all’interno del fascismo subalpino. Ai  primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di  Torino”, ebbe inizio l’ultima fase della sua vicenda politica.   In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo progetto per la  “normalizzazione”. Occorreva — dichiarò - puntare sullo sviluppo dei  sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del  fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre forze  sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilità di realizzare una  federazione di cooperative «di tutti i colori e di tutte le tinte politiche»).  Come a livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero  dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia» con       55 Per l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno recitava: «Il Gran Consiglio prende atto delle  dimissioni della Giunta Esecutiva, revoca l’espulsione di Massimo Rocca e, per le  degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da  ogni attività di partito a cominciare dalla seduta odierna» («Il Popolo d’Italia», 13 ottobre  1923).   5 Una nuova fase, «Il Giornale d’Italia», 14 ottobre 1923.   V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese», 13  ottobre 1923, e l’articolo di Mario Carli // pa/ladio della rivoluzione, «L’Impero», 14 ottobre  1923.   5? La Giunta Esecutiva fu sostituita da un Direttorio di nove membri, cinque con funzioni    politiche e quattro con funzioni amministrative. Francesco Giunta divenne il nuovo segretario  generale del PNF.    8 Cfr. «Il Piemonte», 5 dicembre 1923.  Gioda non riassunse la direzione de «Il Maglio», che restò a Claudio Colisi Rossi,    156          «tutti gli elementi politici nazionali». Relativamente ai temi della violenza e  del rassismo, Gioda fu perentorio.    E’ oggi doveroso per i fascisti — affermò - orientarsi verso un'attività più Sa  ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le disciplinatissime forze della milizia a  Fascio può svolgere la più intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È  è rappresentato unicamente [...] dal Prefetto [...1. Essendo paladini le 1A ri  fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio [...]. De n ci br  grande partito moderno come il nostro non può [...] reggersi unicamente sulle Vi  o qualità politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi  vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE  Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea  organizzazione che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu  compagnia di guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap:  che troveranno tutte [...] una dura parte da reggere    Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto  al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi.    Oltre il fascismo    La sospensione di Massimo Rocca attenuò ma non pose fine alla poni  revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha   le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa  per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie sà  Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima dinamica Hd  decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e le  circostanze che, nell’autunno del 1923, avevano reso possibile 1 pr  delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù n  — per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos e pel  mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res me  ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di suse  defilarono (chi per calcolo, chi — come Bottai — perché ormai persua       i i i i itico  59 Leo GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol    io Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre 1923. È o ;  ca parzialmente anche su «Il Maglio» del 15 dicembre) fu rilasciata da    Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze.    60 ; 3  Cfr. Ibidem, 22 dicembre 1923. | )  Il Direttorio era entrato in carica il 2 dicembre (cfr. /bidem, 8 dicembre 1923).    157       IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT    dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gli avevano dato man forte  manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della  copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il  ministro De Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dall’altra  parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e forse, come al  solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in un cu/ de sac  vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo  mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori esterni  certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori personali.  Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria cultura,  Rocca conferì un tono sempre più concettuale e filosofico al suo  revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù cervellotici, colmi di citazioni  libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la  conseguenza — inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del  problema e di stancare anche gli osservatori più benevoli, facendo apparire  la polemica revisionista — in confronto alle concrete argomentazioni di un  Farinacci - poco più che una bizzarria intellettuale.   Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente con  cautela — l’ordito dei suoi disegni. In una sequenza di nuovi articoli,  pressoché concomitanti, per «Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per  «Critica Fascista», l’ex anarchico tornò sul tema della legalità. Sebbene  “paretianamente” convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese  verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo» (in virtù della  “degenerazione” dell’istituto parlamentare) ‘e dunque che la responsabilità  della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla  “rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico  irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca  non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo  restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti  episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione del 26 dicembre a  Giovanni Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire  il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale, e  l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali*”. Solo così  si sarebbe giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata sull’imperio  della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante       6 >  MassIMO Rocca, Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia», 4 gennaio 1924 (anche in  In., /dee sul Fascismo, cit., pp. 96-103).    © Cfr. «Il Nuovo Paese», 3 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit,, pp. 87-95),    158          nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca  cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del  manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de  «L’Impero». In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Emilio  Settimelli si chiese se, alla luce delle sue più recenti affermazioni, egli  potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a  tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non  dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrisse - era un  «superatore» più che un «negatore assoluto» dei principi liberali. Infatti,  fatto salvo «il dogma della Nazione», la cui accettazione era il requisito  essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero  minacciato quel dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della  Patria», dovevano essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto  maggiore del liberalismo era - secondo Rocca - quello «di voler ancora  comprendere da solo tutta la società moderna», assai più complessa e  articolata che in passato, così come il difetto di fondo del parlamentarismo  era quello di voler fare del Parlamento, «un puro organo politico €  generico», uno strumento tuttofare. Era dunque necessaria un’inversione di  rotta e l’esecutivo fascista ne possedeva i mezzi nei Consigli Tecnici,  «l’unico proposito veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra  angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico””. A parte l'enfasi  posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a  fronte del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi  avrebbero dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle  considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte  sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi  più posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla       s Ip., Tornare alla normalità, «Il Nuovo Paese», 5 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 115-124).   5 EMILIO SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta a Massimo Rocca),  «L’Impero», 19 gennaio 1924.   Più tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca  dal PNF, Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista  (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!», 17 maggio 1924), avrebbe rievocato proprio  quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e Massimo Rocca ”,  «L'Impero», 20 maggio 1924). Ciò non toglie che, nel giro di poco più di tre mesi,  dall’ottobre del 1923 al gennaio del 1924, l’organo romano avesse completamente mutato la  propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla decisa  ostilità.   65 Massimo Rocca, Fascismo e liberalismo, Ibidem, 22 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 125-132).    159    a i idee    pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del  Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il  Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a  motivo dei suoi ultimi articoli’. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo  di un discorso che Rocca avrebbe dovuto pronunciare il primo febbraio al  Teatro Scribe di Torino fu sottoposto alla preventiva approvazione del  “duce”, Ciò che colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e  proprio compendio della sua “dottrina dello stato”, quale era andata  formandosi negli anni) era l’assenza - certo non casuale - di qualsiasi  riferimento al Partito Fascista. Perciò, nonostante il discorso dello Scribe  non contenesse cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva  lo “scheletro”, il fondamento concettuale. Nella filosofia di Massimo Rocca,  sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo,  liberal/nazionalismo e fascismo, non c’era più spazio per la mediazione del  partito. Lo Stato, vertice della piramide, era il «dogma intangibile e  indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e vicissitudine  partigiana», superiore, quindi, allo stesso fascismo”.  Il discorso del primo febbraio fu l’ultima uscita pubblica di Rocca prima  dell’appuntamento elettorale del 6 aprile. Egli, tuttavia, non disarmò affatto e  anzi lavorò ad un volume antologico dei suoi scritti “revisionisti” (il più  volte citato Idee sul fascismo), che avrebbe visto la luce dopo le elezioni,  nell’ambito della collana “I problemi del Fascismo” diretta da Curzio  Suckert. Il libro, significativamente dedicato a Mario Gioda («un fratello che  sapeva valutare e comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale»)  » conteneva anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi,    intitolato Una legge agli italiani e recante la data del 15 marzo, Rocca ,    invocava l’avvento di una legge che fosse «inattaccabile nella sua  imparzialità serena, amministrata da uno Stato capace di farne sostanza della       86 «Il Nuovo Paese», 22 gennaio 1924.   9? Cfr. JI discorso di stasera del comm. Massimo Rocca, «Il Piemonte», 1 febbraio 1924.   8 11 testo completo del discorso si trova in /bidem, 2/3 febbraio 1924. (anche in MAssIiMO  Rocca, /dee sul Fascismo, cit., come La ricostruzione morale della Nazione, pp. 135-161).  Le considerazioni di Rocca ricevettero commenti benevoli da «La Stampa» (// discorso di  Massimo Rocca, 2 febbraio 1924), da «Il Nuovo Paese» (// discorso di Massimo Rocca a  Torino, 2 febbraio 1924) e financo da «Il Maglio», che ne definì l’intervento «un mezzo di  lento riavvicinamento all’anima del fascismo» (// discorso di Massimo Rocca, 9 febbraio  1924).   °° Massimo ROCCA, Idee sul Fascismo, cit,, p. IX.    160          sua eternità, al di sopra degli uomini e dei governi e dei partiti e delle  classiy”.   Il secondo inedito, // Fascismo nel pensiero moderno, rivelava pienamente i  segni dell’involuzione concettualistica che avrebbe contraddistinto la ripresa  della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta  digressione storico-politico-filosofica era la condanna della modernità, di cui  Rocca — come altri antimodernisti - individuava l’origine nella Riforma  protestante e di cui seguiva le successive incarnazioni, dal razionalismo allo  scientismo, per giungere, sul terreno politico, alle astrazioni della  democrazia demagogica e del socialismo. Contro la decadenza e la  dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla critica moderna, s’era levata, in  passato, la rivolta isolata di alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -  era in Italia - proseguiva Rocca - che la reazione “anti-intellettuale”’ aveva  dato i frutti migliori e più durevoli, generando prima la riscossa nazionalista,  poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella  fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, era ancora, per il teorico  del revisionismo, «una energia formidabile ma grezza, contenente i germi  d’una creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali»”. La  pienezza restauratrice del fascismo - concludeva Rocca - doveva passare  attraverso la riscoperta della centralità e della missione della Chiesa  Cattolica Romana, unica depositaria della certezza del “dogma”. Negli ultimi  due paragrafi del suo libro - I/ valore del Cattolicesimo e Fascismo e  religione -, Rocca immaginava un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro  ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale  approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto  l’egida della Chiesa”. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione  della tradizione mostravano non pochi nessi con la contemporanea  riflessione del Suckert, senza tuttavia possederne né l’originalità, né tanto  meno l’anima romantica e sostanzialmente “rivoluzionaria””?. Puramente e       7° Ibidem, p. 220.   ?! Ibidem, p. 348.   ?° Il riconoscimento del cattolicesimo romano come base fondante dell’unità nazionale e, più  in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, sarebbe  stato al centro della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di  «ABC», la rivista fondata da Giuseppe Bottai nel 1953, Rocca avrebbe ampiamente trattato  questi temi, sia sotto un’angolatura puramente storico-filosofica, sia in riferimento alla nuova  situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella dottrina della Chiesa cattolica  l’unico vero antidoto alla “degenerazione partitocratica” caratterizzante l’Italia repubblicana.  DA proposito dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua  centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. EMILIO GENTILE, op. cit., p. 276 ss., € MICHEL    161       deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo  faceva dunque assomigliare più a De Maistre che a Mazzini. AI di là di  queste considerazioni, era ormai chiaro che Rocca esprimeva posizioni  personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi intellettuali, avrebbero  trovato nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Roberto  Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non avrebbe esitato a  farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario) ?*    Le elezioni del 1924 e la crisi del fascismo torinese    Massimo Rocca e Mario Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del  “listone” governativo”. La candidatura di Rocca incontrò invero moltissime  difficoltà. Apertamente osteggiato dagli intransigenti, il /eader revisionista  dovette rinunciare a “correre” nel sicuro collegio di Torino (dove fu invece  candidato Gioda) ‘°, per accontentarsi di un posto in 1 quello di Milano/Pavia,  non senza incontrare le forti resistenze di Farinacci”. Sembra, peraltro, che  Gioda avesse condizionato la propria candidatura alla presenza nel “listone”  dell’amico Rocca. «Avendo'il Rocca — rilevava infatti un giornale torinese -,  con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia,       OSTENC, op. cit., pp. 165 ss. Sul pensiero politico dell’intellettuale toscano v. la monografia di  GIUSEPPE PARDINI, Curzio Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni, 1998.   4 Non solo Farinacci, a dire il vero. E’ singolare che, proprio nel 1924, quasi a voler  rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di New York, gravitante attorno  al giornale «Il Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero),  desse alle stampe un libretto, intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a  vecchi scritti anticlericali di Mussolini e di Hervé, riproduceva il testo di una conferenza  tenuta da Rocca a Providence nel dicembre del 1910, allo scopo di dimostrare che il  mangiapreti d’un tempo era in realtà un “voltagabbana”. Due anni dopo, peraltro, il foglio  anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello stesso  Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr.  Massimo Rocca, La verità su Mussolini, «Il Martello», 14 agosto 1926).   75 Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale del 6 aprile 1924 v. RENZO  DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 518 ss.   1 Cfr. «Il Piemonte», 19/20 febbraio 1924.   ? Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la  diramazione della lista ufficiale dei candidati, avvenuta il 18 febbraio, Farinacci si rassegnò  ad accettare il fatto compiuto. «Ora che le liste sono approvate, col sigillo del Duce e del PNF  - scrisse con evidente disappunto - , dev’essere bandita ogni discussione, anche se nel listone  [...] V'è qualcosa d’indigesto; vi è il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione  nostra avesse sepolto per sempre» (ROBERTO FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova», 19  febbraio 1924).    162       il Segretario politico del Fascio di Torino rimane candidato nella lista  nazionale*».   Quella di Rocca fu, necessariamente, una campagna elettorale in tono  minore”, né molto diversa — a causa della salute malferma — fu quella di  Mario Gioda*°; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera®'. Il  dopo elezioni aprì un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo  subalpino; crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine  ambientale, s’inscriveva nel più generale contrasto tra revisionisti e  intransigenti. Già all’inizio di febbraio «La Stampa» aveva posto l’accento  sui contrasti tra la «tendenza transigente [...] “filo-liberale’”» del fascismo  locale, «rappresentata da Massimo Rocca», e l’ala più, giottosa e ribelle,  nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in provincia*. Come effetto di  queste lacerazioni intestine, la formazione della lista nazionale era stata  difficoltosa e, complessivamente, la percentuale di voti ottenuta; in Piemonte  da tale schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%) 8   A una settimana dalle votazioni, domenica 13 aprile, si riunì a Torino  l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di tensione (il discorso    78 «Il Piemonte», cit.   ?° «Io — rinfacciò più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il Duce, ho accettato di  abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia,  quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono  andato, infischiandomi dei voti» (MASSIMO ROCCA, All'onorevole Roberto Farinacci despota  e censore, «Il Nuovo Paese», 15 maggio 1924).   ® La propaganda elettorale fascista fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi  per la proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo  al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una lettera  “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si  mantenesse nell’ambito della correttezza, come si conveniva ad una «lotta d’idee e non di  uomini», e professava «disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di  Mario Gioda ai fascisti torinesi, «Il Popolo d’Italia», 5 marzo 1924. Anche in «Il Piemonte»,  3/4 marzo 1924). Il segretario del Fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il  proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica sua uscita  pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. // forte discorso di Mario Gioda al Teatro  Alfieri, «Il Maglio», 5 aprile 1924).   8! Nelle 328 sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior  risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 10 e 11 aprile  1924). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in  Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa», 8 e 11 aprile 1924).   82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale, Ibidem, 2 febbraio 1924.   83 A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un  raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che  vantava un largo seguito tra gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle  simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. EMMA MANA, op. cit., p. 303 ss.       del segretario federale, Claudio Colisi Rossi, fu interrotto più volte), il  congresso si risolse in un tumulto generale, con violenti scontri tra i membri  del Fascio del capoluogo e i rappresentanti delle province”. Il punto era -  come ancora evidenziava «La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del  nuovo Direttorio, all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata    da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo  subalpino si erano definitivamente assottigliati.    di fascismo nella provincia — registrava l’organo giolittiano - tende ad avere una  Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio [...], un carattere,  cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi    intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è i  L de , È già ed è ancora definito coi i  schiettamente piemontese st GR    Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità della  situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla  concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del  partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le decisioni più importanti, in  realtà, erano già state prese, indipendentemente dalle valutazioni di Gioda  Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del  Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Piero  Brandimarte, Alessandro Orsi e Pietro Gorgolini. Il provvedimento colse di  sorpresa Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo  definì un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel  modo più assoluto [...] lo scioglimento del Direttorio del glorioso e  laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale, forte  dell’approvazione dei vertici nazionali del partito, non si curò minimamente       84 pie È  si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso, «La Stampa», 15 aprile 1924.  86 x tt n   : In una lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo  d Italia» del 16 aprile) l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole esagerazioni». «Il  Maglio» del 19 aprile attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra» a misteriosi  provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per conto terzi».   «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924,  Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. Gioda, Ibidem, 23 aprile  La lettera di Gioda era datata 21 aprile. Il giorno prima il segretario del Fascio torinese aveva  inviato un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del Direttorio  un «imbecillesco provocatore colpo di mano» e chiedendo la nomina di un «commissario    avente pieni poteri» che facesse piena luce su ;  pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7%  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1924, Busta 73. e          delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come una  manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Alla fine di aprile giunse a  Torino Achille Starace, in qualità di “supervisore””, Su decisione di Starace  il decreto di scioglimento del Direttorio cittadino fu esteso all’intero  Fascio”!, la cui ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario  straordinario, nella persona del ras Ferruccio Lantini”. La nomina  dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti avversari del revisionismo, ad  arbitro delle sorti del fascismo torinese aveva un evidente significato  ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì  definitivamente di scena, assistendo impotente alla rovina politica dell’amico  Massimo Rocca”. Minato dalla leucemia, il quarantunenne ex tipografo si  spense in un ospedale torinese il 28 settembre 1924.   Quale che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse  potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche del  fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in  particolare l’annosa contrapposizione con De Vecchi — e le sue stesse  esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle  celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con Mario Gioda       89 «Il Piemonte», 23/24 aprile 1924.   90 Cfr. Ibidem, 25/26 aprile 1924.   ?! Cfr. «La Stampa», 6 maggio 1924, e «Il Piemonte», 6/7 maggio 1924.   °° Cfr. «La Stampa», 14 maggio 1924, e «Il Piemonte», 14/15 maggio 1924.   9 Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da «Il Maglio» del 17  maggio. In un precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente non aveva dato  spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti,  affermando di non credere «alla utilità di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali  del partito» e negando addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo,  revisionismo e speculazioni avversarie, Ibidem, 10 maggio 1924).   Sull’intera vicenda v. anche EMMA MANA, cit., p. 306-308.   % Il 17 maggio, dopo l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interrogò su quali  sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già avvenuto in  occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione di  Rocca). In realtà, come riferì ad Aldo Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo  stesso Gioda, questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non poter  cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi, 1924,  Busta 13.   si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de  «Ii Piemonte» e de «Il Maglio», pubblicati all’indomani della sua morte), il già citato  volumetto La vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce. Nel secondo dopoguerra, la  memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (più  propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. «Fondatore Mario Gioda» campeggiava  sul frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», nel 1959, come “periodico del sindacalismo  nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da    siii. ef .1.}       scompariva un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia  politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso    simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio  interpretativo.    Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Massimo  occa    Alla fine di aprile, mentre si consumava la crisi del fascismo torinese.  Massimo Rocca riaprì formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione 2  come confessò più tardi - «di giungere ad un risultato pratico di epurazione e  di chiarificazione»®. In una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizzò  immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno  i capisaldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco  contro quelle «classi industriali». che, «prive d’ogni idea generale  nobilitante», s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la  civiltà» foraggiando i vari “capetti” fascisti, «in cambio di utili tranquilli»?”?.  Alla domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un  «orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replicò: «Verso una  sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia di  fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione [...], si».   Il governo fascista - osservò Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni  politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria base  favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le diverse  componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una collaborazione       Edoardo Malusardi, che di quel giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando  Mario Gioda, «Il Maglio», 15 marzo 1959).  a MAassIMO Rocca, A Roberto Farinacci despota e censore, cit.   Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo Rocca,  «L’Epoca», 27 aprile 1924. j  Rocca riprese questi concetti in un articolo del 10 maggio su «Il Nuovo Paese» (//  bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per  tutelare gli interessi delle «cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e  vecchi imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come certi  “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un terreno di conquista politica  e militare». Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca — vi era un nesso profondo, in  quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari  «senza scrupoli».    Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit,    166          di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non «isterilita da pure  considerazioni economiche o da un’opera di gendarmeria a favore di una  classe sola», poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista  abbandonasse ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte  integrante della Nazione”.   A queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli  pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi - soprattutto  su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un  articolo particolarmente duro per il giornale di Carlo Bazzi (una sferzante  requisitoria contro le «camarille locali» fasciste), Rocca, quasi presentendo  la resa dei conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva più esser  rimandata. «Dopo le elezioni — scrisse - , il Paese ha diritto di pretendere un  assetto “definitivo” del Fascismo [...]. Il 1924 dovrà assolutamente assistere  all’inquadramento completo [...] del partito nella Nazione»!®?,   Com’era lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una  pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però,  Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle  Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del  governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata” revisionista       9 Ivi.   «L’Epoca», diretta allora da Titta Madia (subentrato a Italo Carlo Falbo), dedicò — almeno  inizialmente — molta attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni  dopo la pubblicazione dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò  un’altra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del  revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai, Ibidem, 7 maggio 1924).   100 «Mussolini — ricordava Rocca a questo proposito - mi fece pregare, da Paolucci de’Calboli  Barone, di abbandonare la polemica; rifiutai qualsiasi impegno in merito, perché volevo [...]  giungere ad una chiarificazione definitiva» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una  dittatura, cit., p. 170).   101 «Il Nuovo Paese» prese, di fatto, il posto che, nel settembre/ottobre 1923, era stato de  «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di Bazzi al  revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,  un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si  accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in una  cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve  chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi, rivelatasi realtà,  che i revisionisti finissero per soccombere.   102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Ibidem, 9 maggio 1924.   Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi per  normalizzare”.   193 I] veronese Alberto De Stefani, deputato dal 1921 (era stato eletto - come si è visto -  nell’ambito della lista fascista patrocinata da Edoardo Malusardi), era entrato nel governo  Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare Vincenzo    167    s’intrecciò con la violenta campagna scatenata contro De Stefani da «Il  Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri d’affari alla  temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Renzo De Felice, il  coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre  fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno  di Bazzi”, ma è certo, in ogni caso, che il leader revisionista ebbe in tutta  quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto, negò sempre di  esser sceso in polemica personale con De Stefani'%; e in effetti, sfogliando i  suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a  questioni economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””.  E’ bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato  con Corgini nel 1922 fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il  suo accantonamento da parte di Mussolini) '°° pubblicò un intero volume  contro la politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il libro uscì  nell’estate del 1925, quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese»  non restava che l’eco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale       Tangorra, avvenuta nel dicembre 1922, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di  governo, sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre  direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della  spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte); contenimento della dinamica salariale;  ripresa di un liberismo doganale “controllato”. Cfr. Dizionario biografico degli italiani, cit i  Vol. 39, ad nomen. 4 fe   Su questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, p. 451 ss.   «Il Nuovo Paese» rimproverava al ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi  l’equilibrio del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della Nazione;  ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”, essendo ben altri, in realtà, i  motivi dell’ostilità del giornale nei confronti di De Stefani. Tra le principali imputazioni  mosse al ministro, la più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della  lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla  potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte le attività industriali,  bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione  (ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese», 14 maggio 1924).   si Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   In una lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata il 27 maggio  1924 da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo  nome fosse stato collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver  «mai attaccato» il ministro.  1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il  14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca  Commerciale.   Ra Cfr. MAssIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103.   Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli, 1925). Il libro, che faceva parte della   collana “Pagine Politiche” diretta da Renato Massimo Angiolillo, raccoglieva il testo di un          dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a De Stefani ebbe un riflesso del  tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle province  l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella  lotta contro gli “affaristi” romani"!°, all'opinione pubblica moderata, che  aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della  normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato il  principale organo revisionista ad un conservatore come De Stefani (il quale  godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo politico ed  economico liberale, come Luigi Einaudi) apparvero incomprensibili e  gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai    accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi collaboratori.       discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 1924 (anch'esso,  dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie di “note”, datate maggio 1925,  nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla linea politica di  De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneità alla polemica tra il ministro e «Il Nuovo  Paese», e definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal  Partito Fascista a motivo di essa (cfr. /bidem, p. 4). Quanto alla sostanza delle sue critiche a  De Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nell’imputare al responsabile delle  Finanze il suo «economismo» professorale - troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se  stesso - e la sua incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione «sindacalista» della  produzione, colta invece dal programma economico fascista del 1922. «Per un economista di  tal razza — argomentava Rocca — esisteva soltanto la libertà economica, cioè della classe  borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre classi», con la conseguenza di favorire il  dominio della «plutocrazia bancaria e affaristica», la quale rappresentava «l’applicazione  quotidiana, esagerata e unilaterale [...] della scienza economica classica e borghese» (Ibidem,    . 9-10).   Pi «La lotta contro De Stefani — scrisse Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il  Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta il “Nuovo Paese” e i  suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può essere lasciato  aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità morale» (ROBERTO FARINACCI, Solidali con  De Stefani, «Cremona Nuova», 11 maggio 1924).   !!! palla giolittiana «La Stampa» (ATTILIO CABIATI, // ministro De Stefani, 14 maggio 1924)  ai filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul “revisionismo” e pro 0  contro De Stefani, 14 maggio 1924) e «Il Resto del Carlino» (FEDERICO FLORA, Per  l'onorevole De Stefani, 15 maggio 1924), la stampa liberale prese, compatta, le difese  dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento  di Flora per il quotidiano bolognese è forse il più indicativo di questo comune sentire. «Nulla  di più enigmatico e di più doloroso per il pubblico italiano — scrisse l’articolista de «Il Resto  del Carlino» — della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni  con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella,  a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della Nazione dall’estrema rovina». I  revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De Stefani, apparivano  dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al  punto che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della  legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per passare in    169    fe TE avitbicee    In un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avviò  incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al  momento della sua intervista a «L’Epoca», si andavano d’altronde sempre  più definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar  manforte a Farinacci. In un editoriale del 10 maggio - J/ pugno e la  biblioteca -, Emilio Settimelli prese le difese dei “selvaggi” delle province  (il “pugno”), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare  vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima “guerriera” del  fascismo". A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile  che Rocca si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a  virtuosismi da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione  e le fonti del Fascismo, uscito su «L’Epoca» in contemporanea all’articolo di  Settimelli), col risultato — come si diceva - di togliere mordente e  immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno  sterile e noioso esercizio di critica filosofica.   A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide il 13  maggio Arnaldo Mussolini con un fondo durissimo per «Il Popolo d’Italia».    Gli onorevoli Massimo Rocca e Giuseppe Bottai — scrisse il fratello del “duce” -, ai  quali non si può negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a  demolire, a precipitare ciò che andava semplicemente attenuato [...]. I patriarchi non  si mettono a fare la boxe coi capi di provincia [...]. Se non ci fossero stati gli  squadristi, se non ci fosse stata la violenza [...], l'ordine, la disciplina, la ripresa di  tutta la nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici       secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembrò infine un mezzo necessario per salvare  l’integrità dei bilanci. Persino «Il Mondo», l’organo dell’opposizione costituzionale  amendoliana, che pure precisava di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni  caso, non aveva mai risparmiato critiche all’operato di De Stefani, convenne  sull’inopportunità della campagna contro il ministro. «Indifferenti come noi siamo a qualsiasi  esito - scrisse infatti il giornale diretto da Alberto Cianca — [...] di una cosa sola possiamo  rallegrarci: che non abbia vinto una campagna che appariva troppo minata da rancori e da  vendette di uomini o di gruppi che si erano trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed  avevano sferrato contro l'ostacolo De Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale  depressione del costume politico» (// caso De Stefani, 17 maggio 1924).   2 La logica del «pugno in opposizione alla biblioteca» - replicò Rocca a Settimelli -,  l’esaltazione cieca della forza, il mito della «giovinezza», avrebbero condotto il fascismo alla  dissoluzione morale (Massimo Rocca, // problema morale del fascismo, «L’Epoca», 15  maggio 1924). Il problema di educare — e quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti era  avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la “marcia su Roma”, nel pieno delle polemiche sullo  squadrismo, Edoardo Malusardi - allora a Sestri Ponente - si era battuto per l’apertura, nei  locali del Fascio, di una biblioteca di cultura varia, in modo da offrire ai giovani fascisti  un'opportunità di crescita “etica” e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza», 11 novembre 1922).    170             di oggi potrebbero parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il  tono ieratico degli eunuchi"!    Le brusche parole di Arnaldo Mussolini, in perfetto stile “farinacciano”,  colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché  non imprevedibile — voltafaccia de «Il Nuovo Paese» ‘, Rocca provò  dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisava di  non aver mai inteso offendere le “eroiche” camicie nere; quindi, di fronte  agli insistenti affondo di Farinacci, si decise a pubblicare una lettera aperta al  proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca era un fiero  atto d’accusa a Farinacci (il «viceré spagnolesco di Cremona») e al fascismo  provinciale che egli rappresentava, degenerante nella «volgare brutalità del  cazzotto o del randello»!!°. E” stato scritto, molto suggestivamente, che in  questo modo Rocca «ridiventava l’anarchico Libero Tancredi esi preparava  a riprendere la via dell’esilio»!!”. Non sembra, tuttavia, che Rocca si fosse  del tutto reso conto d’esser giunto al capolinea della sua avventura  fascista!'*, sebbene non fosse difficile prevedere, come riuscì a un giornale       !!3 ARNALDO MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia», 13 maggio 1924.  Lo stesso giorno, con grande tempismo, «L'Impero» titolava: «Gridiamolo ancora: il  Fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno Stato fascista, non per appuntellare lo Stato  iberale». 3 ‘gu i i  ni «C'è una fronda in giro? — si chiedeva il 14 maggio il giornale di Bazzi, riecheggiando il  titolo dell'articolo di Arnaldo Mussolini — Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che sia  spezzata». ; ;  115 [a dichiarazione di Rocca fu pubblicata il 14 maggio da «Il Nuovo Paese» e ripresa, il  giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia» e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo  giornale, si disse indignato per quella che considerava un’autentica «virata di bordo» da parte  del suo avversario («Cremona Nuova», 15 maggio 1924). In realtà, Rocca si era DERER a  esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della “vecchia guardia” (come sO resto  aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le violenze dei «teppisti pc  quelli «di tutte le seste giornate», ma anzi sottolineando che egli avrebbe continuato a attersi  per l’«epurazione all’interno del panic affinché questo potesse realizzare «il suo genuino  di disciplina legale e materiale». } {   Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova riprodotta  anche in ID., Come il fascismo divenne una dittatura, cit, pp. 175-184). j li  Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffuse un comunicato con il cbr no  notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio  di amministrazione della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica  che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», 16 maggio 1924, e «Il Nuovo  Paese», 17 maggio 1924).   !!7 Yvon DE BEGNAC, op. cit., p. 341. è ti  18 In. effetti, ancora dopo che il Direttorio fascista ne ebbe sanzionato il definitivo  allontanamento dal PNF, Rocca nutriva la speranza che il suo caso fosse riesaminato, come  già era avvenuto in occasione della sua precedente espulsione. «Ed ora — avrebbe dichiarato il    171    dell’opposizione, che la sua lettera a Farinacci ne avrebbe «con tutta  probabilità» determinato l’espulsione dal partito!!?.   La sera stessa del 15 maggio il Direttorio fascista, riunito a Palazzo Chigi  alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita ufficiale  in Sicilia), decretò l’espulsione di Rocca dal PNF!°°, Essa, commentava «Il  Popolo d’Italia», non era solo: i    la punizione ad un sedizioso, ma [...] un monito severo e una minaccia solenne a  tutti quegli pseudo fascisti o falsi fascisti che rinnegavano la Fede, offendendo la  Patria e turbavano colla smania e la follia dell’arrivismo quel che era il dovere  fascista più grande: [...] la ricostruzione nazionale"?!    Il Direttorio decise altresì l’espulsione di Giuseppe Bottai, ma questi, grazie  all’intercessione di Giovanni Marinelli («non si sa a quali eéindizioni»  probabilmente la promessa «di rientrare nei ranghi») '’?, ottenne la revoca  del provvedimento, cosicché Rocca si trovò, di fatto, a sostenere da solo il  peso dell’epurazione.   Nel giro di pochi mesi, dunque, il revisionismo passò da una concreta,  benché ingannevole, speranza di successo al più cocente fallimento, mentre       18 maggio a «Il Giornale d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e  disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere [...] un po’ di giustizia, non  Importa se più tardiva che nello scorso settembre».   «Avanti!», 16 maggio 1924.  120 :   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 16 maggio 1924.  221 Ivi.   «Ogni commento da parte nostra - rilevava Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui  [Rocca], da noi, era considerato fuori del fascismo già da un anno» (ROBERTO FARINACCI  Virando di bordo, «Cremona Nuova», 17 maggio 1924). i   GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., cit., p. 75.   La marcia indietro di Giuseppe Bottai addolorò Rocca, che ne attribuì la ragione alle  preoccupazioni carrieristiche del giovane intellettuale fascista. «Bottai — avrebbe scritto  Rocca trent'anni dopo -, allora giovanissimo, temette di veder spezzata per sempre la sua  carriera» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 171). Il punto è  che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muovevano da  premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che  vantava una militanza politica prefascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua  breve stagione futurista, si era formato politicamente con il fascismo, al quale aveva dedicato  tutto se stesso, e di cui — se così si può dire - poteva considerarsi l’unico vero “intellettuale  organico”. Nonostante l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non era  assolutamente in discussione. Fu così — come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai, il  quale «credeva nel fascismo come teoria politica», non volle rinunciarvi «sempre  ripromettendosi di migliorarne la prassi», mentre Rocca, «assai meno fascista e anebra molto  anarchico, piuttosto che accettare la disciplina di un partito che considerava irrimediabilmente  marcio, preferì rinunciarvi del tutto» (GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., p. 76).          Rocca veniva abbandonato al proprio destino”. Perché Mussolini abbia  deciso di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso le difese meno  di un anno prima, è questione di non facile interpretazione. La risposta può  essere ancora una volta ricercata nella duttilità strategica del “duce”.  Mussolini, infatti, coltivava ancora il disegno di un allargamento della  maggioranza, da realizzarsi soprattutto grazie a un’intesa con la CGL; un  progetto a cui il capo del fascismo teneva in modo particolare e che, se non  fosse sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in  porto.    Un'operazione tanto importante — ha scritto Renzo De Felice — doveva essere  realizzata con le minime possibili scosse interne. Gli intransigenti dovevano essere  convinti ad accettarla [...]. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro era la  fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non poteva certo esimersi dal    Rocca fu quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è giusto ripetere  che egli scontò anche gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione       123 | commenti della stampa italiana furono variamente ma unanimemente favorevoli alla  decisione del Direttorio. Emilio Settimelli, su «L'Impero» del 17 maggio, ebbe parole di  stima per Farinacci («il suo programma semplice e schietto, energico e fiducioso, è il nostro  programma») e di riprovazione per Rocca («Massimo Rocca non ha una visione chiara e  sintetica della situazione. E’ farraginoso e analitico»). «Il Resto del Carlino», che aveva visto  con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarcò la degenerazione  personalistica della polemica revisionista — concretatasi negli attacchi a De Stefani -  augurandosi che «il Rocca si convincesse dell’opportunità di rientrare in un completo  silenzio» (// provvedimento contro l'on. Rocca, 17 maggio 1924). Con argomenti simili, «Il  Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità del revisionismo «degli inizi», ne criticò  l’involuzione dottrinale («non si capiva quale fosse la meta, per quali vie concrete  raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponevano») ed espresse soddisfazione per  l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta, 18 maggio 1924).   124 Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   A una successiva riunione del Gran Consiglio del fascismo, il 22 luglio 1924 (in piena crisi  Matteotti), Mussolini si mostrò ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche  revisioniste. «Dichiaro — disse il “duce” - che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti  vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una  ricaduta nello Stato democratico/liberale con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece  rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere le posizioni  morali e politiche del Fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere  politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo avrebbe una reale utilità. E evidente che,  assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei “ribellisti”.  Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche?  Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato?» (PNF, // Gran  Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 146).    173    dal PNF, Massimo Rocca (che non si dimise da deputato e presenziò  regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera, il 24 maggio 1924)  ©’ concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa  coscienza antifascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne,  riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di  odio/amore), di cui è testimonianza il suo libro del 1954, Come il fascismo  divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo  momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tentò la via  dell’opposizione interna'””; quindi, alla fine del 1925, lasciò l’Italia per la  Francia, dove visse a lungo come appartato (in rapporti di reciproca  diffidenza con la concentrazione antifascista) e in ristrettezze economiche,  scrivendo saltuariamente per «Il Pungolo», il giornale diretto dal socialista  Dandolo Lemmi che raccoglieva anche molti ex fascisti espatriati in seguito  alla vicenda Matteotti (fra i quali Cesare Rossi e lo stesso Carlo Bazzi) !°8,  Dalla Francia Rocca passò in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a       15 Cfr. «Il Giornale d’Italia», 25 maggio 1924.    Rocca, privato della cittadinanza italiana dopo l’espatrio in Francia, fu dichiarato decaduto  dal mandato parlamentare nel novembre del 1926. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei  Deputati, XXVII Legislatura, Discussioni, 9/11/1926.   126 Rocca fu aggredito più volte: le più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad  opera di Gerardo Bonelli, Gigetto Masini e Gaio De Nardo (rispettivamente il segretario del  Fascio di Genova e i comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti  contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo genovese e i gruppi  armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna», 20 maggio 1924); e in Galleria a Milano, il 13 luglio, da  parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen.  PS, Affari gen. e ris., 1923-1924, Busta 7 [Rocca comm. Massimo].   127 Un telegramma del Prefetto di Verona al Ministero degli Interni informava di una riunione  - avvenuta il 24 luglio 1924 in una trattoria di Peschiera -, nel corso della quale Rocca,  illustrando «il programma revisionista», propugnò «la formazione di fasci autonomi», che  avrebbero dovuto raccogliere tutti gli «elementi dissidenti degni di militare nel fascismo» (a  questo proposito Rocca lesse le adesioni di Cesare Forni, Aurelio Padovani, Raimondo Sala e  Pietro Marsich) e ricercare «la collaborazione dei combattenti e dei mutilati». Ivi.   Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo  fascista intorno a un programma e a degli obiettivi comuni, prese corpo nella Lega Italica,  sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà — e sotto l’egida del poeta e drammaturgo  Sem Benelli, figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di Gabriele  D'Annunzio — a cavallo tra l’agosto e il settembre 1924. La Lega Italica, che avrebbe dovuto  costituire l’embrione di un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolse però nel giro di  pochi mesi, vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. Cfr. LUCIANO  ZANI, op. cit., p.420 ss.   ‘8 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   Nel 1930, per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblicò il libro in francese Le fascisme e  l'antifascisme en Italie, anticipante molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il  fascismo divenne una dittatura.    174             ci 129  giornali e riviste — soprattutto di lingua francese’ - e sempre mantenendo,    nei confronti del regime, un contegno altalenante (nel 1935 lex anarchico  approvò pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma non ebbe esitazioni, in  seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali). Rientrò in patria  soltanto nel giugno del 1948, dopo un periodo di detenzione nelle carceri  belghe", riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista. Morì a  Salò, ormai novantenne, il 22 maggio 1973.       129 Tra questi spiccavano il settimanale «Cassandre» e il quotidiano «Le manna  entrambi editi a Bruxelles. Gli articoli di Rocca, per lo più firmati con pseu toni   il più ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO È RAT:  136, Rocca fu arrestato subito dopo la sesta di sg Ù tgp ° so ta I È  Nel luglio del 1946 il suo nome apparve nella lista egl de ni   iale». L'ex anarchico negò sempre di aver avuto a che fare con nig   ela aa e nel maggio del 1948, su ricorso del figlio, St  cancellato dall’elenco (al riguardo v. MASSIMO Rocca, Come il dae pri, i  dittatura, cit, pp. 191-192). Ciononostante — a quanto i; a un FOA È  documentatissimo studio (MIMMO FRANZINELLI, / tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN  e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 19' ta pare ani  Rocca avesse fatto effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome    di Omero.    175    CONCLUSIONI    Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate,  poiché i vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle,  almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una  stessa Nazione. Ciò non toglie che, se non gli uomini,  almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino,  attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è  più facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi  valori spirituali, quando si dispone della forza sufficiente  per impedirne la affermazione e persino il ricordo; nei  giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien  meno, si misura l’importanza negativa della loro assenza, e  meglio ancora la misureranno coloro che, più tardi,  cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti  (Massimo Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo  del 1923, «ABC», 1 marzo 1959)    Con l’uscita di scena di Massimo Rocca, coincidente con il fallimento della  linea revisionista, ha termine questo libro. La caduta in disgrazia di Rocca  (cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa di  Mario Gioda — e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco  ridimensionamento delle residue velleità “libertarie” di Edoardo Malusardi),  può infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica  dell’anarcointerventismo, quanto meno di quella parte dell’anarcointerven-  tismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali  esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova  ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica,  considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come  fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perché il conflitto  mondiale comportò un’effettiva trasformazione della società italiana,  contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche prebelliche; e  perché il fascismo, al di là delle sue molte anime, fu comunque un fatto  nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come  crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di fondo con cui questi  personaggi si accostarono al fascismo può in qualche modo esser ricondotto    177       alla loro formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa  parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena  anarchica, che, innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì,    progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della  rivoluzione” fascista.  ‘Renzo Novatore’ -- Abele Ricieri Ferrari (Arcola) filosofo. Ferrari. Keywords: implicatura, l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761244808/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferraris – filosofia italiana – Luigi Speranza (Galatone). Filosofo. Grice: “I like Ferraris – he analyses all the implicata of The Lord’s Prayer – pretty complicated – my favourite is his excursus on the implicatum of ‘thy will be done’” Figlio Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a Nardò. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia. Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza, Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si trasferì poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I.  Si adatta a Gallipoli, dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenità della sua vita fu turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i ringraziamenti a Ermolao Barbaro per la dedica ricevuta; è seguente la redazione di Altilio Galateus εὐ πράττειν e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Marinum Pancratium de dignitate disciplinarum.  Dopo la morte di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto l’Antonius Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma assieme L’Accademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco. Fu a Napoli, convocato dal re Federico d’Aragona che lo volle con sé, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia salentina. Godette dell'ospitalità di Isabella d’Aragona, presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime trasferte dal Salento fu quella che effettuò a Roma presso Giulio II, a cui offrì una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riuscì a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide. Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò solo Boezio e la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civiltà classica e autori come Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio, Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante, Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associò Ippocrate e Galeno.Non trascurò gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue opere. Ma non sfuggì a Ferraris il quadro generale della società dei suoi tempi e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle cattive consuetudini.  Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato storico-geografico sul Salento.  Mentre era a Bari ha notizia della "Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna tredecim equitum.  Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae, Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae,  ad Chrysostomum de pugna tredecim equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo  Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas, Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), “Gallipoli” (Lecce, Messapica Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il poeta nel marzo con l’apposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone, in Treccani Enciclopedie.PULITEZZA SPECIALE, •tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne delle eatwersmUmi e specie. M AUorohè, dopo il IX -secdb, ff mase sciolto quasi  ogni  vincolo  governativo  in  Europa,  ciascun  uomo,  secondo le  sue  forz6%  procurò  di  rapire  o distrug*  gerot  £Dibbmar  fortezze  per  difendersi^  o adonar  prmi  per  assalire.   Tra  gli  oggetti  rapiti  prìpieggiavano  le  donne  ragguardevoli  per  bellèzzà.   I  cavalieri^  o  sia  gli  uomini  a  cavallOy  che  più  de*  fanti  erano  anticamente  pregiati  alla  guèrra,  spinti  da  avidità  e  da  amore,  da  vanità  e  da  gloria»  ^i  assunsero  il  carico  di  difendere  il  bel  sesso  »  come  vedremo nèlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi i cavalieri per fare  pompa  delle  loro  lAiprese,  le doniM/ per  onorare  i  loro  difensori  e  trarne vanto,  i  poeti  pec  cantare  il  valore  degli  uni  e  la  bellezza  delle  altrer  ^   «Le  donne,  i  cavalier,  ràrme,  gli  aniiori.   ,     »  Ile  cortesie,  le  audaci  imprese  io  canto  ».   •  Siccome  le  dame  e  le  principesse  «  l'oggetto  e-  »  rano  della  ^  poesia,  così  ne*  furono  le  sovrane  in  '  M  giudizio  e  prò  tribunali.  Imperocché  tenevano  »  nelle  lor  Corti  e  castella  corte  W  amore  o  par"  »  lamentoi  oyè  trattai^nsi  i  problemi^  le  cause,  le  »  liti  amorose  e  cavalleresche;  concorrendovi  gen-  »  iiluomini  e  dame  dappresso  e  da  lungi,  e  sopra-  »  tutto  poeti e cantori, quasi avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che  se  contenti  non  »  erano  {  litiganti. (kyUa  sentenza  de'{>ai:lamenti  »  »  allora  sorgevano  le  Tenzoni  o  sfide  poetiche,  eolle  j>  quali  r  un  contra  T  altro  scrivevano  i  trobadori  »  a  difesa  dìJoi^  eauÉT'e  di  lor  belle»  onde  erano  »  sempre  in  giro  messagi  e  proposte  e  risposte,  e  ^  *  lamenti  e  disQde  novelle  d'^inore  e  di  poesia  ^  Cresciuti  in  fom  i Governi ne*  suasegnenti se*  coli,  e  cessati  i  pericoli  delle  belle,  non  fu  più  necessario,,  per  ^ere  ammesso  in  queste  conver-  sazioni, Taver  rotto-  più  lancia  in  onore  d-ona  prin*  eipessa  o  d' una  ^lama,  ma  bastò  Q^ie  vi  scendesse    ^1)  BeUifiellf.   «      j  ^  oj  by  Google    vmmztA:  sfigxale  30&   «  >  Per  lungo   \  )>  pi  magoanimi  lombi  ordine  il  sangue  »  Purissimo  celeste  »;   per  appriezz^re  meglio  i  sentiBientì  del  poeta  e  salire  air  origine  degli  usi,  il  lettore  può  consultare  la  nota  (I).  .     *  ,    (4)  Xe  ài  Londra  del  28  maggio  4820  dicono:   Le  péU^ni  presentate  .alla  carte  dei  rUelami  nella  circo»  stanza  dell'incofonazione   delFattufide.re  d*  InghQterra),  cofi^   tengono  pretensioni  singolarissime,  e  che  ricordano  usi  antl-  .  chissimi.  il  conte  d'Abergaf enny,  come  signore  della  cascina  '  di  Sculton,  riclama  l'uffizio  di  capo  deUe  dispense^  cl:àedetìàa  .  .  di  farne  il  servizio  sia  personalmente,  sia  .col  mezzo  del  sup  deputato,  e  riclama  per  suo  emolumento  tutti  gli  avanzi  deUe  pietanze  e  delle  carni  dt^o  il  pranzo.   Due  petizioni  furono  presentale  dal  duca  di  Norfolck.  Colla  prima,  nella  sua  qualità  di  conte  maresciallo  ereditario,  egli  chiede  di  compiere  personalmente  o  col  mezzo  d'un  deputato  gli  idficii  di  primo  boUiqUm'e  d'Inghilterra,  e  di  ricevere  perciò  la  migitor  coppa. d'oro  con  «Q[M$relìio,  tp  rimarranno  sotto,  il  inezzule,  e  tutti  gii  orciuoll  e  coppe,  ec-  cetto quelli  d'oro  e  d'argento  che  resteranno  nel  celliere  dopo  il  pranzo.  Colla  seconda  petizione  li  nobile  duca  dimanda ,  come  signore  della  cascina  di  Workoop ,  di  presentare  al  r^  un  guaoto  di  mano  destra,  f»'di  soistoiieife  il  destro- liran^lo  dei  re  nel  menti»  ch'e^  tiene  lo  scettro  reale.   n  duca  di  Montrose,  grande  scui^ere;  dimanda  di  fare  il  servizio  di  sargente  di  lavatoio  dell'argenteria,  e  di  ricevere  tutti  i  piatti  e  tondi  d'argento  serviti  sulla  mensa  del  re  il  giorno  dell'incoronazione,  e  cogli  emolumenti  che  ne  dipen-  dono, ^e  di  portare  eziandio  gli  speroni  del  re  dinanzi  S..M.   n  8lg^  CampbeU ,  come  signore  della  cascina  fi  Lyston  ,  reclama  il  diritto  di  fiir  d^e  cialde  pel  re ,  e  d' imbandirle  jsulla  mensa  reale  al  banchetto  dell'incoronazione. Rimasero  quindi  a  poco  a  poco  e  dovettero  ri-  manere esclusi  i  poeti;  giacché,  se  nello  stato  pri-  mitivo delle  conversazioni,  mentre  il  poeta  si  mo-  strava ricco  d'idee,  vantavano  i  cavalieri  destrezza^  e  le  donne  pericoli^  nel  seguente  stato  il  poeta  ^  solo  sarebbe  rimaso  oggetto  degli  astanti,  quindi  ne  avrebbe  sofferto  la  vanità  degli  altri.   Muniti  di  privilegi  reali  ed  onoriQci  che  dalle  altre  classi  li  separavano,  facendo,  principalmente  in  Francia,  professione  d'ignoranza,  i  nobili  chiusero  ad  esse  la  loro  conversazione,  e  avrebbero  creduto  di  degradarsi,  se  alla  loro  confidenza  avessero  am-  messo chi  soltanto  di  talenti  o  d'altre  abilità  per-  •  sonali  si  fosse  potuto  dar  vanto  (1).    Appena  comparvero  leprime  scintille  delle  scienze,  i  pochi  spiriti  gentili  che  non  rimanevano  impa-  niati nelle  sensazioni  materiali  del  volgo,  provarono  il  bisogno  di  unirsi,  per  fare  acquisto  delle  altrui  cognizioni  e  dare  in  cambio  le  proprie.  Questo  bisogno  era  tanto  più  forte,  quanto  che  prima  della  stampa  altissimo  era  il  prezzo  de'  libri,  come  tutti  sanno;  nacquero  cosi  le  conversazioni  letterarie  od  accademie,  le  quali  da  principi  illustri  vennero  pro-    li) Esistono  scritture  del  XVH  secolo,  sulle  quali  persone  d*alto  rango  fecero  la  croce  perchè  non  sapevano  scrivere.   Nello  stesso  secolo  parecchi  parenti  del  celebre  Cartesio  si  sforzavano  di  cancellarlo  dalla  loro  memoria,  i)ersuasi  che  la  filosofia,  di  cui  egli  era  il  corifeo,  fosse  macchia  alla  loro  schiatta  (  V.  Thomas,  Eloge  de  Décartes  ).    Digitized  by  GoogI    PUL1tBZZ4  SPB€ULE  307   tette,  giacché  i  principi  illustri  non  temono  le  sciepze  è  sanno  che  degli  Stati  il  principale  pregio  son  MSe  e  lo  splendore.   Per  consimili  motivi  sors^  eonvecsi^ioni  di  pit»  tori,  di  musìei,  e  con  maggiore  coneorrenza,  giae*  €bè  la  capacità  d' apprezzare  le  bellezze  di  questo,  «ti  egregie  è  men  rara  di  qa$Ua  che  per  appres*  2are  le  scienze  richiedesi*   III.   Lo  spirito  di  commercio  svegliatosi  dopo  I."  un*  decimo  secolo  in  Itatta^  pisogfessivattiente  4)reseii|U>  ne' susseguenti,  fu  larga  fonte  di  ricchezze.   Si  vide  allora  che  si  poteva  essere  ricco  e  con-  siderato senza  essere  nobile  o  possessore  di  fondi.   Il  desiderio  di  far  pompa  di  ricchezze,  unito  al  bisogno  di  conoscersi  peraccrescere  le  relazioni  com-  merciali, formò  le  adunanze  de' commercianti.   La  ricchezza  de' mercanti  cozzò  colla  ricchezza  de*possidenti,  e  nette  città  libere  ottenne  quegli  o*  maggi  che  altrove  si  era  riservati  la  nobiltà.   IV.   La  classe  direttrice  de' lavori  nieccanlci  si  diviso  in  altrettante  masse  quante  sono  le  specie  di  essi.   L'analogia  de'lavorit  il  desiderio  d'imporre  legge  ai  lavoranti ,  la  necessità  di  conoscersi  per  ripar-^  tire  le  imposte  che  i  principi  esigevano  dall'  indu-  stria, rkniirono  i  direttoli  delle  varie  arti,  o  sia  i  fabbricatori,  in  altrettante  compagnie  o  cow/rafer-  nite  che  ebbero  te  loro  regole^  e  tennwo  le  loro  Mssioni  in  gicrni  determinati» Le'ricebezze  perdute  ddia  iiobiUàyer  ie  ragimif  ehe  diremo  ,  furono  raccolte  da  persone' intelligenti  e  attive,  che,  senza  appartenere  al  ceto  de'commer-  cianti  o  de'fabbrieatori,  sepp  ero  farle. vafere.  I<on  contente  delle  nuòve  ricchezz  e,  aspimono  tfUa  siderazione,  e -giunsero  ad  otxeaerla  colf  affluenza  de'commengali:  si  fòrmaronò  così  de'nuovi  erocebi  composti  d'ogni  specie  di  per  wne;  vi  si  vide  il  fit-  taittolo  che  viene  sovente  alla  città  per  ta  vendita  de'  prodotti  agrarii;  il  sensale  i  ^he  propone  de'oon-  tratti  prontamente  lucrosi  ;  il  basso  impiegato,  il  eol^  zelo  è  neoesBarìo  al  itadronc  )  nelle  sue  relazioni  col  Governo;  il  nobile  decaduto  »  cke  ha  semjj^re   '  «  4  \  '  ' .  prontf   :  1^  E  sali  e  frizzi  e  lepijdi  racconti  il  militare  che  più  d' ogni  altro,  abbisogna,  di  pia-  ceri rumorosi;  il  parassito  che   «   •  il  naso   »  Air  odor  dell'arrosto  arri  ccia  in  alto  »  e  ia  cambio,  dell'  arrosto  vende     le  novelle  della  ^ittà  ai  commensali,  e  del  padre  ne   «  Le  signorili  stupidezze  in  dora  ».   La  plebe  che  eseguisce  i  lavori  materiali,  non  rsi  cedeva  per  r  addietro  fuorché  .  «  pubblici  spet-  tacoli sulle  piazze,  o  per  bisogni  momentanei  alle  «osterie,  o  p^r  pratiche  religiose  nt.  Ue  chiese.^  Oc*  c  cupata  più  a  gozzovigliare  che  a  di.  «correre,  si  tro-  ìsava  inoltre  separata  dalle  altre  clas:  li  pel  sucidume  uii<cui  era  involta..    I  >   P  VI.   cause  per  cui    aprjiréao  eotmiaicaìiioDi  tra  .  le  varie  adunanize  sociali,  e  dalPana  aU^altta  Horo- membri  trasaugrai'ono,  sono  le  segueati:  li  La  passione  del  gioooa ,  Jartìssima  io  tutti  i  ^  tempi  e  per  faddietro  di  più,  come  vedremo  nel-  .  r  articolo  aegueote,  rappe  la  barriera  ciie  separava  la  nobiltà  dal  eomtnereio  :  alenai  n(*ili  noli'  ere-  .  d^ero  ài  avvitire  i  loro  stemmi  awicinandosi  ai  commercianti  col  non  troppo  nobile  desiderio  d'ot-  tener parte  del  loro  denaro  giuncando.  \   Molte  famiglie  nobili^  rimaste  rovinate  dalle  carte  dai,  dadiy  sen  tirono  pèr  csperieuza  ebe  tati  i  di*  filomi  gentilizi  non  bastavano  per  comprare  un  .  "Jbraceio  di  panno  o  una  libbra  di  caroe^  La  plebe  :Che  ne  era  stata  insultata,  cessò  dì  rispellartedacehè^  •'BOQ  le  vide  più  in  carrozza;  quindi  divenne  popo-  lare proverbio  i^e  nobiità  sema  ricf^M&ia  è  fimo  ■^enza  arrosto,   II.  Il  celiiba'oo  cui  erano  condannati  per  l' addic:  tro  i  AobiH  cadetti,  mentre  le  nobili,  fanciiille  sì-  •senti  .vano  tutte  chiamate  al  chiostro^  gli  spinse  non  -di  r jado  ìft  traccia  di  beUezse  plebee.  Usciti  dal  •  p»'iazzo  pàtrizio  ,  non  isdegnarona d*  ei^ar  nella»  1?  asaccia  del  calzolaio,  del  falegname,  del  parruc-  '  chiare,  ecc.,  e  talora  .   ^<   airaer  bruno   ,  . .  *  Seguir  fanciulle  che  espugnò  U  digiuno   fn  questa  caccia  la  nobiltà  contrasse  un  poMi  fango,  e,  quel  che  è  peggio,  si  lasciò  rapire  molto  sostanze;  quindi  per  doppia  ragione  scemò  di  credilo.    u   .1^ -o  Google    310  '  c     UBaO  TEMO   III.  I  principU  a  eui  Jiegli  scorsi  seeoli  a?éa  fatta   paura  la  nobiltà  potente,  colsero  tutte  le  occasioui  di  dìmìnùinie  i  privilegi^  fonte  di  copiose  riccbezze  e  maggtadri  angherìe;  qtuiidì  il  coectiio  chiB«ra  ti-  rato da  otto  cavalli,  non  ne  ebbe  che  quattro,  poi  due,  e  talvolta  rimase  polveroso  nella  rimessa;  audà  per  óonseguensa  diradandosi  la  nebbia  ehe  eòprìva  gli  alberi  genealogi  e  li  rendeva,  grandi  agii  occhi  del  volgo.  /     '  '   !V«  I^a  filosofia,  i  cui  delitti  som  precisamente  misurati  dalle  perdite  subite  dal  feudalismo  e  dalla  superstbUone ,  vantando  i  diritti  dei  meiito»  personale,  non  volle  riconoscere  alcun  valore  nelle  vecchie  pergameqe,  e  disse  ehe  nao  zoppo  «ansava  4'  essere  eoppo  perohe  sao  nóniio  aveva  avuto  le  gambe  diritte,  e  che  quiodi  doveva  essere  |RÙ  Stimato  -m  artista  che  con  indmtria  mmhit»  accresceva il suo peculio,  di  quello  che uni  nobile  .che  co^suoi  vizi  daya fondo  al suo  patrimonio. La  poesia,  più  coraggiosa  della  fttosefia  «  arA  supporre,  ridendo,  che  le  nobili  matrone  non  erano  siale  tutte  Luccesie,  e  che  talvolta  la  moglie  £^  eompaefréde'figli  men  patriasii  M attrito; iati soumi»  la  purità  del sangue  soggiacque  a  molti  dubbi  an-  che neU'opteione  dei  volgo*  il  quale  dà  sempre  ragione  a  chi  riesce  e  farlo  ridere  fP^.  l  pometti  dell'  inimitabile  Parini)  (1).  ,    (  I  )  la  onta  di  tutto  ciò  vi  sono  tuttora  pAreeehie  petsone  ebe  appresEiaiD  gli  stemmi  geiitittzii  ed  «scludono  dalla  lem  eon^   yersazione  clii  non  n'  è  fornito  ,  per  la  stessa  ideutica  ragione  per  cui  i  pacftUtici  apprezzano  le  stampelle.    Digitized  by    *FUI.mftM  SCftCIÀIii^  L'aumento  de'teatrì  dimiouì  il  concorso  alle  eonversaziODi  particolari;  quindi  restando  istesso  il  bisogno  di  conversare,  fu  forza  essere  meno  ritrosi  fieir  ammettere  nuovi  membri:  dapprima  Tetichetta  voleva  un  diploma,  posdà  sì  eratenlò  un  abito  di  seta.   VL  Le  invenzioni  teoriche  e  pratiche  mis^D  in  contatto  f  dotti  «  gii  artisti;  «iaseanaf  di  queste  elassi  *  seuA  il  bisogno  di  consultare  Faltra;  la  prima  per conoscere  de'£atti,  la  seconda  per averne  la  spiegazione: il  dotto  imparò  a  rispettar  Tartista;  Tar*  tista  s' accorse  che  i  consigli  del  dQtto  gli  potevano  essere  utili. Crescendo  i  punti  di  comunicazione  ed  i  contatti  sociali,  crebbero  i  bisogni  del  lusso  e  si  estesero;  quindi  ì  lavoranti  ottennero  meqo  scarsa  mercede  che  negli  scorsi  secoli;  disparve  così  a  poco  a  poco  «  almeno  in  parte  «il  sucidume  dalla  plebe,  ed  ella  potè  conseguire  un  abitof  ebe  sebbene  inferiore  nella  ùiìQZZà  a  quello  del  ricco,  ne  imitò  l'apparenza.   Vili.  In  questo  stalo  di  cose,  dissipato  il  fumo  géntìlizio,  si  vide  qtioli  persane  concorrevano  al^  fMienda  sociale^  e  quaU  na;  ciascuno  ottenne  un  valor  d'opinione  corrispondente  alla  ricchezza  (ca-  raitto  reale),  o  air  abilità  (caratto  pemnale)  di  cui  era  fornitQuindi  fu  concesso  un  grado  di  stima  alla  bassa  plebe,  fu  tolto  un  grado  .di  stinia  alla  nobiltà^  fu  diviso  il  restante  con  proporzione  graduale.   Lo  aprezzo  rimase  a  quelli  che  volevano  vivere  a  apese  aitnri,  questumuUh    '  i;  ^J9ibami^  a  quatti  dtie,  volevo   vivere  a  spese  altra«  TiAa^do*  '  "tkmf^^   lAi  pubblica  beneficenza  s'interessò  per  quelli  €he  erano  impotenti  al  lavoro  9  cioè  noa  eiano  caratìtisti  per  'maacanga  di  volontà»  ma  (fi  potere.   L'idea  che  tutti  i  carattisti  coDCorrevano  all'a-  mada  iMeiale^  e  ohe  ciaseuso  a?^  bisogno  degli  altri,  fece  allargare  le  porte  delle  conversazioiii  con  miituO'  vantaggio  de'  concorreati ,  come ,  v^^mo  i|iel  seguente  gitolo.  ^  : UtUità  e  nemtìtài  delle  coiwersaziQni*   •   Le  conversazioni,  questo  mezzo  di  felipità  sociale,  sì  pronto,  sì  innocente,  sì  facile  a  tatti  gli  uomini,  sì  convenevole  a  tutte  le  condizioni,  sì  necessario  a  ttttte  le  etsu  la  conversazk^ni  non  "potevano  sfug-  gire al  morso  della  censura;  giacché,  essendo  «w-  scettive  di  varii  aspetti^  offeivano  campo  ai  poeti  di  farne  delle  caricatore;  esseialo /cm^i  di  piaceri^  dovevano  essere  scopo  alle  declamazioni  de'.mora-  listi  pedanti.  Gli  uni  e  gli  aitiri  imitarono  le  due  donne  ddia  favola,  Tuna  delle  quali,  un  pp^  vec-  chia, strappa  al  marito  i  capelli  neri,  V  altra,  un  po'^ome^  gli  strappa  i  bianchi,  tantoché  il  po-  ver'uomo  finisce  per  restar  calvo.  Infatti^  siccome  chi  non  esagera,  non  djesta  che  lie^e  impressione,  perciò  ai  difettnedi  reali,  ddla  conv^aziòni.ne  fu-  rono aggiunti  de' fittizi!,  e,  secondo  il  solito,  si  bearono  degli  spetri  a  spavento  de'  fanciulli  e    Digilizeci  by  Google    .  '  '  'pulitezza  speciale-  313  •<  delle  irnmaginazioni  deboli  :  con  eguale  logica  si  'screditerebbe  il  sonuo ,  perchè  talvolta  i  sogni  ci  conturbano.  '  ^  *   §  1.  Influenza  delle  convérsaziàni  .  '  sulla  felicità  sociale.:'^     ^l,-   V.^J^  ?o^l  miseri  mortali  a  cui  sì  spesso   /      Il  tesoro  del  tempo  è  incarco  e  noia  »,   trovano  nelle  conversazioni  un  mezzo  d'innocuo  e  piacevole  trattenimento.  Qualunque  in  fatti  sia  l'origine  del  bisogno  di  sentire,  egli  esiste.  Questo  bisogno  ^>  -  ,  Ot '^vs.' .  >  i     •  ^  ,   i*;  ,   1.  È  forte  in  tutti  gli  uomini  dopo  il  lavoro,  lO;  studio,  gli  affari;  yi^^  .    *  .  .p       t  *  *  vr.rf   2.  È  più  forte  ne*  ricchi  sciolti  dall' obbligo  del  lavoro,  dello  studio,  degli  affari;  È  fortissimo  nelle  donne,  sì  perchè  dotate  di  maggiore  sensibilità,  sì  perchè  a  maggiore  mono-  tonìa di  vita  condannate  (1).     '   -y.  ^ . .  -7^   :  'Questo  bisognò  viene  alimentato  dall'istinto  della  sociabilità  che  induce  gli  uomini  a  raccogliersi  in-  sieme per  comunicarsi  a  vicenda  le  loro  speranze  o  i  loro  timori,  le  loro  pene  o  i  loro  piaceri;  quindi  vediamo  formarsi  unioni  sociali  sì  tra  le  orde  sel-  vaggie de*  deserti  come  tra  le  persone  più  urbane  delle  nostre  città.  Questo  bisogno,  a  guisa  di  ca-  lamita, attrae  spesso  e  lega  insieme  anche  le  per-  sone più  indifferenti,  e  perfino   »I   v^^^*  VI '•••i.'.-   ^  '  (I)  'Che  amabile  città  si  è  mai  Venezia,  mi  dicòva  una  signora  !  —  E  che  cosa  vi  avete  voi  trovato  di  sì  seducente?  Vi  parlavo  lutto  il  giorno.   ^    ,  18   Digitized    .  -  »  Siiiipatizzaat|r,c|oaìe  g&u^    cani  ».  ;   .  f  ■/  '       •  -  *  ...(..  ^   Le  converisaziooi  considerate  come  m^zo^  diaria*  nimsffe'lefoi^jHanguidife,  od^né^^  sensasibbi  plccaoti  sul!'  intervallo  che .  ì  bisogni  BOddisfatti  disgiiioée/'da!  bisogni  da  soddi^fàrsi^  fiume  parte  degfi  altri  trastulli,  e  sì  liiaocenti  sono  in  sé  stesse  come  un  passeggio  in  aoieap  giardino.  '   jL  1  piisicerf  die  gustiàoio  mila  «oUtodine^  ec-  cettuato il  caso  di  speciale  affezione,  illar^uidiscooo  pcesto  e  perdono  -parte  delle  lóro  attrattale.  AU'op*^  postò  "Àé^ii  GonAunicbiamo  agli  altri ,  sembra  ebò  si  riofolrzjao  e  si  estendano;  s^  polli  gustiaipo  in  loi^  '  oòqspàgnia ,  dnréno  di  «più  ^ .  ci;  «ièà^M  frià  cari /e  per  tutto  T  animo  si  diffondono,   >*  Ctf ombra  è  piacerj^se  noi  condisce  affetto  »  (I)..   -        '    '..   :  III.  In  un  crocichio  di*  p'ei'sone  che  si  stimano  e  si  amano,  cresce  il  senti  mento  delia  fór;ca  phe^inijoezaa  Bile  vicende'  sociali  ci  abbisogna.  Ciascuno,  oà^  noscendo  le  disposizioni  coniuaì,  appliea;,nella  sua  jAiente  le  foi^e  altrui  ai  b^ogni  [tfopri.  La  ooqt  yersazioiléio  accerta  che  in  caso  di  calunnia  tror  .'.Vei^^^U  apologisti;  di  rovescio,  de' protettori }  -iil^^^Qì^v  die^oonsigUen;  dWaoQK^t  delle,  perr   (I)  Possiamo  dunque  t^ccUre^  di  mansogna,!!  nolissinHi^  misaritropo  Timone:  pcanzàva  costui  lin  giorno  con  Apenuuito,  «Itr^  ihisaotrapo,  eelébnttido  ii»ienie  la  festa  delle  libazioni  •   fttfiebri.  Dopo  lungo  silenzio  Apemarilo  disse  :  Fa  d'  uopo  convenire,  o  Timone,  «he  il  nostro  pramo  è  molto  allegro:  e  questi  rispose  :  Lo  sarebbe  di  più  senza  la  tua  presenza.   sone  pronte  a  scemarlo  partecipandovi.  Questa  persuasione  abituale  reagisce  contro  i  vaghi  timori  che  o  nascono  neir  immaginazione  naturahnente,  6  dalle  mosse  de'  nemici  vengònb  prodotti;.  Bror  babilmente  egli  è  questo  il  motivo  per  cui,  he^po-  poli  che  concedorto  n^iplto  tempo  alla  conversazione,  non  suole  essere-"^ sovèrchia  T  inquietudine  sul  fu-  turo j  se  ne  potrebbero  trovare  esempi  a  Venezia  ed  a'  Parigi,  ^i-  't'^^-  ^'^^   S  if  J'Wflwnza  delle  conversazioni  u  ii.  V,.  ,  \^  sull'  istruzione.  v;   ì.  Alcuor  !eggoB(>  (>er  spacciare  le  loro  idee  nelle  conversaziobi^altri  per  non  mostrarsi  digiuni  delle  notizia  più  triviali.  .  i   /  ,  .   La  lettura  cominciata  per  vànìtà,  continuata  per  abitudirte,  talvòlta  in  passione  si  cambia,  e  i  fri-  voli gusti  tìghoreggia  o  discaccia. Chi  léggCi  o  per  istruirsi  o  innocentemente  in-  trattenersi, toglie  sempre  degli  istanti  alla  covi^  ruzione,  e  talvolta  le  toglie  de'  capitali^  per  la  compra  de' libri di cui  abbisogna.  "  .  I  gabinetti  di  lettura  sono  una  conseguenza  dello  spirito  socievole  dello  scorso  secolo;  si  procura  a  tutti  un  mezzo  d' istruzione  con  pochi  soldi.  '  Non  tutti  possono  leggere  tutti  i  libri;  ciascuno  è  costretto  a  ristringersi  nella  sua  sfera;  ma  nella  conTersazione  i  libri  letti  da  uno,  divengono  mezzi  d'istruzione  per  gli  altri;  in  caso  di  bisogno  egli  vi  dà  in  UQ  quarto  d'ora  il  frutto  di  dieci  ore  di'  lettura.   II.  Se  nelle  dispute  che  sogliona  nascere  nelle  conversazioni,  i  due  contendenti  restano  per  la  più  dèi  loro  parere,  l'influenza  delle  dispute  sulle  opi-  nioai  non  lascia  d'essere  reale,  giacché  V  i.  Gli  spettatori  disinteressati  formano  il  loro  giudizio  sulle  ragioni  allegate  prò  e  contra  dai  di-  sputanti. La  voce,  il  gesto,  il  tuono  di  essi  ren-  dono, per  così  dire,  più  acuti  i  tratti  del  loro  spirito  e  più  profondamente  neir  altrui  memoria  gli  imprimono;   :',  ilé.  Quegli  tra  i  contendenti  che  ha  torto,  e  che  nella  disputa  chiuse  gli  occhi  alla  verità,  non  con-  serva questa  ostinazione,  allorché  riflette  poscia  di  sangue  fredddo,  e  sovente  s'accosta  al  sentimento,  che  aveva  combattuto  (1);  •  ^  :/:if   IH.  In  una  conversazione  generale,  quegli  che  parla,  si  vede  cinto  d'una  specie  d'uditorio  che  lo  ^nima  e  lo  sostiene  :  questa  circostanza  da  allo  spirito  maggiore  attività,  alla  memoria  maggior   . fermezza,  al  giudizio  maggior  penetrazione,  alla  fantasia  de'  limiti  che'  non  gli  permettono  di  diva-  gare. I)  bisogno  di  parlar  con  chiarezza,  lo  sforza  a  dar  qualche  attenzione  allo  stile  e  ad  esporre  con  qualche  ordine  le  sue  idee;  il  desiderio  d'es-  sere ascoltato favorevolmente, gli suggerisce tutti I mezzi d'eloquenza di cui la conversazione famigliare é capace. Quindi la  conversazione  è  la  prima  . Intendo  qui  di  parlare  delle  persone  di  spirito  e  di  buonafede;  giacché  gli  spiriti  falsi  e  vani,  o  gli  uomini  di  parUto,  pe'  quali  la  conversazione  è  un'  areùa  óve  combat-  tono da  gladiatori,  non  aspirando  di  giungere  alla  verità,  ma  di  conseguire  un'  apparente  vittoria,  quesU  non  riescono  nelle  loro  dispute  che  a  raddoppiare  il  velo  che  ingombra  il  loro  intelletto,  e  a  vie  più  nelle  loro  opinioni  smarrirsi.    Google    e  la  migliore  scuola  per  gli  uQmini  che  ^  {tarlar  ia  pubblico  si  dispongono.         ;  -  '  Sj:  f   Air  opposto  un  uomo  che  vìve  solitario  nel  suo  gabjìiettOr  noD  stimolato  a  farpas^re.le  sue  idee  tìjrii'Mtrui'anittio,  noin^eriteiidosr'itvymffiairii  a  fronte^  non  avendo  obbie;{.ioni  da  combattere,  non  impà-  rérà.  fót^  gìàmàm  qiiest'acle  delicata  ebe  ^  coa^  vincere  gli  spiriti  senza  offenderV  amor  proprio,  ^•€0Dà  bel  garbo  costringe  l'altrui  inerzia  airesame  «j^ttì  prègiuritzie^  pungèndota  con  x^iche  tmjU*  piccante^  Altronde  sempre  solo  con  sè  stesso,  e  ^imsM  aggeUi^^L^4xm/twitoi  disposto  a  niguardmi  x^iascuna  4rfea-  che  gli  si  pcesèdtay.came^una  sco»>  perta  ;  non  mai  esposto  a  queste  piccole  lotte  di  ^cietà  che  danno*  si  prontamente  a  tiascufiei. la  •  misura  delle  sue  forze,  egli  inclinerà  a  formarsi  mt  ppinione  esagerata  de'  supL  talenti  e  ad  e-  Bpone  le  ^nierìdee  con  atìsi  fmpfariosa  edoffenshra.  Si  può  dire  delle  conversazioni  ciò  che  Alfieri^ dice  dei.  vhiggi;.v  •  '^^•^^^■j      'r<^  ^    *  '    Y|  sì  impara^  più  assai  che  in  su  le  cartCi   tH\  ^        ^'^^     ^  stimare  o  spregiar  l'uomo^  ^^^j  »;Ma  a.cònoscer  sè  stesso  e  gli  altri  jn  parte  v.   ^^i^ìLo  studio  ia£atti  de'libri  rie^oe  ua  mol^  languido  é.  ddN)le^  che  esercitai  non  agita!^  non  riseaMa  la  mente  come  la  conversazione.  S'io  discorpo  con  CdbustO/  ragionatore,  dicis  Montaigne^,  egli  mi  ein|[e e  iB.Incalza  da  tulteie  parti;  lé^sa$  fdee  ri^egllaiio  le  umi  la^^osàia,  la  gloria,  .la  QQnte^ziQpe  mi  spin-  .gena,  mi  riali^aho  sopra  di  me,  e  non  diradortni  presentano  nuove  combinazioni  ideali.   •  ;  -    Digitizeò  by  Google    S18  ^  LWM  tBBÌÙ.  "   4   §  3.  Influenza  delle  conversuA^ioni  .  sfil  costume*    U  de6Àderio  4i  piacere  a^i  atoi  vaddoldsee  ia  pale  mseefen  dèir  mm^i  ìnra  questo  Aderto  si  svolge,  ci  aDiina  nelle  conversazioni^  e  l' abitudiM  d!eq^ijmerl€t  forma  J'abìMdiBe  di  aeotirlo. Dacché  le  conversazioni  divennero  comuni, nac-  q[iie  ^  fiorì  «/quell'eleganza  di  tratto. e  quella  non  9  80  quale  gra^ìa^-d*  urbanità^  quel  ^Aresentorsi  plà  9.  disinvolto,  quel  più  leggiadro  atteggiarsi,  e  quei  n  versatili  modi  e  politi  cbe.  imlla  sentano  V  ioatr  titudiiie  6  TimbaMaso;  quindi  quel  wiàsm  wtm  u  più  dilicato,  e  que'  mutui  riguardi  e  qua'  molti*  »  pliei  uffieii  di  olviltàt  johe  quaai  ad  egiH  .ubante  »Ja  vanità  e  l'amor  proprio  dona  e  riceve.  Le  »  passioni  .medesinia  c)ie  erano  prima  iutratta*  ».iMtt'.,  Mnreggendo  in  pfttte  la  toc  nafitf  wtm^  i>  biaoza  ,  sonosi  anch'  esse  ,  dirò  così,  incivilite.  ^  L'oigo^iosa  superbia  si  è  maaobei^ata  sotto  la  »  spoglia  d'  doa  finta  modestia  ;  T  invìdia  siesta  »  sa  pronunciar  delle  lodi,  e  il  puntiglioso  e  caldo  ».  risentimento  V  obe  quasi  ad  ogni  parola  aveva  »  li  fuoco  negli  occhi  e  la  mano  sull'elsa,  ha  ».tesBiperato.  queir  indole  sua  ferqee  »;  si  è  im«  parato  a  dissimulare  un'offesa,  a  Dasedndelw  tipatìa,  a  rispondere  pacatamente;  e  benché  questa    re   P   if   M   lusinghiera,  gradita  e  di  realissimi  vantaggi  sociali  /ecandq,  ^jper-^^la.^[y&lio  ostacolo  a  mali gravU-. Finalmente  sogliono  non  pochi  giudicare  del  me-  nto 4'  uoa  pecfiona  dalla  sua  maniera  di  caavMr*  sare^'  nè,  si  eiitano  di  porre  al  vaglio  sue  buone  0  cattive  qualità^,  ma  ue^  formailo  giudizio  dalle  i-  dfie  cb'ella  .presenta:  Bé^ordeobi  sociali  ;  qoiadi  £0^  forza  entrare  nelle  società,  giacché  le  abitudini  del  -  ^eatil  couversare  aoit  possooo  in  soUngo  gabinetto  aljgnistarsi. Influenza  delle  conversazioni  ,  ^  '         sulla,  morale.   •   ^  h  AUotcfaè  gli  uomini  s'uniscono  in  conversevole  ecMohior^  49orge  tea  di' essi  un'  opinione  la  quale  condanna  gli  atti  che  riescono  nocivi  a  tutti  od  a  qualcuno  deglj  uniti:  ciascuno  ò  costretto  a  nascosi*  dere  1  eentiméQti  criminosi  che  per  avventura  cova  neiranimp.     .         *     -  \  ^   £  aiccMie.  anche  ci»  maàqa  éi  virtù,  vuole  mo-  strarne almeno  l'apparenza  ,  quindi,  se  qualcuno  d^li  uniU dà mentore  di  vì^i, la van^à  degli  altri .  si  uniseè  to6t»  pericaeeierlo  dal  loro  imo,  ae^  non  corra  voce  «che  lo  tollerano  o  f  approvano.  ^   Dnn^e  quanto  {mù.  erescé  lar  bc^ma  di  parteci»  pare  ai  piaceri  delle  conversazioni,  tanto  più  cre-  sQono  i.  motivi  per  isciogli^sii  dai  vizii  che  esse  ooodamiaiiD.  .   «  1  ref  mordendo  a  lungo  gioco,  è  d'uopo  »  Che  r  oprare  al  gridar  conforme  eqch^ggi  )\   II;  Screditando  gli  altrui  vizii  ciascuno  si  lusinga  ^  iter  provn  di  .contiaria  virtù;  quindi  neUe  con^  versazioni  cìascuoo  cbiSuna  a  ^indicato  la  riprove- r  vole  condotta  degli  estranei  od  assenti:  ciascuno  ride  delle  umiliazioni  cui  è  condannato  un  lecca-  zampe; ciascun  parla  con  orrore  d'un  tradimento;  ciascuno  sviluppa  le  circostanze  che  aggravano  un  delitto  ecc.  Escono  dalle  conversazioni  de'  gridi  che  chiamano  gli  sguardi  del  pubbblico  sul  ma-  gistrato corrotto,  sul  giudice  venale,  sull' ammi-  nistratore infedele  ecc.  ^  .         v'.  ;>;i^.\;.   Allorché  la  condotta  di  qualche  persona  potente  non  è  ben  nota,  ciascuno  degli  astanti  comunica  agli  altri  le  sue  viste  ;  si  mettono  al  vaglio  i  fatti  e  le  congetture,  si  confrontano  le  realtà  e  le  ap-  parenze; si  richiamano  le  notizie  anteriori  e  con-  comitanti ,  e  dualmente  si  giunge  a  smascherar  l'impostura.  •       .  *»;  v' Viii  ci/v^raKUi-   L'opinione  pubblica  va  ad  attingere  alle  conver-  sazioni i  documénti  che  giustificano  i  suoi  decreti  di  onore  o  d'infamia.  .  \  -  -i.  /  •  Le  conversazioni  sono  come  le  sentinelle  not-  turne che  ad  ogni  ora  si  comunicano  il  grido  di  sorveglianza,  onde  reprimere  ne' pubblici  pertur-  batori il  desiderio  di  far  del  male.  •  •  •>  •  ^.Le  conversazioni  offrono  il  destro  di  pronte  be-  nefiche soscrizioni  a  vantaggio  dei  poveri.  L'inte-  resse che  la  padrona  di  casa  sa  destare  neiranimo  de'suoi  amici  a  favore  d'una  famiglia  o  d'una  classe  sventurata  ,  il  desiderio  comune  di  dare  prova  di  generosità ,  l'altrui  esempio  che  fa  forza  anche  ai  più  renitenti,  tutto  concórre  a  far  riuscire  imme-  diatamente un  progetto  generoso,  che  senza  le  con-  versazioni resterebbe  sventato  o  verrebbe  troppo  t^rdi  ;  quindi  con  piccolo  incomodo  degli  astanti si  raccoglie  ia  più  orocebi  una-samiQil  ragguai:de*  -  voìfi  e  safficieate  ^1  Jbisoguo  (1).    §     Influenzji  delle  eonverisazioni  sulte  càrtL   Le  conversioni  avviemando  giornalmente^  uomini ,  e  ciascuno  bramando  di  comparire  ricco  e4  legaste,  €i:e5C0ifo  i  compratori  dette  merci  4^.e  adornaao  le  persone  e  le  case  ;  quindi  si  eslesero  toi^amei^te  l^.arti  così  dette,  di  lusso.  Il  popolo  firàneese ,  "^tmiò  H  quale,  è  massimo  il  bisogno"  di  conversare,  è  divenuto  il  dominatore  della  moda.   JBari'addietrqi  etmano  scarsissime  le  conversazioni,  e  moltissimi  gli  obbriachi  ;  ti  capitale  che  ora  si  spende  in  abiti  ,. allora  sj  spendeva  in  bagordi.  .  Quelii  cbe  ftnaot rimprovero  alla  filpsofia  d'avere  esteso  lo  spirito  di  socievolezza ,  son^  costretti  a  dire  cAte-  un  uomo  ubbriaco  jè  preferibile  ad  ,un  nomo  legante.  *  -   Per  disgrazia  dell'  umanità  questi  Ostrogoti  sitrovano  talvolta  alla  testa  degli  St^i ,  e  con  ottime    (4)  A  Verona,  trovandomi  unà  sétat  alla  convetsadon'e  •  d^iHia  signora  che  non  soleva  andare  al  teatro  ,  ma  univa*  nella  sua^eas£i  vaeii  amici,  ella  ci  disse  :  Signori  :  dimani  a  sera  no^  qi  vedremo,  perchè  uadcò  A  teatro,  t  t:ome  al  teatro  t  ^  Si,  gbusehè  la  serata  va avaatagato  ^ povecL^-  .  Dunque  ci  vedremo,  risposero  tulli..  fiaÉattì'  la  ««ra.  susse-  guente non  solo  ciascuno  degli  astanjti  andò' ài -tealro ,  ma",  condusse  seco  quattro  o  cinque  amici  ^  cosicché  il  palco  déUa  signora  fu  un  andirivieni  continuo,  ed  una  specie  di  goecrà  a  ÌMdamà  V  ini4$mt0  >  la  ^àte  si  fonava  neUa  sua  sconfitta.  —  Beco  la  ^àvOlz^adone  :  beaefioenònt  ìuoit^  alpia^.  cerei  onore  al  bel  sesso  cbe  la  proinoveiL   intenzioni  li  rovinano.  Pio  IV,  declamando  contro  l'uso  delle  carrozze,  indusse  i  cardinali  a  caval-  care le  mule  ;  si  moltiplicarono  le  mule  in  ragione  de'capitali  che  non  erano  più  impiegati  nelle  car-  rozze^  cioè  le  ìnule  presero  il  posto  degli  artisti.  Non  vi  par  bella  e  sensata  questa  trasformazione?  Andate  avanti,  beatissimo  Padre,  e,  giusta  le  mas-  sime predicate  da  altri  moralisti  (1),  induceteci  a  privarci  del  cappello ,  della  giubba,  delle  calze,  delle  scarpe  ;  e  così  dopo  d'  aver  fatto  sparire  gli  artisti ,  se  pur  questi  vorranno  sparire  senza  ca-  gionarvi qualche  timore,  venderete  le  vostre  der-  rate agli  uccelli.  *  .  r  <  V.:m!v:ì1|ì;*>>  :\  .  Torniamo  al  fatto  :  in  forza  delle  conversazioni  si  sono  cambiate  le  abitudini  economiche,  e  Tele-  ganza  è  sottentrata  all'ubbriachezza-  Quella  massa  di  liquori  che  per  Taddietro  consumavasi  da  un  solo  con  danno  della  salute  e  della  ragione,  ora  sopra  dieci  innocuamente  si  distribuisce,  cioè  sopra  gli  artisti  che  fabbricano  cose  comode  ed  eleganti.   Dunque  nell'aumento  delle  conversazioni  hanno  guadagnato  le  arti  e  la  morale.  r  II  lettore  che  non  fosse  abbastanza  persuaso  de'  vantaggi  che  ho  attribuito  alle  conversazioni  ed  in  generale  allo  spirito  di  socievolezza,  è  pregato  a sospendere il suo giudizio sino all'articolo secondo,  ove  esaminerò  gli  usi  e  i  costumi  de'tempi  barbari  e  semibarbari  ,  ne'quali  di , socievolezza  non  v'  era  quasi  traccia.    ,  (^)  Accennate  nel  Tranató  del  Inerito  e  ^elìt  KieomfitnUe,  toro.  II,  pag.  8087.    1   «  Gli  oMPOstt  Oggetti   V  Rende  più  chiaro  il  paragoo.  Distìngua  ,  »  Meglio  ciascun  di  noi  ;   .»  .       ic.i»    :  .  .n  NeimalehegIiattnopprm««4lb9A€   -  . Scelta  deHe  tantféfsaatcni:    r  .f'/.v;r   li  Cki  .vcdesgft  sfogare  il  coosoitia  di  tutti  f   reprobi,  correrebbe  pericolo  di  viver  solo.   Pupi  restare  ia  casa  nfm  ioKdarti  kfijoarp^t  ma  restando  in  casa  ti  privi  d'una  passeggiata  utile  e  4^Uzio9a«   Dpnque  non  potendosi  p^r  noi  crear  uoniiiil   perfetti,  sarà  sempre  miglior  consiglio  accrescere  la  forza  della  j[M*opria  virtìi5  di  quello  che  i'irrita-  ^  biKtà  agli  altrui  vizi;  ^  ^  .   Dire  che  aoa  dobbiamo  essere  cestii  a  lordarci  ^  le  weqMi  pi^  jurooucarci  una  buona  passeggiiitaii  nm  è  dire  che  dobbiamo  innoitrarci  nel  fango  sìao  agli  occhi  e  con  pericolo  di  spezzarci  una  gamba  :  per  anpdogìa  dite  lo  stesso  delle  conversazioni.   Adombrati  gh'  estremi,  dirò  al  giovine  che  nella  soelta  delle  conversazioni ,  più  ctie  gli  adulti  ed^  i  veoohi  egli  debb' essere  riservato  ;  giacché ,  man-  candogli la  loro  esperienza»  può  facilmente  .restare  tra  queMaeei  che  essi  spezzerebb^o..   Inoltre  il  credito  degli  adulti  e  de'  vecchi  è  già-  formato  ;  le  loro  buone  qualità,  sona  note ,  un'abì-  .  tudine  provaUi  da  più      "risponde  ad  ogni  dub*  bia  apparenza.  All'opposto  il  giovine  dee  tuttora  £ar  nascere  questa  b|io)ML, opinione  neir^ltrui  animo^    Digitized  by  Google    *  "^à4   -  è  di  hidd^oi^eail  giadhao  ebe  gU/a^  dì  noi,  quando  dalie  persone  che  fréquentiamo  ci  giudicano  ;  e  fa  d' uopo  osservare  che  la  yafiitÀ  vieta  lo«o  di  cambiare  j&KitiAièDte  h  ptàtàà  opi-  nione che  di  noi  concepirono,  vera  o  falsa  che  ella  sia,  Dun(]ue,  beii|^è  ^^iva  Aacora  molto  istrutto ,  otterrà  il  giovine  più  gradi  di  stima  se  correrà  voce  eh'  egli  conversa  . spes$p.^^£on  parsone  di  me-  rito e  gode  fa  loro  confidenza.  Là  conversazione  colle  ballerine,  colle  persóne  di  dubbia  fede,  o  p^leseqiente  scelleraté,  macchia  la  riputazione  di  clrinncpie:  i  càm  'lodtì  insudiciano  queUi  tui  ft^no  maggiori  carezze.  '      '  '   IL  Tutti  .consigliano  ai  giovani  di  non  trovarsi  nelle  conversazioni  bve  s!  tengono  giuócW  d'at^  zardo;  giacdiè,  quaiunqué:  sia  la  lóro  risoluzione ,  ossi  finiscokio  peir  teàdere  e  rovinarsi;  Essi  cedono,  alte  suggestioni  ed  all' esempio  altrui,  al  timore  d'essere  dichiarati'  spilorci,  paurosi,  vili  o  schiavi  d^e^voiéiri  patemi  ;  essi  cedono  «1  defsiderlo  di  ìdlve*  .  nire  prontamente  ricchi,  desiderio  che  prontaménte  SI  a<^de  e  divamìm.  aUa  Tista  deU'oro.^"    T  '  tia  passione  del  giuoco  ,  principalmente  sé  è  {giuoco  d^azzardo,  produce  i  seguenti  danni. Perdita deità feliùità  ifolividuale.  Le^^- òende  del  giuoco  *  quand' anche  siano  favorevoli,  -  CHceitano  scosse  si  rapide  e  sì  gagliarde  che  confi-  ììano  ^co)  dolore;  Ora  queste  scossè  ^gliono  por  :  "lo  più  essere  sinistre  ,  giacché  la  massima  parte    D'altra  parte  la  brama  dell'oro  che,  in  vece  di  restare  sazia,  cresce  colie  vincite ,  ed  è- tormentata  dalie  >peràite,  'la  brama  aìzsata'dell'oro  è  i|tra  caiH    crena  ciie  rode  l'animo  del  giuoeatore,  è  una  sot-  tile fiamma  che  lo  consuma.  Ommetto  di  parlare  de' suicidi  prodotti  dalle  perdite  nel  giuoco.   2.  Perdita  della  salute.  È  questa  una  conse-  ^  guenza  dell'accennato  stato  dell'animo.  Infatti  sotto   razione  ripetuta  del  giuoco  si  sviluppa  un  carattere  irascibile  ed  una  viziosa  energìa  di  sensibilità  che  alla  macchina  corporea  riesce  sommamente  nociva  ;  perciò  la  massima  parte  de'giuocatori  sono  decre-  piti a  40  anni.  '  *  *      r  -v  -^^   3.  Perdita  delle  sostanze.  Per  un  giuoeatore  arricchito  dal  giuoco  ne  conterete  cento  rovinati.   4.  Perdila  delta  fama.  Cicerone,  per  iscreditare  i  giudici  di  Clodio ,  li  paragona  a  quelli  che  fre-  quentano le  case  di  giuoco.  —  Benché  tutti  i  gio-  catori non  siano  persone  infami ,  ciò  non  ostante  la  massima  parte  non  lasciano  d'essere  riprensibili  perchè  si  espongono  al  pericolo  di  divenir  tali.  .   Nissuno  dà  la  sua  figlia  per  isposa  ad  un  gioca^  tore  ;  nissuno  lo  accetta  per  compagno  in  uh'  in-  trapresa; nissuno  lo  vanta  per  amico  ;  nissuno  lo  vorrebbe  per  padrone  ;  ogni  padre  vieta  a'suoi  figli  la  di  lui  compagnia  come  la  peste.   5.  Perdita  della  sensibilità  ai  piaceri  intellet-  tuali e  morali.  Siccome  le  persone  abituate  all'uso  del  più  acuto  rapè  divengono  insensibili  ai  soavi  effluvii  del  garofano  e  della  rosa,  così  le  persone  abituate  alle  scosse  gagliarde  del  giuoco  rimangono  insensibili  ai  piaceri  della  commedia ,  della  trage-;  dia,  della  pittura  e  delle  altre  arti  belle;  quindi  1*  momenti  che  i  giocatori  non  impiegano  nel  giuoco,  sono  occupati  dalla  noia.  Il  giuoco  accresce  il   bisogno  di  sentire,  e  diminuisce  il  potere  di  sod-  disfarlo. Il  giuocatore  s'espone  al  pericolo  di  perdere,  e  perde  talvolta  quell'unico  denaro  che  è  necessario  alla  sussistenza  de'  figli  e  della  moglie  ;  la  sorte  infelice  di  questi  fa  dunque  minor  impressione  so-  pra di  lui  che  il  bisogno  di  giuocare:  in  quale  punto  sarà  sensibile  il  di  lui  animo  alle  loro  carezze  ?   Un  giovine  dedito  al  giuoco  sfugge  la  compagnia  de'  suoi  genitori ,  sdegna  i  loro  innocenti  piaceri ,  sprezza  i  loro  consigli ,  amareggia  i  pochi  istanti  della  loro  vita,  diviene  ladro  domestico,  e  talora  i  disonora  con  azioni  che  gli  fruttano  la  prigionia  0  il  capestro.   6.  Perdita  del  senso  comune.  Ogni  giocatore  sragiona  cosi  come  sragiona  il  volgo ,  allorché  dai  sogni  deduce  ì  futuri  numeri  del  lotto.   L' abitudine  di  prendere  per  norma  a'  suoi  giu-  dizi i  rapporti  fantastici  delle  cose  distrugge  l'abi-  tudine di  consultarne  i  rapporti  reali ,  costanti  e  ragionevoli.  Un  giocatore  non  avrà  vergogna  d'at-  tribuire la  sua  perdita  alla  sua  scatola;  un  altro  alla  presenza  d'un  nemico  ecc.  ;  alcuni  non  gio-  cano che  denaro  tolto  a  prestito ,  quasi  preserva-  tivo contro  la  sorte  ;  altri  destinano  parte  delle  yincite  ad  opere  pie,  quasi  pegno  di  vincita,  ecc.  !!   L' idea  del  guadagno  allorché  soggiorna  lungo  tempo  in  una  testa  debole,  ardente,  soggiogata  da  ;  vane,  combinazioni,  converte  il  dubbio  in  certezza,  e  fa  riguardare  come  infallibile  ciò  che  fervida-  mente desidera.  L'illusione  è  sì  forte,  che  non  è  distrutta  dall'esperienza  delle  perdite,  e  in  onta  di  esse  rinasce  e  si  rinforza. Gli  animi  fórtenfienté  agitati,  dice  Tacito,  incli-  nano alla  superstizione,  cioè  la  causa  delle  loro  sventure  riconoscono  in  cose  o  parole  incapaci  di  produrle  ;  quindi  le  invocano  o  le  maledicono,  ne  sperano  o  ne  temono.  La  fortuna^  nome  vuoto  di  senso,  agisce  sull'animo  de'giocatori  cóme  se  fosse  un  ente  reale  :  a  lei  attribuiscono  le  vincite  e  le  perdite.  La  fortuna  è  un  concorso  di  cause  ignote  ove  la  temerità  fa  tutto  y  e  la  prudenza  nulla. I selvaggi dell'America ,  dice  il  padre  Lafiteau,  si  preparano  al  giuoco  con  austeri  digiuni ,  quasi  volendo  interessare  la  Divinità  al  successo  de'loro  stolti  e  ingiusti  desideri.        '""'^  *  ^   Dopò  ^li  antecedenti  riflessi  è  quasi  inutile  l'os-  servare che  nel  giuoco  ogni  sentimento  di  decenza  si  perde  e  di  gentil  costume  ;  si  diviene  rozzo ,  villano  ,  grossiere,  caustico,  mordace:  non  si  ha  riguardo  nè  alle  qualità  altrui  nè  ai  diritti  ;  si  of-  fende l'altrui  amor  proprio,  si  tradiscono  ì  sentì-'  menti  del  proprio  animo,  ecc.   III.  Dopo  la  fama  di  decenti  ed  oneste  il  giovine  '  preferirà  quelle  conversazioni  ove  è  maggiore  la  libertà.  Siccome  il  piacere  è  d'indole  sì  schizzinosa  che  non  sempre  apparisce  ai  cenni  del  desiderio';  e  fugge  rapidamente  allorché  vede  un  laccio,  fosse  anche  tessuto  di  rose ,  riè  di  tempo  serba  regola  nè  di  luogo ,  riè  a  tutti  i  discorsi  sorride  ;  quindi  dirò  al  giovine:  allontanati  da  que'crocchi  ove  devi  rendere  ragione  perchè  non  venisti  a  tal  ora,  per-  chè ti  parti  pria  del  consueto,  e  t'è  forza  al  posto  assiderti  che  non  t'aggrada ,  e  con  tale  foggia  d'a-  bito comparire  che  non  ti  conviene,  e  sulle  altrui  maniere  irremissibilmente  atteggiarti  e  deporre  sulla   *»  bigitized    328  -  Libro  TEBzo  4   soglia  il  tuo  carattere  originale  per  rivestirtene  al-  lorché n'esci.  Fuggi  pure,  perchè  il  rituale  esat-"  tissimo  delle  cerimonie,  i  complimenti,  gli  inchini,  i  baciamani  si  .frappongono  ai  cuori  che  corrono  a  contatto  ,  e  i  sentimenti  ora  rispinti  dall'  altrui  •  orgoglio ,  qui  umiliati  dai  titoli ,  là  repressi  dal-  l'aria di  comando,  e  tra  imperiosi  e  inetti  doveri  allacciati,  non  possono  scorrere  rapidamente  qual  elettrica  scintilla  e  propagarsi  per  tutta  1'  assem-  blea; quindi  l'allegrezza  sfuma  ed  ilpiacere,  e  al  loro  posto  va  assidersi  mortai  tiranna  la  noia.   "     «  Taccio  il  civile  barbaro-bugiardo  -  .  ^;     V  Frasario  urbano  d'inurbani  petti,^  t  w  Figlio  di  ratte  labbra  e  sentir  tardo.  »   iVs.   k  IV.  Il  giovine  non  fuggirà  la  conversazione  delle  donne  oneste,  giacché  solamente  in  loro  compagnia  imparerà  a  rattemprare  l'effervescenza  dell'età,  a  ingentilire  colla  grazia  le  maniere,  a  piegare  i  mo-  vimenti a leggiadria, la placidezza  del  discorso  senza  viltà,  la  modestia  senza  timidezza  ,  il  co-  raggio senza  impeto,  il  brio  che  sa  rispettar  la  de,  cénza,  l'allegrezza  che  non  diviene  smodata,  quelle  fine  attenzioni  che  prevengono  i  desiderii  senza  mostrar  d'occuparsene,  e  quel  conversare  libero  e  cordiale  che  non  degenera  in  confidenza  temeraria  e  plebea.  v  ^   Swift  attribuisce  la  decadenza  della  conversazione  in Inghilterra  all'esclusione delle  donne;  da  ciò  nacque  una  famigliarità  grossolana  che  porta  il  ti-  tolo d'allegrezza  e  libertà  innocente,  «  abitudine  »  dannosa  ,  egli  dice,  ne'  nostri  climi  del  Nord^  i)  ove  la  poca  pulitezza  e  decenza  che  abbiamo  sì    r    DM.è  introdotta,  per  così  dire,  dì  contrabbando  e  ^  contro  la  naturale  inclinazione  che  ci  spinge  »  continuamente  verso  la  barbarie,  ^e  non  si  man-  fi-T  tiene  che  per  artifizio.Soggetto  delle  conversazioni.   .  'Qualunque  argomento  frivolo  o  grave  ^  basso  o  sublime,  lepido  o  serio,  p^rcAè  piaccia  agli  astanti,  €  noìi  offenda  la  morale^  può  essere  argomento  di  conversazione  :  qui  più  che  altrove  debb'essere   .    é   ragione  e  legge  «  Ciò  che  il  consenso  universale  elegge.  »   ytl  poeti  satirici  hanno  voluto  ristringerci  in  più  angusti  confini  ;  quindi   1.  Pongono  in  ridicolo  le  dimande  relative  alla  salute^  quasi  che  la  salute  non  fosse  l'oggetto  più  interessante  per  gli  uomini,  e  una  buona  digestione  non  valesse  cento  anni  d'immortalità;  r  2.  Non  vogliono  che  parliamo  del  tempo.,  quasi  che  le  vicende  delle  stagioni  sullo  stato  tìsico  e  morale  della  specie  umana,  sui  prodotti  delle  cam-  pagne, sul  corso  del  commercio,  e  non  di  rado  sui  pensieri  degli  uomini  grandi  e  piccoli  aon  influis-  sero ;  c  giornalmente  non  fossero  occupati  i  fisici  ad  osservarne  Tandamento  progressivo,  retrogrado,  irregolare.        ^  -  -'^7'  •      •    .  -  ^  -  y   3.  Qualche  poeta  ci  deride  quando  nelle  conver-  sazioni parliamo  d'arti  e  di  commercio,  di  pace  e  di  guerra  ,  di  governa  e  di  politica ,  é  vuole  poi     x   che  ci  occupiamo  dé'satelliti  di  Giove  é  dell'anello;  di  Saturno.  Certamente  che  anche  Giove  e  Saturno  possono  essere  ogpjetto  delie  nostre  conversazioni,  ^  ed  è  cosa  desiderabile  che  Io  sieno,  sì  perchè  pa-  scono l'animo  di  idee  sublimi,  sì  perchè  servono  di  guida  al  nocchiero  che  va.  errando  sulP  immensa  superficie  de'  mari  ,  ecc.  Ma  avreste  voi  vietato  ai  Romani  di  parlare  quando  Cesare  ottenne  dal  Se-  nato il  diritto  sopra  tutte  le  mogli  ?  Quando  Ve-  spasiano ,  che  si  mostrava  sì  tenero  pel  bene  del  popolo,  pose  un'imposta  sulle  orine  ?  Vi  sono  delle  cose  che  ci  toccano  sì  dappresso ,  che  è  assai  dif-  .ficile  di  non  tenerne  discorso,  come  è  difficile  di  non  gridare  ahi  !  quando  il  fuoco  ci  scotta.  Se  poi,  per  opposta  ragione,  si  riflette  che  lo  scopo  prin-  cipale di  quelli  che  s'uniscono  in  conversevole  crocchio,  si  è  d'intrattenersi  e  ridere,  si  scorgerà  che  è  quasi  impossibile  d'allontanarne  gli  argo-  menti ridicoli,  da  qualunque  sorgente  provengano.  I  Romani  non  potevano  contenere  le  risa  allorché  parlavano  dell'imperatore  Costanzo,  perchè  costui,  quand'  era  in  pubblico  non  osava  movere  il  capo,  né  fare  un  gesto  ,  né  tossire  ,  né  sputare,  lusin-  gandosi in  tale  guisa  di  rendere  più  imponente  la  dignità  imperiale.  .  Il  retore  Temistlo,  il  quale  era  stato  fatto  senatore  da  Costanzo,  trasformò  l'im-  peratore ,  che  non  *  sapeva  sputare  ,  nel  più  gran  filosofo  dell'universo  ;  avreste  voi  voluto  che  i  Ro-  mani non  ridessero  né  dell'  impeiratore  né  del  re-  tore ?  /   Si  può  parlare,  senza  cognizione,  della  pace  e  della  guerra  come  delle  zucche  e  dei  ravanelli  ;  dunque  il  limite  da  fissarsi  ai  discorsi  nelle  con-    versazioni ,  rispettata  la  mòralé,  come  si  disse  di  sopra  ^  non  dalia  qualità-  dell' argomeiita  8i-d«U)e  ildsomere  ,  ma  dalh'giioliàiiza.di  ^  parla  o  dalla  noia  di  chi  ascolta,  '  '  /   4.  Dopo  4^  avere  eseldso  dalle  cQiiVèi^sjùtidid^l  discorsi  più  interessanti,  si  è  fatto  loro  rimprovero  perchè  spasso  non  s'occupano  che  di  coseJrivoJes  eoitià  jfoalè  èènsbra  si  dà  a  divedere  d^aver  diinìen^  ticato  che  il  principale  oggetto  delle  coi>versazioni  •«  si' è  il  piacere:  Se  il  caippo  in  cui  il  piacerò  ap^  l^^cev  è  di  già  anche  troppo  ristretto,  per  quale  motivo  vorrete  voi  ristringerlo  dì  più?.  Vi  furono*  de' grand' iiòinini  che  ridévanó  di  cuore  alle  tlSt^  tezze  di  Pulcinella,  vorrete  voi  condannarli?  Più  lò  spirito  è  3tato  avvolto  in  cose  serie ,  più  assav\*  porà  il  contrasto  delle'frfvolezze'  Ne'momenti^'ózia  non  vergognava  Esopo  di  giuocare  alle  noci ,  Ca*  tbfifó  alla  pafla  nel  eàmpo  Mairzio  ;  Pascal  facevi  delle  scarpe,  Malebranche  cucinava  delle  vivande^  di  Scipione  e  di  Lelio  dice  Cicerone,  che,  ritiràti  alla  esfiìpagna,  non  isdegnavano  di  bamboleggiare,  incredibiliter  repuescere.  Queste  frivolezze  .offrono  uni  trastullo  necessai^io,  senza  che  lascino  neil' a»  ttimo  alcuna  traccia  da  che  sono  svanite.  ;\  ^  '   «  Rispettiam  dunque  la  follia  gradita  '  -.V  .  •  -  l^.QWBe  balsamo  dolce  d«Ua  vita.  »  ^ .  >   Cbesterfield  dice  che  le  frivolezze  delle  conver-  €l^0B&  tòné  ti  compénso  delie  àliiine  piccole ,  ebé  neri  pensano  e  non  amano  di  pensare.  —  Avrei  '  •  «fimyandatQ  volontieri  a  questo  scrittore  s' 6|^i  ad-  dlìjMMMte      per  pensare^  Le  frivolezze  defle  con-  '  versazioni,  simili  alle  immagini  scucite  4el  sonno,    ^   .1^ -o  Google    332  .  i-lBBO  TÈRZO        .  *   servono  a  farci  ridere  e  nulla  più.  Io  sono  stanooc  a  segno  che  non  mi  reggo  in  piedi,  e  voi  mi'con-À  sigliate  di  passeggiare?  Che  cosa  direste  d'un  uomo  che  per  sgombrarvi  dall'animo  la  melanconia  ,  vi-  ponesse  tra  le  mani  le  Notti  di  Yòung  ?  —  Si  de-  vono ammirare  quelli  che  dopo  d'essersi  occupati  di  studio  0  d' affari  nel  gabinetto ,  possono  ritor-"  nare  agli  affari  o  allo  studio  nelle  conversazioni;.  .  hna  non  si  possono  spregiar  quelli  che  dopo  avere  eseguito  il  loro  dovere,  abbisognano  di  riposo.  Sic,  .come  i  pranzi  non  sono  eccellenti  se  non  quando  possono  soddisfare  tutti  i  gusti,  così  non  sono,  eccellenti  le  conversazioni  se  una  varietà  di  sog-^.  getti  corrispondenti  ai  bisogni  di  ciascuno, non  pre-  sentano.   Generalmente  parlando ,  i  discorsi  serii  non  pos-  sono piacere  alla  maggior  parte  degli  astanti,  giac^  ;chè  la  maggior  parte  vanno  a  ricercare  nelle  con^  versazioni  riposo  alla  riflessione  e  pascolo  alla  fan-  tasia. Non  si  può  quindi  approvare  la  condotta  dì  Locke,  il  quale,  mentre  tre  milordi,  Hallifax ,  An-^  glesey.,  Shaftesbury,  jgiocavano  tra  di- loro  ,  egli  '  occupaVasi  a  scrivere  ie  parole  che  uscivano  loro  '  di  bocca.  Per  quale  motivo  ridete  voi,  gli  disse  Ànglesey  ?  Perchè  nou  perdo  nulla  di  quanto  voi  dite,  rispose  il  filosofo,  e  gli  mostrò  la  nota  delle  parole  poco  assennate  che  ciascun  giocatore  aveva  detto  Questa  censura  era  fuori  di  proposito,  giac-  ché da  persone  die  giocano ,  e  giocano  per  diver-  tirsi, non.  si  deve  aspettare  che  argomentino  in  barbara  o  in  baralipton.  Quando  prendiamo  una  medicina ,  dobbiamo  noi  osservare  se  è  bianca  o  nera,  leggiera  o  pesante,  bella  o  brutta,  graziosa    Google    0  no  alia  visita,  di  qualche  astante  ?  £Ua  ci  ridona  la  salute,,  e  bastai  *   •  «  Airincontro,  dice  Gozzi,  certi  Catoni  vorreb-  »  bero  che  oca  si  uscisse  mai  dal  malinconica  e  »  dal  ^rave,  come  se  gli  uomiiri  fossero  d'aeciaio  »  e  non  di  carne.  Questi  tali  ci , vorrebbero  affo.-  »  gati  nella  noia.  £  quando  Fanioio  ò  kifastfdilOt  »  non  è  buono  nè  per  sè  nè  per  altrui.  Il  meglio  è  un  bocconcello  colla  salsa  di  tempo  in  tempo,  »  e  poscia  un  grosso  boccone  delle  vivandé  usuaK.   La  misura  ne' passatempi  è  rimedio  della  vita  ;  »  ed  io  jtanto  ve^  magri  sparati  è  disossati  quelli  V  che  non  pensano  ad  altro  che  al  sollazzo,  quanto  >»  queUi  che  tirano  continuamente  quella  benedetta  li  carretta  delle  fecceade.  »   §  3.  Soggetti  ge^ieralni^nte  noiosi    Sogliono  essere  soggetti  noiosi  ed  opposti  allo  scopo  della  conversazione  i  seguenti  :   L  Gli  incessanti  lamenti  sopirà  viali  a  cui  non  si  può  opporre  rimedio..  Talvolta  la  conversazione  in  vette  d'essere  un  tessuto  di  piacevoli .  discorsi  e  ameni,  è  un  vero  piangisteo  ,  o,  per  dir  meglio,  un  miserere.  Se  qualcuno  riesce  a  dìipenticare  i  Riali  eomuni,  T  unó  o  l'ailro  degli  astanti  glieli  rammenta  con  circostanze  nuove,  e  il  sentimento  dolorosa  ne  aggrava  colla  prospettiva  «d'un  avvenne  peggiore.  —  Che  cosa  direste  di  schiavi  che  per .  divertirsi  parlassero  delle  loro  catene. É  questo  up  difetto  de'  veccM  che  non  sànm  aprir  l'animo  alla  speranza  ;  degli  ignoranti ,  inca-  paci di  riguardare  le  cose  da  più  aspetti;  delle menti  deboli  che  ad ogni lotta  succumbono. Alcuni  velano  questa  incivile  abitudine  col  sentimento  di  compassione  pe'mali  altrui,  cioè  per  mostrarsi  com-  passionevoli verso  gli  assenti  tormentano  gli  astanti. Pietro  è  morto  improvvisamente;  Paolo  si  è  ammazzato;  il  pane  è  troppo  caro;  la  tempesta  ha  distrutto  la  vendemmia ;  le  imposte  sono  eccessive;  la  guerra  è  imminente;  la  peste  s'avvicina,  ecc.  Poco  manca  che  non  ci  predicano  la  flne  del  mondo,  come  si usava negli scorsi secoli, idea che tuttora  s' insinua  ne'  discorsi  della  plebe  quando è  afflitta  da  qualche  calamità.,  Sarebbe  pazzia  il  pretendere  di  non  sentire  i  mali  della  vita  ,  ma  è  pazzia  maggiore  il  non  sforzarsi  di  dimenticarli;  sarebbe  imprudenza  l'andare  verso  il  futuro  colle  spalle  indietro  ,  ma  è  imprudenza  maggiore  il  riguardare  i  mali  futuri  come  successi  e  non  distrarne  lo  sguardo.  La  novità  della  cosa  può  qualche  rara  volta  sciorre  da  inciviltà  1'  an-  nunzio d'una  trista  novella;  ma  richiamare  conti-  nuamente r  idea  di  mali  che  tutti  conoscono  ,  è  l'eccesso  deirinurbauità,  giacché  questa  ricordanza,  oltre  d' essere  dolorosa  per  se  stessa  ,  conturba  e  piega  a  melanconia  i  sentimenti  degli  astanti.  In  questa  situazione  degli  animi  non  osa  spuntare  sul  labbro  il  sorriso  ;  cento  detti  spiritosi ,  pronti  a  ravvivare  la  conversazione ,  tornano  indietro  :  ora  rinunziare  a  cento  piaceri  per  procacciarsi  un  do-  lore è  un  calcolo  da  matto.   Si  può  procurare  agli  spiriti  de' momenti  di  di-',  strazione  fissandoli  sopra  oggetti  diversi  dagli  abituali. Sì  pùo  'Yìntiizzare  la  sensazione  4el  dolore  ri-  guardando le  cose  dal  lato  ridicolo  (1)»   CìasGuno^  può  cogliere  de'jnoti?!  dì  eoasolaaàone  paragonandosi  con  quelli  che  in  più  tristo  statoci  trovano.   «  Chi  vuol  viver  tranquillo  i  giorni  sui,  »  Kon  conti  quanti  son  di  lui  più  lieti,  '   1»  Ma  gitanti  sod  più  miseri  di  lui.  »   Si  può  innalzare  Tanimo  aHa  speranza,  mei]itre   il  volgo  s'abbandona  al  timore,  considerando  tutta  Festeosione  delle  eventualità  possiinli  (2)*    {\)  Mentre ,  aeU'  ulUmo  assedio  di  Genova,  i  soldati  ca?   scanti  (li  fame  facevano  la  guardia  seduti ,  uno  di  essi  disse:  Ma^séna  non  voiTà  arrendersi  iìnchè  non  ci  ha  fatto  mangiare  i  «udì  stivali.  — -Questa  facezia  induce  gli  astanti  a  dioie  ai-^  tre,  e  intanto  U  sentimento  deUa  fame  fa  tr^;ua.   Un  generale  francese,  ferito  in  battaglia^  sta  per  far^ta-*.  gliarc  una  ^aniba  ;  il  suo  servo  piange  in  un  angolo  della  stanza:  Meglio  per  te^  <t*\idìce  il  paziente;  non  vedi  tu  che  quando  avrà  una  gamba  di  meno^  non  ti  resterà  più  da  lur  sitare  che  un  solo  stivale  ?  Quindi  ritrova  forza  per  subire  r  operatone.   Io  ammiro  la  notissima  donna  spartana,  che  dice  al  fi^io  tornato  zoppo  dalla  battaglia:  Ad  ogni  passo  rammenterai  U  iuo  valore  e  la  tua  gloria,  Gbe -bella  idea,  che  idea  in-  gegoosa,  si  é  quella  obe  ia  tacere  U  senUmento  spia((Kev<^  un'jmpedeilone  fisica  090  un  sentimento  miòrale  »^  desca  V  amor  proprio,  e  a  sublime  sfera  lo  innalza  1^   Si  clìiama  leggerezza  1'  abitudine  di  considerare  le  cose  dal  lato  ridicolo  :  preziosa  leggerezza  che  ci  fa  sorrìdere  in  mezzo  al  dolore ,  tratto  caratteristico  che  distingue  i'  uoma  dai  bruti.   (2)  n  seniimenio  della  speranza  si  cambia  ki  finrza  lMee^,  qualunque  sia  U  modo  misterioso  con  cui  siffatta  4ra8torma-    Una  bella  imipagmazioQe,  un' iinaiagiiiazioiie  ri-  deate  sa  creare  delle  róse  anehe  ia  mezzo  ai  deserti.  S'ella  è  in  parte  dono  della  natura,  si  può  aecresceria  coirabitudine  e  migliorarla  coirarte  (  l).   IL  Le  insipide  sottigliezze.      ^  '   Profondere  sfarzi  di  spirito  suHe  parole,  sulle  cosev  solfe  idee  senza  trarne  alcun  vantaggio  o  le-  pore,  è  eccitare  nelF  animo  degli  astanti  il  senti-  ménto penoso  della  fatica,  è  indisporne  ramon  proprio  coir  idea  della  pretensione  ,  è  rendersi*  ri-  dicolo pel  non  successo.  Un' uomo  cbd  tenta  di   ziODé  «tkseede.  emrva  questo  fenomeno  negli  stesKi  ani*  mali:  il  cavatto,  statico  dal  viaggio,  aeeorgendoiii  d'essere   vicino  all'  albergo,  trova  forza  per  accelerare  il  passo.   il  Destrier  che  air  albergo  é  vicino ,  )»  Più  veloce  s'  affretta  nel  corso  ;  »  Non  l'  arresta  1*  angustia  del  morso,  .  »  Non  la  voce  che  legge  gli  diu  >»  .   '  '  (1)  l'n  imbecille  non  crede  che  T  innesto  possa  costrin-  gere r  albero  selvaggio  a  produrre  de'  fruin  domestici  e  sa-  .  porlti  :  le  anime  deboli  non  credono  che  possa  lo  spirito  in-  nalzarsi sul  senthnento  d^I  dolore  e  dominarlo  :  tanto  peggio  per  esse.  Al  contrarlo  lo  ho  conosdiito  m  nomo  di  tempra   '    forte ,  che,  detenuto  per  opinioni  politiche,  non  sog^^iacciue  •  che  un  giorno  alla  melanconia  in  quattordici  mesi ,  benché  gli  fosse  negato  il  conforto  de*  libri.   Far  r  elogio  della  melanconia ,  come  i^ero  alcuni  scrit-  tori detti  sentimentali,  è  fere  F  elogio  delle  nubi  che  f\  tol-  gonp  la  vista  diìl  lìriuaniento.  In  mezzo  a  tante  forze  die*  tendono  a  dislrng^<»rci,  vanteremo  noi  i  pregi  d' uu  seati-   ;    meato  che  accelera  la  distrusdone  /Itìtt   saltare  al  di  là  della  sua  ombra,  rapi^resMM  Udi**  fetto  che  ho  io  animo  di  censurare  :  eccone  degli   1  Far  contrapposti  ad  ogni  paroluccja  t   »  Stirar  con  le  tanaglie  5  concettwzzi ,  •  »  Attaceonar  le  i^ime  con  Ja  eer^i  '  V  Aé  ogni  aetento  far  éegìi  eqntvociasm  ;   É    Lodsi^  le  inoscbe,  f  grilli  e  il  raTanello\  »  Ed  altre  scioccherìe  c'hanno  corliposto  ^  li  Bernì,  il  Maiire,  il  Lasca  ed  ii  Burcbiellò.»   Le  tante  quistìoni  di  metafisica  che  si  facevano  per  Faddietro  sopra  cose  ehe  la  ragione  non  intese  giammai,  dovevano  generalmente  fruttar  noia  agli  ascoltanti.se  non  erano  interessati  nella  disputa  pef  amor  proprio.  Di  sottili  insipidezze  ei.  diede  un  esempio  d'altra  specie  Uvezio,  allorché  esaminando  dottamente  quale  è  la  positura  naturale  diell'uomo  tra  lo  stare  in  piedi ,  «edato  ^  coricate,  genuflesso  0  passeggiare,  dopo  d'avere  discusso  a  lungo  gl'in-  convenienti cai  andremmo  ìncdntro  tenendoci  con-  tinuamente nell'una  o  nell'altra  di  queste  posizioni,  conehiude  clie  lo  astato  naturale  dell'uomo  si  è  di  panenderle  tutte  sticces^mmente.  Era  forse  neete-^  serio  che  l'erudito  vescovo  d'Avranches  si  stillasse  il  cérvello  per  provarci  questa  verità?  Perciò  ma*  dama  Geoffrin,  parlando  d'iino  di  questi  stucclie-  voli  Ciceroni ,  diceva  :  «  Allorché  egli  mi  parla ,  »  vorrei  che  Dìo  mi  facesse  la  grazia  di  rèndermi  n  sorda  senza  che  questi  se  ne  accorgesse  \  egli     n  sarddbe  perisuasa  eh'  io  T  ,ascolUi$si ,  e  s^reòiflio  »  contanti  ambidUie.  ».    xii  ^n       k^-m^  ♦  ?   Cresce  ri  motivo  di  censuràre  le>  insipide^  6Mi«»  gliezze  allorché  ,  divenute  triviali  affatto ,  da  uq  Iato  si  ripetono  eoo  pretensione  di  novità,  con  che  si  dà -segno  dignopàhza,  daU'aUra  riescono  ofhn^  sive  alfuno  o  all'altro  degli  astanti.  Il  poeta  Des-  préaiix^  che  iioa  eika^ dotate  della  pazienza  di  ncia^  daina  €reoffriti  ^  se^ténde'^un  giorno  Bordaloue  a  rìpeteìre  le  vaghe  analogie  sulla  pretesa  follia  dei  poeti^  gU  dis9eH»xi(  pp^€auslieanlellte  :  «  Io  so,  mio  »  Caro  padre,  quanto  si  dice  d'ingegnoso  su  questo  »  9fg0jQsento  ;  se  v^i  y/»lete  venir  meco  aU'o-  »  spedate  de'matti ,  io  son  pronto  a  mostrarvi  dieci  «  predicatori  per  i^u  poeta  ^  e^roi  vedrete  a  tutte   lo  4(>ggb  deUdjiàaal  «he  dividanp  il  loto  dteooiso^   in  ti;e  punti.-'   r^Uriaql^oedenti  riiles^iiaioa  condanaano  Fuso  dir  propÌMie  quistioofdligegncile^  le  quali,  rispondendo  ciascuno  a  capriccio,  servono  di  piacevole  esercizio  ag^fipiiNiti  ^'^liti  iNToiy^ e  vivaci  che  sci^piana  impftlìiéisamente  y  -e  talvélta  a  lode  di  qualche  a«  8ti^t(^  v.|ieUa  mwì^m^lkm^  della  duchessa  del  MaifMVféei^lìiB»^^  a  dar  risalto  alle   pili  sfuggevoli  differènze  tra  i  diversi  oggetti  pro^  ||9^iM^>^^  dis$A,Ma  giorno  ai  cardinale  di  p4>)igw%]^IÌnatot^difi6ie^  passa  tra  me  e  il  mio  oralogio? —  Il  vostro  orologio,  rispose  il  cardi*  nia^e  ^  ($tliirieor4a(^/<w:ftViJ^  ee  le  iate  dimenticafei   IIL  Tutti  i  di^corsir^ehe  escono-  dal  limiti  della   conmmens,a^  j§^S^tk^<^^  si^o  alla  98.   BiitArà  qui  aàmmi?^  il  earattère  degli  astanti  è  Ufi  limite  ^pwa^iii^iqQfP 'ir^iacchè  per  quanto  siano generalit  per  es.,  le  vostre  iodi  ad.  toia  vjrtà  e  le   vostre  censure  ad  un  vizio,  vi  si  attribuirà  non  di  rado  l'intenzione  di  far  rimprovero  quello  degli  aistanti  ebe  manca  della  prima  q  è  allaceiato  dal  secondo.   IV.  Finalmente  il  saggetto  della  conversazione  diviene  noioso  allorché  Tidea  della  nostra  per*  sona  e  delle  cose  nostre  presentiamo  per  lungo  tempo  agli  altrui  sguardi  j  .  come  Aireìùo  nel  e9«  pitolo  VII.   «   $  3.  Soggetti  aggrademli^  *   »   Se  una  parte  della  civiltà*  consiste  nel  dire  a  ciascuno  ciò  che  gli  conviene»  è  chiaro  che,  acpiò  non  manchi  soggetto  alla  conversazione,  devi  par-  lare ad  ognuno  delle  cose  che  più  roccupano  o  più  gli  aggradano,  della  sua  arte  o  professione,  de' suoi  gusti  o  *  delle  sue  avventore ,  de' figliuoli  o  della  moglie,  ecc.   .  «  Acgomento  al  nocchier  son  le  procelle  «  1»  I  bovi  airarator  :  le  sue  ferite  ^  Conta  il  guerrier»  conta  il  pastorale  agneHe.  »   Chiederai  dunque  al  giovine  galante    '  /   a  ......  .  A  qual  cantore   9  Nel  vicin  verno  si  darà  la  palma  *>  Sopra  le  scene;  e  s'egli  è  ver  che  rieda  »  L'astuta  Frine  che  ben  cento  folli  »  Milordi  rimandò  nudi  al  Tamigi  ;  »  O  se  il  brillante  danzator  IXarciso  9  Tornerà  pure  ad  agghiacciare  i  petti  »  De'  palpitsgoiti  italici  mariti.    Ai  vécrthfo  dfititafidefai  conto  degli  u^i  eivlii,  po*'  litici,  religiosi  clie  negli  anui  di  sua  gioventù  si  costuinarona,  onde .  procurarti  il  piacere  d!  con*   frontarli  cogli  attuali.  Preparati  però  a  sentire  ec-  cessive lodi  dei  passato  ;  quindi  avrai  Tavvertenza  ^di  separare  i  f alti  dal  giudizio  di  chi  "gli  e^one.  Spingerai  anco  con  bel  garbo  il  di  lui  animo  verso   l- piaceri  che  più  Tadescarono   ».  '  .  '  "   .      «  Onde     misero  cor,  che  il  ben  p^dtita   .  »  Non  ha  più  di  goder  speranza  alcuna  ,  ,  »  Kesii  il  conforto  stiinen  d'aver  goduto.  »   ,  Colle  donne  volgari   Or  di  polii  ragiona,  or  di  bucato*  »   Colle  donne  galanti  parla   «  Di  veli  e  enfile  e  femminili  arredi.  »  .   .  Colle  donne  gentili  che  uniscono  ii  bel  costiime   airistruzione,  porrai  sul  tappeto  le  arti  belle,  e  a  norma  del  loro  genio  particolare  proporrai  quaiclie  problema,  acdocohè  al  piacere  di  discorrere  um-  scano  il  piacere  di  soddisfare  la  tua  curiosità.  Ad  una  giovinetta  ohe.  occupa  vasi  a  dipingere,  chiese  un  giovine,  se  provava  più  diletto  nel  ritrarre  gli  uomini  o  le  donne  ^  i  giovani  o  i  vecchi.  —  Sono  indififerente  a  tutti.  —  Eppure?  —  Pre/e^  risco  le  fisonomie  sensibili  senza  riguardo  al  sesso.  —  £  quali  sono  i  segni  fisionomici  che  caratterizzano  la  sensibilità?  ^  Qui  cominciò  un  discorso  che  durò  due  ore,  la  giovine  facendo  pompa,  di  sentimento ,  il  giovine  di  metafisica.  —  Le  letture,  cui  talvolta  sono  occupate  le  signore,  Yf  jfffft^mo  U  ctesbro  di  jebi«der«  loro  ^ii^li  f^m  le  colpiscano  di  più,  e  quali  autori  in  tale  ò  tal  altro  ramo  di  letteratura  preferiscano,  e  se  avrete  l'av»  mieuM  proporrà  loro  qualche  obbiezione  pet  dimostrare  che  non  vi  sfuggono  le  loro  idee^  prò*  curerete  ad  e^  il  diritto  di  pmlan^  à  lun^iit^  mmBM  ^^nimm/^:èe9lL  mUoMi  poesn  Uteek^lé  d*  inciviltà  y  poiché  ciascuno  ba  diritto,  di  difen^  dflisi:  e  giustìicare  cìòl  cbe  dm*-  '  Della  fanciulla  vorrai  yedere  i  dis!^,  i  ricàini,  la  scrittura,  ecc.        '  -  •  "   Chtederstt  «drifcaamom»  ohe  ms»  w^ò  ^^IpM^   che  brillano  neH*azzurra  volta  del  cielo.  Per  quaH  €ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^  altri  cambiarono. di   MlOfe.  D' oode.  amnga  che  i  pidi^  si  <  inafapo  nello  stesso  senso  da  occidente  in  oriente.  Perchà  mail  eaegaiscjoao  i  laro  fioti  ia,,)ioa  ^iBl|a  s^oa»V  mentre  te  comete  vanno  errando  liberamente  per  latte  le  r^ipai  del  cìe^o.  Ove  v^aono  e  d'onde  veór  gono  questi  astri  che.  spa^epteeo  11  wlgo-  éoUli  fatarba  .e  colla  coda. Delle  erranti  stelle   »  Segai  il  cammino,  e  le  eagion  disveli  ^   »  Degli  aerei  portènti  ;  onde  Je  nufci,  v   »  Onde  il  tuono  e  la  pioggia,  e  di  qual  fuoco-   »  Aceendesi  il  balen;  perchè  sì.  lenti  .  .   »  I  caldi  soli  estivi,  e  qua!  ritardo    :  '   »  Le  fredde  notti  deirinverno^allQpghi.  ».   Inviterai  T  economista  ad  esporti  le  cagioni  del-  l'alto  0  basso  prtìsìo  de'generi,  dell'abbondanza  o  scarsezza  d'una  specie  di  monete  ;  l'influsso  delle  imposte  suiragricoitura  e  sai  mestieri;  se  convengft  dare  la  preferenza  alle  manifatture  nazionali;  ia  quali  casi  e  con  quali  mezzi  debba  il  Governo  pro-  moverle  ecc.   Parlerai  al  filosofo  di  leggi,  all'av-  vocato di  liti ,  al  medico  delle  malattie  dominanti  ecc.  Ma  guardati  bene  di  decidere  tu  stessQ,  prin-  cipalmente avanti  queste  persone  sugli  accennati  ^  argomenti,  giacché,  non  appartenendo  essi  alla  tua  professione,  ti  esporresti  facilmente  al  ridicolo  cui  si  espose  un  sarto ,  il  quale  avendo  composto  e  ^presentato  ad  Enrico  IV  un  libro  di  regolamenti  .•^civili,  sentì  il  re  a  dire  agli  ^stanti  :  Chiamatemi  dunque  il  cancelliere,  perchè  mi  prenda  la  misura  d'un  abito  (1).   f  ^  Allorché  ti  trovi  in  una  compagnia  di  stolti,  non  mostrare  né  la  distrazione  né  lo  spregio  eh'  ei  meritar  si  potrebbero.  Lascia  alla  fatuità  libero   '  Campo  di  far  pompa  delle  sue  scempiaggini  senza  farle  giammai  temere  d'essere  repressa  e  né  anche  giudicata.  La  Motte,  persuaso  del  proverbio  spa-   .  gnuolo,  che  non  havvi  stolto  da  cui  non  possa  trarre  qualche  profitto  il  saggio,  applicavasi  a   ;  ricercare  negli  uomini sprovvisti di spirito il lato favorevole dal quale poteva, sia per propria istruzione,sia  a  conforto  della  loro  vanità^  riguardarli.  Facendo  cadere  destramente  il  discorso  sopra  quanto  avevano  veduto  o  sapevano  di  meglio,  procurava    {{)  Convengo  non  essere  impossibile  che  un  uomo  si  formi  in  mente  idee  ragionevoli  anche  sopra  oggetti  estranei  alla  sua  professione;  ma,  essendo  la  cosa  alquanto  impro-  babile,è  necessaria  in  simili  casi  somma  riservatezza  e  dif-  idenza  speciale  nel  proporle.'   tolto,  senza  il  piacere  di  smérthi^  il  poco  bene  che  possedevano  ;  «  mentre  non  annoiavasi  con  es^  vH  wodeite  ^mtentr  4I  di  14  delle  lo»^   speranze.  •  'Sargenti  di  ridicolo  sociale.]   Tu  mi  dirai  che  ti  porti  alia  conversazione  non  .p«r  esenatare  la  pazienza^,  me  per  andare  a  ^écia  d(  piaceri  innocenti,  e  vorresti  poterli  córre  0  tra  i.  fiori  del  discorso,  0  ndie  maniere  delle  persione^  0  tra.  ameni  sentiiilenti  e  gentili.  ;   Ti  ricorderò  dunque  la  massima  raccomandata  di  sopra,  cioè  avvezzati  a  riguardare  le  cose  dal  fatto,  ridicolo  :  eéecotene  aicniie  fonti*  suceinla*  mente.  TI  porgeranno  grato  spettacolo.  "   ù  Le  variazioni  deile  passioni  pet  em  io  jrteaso  uomo  passe  facilmente  dal  giardini  d' Epicuro  ai  portici  di  Zenone^  ed  è  a  ticenda  di  vota,  e  fiv>n*  dano  per  trimestre,  e  per  cai  non  di'  rad^  *  ^   *  Osan  profoni  e  fetidi  servacci   »  Di  libertà  mentire  il  nobil  fuoco.   »  Quanti  ancor  ne  veggiam  d'animo  incerto  1^  E  di  dottrina 5  in  cui  fondarsi,  ignudr,  '     Che  quel  clie  sol  mattino  era  lor  Aoia,  *  »  Chiaman  perfetto  al  tramontar  del  sole  ?  ^.  »  A  vicenda  gli  scorgi  ora  del  véro     '  .  ^  :  '  '»  Difensori,  or  del  falso:  ora  baciarti  9  In  fronte  amici,  or  affrontarti  infesti,   »  Tanto  che  sotto  a  due  stendardi  e  volti   •  •   >»  A  due  partiti  un  dì  solo  li  yede.  ^   m  •  :}/  Le  qifMate^  ripugnanze.  Più  Qti  gusto^  um  aUbsrimfó  ,  wi  senliflliefite  'è'  tsemofie ,  piò  :AigMé  alcuni  dì  mostrarsene^  alieni.  Così  adoperando  ,  i^etnbrà  loro  di  «tacearsì  dalla  massa  volgare,  e,   collocatisi  in  alto ,  divjenire  r  oggetto  degli  altrui  sguacdi.'  n   .   •   .   •    Essi  contrasto- eternò  \  *  i.  Fanno  a  ragion,  per  voler  esser  sempre  \  P,  Singolari  dagli  altri  ;  e  picca  occulta  »  Hanno  in  sè  .d'esser  dì  buon  gusto  soli/  !»  Jton  d'altri  àppresse,  e  veder  soli  il  vero;  ;; V  I  più  di  quQSti  incaputendo  avvezzi  Son  del  sénno  a  c^rcpr ,  lontani  ognoi^ Dalle  profane  popolari  turbe.  Onde  se  ayvjen-che  il  popolo  par  caso Dia  pur  nel  segno,  e  ragiohevoi  pènsi,  Sc£i.nt.onan  essi^  e  mal  pensano  e  a  torto;.  \  Perchè  purificate  eceèlse  menti  .  »  Non  seguan  mai  popolaresche  teste.  »'   ISome  vi  sareste  voi  contenuto  con  Euripide,  il  quale  assicbrava  di  non  amare  le  donne,  dopo4'es-  sersi  amìtaogliato  tre  volte  ?  Seguendo  i  precetti  sinora  esposti,  voi  avreste  dovuto,  senza  lasciar  {scorgere  dubbio  sulla  sua  sinceritià^^avreste  dovuto  ^  c^tedérgli  la  storia  di  questi  tre^esseri  tatfto  odiati,  e  con  cui  egli  strinse,  alie^inz^  forse,  ad  esercizio  di  sua  pazienza.   3.  Gli  sforzi  della  vanità  per  cui  ciascuno  tenta  d*  associare  V  idea  delia  propria  persona  aWidéa  delle  cose  pregiate  o  delle  persane  il*  lustri.  Se  taluno  vanta  un  bel  libro,  un  letterato  yi  accerterà  tosto  che  lo  possiede,  benché  forse    OdÉflii  ahbia  and'  vodafe  fiè  i^die  pti^iAMii  r''^  si  tratta  d'un  grand'uotno  ,  questi  vuo!  essere  suo  parente^  e  qu^i  ^la  ^ide  a  Parigi  .0  a  Londra  ^  o  viaggiò  còn'lai  tstXto  ^ièséo  meeilòV  e  wd  tm  vanto  come  l'asino  della  favola ,  il  quale  portando  delle  reliquie,  slnun^gmava  d'éèsere  adorato»- Orasio  si  vantava  d'urtare  impulitamente  chiunque  inco»»'  '  trava  per  if^rada^  purché  potesse  giungere  presto  .^"^M^eeniib  i^irefdete  l'asMKia  o  aia  il  eàttraito  dieK*  ^i'àinclr  proprio  :  egli  vi  dà  una  parte  della  sua  ri-  -piitai^we^^  cieè  ti  concede  d'  essere-  impulHo,  af«  finché  Io  crediate  in  lega  col  ministro' d'AiagteMU  in  somma  quatti  .ad  ogni  istante  si  scorge  che  ^  ttMàini  iielle  loro  pretensioni  sohcf  pìù^  iirragione*  voli  di  que'facchini  che  seqtendo  a  lodare  le  belle  sonate  d'un  organista,  si  gloriane  d'avere  levato  i  mantici.      '  '        ^ A^'^Aeciocchè  i  giovani  non  prendano  abbaglio,  farò  >dHervare  ebe  il  vantarsi  d'essere  i'amioo  di  qiiid(die  persona  virtuosa  od  altrimenti  stintiablle ,  qtiando   10  si  è  veramente  V  non  è  un  vanto  irsagtonevole  èoftie  gli  anteeedenti  -,  giaeeliè  le  petiOfle  Y«MMia^  le  stimabili  non  concedono  la  loro  amicizia^se  non   11  persone  eh' elle  stimano.  »  >r  /  •*^4.  /  pregiudizi  comuni.  QuéSIft  torgenté^^i  ri*  dicolo  non  ti  può  mancare  se  ti  trovi  in  compa-  gnia di  donnìeeiuole;  giaeehè  ae  pe)r  ea. 'favai  og-  getto del  discorso  un  male  0  l'altro,  esseti  spac-  ^i^attno  tosto  de'rimedii  simili  a  quelli  del  medico  Quinto  Sereno,  il  quale,  per  guarire  tó  quatìwia»   '  j^neva  sotto  il  capo  del  febbricitante  il  quarto  li-  %fo  éeir  Ilìade.  Contìnua  tu  la  storia  dellegaia*   lattier  ed  «fisa  Mtttiiuieraiiil^  dei  recale   che  ti  farebbero  ridere,  fossi  anche  moribondof/   Mi  è  stato  di^and^to  se  e  come  si  può  iotrat*  teimrsi  e  ridere  eofievj^aeecherew   yeramente  il  problema  è  un  po'difflcile,  ma  se  il'tettora  premelte  di  noa  tradisuii)  gli  affiderò  il   '  '  Le  pinzochere  chiamano  chiunque  al  loro  con-  toitton^e;  e  il.  loro  eootoi^  cresce  in  ragione  delle  persole  ehé  eoodamano;  ^  Quando  adunque  mi  .tcp vo  in  compagnia  d'  una  di  queste  signore,  le  em^to  avioti  '  una  ventina  di  peccatori  per  te  meno,  e  tutti  colle  loro  colpe  sulla  fronte  :  qui  si;iegge  rnode^  ik  ieàtfo^  più  Jungi  pas^eggiy  smmii   "La  vista  di  questi  piaceri,  a  cui  per  motivi  ri-  spettabili, madama  ha  rinunziato ,  riscalda  la  sua  bHe;  quindi  eceolar assisa  prò  tribunali,  e  scrivendo  sentenze  da  Radiunante,  colle  mani  e  co'{»icdi  eac*  «la  tìPotw*  filpifi  poveri  profiud.   -Appunto  perchè  so  che  la  pinzochera  è  ineso-.  rabitef  io  mi  interpongo  e  chieggo  pietà  ora  per  Vhi^.  ora  per  rsAtro  :  tento  Tapologia  della  moda  ;  dimando  qualche  tolleranza  pel  teatro  ;  il  concerto  dèlie  (Sfere  mi  serve  ja  difendere  i  ^oni,  gli  au«  gelli  vengono-  in  soccorso  de'  canti  ecc.  ;  succede  dunque  una  contesa  tra  il  giudice  e  V  oratore,  e  coi  {a  siessioné.  criminale  continua^  giàcohò  ie,  ob*  bieziofifi  ragionevoli  ed  a  proposito  sohq  uhq  sti"-  molante  della  conversaùow.   E  eieoofm  lo  zelo  di  madama  è  . scevro  di  mallaia  ,  quindi  riscaldandosi  ella  facilmente ,  ini  permette  di  i^ere  n$l/wdo  delsuo  euHmofÀ ravviso  allora  sotto  tinte  superstiziose  quelle  false  idee  che  leggo  in  alcuni  libri  sotto  tinte  poetiche,  ed  imparo  a  stimarne  profondamente  gli  autori  !   Crescendo  il  calore  di  madama ,  io  diminuisco  ;  l'opposizione,  e  le  lascio  assaporare  il  piacere  d'a-  vermi persuaso e vinto  :  in  questo  modo  usciamo  dalla  conversazione  soddisfattissimi  entrambi,  ella  di  me, ed  io  di  lei.   »  -  ìv  .,  5.  Gli  sforzi  per  comparire  ricchi  ;  del  che  vedi  un  cenno  alla  pag.  89  ,  §  4.Basterà   qui  il  dire  che  il  ridicolo  in  questi  casi  cresce  in  ragione  della  differenza  che  passa  tra  l'apparenza  e  la  realtà,  sicché  il  massimo  ridicolo  ci  verrebbe  offerto  da.  colóro  che  imitassero  i  comici  di  campagna,  i  quali,  dopo  d'avere  rappresentato  Cesare  e  Pompeo,  muoiono di  fame.  La  saccenteria^  la  quale  si  è  di  due  specie:),  appartengono  alla  prima  quelle  persone  che  ,  non»^  facendo  mai  uso  del  loro  giudizio,  spacciano  le  idee  altrui  senza  discernimento  e  come  proprie.   Molti  vedrai  che  proferir  non  sanno  ^  \%  '     »  Mai  sentenza  da  sè  ;  corrono  in  gìra'^   »  Per  la  cittade  di  pareri  a  caccia  ;      ,  1 Intendimento  è  in  casa  lor,  da  cantò  3»  Mobile  disusato  e  inutil  ciarpa.  L'opinioni  più  travolte  e  false  »  Succian  avidamente,  e  a  grande  onore.  /  ^'  '      »  Premon  la  spugna  ad  opportuno  tempo,  E  fan  lago  d'umor  sorbito  altrove.  »   La  seconda  specie  di  saccenti  contiene  que*  cer-  retani che,  forniti  d'un  capitale  scientifico  come  10,  fanno  pompa  d'un  capitale  come  100,  e  otten-    '  .   ,gono  facile  credenza  prineipalmeate  presso  le  don-  nicciuole  che  pizzicano  di  letteratura.   Non  basta,  dice  Gozzi,  l'aver  buone  merci  V»  nella  bottega;  ma  il  saperle  mostrare  è  di  grande   utilità.  Succede  a'ietteral,  quando  sanno  acqui-  »  starsi  l'opinione  degli  uomini,  quello  che  accade  >  a  qualche  benestante  o  giocatore,  che  se  il  primo  »  ha  tremila  ducati  d'entrata,  si  dice  cinquemila;  »  e  se  il  secondo  ne  vince  cinquanta,  corre  la  voce  '»^di  cento.  Così  se  l'uomo  di  lettere  avrà  buona  V maniera  d'insinuarsi  nell'animo  altrui,  non  vi  »  sarà  cosa  al  mondo  che  non  si  creda  eh'  egli  i^intenda.  Una  così  fatta  avvertenza  fu  buona  in  »  ogni  tempo.  È  vero  che  secondo  i  costumi  del-  >»  l'età  e  delle  nazioni  la  fu  anche  diversamente  »  posta  in  opera.  Ma  che  credete  che  fosse  quella  »  ruvidezza  d'Antistene?  Che  quel  mantellaccio, quella  valigia,  quel  bere  con  le  giumelle,  e  la   casa  nella  botte ,  e  le  altre  poltronerie  di  quei  »  malcreato  di  Diogene?  Non  altro  che  un  saper  »  vendere  le  sue  mercanzie.  Perchè  quando  uno  »  f a  con  una  certa  signoria  d'animo  quello  che  gli  »^altri  non  usano  di  fare,  tira  gli  occhi  di  tutti  a   *  sè,  e  a  poco  a  poco  la  maraviglia.  Aristofane  V  che  intendeva  le  cose  pel  buon  verso,  e  diceva  "  al  pane  pane,  per  aprire  gli  occhi  agli  Ateniesi,  »,  volendo  far  conoscere  l'artifizio  di  certi  studianti,  »  li  fece  comparire  sulla  scena  magri,  smunti  e  ^  del  colore  della  terra,  che  pareva  che  si  fossero  »  distrutti  a  studiare  ;  poi  le  loro  dottrine  erano,   •  quanto  spazio  salta  una  pulci,  e  se  la  zenzala  »  ha  la  tromba  nella  gola,  o,  con  riverenza  vo-  »  stra,  di  sotto.  Le  industrie  d'oggidì  non  istanno V  più  nelle  goffaggini  di  Diogene,  o  nel  colorito  »  della  faccia  che  gialleggi.  Non  importa  più  che  '  »  i  letterati  siano  magri  o  scoloriti,  no  ;  chè  ce  »  ne  può  essere  d'ogni  corpo  e  d'ogni  colore  ;  so-  »  lamente  è  necessario  un  poco  di  baldanza  per  »  dar  cognizione  di  sè  al  mondo.  È  vero  che  per  »  rendersi  baldanzoso  bisognerà  prima  invaghirsi.^  »  del  suo  fare  e  del  suo  dire;  e  a  forza  di  dare  »  ad  intendere  a  sè  medesimo,  che  si  sa,  comin-  >»  fciare  a  crederlo  finché  la  coscienza  noi  nega  più,  »  e  allora  poi  darlo  ad  intendere  anche  ad  altrui.  »  Poi  entrare  in  ogni  ragionamento  tanto  animati,  »  e  tanto  a  bandiera  spiegata  da  far  credere  che  quello  che  si  dice  abbia  proprio  la  radice  nel-  »  rintelletto,  e  sia  studio  di  tutta  la  sua  vita.'  »  Qualche  picchiata  agli  autori  può  ancora  giovare,  M  Verbigrazia ,  se  un  dice  :  Come  vi  piace  l'opera'  '  »  del  tale     Non  ho  avuto  pazienza  di  leggerla.  »  Dante .J*  È  rancido.  Il  Petrarca?  Troppo  lavorato;>  »  «  poi  malgrado  gli  so,  perchè  ha  fatti  tanti  Pe-  »  trarchisti  che  sono  una  noia.  L'Ariosto?  Divino;  »  ma  molte  volte  dà  nel  basso  che  m'uccide.  Il  »  Tasso?  Semper  corda  oberrat  eadem.  Insomma  »  eirè  come  disse  il  Leopardi:   ^   a  Vuoi  tu  parere  un'  arca  di'  scienza  ?   Biasima  sempre ,  e  vedrai  la  brigata  »  Starti  d' intorno  con  gran  riverenza.  »   »  Un  grand'uomo ,  un  grand'uomo  è  costui ,  dirà  la  brigata,  che  conosce  dove  sono  difettivi  gli  »  autori.  Proviamolo.  Si  ragiona  di  questo  mondo  »  e  dell'altro.  Su  due  piedi  l'uomo  ha  da  saper  »  rispondere  tanto  del  corso  de' pianeti,  quanto sentenziare  deiinitivamente  delio  arricciare  ca-  »  pelli  ;  e  s'egli  ha  grande  animo ,  sempre  termi*  »  nera  col  dire  :  In  un  mio  Trattato  spero  di  far  •  vedere  al  mondo  eh'  è  goffo.  Le  signorie  loro  »  tra  poco  vedranno  l'opinione  ch'io  tengo  sopra  »  ciò  in  un  libro  che  quasi  ho  terminato:  per  modo  »  che  empiendo  il  capo  de' circostanti  di  sentenze,  »  di  libri  e  di  simili  abbondanze  letterarie,  egli  è  »  impossibile  che  quando  prende  licenza  dalla  com-  »  pagnia  non  si  bisbigli  :  Oh  che  uomo  !  Oh  che  »  profondo  sapere  !  Costui  è  una  libreria  che  cam-  »  mina.  Una  stamperia  che  tira  il  fiato.  »   Ma  se  ti  è  permesso  di  ridere  delle  stoltezze  degli  uomini,  come  gli  altri  ridono  delle  tue  ,  la  pulitezza  vuole  che  il  tuo  sorriso  al  loro  guardo  s'asconda,  e  che,  d'ogni  malizia  spoglio,  non  sia  diverso  dal  sentimento  che  eccitano  in  te  due  puU.  Cini  che  vengono  a  contesa.   /   ,  giuochi  di  società.   Classificazione  dé*giuochi  e  vantaggi.   Da  un  lato  non  è  sempre  possibile  nelle  lunghe  sere  iemali  alimentare  la  conversazione  con  sog-  getti nuovi  e  interessanti  ;  dall  '  altro  il  discorso  pende  naturalmente  alla  satira.  .  Ora  è  meglio  giocare  che  annoiarsi ,  è  meglio  giocare  che  maledire  «  purché  regola  si  serbi  e  misura. Le  jeu  fùt  de  tout  temps  permis  p9ur  s'àmuser  ;  Oh  ne  peut  pas  t^mjours  travailler^  prier ,  lire  ;  //  vaut,  ìnieux  s'óccuper  à  jouer  qiià  médire.   1  giaoehi  poksoAo  esheré  indotti  a  cpiattro-elattf:   La  1.*  esercita  le  forze  corporee  (per  es. ,  il  «orso,  la  lotta,  il  pigiato  eec^«.  )•   La  2.^  esercita  le  forze  intellettuali  (  per  es.  gli  teaochif  vari!  giuochi  colle  carte;  eec}«  ^   La  S.*  lascia  Inerti  le  fonie  corporee  e  intrilel»  tuali  (per  es.  i  dadi  e  tutti  i  giuochi  d'azzardo)^   La  .  4**  esercita  coDtemporaoeaoieDte  le  forze  fi»  siche  e  tntellettualf  in  diversi  gradi  ,-  e  In  parte  anco  dipende  dall'azzardo  (  per  es.  il  giuoco  della  palla  «  cavallo^  del  pallMe.eo'piedi  ecc.).  I*«r?{^  volanti  divertono  nel  verno  tutte  le  corti  d'oriente:  vi  si  appendono  de'  fuochi  che  seml^rano  astri  in  mezeo  al  cielo.  Quello  del  i«  di  Stam^  sèmpre  in  aria  ciascuna  notte ,  e  i  mandarini  ne  tengono  alternatìvamente  il  cordone.  In  Itàlia  querto  diiier^  timento  è  rimasto  ai  ragazzi  ne'giorni  festivi  d'e-  state e  nelle  ore  pomeridiane,  e  unisce  il  piacere  deHa  vista  airesercizio  delle  membra  (t).   *  L' opinione  comune  vuole  (  ed  io  l'aveva  se-  gnita  Bell0  antecedenti  edizioni  di  questo  scritto  )  che  Fuso  delle  carte  da  giuoco  fosse  ignoto  pria  del  XV  secolo ,  e  che  ne  sia  stato  inventore  Già*  cornino  Crtn^nneur,  pittore  di  Parigi,  verso  la  fine  dei  secolo  XIV.  Pare  che  non  si  possa  dubitare  della    (!)  I  cervl-volanU  meritavano  una  menidone  pnrtlcoIw?c ,  |H9cchè  la  loro  storia  è  unita  a  quatta  deU'  el^tlrieitè.    falsità  di  questa  opinione  allorché  si  legge  il  mano-  scritto italiano  del  1295,  citato  dal  Tiraboschi  e  dal  Dizionario  della  Crusca,  nel  quale  si  parla  del  giuoco  delle  carte,  come  già  largamente  diffuso  in  quel-  Tepoca.  Forse  ella  è  questa  un'invenzione  asiatica  come  il  giuoco  degli  scacchi.  Che  che  però  sia  della  sua  origine,  egli  è  certo  che  le  carte,  ugualmente  che  altri  piaceri  innocenti  ,  censurate  caldamente  da'  predicatori ,  proscrìtte  con  pene  rigorose  dai  governi,  resistettero  a  tanti  nemici  potenti  congiu-  rati contro  di  esse.  Dopo  che  l'esperienza  e  i  pro-  gressi dell'economia  politica  hanno  insegnato  ai  governi  a  trarre  un  partito  flscale  da  ciò  che  ave-  vano inutilmente  proibito,  le  carte  da  giuoco  go-  dono, per  così  dire,  d'un  esistenza  legale,  impin-  guano il  pubblico  tesoro,  occupano  alcuni  fabbri-  catori,  e  il  piacere  deglr  uni  diviene  sorgente  di  lavoro  per  gli  altri.  Le  carte  formano  parte  de'  divertimenti  delle  quattro  parti  del  mondo.   Le  prime  carte  differivano  dalle  attuali  nell'ap-  parenza e  nel  prezzo  ;  esse  erano  dorate,  e  le  loro  figure  dipinte  e  alluminate,  sicché  la  fabbricazione  richiedeva  talento e lavoro  particolare;  quindi  ne  era  alto  il  prezzo,  in  conseguenza  raro  Tuso.   L'invenzione  delle  carte  introdusse  de' cambia-  menti ne'modi  di  divertirsi.  I  differenti  giuochi  a'  quali  esse  aprirono  il  campo,  costarono  più  tempo  che  dertaro  ;  quindi  anche  nel  loro  abuso  furono  meno  fatali  de'  dadi.   In  generale  i  giuochi  d'industria ,  ì  quali  appar-  tengono alla  seconda  classe,  possono  essere  utile  e  innocente  esercizio  allo  spirito  di  combinazione  •  ed  io  dirò  francamente  alle  madri:  Se  il  vostro    Digitized  by  Googl    ligliuoio  è  stupido  i  inspirategli  qualche  gusto  pe^  fuochi  d'industria;  k  vanità  punta  ed  aaiouAa  ^Ue  vìaende  delle  pmlile  a  deHe  Tioctto  risyeglìà  Tattenzione  e  dà  qualche  iittività  allo  spirito.  -  Aggiungete  che  una  persom  ohe  UM  sa  gioem^   costringe  altre  due  o  tre  a  rimanere  oziose  come  eis^  in  una  coaversazione.  :■■  :  r  o:  Additando  i  iWDtaggi  det  giooéo  tmè  paioob  al  bisogno  d'intrattenersi,  non  intendo  di  vantarne  la  passioiie^  «amo  ehi  addita  i  pragl4el  vino,  io-  lande  di  gkistifioare  rubbriaebeeza..  :  vi  .v>iJE  che  dite  dei  degli  scacchi?   «  Quello  earia  è  mutile  JiilfatteDHMBta  ai  kh   »  gegnoso  (risponde  il  Castiglione);  ma  parmfebe  »  un  sol  difetto  vi  si  trovi  ;  e  questo  è  che  si  può  »  saperaé^  troppo,  di  modo  che  a  cui  vuol  ^ssaere  »  eccellente  nel  giuoco  degli  scacchi,  credo  bisogni  »  consumarvi  molto  tempo,  e  mettervi  tanto  studio  9  quanto  ii^  vatésse^iiiiparar  qoaiehe  wbil  aefeaza,  »  o  far  qual  si  voglia  altra  cosa  ben  d'importauiia  ;  »  e  pu;  ìd  utolme^  etn  tanta  letica,  non  w  altep  »  che  un  giuoco.  GU^^fOiiiAi^gi^o^i  qtiai  eh' essi  siwa^  purché  noi!  eseatiè 'dal  liaMi  .  della  deeema^  s$ao  imta  pià  pregiabiUy  quca^o  maggiore  esercizio  offrono  ^iifoftj%roei;iq»ipHfi^^  alU/0rze^is»tellet'  tuali;  quindi  tra  tutti  i  giuochi  t  meno  pregiabiii  e  i  più^daiinoat  aooo  i  giuochi  d'azzardo.:  ^   '     '  §  2.  Regote  di  civiltà  neL giuoco.   iVoti  mQSif4Ue  mal  umore  se  vi.  toccano  cat'  ièbe  coorte  o  se  perdete  ;  giacebè ,  altvimenli  fa-  cendo, dareste  a  divedere  che  la  vostra  tranquilK può  essere  turbata  da  un'inezia,  e  cte  apprezzate  WfmhiiaMnlle  una  pieeola  niQneta«  -  .  If  •  Nm  siate  troppo  fento  nel  giocare,  sia  per  non  dar  prova  d'inerzia  intetlettpale,  sia  per  non   Se  il  vostra  compagno  commette  degli  ^r-  rorif  ó&rreggetelo  €on  gwbo^  iberna  fare  schia-  iNMS^  6  dar  wgM  4t  troppo  dispidoere  R  che  violerebbe  la  prima  regola;  d' altra  parte  dovete  fiewdarvi  di  ^fuiatli  %ìt»  eonunetlete      steasò. Se  giocate  con  persone  schizzinose,  difen-  deté  il  vostro  diritto  seaza  riscaldarvi  e  soprattutto  «iiM  paiéfo  «iSniiiKe  ;  #^  Ae^po  é'a?^  sposto  }e  vpstre  ragiooi)  cedete  con  beila  maniera.   «  Io  giòco  per  diletto  e  per  conforto;  .  »     chi  vuol  far  quistion vada  aila^guerr^  E  giuochi  ad  ammazzare  o  ad  essèr  morto. Non  moxtrMe  ecee$sÌoa  é^ili^rwsa  fpumdo  vincete  ,  sì  percbò  Waii^prez»  maggiore  dell  im-  pmtattca  éeila  Msa  t  dtnot»  picooiMza  di  apicito sì  perchè  la  vostra  allegrezza  produce  nel  perdente  im  (dispiacere  più  sensibiie  d^a  perdita,. ed  è  ri-  guardato cornai  m  prìmo''gmb  d'iMuttOk  Infetti  nissuno  ama  di  perd^e  a  nissun  giuoco,  non  tanto  per  h^resse  guanto  «par  amair  propria  ;  giaacbè  dalla  perdita  risultane  idee  umiliamli  eeonlrarie  aii/opinione  abituale  die ci3scuno  arasi  formata  in  mente  della  stia  destrazza  e  della  sua  fortuna.  Vod*  taire,  benché  uomo  di  spirito,  o  perchè  uomo  di  .  troppo  spirito,  non  poteva  tollerare  il  padre  Adam,  quando  guasti  lo  vinceta  agli  scaccili  oé  al  tò*  ie;lìardo.  Un  principe  assiro  uccise  il  Aglio  di  ^>o-    Jbyas  alla  i:accia,  perebè  quel  giovine  era  riuscito  a  ferire  un  orso  ed  pn  (ione,  contro  tsni  il  pnriiicipe  aveva  slanciate  le  sue  freccie  inutilmente. Un  uomo  probo  non  si  permette  la  minima  sùperchieria  nel  giuoco  ;  egli  vuole  poter  dire»  io  non  ho  fraudato  giammai,  senza  che  la  coscienza  Io  smenta  :  egli  temè  che  V  abitudioe  d' ingannare  neHe  cose  piccole  diminuisca  la  sua  delicatezza  nelle  grandi.  '   Ogni  frode  dovrebbe  essere  punita- còlla  perdita  una ,  due  o  tre  partite ,  secondo  la  sua  impor*  tanza ,  ed  a  giudico  inappellabile  d^gli  astanti.La  somma  giocala  deve  essere  tenuissìiha  e  sempre  inferiore  alle  finanze  del  men  ricco  tra  i  giuocatori  ;  altrimenti  alcuni  non  giocheranno  per  non  resbré  esposti  a  gravi  perditè ,  altri  gio-  cheranno con  grave  lo^ro  daqoo  per  non  comparire  spilorci  :  Tono  e  l'altro  caso  annuUa  il  piacere  delibi  conversazione  e  lo  deprava.  Il  prodotto  delle  vincite  debb' essere  m-  pSeguito  4Z  vasutaggio  tornirne  ;  questa  regola  dimt-  i)uisce  il  dispiacere  delle  perdite^  e  neutralizza  l'a-  vidi del  guadagno. Il  tempo  destinato  al  giuoco  non  deve  su-  perare i  due  terzi  del  tempo  consecFato  alla  cw^  ireflsasione  i  e  questa  non  deve  succedere  a  ^e»e  'de' doveri  e  degli  affari  di  maggiore  importanza.  .    X»  Jiton  ai  deve  costringere  con  importuniià  sèsamo  a  giocasi ,  come  non  ti  deve  èoatriogere  . jaissuno  a  bere.  Non  si  devono  accoppiare  mi  friwM  >er*  sos^ie  nemiche  o  reciprocamente  odiose.  Egli  è  quf$ta  un  probienia  teìvoita  dilGcile  per  la  padrora iiratO  TÉMÙ   di  casa,  e  a  scioglierlo  beae  ci  vuole  occhio  Qao  e  pratica  di  aioDdo.   .  «  Lieto  così  tra  ramichevol  turbai  »  L'  ore  dividi  delle  amene  sere,  )*  E  n'abbiao  parte  gli  eruditi  detti,  «  £  parte  ancora  al  genial  oe  dona  »  Breve  «ommercio  di  piacevol  gioco,  »  Cui  mutua  gioia  e  scarsa  speme  avvivi,  •>  Ma  sete  d'oro  non  corrompa,  o  il  renda  '  »  Torbido  e  taciturno,  e  tal  che  dopo  »  Al  vìnto  Insieme  e  al  vincitore  incresca.   Doveri  nella  conversazione.   >   .4  1.  Attenzione.  '  '   L'attenzione  ne' crocchi  sociali  si  divide  in  doe  rami  distintisdmi*  *  '   Il  prim^  coDuprenda  quatf  a^ttnsa  sansibiiilà  che  immagina  i  bisogni  degli  astanti ,  li  previene  od  asseconda;   Il  secondo  oom|ltettde  le  affetftudini  «steHori  di-  mostranti che  Taitrui  discorso  occupa  interamente  il  nostro  anunob*   L  Supponiamo  una  signora,  che,  animata  dal-,  raoeenaata  sensibilità  ^  dirige  ufia  conversazione ,  0d  «serviaoMMie  ^v%ibM^  La  ptontezza  -era  mii  ella  risponde  alle  dimande,  vi  fa  supporre  che  la  sua  attenzione  sia  tutta  ooeupata  nelle  risposte  ;  V ingannate;  ella  si  diiFÌd6, si  moltiplica  ,  ed  è  presente  a  tutti  i  pensieri  degli  astanti  ;  non  vi   S&7   sfogge  uno  sguardo  eh' ella  noi  vegga  ;  non  {or-  inate- tto  degiderk)  ch'elici  non  conosca}  noa  pfo^  ferite  una  pàroia  eh'  ella  non  ascolti  ;  non  v'  ha  individuo  nella  conversazioae  eh'  ella  dimentichi  iQ&tti  ella  vede  là  Ja  un  angola  ehi  wa  paria  per  timidezza,  6  gh  dirige  con  sorriso  di  confidenza  una  dimanda."  Ella  s'accofge^  che  U  discorso  d  ;qualcuQó  eomiaeiab  ad annoiar  la brigala,  e  gli  .  cambia  cofx  bel.  garbo  il  soggetto tra  le  mani.  Il  vosl^  ^vvtirsacio  vi  stringe»eoa  afgomenti.iQeal»Dtì  a  segno  che  siete  vicino  succumbere;  ella  viene  in  ip(ra  soccorro,  con  una  celia.  . Vi  jsf uggì  di  bocca  dna  parola  a  cui  sh  dà  sinistro  senso,?  ella  spiega  la  vostra  intenzione  e  la  presenta  in  beir  aspetto.  Cadeste  per  inavvertenza  iiv  uno  sbaglio  che  può  divenirvi  nocive  ?  ella  vi  trae  d'imbarazzo  colla  sua  presenza  di  spirito  Uh  Voi  non  ardite  leggere  una  iatteira  che  vi  viene  pre^eotida/netta  ewiversaziaiie  ;  ella  dimanda  per.  voi. il  permesso  agli  astanti,  pro-  ^testando  che  ne  conosce  Timportan^a.  Voi  vorreste  .partire  e  non  osate  ;  elja  vi  &  rimprovero  che  4ih   1  '   (I)  Ferdinando  VI  re  di  Spagna,  benché  di  carattere  buono  jed  amano,  era  alquanto  severo  contro-  quelli  che  facevano  uso  di  tabacco  proy[>ito.  -  tJn  gìomò  in  sua  presenza  un  grande  di  Spagna  trasse  di  tasca  una  scatola  piena  della  polve  proscritta.  Il  re  slanciò  sopra  di  lui  uno  sguardo  mi-  naccioso. L' ambasciatore  di  Francia  (  M.r  di  Duras  ) ,  ac-  cortosi della  faccenda,  s' avvicinò  alio  Spaludo  e  gli  disse:  Ohi  ecco  la  ndaia|iaocbierache  V.E.,  per  prenderai  giuoco  di  me,  mi  aveva  tolta.  Questo  felice  espediente  trasse  d^ im-  paccio il  reo  6  disarmò  il  monarca.  (NB.  I  membri  del  corpo  diplomatico  non  erano  soggelU  alla  legge  della  proibizione  ).   menrichiate  i  vostri  affari  pe'vostri  amici,  e  v'or-  dina di  partire  sotto  pena  della  sua  disgrazia.  Vinse  ella ,  è  vero,  al  giuoco,  ma  se  la  destrezza  del  suo  compagno  non  avesse  corretto  i  suoi  er-  rori, sarebbe  rimasta  succumbente.  Quest'oggi  ella  è  libera  dalla  sua  emicrania  e  ne  furono  medicina  i  bei  motti  della  scorsa  sera.  Osservate  con  quale  compiacenza  arresta  di  quando  in  quando  il  suo  .  sguardo  sopra  uu  astante,  e  pare  che  la  sua  fiso-  nomia  s'animi  e  s'abbellisca  :  ne  volete  conoscere  il  motivo?  Questi  le  presentò  l'occasione  d'essere  utile  ad  un  infelice.  Senza  pretendere  dominio  nella  conversazione,  sa  dirigerla  con  destrezza ,  e  quasi  direi  fa  comparire  sul  palco  i  personaggi ,  restando  essa  tra  le  scene.  Ella  sa  far  valere  cia-  scuno senz'aria  di  protezione,  perchè  sa  distribuire  le  parti  secondo  V  abilità,  il  genio  e  i  talenti  di  ciascuno.  Voi  avete  fatta  una  bella  azione,  e  non  ne  parlate  per  modestia;  credete  voi  ch'ella  non  la  conosca  ?  che  l'abbia  dimenticata?  Aspettate  che  la  conversazione  sia  piena,  ed  ella  verrà,  per  così  dire,  a  prendervi  per  la  mano  e  vi  presenterà  agli  sguardi  di  tutti  in  mezzo  ai  raggi  della  vostra  gloria  (1).    Parecchi  scrittori  che  frequentarono  i  bordelli  ,  hanno  fatto  la  satira  del  bel  sesso  :  essi  avevano    (f  )  Nel  testo  ho  abbozzato  con  lievi  tinte  il  carattere  d'una  signora,  la  cui  amara  perdita  lasciò  profonda  sensazione  nel-  r  animo  di  quelli  che  ne  ammirarono  le  virù  :  parlo  della  si-  gnora Marianna  Morigi  Réina.    ragione  :  il  primo  dovere  d' un  viaggiatore  si  è  d' essere  esatto.  A. chi  ha  conosciuta  deile  dooae  che  il  flore  delia  gentilezza  uDivana  aHe  fià- ama-  bili virtù,  iocumbe  l'obbligo  d'esattew  eguale.   IL  Mostrare  che  degli  altrui  discorsi  nóu  f«t»  dete  una  parola,  e  che  le  affezioni  risentite  che  il  parlante  tende  ad  eccitare,  è  dovere  si  evidente,  che.  d' ulteriori  schiarimenti  non  abbisogna  dopo  quanto  è  stato  detto  nel  libro  primo.   «  Se  npn  mostra  che  il  turbi  o  che  il  conforti  •   »  Ciò  che  sente  chi  ascolta ,  non  dirai  '   f  O  ch'egli  è  sordo  o  che  poco  gt'  importi  ?  »  Con  somma  attenzìon  dunque  dovrai   »  Ascoltar  ehi  proponga  o  chi  risponda,  ,  n  Se  avrai  iuteìrrogato  o  se  il  sarai*  »  £.se  avversa  al  tuo  genio  o  pur  seconda  Sarà' la  eosa  iM^t  dèi  mei  visito. Mostrare  impressione  aspra  o  glo<M)ndd. Conviene  assistere  ai  discorso  di  chi  parla  come  si  assiste  In  teatro  ad  una  seeua  nuova  ;   n  E  però  sii  disposto  ad  ascoltarlo  »  Come  di  tutto  ignorante  tu  fossi ,   »  E  n^suoi  vari!  sensi  a  seguitarlo.  »   ^  ^   «  .  •   È  quindi  grave  inurbanità,  allón^è  qualcuno  parla,  trastullarsi  ooHentaglio,  col  cane,  coi  guanti,  colla  td^oduera,  eoi  cappello,  ovvero  Volgere  qua  ^.  là  il  capo,  e  far  gesti  con  questo  e  sorridere  a  qucHo ,  ioBomma  mostrare  un'  aria  di  volto  che ,  alla  sensazione  comune  eccitata  dai  dkeeni.  del  pariante  non  eorri^poada.  In  forza  di  queste  distrazioni,  quando  il  discorsa  è  innoltrato  e  diviene  interessante,  siamo  costrettJ  ^  a  confessare  che  ce  ne  sfuggì  il  filo,  e  con  altrui  .  noia  preghiamo  chi  parla  a  rannodarlo  nella  nostra  mente.   «  Egle  distratta  intanto Torna,  disse,  a  ridir,  ch'io  nulla  intesi. L'altrui  distrazione,  oltre  d'essere  un  affronto  .  a  chi  parla,  giunge  a  turbare  le  di  lui  idee ,  mentre  all'opposto  l'altrui  attenzione  le  raccoglie.   '  «  E  se  ascoltando  astratto  o  per  stanchezza  «  Volgi  l'occhio  ,  si  ferma  chi  favella  ;  »  Ma  guardalo,  e  il  discorso  raccapezza.  »  ^   La  distrazione  poi  è  dannosa  a  noi  stessi  in  tre  modi  nella  conversazione  A  ,<vr  riv  i/,   1'.  Ci  fa  ripetei^e  le  stesse  dbnande  ^  ^^^prova  labilità  di  memoria,   •  (  Una  principessa  volendo  dire  qualche  cosa  gra-  ziosa ad  una  giovine  dama,  le  dimandò  quanti  figli  aveva:  tre,  rispose  la  dama.  Un  quarto  d'ora  dopo ,  la  principessa  ,  la  cui  attenzione  era  stra-  niera a  questo  trattenimento ,  dimandò  di  nuovo  alla  dama  quanti  figli  aveva.  —  Siccome  non  ho  partorito  dopo  la  prima  dimanda  che  aveste  la  bontà  di  farmi,  replicò  la  dama  ,  così  i  miei  figli   ,  restano  tuttora  tre  ) Ci  fa  commettere  sbagli  e  contrassensi  che  ci  rendono  ridicoli.  (  Un  negoziante  cui  fu  esibito  da  sottoscrivere  •    l'estratto  battesimale  d'uno  de'suoi  figliuoli,  scrisse  :  Pietro  ....  6  compagni.  Egli  non  s'accorse  della sua  stoltezza  se  non  se  dopo  la  risata  generale  che  eccitò.  )   3.  Ci  fa  si^elare  i  sentimenti  del  nostro  animo  contro  nostra  voglia.  .  ^  ^  .  (  Una  dama  alla  presenza  di  suo  marito  parlava  4ella  destrezza, di  cui  si  era  servito  un  galante  per  introdursi  nella  casa  d'una  signora  ch'egli  amava,  in  assenza  di  suo  marito.  Ma  nel  mentre,  disse  ella,  se  la  intendevano  tra  di  loro,  eccoti  il  marito  che  batte  alla  porta  :  Ora  immaginatevi  V  imba-  razzo in  cui  allora  io  mi  trovai.  La  verità  sfuggita  alla  moglie  pose  il  marito  in  altro  imba-  razzo maggiore. Sogliono  essere  causa  di  distrazione   1.  La  noia  prodotta  da  discorso  poco  interes-  santeo  già  notoy  e  il  poco  concetto  che  si  ha  di  chi  parla  ;  quindi  dell'altrui  distrazione,  siamo  non   di  rado  cagione  noi  stessi        '  -   2.  V  abituale  irriflessione  che  lascia  errare  sbrigliatamente  la  fantasia  senza  riguardo  alla  realtà  delle  cose  da  cui  siamo  circondati  ;   3.  La  voglia  di  rispondere  per  vanità  od  altr,  simile  sentimento.  Allorché  qualcuno  parla,  alcuni  concentrano  il  pensiero  sopra  ciò  che  devono  ri-  spondere. Tutto  occupati  nella  risposta,  non  resta  loro  alcun  grado  d'attenzione  per  ciò  che  ascol-  tano. Temendo  che  sfugga  loro  l'idea  che  vogliono  esporvì ,  il  loro  spirito  s' occupa  a  conservarla,  e  ad  impedire  che  altre  al  di  lei  posto  sottentrino.   4.  L'astratto  è  una  testa  debole  che  si  lascia  predominare  dalle  idee  che  gli  vanno  per  la  fan-  tasia ,  0  un  uomo  vano  che  si  finge  occupato  in  grandi  pensieri. In  atto  -^4.^^  -   ^\ /   *  ^^'^  Di  pensator  profondo,  altero  sembra     ^  vl?  *  kr'Ét^  '>  Quasi  seder  della  ragion  sul  trono ,  }         E  il  semi-chiuso  ciglio  abbassa  appena  .ijfilt-  V      »  Sul  non  pensante  vegetabil  volgo.  »  ^   Pretendere  di  mostrarsi  filosofi  mostrandosi  stratti  e  sgarbati,  è  pretendere  di  mostrar  ricchezze  con  un  tabarro  rattoppato.  Chi  alla  coltura  delle  scienze  accoppia  gentil  costume,  dà  segno  di  forza  d'animo  come  due;  chi  alla  coltura  delle  scienze  rozzo  costume  unisce,  dimostra  forza  d'animo  come  uno:  poiché  se  la  rozzezza  è  naturale,  la  genti-  lezza  è  figlia  dell'educazione;  dunque,  rigorosa*'  *  mente  parlando,  in  vece  d'innalzarsi,  l'astratto  si  degrada,  giacché  la  sua  condotta  prova  o  può  pro-  vare ch'egli  basta  a  coltivare  le  scienze,'  non  basta  a  coltivare  le  scienze  e  sé  stesso.  Si  possono  dun-  que coltivare  le  scienze  senza  essere  villano.  Le  scienze  vogliono  che  dalla  solitudine  passiamo  alla  società,  più  amabili,  perchè  vogliono  de' seguaci^'  non  degli  stupidi  ammiratori  o  de' nemici. È  quasi  straniera  sulla  fronte  dell'  uomo  buono  la  severità,  mentre  non  di  rado  comparisce  sul  suo  labbro  un  dignitoso  e  piacevole  sorriso,  f.^^   L'uomo  buono  non  s'offende  d'uno  sgarbo,  non  '  fa  rumore  per  un'altrui  svista  ;  dissimula  le  man-  canze d'ossequio  e  di  rispetto  che  a  prava  inten-  '  zione  non  si  possono  attribuire.   Non  isdegna  d'occuparsi  di  cose  frivole,  se  pia-  cevoli agli  altri  :  e  nelle  partite  di  piacere  più  l'al-  trui genio  consulta  che  il  proprio.    iìlLìmaii   Di  contrasti  ignara  »  Condiscendenza  che  alle  propri  voglie  »  Cede  coàì,  che  delle  altrui  s'indonna.  »,  ^   liwiisilegoa  di  prestare  orecchio  agli  imbecilli  che  non  gli  dicono  BuUa,  e  Ji  toUwa,  lofitaoissiuKi   4   i    .  «  •  •  «  Gli  altrui  detti  e  qualche  »  Sbaglio  sfuggito  e  naturai  difetto   AiranouDcfo  d' un  vizio  egli  inc^inà  a  porlo  in  ,  dubbio  ;  e  se  il  vizio  è  certo,  ricorda  il  pentimento  «^he  potrà  cancellarlo.  Quindi  egli  prende  spesso  ta-  liKesa  degli  assenti,  e  conchiude,  quando  può,  Hi  modo  analogo  a  quello  che  usò  Boiingroke^  ai-  Jorchè  intése  a  laccfriiré  la  riputsbsions  éi  Maftou-  ,  Tough  :  Egli  ayeva  .tante  virtù,  che  ho  dimenticato  I  suo»  mi.  .    \  , ,  t  .   Egli  scusa  gli  altrui  difetti  anche  a  spese  della   P.erità  allorché  non  ne  viene  danno  ad  altri  ^1).    (I)  IMusladin  Saadì  nel  suo  Mosarium  poUticwm  riferisce  «che  un  cèrto  re  condannò  a  morte  naa  de*  tuoi  sehiavi  ,  e  ^lie  quesU}  non  vedendk»  speranza  ^  grazia,  ^ede  sfogo  al  .  suo  dolore  con  nalèdieloini  e  ìmpreeaslofxl  d'ogni  genere  '   -  contro  il  re.  Questi  non  intendendo  ciò  che  diceva  lo  schiavo,  \  ne  chiese  la  spiegazione  ad  uno  de'  suoi  cortigiani  :  il  corti-   .  ji^iono ,  il  quale,  per  rara  sorte  aveva  il  cuor  buonore  desi^  ^   •  derava  salvare  la  vita  al  colpevolé^  riiposè:  fflgilore,  questo  povero  diavolo  dfeè,  che  U  parafo  srta  preparato  perqueUi   (  c:{]c  moderano  la  loro  collpra ,  e  che  perdonano  i  difetti  \  ed           ;  ,   Egli  è  il  primo  a  sottoscriversi  ad  un  progetto  di  beDeficeneà  ;  non  è  loataiio  dall'  imj^rtunare  per  ottenere  ^  un  beneficio  a  vantaggio  di  'qoalchè   bisognoso.  ;  '   Egli  ha  la  delicatezfsa  dare  ad  un  brae&iio  l  apparenza  d\un  obbligo ,  e  conta  pel  massinno  ptqioere  il  piacer  di  beD6fic9re  (1).  È  inotile  rag-    iH  quésto  tfodo  egli  Implora  la  tostrà  d^iDenza.  AUora  ir  '    re  perdond  éló  woìàmo,  e  gU  aiscordà  dinuovi»  A  sua  gmìi.   Cn  altro  cortigiano  iniquo  per  carattere ,  facendo  rlmpro'  veri  al  primo,  gli  disse  che  non  cpnveniva  ad  un  uomo  del   ,8U0  «Ugo  il  mentire  alla  presenza:  del  re;  quindi  rivoltosi  al  ,  principe ,  te  vi  svelerò  la  verità ,  gli  disse  :  i^ppiale  che  lo  «eMavo  fak  proferito  gouIbo  di  véf  1^  pUi;  «BecraUMi/in^  "  rioni ,  e  questo  signore  vi  vende  una  merizegna.       •  ;  .   M  re,  offeso  da  questa  graluila  e  inopportuna  malvagìtìu  •  -     dò  può  ben  essere^  replicò;  Kta  la  menzlogna  che  voi  gU  r  ^cimbroverate,      eliè  la  vostra  ^^ìk  è  pregevole  ;  giac-  1»  cbè  con  questo  mé^  egli  procacciò  dfc>a)vare  la  vitàad  «  un  uomo ,  mèùtre  voi  tentale  di  togliergliela  :  ignorate  vo^  »  questa  massima?  La  menzogna  die  frutta  un  bene,  vale  »  più  della  verità  che  produce  un  danno.  »   (4)  Turenne  avendo  veduto  nella  sua  armala  un  olBciale  imesto  ma  povero,  fornito. di  cattivo  cavallo,  lo  invitta  pranzo ,  e  dopo  pranzo  gii  disse  in  disparte  con  speciale  bontà  d'animo:  io  devo  farvi  una  preghiera  che  forse  voi  troverete  un  poco  ardila  ;  ma  spero  che  non  vorrete  rica-  li lìtillà  al-  vostro  generale,  lo  sono  vecchio  ed  anemie  ma-  laticcio }  i  cavalli  Uroppo  vivaci  mi  ca^^ianano  disagio  e  pena;  voi  ne  avete'  uno  sol  quale  starei  còmodissimo.  Se  non  te-  messi di  domandarvi  un  sacrifizio  troppo  grande ,  vi  preghe-  rei di  cedermelo.    L'  officiale  non  rispose  che  con  profonda   .  riverenza,  andò  ^  pifendero  il  suo  .cavallo  e  lo  condusse  nella  «cudfHriA  di  Turenne.  ^  Questo  generali^  gii  spedì  il  giorno  ap-  presso uno  de*  più  belli  e  migliori  cavalli  dell*  acq^ta.  ^    Digitizec  Ly  v^oogle    gfO^re  ch'egei  si  astiene  dalle  commi  ^UHaipai  a  iBer  di  labbro^  no»  aeeompagnaté  èA  desiéeria   d'eseguire^  e  che  si  debbono  chiamai'e  r   «  YeiMi  iógafinì  in  mmzognere  offerte,  r  -   fissare  sei^ro  co'  suoi  simili  è  dtmenticare  di   quante  qualità  siamo  sprovvisti ,  da  quanti  difetti  funifflio  lur^ervati  dai  solo  azzardo,  quanti  oggetti,  qpante  circostanze  sulle  debolezze  degli  uomini  influiscano.  *  ^  *   ;    *  >  -   Ma  per  e^eré  buono  non  siate  imprudente  }  e  ricordatevi  che  la  bontà  inclina  naturalmente  a  giu-  dicare gli  uomini  no^  quali  som^  ma  quali  do*  vrebbero  essere;  la  quale  illusione  se  riesce.pia^  cevole,  perchè  ci  libera  dalle  spine  della  difliden^a,  spesso  di  molti,  e  gravi  sbagli  è  fonte.   §  8.  Modestia^.   Per  Qiodéscià  inteiAlesi  quella,  virtù,  die  si  a-  stiene  dal  prevalersi  de'  proprii  talenti  e  della  prò*  pria  abilità  In  modo  spiacevole  a^  j^uèlli  con  cui  viviamo.   Ella  è  veramente  una  virtù  ^  gi^hè  riesce  a  reprimere  la  nittùrale  tendenza  che  spinge  ciascuno  ad  esagerare  i  proprii  pregi  e  farli  sentire  agli  altri.   ^  Io  non  credo  ch'uom  sia  sotto  la  luna,  »  Ch'il  suo  ingegno  cambi^^e  con  Platone,  »  Quantui^ue  egli  non  skppia  cosa  aìcuna.  Perche  a  ciascun  par  esser  Salomone,  ,  »  £  ui  essenza^si  giudica  da  tanto  «  Che  meriti  ogni  onor  da  le  persone.  ^   Quindi  Timmodestia  cresce  in  ragione  dell'ign^^  .  ranza ,  o  per  dir  meglio  del  falso  sapere  ;  perciò   »    Digi vi,'   la  Bruyère  dice  :  //  vanaglorlosOy  misto  di  sciocco  e  di  petulante^  sta  tra  questi  due  estremi.   Un  giudizio  troppo  favorevole  di  noi  stessi  of-  fende i  nostri  simili ,  ì  quali ,  volendo  giudicare  liberamente  le  nostre  azioni ,  veggono  con  dispia-  cere che  si  assegni  a  se  stesso  nella  loro  opinione  un  rango  o  delle  ricompense  che  essi  non  ci  as-  segnarono.   L'uomo  modesto  somiglia  a  que' fiori  che  umili  steli  tolgono  all'altrui  vista,  e  che  solo  il  loro  pro-  fumo fa  conoscere.   La  modestia  dà  ai  talenti,  alle  virtù,  alle  abi-  lità quell'incanto  che  il  pudore  aggiunge  alla  bel-  lezza (1).  '   «  Ippolito,  che  sài  più  in  là  A\  tanti    '"^  "  *^  •  .  »  Fra  lor  che  sanno,  e  di  saper  dan  mostra,  Mentre  a  te  ignaro  de'  tuoi  proprii  vanti  -   .*   ^  Schietto  pudor  Tonesta  guancfa  inostra.  »   "  "'  '   «  LaseianK),  dice  Gozzi,  il  commendarsi  da  se  »  medesimi  a  coloro  i  quali,  temendo  di  sè  e  delle  y>  opere  loro  ,  tentano  di  sostenerle  coi  puntelli ,  »  come  gli  edifizi  vecchi  e  cadenti.  Non  sia  di-  »  sgiunta  da  noi  giammai  queir  onorata  modestia  »  che  è  condimento  e  grazia  di  tutte  le  virtù ,  e  ^>  le  rende  più  care  e  pregiate.  Qual  baldanza,  vi    (I)  L*  umiltà,  differente  dalta'  modestia,  è  una  qualità  cha  brama  mostrarsi  agli  occtii  altrui ,  perchè ,  mostrandosi ,  In  vece  d' offendere  la  loro  vanità ,  X  adesca  \  ella  suppone  per  lo  più  in  quelli  che  la  ostentano ,  un  sentimento  segreto  d'amor  proprio  od  anche  d'orgoglio  ch'ella  si  sforza  di  re-  prmiere ,  desiderando  che  le  si  sappia  grado  della  sua  vittoria.    prego,  sarebbe  la  nostra  se  volessimo  privar  le  »  genti  della  facoltà  di  dare  il  proprio  giudizio  »  sopra  di  noi  ?  Perchè  vorremo  noi  essere  niae-^  »  stri  a  tutti  coloro  i  quali  ci  ascoltano,  e  conian-  »  dare  ad  ognuno  che  a  nostro  modo  favelli  ?  E  »  se  per  avventura  V  intendessero  altrimenti  da  »  quello  che  andiamo  noi  vociferando  di  noi  me-  »  desimi ,  che  sarebbe  allora  ?  Le  nostre  voci  si  »  rimarrebbero  offuscate  nelP  immensa  furia  delle  »  contrarie ,  e  noi  verremmo  giudicati  senza  cer-  »  vello.  Quanto  è  a  me ,  così  penso  e  tengo  per  »  fermo,  che  farà  sempre  inutile  opera  colui  il  »  quale  a  dispetto  di  mare  e  di  vento  vorrà  essere  »  d'assai  con  la  sola  forza  delle  sue  ciance.  »  r  Giusta  gli  esposti  principii ,  l'uso  ha  introdotto  nel  conversare  socievole  certi  modi  di  dire  che  ,  lungi  dal  dare  segno  di  confidenza  eccessiva  nel  nostro  giudizio,  lasciano  scorgere  dubbio  e  difll-  denzà.  Franklin  ci  dice  che  conservò  T  abitudine  di  non  impiegare  giammai  nelle  quistioni  contro-  verse le  parole  certamente,  sicuramente^  indubi-  tatamente^ od  altre  simili  che  il  dimostrassero  ir-  removibile nella  sua  opinione.  Io  diceva  piuttosto,  egli  soggiunge  i  fo  credo^  io  suppongOy  a  me  pare  che  la  cosa  sia  così,  per  tate  a  tale  ragione:  ov-  vero la  cosa  è  così,  se  non  m'inganno  (l)'.  •    {\)  Prima  di  Franklin,  aveva  detto  Monsignor  Della  Casa  :  «  Bisogna  che  tu  ti  avvezzi  ad  usare  le  parole  gentili  e  rao*  »  deste  ,  e  dolci  sì ,  che  ninno  amaro  sapore  abbiano*  e  in-  »  nanzi  dirai  :  Io  non  seppi  dire,  che  Voi  non  m' intendete ,  j»  e  Pensiamo  un  poco,  se  così  è,  come  noi  diciamo;  pint:  »  tosto  che  dire:  Voi  errate,  o  E' non  vero,  o  Voi  non  la Poiché  gli  scopi  della  conversazione  sono  d'i-  Vr^struirsi  o  d'istruire  gli  altri,  di  piacere  o  di  per-  »  siiadere,  è  cosa  desiderabile  che  gli  uomini  in--  »  telligenti  e  ben  intenzionati  non  diminuiscano  n^vjl  potere  che  hanno  d'essere  utili,  affettando  »  d'esprimersi  in  modo  positivo'^  presuntuoso  che  »  vi|i9n  lascia  di  spiacere  a  quelli  che  ascoltano,, e  »  non  è  proprio  che  ad  eccitare  delle  opposizioni'  »  e  prevenire  gli  effetti  pe' quali  fu  concesso  al-   . uomo  Jl.s dono  della  favella*/ ,  «tr  .   .  r  «  Se  volete  istruire,  ricordatevi  che  un  tono  af-  ^, fejrmativo ^fi-  dogmatico,  proponendo  la  vostra   .    .        -Ili  sapete  ;  perciocché  cortese  é  amabile  usanza  è  lo  Incolpare   M  altrui,  eziandio  in  quello  che  tù  intendi  d'incolpaclo;^  anzi<^   »  si  dee  far  comune  Terrore  proprio  dell' amico, prenderne prima una  parte  per sè,  e  poi  biasimarlo  e  ripren-   i>  derlo. Noi  errammo  la  via  :  e  Noi  non  ci .  ricordammo   À  ieri  di  così  fare*  ^ome  che  lo  smemorato  sia  pur  colui   A  solo  e  non  tu  :  e  quello  che  Restatone  disse  ai  suoi  com-   »  pagni  non  istette  bene:  «  Foij  se  le  vostre  parole  moìi  men'   M  lono  n  ;  perché  non  si  deve  recare  ili  dubbio  la  fede  al-   »>  tmi:  anzi,  se  alcuno  U  promise  alcuna  cosa/e  non  tela   »  attende,  non  istà  bene  che  tu  dica:  Voi  mi  mancaste  della   •)  vostra  fede  ;  salvo  se  tu  non  fossi  costretto  da  alcuna  ne-   »♦  cessiti ,  p«r  salvezza  del  tuo  onore ,  a  così  dire  :  ma  se   n  egli  ti  avrà  ingannato,  dirai  :  Voi  non  vi  ricordaste  di  così  fare  :  e  se  egli  non  se  ne  ricordò,  dirai  piuttosto  :  Voi  non   »  poteste  ;  o  Non  vi  ritornò  a  mente  ;  che  Voi  dimenUcastc,   »  o  Voi  non  vi  curaste  d'attenermi  la  promessa:  perciocché   »  queste  sì  fatte  parole  hanno  alcuna  puntura  e  alcun  ve-   »  neno  di  doglianza  e  di  villania  ;  sicché  coloro  che  costu-   »  mano  di  spesse  volte  dire  colali  motU ,  sono  ripulaU  per-   »  sone  aspre  e  ruvide  ;  e  cosi  é  fuggito  il  loro  consorzio   M  conie  si  fugge  di  rimescolarsi  Ira'  pruni  e  tra'  triboli.   S6ft   »  proposizione  ^  è  sempre  causa  per  cui  si  cerca  di  eontraddìpvi'^  e  p«r  non  si^  aicoltato  1»  con  attenzione.  Da  un  altro  Iato  se,  desiderando  »  d'essere  istruito ,  e  di  profittare  delle  coignizteiii  »  «degli  altri  ^  toì  ti  esprimete  eooie  pensona  for<-  )>  temente  ostinata  nei  suo  modo  di  pensare,  gli  9  MouNAt  modesti  e  sensibiii  che  nm  amane  la  H  disputa ,  vi  lasceranno  tranquillamente  in  pos-  »  sesso  de' vostri  errori.  Seguenda  un  metodo  or-»  y>  goglioso,  raire  volt»  potete  speme,  di  piaeefs  af  »  vostri  uditori,  di  conciliarvi  la  loro  benevolenza,  »  e  di  convincer  quelli  cui  voi  eravate  vago  di  £a9  »  aggradire  i  vostri  pensieri  (1).  »  *   La  ragione  non  lia  giammai  maggiore  impero  che  quaodo  alla  si  presenta  non  come  una  legge  che  si  deve  seguire,  ma  come  un'opinione  che  può  meritare  d'essere  esaminata  ;  perciò  ne'  crocchi  di  Filadelfia  pagavasi  un'ammenda  tutte  le  volte  die  facciasi  uso  d'un'  espressione  decisiva.e  dogmatica.  Gli  liQmini  piià  intrepidi'  nella  loro  c^rtsasa  4^rano  obbligati  d'impiegare  le  formole  del  dubbio,  e  pren-  dere nel  loro  linguaggio  l'abitudine  della  modestia^  la  quale,  quand'anclie  s*|uerestasse  alle  sete  parole,  •    (I)  L*  abate  Polignae  sapava  presedtave  le  ime  Idee  i^a   aria  sì  modesta  e  gentile,  clieil  Pontefice  Alessandro  VIU  gli  diceva:  Voi  sembrate  sempre  essere  del  mio  parerei  ma  alla  line  de'  conti  é  sempre  il  vostro  che  prevale.   Luigi  XIV,  dopo  d*avere  ascoltato  U  suddetto  abate  sulla  ìiegoziazkme  Intrapresa  à  Boma  per  le  celebri  proposiztoid  idei  clero  Oallleano,  disse  :  R!l  sono  Inlratlenuto  con  un  nomo,  e  glovìre  uomo,  U  quale  mi  ha  sempre  controddetUi  c  mi  e  smifte  piaciuto,  /   ai*    Digitized  by  Google    390  '  uno  xiMa    ^  *   avrebbe  già  il  vantaggio  di  non  offendere  1'  altrui  amor  proj^io,  ma  che^  per  rinfluenza  delle  i^aaroie  MHe  idee  y  ém  fiiialMefite  etftfindent  4mU6  fltetse  opkìioai.   .Ii6  pmone  gemili  sapendo  die  ralttni  wiità   soffre  allorché  si  vede  convinta,  sogliono  terminare  la  contesa  con  una  lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo  icrtet»  dall'oppoeisimd,  eh0  El-  lero offendere  il  loro  antagoniata,.  che  non  si,  van-  tano 4Mla  vktona»   .  §  4.  C&a^imazi(me  dello  stésso  argomento.   ■   Siccome  T  ombra  sola  della  pretensione  offende  Faltmi  amor  proprio,  perciò  i  titoli  di  vano,  su-  IUrbò,  anrogantef  tallita  si  regalane  a  tollo^  a  torto  si  dichiarano  offensive  le  giuste  ragioni  con  cai  l'Qinocenza  e  il  nierito  rivendicano  i  loro. diritti.  Costretto  non  di  rado  Tuomo  grande  ad  imporre  silenzio  air  orgoglio  soperchialore ,  £a  conoscere  dè  di* egli  è,  sbalza  nella  tua  possa  e  torreggia  dinanzi  alla  mediocrità  impertinente  che  vorrebbe  avvilirlo.   a  Di  modestia  »  Tempo  or  non  è,  voce  d*oner  n'appella.  »   Infatti  la  vera  modestia  è  eome  la  vera  bravura,   ÌJ  quale  non  oltraggia  giammai,  ma  sa  rispingere  gli  oltraggi  y  fuorché  quelli  che.  li  fa  non  sia  vile  à  segno  da  non  meritare  che  disprezzo.  Chi  avrebbe  potuto  tacciare  d'arroganza  Cicerone,  allorché,  tot-  nato  dall'esilio,  pregiavasi  d'avere  salvato  gli  Dei  del  Campidoglio,  il  Senato  dalla  vendetta  di  Ca-  tilina,  il  popolo  dal  giogo  e  dalla  schiavitù  ?  Non    era  egli  giusto  che  mostrasse  a'suoi  nemici  il  suo  Dome  cancellato ,  i  suoi,  monumenti  distrutti,  la,  sua  casa  demolita,  e  c6l  peso  della  sua  gloria  gli  opprimesse?  I^aseiando  da.  banda  il  caso  assai  rara  di  Cice*«-  ronC)  e  consultando  la  giornaliera  esperienza,  ve-  dremo  che  ì^Uoìtdi..  l'esternare  giusto  sprezzo  per  gUr  aUH  e  giusta  sHtim  pctsé^  è  gittstij^ato,  ^al-  r altrui insolenza (1).  •  .  .  Gbe  cesa  dite  di  quelH  ohe  scrivono  la  propria  vita? Il  severo  Tacito  non  ha  osato  fare  rimprovero  a  parecchi'  famosi  ingegni  dell'  antichità,  che  le  loro  gesta  pubblicarono,  non  per  ostentazione  e    ({)  Un  prelato  cortigiano,  il  cui  merito  consisteva  ne'suoi  avi,  ccedevasi  disonorato  vedendo  in  Flechier  un  confratello,  che  Dio  aveva  fatto  eIoqu$inte,  caritatevole,  virtuoso,  ma  non  gentiluomo  :  egli  era  ^sorpreso  che  Fléchier  fosse  passato  dalla  bottega  de*  snoi  paventi  affa  ^e  tescovfle ,  ed  èMie  r  impertinenza  di  dirglielo  :  Con  questo  modo  di  jwmare^  ri-  spose il  vescovo  di  Nìmes,  temo  assai  che  se  voi  foste  nolo  f  ai  posto  m  cui  io  aono^  rum  ne  feski  disceso  far  delle  eandéU»   Anche  H  «lareseiallò  de  la  Feuììtàde,  tanto  più  soper-   cliialore  con  quelli  che  credeva  inferiori  a  sè  ,  quanto  più  era  vile  alla  Corte,  disse  al  sullodato  Flechier,  eh'  egli  non'  era  a'  suoi  ocelli  che  un  meschino  borgliigilino  di  Nimes,  e  SQg^nset  Gmmdt»  ehs  vostro  padre  sarebbe  6m  sér^  preso  nei  vedérvi  dà  che  voi  siete.  Forse  men  sorpreso  che  non  vi  sembra^  rispose  il  prelato,  giacché  non  il  figlio  di  mio  padre^  ma  io^  fui  fatto  vescovo.  —  Il  diritto  di  difesa  giustificava  questa  risposta; poiché  l'  alta  opinione  che  U  buon  vescovo  mctetiava  di  sè,  oltre  d' essere  fondata  sul  veiO}  ten«  deva  a  reprimere  un  ioigjusto  8pcegio« arroganza ma  p«r  quella  tonfideasa  the  .la  'pvobità  inspira. Alfieri*  che  ci  ha  lasciato. la  sua  vita confessa candidamente  che  il  parlare  e  molto  più  lo  scrivere  ^.^i  se  sl^esso  nasce  da  molto  amor,  di se stessa.  '^ìkipo  questa  ingenua  confessione  rautece  giustifica  *  la  sua  condotta  nel  modo  seguènte:  '^-Avendo  ia  oramai  scritto  naolto,  e  troppo  pià  »  forse  che  non  avrei  dovuto  ^  è  cosa  assai  nàtu-  *  »  rate  che  alcuni  di  quei  pochi  a  chi  non  saranno  »  dispiaciute  le  mie  Opere  (  ée  non  tra'  miei  con^,  »  temporanei,  tra  quelli  almeno  che  vivran  dopo  ),  »  avranno  qualche  curiosità  di  sapere  qlial  i<^  mi  »  fossi.  Io  ben  posso  ciò  credere ,  senza  neppor  »  troppo  lusingarmi ,  poiché  di  ogni  altro  autore  1»  andie  minimo  quanto  ad  valore ,  ma  voluofiinoso  »  quanto  alle  opere ,  si  vede  ogni  giorno  e  seri-  n  ver^^e  leggere^  q  vendere  almeno  la  vita.  Ondo^  »  quand'anche  nessun' altra  ragione  Vf  fosse ^ è  )».jQ^^pur  sempre  che,  morto  io,  un  qualche  »  lyÉsJo  peir  càyaore  alcuni  più  soidi  da  una  nuova  edizione  delie  mie  opere,  ci  farà  premettere  una  »  qualunque  mia  vita»  £  quella  verrà  verisimil<*  »  mente  scritta  da  uno  che  non  mi  aveva  o  niente  »  0  mal  conosciuto,  che  avrà  radunato  le  materie  »  di  essa  da  fonti  o  dubbi  o  parziali;  onde  co*  »  desta  vita  per  certo  verrà  ad  essere,  se  non  »  altro,  alquanto  meno  verace  di  quella  che  possa  dare  io  «team;  E  ciò  tanto  più,  perchè  lo  scrit«  »  t<(^  a  soldo  dell'editore  suol  sempre  fare  uno  »|,smto  panegirico  dell'autore  che  si  ristampa^  sti^  »  mando  amendue  di  dare  così  pià  ampio  snriercio  »  alla  loro  comune  m^canzia.; L'illustre  Alfieri  adunque,  a  ragione  persuaso  che  il  suo  iiome  sarebbe  grande  ^ucbè  restasse  scintilla  di  ;gusto  sul  nostro  globo  ^  scrisse  la  sua  vita,  acciò  Aa  stolta  e  mercantile  adulazione  non  venisse  presantata  ai  postai  sotto  falso  aspato.  '   Questa  difesa  è  modesta  nel  tempo  stesso  e  sa«  gace.  L' auto  re  avrebbe  dovuto  aggiungere  «  che  anche  lo  spirit  o  psfrtitp  s'accinge  spesso  a  scri-  vere delle  vite  o  de'romanzi,  e  di  censure  è  largo  o  di  lodi  ugualmente  contrarie  al  vero  (1).   ^  Ossian,  diòe  Cesarotti,  non  ha  difBcoItà  di  far  Assentire  la  goista  estimazione  ch'ei  possedeva  V  presso  la  sua  nazione.  L'uomo  grande  è  sincero;  »  parla  di  se  stesso  come  degli  altri,  ed  è  giusto  3»  Ugualmente  con  tutti.  La  decenza  moderna  è    (I)  È  compftrsaìn  Franeia  ima  cosi  delU  SiUtoteca  de-   gli  uomini  viventi  ecc.  GU  ignoti  autori  di  questa  misera-  bile rapsodìa  mettono  i  vivi  nel  sepolcro ,  contaoo  i  morti  tra  i  vivi ,  di  più  individui  ne  fanno  un  solo ,  squartano  un  Individuo  10  tre,  C8nd>iano  U  medica  in  «rrocato^  lo  stam-  patore in  consigliere,  ll^canieiioe  in  arlecchino:  raccontano  fatti  che  l' opinione  locale  smentisce ,  citano  libri  di  cui  non  conoscono  il  frontispizio  ,  alterano  le  date  per  creare  odio-  sità od  affezione ,  censurano  quelli  che  non  li  pagano ,  ven-  dono le  lodi  a  tre  centesimi  per  jMigina,  gindicano  ^  af-*  lui  coir  acume  della  stupidezza,  parlano  degH  uomini  come  ne  parlerebbe  un  Ourangoulangh,  ecc.  ecc.  :  speculazione  libraria che  né  dà,  ne  toglie  riputazione,  perchè  nissuno  gua-  rentisce nè  i  fatti,  né  i  giudizii,  ma  che  può  far  ridere  sin-  ceramente le  persóne  di  éenno,  giacché  le  persone  di  senno  hanno  diritto  di  ridere,  quando  veggono  lin'  impòsta  «icfAi  credulità^  sidV invidia  e  tuUo  $pitii0  di  fmrUio  ^  affezioni  tanto  più  pronte  a  pagare  quanto  più. goffe  son  le  menzogne  die  lor  $i  vendono»   molto  schizzinosa  su  questo  punto:  gli  uomini,  »  non  osando  lodarsi  in  pubblico,  si  adulano  più  »  liberamente  in  segreto,  e  sì  credono  in  diritto^  »  di  risarcirsi  della  loro  Onta  modestia  col  detrarre'  »  alla  fama  degli  altri.  Così  non  abbiamo  guada-*  »  gnato  che  virtù  apparenti  e  vizi  reali.  »   Eccettuati  i  casi  di  difesa  accennati  di  sopra,'  a  me  pare  che  il  giudizio  di  Cesarotti  dia  in  falso;  giacché  chi  vanta  i  proprii  meriti,  in  vece  di  far^  parlare  gli  altri  a  suo  favore,  li  fa  tacere;  In  vece  di  farsi  degli  ammiratori,  si  fa  de'nemici  ;  quindi  il  dignitoso  silenzio  della  modestia  sarà  sempre  preferibile:       •  •  -   .  ;  .ft  II  merito  più  grande  è  il  più  modesto.  »  )   Se  facesse  d'uopo  confermare  questa  idea  popolare  con  autorità ,  sceglierei  tra  gli  antichi  Catone ,  il  quale ,  a  detta  di  Sallustio ,  faceva  grandi  cose  senza  menarne  rumore,  e  avrebbe  potuto  dire  :   a  Cedo  a  tutti  in  parole,  a  nullo  in  fatti.  »   Tra  i  moderni  v'  additerei  il  poeta  Despréaux ,  il  quale,  eccitato  da  un  incisore  a  far  qualche  verso  pel  suo  ritratto  :  Io  non  sono  sì  malaccorto  ,  ri-  spose ,  da  dir  bene  di  me ,  nè  sì  stolto  da  dirne  male.   §  6.  Rispetto  ai  pregiudizi.   I  giovani  non  conoscendo  ancora  per  esperienza  quante  passioni  vegliano  alla  conservazione  degli  errori ,  ignorando  che  tra  gli  errori  v'  è  una  for-  tissima lega,  e  tale  che  scotendone  uno,  gli  altri  si  risentono  e  CQjrrono  in  difesa:  i  giovani,  dissi,    Digitized  by  GoogL    si  danno  a  credere  che  ogni  verità  potssa  essere ,  sRa- presenza  di  chiunque  proclamata ,  e  fanno  le  maraviglie  se  più  ostacoli  le  si  oppongono.  Come  inafi  ha  (iNDlnto  il  sensate  Bandi  riguardare  il  ri*  spetto  ai  pregiudizi  come  un  legame  inventato  dai  eapriccio  e  dalla  moda?  Se  qualcuno,  entrato  in  una  moschea  zeppa  di  adoratori  di  Maometto,  grl->  classe  ad  altissinia  voce  che  Maometto  era  un  im*  postorcr  credete  voi.  che  farebbe  HK>lti  proseliti,  e  che  non  verreUe  in  pezzi  dagli  astanti?  Ma  senza  anco  voler  calcolare  i  danni  cui  si  espone  ehi  spaccia  una  verità  imprudente,  fa  d'uopo  con-f  venire  che,  offendendo  i  pregiudizi  contrarii,  non  le  rende  più  agevole  la  strada^  ma  più  scabrosa.  Ella  è  infatti  cosa  difficilissima  il  convincere  un'  uomo  dopo  che  abbiamo  offeso  ilsuo  an^or  proprio,  '  Se  il -sole,  dice  d'Alembert,  ^lene  ad  illuminare  in  un  istante  gli  abitanti  d'una  caverna  oscura,  e  dardeggia  impetuosamente  i  suoi  raggi  &m  loro  occhi  non  anco  disposti  e  preparati ,  e  quindi  gli  irrita  soverchiamente  ,  renderà  loro  per  sempre  odioso  lo  splendore  dei  giorno ,  di  cui  non  cono-  scono ancora  i  vantaggi,  mentre  sentono  il  dolore  che  loro  cagiona.  Se  ai  contrario  introducesi  in  questa  inverna  un  debole  raggio  che  per  insensi-  bili gradi  vada  crescendo,  si  riuscirà  a  dimostrare  il  pregio  della  luce ,  e  gli  abitanti  stessi  ne  bra*  nieranno  l'aumento.  Per  la  medesima  ragione  con-  viene rattemprare  la  luce  dei  vero  ,  ed  aspettare  che  rintelletto  a  poco  a  poco  si  sciolga  dalle  false  idee  che  l'ingombrano ,  divenga  gradatamente  più  forte.  I  s' abitui  e  s' addomestichi  cpl  nuovo  ospite  f^he  non  conosceva  per  anco.  >^   Pretendere  che  tutti  gli  intelletti  ammettano  tosto  le  stesse  verità,  è  pretendere  che  tutti  gli  stomachi  digeriscano  egualmente  le  stesse  vivande.   La  pulitezza  vi  fa  dunque  un  dovere  di  cono-  scere il  carattere  personale  e  la  situazione  sociale  delle  persone  che  al  solito  crocchio  concorrono ,  acciò  le  vostre  idee  ed  affezioni  non  vadano  a  dar  di  cozzo  contro  quelle  degli  astanti ,  e  con  reci-  proco risentimento  rimbalzino.   §  6.  F'élo  alle  antipatie.  Lo  sprezzo  che  merita  la  vile  adulazione  ha  in-  ,  dotto  a  fare  distinto  elogio  della  franchezza ,  e  come  virtù  assoluta  raccomandarla.  , .   La  massima  di  velare  le  proprie  antipatie ,  come  quella  di  rispettare  i  pregiudizi,  è  stata  riguardata  qual  legame  inventato  dal  capriccio  e  dalla  moda  da  più  scrittori.  Si  dice  che  dassì  prova  d'integrità  allorché  la  lingua  ed  il  cuore  essendo  d'accordo,  le  parole  rappresentano  i  sentimenti.   Ciascuno  per  altro  s'  accorge  ,  o  sente  almeno  confusamente,  che  se  merita  sprezzo  un  cortigiano  che  ci  protesta  stima,  affezione,  amicizia ,  mentre  nell'interno  dell'  animo  egli  si  ride  di  noi ,  merita  disprezzo  maggiore  un  cinico,  che  senza  necessità  viene  a  dirci:  Io  v'abbomino  e  vi  detesto.  .  Dunque  tra  la  menzognera  adulazione  e  la  fran-  i  chezza  eccessiva  vi  debb'essere  un  mezzo.   La  necessità  di  questo  mezzo  è  dimostrata  da  tre  ragioni.   f  i.  L'amor  proprio  di  ciascuno  ,  costantemente  avido  di  farsi  degli  amici  e  degli  ammiratori,  age-  volmente  lusingasi  di  ritrovarne  dappertutto ,  e  sente  in  lui  sorgere  e  crescere  il  dispiacere  in  ra-  gione delle  persone  da  cui  si  vede  sprezzato.  ^2.  Il  dispiacere  risultante  dallo  sprezzo  è  copiosa  fonte  d'antipatie,  animosità,  odii ,  e  perciò  di  gra-  vissimi danni  sociali.-Noi  c'inganniamo  sovente  nell'opinione  che  concepiamo  degli  altri ,  e  più  volte  siamo  costretti  a  ritrattarla  V  senza  riuscir  sempre  a  giudicare  più  sanamente. Laonde  quando  alcuno,  giusta  l'interno  suo  sen-  timento, dice  ad  un  altro,  Vi  sprezzo,  è  sempre  certo  che  gli  cagiona  un  dolore  ,  non  è  sempre^  certo  se  colpisce  nel  vero,  -^y,   *  Ora,  escluso  il  caso  di  necessità,  fa  d'uopo  essere  0  crudele  ò  pazzo  per  cagionare  ad  altri  un  dolore'  che  ppò  essere  ingiusto,  e  farci  un  nemico  che  può  riuscirci  funesto.  •  ^>^^i^V'-Alcuni  dicono:  Da  un  lato  v' è  sèmpre  piacére  neir  esprimere i sentimenti  quali  nascono  nel  no-  stro animo,  mentre  si  prova  pena  nel  reprimerli  ;  dall'altro  noi  non  abbiamo  bisogno  di  nessuno*f^i   .  Di  questo  raziocinio  la  prima  parte  è  sempre  vera,  ma  la  seconda  è  sempre  falsa,  finché  re^*  stiamo  nella  società.  Voi  non  avete  bisogno  di  Pietro,  e  forse  senza  danno  presente  o  futuro  po-  tete dirgli  :  Ti  disprezzo  ;  ma  la  faccenda  non  va  così  con  tutti  gli  altri  uomini.  £ntrate  in  una  conversazione  con  quella  franchezza  encomiata  da  alcuni  scrittori,  e  presentandovi  successivamente  a  ciascuno  ,  dite  a  questo  :  Voi  pretendete  di  piacere  a  tutti,  e  tutti  si  ridono  di  voi  ;  —  a  quello  :  Voi  siete  sì  sciocco che m'eccitate compassione;  —  a  un  terzo  :  Non  saprei  dirvi  il  motivo ,  ma  sento    ars  avversiófte  Contro  di  voi,  ecc.  Se  voi  così  operate^  'mi  par  certo  che  tutti  s'alzeranno  per  cacciarvi'   .  /  fuori  della  conversazione  a  ceffate  ;  e  vi  succederà  lo  stesso  in  tutte  le  altré.  ^^'o^mii  '  •  ^  •   '  La  franchezza  non  consfete  nell'  offendere  inu^  tilmente  l'altrui  amor  proprio  ,  ma  nel  difendere  con  coraggio  i  dirìtti  deWinnanità  contro  r  or-  ■^goglio  che  li  calpesta^  e  nel  convenire  de'prqpri  difetti  ed  emendarsene.  '  •/ ^  ,»iliisidu6m;2  In  vece  dunque  di  dire  al  giovine  :  Alza  il  vélo  che  copre  il  tuo  animo  e  mostra  a  tutti  Podio/  lo  sprezzo,  la  noia,  il  dispiacére  che  in  te  produ-  cono le  loro  debolezze  e  i  loro  difetti  ;  gli  dirò  piuttosto  :;  Jpl^;  Uflf' lato  sii  pronto  a  compatire  le  loro  debolezze,  dall'altro  non  crederti  infallibile  j  ne'juoi  giudizi.  L'uomo  franco  può  conservare.  il  j  suo  sentimento  senza  offendere  l'altrui  amor  prò  =5  prio  ;  non  si  deve  offendere  l'altrui  amor  proprio  se  non  in  vista  d'un  vantaggio  maggiore,  come  nònr  si  taglia  una  gamba  se  non  per  salvare  la  vita.  Mi spiegherò meglio  con  un  esempio:  ^ Uno  de'confratelli  di  Guettard  lo  ringraziava  un  giorno  perchè  questi  gli  aveva  dato  il  suo  voto  4  allorché  quegli  fu  accettato  membro  dell'accadenriia  delle  scienze,  roi  non  mi  dovete  nulla,  rispose  il   '  Botanico  :  s'io  non  avessi  creduto  che  era  giusto  it  darvelo  ^  non  r  avreste  avuto  ^  giacché  io  non  v'  amo.  ».   Questa  risposta  ,  benché  lodata  da  Condorcet  mi  sembra  riprensibile  ,  perchè  gratuitamente  of^  fensiva.  Per  quale  motivo  cagionare  un  disgusto  e  dire,  non  v'amo^  a  chi  viene  a  protestarvi  un  sentimento  di  riconoscenza.^  Se  Guettard. avesse    ,SW'   *   d(^V  Nèl^ire  tt  'mi§^i^  te  eoasultù  te  giù-  sUzìa  e  niente  altro;  non  ringraziate  ddnqiié  me^.  ina  voi  stessè,  giicebè  se  nra  avessi  creduto  cto  lo  meritaste^  ndw  ?ir«fcMè  »v«to  ;<catìh  riq^^mileaddi^  Gtiettard  sarebbe  stato^^  franco  senza  essere  offea-  siw  é  «liand.      *  ;    -  -        ^  ^  ;  ^     :  ;   •  *       •  -  ■  '   L'abAté  S.  ae«l  (Aragofift*  la  indotta  4egH4t9^   mini  nel  mondo  a  quella  de' ciechi  in  uiìà  casa*  vàs|sì  è  ^nregoiare  :  rj^^iH^^  I  più  sensati  a  tentone. Quelita  irregolarità  di  condotta  non  succede  per   Tapplicarle.  Non  uscendo  dai  limiti  deirargomento  che jdiscitto^  dirò  aduncfue,  che  in  mezzo  a  tanti  earattefi  diversi,  tr«*te-vtóc  pMftéser^Ue  ^pasaitini^*  neK'aod^giQjnento  costante  de' gusti  e  de*  pareri ,  tiatf 'si  eMre  'pericoiè  di  sbaglio,  «dlforicbè  attenlèii-  dòsi  allo  scopo  della  conversazione^  che  è  il  rfi*  ^rtimento,  si  ha  riguarda  alla  vanità  di tia^  scuìw,  che talvolta  è-il  prineifmte\08tàiiUù^  fatti, se; nelle  botteglie  predomina  l'interesse,  nelle  cooversaÈtoni  prevale  la  vanità,  e  I  bkdgtii -deila  vanità  sono  anteriori  al  bisogno  di  trastullarsi.  '  "La  vanità  è  più  o  meno  maneggiaste  secondo  iindole  delle  altre  qualità  eiA  f&  trova  uffitt  ;  Mvl^  viene  dunque, tener  queste  presenti  al  pensiero  per  rttrovkre  i  bieztl  onde  adescai  qaè)la  {  o  dmetio   iVon  irritarla.  •  -  '  '       •  .  '    .  -  -  ^   1.  Vanità  e  ignoranza.  AUorisliè  la  vanità  è  Hìnalgamatà  coH'ignoranza,  apre  foreccbio  aHé  più  sciocche  menzogne,  e  delle  più  improbabili  illusioni  si  pasce.  L'uomo  vano  ed  ignorante,  per  es.,  gongola  di  piacere  alle  Iodi  che  voi  date  al  suo  eappello,  alla  sua  giubba  ,  al  suo  abito,:  mentre  un  uomo  di  spirito  ne  rimane  offeso.  .^•  2.  f^anità  e  riflessione.  In  questa  combinazione  le  lodi  impudenti,  anche  desiderandole  per  altri  fini, dispiacciono: i Romani  non  sapevano  come  contenersi  con  Tiberio,  il  quale  non  voleva  la  li;  berta  e  odiava  la  schiavitù.  A  Traiano  éfie  aveva  Io  spirito  sodo  ,  non  andavano  a  sangue  le  basse  maniere  e  servili  che  usava  seco  lui  Adriano.  Carlo»  ^.V  disse  ad  un  adulatore:  IVF  accorgo  che  pensate  a  me  ne'  vostri  sogni.   ,  .  ,3.  Fanità  e  viisantropia.  In  questa  combina-   .'zlone  la  vanità  è  sì  schizzinosa  e  bizzarra,  che  una  |  lode,  benché  veridica,  e  ravvolta  in  gentile  scorzi  V  la  offende ,  amando  essa  meglio  ^ssere  contrad-   idetta  che  encomiata.  Infatti  egli  è  un  mezzo  quasi  infaUibile  per  conciliarsi  l'animo  del  misantropo  il somministrargli  occasioni  di  esercitare  la  sua  bile  contro  quanto  succede,  e  procurarsi  così  una  specie   ^di  celebrità,  essendo  ohe  nessuno  maltratta  il  ge-  nere umano  se  non  per  occupare  di  se  stesso  il  genere  umano.   4.  Fanità  e  sesso  debole.  Benché  le  lodi  alla  bellezza  non  siano  vere  lodi ,  ciò  non  ostante  suo-  nano piacevolmente  all'orecchio  delle  donne  co-  muni, ed  anche  degli  uomini.  Osley,  famoso  men-  dicante a  Londra,  fece  fortuna  servendosi  del  se-   ,guente  stratagemma.  Quando  era  permesso  di  men-  dicare in  Inghilterra  ,  egli  si  appostava  ove  era  maggiore  la  concorrenza  delle  persone  di  buon  tuono;  e  allorché  vedeva  delle  donne  eleganti,  cercava  loro  la  limosina.  Se  esse  gliela  ricusavano ,  Madama  ,  diceva  egli  all'  una ,  In  nome  di  questi  begli  occhi  neri  ;  all'altra,  In  nome  di  questa  bella  capellatura  ;  a  quella,  In  nome  di  questo  bel  taglio  incantatore  ;  a  questa ,  In  nome  di  que' labbri  di  rosa;  finalmente  venivano  le  gambe  divine,  i  piedi  leggiadrt,  il  portamento  da  regina:  nulla  era  di-  menticato :  ed  egli  andava  a  casa  colla  borsa  piena.,  inanità  combinata  con  qualunque  sorta  di  carattere.  La  qualità  più  costante  della  vanità  in  qualunque  combinazione  di  cose,  o  sia  considerata  nell'uomo  in  generale,  si  è  il  piacere  crescente  in  ragione  delle  persone  che  parlano  di  lui  senza  svantaggio.  Un  principio  d'involontaria  allegrezza  scorgerete  sul  volto  di  chiunque ,  appena  gli  dite  che  avete  fatta  menzione  di  lui  in  tale  conversa-  zione;  che  Pietro  ne  ha  parlato  in  tal  altra,  ecc.  È  successo  un  piccolo  urto  nell'amor  proprio  di  due  famiglie,  il  cui  rumore  non  è  giunto  alla  fine  della  contrada  ?  Gli  individui  di  esse  vi  diranno  che  ne  ha  parlato  tutta  la  città  ;  e  se  voi  mostrate qualche dubbio ivyi^ si dimanderà se siete caduto  dalle  nubi:  tanto  è  vero  che  là  brama  d' essere  r  oggetto  degli  altrui  pensieri  c'  induce  a  credere  d'esserlo  realmente,  e  la  supposta  esistenza  nell'ai:  trui  opinione  è  centupla  dell'  esistenza  reale  :  in  somma  gli  uomini  in  generale  somigliano  quel  miserabile  principe  dominante  sulle  coste  della  Gui-  nea ,  il  quale  seduto  a'  piedi  d' un  albero  ,  avente  per  trono  una  grossa  pietra  ,  per  guardie  quattro  ISegri  armati  di  picche  dì  legno,  diceva  ad  alcuni  -francesi  :  Si  parla  molto  di  me  in  Francia  ?  —  Atteso  questa  forza  estensiva  della  vanità,  ciascuno,    Digitizei.    ^2  5«rr».?tlBR0  TERZO  'W'    /  '   spesso  di  buona  fede^  rappresenta  la  sua  opinione^  privata  comè  opinione  pubblica,  di  modo  che  nel  ^progresso  del  discorso  vengon  affibbiate  al  pub-  blico cinque  o  sei  opinioni  talvolta  contraddittorie  sullo  stesso  argomento.   Conoscendo  le  principali  combinazioni  della  va-  ;ìiità ,  e  i  prodotti  sentimentali  che  i^'e  risultano  >  saprà  il  giovine  adescarla  con  garbo  senza  com-  promettere la  dignità  dell'uomo  ;  ritroverà  il  limite  che  separa  la  dissimulazione  dalla  simulazione,  e  idalla  vile  falsità  si  terrà  lungi  ugualmente  che  ridalla  sincerità  gratuitamente  offensiva.  -  Dapprima,  in  vece  di  mostrarsi  stupido  e  silen-  zioso alla  vista  dell'altrui  nierito,,  il  giovine  ne  sar  \  pronto  encomiatore,  esternando  gradi  di  sti?nu  proporzionati  alle  qualità  utili  e  lodevoli,  asso-  ciando alla  stima  gradi  di  rispetto,  se  di  partico-  lari virtù  si  tratti  e  di  grandezza  d'animo;  in  tulli  i  casi  egli  procurerà  che  il  sentimento  rappresen-  tato da' suol  atti  e  dalle  sue  parole  s'avvicini  ìi  quello  che  gli  altri  vogliono  ritrovare  in  lui,  non  dimenticando  che  quando  sì  tratta  di  riguardi;  e  men  male  peccar  per  eccesso  che  per  difetto.   «  Sta  dunque  attento  nel  passar  del  guado,  ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli,   »  Da cui  scampano  pochi, o  almen  di  rado.  »  ft  ben  che  in  questo  mar  la  nave  sciogliCol  rischio  a  destra  ed  a  sinistra,  ancora  :^  »  Salvar  ti  puoi,  se  il  mio  consiglio  accogli.  .  ^  Va  per  la  via  di  mezzo,  e  se  pur  fuora  ^.;»vDel  relto  calle  fantasia  li  mena  ,  .»  AH  pilo,  e  non  al  basso  tien  la  prora.  »  '    PULIIBUA  MAQUIS  .  383   d'avvilirsi^  isostràndosi  indulgente  alle  umane  de-  ^lez29e,  aUoìr«][iè  nmaa  dmm  ne  risulta^*  EUa^Mftì  isdegna  A  tendere  agli  altri  tachè  dì  più  di  quel,c^e  hanno  diritto  d'esìgere,  sapendo  ejie  nel  com* smercia  <  deUa  vita  cU  ai  ostinàsae^  a  coVmmr^  gli  uonuni  nel  loro  vero  posto,  correrebbe  pericob  di  ppjRsi  ia  coi^esa  eoja  tutti.  >Le  aote  anima  ficoole^  jpqttìtfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando  come  furto  fatto  a  se  stesse  lutto  ciò  (^p  c(NM«doiif^  figli  aitai  >  Ungotìé  goolàùiaf^^  là  tfiiancia  in  mano  per  pesare  a  rigore  ciò  che  4«!^oiiq|  fat^f^iiidaie  o  musare  :  é  sg^s^  sotto  pr^  testo  di  non  degradarai,  si  im»lmiio*iiliiv^tlaeif|i  .(^io^Q  usfmli  eà  inferiori  (1).     ^  ^  ;   (I)  I  Lacedemoni,  che- neri  peccavano  per  eccesso  di  bas-  sezza,  hanno  lasciato  un  beli'  esempio  dell'  indulgenza  che  si  debba  alla  follìa  de'  grandi.  41e^s^"^^o  ^^^^  piccolis-  ^iiaio,  qMlido  péélèadava  drenare  figUo  4i  Giove,  e  JHo  egli  stessè,  ^ireeheper  Melo  rieooosotaeiDo  tutti  gU  8ta(l.éella  Grecia  :  in  occasione  dì  queste  pretensioni  i  Lacedemoni  fe-  cero il  «eguente  decreto,  veramente  laconico  ~  Poiché  Ales-  saneÉto  vuol  essere  Dio^  che  lo  sia.  '  .  Attai  meao  ladolgeiito  si  moslflò  FilosseiMr  een  Dioiiigi  fttotteo.  Questo  ttasniio,  peidiè  era  vètf  laceva  de*very,  pre*  tendeva  al  vanto  di  pòela.  Ef^li  prff^ò  un  giorno  Filoss^ne  a  correggere  una  sua  opera  teatrale;  e  questi,  avendola  rap-  pezzata e  rifatta  4al  primo  verso  air^Himp,  il  re  lo  con-  dannò  alla  lettere, ^acciò- fi  Imipamse  a  rispeltase  ia  regia  pc^la.  li  giómò  sussegnèiYte^  tra(toìòdi  cacGasKe,^K>'amiiiis8  alla  sua  mensa,  e  liniio  il  pranzo,  dopo  avergli  fettOfaleciDl  versi  ,  gli  domandò  il  suo  parere.  Il  ponila ,  senza  rispon-    384  iV?^  Raccomanderò  finalmente  ai  giovani  di  non  imi-  tare la  vile  e  perfida  condotta  di  coloro  che  lo-  dano  alcuni  collo  scopo  di  denigrarè  altri.  Ih  ciascuna  carriera  alcuni  personaggi  distinti  occu-  pano gli  sguardi  del  pubblico  :  cbe  cosa  fa  V  in-  vidia per  defraudarli  ?  Suscita  loro  de'rivali,  colma  di  lode  degli  imbecilli  che  appena  hanno  il  senso  comune,  e  si  sforza  di  ripeterne  i  nomi,  acciocché  il  pubblico  s'induca  ad  occuparsi  di  essi  e  dimen-   ,/tichi  i  primii   -^^Nel  corso  della  giornata  si  riproducono  ad  ogni  vistante  de'  casi ,  ne'  quali  alla  sola  azioiie  d'inno-  cente  lode  si  può  ricorrere  per  conseguire  l'assenso  di  alcune  volontà  ,  e  diminuire  la  resistenza  di  altre  ;  perciò  ad  esercizio  de'  giovani  soggiungo  i  seguenti  problemi,  ciascuno  de'quali  ammette,  col    dere,  si  rivolse  alle  guardie  e  disse  loro:  Riconducetemi  in  ctarcere.  •  ^'  ^f**^ -^u  ^.  •>  i   Un  uomo  ^11  «pirilo  nel  case  di  Fllossene  sarebbe  uscito  d*  impaccio  con  una  celia.  Infatti  la  condotta  di  questo  poeta  sarebbe  ammirabile,  se  si  fosse  trattalo  d'una  cattiva  legge  od  alli-a  operazione  daivàosa  al  pubblico  ;  ma  scegliete  jl  carcere  pcrclié  un  Uranno  vuol  essere  poeta,  é  paizrja.   '  Maggiore  imprudenza  commise  rarchitelto  Apollodoro ,  il  quale,  sapendo  quanti>  l' imperatore  Adriano  era  avido  dì  lodi,  criticò  un  di  lui  tempio  in  modo-  un  po' burlesco ,  os-  servando cbe  se  gli  Dei  e  le  Dee  si  fossero  alzale  in  piedi ,  si  sarebbero  rotta  la  testa  nel  soffitto.  Questo  scherzo  gli  costò  lii  .vita.  11  quale  fatto  Ù  dice  che  i  coltivatori  dozzi-  nali delle  belle  arti  hanno  una  vanità  atraordinaria,  supe-  riore a  qualunque  sentimento^  e  capace  di  sacrificoì'c  la  slessa  amicizia, mezzo  della  lode  ,  soluzioni  indefinite  nelle  varie  circostanze  sociali.  '  -  ^   1.  Disarmare  la  collera.    .  ...   .^.(  Aureliano  faceva  rimprovero  a  Zenobia  ,  per-  chè non  aveva  riconosciuto  gli  imperatori  romani  ;  la  principessa  lo  calmò,  dicendogli  :  Io  riconosco  voi  per  imperatore ,  voi  che  sapete  vìncere  :  Ga-  lieno  e  i  suoi  pari  non  mi  sembravano  degni  di  questo  nome.)  (1)  .  ,   2.  Addolcire  l'amarezza  d'uri  rifiuto.  '^  ^   (  11  gran  Condè,  pregato  dalle  dame  di  lasciarle  uscire  da  Vezel  ch'egli  assediava ,  prevedendo  che  Ja  loro  uscita  ritarderebbe  la  resa  della  piazza,  ri-  spose che  non  poteva  acconsentire  ad  una  dimanda  che  del  più  bel  frutto  del  suo  trionfo  lo  prive*,  rebbe.  )        .     •  ,  * Accrescere  pregio  ad  un  favore.'   (  Luigi  XIV  nominando  al  vescovato  di  Lavaur  Flechier,  che  predicava  alla  corte,  gli  disse:  Vi  ho  fatto  aspettare  alcun  poco  un  posto  che  meritavate  da  lungo  tempo,  ma  non  voleva  privarmi  così  presto  del  piacere  d'ascoltarvi.  )  "  '   4.  elare  il  lato  offensivo  d'una  verità.   (  Despréaux  interrogato  da  Luigi  XIV  sopra  alcuni  versi  da  lui  composti:  Sire,  rispose,  nulla  è  impossibile  a  Vostra  Maestà  :  ella  ha  voluto  fare  de' cattivi  versi,  e  vi  è  riuscita.  )     .  ^  ,  /    (I)  Un  soldato  francese  si  faceva  chiamare  col  nome  d|  Turenne,  celebre  maresciallo  di  Francia:  quesU  mostrò  d'es-  serne ofifèso:  il  soldato  rispose:  Generale,  io  sono  invaso  dalla  gloria  de*nomi:  se  ne  avessi  conosciuto  uno  più  bello  del  vostro,  l' avrei  preso.  .  /  .   22    1    386  ZiIBBa  ISBZO   *   •  .   §  8.  Continuazione  dello  stesso  argomento.   '  L'uso  della  lode  è  ragionevole  finché,  fondato   *  sul  vero  o  verisimile  ,  è  stimolo  o  ricompensa  ai  talenti,  all'industria,  alla  virtù.   i  L'uso  della  lode  è  riprensibile  quando  o  fondasi   sul  falso  ,  0  di  gran  lunga  oltrepassa  la  misura  del  merito  encomiato,  e  allora  dicesì  adulazioìiél   *  Vi  sono  de'Iodatorì  eterni,  i  quali  non  vi  danno  una  lode  fuggiasca  e  dilicata  ,  ma  vi  inondano  e   opprimono  d'elogi;  e  ciò  per  ogni  inezia,  ad  ogni  istante,  alla  presenza  di  qualunque  persona  ;   •  cosicché  se  non  rispingete  le  loro  lodi  smodate, acquistate taccia di vanità ;  e  se  le  rispingete,  essi   '.  le  replicano  con  usura  ,  e  per  così  dire  non  vi  in-  censano, ma  vi  danno  il  turibolo  nel  naso.  ^   *  Tre  caratteri  distinguono  l'adulazione  dalla  lode  '      '    ragionevole  0  meritata:   !  I.  L'adulazione  cambia  i  vostri  vizi  in  virtù;  ^   m||||(  2.  Ella  vanta  in  voi  delle  qualità  che  non  avete  ;  3.  Ella  innalza  eccessivamente  quelle  che  avete  ;   «  ....  Nel  mentire  esperto,   *  »  Maestro  in  adulare ,  egli  senz'  onta   V  Chiama  faconda  indotta  lingua  ,  e  bella  I  *  "  »  Schifosa  faccia  ;  un  sottil  collo  e  lungo  I  ))  Agguaglia  a  quello  d'Ercole,  che  innalza   I  .    »  Di  terra  Anteo;  magnifica. una  voce   )  •  »  Stridula  e  chioccia  qual  d'irato  gallo   »  Che  alla  mogliera  sua  morde  la  cresta.    •  »   L'adulatore  adunque  -   I   I   Digitized  by  Google    È  un  ipocrita  che  finge  &entimeoti  c^^ptmru  a   qutìlìi  ohe  cg^  ffi^U' animo  ;  ^  Z  m  vile   -  «  Buffon  ,  perpetao  l^ioMM'  di  eaptf  «,   *  »  *   die  trama  ai  cenni  del  rìccOf  e  Ib.ecQ  ai  detti  deUd   persgy|;iefiu  viziose  i   %  wó  soroccatore  cl)e.)dà  .menzogne  per  fitleoi^rj;  vantaggi  personali  (1)  ;   É  un  ladro  che  toglie  alla  virtù  r.eiicomio  ehe  profonde  al  vizio;   £  un  infame  che  »  io^i^^^^i^te  ali'  onore  »  non  teme  il  pubblico  disprezzo;   L  infamia  delPadulazione  cresce  in  ragione  della  pubblieU^  ddta  aUe  lodi  menzognere.   Pera  colai  che  sa  malnati  fogli  «  Famelfto  eerifter  vende  sue  lodi,  »  E  d'aura  popolar  Talme  rigonfia.  »  Sid  labbro  a  lai  le  venenate  tazze  »  Vota  menzogna  ,  e  Favvilito  incenso  »  Onde  frodonne  di  virtù  gli  altari ,  »  La  lusinga  vénal  pria^nde  a  Itti  ;  »  Che  col  prestigio  d'un  error  che  piace  19  Cangia  il  ?izio  in  virtù,  traiforma  in  mmie  »  T»  Ignoranza ,  follia  ,  viltade,  e  mira  »  Sorger  Tersità  emulator  d'Achille  ^  »  E  nn  Sfida  infame  in  an  Traian  rivolto.  »    (i)  Allorché  Filippo  di  Macedonia  divenne  guercio,  il  cor-  tigiano Clisofo  usciva  di  casa  con  un  empiastro  sulF  occbjo,  e  si  traeva  dietro  una  gamba  allorché  il  re  zoppicava  per  una  lecita. Sono  arcìpochissimì  quelli  che  facciano  sforzi  per  acquistare  le  qualità  che  loro  mancano  allorché  vengono  accertati  che  le  posseggono  ;  e  meno  sen-  tono stimolila  salire  ad  alto  grado  di  gloria  se  quelli  che  li  circondano  dicono  loro  ad  ogni  istante  che  sono  giunti  alla  cima.  Si  può  asserir  anco  che  più  personaggi  potenti  non  divennero  tiranni  se  non  perchè  fu  fatto  lor  credere  che  tutto  era  loro  dovuto ,  e  che  il  loro  rango  scusava  qualunque  colpa  potessero  commettere.        ,  y^-   Da  un  lato  essendo  utile  l'uso  moderato  e  ragio-  nevole della  lode ,  dall'  altro  non  essendo  difficile  d'essere  tacciati  d'adulazione  ,  perciò  ricordecò  la  regola  dì  Montaigne,  il  quale ,  nel  lodare  le  virtù  e  i  pregi  reali  de'  suoi  amici ,  compiacevasi  bensì  d'esagerare  alcun  poco,  ma  limitavasi  a  cambiare  un  piede  in  un  piede  e  mezzo  :  secondo  Montaigne  adunque  il  rapporto  tra  il  merito  e  la  lode  che  possiamo  tributargli,  non  deve  oltrepassare  il  rap-  porto di  uno  ad  uno  e  mezzo.   Quindi  pria  di  profondere  lodi  dobbiamo  esami-  nare le  qualità  delle  ji^rsone  ;  e  se  ci  accade  d'es-  serci per  bontà  o  generosità  d'animo  ingannati,  non  essere  restii  a  ritrattarci.   —  ^   Squadra  ben  ben  Tuom  che  commendi,  ond'onta  »  De'  falli  altrui  non  ti  rifletta  in  viso,  w  Diam  talor  nella  ragna  ,*  e  ottien  l'indegno  M  Da  noi  favor;  dunque  la  man  delusa  «  Sottrai  da  chi  va  di  sua  colpa  onusto.  »    ;  GOO    Delicatezza animo. Si'  dic0  delicato  oa  fiim  aUovcbè  al  ooniatto  '   d'aurà  un  po'  pungente  s'attrista,  e  al  raggio  me-  ridiano piega  ti  capo  suUo  stelo.   Pèr  drantMre  quanto  è  dUiaiad  r  onora  dette  donne,  lo  parago;iiaDao  a  terso  cristallo,    i,  '  *  «   :A  debìl  canna  y  »  Ch'ogn'aur9  mchina,  ogni  respiro  appanna   Si  ,ah)ai;pa  animo  dilicató  quello  che  alle  tnioime  seai^kKÌon|,m&raUj^iK^  od  a  vanjia^o  aly   4rui  si  risente.   \\.  pi^Q  4^,  essere  bontà  d'animo  senza  de.  Rcatezzas  ^  uoma  ìytiòno  vi  &rà  tosto  il  piae^  ^ebcgli  domandate  :  un  uomo  dilicato  farà  dì  più;'  egli  Vif  risparmierà  la  peqa  41  domandare,,  e  éa^rà  tenere  segreto  il  beneficio.   Vi  può  essere  giustim  Sj^nza^  delicatezza  :  un  uomo  giusto  difenderà  con  calore  i  vostri  diritti  nel consiglio: un uomo dilicato difenderà anco le vostre convenien^, e s' affiretterà  a  .spedirvi  la  Booi^  del  felice  enccesso.   La  delicatez^  d'animo  è  un  misto  di  speciali  qni^ità  e'si  manifesta  coi  caratteri  di  esse,  ^esie   .qualità  sono  le  seguenti. Finissima  sensibilità.  1  generali  Ateniesi  a  '  Maratona,  ecc^itati  dall'esempio  d*ArÌ9tide  ,  cedet-  tero intero  a  Milziade  quel  comando  che  gionial-  mmte^ed  a  vicenda  toccava  a  dascuno*  Milziade,  acciò  la  vittoria  che  lusingavasi  di  conseguire  non  fosse  cagione  di  rincrescimento  a  qualcuno  de'ge-  9erali,  spinse  la  delicatezza  al  segno  da  non  dare   la  faiOtagli^  che  giorno  ia  cui  gli  dpparlBomirjeoinandd.  «iW^^^^h-T^   %  Cemdido  disinteresse.  Nelle  cose  di.seasibite  vitloree  boa  hm^wYv^laà^fe^^^^  kk^eosa  offerta  e  Ja  cosa  (zccettata.  serve  à  misurare  la'  delicatez;uhi  [wgìio  àir^  che  è  t^Qto  <  aiaggMtr^  Jid  dftlieatez»  quanto  è  mifiore  raccettazione  a  fronW  deirofi^rta^  Neirampiezza  del  terreno  che  i  Mitl-  l^nesi  offerserb  a  Pfttaco«  loro  cooeittadiao»  la  ri^'  compensa''  averiò  per  la  repubblica  acquistato,  non  accetto  egli  fuorché  io  spazio  che  perocMrsa  un  dardo  per  esso  lanciato.  E  tra  ta  iikunifiteàza  de*  doni  che  il  console  Postumio  mise  avanti  a  Marzio  per  ncojfj^seiaieiUo  del  sjao  vatoré,  idtro  non  volle  il  generoso  romano  ch0  un  prigionièro  col  quale  ebbe  comune  l'albergo,  ed  un  eavallo  da  guerra  di  cui  potesse  natile -biittaglie  ^sl^irvirsi. ÀU'opposto  non  si  vedé  ombra  di  ^éélloiieas  net  ée^   guente  fatto.  Il  sopranlcnclente  delle  finanze  francesi  BuUion  ,  nel  ^640  fece  battere  a  Parigi  i  primi  luigi  che  comparvero  in  JPrancia;  e  avendo  invitato  a  pranzo  cinque  nobilissinù  •signori/  fecfe  postare  A  deueré  .^6  badll'  pieni  di  i|uesle  wm,  specie,  e  diése  loro  di  pMnd^è  quanto  ne  VolévatfO;  Clàacun  signore  si  gettò  avidamente  sopra  questo  nuovo  fruito,  ne  riempì  le  sue  tasche  e  fuggì  colla  sua  preda,  senza  aspettar  la  sua  carrozza,  di  modo  che  11  soprantendente  rideva  di  cuore  dell'imbarazzo  che  ciascun  signore  mostràva  eànoninando.  Io  vece  di  delioateàa  qoà  vedAwM^  vmssimo' interesse^  e  liiffà  y.  IndiacSMzione,  giacché  ciaseano,  di  cosa  non  bisognevole,  accetta  quanto  gli  viene  ofiferto  e  se  ne  carica  in  ragione  della  capacità  delle  sue  tasche.  V   Ne' casi  comuni  V indiscrezione  cr^^e  a  misura  che  è  ptà  '^keoìù  U  vafitaggiù  chei'eonkBgue  accettante  y^ejiiù grande  it  danno  che  re$ta  alt  offerente. Vo6ite  fierezza.  Il  tratto  più  hello  che  som-  ministri la  3to];i^-)re]^tijKaiiiaate  airargpmeittP^  si  è  il  wgaeaté,  se  la  memprìa  noii  m*in*  gauna.  Roberto,  duca  di  Normandia,  padre  di  Gu^  gUelmo  ll^^tmgttistatore  ^  trovaadasi  a  Xgfitif|tìDQr  poli  diretto  per  Terra  Santa  ,  erft  eéldbre  p#  tt  fiv^cità  del  suo  spirito  ^  per  la  sua  a£fai^iUtà  t,  fi*  WaMlÀ  sd  altre 'vir^^^^^  L^jQipera|M)ré  ^  ^ogHo  farne  prova^  Io  invito  co'  suoi  nobili  a  pranzo  nella  «graiijsàla  del.palazz^  iniperial^i  quindi^or^inò  che  tutte  lè^  tavd^v  é  tutti  gli  seaniii  £MSerd':bQé^patt  dagli  altri  commensali  pria  deU'ajr^iì^Q  de*  quali  prescrisse*  clie  nissunà  A  prendlésse  >  stero.  Giunto  >  il  duca  co'suoi  nobili,  tutti  riccar  m^te  vestiti,;  avendo  os^rvato  che  gli  scandi  erano  oecopati,  «  die  nissano  rispondeva  alle  sue  gen*  .  tilezze,  si  diresse,  senza  mostrare  la  minima  sor-  p^^.  joè  II  4iiniQiO  turbamento.,  veysp  jl'una  delle  estremità  della  sala  che  rimaneva  vuota,  si  levò  il  mantello,  lo  piegò  con  bel  garbo,  lo  pose  sul  pa-  ▼imento  e  vi  si  assise  sopra,  nel  che  fa  imitato  dal  suo  seguito.  Pranzò  in  questa  posizione  colle  vivande  cl^e  gli  vennero  polite,  dando  segno  d^lla .  più  fèrfetta  soddis&zione.  Finito  ìi  pranzo,  il  iw»  e  i  suoljaobìli  s' alzarono  ,  presero  congedo  dalla  ^mpagàrai  nel moda più  grasìoso ed uaeiroao  dalia  sala  colle  loro  giubbe ,  lasciando  sul  pavi-  mento i  mantelli  che  erano  di  gran  valore.  L'im-  peratore che  ^y^Va  ammirato  b  tòro  condòtta,  fa  sorpreso  da  quest^^ul)imo  tratto,  e  spedì  .upo  de'  suoi  còrtigìani.jal  sappUcare  U  dqcft  iiA  il  sao.  se^  guito  a  riprendere  i  loro  mantelli.  Andate  ,  a  dire  al  vostro  padrone,  rispose  il  duca,  che  i  ]!>{ormannì    non  usano  portar  via  gli  scanni  di  cui  si  servirono  a  pranzo.  —  "Questo  rifiuto  era  delicato,  nobile,  convenevole  e  fiero  nel  tempo  stesso.^  r*-  vi—*--^^  "'4.  Gentili  sorprese.  Il  czar  Pietro,  che  viag-  giava in  Europa  per  istruirsi  nelle  manifatture  eu-  .    ropee ,  si  fermò  alcuni  giorni  a  Parigi ,  e  tra  gli  altri  stabilimenti  visitò  quello  della  zecca.  Si  co-  niarono molte  monete  alla  sua  presenza  :  una  di  queste  essendo  caduta  a'suoi  piedi,  egli  la  raccolse  e  vi  vide  da  un  lato  II  suo  ritratto  in  busto,  dal-  raltro  una  faRia  appoggiata  col  piede  sul  globo,  e  questa  leggenda  :  Fires  acquirit  eundo^  felice  al-  .  Iasione  ai  viaggi  ed  alla  gloria  di  Pietro  il  Grande.  ;  D(  queste  monete  ne  furono  presentate  a  lui  ed  'alla  sua  comitiva.  Il  czar  non  potè  ritenersi  dal  dire  :  I  soli  francesi  sono  capaci  di  simili  genti-  lezze (o.*^'*;2'!!C  -^..rT.'^''   Dopo  d'avere^  adombrati  i  quattro  principali  elementi  che  caratterizzano  la  delicatezza  dell'  a-  nimo,  passiamo  ad  osservarne' qualche  combina-  zione.'  *        \  *vV  v.  "v-;-*   -  r    (I)  Lo  spirito  vivace  e  la  pronta  sensibilità  di  questa  na-  zione rendono  T  uso  delle  sorprese  gentili  men  raro  che  al-  trove, anche  nelle  basse  classi  sociali.  Dopo  la  battaglia  della  Marsalte,  vinta  da  CaUnat,  egli  passò  la  notte  sotto  la  sua  tenda  alla  testa  delle  truppe»  Trovavasi  egli  in  mezzo  alla  gendarmerìa  e  dormiva  inviluppato  nel  suo  mantello.  I  gen-  darmi, che  avevan  presi  ai  nemici  28  stendardi ,  immaginarono  di  circondarlo  di  quesU  trofei:  gli  altri  reggimenti  portarono  essi  pure  gli  stendardi  conquistali.  11  giorno  comparisce  :  Catinai  si  sveglia  circondato  dai  trofei  della  sua  vittoria ,  e  salutato  dalie  acclamazioni  dell' esercito.     * .    V%Mm  Waniniù  diHcata  sa  mggeHrìs  de*  vtm*  sigli  senza  mortificare  V altrui  vanità  y  ad  imitew  zione  di  Livia ,  la  quale  gettava ,  per  così  dire ,  a  e^w  nella  convèrsazione  delle  fdee  trtlK  ad  Aogostò  senza  che  egli  s'accorgesse  ch'ella  aveva  più  spirito  di  lui.  .  #   .  Non  suole  offrire  alta  per  rinfacciare  penuria^  contento  di  mostrare  la  sua  disposizione  a  chi  volesse  approfUtqme*  Nelle  poe«e  d'Ossian^  men*  tre  Gaulo  viene  circondato  da  Svarano,  Fingal  s'alza  ma  non  si  dà  fretta  d'accorrere;  egli  non  vude  rapire  a  Gaulo  l'onore  di  rimettersi  e  liberarsi  dal  nemico  ;  troppa  sollecitudine  sarebbe  stata  un'  of-  fesa alfa  sua  gelosa  delicatézza  su*  questo  pùnto.  '  Egli  sa  coprire  il  soccorso  con  qualche  p7 etesto  plausibite^  e  all'idea  sì  mortificante  della  Kmosìnà  sostituisce  quella  d'un  credito,  d' un  compenso,  d'un' indennizzazione,  d'un  onorario  (1).  '   *  (1)  Eccone  alcani  esempi: Un  sigDoi»!  per  mr  'eampd  di  benefleare  un  aVvooatò  miserabfle,  ed  aUonlanare  dal  suo  animo  l'idea  umiliante  del  soccorjK),  lo  consultava  $opra  cause  immagiaarie,  e  pagava  largamente  i  consulti.   2.  AJCcesUao  visitando  il  suo  amico  Ctesibio  ammalato,  e  vista  la  sua  Indigenza,  trovò  modo  di  cacciargli  destramente  sotto  II  capeuftle  U  denarb  che  abbisognavagll.   5.  Il  signor  Dubois  all'  epoca  del  terrorismo  in  Francia,  essendo  stato  destituito  dalia  sua  carica  e  rinchiuso  in  pri-  ^one,  il  botanico  (^ll^ei^t  portò  ciascun  mese,  e  finché  durò  Uk  detenzione,. alla  fl^posa  dell'  amico  detenuto^  la  metà  del  proprio  onocario ,  acclorcb',  ella  non  sospettasse  la  desti-  tuzione del  marito  ,  e  non  iscoigesse  tutto  il  pericolo  cui  rimaneva  esposto.  Facendo  de' benefica ,  egli  si  guarda  dal  ram-  mentarli sì perchè  aspira  al  piacere  delle  belle  anime  ,  non  a  quello  dei  despoti  ;  sì  perchè  sa  che  la  ricordanza  de'beneiizi  riesce  gravosa  al  be-  neficato.   CiLstode  deW  altrui  gloria  y  e  quasi  dimentico  della  propria  y  si  trova  infinitamente  lontano  dal  più  vile  di  tutti  i  sentimenti ,  F  Invidia Che  d'altrui  ben,  quasi  suo  mal,  si  duole.  »   Allorché  Ulisse  e  Diomede  ritornano  dal  campo  troiano,  conducendo  i  cavalli  di  Reso  e  riportando  le  spoglie  di  Dolone,  Ulisse,  che  poteva  dividere  col  suo  amico  la  gloria  di  questa  spedizione,  si  fa  un  dovere  di  lasciargliela  intera  :  egli  racconta  minutamente  tutto  ciò  che  fece  Diomede,  e  nulla  dice  di  se  stesso.   Dimenticando  ch'egli  ha  dello  spirito ,  sa  far  valere  quello  degli  altri,  ed  incoraggiare  il  merito  nascente  talvolta  timido,  si  perchè  non  crede  che  possa  essere  offuscata  la  sua  gloria ,  sì  perchè  si  regola  coll'idea  del  pubblico  vantaggio.   Apre  r animo  a  tutti  i  sentimenti  che  ingrana  discono  la  natura  umana ,  e  vorrebbe  pur  chiu-  derlo a  quelli  che  la  degradano.  Egli  sarebbe  slato  buon  credente  in  Grecia  ove  si  divinizzavano  gli  eroi,  miscredente  in  Egitto  ove  si  divinizzavano  gli  animali.   Riceve  con  riconoscenza  gli  altrui  avvertimenti  anchè  quando  offendono  il  suo  amor  proprio,  e  ne  profitta,  mentre  le  anime  piccole  e  grossiere  ingrognano  e  riguardano  come  nemici  quelli  che  additano  loro  i  mezzi  per  divenire  raigliori.      S#S   buisce  a  virtìt,  collo  scopo  di  ravvivarne  l'imagioe  e  promoverne  resecozione  (!)•   Ltmgi  dal  brigare  sotta  mano  là  carica  del  sm  amico  i  egli  è  disposto  a  rinunziare  ad  una  pen^  sione  a  vantaggio  di  chi  la  merita  più  di  lui  (2).   Proporziona  la  riconoscenza  non  al  beneficìoy  ma  air  intenzione  di  chi  V  eseguì,  nè  crede  che  cessino  i  suoi  obblighi  se  ìì  benefattore  cKvièhe  sventurato.   Egli  è  penuaso  che  la  rottura  deW  amiditAa  non  Vautorizza  a  manifestare  i  segreti  che  furono  affidati  alla  sua  onoratezza,  e  non  vuole  screditare   la  sua  causa  con  un  tradimento,  come  fu  detto  a  suo  luogo.   *  Costretto  a  correggere  qualcuno,  egli  nùn  lo  fa  alla  prssenza  di  estranei,  e  quando  può  ^  il  fa  a  quattr'occhi  ;  sa  anco  condire  la  correzione   con  lodi.  che  animano,  in  vece  di  ricorrere  a    {i)  Dopd  Ta  tn?6«n  dèUa  fertem  di  SoltneU'riainiflt,  nid  4657 ,  ì  primi  soldati  che  entrarono  nella  piazza  avendovi   ritrovato  una  bellissima  donna ,  la  condussero  al  celebre  maresciaUo  di  Turenne  come  la  parie  più  preziosa  del  bol-  lino. U  maresciallo,  fingendo  di  credere  che  essi  altro  scopo  non  s'avessero  proposto  che  di  sottrarla  alla  brutalità  de'  loro  compagni, il colmò  di  lodi  per  si  onesta  condotta ,  fece  quindi  ricercare  il  di  lei  marito ,  e  gli  disse  alla  loro  pre-  senza: Voi  dovete  alla  morigeratezza  de'  miei  soldaU  l'onore  della  vostra  sposa.   (2)  Dugnay  Trouin ,  dopo  una  campagna  gloriosa  nel  1707,  ricusò  una  pensione  che  II  ministro  voleva  dargli,  ma  la  dimandò  e  V  ottenne  per  Saint- Auban,  ^uo  aiutante,  ciie  aveva  perduto  una  coscia  nella  steslsa  campagna.    t  è    f4i.   villanie  che  avviliscono.  Egli  procura  di  scemare  la  colpa  attribuendone  parte  alle  circostanze  ;  e  per  eccitare  la  voglia  del  ravvedimento^  ne  lascia  intravedere  la  speranza.  Egli  dice,  per  esempio  :  .<(.  Nissuno  di  quelli  che  vi  conoscono  e  vi  stimano  ')  vi  credeva  capace  di  tal  errore,  ed  io  meno  degli  »  altri.  È  vero  che  i  compagni  sorpresero  la  vo-  »  stra  buona  fede,  o  l'impeto  della  passione  v'ac-  »  ceco,  ma  io  sperava  di  più  da  quella  perspicacia  »  e  forza  d' animo  di  cui  ci  deste  tante  prove,  e  ^>  che  certamente  non  è  estinta  ;  in  somma  Y  er-  »  rore  è  indegno  di  voi.  Come  mai  non  vi  cadde  »  in  mente  che  esponevate  i  vostri  genitori  alla  w  taccia  d' avervi  istillato  cattive  massime  ?  Do-  »  vranno  essi  cogliere  disdoro  dove  speravano  lode  »  ed  onore?  I  vostri  amici  che  tentano  di  nascondere  il  vostro  fallo ,  accertano  che  ne  sentite  w  profondo  rammarico  :  Vorrete  voi  smentirli  ?  »  Dovrò  io  accertarli  che  s' ingannano  ?  >^  ecc.   Vuomo  dilicato^  nelle  contese  co^nemici  sdegna  le  vie  segrete ,  le  quali ,  essendo  favorevoli  alla  calunnia  e  alla  frode  ,  sono  preferite  dalle  anime  vili  Non  abusa  della  vittoria perchè  non  v'è  me-  rito  neW  abusar  del  potere^  e  v' è  viltà  nell'in-  sidtare  i  cadaveri.    li Son  frmvde  ncque  occuUis^  sed  palam  et  armatum  populiim  romanum  hostes  suos  vlcisci ,  diceva  Io  stesso  Tiberio.  Achille,  che  fu  da  Omero  divinizzato ,  insulta  Ettore  moribondo,  e  gli  protesta  che,  in  vece  d  onorata  sepoltura  ,  Io  farà  pasto  de' cani.   Dopo  che  Achille  ha  attaccato  egli    Digitized  by  Google  i    /V  fl  sentimento  della  vendetta  confondendoci  coi  bruti,  egli  si  sforza  sempre  di  reprimerlo,  perché,  ^  .ogniqualvolta  il  può,  vuole  distinguersi  da  essi.   Egli  tenta  quindi  di  soggiogare  il  nemico  più  ^  colla  generosità  che  colla  /orsa  i'  pffl  '<H)f  menti  nobili  che  con  atti  freddamente  feroci  ;  é  .  neri  può  reprimere  il  sorriso  dello  sprezzo  alla  vista  di  chi  aspira  alla  gloria  del  carnefitcefi  — r  S varano  nelle  poesie  d'Ossian  è  vinto  da  Fingal:  ^  la  condotta  e  i  discorsi  di  questo  ,  l'  artifizio  cgrtV  cui  s'insinua  nell'animo  del  suo  nemico,  sono  e-r  qualmente  ammirabili.  «  Poteva  Svarano  esser  esa-   cerbato  verso  di  Fingal  per  quattro  motivi  :  per  '  »  l'inimicizia  nazionale  degli  Scozzesi  e  dei  Da-..,  ;»~'nesi;  per  l'inimicizia  personale  tra  lui  e  fingal  »  per  la  vergogna  della  sua  sconfitta;  e  per  desi-   derio  di  risarcirsi.  Fingal  prende  a  superare  tutti  -^^  0»  unesìi  ostacoli  colla  nobiltà  de'  suoi  sentimenti./  ^»  Comincia  dal  primo,  e  mostra  che  le  guerre  delle  loro  famiglie  non  venivano  da  un  odio  ereditario,  »  ma  da  una  gara  di  gloria  ,  e  che  anzi  esse  da  »  principio  erano  amiche  e  congiunte.  Passa  indi  »  ad  allontanargli  dall'animo  l'idea  della  vergogn ch'era  il  punto  più  delicato  e  più  necessario  ;  e  .»  f^ì\iì  grande  elogio  del  valore  di  Svarano,  |n-   V   '■■rslesso  il  cadavere  d'Ellorc  al  suo  carro,  dopo  die  Io  ha  strascinalo  tra  i  sassi  e  il  fango,  sferzando  a  più  non  posso  .1  suoi  cavalli^  dopo  che  ne  ha  fatto  il  più  feroce  strazio  ,  il  poeta  viene  a  dirci'   »  Ch'ei  non  è  ^lollo,  nò  villan,  né  iniquo   il  suo  eroe  11  !  ;  *  j^v,    •  •  •    ^  198.  v  dicando  che  nel  suo  spirito  egli  non  ha  perduto  V^Al^iuUa  dell'antica  sua  gloria.  La  lode  non  è  mai  \  «  più  lusinghiera  quanto  in  bocca  d'un  nemico,  i  ^  f  Riconfortalo  l'amor  proprio  di  Svaranp  con  que-  •:^.filo  calmante,  Fingal  mette  in  uso  ì  modi  più  *^  >>  blandi.  Lo  chiama  delicatanriente  fratello  d'Aga-  nadeca,  per  destar  in  lui  Sentimenti  teneri  ed  amichevoli  coll'imagine  d  una  sorella  amala  non  ij^rjf^^^no  da  lui  che  da  Fingal.  Mostra  che  sin  dal  ^  »  tempo  di  quella,  egli  avea  concepita  molta  pro-  ))  pensione  per  lui,  e  gli  rammemora  la  prova  sen-  /^h  sibile  che  glie  ne  diede  in  quella  occasione.  Con   •  >  ciò  égli  induce  Svarano  a  vergognarsi  di  con-  .  .^^^seryar  odio  e  rahcore  con  una  persona  che  già  ;s;3i;:da  gran  tempo  1*  avea  provocato  in  affetto  e  in  ..p  benevolenza.  Finalmente  mette  in  opera  un  tratto   di  generosità  singolare  che  doveva  espugnare  l'a-  .:;t4.oimo  il  più  indomabile. Svarano  era  vinto  :  Fin-  gal  era  padrone  della  sua  vita  e  della  sua  libertà.   •  >»^«  questi  si  scorda  della  sua  vittoria  ?  suppone  ^,>)  (:he  Svarano  sia  libero  come  innanzi  la  battaglia,  jfc)»/^- propone,  per  soddisfarlo,  un  nuovo  cimento   personale,  come  se  il  passato  non  dovesse  deci-  -jf^'  dere.  Svarano  non  è  un  nemico  vinto  ,  ma  un   ospite  nobile  a  cui  si  desidera  di  far  onore^  A  ;d  tanta  generosità  Svarano  s'ingentilisce,  e  la  sua  V  ferocia  si  va  cambiando  in  grandezza. Svaran,  disse  Fìnga],  nelle  mie  vene   »  Scorre  il  tuo  sangue  :  le  famiglie  nostre ,   »  Sitibonde  d*onor,  vaghe  di  pugne ,  jj   w  Più  volle  s*aCfronlàr,  ma  più  volte  anco   -  W^iti  n^^l^  cqnv.ersa:;>ioni .   §  1.  Cohcorrenza  superiore  alla  capacità  "  .  y'^^  :  'del  locale,   '  *JL.  '        \  *      '  j    I  •  <   Invitare  più  persone  dl  qiiel  che  possa  compreu  dere  il  locale ,  è  invitarle  ad  essere  soffocate  dal  ^  (ialore ,  a  restare  in  piedi  con  sommo  disagio ,  a  i  non  i^ssere  servite  se  h<innQ^  sete ,  ecc.  Quest'\jsQ   *  .'X  Festeggiarono  fnsiéme  ,  e  Tona  hU' altta  .  '  *  .  W  "  •  V  i  • ospitai  cortese  dono.        ^^^À  ^   '^l^^j^  Ti  rasserena  dunque ,  e  tiel  tuo  voltò'  -  '^f  »  .f^-V  ^'  »  Splenda  letizia,  e  alla  piacevol  arpa-Apri  rorecchio  e  '1  cor.  Terribil  fosti  ^  ^  iij  »  Qual  tempesta,  o  guerrier  ;  de'  flutU  tuoi  '  .  i>  Tu  sgorgasti  valor;  l'alta  tua  voce  »  Quella  valea  di  mille  duci  e  mille.  •  »  'Sciogli  doman  le  biancheggianli  velCj;'  'Pt^lu^'^w   Fratel  d*  Aganadeca  ;  ella  sovente  •*  ^   »  Viene  all'anima  mia  per  lei  dogliosà  '     /J^  '  . Qual  sole  in* sul  merìggio:  io  mi  rammento. Quelle  lagrime  lue  ;  vidi  il  tuo  pianto. Nelle  sale  di  Starno ,  e  la  mia  spada      òt^   »  Ti  rispettò  mentr'  io  volgeala  a  tondo     •  -   «  Rosseggiante  di  sangue,  e  colmi  avea   »  Gli  occhi  di  pianto,  e  '1  cor  ruggìa  di  sdegnò^J  ^   »>  Che  se  pago  non  sei,  scegli  e  combatti  :       \x  '   »  Quell'aringo  d'onor,  che  i  padri  tuoi       '  ^   »>  Diero  a  Tremmor,  l'avrai  da  me  :  gioioso    ...^  (;   »  Vo'  che  tu  parta,  e  rinomato  e  chiaro Siccome  Sol  che  al  tramontar  sfavilla,  n    regna  in  Inghilterra  ne'  così  detti  routs  0  grandi   conversazioni.  —  Una  signora  sceglie  una  giornata  ^  .  "  in  cui  terrà  un  rout.  Ella  spedisce  de'biglietti  d'in-;. ,   -  .-^vìto  a  più  centinaia  di  persone,  non  perchè  sono  suoi  parenti,  suoi  amici,  suoi  conoscenti,  ma  per^,  chè  le  ha  vedute,  e.  perchè  la  loro  presenza  acqui»  •   •    sterà  credito  alla  sua  assemblea.    ,  .   «    .  .un  vano   *       »  Secreto  genio  femminil  che  gode   >»  Di  un  numero  maggior,  non  sceglie  i  buoni,  Ma  tutti  accoglie, e popolando il foco. D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando  li  piacer. Pria  delle  11  ore  della  sera  (il clie si  chiama  il  momento  dell'alta  marea  )^  la  casa  brulica  di  persone  d'ogni  rango  e  d'ogni  sesso.  Si  pongono  \  i  tavolini  da  giuoco  in  tutti  gli  angoli  della  casay  e  tanti  in  ciascuno  quanti  ifc  può  contenere,  la-  ,  sciando  appena  spazio  bastante  onde  i  giocatori  possano  passare  o  sedersi.  Il  caffè,  il  tè,  la  limo*  nèa  circolano  negli  appartamenti.  ^   La  confusione  è  la  vera  essenza  d'un  rout.  Una  dama  che  tiene  queste  assemblee  non  consulta  la  capacità  delle  sue  sale,  ma  la  lista  delle  persone  ..  di  buon  tuono.  Elia  invita  sempre  più  persone  di  quel  che  possa  ricevere  ;  ella  si  compiace  degl'in*  convenienti  della  stanchezza,  del  rumore,  del  ca-  lore con  tanta  soddisfazione,  con  quanta  un  attore  '  ascolta  i  gridi  e  il  fracasso  degli  spettatori  che  assistono  ad  una  scenica  rappresentazione  destinata  a  suo  beneficio.  Gli  sbagli  de' servi,  la  perdita  di  qualche  gioiello,  le  ripetute  esclamazioni  buon  Diot   come  fa  caldo!  sono  vicino  a  svenire!  riescono  estremamente  piacevoli  alla  padrona  di  casa.  Non  manca  nulla  alla  sua  felicità  s'ella  viene  a  sapere  \  che  v'ha  tumulto  nella  strada,  che  I  servi  d'alcuni  Pari  si  sono  battuti^  che  de' cocchi  si  sono  spezzaiì  j  e  che  qualcuno  della  compagnia  è  stato  de-  rubato  alla  porta  ecc.  ;  giacché  tutti  questi  acci-denti  romoreggiando  per  la  città  porteranno  il  nome  di  madama  da  una  estremità  all'altra.   Il  giuoco  è  il  solo  piacere  che  vi  si  trovi  :  delle  perdite  considerabili  procurano  rinomanza  ad  un  róut,  e  se  un  giovine  erede  vi  resta  rovinato,  la  celebrità  della  casa  è  sicura  per  sempre.  Talvolta  si  .danza  nei  rowte, e  il  ballo  è  seguito  da  un^|;,gran  cena;  ma  vi  manca  sempre  ciò  che  fa  la  delizia  della  danza,  la  grazia  e  l'allegrezza. Il  locale  destinato  ad  una  conversazione  è  semM  '  pre  difettoso  quando  i  concorrenti ,  atteso  la  situa-^ .  *\  1  zione  de' canapè,  non  possono  unirsi  in  linea  ciri  ^  colare,  o  stare  a  fronte  gli  uni  degli  altri. Allorché  restano  seduti  in  linea  retta  da  una  sola  banda,  la conversazione  si  spezza,  e  da  generale  diviene  pa^^  ;  tìcolare.,  il  che  va  soggetto  a  più  inconvenienti^  come     vede  nel  seguente  paragrafar  Conversa&ioìie  particolare  sostituita  v.'^T  alla  conversazione  generale.  >  *  *    La  conversazione  è  gehèVatè  allorché  ciascuno  defili  astantì  vi  contribuisce  come  attore  o  spettatore;  ;   La  conversazione  é  particolare  quando  gli  astanti  *  si  dividono  in  più  crocchi,  stranieri^  per  così  dire,  j  gli  uni  agli  altrii  benché  riuniti  nella  stessa  stanza.  Supponiamo,  a  cagione  d'esempio,  una  conver-  ,,  sazione  di  dodici  persone  ;  è  facile  cosa  Io  scorgere  che  se  esse  restano  unite  in  un  solo  crocchio  '  !      '  conseguiranno  maggior  effetto  con  minore  sforzo;   dì  quello  che  se  in  quattro  si  dividessero.  ;  .  .      Infatti  nel      caso  per  intrattenere  dodici  persone  ne  basta  una  ;  nel  2.o  per  intrattenere  dodici  persone  se  ne  richieggono  tre.  !'    Nel  1.^  caso  una  celia  fa  ridere  dodici  persone;*  I   •  ^  ngl2.«  s'arresta  nel  circolo  di  quattro.   VAllorché  la  conversazioni  è  generale  ,  un'idea  vera  ma  inesalta  annunziata  da  un'individuo,  viene  rettificata  da  un  secondo,  commentata  da  un  terzo,  dimostrata  da  un  quarto,  ecc.,  sicché  alla  fine del  discorso  si  ha per prodotto  una verità  lampante. All'opposto  separate  in  quattro  crocchi  questi'  contribuenti,  e  vedrete  che  in  vece  di  quella  verità  penduta  comune  a  dodici  teste,  restano  in  ciascuna  '  delle  semi-idee,  delle  nozioni  inconc^Iudenti,  delle  \  notizie  qui  inesatte,  là  false,  e  dalle  quali  nulla  si  può  dedurre.  Succede  nella  produzione  del  piacere  •  nelle  conversazioni  ciò  che  succede  nella  produ-  '  .  ^lone  delle  ricchezze  neìragricoltura  o  nelle  arti  :  Pietro  possedè  l'aratro.  Paolo  i  buoi,  Giovanni  ra))llitó  tì' arare  ;  se  questi  individui  s'associano,  ^  Taratura  $\  leffetliia,  non  si  effettua  se  restano  di-  :  sgiunti.   Allorché  dunque  qualcuno  trae  a  se  due  o  tra  /  astanti ,  commette  una  specie  di  furto  verso  gli  altri,  poiché  li  priva  del  piacere  che  produrreb-  bero in  essi  le  persone  spiritose  e  gioviali  ch'egli  '  bà  rapito.  Egli  stesso  debb'essere  riguardato  come  ^  un  disertore  od  un  contribuente  moróso.  È  un  fatto  dimostrato  dall'  esperienza ,  che  le  scosse  sensibili  s'accrescono  comunicandosi,  atteso  la  forza  sussidiaria  che  loro  presta  l'immaginazione  degli  astanti;  quindi  una  celia  che  fa  ridere  quat-  tro persone  in  un  grado  come  quattro ,  ne  fa  ri-  dere dodici  in  un  grado  come  cinque  o  sei..   Inoltre,  se  assistono  dodici  persone  al  discorso  del  parlante,  con  maggior  cura  ed  attenzione  egli  svolgerà le  sue  idee^  di  quello  che  se  assistessero  quattro  solamente. Allorché la conversazione è generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad agitare dodici immaginazioni, nelle quali sì trovano associate altri fatti e diversi in ciascuna;  dunque  si  deve  sperare  maggior movimento  nelle  idee  che  alimentano  la  conversazione  e  maggior  varietà. Se  in  vece  di  dodici  persone  (numero  preso  per  ipotesi),  gli  astanti  fossero  di  più,  i  crocchi  a  parte  sarebbero  meno  condannevoli;  giacché  ammettendo  gli  accennati  vantaggi  della  conversazione  generale,  bisogna  anche  ammettere  che  in  molti la voglia di parlare è  vivissima  :  e  che  questa  meno  nella  conversazione  generale  resta  soddisfatta  ,  che  ne'  ,  crocchi  parziali.  D'altra  parte,  quando  la  conVfet-^  sazione  è  troppo  numerosa,  scema  in  alcuni  l'al-  legrezza, perchè  scema  la  confidenza.   È  cosa  rara  che  la  conversazione  resti  generale,  i  allorché  in  dodici  concorrenti  si  trova  più  d' una  donna;  giacché  ciascuna  diviene  centro  particolare,  intorno  al  quale  parte  degli  astanti  naturalmente  si  unisce.  Ho  detto  è  cosa  rara ,  poiché  non  é  cer-  tamente impossibile  che  una  speciale  gentilezza  nelle  donne  si  sforzi  di  prevenire  la  divisione.    V  *  \    %  Z/parlare  motti  insieme^  '   «  •  V  v  '  ^  IMa  lsto^^      idi  tàiite  :  ^  .   '  »,'Vòcr  distordf  e  gareggianti  iiisiéme    -  '  -   •  »  Pur,  ua  senso  accoppiar?  Tutti  ad  un  tén^o;   »  VoglioB  la  boeèa  aprire'  é  n^n^  i^/^  ^  "  Affastelfano  insieme.  Quanti  argomenti. Ad  ua  sol  puQtot  AKri  di  cuCQe  ed.  «tiri  «failli  ragiona:  Qui  ài  iMe;;  Là  ^si  contrasta^  e  la  quisti^ja  si  .  cribra  '  r-^»  Con  oàikktò  ttpljcàre  altertm  '   v  vf  .  r"  ^     Di  sì  e  dì  no.  Di  trenta  voci  acutaV/f  -Stridule,,  rauche,  reboanti  e  gravi,  ;  '^^  *  ^  V  DIssoiiaQti  tra  ior  odi  lin  eóiifiise  :  .  ì  ».  Frastuono  ingrato  di  parole  e  d'^rK ,  '  .1»  fìi.  tumulto  e  di  «tiMa^^nde  Jà  T^ta  *  ;  Concava  echeggia  e  riinbombahdò  à&sorda ,  »  Là  civile  modestia  ed  il  ,  buon  senso    i^  v  /  y>  Lèi  ift'iifi  àngolo  stringono  le  labbta E  Storditi  ai  tarano  gli  wecchl  ».  /^^^^^  "^^^   f^iimando  ii^Iti^fBirJdiio  Jnsiemip  i  Yh9^wf»à'  d'M^ .   gara  per  superarsi  a  yieè(ida,  «.tpro^\irii^^^  4'a8sor49tffe:^gli  ^istanti^   >     A  >  ?  '      ^  •     :ì *  /  .  Ili  alcuni  SI  uniscono  tré _d[i|etti  '  ,   1 .  La  sfnania,  di  int^rrpmp^e  glt  alt^i^  ; jlk  X'impazkiDza  di  seiitìr  Hiténrétii  .m  stessi  ;  '   a.  La  pretensione  che  gli  alJLrì  uoa  siano 4istratti>  «lontre  es^i  li  aiuioiaiiò. Allorebò  iiHrfli  parlano  insieme  .  *  '   L  Si .  stancano  i  iK>liuoni  f  gli  iBSofi^  d0'  par-!  istori'}'- V.  \  ^  V t'O'V.  \-   I  &i  annoiano  gii  astanti  con  un  fraatiMno  in*-   intelligibile;   8.  Si  è  costretti  a  ripetere  più  volte  la  stessa  cosa;   4.  Si  afferrano  male  le  idee  altrui. Si  oonsuma  tempo  e  fasica  a  combattere  delie  eliimére.   Siccome  poi  si  parla  per  piacere  o  istruire,  non  j)er  fajr  pompa,  4i  cognizioni»  quindi  allorché  Tal-  trui  impazienza  ci  interrompe,  è  miglior  consiglio  lasciarle  libero  il  campo,  e  tacere,  di  quello  che  battere  inutilmente  gli  orecchi  di  chi  non  vuole  ascoltarci  CO*    (1)  L*imp^iua  e  la  vivacità  che  domìDano  mi  carattere  della  Jiazlone  francese  r  assoggettanó  al  difetU  accenùaU:  mi  testo.   Cornino^,  riportaiado  B  Trattato  di  Vercelli  segnato  ft  40  oUobi^  4495  tra  Carlo  Vili  e  gli  Ualiani,  osserva  come  un  tratto  caratteristico  dello  spirito  francese  la  suania  di  pae-  lare  ,  per.  cui  molte  («rsone  parlando  insieme  ed  alzando  a  vicenda  la  voce  ^  nesaùna  é  realmen^  inte^.  AH*  opposto,  egli  aggiunge,  degli  Italiani  nessuno  parlava, 'ftioréhè  il  duca  .  Lodovico ,  il  quale  perciò  diceva  ai  francesi  :  Gii  I  ad  uno  ad  uno.   le  memorie  dell*  Accademia  francese  hanno  conservato  per  IradlikHQé  no  moUirdI  If^ miran,  R  quale ,/oireso: piò  d'ogni  aHeo  dell'aeeennato  difetto,  disse  un  giorno  seriamente  a' suoi  confratelli:  Signori,  io  vi  propongo  di  decretare  che  non  parleranno  qui  più  di  quattro  persone  Insieme  \  forse  così  riusciremo  ad  intenderci  1  !  *  '   Un  francese  diceva  a  numel,  vescovo  di  SaUsboiy/  oMe  il  fàesi  eei^Uisini  eea  stola  cosa' molto  merìtosia  per  cjH'Imglfeaf)^  non  potendo  essi  die  difficilmente  rinunziare  ad  un  pezxo  di  manzo.  Al  che  iiurnet  mpo.se  :  Non  è  men.  meritoria  per  voi  altfi  francesi,  atteso  la  legge  del  silenzio.         .  ,   23*    «   y  .i^co  L.Allegrezza  clamorosa.   Un  grado  moderato  di  sale  rende  lè  vivande  gradite  a  tutti!  palati  :  i  gradi'  maggiori ,  1  quali  non  riescono  piacevoli  che  a  poeliissimi,  estinguono  Tappetito  negli  altri*   L'allegrezza  moderata  nelle  conversazioni  passa  facilmente  d' animo  In  animo  >  ed  è  accolta  con  lieta  fronte  da  tutti.  L'allegrezza  clamorosa  si  co-  munica a  pochi,  e  spesso  muore  sul  labbro  di  chi  Tolle  eccitarla*   Del  quale  fenomeno  tre  sono  le  cagioni.   1 .  I  caratteri  freddi  non  essendo  suscettivi  d'aU  legrezza  clamorosa ,  s'armano  contro  di  essa  e  le  oppongono  la  reazione  deirindifferenza.  '  2.<>  allegrezza  clamorosa  dipendendo/ da  un  ino4o  particolare  dì  vedere  le  cose,  alquanto  strano,  6  spesso*  da  ^ccolezza  di  spirito,  i  ^'arett^  ragio*  nevoli  e  sensati  non  possono  approvarla.  •  '  3«  L'jiUegrezza  moderata  più  facilmente  che  la  clamorosa  si  coniiunica  agli  ^stariti,  perchè  dista  meno  dallo  stato  abituale  degli  spiriti.   Qualunque  sieaa  te  dause  deli'  accennale  fono*  meno,  egli  è  fuori  di  dtfbbio  che  se  V  allegrezza  moderata  fopienta  ta  conversazione,  l'allegrezza  clamorosa  tènde  ad  estinguerla,  e  la  cosa  non  può  ^essere  altrimenti;  infatti,  •  .   U  Durairte  lo  scoppio  dfille  risa  smodate  ma  potendosi  comunicare  agli  animi  i  moti  d'  un  aU  legrezza  piti  mite,  tutti  quelli  che  non.  parteoi|iane  aHe  prime  ,  si  veggono  'ditfraudaft  de'  secondi  ;  quindi  mentre  alcuni  ridono  a  piena  gofà,  restano gli  altri  atteggiati  a  sprezzo  o  sbadigliano  ;  essi  pro-  vano quell'ingrata  sensazione  che  prova  chi  attento  al  dolce  suono  dell'arpa  viene  im;«rovvisainente  as-  sordato dal  rumore  delle  campane.  ,   2.  Dopo  lo  scoppio  di  risa  smodate  succede  una  serietà  agghiacciata,  come  dopo  un  fuoco  d'artifizio  ci  sembra  T oscurità  più  profonda.  Un'allegrezza  clamorosa  ci  balza  improvvisamente  fuori  di  strada,  e ,  per  così  dire ,  sopra  un'eminenza  ,  ove  non  sap-  piamo d'  onde  siamo  venuti  ,  nè  dove  dobbiamo  andare  ;  da  ciò  poi  la  serietà,  il  silenzio,  qualche  esclamazione,  e  la  difficoltà  di  riprendere  il  filo  di  ameni  discorsi.   L' allegrezza  clamorosa  non  comunicandosi  agii  altri,  ed  assai  pochi  essendo  capaci  di  rianimarla,  quegli  che  la  eccita  si  trova  nella  necessità  di  farne  tutta  la  spesa;  quindi  se  vuole  restare  sulla  scena  è  costretto  a  rappresentare  il  personaggio  del,  buffone. L'  allegrezza  moderata  ,  figlia  d' una  buona  coscienza,  animata  da  un'  immaginazione  ridente,  trova  facilmente  motivi  d'innocente  trastullo  e  di-  gnitoso sorriso  nelle  scene  morali  esposte  dalla  pag«  343  -  350.  /4   L'allegrezza  clamorosa,  figlia  talvolta  dello  stravizzo, talvolta  d'un  immaginazione  irregolare,  per lo più d'una sensibilità ottusa e piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza,  trova pascolo nella goffa derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti  sguaiati,  plebei,  vHlanì. Loquacità eccessiva. La conversazione è come un’azienda commerciale; ciascuno dee pèrvi il suo caratlo e  ciascuno  partecipare  al  prodotto. I^'uomo  che  tace  sempre  in  una  conversazione è  uomo  che  vuole  essere  a  parte  del  prodotto  senza  essere  carattista.  '   L^uomo  che  parla  sempre  è*  un  jearattista  che  vuole  tutti  i  prodotti  deirazienda.   In  generale  nelle  conversazioal  ciascuno  ama  meglio  spacciare  la  propria  mercanzia  di  quello  che  acquistare  V  altrui  ;  e ,  in  vece  di  formarsi  giusta  idea  degli  altri ,  aspira  a  darla  di  sé  stesso:   Agitati  dalla  smania  di  parlare,  non  pochi  bra-  mano di  comparire  sempre  alla  tribuna  ,  senza  vo-  lerne mai  discendere  :  quindi  vi  tengono  discorso  su  di  tutto,  d'  un  libro  nuovo  dopo  la.  lettura  di  quattro  ò  cinque  pagine  a  salti ,  d*una  nuova  mac*  china  dopo  d'averne  veduto  un  pezzo,  d*un  quadro  dopo  d'averne  ammirata  là  cornice  ccCm  e  decidono  e  sentenziano  senza  interruzione,  simili  al  giudice  d'Aristofane,  che,  chiuso  in  casa  dai  parenti^  vuole  almeno  dar  sentenza  tra  due  cani  (I)*    (I)  Il  Go7.2i  fa  il  seguente  carattere  dell'imperlerrito  par*  latore.   <  «  SIgpor  jS.  N.  y  a  penai  la  algaoria;  vostra  «ente  un  cct-  »  stailo,  un  luteo,  o  un  ebfeo  a  oomlnclaM  uara^hmar  »  mento,  eh'  ella  si  scaglia  ìà^  e  glielo  rompe  a  mezzo  col   »  dire  :  La  non  é  così  :  io  so  l' ordine  delle  cose ,  e  ve  la  D  iUcò  lo  ;  e  dàlie  dàlie  dàlie,  non  la  finite  più ,  tornando  Gir  irteoiiTenienti  a  coi  va  incontro  uu  uomo  che  paria  troppo,  sono  i  seguenti:    •  molte  volle  da  capo,  con  molle  cosette  di  mezzo,  clje  sono  »  uno  sfinimento,  come  sono,  per  esempio,  que'vostri  colori  »  r^ttorici  :  E  dov'  era  io  oca?  Ah  sì.  E»  toeno  due  passi  «  indietro:  e  la  fu  da  rìdere,  e  verbi^eazlai  ecceleira,  tanto   •  ohe  mm  lasciate  più  tirare  il  fiato  a*  poveri  drcaslanti.   •  Così  quando  avele  assassinali  e  ammazzati  ì  primi  a  uno  »  a  uno,  eccovi  a  volar  via  di  là  in  qualche  cerchio  d'amici  «  -o  di  patenti,  clie  cagionana  de'fatU  lorO|  e  piombate  sopra  »  que*  povereUi  come  un  uccello  di  rapina,  sbaragUandogliì  »  e  facendogli  andare  qua  e  colà  per  paura  della  furia  vostra.  »  M'  ha  dello  un  certo  maestro,  che  qualche  volta  andate  al  »  suo  collegio,  e  che,  appena  entratovi,  stornate  i  discepoli  n  dallo  studio,  e  i  maestri  dall' insegnare ,  parlando  di  dot*   •  tftoe ,  di  scienze-,  d'armeggiare ,  di  salière  U  cavallo,  e  di  »  tutto  quelló  che  volete  e  potete,  si  che  nessuno  si  può  «  salvare  dalla  furia  vostra.  Se  un  pover*  uomo  prende  U-  »  cenza  da  voi  per  andare  a  casa  sua,  e  voi  subito  volete  »  accompagnarlo  per  forza  come  se  foste  V  ombra  di  lui ,   petseguitandoto  fino  In  sali' nscìo  e  sulle  scale,  e  nette  »  stante  ancoia.  Se  per  caso  si  narra  qualche  novella  per  la  »  citt;i ,  voi  slète  come,  ma  rondine ,  ora  qua ,  ora  colà  a  »  dirla  e  ridirla  a  tulli  quanti.  Nè  giova  punto  eh'  altri  vi   •  iaficìsL  intendere  che  la  sa:  perche  voi  volete  cominciarla  »  a  dispetto  di  ttUU,  aggMtigendevi  anche  Im  proemio.  Par-  li late  di  predicatori,  dlmiàinoranenli,  di  battaglie,  del  vostro  »  servo,  e  delle  fmestre  di  casa  vostra  con  tanfo  tedio  di  chi  »  v'ascolta  ,  che ,  appena  avele  favellato ,  Tuno  si  dimentica   •  tutto,  Taibro  sbadiglia  sonniferando ,  e  c'è  chi  vi  pianta  là  »  nel  meo»  Aet  ragionamehto.  Siccliò  se  vi  trovato  con  uno  »  ch*ahliis  '4a  sedere  .a  un  magistnito ,  a  una  predica,  a  »  mensa,  a  una  commedia,  siete  cagione  che  slede  mezz'ora  A  dopo  il  bisogno  alla  sua  faccenda.  E  credo  che  piuttosto  »  vi  contentereste  di  morire,  che  di  non  superare  il  cicala-  t'  mento  delle  gasze,  de'  pi^papHii  delle  rondini,  e  di  quanto    Digitized  by    ,     4Ìd  IMBO  TBBXO   1 .  Egli  affatica  i  suoi  polmoni  ;   8.  É  spesso  costrétto  a  ripetere^  le  stesse  cose  il  che  cagiona  noia  agli  altri  e  svela  i  limiti  del  suo  «pirUo  ;        .  .   3.  S'espone  a  dire  degli  spropositi  vc^ndo  par^  .  tare  di  cose  che  non  gli  sono  familiari^,  e  dimostra  di  non  saperne  alenna ,  giacché  quelli  che  sisinno  una  cosa  bene  si  astengono  dal  parlare  di  quelle  che  ignorano  (1)  ;   '  4.  Offende  quelli  che  vorrebbero  parlare  in  vece  di  lui  (2>  ;    ^  ^    «  bestie  Gidiio, schiamaizo.  Oh  |^  é  puie  un  eraii  peccato  »  a  non  aver  (ante  gole  quante  canne  hd  l'organo,  da  poter  »»  cavar  fuori  le  parole  da  tutte  1  Basta  cbe  siete  i^unto  a  Il  tale,  che  non  v*  Imporla  più  che  ciascheduno  si  fugga  da  »  vqL  cpme  da  un  can  guasto,  e  cbe  fino  i  fanciulli  di  casa  »  vostra  si  ridano  di  voi:  petcliè-  quando  la  sera  il  sónno  »  comincia  ad  aggravarli ,  vi  pregano  a  contar  lo;*o  qualche  i)  cosa  per  dormire  più  presto.  •   (1)  Saggio  e  cauto  ad  un  tempo j  e  spesse. voHe  Timido  un  poco ,  lentanijenle  sffgno  . .   Dà  di  stia  decisloa  uom  che  ben  vede,  E  in  brevi  detti  ognor  spiegarsi  agogna^  Clii  ragiona  a  proposito ,  di  rado  ,    S'allarga  ragioiUMiKlo >  ma  la  folle  .   ^.   SupecUa  )  che  a  scloe&bezza  si  cong^mge  Si  diffonde  In  loquela  ^  e  s^gue  solo  ,  I.  suoi  fantasmi  ^  e  a  sè  paria  e  risponde.   (2)  «  E  alcuni  altri  tanta  ingordigia  hanno  di  parlare,  che  »  non  lascian  dire  altrui.  E  come  noi  veggiamo  taUolki  su  »  per  r  aie  de*  contadini  X  un  pollo  torre  la  spLca  di  becco  %  atf  allvo;  ^^osl  cavano  costoro  i  EagtonaoieiiU  di  bocca  a   .  colui. che  li  cominciò,  e  dicono  essi..  E  sicuramente  che  »  eglino  fanno  venir  voglia  altrui  d'azzuffarsi  con  esso  loro.    5,  Rende  gli  altri  più  severi  nel  giudicarlo  ;  \  6.  Impedire  la  diffusione  di  idee  migliori  delle  sue  ;   ?•  Svela  talvolta,  per  procurare  alimento  al  dì-  scorso,  ^11  altrui  segreti  ;  quindi  si  mostra  indegno  e  si  "pfwù  deirallrui  confidenza;  *  8.  Dimentica  spesso  la  convenienza ,  non  ha  ri-  guardo al  caratterie  delle  persone  con  cui  i^rla,  al  luogo  In  cui  si  trova  »  alla  situazione  degli  animi.  Per  concentrare  in  sò  viémmargiormente  gli  altrui  sguardi ,  balza  in  piedi  (1),  molti  gesti  facendo  colle  mani  e  col  capo;  e  se  qualcuno  ardisce  non  di  t»orre  in  dubbio  la  di  lui  infallibiUtà,  che  verar  mente  la  sarebbe  un'impertinenza  senzjj  pari ,  nia    »  perciocché  «e  tu  guardi  bene ,  ninna  cosa  muove  Y  uomo  9  piuttosto  ad  ira,  die  quando  d' improvviso  gli  è  guasta la sua.  voglia  e  U  suo  piacere ,  eziandio  minimo  ;  siccome  »  (|umd0  i^  avrai  aperto  la  bocca  per  isbadii^re,  e  alcuno  !>'  té  la  Cura  con'  mano,  ò  quando  tu  liai  alzato  il  braccio  «  per  trarre  fa  pietra,  e  egli  l' è  sùliitamente  tenutò  da  colui, che  V  è  di  dietro. Ecco  l'origine  del  pedanlimo:  quegli  è  pedante  che,  s(M*gendo  io  .piedi  ed  alzando  una  voce  magnale  e  dura  »  detta  le  sue  opinioni  e  pronuncia  l&  sue  sentenze  eoi  tuono  che  adopera  il  maestro  di  scuola  co' suoi  scolari. Pedantìfimo  si  dice  anche  rusò  troppo  frequente  e  inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione  ordi-  iiìarte,  e  la-  presunzione  ebe  ravvisa  in  esse  importanza  ec-  cedènte ;  quindi  i  seni-détll  Geminano  ^ppertutlo  H  lor6  .falso  sapere,  allegano  Platone  e  S.  Tommteo  in  eosii  ebe  ai  accertarle  ba«ta  Tasserzione  d'un  facchino.   Pedantismo  finalmente  s'appella  un'  eccessiva  severità  ed  uu^ndeféssa  affettazione  nella  scelta  delie  parole  e  delle  frasL    solo  di  fargli  qualche  obbiezione  ,  esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra sè dell'altrui dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa mostravasi allorché non sapeva come sottrarsi  ad  una  dimanda  importuna.   Questi  eterni  parlatori,  per  lo  più  teste  super-  ficiali,  e  talvolta  prive  dì  senso  comune,  affettano  di  sapere  ciò  che  non  sanno,  d'intendere  ciò  che  è  superiore  alle  loro  cognizioni  ,  di  possedere  ciò  che  loro  realmente  manca.  Si  tratta  egli  d'una  notizia?  essi  la  sapevano  ;  —d'una  scienza? Thanno  studiata; d'un  fatto  straordinario  ?  ne  sono  stati  testimoni  ; d'  un  giuoco  ?  i'  hanno  insegnato  al  loro  nonno ,  ecc.  :  e  per  voglia  di  comparire  i-  strutti,  allontanano  da  essi  l'istruzione.  Chi  ha  poco  senno e  dovrìa  starsi  ignoto,  Vuol  far  tutte  le  carte  in  compagnia  :  »  In  simile  maniera  un  carro  vuoto   '   )'  Fa  il  fracasso  più  grande  per  la  via  ».   '  La  loquacità  presuntuosa  de'giovani  è  una  con-  seguenza necessaria. Della  vanità  generale  comune  a  tutti  gli  uo-  mini. Dell'educazione  particolare,  supposta  scientifica,e  veramente  insensata  che  ne'prim'annì  della  loro  giovinezza  ricevettero.   Siccome  ciascuno  procura  di  mostrare  ricchezza  collo  sfoggio  degli  abiti,  così  molti  procurano  di  .  mostrare  spirito  collo  sfoggio  delle  cognizioni.  Essi  crederebbero  d'aver  perduto  tempo  e  fatica  se  apris-  serola  bocca  senza  aver  detto  qualche  cosa  spiri-  t,.cT    Volendo  presentare  tratti  ingegnosi  e  superare  T altrui  aspettazione^  fanno  degli  sforzi  che  tormentano  gli  astanti,  e  ad  essi  fruttano  ridicolo.  Presumer  vanto  di  sagacé,  arguto,  .      .»  E  senza  aver  punto  di  sale  in  zucca  ,  .      Imprudente  mostrarsi  e  linguacciuto  v.   Rendere  eunuco  V intelletto  e  feconda  V  imma-  ginazione^  tale  era  il  problema  che  si  propóne-  \  vano  grinstitutori  nello  scorso  secolo.  Un  sonet- ,  tino,  una  canzoncina,  un  po' di  latino,  uno  sche-T*  letro  cronologico  detto  storia,  un  elenco  dei  nomi  '  delie  città  e  de'fiumi,  chiamato  geografìa,  ecc.,  in  •  somma  parole  e  poi  parole,  e  non  mai  cose,  èò*v,.^.  stituivano  il  capitale  intellettuale ,  l'immenso  fo-  gliame sen?a  frutti  che  i  giovani  compravano  s  caro  prezzo.   Abituati  ad  accettare  parole  senza'  conoscerne  il  significato. nelle  prime  scuole,  accet-  tarono parole  in  filosofia  senza  corrispondenti  idee;  ;  fi  pronunciando per es., le parole mistiche di Kant, redetterjo di essersi innoltrati nella scienza dell'uomo;  e così  dite  di  tanti  altri  sistemi  cui  la sola  magìa  delle  parole  e  Tbitudine  di  ammetterle  r'^  senza  esame  acquistarono  rinomanza.  Quindi  le  conversazioni  brulicarono  di  cianciarelli,  che, essendo verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d' istruire  }Ma  fatai  cosa  eli'  è  ch'ove  più  abbond)a  Un  bel  parlare,  ivi  la  specie  umana    Sia  seccatrice  almen  quaut'  è  faconda  ti  dono  di  parlare  con  facilità  e  prontezza  è  cosa  '  .  ;  }  pregevolissima,  e.  non  può  essere  Irascui'alo     doq  da  chi  -    \Pìtagorà  ,  ìper reprìmere ne*  giovani  I  '  eccessrvà'^  loquacità,  esigeva  da' suoi  discepoli  un  assoluto.  .  silenzio  ne'cinque  primi  anni  delle  sue  lezioni;  il  che  era  spingere  le  cose  all'  estremo  opposto,  e  spezzare  il  ramo  per  raddrizzarlo.  Più  saggia  Tao-tìca  cavalleria  diceva  a'  suoi  seguaci  :  Siate  semjore  rultimo  a  parlare  in  mezzo  agli  uomini  che  vi,  superano  in  età^  e  il  primo  a  battervi  alla  guerra.  Non  arrogarti  dunque  il  diritto  d'eterno  parla-  tore ,  ma   «  Solo  i  tuoi  detti  nel  comun  discorso  »  Ifitreccia  a  tempo,  e  in  un  civile  e  cauto  »  Le  tue  parole  e  il  tuo  silenzio  alterna.  >♦   Colui  che- si  finge  dotato  di  cogm*zioni  che  non  ha  ,  perdi»  ì|  ,  diritto  d' essere  creduto  negli  affari   sociali.  Volendo  mostrare  troppo  spirito,  si  resta  caricati  di  tutto  il  peso  della  conversazione,  e  si  perdé  in  •  affetto  ciò  che  si  acquista  in  ammirazione  ;  gidoo  ^    ignora  che,  per  convìncere  lò  spirilo,  spesso  é  forza  sedurre  le  passioni  che  gli  fan  siepe:  ma  questo  dono  per  se  stesso  ilion  è  sicuro  indizio  di  profondo  pensare.  Parecchi  buoni  spiriti  non  riescono  a  svolgere  le  loro  idee  fuorché  col  mezzo  .  della  meditazione;  ed  è  stato  osservato  che  gli  scrittori  di  professione  non  sono  quelli  che  brillano  di  più  ne'  crocchi  sociali.  Ne'  discorsi  di  Rousseau  neppur  V  ombra  scorgevasi  di  quello  stile  che  ne'  suoi  scritti  si  ammira.   Nicole ,  uno  de'  primi  scrittori  del  XVn  secolo,  stancava  quelli  che  Tascol-  tavano;  perciò  egli  diceva  del  sig.  Treville,  U  quale  parlava  .  con  facilità  :  Egli  mi  batte  rulla  camera  :  ma  egli  non  è  g^cora  in  fondo  deHa^caìa  eh*  io  V ho  confuso,  t    4t&l   chè,  generalmente  parlando,  gli  uomini  non  amanq '  quelli  che  li  offuscano.  >   -^pm  >  ^Allorché  non  avete  argomento  interessante  da  .  proporre,  la  civillà  vuole  che  vi  astenìate  dal  par*  lare,  in  vece  di  mettere  alla  tortura  l'altrui  pa-  zienza con  puerili  e  non  gradite  scempiaggini.  Perciò  r  abate  S.  Pierre ,  il  quale  non  discorreva  gran  fatto  nella  conversazione ,  non  per  sterilità  nè  per  disprezzo,  ma  per  tema  d'infastidire  i  suoi  ascoltanti,  diceva  :  Quando  io  scrivo,  nissuno  è  ob-  bligato a  leggermi  ;  ma  quelli  ch'io  vorrei  costrin-  gere ad  ascoltarmi  si  darebbero  la  pena  dì  farne  almeno  le  viste,  ed  io  la  risparmio  loro  per  quanto,  posso.  Inoltre  chi  vuol  parlare  di  ciò  che  non  in-  tende ,  al  quasi  certo  rischio  si  espone  di  guada-  gnarsi il  titolo  d'ignorante.  Quindi  l'abate  Choisj',  il  quale  non  era  dotto,  ma  lontanissimo  dal  volerlo  comparire  ,  scrivendo  ad  un  suo  amico  sulle  sue  conversazioni  o  sul  suo  silenzio  coi  dotti  missio-*.  narii  che  nella  sua  ambascerìa  egli  aveva  ritrovati  a  Siam  ,  si  esprime  così.ii^^  Io  occupo  un  posto  »  d' ascoltante  nelle  loro  assemblee ,  e  mi  servo  .  »  .  sempre  del  vostro  metodo  :  una  gran  modestia  »  e  nissun  prurìto  di  parlare.  Quando  la  palla  mi  »  viene  naturalmente  ,  e  ch'io  mi  sento  istrutto  a   fondo  della  cosa  di  cui  si  tratta,  allora  mi  lascio  »v forzare,  e  parlo  piano,  modesto  egualmente  nei  D  fono  della  voce  che  nelle  espressioni.  Questo   metodo  fa  un  effetto  mirabile,  e  sovente,  quando  »  non  apro  bocca ,  si  crede  ch'io  non  voglia  par-  li lare,  mentre  la  vera  ragione  del  mio  silenzio  si   è  un'ignoranza  profonda  ch'egli  è  pur  bene  di nascondere  agli  occhi  altrui.   tjttl^  ^ Da  qiiesta  modesta  confessione,  soggiunge  d^A^^.  lembert ,  si  raccoglie  che  l'abate  Choisy  non  ras-  somigliava  certi  ciarlieri,  i  quali,  presi  dalla  manìa  di  parlare  di  quanto  ignorano,  meriterebbero  la  risposta  che  un  artista  greco  fece  nel  suo  labora-  .  .       torio  ai  ridicoli  sragionamenti  d'un  dilettante:,.  Guardatevi  dal  farvi  sentire  da' miei  scolari.  *^  Infatti  parlano  costoro  con  leggerezza  tale,  che  spesso  l'uomo  pulito  si  astiene  dal  far  loro  un'ob*  i  biezione  per  tema  di  vederli  ammutolire.  I  chiacchieroni  si  fanno  tacere  col  non  dar   .  retta  ai  loro  discorsi,  come  appunto  un  suonator  di  violino  ferma  i  danzatori  cessando  di  sonare.   »   '    ♦       6.  Co?itimcazione  dello  stesso  argomento.   ;  La  loquacità  eccessiva  è  un  difetto  che  i  mora-   .  listi  sogliono  rimproverare  al  bel  sesso.  Quindi  essi  dicono,  che  mostrare  molto  spirito  *      colle  donne  non  è  il  miglior  mezzo  per  conciliarsi,  ,  ,         il  loro  animo.  Una  dama  d'alto  tono  che  si  era;  I  '    ,     scelto  per  amico  un  giovine  di  beli'  aspetto  e  di  '  •  ^    molto  spirito  ,  gli  disse  un  giorno  che  poteva  ri-  i  tirarsi,  perchè  ella  non  amava  le  persone  che  par^   lavano  troppo.  .    vFin  dal  pergamo  fu  rimproverato  alle  donne  '  •  .    -  l'accennato  difetto  :  un  predicatore  parlando  avanti  I  UA  consesso  dì  monache  nel  giorno  di  Pasqua/   I  diede  loro  ad  intendere  che  Cristo  risuscitato  coin-   '  parve  alle  donne  prima  che  ai  discépoli ,  acciò  la   nuova  della  sua  risurrezione  più  rapidamente  si  diffondesse.   i  11  suddetto  difetta  potrebbe  essere  confermato   }  dall'uso  delle  donne  negre  della  riviera. di  Qs^m-    d  j    tot.  le  ^uaH  essendo  applio^tisshne  ai  labori  ;  glioBO ,  a  fina  ^'^fitace  hi  maldicdiusa  0  i  diseoiti  inutili  ,  empirsi  la  bocca  d'acqua  mentre  lavorano..   La  leqoacità  dette,  domiet  seoondo  che  io  ne  giu«  dieé,  a  due  Ani  d^lta  fimportanzia*  éorridi^nde.   L'uno  si  è  che,  essendo  é$$e. te  prime  educa-triei  éé  faneiiilll')  detona  esiereltttfe  te  fero  .tenere^  orecchie  con  un  cicaleccio  continuo,  e  imprimere  Ìb  ^ue'édb^li  cernili  oiolte  tracce  ideali,  che  senza,^  questo  soccorso- diffleHmente  Vi  «gioirebbero.  '  .'1)  seeogdq  si,  è  .  che,  essendo  esse  destipate  a  «ìMi^iEnfel^ra  aspra  la  vita  airaomo,.  dover*   vano  essere  dotate  d'una  sensibilità  squisita  che  a  lotti  ì  di  lui  affetti  prontamente  si  risentisse,  e  della  facoltà  d'  insiniìàVs^  gqrbo  nqf  di  l«i   allibo,  ìi|jtrattenerlo  oaa  sentimentale  colloquio  ed  àHeirtariiét  té  pene:  tton  saprei  ben  dire  se  questo  sia  il  motivo  per  cui  generalmente  le  donne  supe-  rbie gli  n^minLoella  gra^^ia  della  voce  e  del  canto.   Giovenale,  come  tanti  altri  poeti  dopo  di  lui  v  ha  eensurato  la  loquacità  deUe  donne  letterate  ne',  segufati^'veirn:   «   /  *  .  .  .  .  .  SI  tosto  ,   ^  '  i>  T'assidi  a  mensa,  essa  1^  mensa  in  scuola^.  »  EcQO  ti  cangia  ^  é  dà  sentenze  e.-npr|Be,  /  »  Loda  il  cantor  d'Enea,  s'intenerisce. Per  la  pQv.era  Elisa  ^  i  due  poeti  '  '  »  Mette  al  paraggio;  a  ima  bitaneia  appende ,  »  In  un,  gùscio  Maron,  neir  altro  Òmero.  »  Orammatici  ,  rettorìd,  seolastiei  «.^  .  '     i>  Ite  a  rfporvi  :  i  convittor  son  muti PiissuQ  fisponde;  e  chi  tentar  latria  .    s    ;    »  D'arresUrue  la  foga?  Un  avvócatd,     y  -   . B'altre  donne  uno  stuol  ;  tal  dalla  bocca  <  Vei^  (NTi^vio  ^  parote^  e  tale        ^  r-Stridor  mòtesto;  e  tintinnìo  di  voei^ Che  un  picchiai  di  patini  e  cauipaneU.!  '  »  D'udir  ti  sembra  i  »rrà  piHtrìa  sot-  ;  .)i  Senz' altra  aggiunta^  di  caldaie  o  trorobe. Recar  ^eoisso  ^ti!  ii^iHuitata  inaa  «^t»    -  -   .  Qnestà  gairrulita  è  condannabile  n^lle.dQnàè  gualmente  che  iiegli  uoinini  i.  e  ciò  che  Aiolièjre  ba  detto  nella  sua  commedia  cóntro  le  donm  sac^  cenli^  ai  saccenti  in  generale  sì  applica.  La  noia  che-  viene  prodotta  dalla  loquacità  noq. scema  in  milione  della  barba  di  chi  parla,  meatre  air  op-  posto un  bel  detto  cresce  di  |^regio  se  esce  da  bel  labbro. TaciturnUà.  ,   lia  storia  d' Atene  e  di  Sparta  due  estremi  -ci  piTe^nta  nel  modo  di  parlare.  Gli  ^Ateniesi  érana  talmente  invasi  dalla  manìa  ciarliera  ^  cbia  lunghe  dissertazióni  dicevano  so|tfa  Inezie,  vi  spiavano  dottamente  in  quanti  modi  può  eseguirsi  una  CA-  vriola,  parlavano  ad  alta  vo((e  in  pub|ilic0|  dispu-  tavano per  le'  strade,  si  fermavano  eui  mereati,  e  ricoveravansi  sotto  d'un  portico  per  risolvervi  dQ*  problemi  nel  modo  più  rumoroso.  Plauto  li  de-   scrive  in  atto  di  portare  sotto  le  pieghe  del  loro  manto  pateechi  libri  per  convincere  i  loro  avver-»  Mrii  eon  assiomi  e  sentenze  decisive.  Gli  SpUrtUfir-all'opposto  erano  più  silenziosi  delle  pietrcr    Disapprovando  la  verbosità  degli  Alenicsì  e  la  V  taciturnità  degli  Spart.an?,  condannerò  con  maggior  y  ragione  il  laconismo  degli  ultimi,  i  quali  non  ri-  |  >^'1^pondendo  che  con  monosillabi,  lasciavi^no  scor-  ^  '^gere  un  orgoglio  offensivo..  Filippo  re  di  Mace-  '  donia  avendo  scrìtto  agli  Spartani  che  avrebbe  fatto  i   le  sue  vendette  se  entrava  nel  loro  territorio,  que-  ^  Bti  aljro  non  risposero  se  non  che  Se.  Gli  stessi Spartani  scrivevano  lettere  molto  laconiche,  cioè  H  impertinenti  ;  ma  dacché  furono  compiutamente.    'i.    i    battuti  a  Leutre  ,  cominciarono  ad  allungar loro frasi.  Son  io,  diceva  Epaminopda,  che  ho  inse-  ^  guato  loro  questa  civiltà.  La  taccia  d'inurbana  data  alla  tacilurnilà  è  dun^  'ì'  ì  que  molto  antica,  e  con  ragione  /  principalmente  i  quando  son  le  persone  adulte  che  tacciono;  giacchè  se  è  necessaria  la  riservatezza  per  non  esporre  pensieri  che  poscia  si  vorrebbe  invano  rivocare,  '  non  fa  d'uòpo  spingerla  al  punto  da  rendersi  muto.  Una  persona  taciturna  nella  conversazione  è  una  persona  che  vuole  entrare  in  teatro  senza  biglietto  d'ingresso;  è  una  persona  che  vuole  godere  senza  contribuire.    Una  persona  taciturna  diviene  incomoda  per  più ragioni. Ella  arresta  la  comunicazione  de'sentimenti ,  i  quali  sogliono  acquistar  forza  diffondendosi. Presenta  l'idea  d'un  censore  severo  che  sem-  r  brà  accusare  gli  astanti  di  frivolezza. Eccita  una  diffldenza  non  favorevole  alla  giovlalità. Una  persona  chè  parla  ci  dà,  per  cosi  dire,  la  -  misura  delle  sue  forze  :  le  sue  idee,  i  suoi  sentimenti ,  i  suoi  gusti ,  i  moli  della  sua  fisonomia ,  \a  qualità  de'  suoi  gesti  la  palesano  al  nostro  sguardo  :  noi  sappiamo  come  fa  d'uopo  regolarsi  con  essa.  All'opposto  una  persona  che  tace,  in-  spira difUdenza,  perchè  si  diffida  di  tutto  ciò  che  non  si  conosce.   D'altra  parte  non  si  sa  che  cosa   'possa  piacerle  o  spiacerle:  questa  incertezza  diviene  un  limite  illegittimo  alla  facoltà  d'agire  e  di  par-  lare ,  quindi  è  penosa.  Finalmente  ,  siccome  nel   i^commercio  V  amor  proprio  d'  un  negoziante  resta  offeso  allorché  vede  rigettate  1^  sue  cambiali,  cosi  nella  conversazione  spiace  all'  amor  proprio  degli  astanti  la  vista  d'una  persona  che  non  corrisponde  alla  loro  allegrezza  ,  e  ricusa  d' accomunarsi  con  essi;  perciò  più  facilmente  viene  perdonata  la  frivolezza che  la  taciturnità. La taciturnità può essere prodotta da cinque cause. Mancanza  d'idee  o  stupidezza.  In  questo  •  caso  è  certamente  miglior  consiglio  tacere  qhe  par-  lare;  giacché  parlando  si  procurerebbe  spregio  a  se  stesso  e  noia  agli  altri.  Le  persone  taciturne  che  appartengono  a  questa  classe  sono  tollerate  "nelle  conversazioni  come  si  tollerano  nella  società  '^1  bisognosi  impotenti  :  la  pubblica  beneficenza  gli   alimenta.  Non  potendo  contribuire  alla  conrersa-  izione,  esse  devono  rappresentare  il  personaggio  '  dèlia  scimmia  ,  cioè  atteggiarsi  a  norma  de'seuti-  :  menti  che  si  dimostrano  dagli  altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualità si trova talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e proviene da mancanza d' educazione e  di  pratica:  è  una  debolezza  che  merita  Indulgenza,  almeno  sul  principio,  benché  faccia  torlo  alla  società  privandola  di  molte  idee  utili  ;  dico  almeno  sul  principio  ,  giacché  un  po'  d'esperienza  dandoci  la  misura  delle  altrui  forze  e  delle  nostre,  questa  diffidenza  deve  sparire  se  non  é  unita  a  stupidezza,  ii» Scarsa  scienza  è  molta  vanità.  Alcuni  non  osano  di  contraddire  perchè  non  soffrono  d'essere  contraddetti  ;  la  loro  pazienza  non  é  che  un  timido  orgoglio;  il  loro  silenzio  é  un  mezzo  di  sicurezza;  essi  tacciono  per  non  esporsi  alla  censura.  /4.  Stolto  orgoglio.  L'amor  proprio  raffinato  e  tronfio  sdegna  di  prendere  parte  alle  frivolezze  della  conversazione,  e  di  comunicare  agli  altri  i  suoi  più  che  sublimi  concetti.  Si  danno  anche  uditori  disdegnosi  che,  per  non  accordare  legger-  mente la  loro  ammirazione,  ricusano  l'approva-  zione più  meritata. Malizia.  L'orgoglio  va  spesso  unito  a  cattivo  carattere  ;  quindi  il  silenzio  é  non  di  rado  effetto  della  malizia.  Ritornando  dalla  conversazione,  in  cui  non  proferirono  una  parola,  alcuni  passano  a  rivista  tutto  ciò  che  vi  fu  detto,  con  intenzione  di  censurare  i  discorsi  più  indifferenti  ;  osservatori  malevoli  ,  il  silenzio  de*  quali  é  uno  spionaggio  sempre  pronto  ad  abusare  del  vantaggio  che  le  anime  false  e  fredde  sulla  franchezza  e  la  veracità  agevolmente  ottengono.  Fu  dimandato  a  M.r  Fontanes  9  celebre  matematico,  che cosa  faceva  nelle  conversazioni  ove  slava  sovente  taciturno  :  Sto  osservando^  diss'egli,  la  vanità degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo! Alcuni  finalmente  non  sono  taciturni  nelle  con-  versazioni, ma  misteriosi  :  essi  dicono  alcune  cose^  e  poscia  troncano  il  discorso  con  aria  d'impor^^  *  tanza  e  mistero.  Questa  condotta  è  doppiamente  censurabile  ;  giacché  da  un  lato  eccita  una  curio-  sità che  non  resta  soddisfatta  ,  dall'altro  fa  sup-  porre che  crede  gli  astanti  inoapaci  di  silenzio  o  capaci  di  tradimento.  Egoismo.  #   r  ir   Se  alla  loquacità  s' unisce  V  egoismo,  cioè  se  parliamo  sempre  di  noi  ste&i ,  de*  nostri  gusti ,  delle  cose  nostre ,  in  somma  di  quanto  ci  appar-  .tiene ,  siamo  certi  d'annoiari»  gli  astanti  oltre  mi-  sura. È  difficile  di  ritrovare  un  viaggiatore  che  sia  sobrio  nel  racconto  de'suoi  viaggi  ;  un  cliente  delle  sue  liti  ;  un*galante  delle  sue  avventare»  ecc.,  .  senza  aspettare  che  l'analogia  delle  idee  guidi  il  discorso  ove  essi  vogliono  ,  taluni  parlano  della  loro  moglie  che  è  un'ottima  creatura,  de'loro  figli  cJiie  hanno  sortita  ìndole  divina  ,  de'  loro  maestri  che  sono  altrettanti  Socrati,  de'loro  affari  che  tutti  vanno  a  maravigliai  de'  loro  nemici  che  sono  il  fior  de'  birbanti ,  ecc.  :   u  Di  sé,  de' suoi  pernierà  de'  sogni  suoi  »  Perpetuo  citator,  storia  e  giornale  »•  *   Invasi  da  questa  manìa  si  mostrano  spesso  i  gip-  vàni  poeti,  perchè  lusipgandf^i  facilmente  d'avere  composto  sublimi  versi,  vogliono  recitarli  anche  ai  sordi. inedtartoir  acerbo  »  In  fuga  volge  e  ignorante  è  1  dotto  ;  '  »  Se  poi  ne  abbranchi  alcunOf  il  tìen,  l'uccsMIe*  1»  Leggendo  ognor  ;  mignatta,  che  la  cute  »  Non.  lascia  pria  che  ae  rilK)cchi  ii  saague. La  stoUem  e  la  vanità  giungono  talvolta  a  segno^  che  non  potendo  far  oggetto  dell' altrui  attenzione  te  nostre  heUe  qualità,  le  presentiamo  i  nostri  in-  comodi^ lenostre  .  debolezze  9  la  nostra  pusillani-  mità, e  talora  que'raali  che,  essendo  comuni,  non  meritano  speciale  riflesso.   «  i'  A  che  lai  lezzi,   »  Schizzinoso  mortai ,  e  con  qual  dritto  '  i>  Pretender  puoi  d' esser  tu  solo  esente  )»  Da  la  sorte  comnn,  come  se  fossi  r>  Il  figliuolin  della  gallina  bianca,  1»  Moi  vili  polli  e  di  vii  uovo  usciti  ?  »   Cresee  r impertinenza,  se  alla  voglia  di  ptflmre  sempre  di  sè,  si  unisce  la  pretensione  di  superare  in  tutto  gli  altri.  A  sentire  qualche  stolto,  i  suoi  cavalli  ilono  più  veloci  di  quelli  d' Achille,  i  suoi  jiervi  più  avveduti  di  Ulisse,  il  suo  cuoco  più  sagace  d'Apicio,  ecc.  Il  sole  comprimi  ed  ultimi  raggi  saluta  il  suo  palazzo  ;  l'aria  non  è  pura  fuor-  ché nelle  sue  campagne  ;  in  nessun  gianlino  olez-  zano sì  soavemente  i  fiori  come  nel  suo.  Chi  si  move  in  una  danza  con  maggior > garbo  di  lui?  Al  paragone  della  beHesza  non  potrebbe  egli  con-  tendere il  ponto  alle  tre  Dee?  ecc.  Quindi  ora  pretende  al  sublime  onore  di  passare  prima  degli altri  (I)  ;  ora  si  lagna  ,  perchè  non  pieghi  sino  a  terra  la  fronte  chi  gli  fa  di  cappello  ecc.   I  suoi  vanti  giungono  sempre  alla  menzogna  quando  parla  con  persone  che  non  lo  conescono.  !•  •  a  E  sei  miglia  lontan  dal  suo  paese  »  Tal  faceva  il  signor,  barone  o  conte.Ch'ivi  guardava  i  porci  per  le  spese  ».  f  ^  Siccome  gli  uomini  vogliono  più  applausi  die  istruzione  ,  inclinano  più  a  censurare  che  ad  ap-  plaudire;  perciò  comparir  nelle  conversazioni  più  di  sè  occupali  che  degli  altri  ,  voler  primeggiare  sopra  tutti  ,  pretendere  di  singolarizzarsi  a  spese  altrui,  è  il  più  sicuro  mezzo  per  rendersi  sprege-  vole e  ridicolo,  /j/vj   .  La  smania  di  rappresentare  un  personaggio  di-  stinto nella  conversazione  e  rendersi  lo  scopo  di  tutti  gli  sguardi ,  è  il  difetto  principale  degli  uo-  mini di  spirito  ^  i  quali  perciò  amano  meglio  tal-  volta di  conversare  con  persone  di  poca  levata  cui  possono  dar  legge  coloro  discorsi  ,  di  quello  che  ritrovarsi  in  crocchio  coloro  simili,  da  cui  temono  di  .riceverla  ;  cioè  preferiscono  d'essere  re  in  una  cattiva  compagnia,  alPessere  sudditi  in  una  buona.  Ma  solamente  una  vanità  puerile  può  compiacersi  dell'omaggio  di  quelli  ch'ella  disprezza  (2).   *  (I)  Due  donne  di  primo  rango  ti  movevano  querela^  pre-  tendendo runa  suir  altra  il  passo  in  una  chiesa  y  e  assorda-  vano colle  loro  dispute  i  tribunali.  Carlo  V,  per  impedire  le  cabale  .cui  poteva  dar  luogo  questa  sì  seria  contesa,  stimò  a  proposito  di  farsene  arbitro  ,  e  decise  che  11  diritto  d'  an-  dare avanU  apparteneva  alla  più  stolta  delle  contendenti.   (2)  L'abate  Testu  ,  dice  d'Alembeit ,  dominava  principal-  nieDte  all'  Hòlel-Richelieu,  ovo  era  l'oracolo  e  l'amico  intimo    ^iqitif L'amore  disordinato  di  noi  stessi  ténehdoci  fissa  avanti  lo  spirito  V  idea  delle  nostre  qualità  ,  V  in-  grandisce snrìisuratamente,  come  il  sol  eadente  in-  grandisce l'ombra  del  nostro  corpo  e  la  fa  com-  parir gigantesca.   Può  essere  citato  sotto  questo  articolo  il  difetto  4i  coloro  che  la  loro  arte  o  professione  innalzano  '  sopra  tutte ,  e  vi  mostrano  i  beni  immensi  di  cui  è  fonte;  e  vi  provano  con  cento  argomjenti,  che  se  sparissero  tutte  le  altre,  essa  sola  sosterrebbe  la,  società  cadente  e  le  darebbe  lustro.  Da  ciò  nasce  una  serie  indefinita  di  sgarbi,  di>spregi,  di  censure  alle  volte  ingiuste,  spesso  false  ,  sempre  ìmpulit;e.  Un  buon  prete   cui  confessavasi  Despréaux  ,  gU  dimandò  Qual  era  la  sua  professione.  —  Io  sono  poeta ,  rispose  il  penitente.  —  Cattivo  mestiere,  replicò  il  prete  :  e  poeta  in  qual  genere  ?  —  Poeta  satirico.  —  Amora  peggio  ;  e  contro  chi-  fate  voi  delle  satire  ?  —  Contro  i  compositori  difxommedie  e  di  romanzC  '^^Òh  !  per  questo aggiunse  il  prete,  alla  buon'  orix  ;  e  gli  diede  fas-  soluzione  immediatamente.  In  conseguenza  delPac-  cennata  impulitissima  pretensione  Alcibiade  diede  uno  schiaffo  ad  un  maestro  di  rettorica,  perchè  non  aveva  un  esemplare  delle  poesie  d'Omero  ;  ed  un  altro  adoratore  di  questo  poeta  fece  voto  di  .   della  duchessa  di  questó  nome,  ^lìceome  egli  non  amava  d'essere  contraddello,  ma  molto  di  essere  ammirato ,  perciò  gli  andava  poco  a  sangue  il  commercio  degli  uomini ,  più  conlenlo  di  brillare  in  un  circolo  di  donne  che  talora  col  suo  dir  sorprendeva ,  talora  adescava,  secondo  che  meno  o  più  gli  piacevano.  ^  ^  ,   t   leggere  Ogni  giorno  mille  versi  di  esso»  a  ripara-  zione     tarli      gli  venivano  iattL  -  ^  .   \Irritabilità  e  ruvidezza.   Lo  spirito  stizMso  è  ii  flagello  deH^^Niéi^tà'i  come  il  carattere  dolc«  ne  è  il  ba)san(M),       ^  ^  .»Iiiriitàbilità  rende  deeuplo-'il.fientìmjeiito.ctolAh  supposta  offesa:  e  spesso  ha  fonte  neir ìntima  p^sijasiooe  di  non  meritare  alcun  riguardo.  Quindi  le*  peiisMe  più  ^irtilei)Ui  smé'  per  lo  fiià4e? teste  più  piccole,  più  vuote,  più  prive  di  qualità  reati."  Gcnìvinte  dqlla  ..kro  .BiiUftà.>  iMiinam  a-  mdenl  scopo  dell'altrui  spre^?o,  e  si  confermano  in  questa  idea  ad  j^oi/miaima  eerknoma  che  per  ioavverf  lénaa  vengà  cdii  «ssè  traseuràta.^  Uina  parole  eftig«  gita  in  un  momento  di  calprCi- di  vivacità,  d'àlle^  grezza,  viene  da  ^se  esaotlnata  con  tutto  il  rigorè,  non  dico  della  logica,  ma  del  puntiglio,  staccata  da  quelle  circostanze  che  se  non  la  giostificanò  pienain6iite<  la^dimò^tranO'  figlia  pintlMto''4eH'  ,  riflessióne  che  delio  malizia.       '  r^-r  I    L-esser  tenera  e  vezzo6CKaBìci»*(it  ditdiee  aseai;"  »:dicc  monsignor  della  Casa,  e  massimamente  agli  M.  i^omioi;  iNsreiocchè  l'osare  con  si  &tta  maniera  «:  di  pet*s0Be  non  pme  eompagnia-me  servitù  re  »  certo  alcuni  se  ne  trovano  ohe  sono  tanta  tenerr  '>  e  fragili  4,  che  il  viv.ere  e  dimorar  con  «asdoìfo,  »  ninna  altra  cosa  è,  che  impacciarsi  fra  tanti  •  »  sottilissimi  vetri;  così  temono  essi  ogni  leggier   '^ercosisé,  e  così  conviene  trattargli  e  riguardar*  »•  gli  :  1  qijali  così  si  crucciano,  se  voi  non  foste  1*  così  pronto  ^  fioUeeìto  a  sduladii  a  visitarli ,  a  »  riverirli ,  ed  a  risponder  loro,  come  un  altro*.     farebbe  d'un'  ingiuria  mortale;  e  se  voi  non  dato  »  loro  così  ogni  titolo  appunto,  le  querele  aspris-  »  sime  e  le  inimicizie  mortali  nascono  di  presente.  »  l^oi  mi  diceste  messere^  e  non  signore.  E  per-  »  chè  non  mi  dite  voi  S.  ?  Io  chiamo  pur  »  voi  il  signor^  tale.  Ed  anco  non  ebbi  il  mio  »  luogo  a  tamia  !  E  ieri  non  vi  degnaste  di  »  venire  per  me  a  casa,  come  io  venni  a  trovar  i^voi  Valtr*  ieri.  Questi  non  sono  mòdi  da  tener  con  un  mio  pari.  Costoro  veramente  recano  le  »  persone^a  tale,  che  non  è  chi,  li  possa  patir  di  »  vedere ,  perciocché  troppo  amano  se  medesimi  »  fuor  di  misura;  ed  in  ciò  occupati ,  poco  di  »  spazio  avanza  loro  di  poter  amare  altrui;  senza  »  che  gli  uomini  richieggono  che  nelle  maniere  di  w  coloro  co'  quali  usano ,  sia  quel  piacere  che  può  »  in  cotale  atto  essere  ;  ma  il  dimorare  con  sì  ì>  fatte  persone  fastidiose ,  l'amicizia  delle  quali  sì  )^  leggiermente ,  a  guisa  di  sottilissimo  velo  ,  si  w  squarcia,  non  è  usare  ma  servire,  e  perciò  non  *  solo  norf  diletta ,  ma  ella  spiace  sommamente.   »  Altri  a  nissuno  mai  fanno  buon  viso;  e  vo-~  »  lonlieri  ad  ogni  cosa  dicono  di  no;  e  hòh  prèri-   dono  in  grado  nè  onore  nè  carezze  che  loro  sf  >i  faccia,  a  guisa  di  gente  straniera  é '^barbara  ;  non  »  sostengono  d'essere  visitati  ed  accompagnati  ;  e  »  non  si  rallegrano  de'motti  nè  delle  piacevolezze;  »  ^  tutte  le  proferté  rifiutano.  Messér  tale  m*im-  »  pose  dinanzi  ch'io  vi  salutassi  per  parte  sua.  »  —  Che  ho  io  a  fare  dei  suoi  saluti  ?  ^  E-  >l  messer  cotale  mi  dimandò  come  voi  stavate.^  »  —  Fenga ,  e  sì  mi  cerchi  il  polso  »  La  naturale  rozzezza  dell'  uomo ,  fa  mancanza  d^educazione  ,  una  stolta  vanità  ,  la  piccolezza  di  spirito  ,  talvolta  dei  risentimenti  amari ,  talvolta  Fimpossibilità  di  partecipare  ai  piaceri  sociali ,  ba-  stano a  spiegare  in  generale  gli  accennati  difetti.   Una  causa  speciale  d' irritabilità  e  ruvidezza  si  era  per  Taddietro  uno  stolto  orgoglio  di  famiglia,  per  cui  alcuni,  persuasi  d'essere  vasi  d'oro,  e  cre-  dendo tutti  gli  altri  di  fango,  sfuggivano  ogni  con-  tatto con  essi ,  si  mostravano  alieni  da  ogni  con-  fidenza,  s'atteggiavano  a  sprezzo  abituale  come  queir  Omberto  Aldobrandeschi  a  cui  Dante  fa  dire,   «  L'antico  sangue  e  l'opere  leggiadre  »  De'miei  maggior  mi  fèro  sì  arrogante,  »  Cbe  non  pensando  alla  comune  madre  ,  »  Ogni  uomo  ebbi  in  dispetto  tant*avante  ,  ^  Cb'  io  ne  morii   »   Finalmente  vi  è  una  irritabilità  e  una  ruvidezza  che  è  figlia  di  timori  immaginarii.  —  Un  asino  sta  mangiando  il  suo  fieno  ;  voi  gli  passate  a  fianco  senza  pensare  a  lui  ;  egli  si  volge  e  vi  mostra  i  denti,  temendo  cbe  vogliate  rapirgli  parte  del  suo  pasto  o  tulio.  —  In  questo  stalo  d'allarme  si  trovano non  di  rado  alcuni,  percbè  credono  d'avere  sempre  qualche  nemico  a  fronte  ;  quindi  stanno  continuamente  sulle  ditese,  pronti  anche  ad  assa-  lire chi  non  ha  giammai  pensato  ad  essi.  Uno  sguardo  incerto,  una  parola  dubbia  ,  un  atto  che  non  sanno  spiegare,  eccita  tosto  il  loro  mal  umore;  quindi  succedono  degli  sgarbi,  parecchie  amicizie  cessano ,  delle  nimistà  sottentrano  ,  e  l' allegrezza  dalla  conversazione  sparisce.    Contro  i  quali  difetti .  vatgpna  i  seguenti  ri-  flessi.   I.  La  società  è  una  piazza  di  commercia,  ove  8i  dà  amor  per  amore  «  .stima  per  stima,  odio  per  odio,  sprezzo  per  sprezzo.   Jn.q«iesto  camliia  d'affetti  ciascuno  procura  di  non  essere  ingannato,  e  rieiisa  é}  dar  più  di  quel  ctie  riQeve.   L'orgoglioso  vorrebbe  violare  queste  due  lef^i  ;   egli  dà  sprezzo,  e  vorrebbe  ammirazione  :  egli  dà  poco  o  nulla ,  e  vorrebbe  motto  ;  quindi  s' irrita  non  rfeevendo  !n  proporzione  delle  sue  pretensioni  ;  egli  è  irragionevole  come  colui  che  con  pochi  cen-  tesimi volesse  eomprar  delle  gemme.   Il  tempo  che  perdete  in  lagnarvi  inutilmente,  in  prepararvi  a  difese ,  in  mulinare  contro  chi  non  pensa  a  voi ,  occupatelo  a  rendervi  stimabile  in  qualche  cosa,  e  coglierete  rispetto  e  contentezza  >  mentre  attualmente  cogliete  sprezzo  e  rammarico.   II.  É  ottima  cosa  la  sensibilità  airopinione  pub-  blica, perchè  è  stimolo  alla  virtù  e  ritegno  ai  vizi  ;  ma  è  pazzia  il  far  dipendere  la  propria  felicità  dairopinione  eventuale  di  questo  o  di  quello.  «   *  «  Brami  invan  d'esentarti  alle  punture  ,  »  Se  fòf  d' A  pelle  infin  Topre  Immortali  »  D'un  ciabatti Q  soggette  alle  censure  ».   Pretendere  che  la  nostra  condotta  ottenga  Tappro-  vazione  di  tutti,  è  nretendere  che  a  tutti  piacciano  le  stesse  vivande,  i  falsi  giudi%i  del  volgo  non  tolgono  pregio  alle  nostre  azioni,  come  le  nubi  non  tolgono  pregio  alla  hice  del  sole.    Chiama  in  Roma  più  gente  alla  sua  udlenea  »  L'arpa  d'aoa  Ucisca  cantatrice^  »  Che  la  eampafia  della  Sapienaa.   »  Laseino  omai>  le  dispute  e  i  litìgi   »  Il  Portico  e  il  Liceo,  poiché' et  MllM  •  »  Più  di  Talete  un  aarto  di  Parigi.  »   *i^ì  sono  delle  persone  dalle  quali  essere  lo4a(p  sa-  rebbe infamia,  e  lo  sprezzo  delle  quali  è  segnò  4|  merito.  $iate  dunque  sensibile  air  opinione  pub-  blica^ e  sordo  alle  yoci  .p^rtioolari  cbe  da  es^   discordano^  ricercate  l'approvazione  delle  per-   som  assennata 2;iV^2^o5e,^e  ridetevL4f)U§  dpgli  sciocchi  e  de'yiziosL      \  *t   Uq  .vi^giatore,  dice  Boccalini,  era  importunato  dal  rumore  delle  cicale  ;  egli  yolle  ucciderle,  e  sì  allontanò  dalla  strada;  egli  doveva  continuare  quie-  tatneate  il  suo  viaggio,  e  le  Qical^  sarebbero  wprJje  4a  se  9|M8e  alla  fiue  di  otto  giomL  .   I   •lE  fo  come  il  villan,  che,  posto  in  mez^  '  r  i  V  Al  romor  delle  stridule  cicale,  -  "   •  *  »  Semai  eurare  H  fimeo  strido  toro  D  Segue  traa^uìUamente  il  suo  lavoro.  »   III.  Se  avete  qualche  difetto  fisico,  siate  il  primo  a  riderne  voi  stesso  ;  in  questa  maniera  sfuggirete  airaltrui  motteggio  :  facendo  altrimenti,  mostran*  dovi  tenera  da  questo  lato ,  ognuno  si  procurerà  il  piacere  di  pungervi.  Alfieri,  costretto  a  portare  la  parrucca  nella  $ua  gioventù,  allorché  trovavasi  in  collegio,  divenne  iminediataBiente  lo  scherno  di  tutti  i  suoi  compagni.  «  Da  prima ,  egli  dice,  io    m'era  messo  a  pigliarne  apertamente  le  parti;  »  ma  vedendo  poi  ch'io  non  poteva  a  nisBua  patto  »  salvar  la  parrucca  mia  da  qaello  sfrenato  tor»  »  rente  che  da  ogni  parte  assaltavala ,  e  ch'io  ao-  »  dava  i  rischio  di  perdere  anche  con  essa  me  »  stesso,  tosto  mutai  di  bandiera,  e  presi  il  partito  »  più  disinvolto,  che  era  di  sparruccarmi  da  me  »  prima  che  mi  venisse  fatto  quell'affronto,  e  di  »  palleggiare  io  stesso  la  mia  infelice  parrucca  per  D  l'aria,  facendone  ogni  titapero.  E  io  fatti,  dopo  »  alcuni  giorni,  sfogatasi  Tira  pubblica  in  tal  guisa,  »  io  rimasi  poi  la  meno  perseguitata,  e  dirci  quasi  v  ìa  più'  risj[léttàta  parroeca  fira  le  due  o  tre  altre  »  cb^  ve  n'erano  in  quella  stessa  galleria.  Allora  »  imparai  che  bisognava  sempre  parere  di  dare.  »  spontaneamente  quello  ebe  non  si  potea  impedire  »  d'esserci  tolto.  »  ;  >^  Benedetto  XIV  fece  di  più:  un  cattivo  poeta  aveva  stampata  una  satira  contro  di  lui:  il  Pontc-  0è9%^jBsaminò ,  la*  corresse ,  la  .  rimandò  air  au-  tore, accertandolo  che  cosi  corretta  la  venderebbe   iV.  (%esterfi0ld  aggiunge:  «  IVon  mostìrate  iriai  »  il  più  piccolo  segno  di  risentimento  se  non  potete  i  in  qualche  maniera  soddisfarlo:  ma- sorridete^  »  sempre  quando  non  potete  punire.  Non  si  po:  »  trebbe  viver  nel  mondo  se  non  si  pocesserana^  »  scondere  o  almeno  dissimulare  i  giusti  motivi  di  »  risentimento  che  incontrano  ogni  giorno  in  »  un'attiva  vita  e  affaccendata.  Chi  non^è  padrone  »  di  se  stesso  in  tali  occasioni,  dovrebbe  lasciare   ilmondo  e  ritirarsi  iu  qualche  romitaggio  o  de«  »  serto.  Mostrando  m  inutile  e  cupo  risentimento^,    Digitized  by    4^  LIMQ^EUO  ,   »  autorizzate  quello  di  coloro  che  vi  possono.  of«*  3»  fendere,  e  oh/f  voi  olCeodigre  aoa  potete}  porgete  1»  loro  quel  pretesto  eoa  cui  forse  desiderano  di  ».  Komperla  cop  voi  e  d'iugiuriarvi,  mentre  un  op-  »  pqsto  coQtegBO  li  forzerebbe  a  star  ae'liiniti  delia  »  decenza  almeno,  e  sconcerterebbe  o  farebbe  pa-  »  lese  la  loro  otalfgoità  V  *  J  ^.^  ^ii^'  In  somnia^  sodo  le  deboli  canne  che  si  lasciano  turbare  da  ogni  soffio  di  vej^o ,  pentrj^  le  alte  gtt€pr0e  réslstoiK)  agli  aquiioni. Finché  dunque  si  tratta  d'ingiurie  lievi,  la  mi-  glior^ risposta,  si  è  il  sorxiso  del  dispre^ui^o;  ma  Quando  iti  tratta  d' ingiurie  gravi  ché  offendano  l'onorey  chi  le  soffre  le  merita;  il  risentimento  in  'questi  casK  è  cosi  jiusto  come  è  giusta^lsi  legge  che  le  punisce.  .  .  ^à^l   \  i  10.  Curiosità  degli  affari  altrui.   >   Non  può  abbastanza  censurarsi,  perchè  contraria  alla  confidenza  e  quindi. all'allegrezza,  la  smania  di  eeloro  che  vogliono  conoscere  tutti  gli  affari  altrui^  saperne  le  più  minute  circostanze,  e  dei  nomi  chieg-  gono notìzia  a  de' luoghi ,  e ,  per  trarvi  di  bocca  qualche  cosa  di  più ,  pria  fingono  di  non  avere  bea  intesot  poi  vi  dimandano  schiarimento  ad  un  dub-  biti^  orarvi  piantano  avanti  un  sospetto  come  in*  fallibile,  e,  vedendo  che  lo  respingete,  mostrano  di  riciedersì  passando  al  sospetto  opposto,  e  dalla  nuova  vostra  negativa  o  maraviglia  fatti  accorti  si  ripiegano  aopra  se  stessi  per  ritornare  airattacco  ;  e  0  non  gran  pompa  «di  tolleranza  v'  invitano  ad  aprir  V  animo ,  o  con  improvvisa  ed  isolata  interrrogazione  vi  sorprendono  :  e  tenendo  gli  occhi  fissi  sopra  di  voi ,  cercano  di  leggervi  nel  volto  V  im-  pressione che  fanno  i  loro  discorsi  ,  la  quale,  pav  - ragonata  e  unita  alla  vostra  risposta  ,  serve  loro  di  via  per  giungere  al  vero.  Questa  curiosità  conduce  -i  ciarlieri,  i  parabolani,  gli  invidiosi,  i  tristi  per  tutte  le  case ,  i  palchi ,  i  caffè,  onde  raccogliere  e.   raccontare  i^.^^   •  •      •  >  '  it   ......      ie  vicende  ascose       :  '  .   w  Degli  instabilì  amor,  le  cagion  lievi  ^^   X         »  Dei  frequenti  disgusti,  i  varii  casi   »  Del  dì  già  scorso,  le  gelose  risse,       \  ^   »  Le  illanguidite  e  le  nascenti  fiamme Le  forzate  costaiize  e  le  sofferte.*'  '   »  Con  mutua  pace  infedeltà  segrete,  •   »  Dolci  argomenti  a  feraminii  bisbiglio  »^  .   Questo  prurito  d'indagare  le  faccende  altruf  è  tanto  più  attivo,  quanto  più  si  manca  di  idee  e  di  sentimenti  proprii;  giacché  il  nostro  animo  volendo  ^un  continuo  pascolo,  se  non  ne  trova  in  se  stesso*  .  va  per  le  altrui  case  a  questuarne  (1).  v  •  ^  Senìbra  che  anco  la  vanità  concorra  a  rendere  il  pungolo  della  curiosità  più attivo.  Si  crede  acqui-  "    —   *i  '  ir   (I)  L'Imperatore  Claudio  sarel)be  morto  di  noia  se  noi)  •  si  fosse  occupalo  ad  ascoltare  tutte  le  cause  che  si  agitavano  :nel  foro,  ed  a  conoscere  tutti  i  segreti,  gli  accidcnU,  le  sven-  ture,i  piccoli  odii,  gli  intrighi,  i  pelegolezzi  delle  famiglie.  Gli  avvocati,  cui  era  nota  questa  sua  debolezza,  lo  prende-  vano alle  volte  per  i  piedi  e  lo  trattenevano  in  tribunale  al-  lorché egli  voleva  partirne.  Le  dimande  inopportune,  le  ri-  spostestolte,  i  riflessi  ridicoli  di  qlieslo  preteso  giudice  mei  \  levano  in  tale  evidenza  la  sua  stupidezza,  che  un  avvocato  *    :      ,v.'  ,   .Starsi  qualche  grado  di  gloria  nel  poter  dire  lo^lo  io  l'ho  veduto  :  infatti  gli  stolti  e  gli  scioperati  •  amniirano  queste  notìzie,  e  credono  uom  d'acuto  e  ;  perspicace  ingegno  colui  che  le  spaccia;  mentre  tutto  :  il  suo  ingegno  si  riduce  a  prestare  le  sue  orecchie  ai  discorsi  degli  altrui  servi  e  nio;izi  di  stalla.  >^  Siccome  in  tutte  le  classi  sociali  sta  la  realtà  all'apparenza  come  la  grossezza  della  rana  alla  grossezza  del  bue  ;  siccome  ciascuno  si  sforza  di  coprire  con  color  lusinghiero  le  proprie  debolezze,  quindi  il  curioso  che  vuole  spingere  lo  sguardo  /sotto  al  velo  delle  cose,  offende  sensibilmente  l'al-  trui amor  proprio,  e  tanto  più ,  quanto  che  da  un  lato  si  temono  maligni  commenti,  dall'altro  si  vede  minacciata  pubblicità  alle  proprie  miserie  ed  ai  difetti,  sapendosi  da  ciascuno  che  il  curioso  è  in-  discreto  e  ciarliero.  Sarebbe  desiderabile  che  i  ^  curiosi  venissero  a  scoprire  nelle  loro  impulite  ri-  cerche ora  un'azione  virtuosa  che  la  modestia  vo-  leva sottrarre  agli  altrui  sguardi,  ora  qualche  ac-  cidente che  offendesse  il  loro  amor  proprio,  come  •successe  a  Catone,  il  quale  stimolando  Cesare  a  mostrare  una  littera  che  questi  ricevette  in  pien  senato,  e  di  cui  faceva  mistero  ,  Catone  ,  dissi,  vide  con  sua  sorpresa  una  lettera  galante  scritta  i"di  pugno  di  sua  sorella.   Allorché  sì  tratta  di  cose  alcun  poco  ragguarde-  voli,  il  curioso  corre  pericolo  d'assicurarsi  Tono-  ratissimo  titolo  di  spia  (I).  »    (I)  U  Gozzi  dipinge  nel  modo  seguente  la  comune  curio-  sità de'  faUi  altrui  e  i  suoi  ridicoli  commenti.   («  Sarà  uno  nella  sua  slanza  cheto ,  solitario  ;  penserà ,    Franklin  ci  dà  un  metodo,  se  non  per  liberarci  dai  curiosi ,  almeno  per  troncarne  Y  importunità  ;   1   ^-.v.  .  —  —    •  Jegc;erà,  scriverà,  o  farà  qualche  altra  opera  onorala  :  »  uscirà  di  casa,  anderà  un  poco  inlorno  a  ricrearsi  all'aria  ;  »  saluterà  due  o  tre  amici,  perché  pochi  più  ne  avrà  voluti^  »  sapendo  che  di  rado  se  ne  trova  anche  uno  che  sia  vero:  »  e  appresso  rientrerà  come  prima  a  fare  i  falli  suoi.  Che  »  uccellaccio  è  questo  ?  diranno  alcuni  :  non  è  possihile  che  )»  un  uomo  sia  fallo  a  questo  modo.  Si  comincia  ad  inter-  »  prelare  ogni  suo  atto,  ogni  parola.  Sapete  voi  che  ha  voluto   •  dire  quando  alzò  le  spalle  ?  quello  che  significò  queir  oc*,  »>  chìala?  e  quella  parola  tronca  ch'egli  ha  proferito?  Sicché  il   pover  uomo,  senza  punto  avvedersene,  ha  dietro  il  notaio   »  e  Io  strologo,  e  chi  nota,  chi  indovina,  chi  fa  commenU   »  alla  sua  lingua,  e  a  quante  membra  egli  ha  indosso.  Vo-   »  lete  voi  più?  Tanti  sono  i  sospetU  del  fallo  suo,  che  egli   »  avrà  fatto  nell'  opinione  d'  alcuni  quello  che  non  ha  fatto»  mai,  o  che  non  avrà  sognato  di  fare. Le  cose  di  questo mondo  sono  come  una  matassa  di  filo  ;  chi  non  sa  trovarne  il  capo ,  la  lasci  stare ,  perchè  s' impiglierà  sempre   »  più.  A  me  pare  che  quando  s'  ode  a  raccontare  qualche   »  cosa  d'uno,  si  dotesse  prendere  questa  matassa,  metterla   »  sull'arcolaio,  come  fanno  le  femmine  appunto  del  filo,  scio-   »»  gliere  con  accortezza  il  primo  nodo,  e  preso  il  bandolo  in   »  mano,  cominciar  a  dipanare  con  diligenza,  e,  secondo  che   »  si  trovano  gli  intrighi  e  i  viluppi,  tentare  se  col  candore dell'animo  e  con  la  verità  si  possono  sciogliere.  Se  non  si   H  può,  buttisi  via  la  matassa,  ma  quasi  sempre  credo  che sì  potrebbe  da  chi  non  corresse  troppo  in  furia,  per  vo^   H  lontà  d'ingarbugliare  piuttosto  che  di  snodare.  Questa  u-^   r  ganza  è  quasi  comune.  Benché  la  logica  insegni  in  qual   »  forma  s' abbia  a  fare  per  venir  in  chiaro  di  certe  faccende incredibili  o  inviluppate,  pochi  se  ne  vagliono,  e  menasi  il   n  basloie  alla  cieca,  e  suo  danno  a  cui  tocca.  Quando  il   »  capo  é  principalmente  alteralo  da  sospetti  o  dal  mal  volere   »  contro  una  persona,  si  può  dire  che  questa  sia  una  specie    ivi-    4Sfl  umm  tmM   e  . questo  n^do  coo»ste  nel  precisare  il  disMMio  e  limitame  H  soggetto  in  nòde^  da  'Weliidero  quai^-  lunque  eventuale  dimanda.  Allorché  questo  filosofo    ni   1   0   *  che  doveva  prenderei  sapendo  quanto  erano  curiosi  ^  kiterrogatorì  gli  Americani,  usava  dire  alle  per-  soAe  cui  dnrigevasi:  11  mionome  è.Franklm,  staoH'  patore  di  professione  ;  io  vengo  da  tale  luogo ,  voglio  andare  a  tal  altro  :  quale  strada  devo  tenere?   Dichiarando  impulita  l'eccessiva  curiosità ,  av-^  verto  i  giovani ,  che  in  molti  casi  la  curiosità  è  ;  vinù  ;  perchè  Tindifferenza,  la  non  curiinza^  Tin^  sensibilità  sono  la  massima  offesa  per  Tamor  pro-  prio x^he  vuple  occupare  gU  ititn  ili  S9  atpsso  V  é  ^  conservare  le  apparenze  della  modestia.  La  puli-  tezza v'  impioiie  adunque  dt  chiedere  frequenti  ap-  tfeàief  di  mostrarvi  inquieto  suH' . altra!  aorte  ^  «d  esternar  piacere  o  dolore  alle  altrui  foi  tnne  o  di-  sgrazie. L'infelice,  come  è  stato  detto  altrove ^\  sente  alleviarsi  il  peso  de'  suoi  mali  allorché  gli  4j^e^  al  suo  simile;  ma  q^olte  volte  temendo  d'im-  v  ^tf^unaito ,  si  pasce  di  cordoglio  in  segreto ,  al-  lora fa  d'uopo  che  una  tenera  sensibilità  gli  faccia  una  dolce  vio^enzaf  e  "versi  il  balsamo  della  eon«  ^  solazione  sulle  piaghe  del  suo  animo:  la  curiosità  de' superiori  o  degli  amici  in  questi  casi  diviene  imlesto  rugiada.  •  Parimente,  «ccome  II  timore  dV  equistarsi  la  taccia  di  vani,  consiglia  alcuni  a  ve*  lara  le  loro  fortune  ed  onori  :  qòindi  la  pulitezza^   ,    _    9  •*   y  d'ubbriache/za ,  per  la  cui  forzii  l' uomo  non  vede ,  né  sa  »  più  quello  che  si  dica  o  faccia ,  e  appena  coiX)sce  più  sé  »  medesimo    4Sr   eome. attrai»  ai  àìm  ^  vgoto^ehe  éiiigtaM  il  di*   scorso  da  questa  banda  ,  ma  con  destrezza  e  tale  eanfeaiaQsa  di  parole ,  dm  la  congratulazione  e  l'elogio  seovri  é'adiilaamie  si  mostrino  e  di  men^   «   20goa.  V   In  «oMkia  > Ja  cnriofiità  ò  ripronslbile  qomdo  mi-  naccia pubblicità  alle  altrui  debolezze  e  imperfé«  zioni  ;  è  lodevole  quando  tende .  a  dare  risalto  al  merito  o  porger  aoeeorsò  al  bisogno. Burrasche  delle  conversazioni  i  o  dispute.   'I  glardiAf  de'iilosofi  d'Atene  si  estendevano  dalla   rive  deirillisso  sino  a  quelle  del  Cefìso.  Gli  Epi-  curei sì  erano  stabiliti  al  centro,  i  discepoli  di  Piatone  vèrso  il  Nord,  e  quelli  d^Aristotite  al  Sud.  Non  si  videro  giammai  vicini  men  turbolenti  nè  man  geloìsi:  un  sentiero  d*  ulivo  ^  un  boscbetto  di  mirto,  una  siepe  di  rose  separava  i  sistemi  e  ser-  viva di  limite  al  regno  dell'opinione.  Le  conver*  sazioni  non  «ono  sempre  ugualmente  paciliche;  la  diversità  delle  idee  apre  il  campo  a  lotte  rumorose  accompagnato  e  seguite  da  parecchi  inconvenienti.   §  1.  Idea  della  personalità.   Discutere  è  allegare  le  ragioni  e  gli  argomenti  cui  due  opposta  opinioni  si  '    0   sione  degenera  in  disputa  al  momento  che  qualche  personalità  vi  si  frammischia.   Per  personalità  non  si  intèndono  qui  quelle  pa-  tenti ingiurie  che  la  buona  compagnia  interdice ,  ma  quelle  che,  sebbene  meno  gravi,  non  lasciana  d'essere  nel  tempo  stesso  pungenti  per  Taltrui  amor  proprio,  ed  estranee  alla  cosa.  .  Due  specie  di  personalità  sogliono  per  lo  più  introdursi  nella  discussione,  e  le  fanno  degenerare  in  disputa.  •  >   Colla  1.3  spede  si  fa  rimprovero  air  avversario  ch'egli  parla  per  motivi  particolari,  d'interesse  per  se  stesso,  d'affezione  pe'suoi  amici  o  per  la  sua  classe,  d'odio  contro  i  suoi  nemici,  ecc.  «  Voi  »  parlate  così  perchè  siete  militare  ;  e  voi  negate  »  perchè  siete  prete,  ecc.  »  Ognun  vede  che  queste  non  sono  ragioni  ;  e  quanto  è  facile  di  farne  uso  ad  uno,  altrettanto  riesce  spedito  all'altro  il  ribatterle.   Colla  2.3  specie  sì  dice  all'avversario  ch'egli  non  conosce  la  materia  di  cui  si  parla  ;  ch'ella  suppone  cognizioni  superiori  alle  sue;  eh* ella  è  estranea  alla  sua  professione.  Anche  questo  modo  d'argo-  mentare tende  bensì  a  deprimere  la  persona  del-  l'avversario, ma  non  scioglie  i  dubbi  eh'  egli  pro-  ipove.  Inoltre,  senza  essere,  per  es.,  giureconsulto,  non  è  impossibile  d'avere  delle  idee  giuste  e  nuove  sulla  giurisprudenza. Cause  delle  dispute.   Si  direbbe  che  gli  uomini  inciviliti  amano  le  di-  spute, come  i  selvaggi  i  combattimenti.  Sono  cause  di  dispute  :   I.  //  desiderio  di  conservare  la  propria  libertà.  In  parità  di  circostanze  ciascuno  preferisce  all'ai'*.   litti^ Ja«ia  »9§iMm^  «ppunto  perahà  ò  sm  ^ jqumdi  siamo  tanto  più  resti!  ad  ammettere  l'opinione  altri,  quanto  è  maggiore  13aria  di  epmaoido  con  om  ei  viene  proposta,  fiiif  sottopond  al  nostro  giudizio  un'idea  sotto  le  forme  del  dubbio,  riesce  fià  ,f«eibiimt0  a  eonYtnemi.  dr  ^oello  ^  ehi  >  senza  produrre  argomenti  maggiori,  nfH>stra  di  vo*  ler  dogmatizzare  e  vietarci  ogni  obbiazioiie*  L'uoma  ò  ai  geloso  detta  sua  libertà  intellettuale,  eoitae  la  è. della  «ua  libertà  civile  e  politica.  ^   «  Dopo  molti  acutissimi  argomenti   1»  E  molte  riflessioni  pellegrine   »  E  belle  cose  détte  da^taienti   »  Sì  grandi,  la  questione  ebbe  quél  firó  v  '\l   .  »  Che  soglion  tutte  le  quistioni  avere  v  "  '  •  Cioè  ^estò  ci€iscun,4el,  mo  parere  ».   IL  La  vanUé^^eàe^  uaa  apecie  d'avvilimento^  tìst  sommettere  la  propria  alF  altrui  opinione  ,  percKè'  lo  crede  segno  4'iaferiorità  intellettuale.  Il  dispia-  ,  cere  dì  questa  supposta  infèricirità,  sensibile  in  ttìtì^  cresce  in  ragione  dell'alta  idea  che  ci  formiam  di  noi  stessi,  e  può  (  tant'  è  la.  debolezza  umana  j  )  .  giungere  al  plinto  da  cagionare  la  morte,  come  successe  ad  un  filosofo  dell'antichità  detto  Dìodoro.  Erano  state  fatte  a  questo  sedicente  filosofo  alcune,  obbiezioni,  alle  quali  egli  non  seppe  rispondere  :  lo  sgraaiato  .fu  punto  da  sì  vivo  malincuore  e  di*  spetto,  perchè  il  suo  spilli to  lo  aveva  tradito,  tìm  spirò  air  istante.   è  si  ver4  die*  la.  vanità  è  cavia  di  dispute^  che  il  silenzio  d'uno  de' disputanti  che  resta  nella  propria  opinifma diviene  offensivo  ;per  Taitro.  Il silenzio  in  questo  caso  sembra  provare  che  si  ha  sì  basso  concetto  dell'antagonista,  che  qualunque  ragione  non  basterebbe  per  convincerlo;  quindi  si  risparmia  la  pena  di  parlare.  Costui  vede  dunque  che  mentre  egli  si  sfiata,  il  nemico  sorride,  e  lo  lascia  abbaiare  come  i  cani  alla  luna;  e  che  quindi  egli  non  ottiene  lo  scopo  che  si  aveva  proposto,  cioè  la  superiorità  sul  suo  avversario.  La  Mothe  aveva  detto  male  d'Omero  ;  il  poeta  Gacon  pretese  di  vendicarlo;  la  Mothe  non  rispose]:  roi  non  vo-  -  lete  dunque  rispondere  al  mio  Omero  vendicato'?  gli  disse  il  poeta,  f'^oi  temete  la  mia  replicai  Ebbene ,  voi  non  V  evltet^ete  ;  io  pubblicherò  un  libro  che  avrà  per  titolo  :  Risposta  al  silenzio  di  la  Mothe.  Lo  spirito  di  contraddizione.  Alcuni  par  che  non  godano  d'altro  che  d'essere  molesti  e  fa-  stidiosi a  guisa  di  mosche ,  è  fanno  professione  di.. contraddire  dispettosamente  ad  ognuno  senza  riguardo.   «  Pria  che  tu  parli ,   M  Nega  quel  che  vuoi  dir,  e  se  consenti  .   »  Pur  d'aver  torto,  Non  è  yero^  ei  grida^^^"  É  vuol  ch'abbi  raglotii"»/-'  ^  *   *   E  siccome  taluni  si  mostrano  terribili  nelle  dispute  per  la  forza  e  capacità  de'  polmoni,  perciò  sembra  che  lo  spirito  di  contraddizione  si  debba  primiera-  mente a  stolto  orgoglio  attribuire,  o  sia  indistinto  bisogno  di  dominare.  Lo  fomenta  fors'anche  una  causa  fisica  non  ben  nota,  chiamata  temperamento,  quella  causa  per  cui  il  can  rosso  dell'  abate  Casti  neinilustre  adunanza  degli  animali  parlanti. Di  petto  Instancabile  e  di  voce  »  Ringhia  ;  con  tutti  ognor  brontola  e  sbuffa ,  »  Pronto  con  tutti  ad  attaccar  baruffa. Le  inimicìzie  sogliono  essere  una  delle  pri-  marie ragioni  per  cui  si  rigettano  le  idee  altrui  ;  giacché  all'odio  sembrano  vere  e  reali  vittorie  le  mortificazioni  alla  vanità  dell'odiato.  Secondo  che  racconta  il  Castiglioni ,  trovandosi  due  nemici  nel  consiglio  di  Fiorenza ,  V  uno  di  essi ,  il  quale  era  di  casa  Altoviti ,  dormiva;  l'altro  che  gli  sedeva  vicino ,  e  che  era  di  casa  Alamanni ,  per  ridere  ;  toccandolo  col  cubito ,  lo  risvegliò  e  disse  :  Non  odi  tu  ciò  che  il  tal  dice  ?  rispondi,  chè  i  signori  dimandano  del  tuo  parere.  Allor  TAltoviti  ,  tutto  sonnacchioso,  e  senza  pensar  altro,  si  levò  in  piedi  e  disse  :  Signori,  io  dico  tulio  il  contrario  di  quello  che  ha  detto  T Alamanni.  Rispose  rAlaiiianni:  Oh!  10  non  ho  detto  nulla.  Subito  disse  rAllovitì:  Di  quello  che  tu  dirai  !  !  i   V.  V  imperfezione  inerente  a  qualunque  cosa  umana  apre  il  campo  a  rinascenti  dispute.  Questa  imperfezione  risulta  :         . Dagli  oggetti  che  hanno  molti  lati,  e  de'quali  ciascuno  considera  quello  che  più  gli  piace  ;   2.  Dalle  persone  che  non  hanno  gli  stessi  occhi,  gli  stessi  interessi ,  gli  stessi  principi!,  le  stesse   *    cognizioni,  gli  slessi  gusti  (1).   1*4.  ^  •   (I)  Petrarca  parla  iV  un  uomo,  il  gusto  del  quale  era  si  depravato,  che  non  poteva  tollerare  il  dolce  canto  degl'usi-  l^nuoli,  e  gongolava  di  piacere  al  crocidar  delle  rane.   Dalie  parole  che  non  sono  abbastanza  molti-  plicate ne  abbastanza  particolari  per  essere  sempre  esatte  ^  e  corrispondere  ali^  varie  modiGcazioni  de'  sentìment!.   Quindi  tutto  ciò  che  si  dice  e  si  scrive  essendo  SQfi^ettfvo.  di  «varietà  indefiaila^  non  deve  recare  maraviglia  se  a  costanti  opposizioni  va  soggetto,  ^»1ra  le  eansa  delle  dìApntei  e  sotta  questo  arti*  colli  fa  d'uopo»  ace^nram-  ia  monto  di  spiegm^  i  futti  prima  d'esserBi  accertati  della  loro  esistenza ^  e  .per  col  si  dispala  con- taMd  maggioi*  calwes  quanto  che  ciascuno  parla  y  ccilne  si  dice ,  in  aria  ,  e  M  batte  con  strali  di  nebbia. Nel  lì>05  corse  rumore  elio  essenilo  caduU  ideali  ad  qiì  faiìciailo  df  sette  anni  nella  Slesia,  gUe.tté  era  sorlo  uno  d'drd  al  poslo  d*tino  de'ipollftri  eadutt.  HorsHus ,  professore  di  meileina  mellf  università  ^i  ffelmaMftd,  sf  rìsse  nel  ^595  la  storia  di  questo  dente ,  e  pretese  ch'egli  era  in  parte  natu-  rale, in  parte  nìiracoloso  ,  e. che  era  stato  spedito  da  Dio  a  questo  fanciullo^  a  fine  di  consolare  i  Cristiani  afflitti  per  le  vittorie  de'Turéhi.  t^lguratévt  quale  consolazione  poteva  re-  care al  cristiani  tm  dente  d' oro ,  e  quale  rapporto  poteva  unire  un  dente  e  i  Turchi.  Nello  stesso  anno,  attìnchè  questo  dente  noB-manoasse  di  storici,  RuUandtui  ne  diede  una  nuova  storia  con  VMOvI  cijmiDelitIt  SuaUnni  dopo  ^  IngloBlerns  ^  altro,  dpU^  tedesco,  scdsse  contrq  II  sistema  esposto  da  iW-  landus^  W  quale  rispose  cpn  una  pix)fonda  arcihelllssima  re-  plica, come  è  ben  naturale  di  supporre.  Un  altro  dotto  d'e-  guale calibro  raccolse  tutta  ciò  i^ìha  era  stato  detto  sopra  questo  dente  maravtgliosOi  e  vi  aggiunse  i!  suo  parere*  A  tante  béHe  òperé  aitro  non  mancava  se  non  che  la  cosa  fosse  vera,  doè  òhe  II  dente  fosse  d'oro.  Onando  un  orefice  Tebbe  esaminato ,  risultò  che  questo  preleso  dente  d'oro  era  umi    Incmvementi  delle  disputé/-     •  >   1,  L'imn  araltya  éelle  sopraece&nate  peirsonalità   suole  inacerbire  gli  animi  nelle  discute  :  Ordiìia-  riamente  ricorre  piò  spesso  aite  personalità  chi  più  scarseggia  di  ragioni,   3.  Nel  calore  delia  disputa  ^li  animi  perdano  di  vista  rargomento'  primitivo^  'e  vanno  divagando  fra  idee  accidentali  Tuno  all'oriente,  Taltro  all' occi-  dente ,  questi  in  >Icò  ;  quello  al  bassé  ^  èDsicchè  dopo  lungo  alternare  di  sì  e  di  no,  dopo  un'ora  di  tempesta ,  dopo  d'ayere  perduto  la  voce  e  i  pol-  moni ,  i  conteodeati  più  cbe  pria  trovansi  lootàn!  dalla  meta* ,  , .  .  .  ]^fiMii0  di  4U08|ta  dUpQsizione  d^   loro  che  la  decisione  della  disputa  temono  con-  traria alle  lor  viste  ;  quindi  s'arrestano  sopra  «oa  parola,  contendono  sopra  una  slhfiìfrtudine ,  scÌMa-  inazzano  sopra  un'idea  accessoria  ecc.;  il  perchè  .talvolta-  /a  cdlwosa  i^ntesa  sopra  circoif^s^nze  ac'  cideìitali  potrà  smprirpi  la  dubbia,  fede  di  lai  uno  da'*  coniendentL   foglia  d'oro  destramente  applicata  al  dente  ma  sì  cominciò  «A  disputale  e  aompprre  de'libn,  posd^  ^  consultò  l'oreiice.   foMaeeademfeo  A  Seeliao ,  me^ibro  d' altre  acc«deoUe ,  in  vm  giOg^Mti  |MdÉb1k»ta  ael  4821,  j^ailmdb  deUa  pcovinda  Lodigiana,  dice  che  ivi  si  fabbrica  .iV- celebre  formaggio  deUo  parmigiano  ;  nel  che  ha  ragione  :  ma  il  bello  si  v  che  ag  *  .  SiWgB  cbe  questo  ((nrmaggio  si  fabhi:ie^  col  latte  di  asina.   '  Se  quaala  gcariaso  M^ddoM>  ò  oneduto ,  possiamo  aspi^tacci  uoa  feoiioa  di  dissertazioni  sui  nostri  formaggi  ffasipati    Digitized  by  Google    3.  Dal  riscaldameato  contro  le  ragioni  si  passa  al  risealdtmeiiio  Mnlro  Je  feraipei»;  e  :i  disputanti  dimpslrano   «  Negli  occhi  il  fuoco  e  sulle  labbra  il  tosco   In  somma  dalla  disputa  sì  pass^  alle  ingiurie ,  gen-  tilissiiue  ed  edificanti  ragipni  degli  eroi  di  Omero.  Iqfatt^  Giove  non  parla  mal  a  .Giunoné  .senza  dirle  molti  improperi!,  e  Giunone  non  risponde  che  sullo  stesso  tonOì.  Dopo  sì  npbiU  esenipip  figuratevi  come  dovevano  parlare  gli  Dei  minori  (i).  '   4*  In  forza  di  questo  riscaldamento,  o  in,  mezzo  a  questa  lotta  di  vanità  ,  ciascuno  a'osti^ia  nel  pri-   (i)  jF^ra  i  IraUi  caratterisUci.degli  awpcaU  iligìéiil,  1   an'impudeittà.  *  Que*  <sai^dìet.  à  permettoBÒ  I  sarcasmi  'più  indecenti,  le  personalità  più  ingiuriose  contro  la  parte  avver-  saria;^ essi  apostcatapp  A|¥rt^^  i  iestimoDii  nel  mado  più  vil-  lano ed  .offeosivo,  colio  scopo  di  turbarne  ranimo  e  indebo-  liroe  te  deposizioni/ EMI  per  attro  Urano  Ulv<^  addosso  delle  repliche  che  gli  espongono  àlle  risate  deir  udienza.  In  una  causa  che  discutcvasi  avanti  il  banco  del  re,  fu  prodotto  un  testimonio  che  aveva  il  naso  estremamente  rosso:  l' av-  vocato avversario  volendo  intimidirlo,  gli  disse,  dopo  che  11  testimonio  ebbe  préstato  il  fjlufaiiiento  :  Vediamo  ciò  che   r   avete  da  dirci  col  vostro  naso  di  rame.  Pel  giuramento  che  ho  prestato,  repricò  il  testimonio,  io  non  vorrei  cambiare  il  mio  naso  di  rame  còlla  vostra  fronte  di  broDso*  .^  Ua  paesano  det  Berkslìire  andava  a  ^tepoMre  isT  una  oauM  che  dteutevad  ^  GnMinH  «  Cdmo  dàVMUÈ  ét  ^lle/  gH  «disrie  »  V  avvoi^alb  '  Wallace  /  quanto  guadagnate  voi  ^  giurare  ?  1»  —  Signor  avvocato  onoratlssimo,  rispose  il  paesano  ,  se  voi  non  guadagnaste  ad  abbaiare  ed  a  mentire  più  di  quel  che  '  lo  a  giurare,  voi  portereste  ben  prèìrtn^m  abllo  di^ili9;€0iiie  lo  porto  io^   mitivo  parere,  benché  il  discorso  il  dimostri  per-  suaso del  contrario. Gli  amici  delFabate  Regnier  gli  davano  il  titolo  di  abate  pertinax,  perchè   ''^<'*V?'Pìù*duro  ed  òslinato  degli  incudi  »  ,  »   egli  aveva  l'abitudine  dì  disputare '^fehacemente  ne^  crocchi,  lìnché  i  suoi  avversari!,  più  per  stanchezza  che  per  convincimento,  fossero  costretti  a  sotto-  *  mettersi  al  suo  parere.  Tra  cento  contendenti  forse  se  ne  trova  un  solo  che  finisca  col  dire  ,   et  lo  parlo  per  dir  vero,  r.  f  ».  '  •'^'*  \y\  .^jil»  Non  per  invidia  altrui  nè  per  disprezzo  ».  .   r4^oi)>;.Mia  gloria  non  ripongo  in  ostinarmi,,  i  <:Iì;»  Nel  mio  pensier.  lia  debolezza  è  questa  ri    »  Delle  piccole  menti,  ed  io  mi  credo  oii^(ffiiGrande  abbastanza  per  lasciarti  tutto  ^  iMi^P  L'onpr  d'avermi  persuaso  e  vinto    Regole  per  impedire  o  diminuire  .  gli  iìiconvenienli  ielle  dispule.  ,   i  .  ...   1.  Nelle  assemblee  numerose  astenersi  dalFindi-  care  col  nome  proprio  l'individuo  cui  si  risponde^    '  *  «(4)  «  Quando  un  uomo  s'è  ostinato  a  dire:  La  non  ha  »  ad  essere  allrtmenii,  io  Intendo  che  la  cosa  vada  così,  o  )»  così  ;  va,  picchialo,  spingilo,  dagli  d'urto,  tu  cozzi  con  una  >».  torre,  hai  a  fai*e  con  un  greppo,  e  non  ti  riesce  altro  se  »  non  ché  tu  medesimo  t' induri,  e  a  poco  a  poco  senza  *»)  avved<^rtene,  come  chi  é  tocco  dalla  pestilenza,  che  dall'uno  »>  s'  appicca  air  altro,  tanto  sei  tu  ostinato  e  duro  nella  tua  n  opinione,  quanto  egli  nella  sua,  e  non  c'è  più  verso,  che  »  né  l'uno  nè  Taltro  si  creda  d'avere  il  torto.  Nella  camera  de'comuni  d'Inghilterra,  chi  discute  r  altrui  mozione  o  risponde  ad  un  argomento ,  in  vece  di  'designarne  l'autore  col  di  lui  nome  indivi-  duale, ricorre  a  qualcuna  delle  seguenti  circonlo-  cuzioni  :  l'onorevole  membro  alla  mia  destra  o  si*  nistra  ,  il  gentiluomo  dal  cordone  bleu,  il  nobile  lord,  il  mio  dotto  amico  (parlando  d'un  avvocato)*  ecc.,  ovvero  semplicemente  il  preopinante.   La  ragione  di  questa  regola  si  che  la  specifi-  <;azione  del  nome  è  un  appello  più  vivo  all'amor  proprio  che  qualunque  altra  designazione.  Col  primo  modo  di  parlare  si  dimentica,  per  così  dire,  la  persona  individuale,  e  non  si  considera  che  il  di  lei  carattere  politico.  Si  scorge  Tutilità  di  questa  regola  ,  se  si  riflette  che  nel  calore  della  dìsputa  i  contendenti  durano  fatica  a  sottomettervisi ,  e  la  passione  tende  a  violarla.  Allorché  Tex^ministro  Decazes  montò  alla  tribuna  della  camera  dei  depu-  tati per  rispondere  al  notissimo  segreto  di  Rignon,  e  cominciò  per  chiamare  a  nome  il  Bignon ,  mo-  strò tutta  l'amarezza  del  risentimento,  e  dimenticò  le  regole  della  pulitezza  francese  c  delle  assemblee  numerose.  ^  t.fn  .  Non  attribuire  giammai  a  pravi  motivi  od  intenzioni  perverse  V  altrui  opinione.   Anehe  questa  regola  è  osservata  rigorosamente  ne'dibattimenti  brittanici.  Voi  potete  con  tutta  li-  bertà rimproverare  al  preopinante  la  sua  ignoranza,  i  suoi  errori,  le  sue  false  interpretazioni  d*un  fatto,  ma  fa  d'uopo  che  v'asteniate  dall'accusare  i  motivi  che  riaducono  a  proporre  od  a  rispondere.  Esten-  detevi sopra  tutte  le  conseguenze  nocive  della  mi-    Sttm  poopoata  o  doiropinioQe  «h'egli- dtf&nde  ;  di-  ìnositraie  ehe  saifann^  fenestè  atta  Sl^,  ehe.-la?»^  riranno la lirannia o l'anardua;  ma  non  fate  giam*f  mei  siipporrèch'egH  abbia  iiMvediite  a  ¥ol«teqìieslfi   conseguenze.  -    ,  f^-^^oi'^ii   .vRigorasamente  parlando,,V  aocennata  regola  è  fondata  nella  giustisia  ;  potùhè  se  è  dfffidto  U  conoscf^re  i  mi  e  segreti  motivi  che  agiscono  sul  no^tta  aiilmo  «  è  edsa  taneruria  il  preMiém  di  ravvisare  quelli  che  movono  Faltrui  ;  e  ciascuno  sa.  per  pisoptfia  «sperienra  quante  volte  i  nostri  .409  spetti  diano  in  fate»  in  queste  ricerche. La  risérta^  tMZza  imposta  d^UA  suddetta  regola  è  olile  a  tutti,  perchè  è  scM»tegiia>  aOa  libertà  delle  opitueitì  é  schermo  contro  le  ingiuste  accuse.  Nei  dibattimenti  pplitieìii  com(9  HeUa^gju^rra^'  ciascuna  deve.  asteneESì  da  que'  mezzi  che  ragjionevoitnente  non  yorrcèbe  Msati  opntro  di  sè.  »  *)  ?  ^  1  >  -Ma  sQi^rirttutto  poid'Memoata^^liegek  ètepiiliMr^  alla  prudenza.  Infatti  ,  voi  credete  che  il  vostrb   a^jta^aui^  «'apfiig^  al.  torto^^  oi^.  egli  ummrk  torse  restìo  ad  abbracciale  là  vostra  opinimie*  sé  gliela  presentate  nella  sua  nudezza  scortata  sold  dagli  argofwoti  elM  la  dinioetiaadv  Me<  se  eontet   ciate  dal  rendere  sospette  le  sue  inten2ionì ,  voi  Toffendete ,  voi  lo  provocate ,  voi  Mn  igH  toseiete  la  calma  neeessaria  per  ascoltafvi  con  atteKione.  Egli  diviene  parte  contro  di  voi.  Il  calore  Sì  oem  munied  dairun^idraltro  ;  i  suoi  amici  sMotereasMit  per  lui;  e  tfiiindi  nascono  non  di  rado  de'risenti-  ^   associano  alV opposizione  politica  tutta l'aqj^retua  4e;gB- od&if^iia»opti|b.  Un  uomo  di  carattere  benevolo  ^  modesto  nella  superiorità ,  generóso  4iieHa  siDei  for2a ,  *  confida  solo  ne'  suoi  argomenti,  e  sdegnerebbe  di  dovere  la  vittoeNiv  alla  Intenwopi  siiippioste  prave  del  rao  nemico.      '  ^        •     .  -   %  8;  Gmrd(VFU- dal  perdere  tempo  e  parole  nel  eùnfuiar^  èùse  pafpàbttmenl^  fake.  '   In  questi  casi  è  meglio  troncare  il  discorso  e  fkàMatA  allTopiniaiie  degli  astantì  )  giiBicehè  la  di-  scussione recherebbe  noia  ad  essi ,  senza  riuscire  a  persuader  ravver^ariou  Zenone  negava,  l'esistenza  *  M NfnMo  Diogene ,  -senza  spendere  parole  V  sì  mise  a  passeggiare  :  Zenone  persistette  nel  suo  pnadoiw  y  '  e  Dìo^e  eontÌlm6  il  sùo  passeggio;  Allorché  Didone  s' incontra  negli  Elisi  con  Enea  ,   da  €w  «ra  stata  si  ingiustamente  e  là  barbaramente  abbandonata,  s'airesta  ella  per  argonventare  con  lui  e  convincerlo  ?  Enea  cerca  di  riacquistare  il  di  lei  aflhMt  dia  gK  tolge  spregevolmente  le  sptflè  senza   dir  verbo.     *       *     -    ,  •    ^    ?  »  •   Badale  bene  elle  nel  -caso  pratico  rorgéglio  potrà  ingaummled  ff^durvi  a  sopporre  palpabilmente  false  le  >altnù  idee ,  o  palpabilmente  vere  le  vostre.  La  mAt  0»  r^ppfovairtmi»  'che  4wdrete  sut<vdlto  degli  sitanti,  v*r  servirà  di  norma  per  troncare  la  discus*  skma  o  oantiomrla.   4.  NoH  rispondere  alle  ingiurie  thè  net  co*  lùT  della  disputa  fuggono  di  bocca  aWaivver*   Battiy  ma  ascolta ,  dicf^va  Temistocle  ad  Euri-  biade  «  il.qsale  alzava  il  bastone  per  provar  la  sua  tesl^  Questa  fermezza  d'pnimo  in  un  uomo  che  era  tutt'altro  che  vile  i  ci  dice  cbe  si  devono  lasoiat    uigiii^LCi  Ly  Google    4^ &è  sentite,   e*  difendere  le  proprie  idee  con  tutto  il  sangue  freddo  deJla  ragione.  '  IitfAtti  ib^  in^lalfi^l   della  disputa  sfuggon  di  bocca  parole  che  si  ritrat-  talo appena  cessata  ;  dialiaitro  l 'altriii  (?;4iit»'*ftifi^  .  giustiflcberebbe  la  nostMi.  '  •  -  -^^^^   la  questi  casi,  una  risposta  urbana  che  dimos^i.   torrente  di  villanie.  Perchè  mi  dite  voi  delle  in-  gmiy^  in  luogo  M  rg^ionVf  Avreste  voi  preso  if  niie  ragiónt  per  ingftif^^iN^w  ion.  all'impetuoso^B^^j^^  BQiUiOW^.as:  salilo  da  ^if^jT  Menai^ev^^' ùiia  dlà^wiéy  ''   ne  raccolse  un  centinaio  delle  più  villane  ,  quindi  vi.  aer4s^^Mtl,Q  qi^e^te  {K^cha  psirol^  :  ìuAi^z^^i^r   polito. jiv '';^''^"'^'ì'^'^'^^T''-^òJ    (4)  La  fissa  concilio  degli  Dei  tra  Gipve  e  Ciunone,  relativamcnle  alla  causii  de'  Greci  e  dtMroiabi  .  fa  assopita  dalla  deitrem^dl  Vincano.  - .  ,       j  ;  ;.       ^  *    «  Vulcano  ^soM'^  .  e  i  sereMi»  ìa  spirto  »  Retta  ìnadre  abbat|u(o;  Oh,  dfssé,  ìnrvéto  /  »  Strana  fia  questa  e  memoranda  istoria^  .  »  Che  per  la  dispregevole  e  meschina  "  »  ^a2ià  idectri  v&da  a  soqnjaadro  H  clélo.  '  »  brande  è  fl  perigito  : 'addiovconittt  e  èè^^e,  •  Se  preval  la  discordia;  addio  retema  »)  Gioia  che  ne  fa  Dei  :  sei  saggia ,  o  madre ,  »  Né  d'uopo  hai  tu  de' miei  consigli;  ah  cedi  »  (U  pur  dirò  ) ,  VolgiU  a  Giove,  e .paìià  »  CompiacenUi  *,  sòmniessa,  onde  dal'ciglia  -  »  Sgombri  quel  cupo  nuvolo  cbe  offusca^  '    f  >    Digitized  by  Google    40^  -  nSMI'iBltM^'^  I   me  ii^KmMà^  cAft»  ee^Hunà^  Urisùt  faecia  ces-  \   queista  me:&2;o  già  iicceooato  di  sopra.  Chi  ael  eà<«   -,        •  '  \à   ».  .  *  .   n  ^éiien  d^lfa  leste^^  - '*   ' .>.  Qqanlo  forte  e  pòsseote  :  e  sì  dicendo ,  .    '  -  v\    *  Prende  capace  coppa ,  e  a  lei  con  questa,  .   ;  *  .    »;  Presentandosi  innanzi  :  Ah  soflri,  o, .madre  ^   .  '  ^       n  SommessameotéJ^lgllando  a^unse'^     ,    .  \  "  -,    ^  i  $Qnrif  èiiie'yoòH^^        Impiinem^EHtftlei  *  *  *  .     *  9  N<m'''SI  còzza 'con  Giove;  ab  se  noi  tutti'*  -  ^    '  »  »  Ei  vuol  cacciar  da' nostri  seggi  ,  il  sai  j  -  4    Sì  sei  potrebbe;  q  4Uor  che  fora  (ip  tf^igio):  .      , »  pel  tuo  VulcaD»,sé'8i  ioateoricio  atioor^   '  V  fio^mi  dal  «^n^i^  >  '      *  '  '   r  Stramassaf  Bulla  teìrra  ?  A  coUi  detti  »  L' afflitta  Dea  V  annuvolata  faccia  /•  '  «  Rallegrò  d'un  sorriso.  Or  che  ^i  tarda ,  i(  .Gridò  'lesali  già  vineitor;;  a*  Assaggi  -i  là  tazza  della  gioia  :  el  ff  alt»  tefaa  "     '  *  •  '   V  Neltarè  afiMfWanre,  e  posto  a  fronte,      .  '  *    »♦  Alza  il  nappo  alla  Diva.   Ella  lo  prese      .  ,  \  Dalle  mani  del  figlio  :  e|  poscia  Jo  giro  »  N'andò  agli  fdhi  .m^sceBdoV  id  volto  ^  agli  atti,-  ,  ;  •  .  All' qfDr^ttar  ddlModampante  passo,  '.  »•  IJn  ìIso  sollazzevole  si  sparse      "      *  '  «  Fra  la  turba  dei  Numi,  ognun  applause  •  t  Al  vivace  coppiere  ,  ed  ogni  fronte  '  9  Basscjreoossi  :  fra  letizili  e  festa  ^  .  <ft  /Pràscorre  II  ^rno ,  ^  hon  vi  nùiDca  i^^o*  ». Cpnla  dorata  cetra,  e  non  le  Muse  »  Con  rarmonìca  voce  e  l  canti  alterni  ,  '  »  E      tutto  di  gioia  esulta  Olimpo  »  '    hJre  (Sella  disputa  scappa  fuori  con  una  celia  ai»*  gaia,  sembra  direi  dlie  rimo^a.alla  vìltaria^^^  vi  rìhuDzfa  spontaneàmente,  e  die  mfoìe  iestarei  amico  liei  tenipo  stesso  chejn  iuìla  nQ$tra  vanità  iir  ftiigeira  W  nemleio.  t^óeslo  tirAtfa-^g^AeiféM^  sorprende  piacevolmente;  e  quella  vanità  che  vo-  lea  vineere  n:0lia  .dìapQta>  non  vuole  mtate-fiirta'  in  generosità;  quindi  gli  animi  si  acquietano.  Lo  spiritoso  Voiture  aveva  punto  e  ìnareeiNto  un  cor*  ^hHoi  queétf  vt)léva  èomingerlo  a 'battersi*  in  duello.  La  partita  non  è  uguale,  rispose  il  poeta;   siete  grande  io  soa  piceola;  \voi  siete  bravo-  ed  io  poltrone:  voi  volete  uccidermi?  ebbene,  ec-  comi morto.  £gU  dissirmò  il  suo  nemico  facendéM   Quando  i  contèndenti  non  la  finiscono ,  e  kt  disputa  è  '  alquanto  loalorom  y  pànM  dàvèf^  degli  astanti  d'interromperla  con  suoni,  cantij  giuochi^  soniniinistraziani  di  Jiqwri  o  «ifn|li.   V  "  "      ■      «  Al  suon  {piacevole   .»  D'arpe  trèniafitr    ,  »  Mescete,  o  vergini,  '  '  '  /  »  Mescete  i  canti    '  \  '     Satira  itréanà.   t   I.  UtilHà  della  satira  urbana.   ,  '  *   Condannando  come  inurbane  le  villanie  e  le  ìn-  giuriC)  non  intendo  di  vietar  Tusa  savio  ed  op^    pòrttino  deli'  ironfa  o  idetta  a^ttn  eh»  flUt^  pregiU'*    -  tifiao  tElujO  »   volta  giunge  a  porre  sul  trono  il  vero,  )ridendo«  .  -  Jà'amor  pri^Mifo,  che  non  ahbaadana  uomini  m  aoQ  qiiMd^  ,9m  abtoodoiiwo  la,  vk»;  iìi  toi^  temere  sópra  ogni  altro  male  la  derìsione,  e  scuote  Jovb  dì  dos89  .r  uidolenza  ,  e  daUe^  i^j^  cai^  feUìe  gir  spoglia  per  non  rimanere  esposto  ai  frizzi  del  ridicolo^:  i)  che  jpes^.  non , ottime  la  piìi  l^mpaoti^  Térìià  6d  ligguerrìta  >ragiònir./$e  Aristo&iie  avelie  dato  agli  Ateniensi  In  una  concione  quegli  ani*  ma^brameoti.  etie  died^.loro  .aeU^  cooiniedie,  l'a-  vrebbero lagnato  a  pezzi;  laddove  in  teatro  ride-  vano smasc^llatamente  e  di^vaiio  eh' egli,  aveya  vagioiie.  Bèi^chè  i  Geniti  aTesaerc^  veduto  CiaerOQe  assalire  Tedificio  dellldolatrìa  con  armi  prestategli  dalla,  filosofia V.  poro  iiea.  aapavafio  lodimi  .ad  ab-  bandonarnei  tempii.  Comparve  in  mezzo  d'essi  Ladano,  il  ^uàiQ  fece  la  guerra  al  gentilesimi.  doI  .«lotteggio,  fi  se  non  ne  distrMse  gli  altari,  ne  d^  sperse  in  gran  parte  gli  adoratori.  Il  buon  senso  aveva  {iròseritte.  la^  mz^ia  cavallefescfae  in  fspagna,  pria  che  nasces^è  d^rvanfes  ;C  mà  quella  nazione  non  riuscì  a  spogliarsene  se  non  dopo  ^'tgii  abbe  preÉcutato  al  ptibbli^,  11  suo  ridico*  Kssimo  Dpn  Chisciotte.  Tanto  è  , véro  ciò  che  dice  Orazio:  .        '      -  .   «  fPnoa  graVf  sèstenza  ottieB  più  spesso  »  II  desiato  Cne  arguta  celia  ».   Si  deve  adunque  riguardare  la  satira  come  una  apecia  d'ammenda  censoria  che  aerve  a  corriere  quei  difetti  i  quali,  senza  cessare  d'esser  molesti  e  talora  4muk)sì  alla  aociatìb  non  triy^Qsijaei  codici    ,    St   inosservati  dalio  stesso  colpevole  seoza  la  -  caule  àmmo9lmùe  della  satira  \  del  an^tteg^  ;  «  dello  scherzo.  Il  suo  pungolo  viva  e  leggiero,  vi-  brato a  tempo ,  può  divenire  suppUmento  alla  le*  <  gìslazioue,  più  ef&eaée  dei  gravi  sèrmoni,  più  acutd  di  qualche  pena  afflittiva,  e  il  rimedio  blando  e  specifica  dei  morbi  lìpn  ^ilcerosi  fleiranljsgo,  e  f^ec  così  dire  cutanei:        /    .        .  ^    V  \   «  Seguasi  il  Venosin ,  che  ride  e  taglia     _    . .  ..^  »  Chi  sfugge  a)  Fpro.  IJ  satiresco  uffizio  -   f  »  .Piiif  die  II  fratesco  può  levarti  il  pelo  ^  '   ».  P%chè  il  frizzo  piii  scotta  che  il  y^j^^^^^^  L'ironia  però  e  la  satira  sono  armi  pericolosissitne  di  cui  egli  è^estMmametite  foeìle  di  alm^  sare ,  sia  perchè  questo  genere  di  discorso  non  è  il  più  difficile  (1)^  sia  perchià  la  sottra,  .presenta  UM  .  fat^B  sembi^^^  sia  perche^   deprimendo  gli  altri,  sembra  airaniòr  proprio  d'io-  nateaiÀ  80  stesso:,  perciò  riesce  iiiiripido  11^k»gio%  •  e  il  motteggio  piacevolissimo  (3);  ed  Ennio  sog-*  gittiige^  ch'egli  è  più  facile  ad  uà  uomo  di  spiriló  il  wlbeare  ««Ha  bocctt*  de'  carboni^  àeeeal ,  di  quello,  che  riteoere  .un  iiiottti  s^tipco  che  gli  corra   {i)  Un  giovine  gloriandosi  d' avece  composto  una  satira^  CiebiUoD^gU  disse  :  lUcón^spele  cpsnfo  è  JMle  qiiesl^  niera  di  scrivere,  giaccbiè  ij  siete  riusdto  aUa^^vesbrft  et^u   (2)  Maliffnilad  falsa  species  liberiate  inesL  Xacit. ,  Hist.,  I.  ^.    •  *  .  '  * OblrectaU<K  et  Uvor  prouU  wiuihm  accifiuntuTn  Idem,  m  ^^  r         '  .    Digitized  by  Google    '  '-^fi*   tiimo  s'assoèia  spesso  l'invìdia,  la  quale  stiilerf>ià  mtnvte  azioiii'  altrui  ^l»U&ee  severa  inquisizione,  A  fiiie  ét  iìtùywfì  qualche»  «aeGateBa^  e  ;.coii  wAì^  gni  >ep]orì.  adoaibrarla:    -  .  r  •       '  •   €  Di  tutti  invidioso  diceà  malQ   ■ Sénisa  rispetto,  e  pretendi^vii  ardito  '  .  »  Piovra  i  costumi  altrui  far  da  fiscale   Quindi  suUe  cose  ,  sulle  follìe  ^  sui  pregiudizi ,  sulle  |ti*€itensi(^ai  d^lj'aiuor  proprio,  '  sui  vizi  in  ge-  nerale àevc  H  'jmotteggit)  più  spesso  cadere  che  .non  suiruomo  particolare,  àccioecbè  alpri,  vo^ndo  eedtaré  iH  .rteOi  non  apra  una  piaga  mortale  mei-  4'altrui  animo,  e  non  s'esponga  all^d^o  delle  per-   SOM  emeste  se  la /SMira  dà  in  ialso,  .  ^   -,  •  •  •   ' .    FqItio  che<  per  diletto  o  per  malignò   V  Animo  Valtrui  fama  è  a  morder  presto^    '  *  . .  »  Ch'infin  giunge  a  sp^ieqiar  pef*  corbe  un  cigQps  '  »  IQ  ebt^nt'odio  vìen^  eh' ogn'uoin  ené^^^^  i  Lo  d^nna  con  ragion,  l'abborre  e  fugge  \VÌ»:Con9e  mostrò  all'umah  éóusdrzio  inlissto   Meii  voglioT^f  '  ommettere  d'és8èrvà?e,  ehe  ai   rinvèi^iore  di  falsa  maldicenza  o  d'ingiusta  sdittra  è  ripr^sibiie ,  lo  à  pure  quello  ebe  la  difiba^e:  lAi-'appiceando  il  fuoco  all'altrui  casa  si  scusasse  dicendo,  che  ha  ricevuto  il  fuqco  da  altri,  non  oV  Mrrebbcf  cotnpatimento  ;  per  he  stessà  ragioné  t>t-.  tenerlo  non  debbe  chi  spargendo  false  maldicenze  e  ingiuste  satire,  dice  d'averle  intese  da.  Pietro  a  d9  Martino,  io  un  caffè  o  in  un'osteria,  enones^  i^ne  egli  rinventore^  '  »   SenCilor  W  raceontar,      fti  un  trombe]^   *    »  Preso  una  volta  da'nemici  in  campo  /  *  '  r  »  Mentre  stava  sonando  alla  veletta:  '   V  \\  qiial,  per  ritrovar  riparo  o  scampo/  »  Dicea  che  solamente  egli  sonava,   '  "  »  Ma  eoi  stio  fèrro  mai  non  tinse  il  campq.  Gli  fu  rispo$to  allor,  ch'ei  meritava  •  Maggior  iien^  pero;  poichò  sonando^  >  Alle  stragi,  al.  furor  gli  altri  irritava  ».   Dopo  (Tavere  stabilita  la  legge  generale ,  fa  d'  uqpo  aggiungere  le  ecceziotU,  -  le.  qvali  per  lo  piiij  dall' e$amé  delle  ragi«ni  w  cut  fondMli  là  4lessa  legge^  risultano.  • .  ,     .    .  -   y  url^nità  jno!»  coBdaQQa  ne  nel  convenar  ab*  eiale  nè  nella  repubblica  letteraria  i  modi  satìrici  più.  0  .iDeoo  .piccanti,  ma  veri,  contro  gìi  indk^i^,  dui  tÈ^  seguenti  casi  e  pe'  seguenti  motivi:  /   ,  1^  Rispingere  m  impertinente  aggressore»  ^  jMtiasiiiio  Oacier^  entuaiasta  della  àeiMza  ^digb'  antichi ,  ascoltando  un  giorno  una  dama  che  non  ne  parlava  Qon  troppo  rispetto ,  e  prioiHpdknj^qt*  del  divino  Platone  ,  le  .disse  con  tatta  la  genti-  lezza degli  eroi  d'Omero:  Certdment;^  madama  non  degnasi  di  leggete  dtro  Sèrittere  anticò  che  Petronio  (ciascun  sa  che  Petronio  è  ràutore  pre-  diletta de'  dissoluti^;  Perdojiate^,  replicò  ellat  fò  aspetto ,  per  leggerlo  \  che  voi  fie  abbiate  Jatto  un  santo.  Chi  vorrejìèe  dare  al  {rizao  di  quella  dama  ia  ttisoiii  dimpulito  (i)?   .  •"  »  «   (i)  Un  principe  volendo  divertirsi  a  spese  d'  un  suo  cor-  tigiano I  eli'  egli  avm  impiegido  ip  diversè  amb^^ecie ,  lo    Mendicar  la  ragione  degli  attentati  d*  uno  stolto  o  d'un  impostore.  Socrate  adoprava  l'ironia  colle  persone  presuntuose  ,  con  que'  pretesi  dotti  universali  che,  non  sapendo  nulla,  davano  ad  in-  tendere al  popolo  di  saper  tutto,  e  pronti  mo-  stravansi  a  rispondere  sopra  qualunque  argomento.  Luciano  smascherò  il  celebre  Peregrino,  il  quale  profittando  della  dabbenaggine  popolare  ,  e  fa-  cendo false  predizioni  ,  aveva  aperta  una  bottega  d'impostura  nella  Grecia  e  s'era  arricchito  a  danno  del  senso  comune  e  del  pubblico  costume.   Mendicare  i  diritti  del  giustOy  delVonestóy  .della  patria  dagli  attentati  de*  malvagi ,  per  falsa  opinione  potenti  o  per  forza'  reale.  Chi  avrebbe  potuto  condannare  Cicerone,  allorché  met-  teva in  evidenza  i  vizi  di  Catilina  e  i  suoi  atr  tentati  cóntro  la  Repubblica?  Il  giudice  che  espone  un  delinquente  alla  berlina  con  un  cartello  sul  .  pettOj  ove  t\  leggono  i  suoi  delitti,  è  senza  dub-  bio un  maldicente;  ma  questa  maldicenza  perso-  nale è  necessaria  a  scorno  del  delitto  ed  a  fine  ;di  prevenirlo-  '    rassomigliava  ad  un  barbagianni.  Io  non ,  so  bene  a  obi  mi  ral^omlgli ,  rispose  il  cortigiano  :  tutto  ciò  cb'io  so  si  é,  che  ho  avuto  l'onore  di  rappresentare  molte  volte  vostra  maestà.   '  Anche  nel  «eguente  madrigale  il  frizzo  è  giustilìcato  dal  diritto  di  difesa:  -  .    -   \.\  .  •  ...  •   •ov  '        «  D'un  ponte  al  passo  stretto^  •   »  Stando  sopra  d' un  carro  Tommasetto  y  '      •  *  »  hicontrossl  In  due  fraU  zoccolanti  ^  -,      n  Che  disser  :  Villanaccio ,  Ur*  avanU.  —      " •  •  V      •  *  Ed  egli  :  Aspetto  che  passiate  voi  ;  •^   »  Non  to'  mettere  11  carro  innanzi  t*  buoi  ».     >  -    Digitized  by  Google   a..  m   f-Il  pdjdrone  che,  interrogato  sulle  qualità  d'un  servo  licenziato ,  dietro  la  sua  esperianza  lo  dì-  chiara  ladro,  è  senza  fallo  un  maldicente;  rna  que*  sta  maldicenza  o  diffamazione  è  utile,  giacche  è  meno  male  che  resti  senza  padrone  un  ladro,  di  quello  che  vengano  derubati  più  innocenti.  •  '   ChesterOeld  non  distinse  con  precisione  i  con*  fini  che  la  satira ,  la  derisione ,  la  maldicenza  utile  e  necessaria  separano  dalla  maldicenza  inu-  tile 0  ingiusta,  nel.  seguente  paragrafo:  ,  .   a  La  privata  maldicenza  non  deve  giammai  es-  *^  sere  accolta  e  divulgata  volontariamente,  perchè  »  sebbene  la  diffamazione  possa  al  presente  ap-  »  pagar  la  malignità  e  Torgoglio  de'nostri  cuori,  i>  pure  la  fredda  riflessione  trarrà  da  sì  fatta  in*  »  clinazione  conseguenze  sfavorevolissime  per  noi.  »  In  fatto  di  maldicenza,  come  di  ruberia,  chi  la  »  raccoglie  è  sempre  creduto  colpevole  quanto  il   ladro  stesso  ».  '      *  /  .   Distinguete  la  maldicenza  che  svela  le  altrui  innocue  debolezze  per  sola  voglia  di  denigrare,  dalla  maldicenza  che  svela  i  vizj  veri  e  i  delitti  reali  che  possono  essere  dannosi  al  prossimo.  La  prima  è  ingiusta  e  riprensibile,  la  seconda  utile  e  necessaria.  L'uomo  cui  siete  per  affidare  la  direzione  della  vostra  cassa ,  è  un  truffatore  ,  xxn  giocatore,  un  dissoluto:  mi  farete  voi  rimpro-  vero se  ve  ne  avvertisco?  Qualcuno  vi  imputa  dei  vizi  e  dei  delitti  falsi:  vi  lagnerete  voi  di  me,  se  gli  strappo  dal  volto  la  maschera  ,  e  Io  dimostro  bugiardo  ed  impostore?  È  giunto  in  città  un  ca-  valiere d'industria  che  co'  suoi  ingegnosi  stratta*  gemmi  scrocca  l'altrui  denaro:  vorrete  voi  che    noR  ne  dia  avviso  a'  miei  amici  ,  acciò  la  loro  jomoaa  fede, non  cada  in  laccio?  AU^  corte;  sevo]  -  amate  il  gregge,  darete  la  caccia  ai  lupi;  e  se  gli  uoiiiiali.  accennerete  loro  i  cani  arrabbiati. Jieyole  ^er  V  uso^  della  satira. Tre  sono  le  fegole  che  debonsi  osservare   motteggiatore ,  acciocché  il  motteggio  riesca  one-  sto e  Jegittiibo,  cioè  non  offenda  nè  la  giusti^à^  ijè  Yumanitày  nè  la  convenienza.   Il  motteggio  è  ingiusto  in  due  modi:  1^  quando  t>un^e  (^ersóne  esent!  dal  vizio  ìniputato;'  2^  qMando  cade  su  difetti  che  non  possono  ascri-  '  versi  a  colpa,  come  le  imperfezioni  fisiche  ^  òv-   *  vero  le  sventure  accidentali.  •  L',  umanità  rimane  offesa  quando  il  motteggio  ^  nialigno  ò  acerbo.  Dà  segno  dì  malignità  chi  mostrasi  avido  del  male  altrui  y  M  si  delizici^  e  còn^piaep  neirinsuJtare  e  nel  nuocerer^$idà  segno  d'acerbità,  qualora  il  motteggio  è  sproporzionato  alla  jcolpat  .e  flagella  a  sangue  chi  ^on  merita  che  un  lieve  colpo  di  stafile  (I).  ,     *  '    ;  '  (\\  V  itotàh'      SoMÉe  m  rattopprata  .^iHn'^Mee»  delle  sue  maniere  ^  dairameDìià  abituale  de'suoi  sguttdi,  dal  tiorriso  dì  bonlA  ^  sempre  pronto  a  Dc^cere  sui  suoi  labbri,  di  modo  che  4'icoDia  cessava  d'essere  aiuara,  e  diveniva,  per  oqsì  dite ,  ua  agro-dolce  eondile  dalle  'grazia. Cresceva  or  '  t*inK>, or  riiRro  di  ifuéstt  due  efemeiilt,  secondo  cbe  11  difeifò  Tdie  Socrate  voleva  correggere,  era         amb  nodfO.  -  '  .    '    Voltaire  dice,  che  volendo  censurare  Cornelio,  imiterebbe   '  iioid4>  Il  Quatoy  nellA poomi^edl»  del  Uakiouuto  pet  ior^a  >   »  •   .  y  .i.Lo  u   -  Si  Tìola  la  convenienza,  quando  i  motteggi  di-  '  sconvengono  al  motteggiato  o  al  motteggiatore  éHa  «iveostanza  di  ioogo  e*  di  tmf^  ;  qrówto  sono  sconci  o  villani,  quando  si  scialacquano  senza  '  misara^  e  :  se  ne  fa  professione  aperta  «  perpetnà»  L'ingiustìzia  nel  motteggiatore  o  è  maliziosa  o  '  irriflessiva^  la  prima  nasce  dal  bisogno  di  umiliar  PMtrttì  merito  ptat  inoftlnorsi  sulle  f«^tie  deli"  ftb^*  battuto  rivale:  la  seconda  proviene  da  un  errore  d3iiteUetto  originalo  de  rislielftesie  di  idee^  siste*  mi  esclusivi,  rigidezza  dì  carattere,  tenacità  d'opì*  nìoni.  Da  quesi^a  causa  derida  j^e  tal,Y9|ts^  l'aicer*  Utà  prodotta  p*^ii  spesso  umor  eausticeié.  etra-  biUariqi^  JLi|i  causticità  è  sovente  figlia  4/  ^  <^uor  depravato  i  ebbro  d' orgoglio  malefico,  e  pasciuto  del  fiele  deirinvidia;  talora  una  cattiva  organizzazione,  o  le  persecuzioni  ostinate  deUa  Tortutia  giungòtiò  e  guastare  aiidie  unendole  Me^'-e  ad  avvelenarne  Io  spìrito.  '  •  /  r.  '  Le:  e^  ke  peir  'sóei  pìriii-   dpii  0  una  natura  grossolana,  0  la  mancanza  d'e-  ducazioney  o  una  vita  isolata  e  lontana  dalla  so^  eietà,  0  il  pocò  studio  dell'uomo,  o  le  compagnie  yolgi^p^^  ioQne  T  abitudine;  di  parlare  spensier^-   taméirter;■  '^t  -  ^'   '  '  *        ■  .  >  «  ji  ■    non  dà  giottliBat  ma<>  bailaalata  a'  Sganardio'w  non  previo  un  eoDipUmento  rispeUoso,  e  colla  protesta  d'essere  disperalo  per  essere  caj[tr41o  di  Cario.  Questo  inpdo.di^ceosarareiM»ja  debb'  esjsere  escluso  dai  croccili.  sociaB  *,  se  ma  cb0  in  vece  di  porre  in  m&no  al  censore  uh  bastone  j  fa  d*  uopo  dàrgfr  un  fltigeRò  di  jNMe.  '        Jl}ìm^  li6)Ia  ùimwènms^h  satira  appoggiate  al  falso  va  mordendo  lievemente  i  costumi  degli  assenU  ,  non  ta  99vero  cepsore  aggrotterai  tosto  ki  eiglia,  uè  tomi  icon  mano  ardita  qoeatò  tenoe  piiiBere  alla  mediocrità  che  si  consola  della  prò-!  |lrìa  batwzza  sfoirmndosi4i4«pcimi^V  J'alte^^^  n»e-  rito  V  ma  a  condiscendenza  atteggiato  più  che  ad  a88.ei)8p9  .ammirerai  lo  spirito  di  ehi  censura,  e^ter^  modo  dabbii  mU'applicaaioQa.  Sa  *poi  U  piacere  di  satireggiale  gua4dgi]ia  gj[i  9Staim  al  puntp,,(^e  'aQi;ga  qwlcha*  ».  ^  ;vt.-(:;-^;  .  ^^r^y-^M^^   ^    «  Tewité  et6lrti0  nrò?atord^^  f''::  ^   ^    »  Motti  protervi,  onde  a  maligno  riso  ^^^  V  »  Mover  la  dorma  e  la  virtù  schernire  ^  '   ti  sarà  permesso  di.  troncare  em  jdigailà  V  altrui  aiscorso,  e  assumere  la  difesa  degli  assenti;  ma,  per  non  scemar  fede  alle  tue  parole  ^  non  devi  mostrare  alterazione  di  spirito;  giacché,  altrinieriti  operando ,  al  piacere  di  satireggiare  si  assoeierà  ,  nell'animo  .del  satìrico  il,  piacere  di  conturbarti,  e  gl}  assenti  verranno  ad  essere  danneggiati  dalla  tua  stessa  apologia.  L' e^peri^jdza  dimostra  infatti  che  il  calare  della  difesa  rendè  ,  tahotta  gli  assa-  litori più  feroci,  e  allora  la  conversazione  rasso»  miglia  i^ue'aiigrifizi  sbarbarì  ne' quali  immola vansi  ijjttime  omaiie.  '  Lascia  dunque  qualche  pascerlo  .alla  malignità,  se  vuoi  ch'ella  ti  permetta  un  elo-  .gìo;  MBt  per  prosare  la.  itiocei^ità  del,  4iio  ttlo,>  allorché  tu  stesso  produrrai  in  mezzo  le  azioni  di  qualcuno,  in  cui  siano  difetti  frammisti  a  vir^,  userai  la  dèstrézza  di  quel  pittore  che,  dovendo  ritrarreAntigono  guercio,  lo  pins^  di  profile. Facezie.   Un  discorso  che  inaspettotanieiile  e  contro  JTap-  paranza  caoibid  il  rimpjTovero  in.  lode,  it  male. in  .tiene,  il  lisGMHre  iO;  sqi^exanza,  lo  spmzo  iii  istinni^  e  talora  anche  ali'oppostcs  si  chiamai  face zùa  La  facezia  si  divide  in  due.  specie;  La  l>  ^  un  hréYé  raceoitto  che  fa  passare  IV  nimo  tra  alcune  d\Tenture,  e  dopo  d'  averne  ali-  mentota  la  curiorttà ,  ikiisce  con  iin  sentimento  non  preveduto.  ^.    (I)  Dionigi  il  tiranno  avendo  sapulo  che  una  sua  coni-'  me^Ua^  dajui  spedita. 4l: concorso  in  Atene,  era^t^ta  eoro-  oata^  ne  injpti  «r«lleg)nem.  ^  CiH  Ateniesi  dissesn  cbe^ise  *av«flh  aero  preveduta' questa  tdaf^t^jotià  i  vsu^hf^eio  cèronatQ.Dlou^  venti  anni  prima.  *  *  '   in  qiieslo  caso  la  iode  copre  un  vero  disprezzo,  e  mmì-  testa  la  Viziosa  compiacenza  ct^e  dovevano  provare  que'  repubb|i^|AMr  la  moi>t€i  d'un  tiranno  tanto  abbòminato;  Sorge^^fftiBrmo  piaqèvolissitna  sorpeesa  nel  vedere  etie  «gli  Ateniesi  potevano  liberar  Siracusa  onorando  Dioniiii  in  Atenei*  Jjl.  padre  Le  'i'cìlier,  che  mentre  era  confessurti  di  Luigi  XÌV,*  teneva  il  protocollo  de'  beneticii  ecclesiastici,  diceva  ad  uti  giovine  abate  :  Yoi  altri  esitanti  agli  impieglil  sièle  oost^  amfei'  finché  aVeté,  bisoerio  di  noi  ;  'ma  qìiéaida  siete  saziati^  ci  dimenticate.  —  Ah ,  non  temete  nulla,  rispose  ridendo  Tabate:  io  iK>n  vi  dimcoUciierò  giuiumai,  giaccliè  solip  iosa^   In  questo  ciùo  tt  timore  si  cambia  in  speranza^  e  nel  -tempo  slesso  éi  si  pres^ta  improvvisamenfe  nùi^  upa  brama   I  •   che  con  somma  gelosia  suol  tenei:sì  nascosta.  ,  i,  ^  Eia      è  un  semplice  detto  pronto,  rnaspettàtoi  opportuno t  un  vivo  ^^apidgi£ripo  che  vellica  e'  punge  piaeevoimente.   *  Con  maggiore  chiarezza  e  precisione  di  ter^  Quni>-  giusta  il  suo  costume,  spiega  la  cosa  il  dot-  tissimo Gberardffil  dksemkK. La  giocondità  delle  lacezie  par  che  nasca  ordinariamente  da  un  ingé^  gIMMt»'  ed  iroproiovlM  'aecoppiftiBentcr  W  d«ie  idee  disparatCL tra  loro  e  disconv^jiienti  (1).  '    '   lì  riso,  semjira  il  prodotto  4i  due  sensai&ioni  u-  iike,  sorpresa  e  piacere  ,  eccitate  da  Jien  elitra»-,  stì  0  da  finissime  analogie.   L'impressione  oagionata  nel  nostro  animo  da  un  oggetto  nuovo  o  inaspettato  sidsiiania  sorpfesia.  La  sorpresa  è  maggiore  quando  T  oggetto  .coni-  0  la'  eosa  *  raeectea'  è  eonivìirìa  a/  qiiai^  suole  comuneipente  succedere.        ♦  *  '  •   Quindi  la  aorptesa.  è  massiin»  allorché  è  mas-  sióio  il  contrasto  tra  il  fatto  ^pcaditio  .eJa-Hft:  stifi.jaspettazione*  Ciò  posto:       1.  v  '     •  v  .  I.  jChie  éel  jtUo  abbia:  kmga  la  sorpresa^  è  di^  mostrato  dai  seguenti  notissimi  fatti:  •  '  '   Ridono  frtù  spe&so  gli  ignoranti  che  gli  o^-,  mini  cotti,  poiché  ì  primi  nón  conosGéndo  i  rap-  porti die  uniscftpo,  ie  cas.e,  9,  WAggiori  sorprese  soggiacciono. 11  saggio  appena  sorride  mentre  lo  sciocco  •  t'abbandona  a^  riso  sgangherato,  ^acchè  il  sagg^ìo  ^   .  r  -t's,        ♦  •  >       •   " .      \  .   •   \{)  EIcmonti  *  peesla  ad  uso  delle  scuole.    Digitized  by  Google    trava  presto  le  idee  intermedie  che  imi»sip>pi^jlor^  liuie'  afeiluate.  ddto  «òse  .«col  fi^  k»q^«if^ì^^  successo  e  che  sembra  smentirlo.  ^  r  "  ^^^  >  a<«  fy.  mette*  «bea  fUe^  Ue9ggiOt4t^^l<^  f^eioe-  co  non  ride;  e  questo  accade  quando  il  contrago'  ma  è  immediatamente  espresso  »  ma  dietro  rap-*  porti  pBBfiìm.ài  idee  s'asconde  «  e  quaìdie  mé^  noento  di  riflessione  per  essere  EientUp  o  ricono-   4.0  '6H  uomini  faceti  e  lepidi  dicono  e  sanno  rHl^yar  jOOi^e  che  lanno  ridere  gli  altri,  ^senza  die  .  «et  irfdeno^tesifi.  Man  vidptin*  esa  perchè  veggenti*  ril  nodo/cUe^unisce  le  idee  in  apparenza  contrastanli;  ^Qao*.  ridwe  gli.  altri.  4^rehè  hfinBQ  T  artiiisio.  di.  ^asconderlo  ai  loro  occhi.  >'  *   r^r?  II  riso  die  ecdta  .una  facezia^  sentila  la  fush  ma  yoitai  è'«moltn  pjéore  alte  sead^a,  e  posbin  diviene  millo,  perdiè  le  cose  note  fioii  lasciano  Ittoga^^liia  ijorp»^.  /  ^    sw*.  v  >^        ,    >à>^I^*  ,   IL  Che  a/  riso  non  basti  una  sorpresa  q^it^*'^  limqu^f  ma  si  riohicgga  Vaggiìmla^i  sensaziaue  piacevole,  seop^ira  rieattare  -dat  ft^^fuenti  ietti:  .< ^   1.  "  Noi  ridiamo  ricordando  le  nostre  passate  fi^lÀ^  Qv^j^m^  aUoiaOia  annessa   jd^a  del  .disi^-  nore,  perchè  questa  Vicordanxa  dà  risalta  al  sen^  limentOc:4^4.;POSti;a  #Utuaj|^e  .saggezza  »  e!,  quasi  «  dissi,  le  accresce  piregio;  .       .  t  ,  ^      evi^  rvjV/.   2.  <>  Noi  ridiamo  aH'udire  le  altrui  goffaggini  ;  il,*  cl\e  fiorse  d^riiui  dairamor  (HPQpriOr  il  qmlei  gica-f,  see  nello  scoprire  in  altii  de'difetti  de'quali  egU  ait  crede  esente.  -  .  i n  %  /?  ;       >  c^^  ^f  i  ^j  "^'   ^.^^  Koi  rìdiamo  alle  sveMure^dei  ncNMvl^nemicti.  allorché  non  sono  sì  forti  da  interessare  la  nostra compassione  ;  poiché  le  accennate  sventure  adé^  scano  piacevolmente  il  sentimento  dell'  inimicizia  e  della  vendetta.  ,i^>>i  -^^t^^fi  r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i  -  4.«  I  beffardi  ridono  nello  scliernìre  questò  o  quello,  giacché  il  loro  orgoglio  coglie  tanti  gradi  di  piacere,  quanti  gradi  di  depressione  ed  avvili-  mento fa  subire  agli  altri  co'suoi  motteggi.   •  ^fi.p  Noi  ridiamo  nello  scoprire  somiglianze  tra  oggetti  che  credevamo  non  ne  serbassero  alcuna,  come  rìdiamo  in  generale  sentendo  ingegnosi  tratti  di  spirito;  perchè  il  facile  esercizio  della  no-  stra intelligenza  nel  rapido  passaggio  da  un'  idea  dtf  un'altra,  ì  cui  rapporti  lontani  non  erano  ben  noti  e  distinti ,  é  per  se  stesso  piacevole ,  com'  è  piacevole  un  moderato  passeggio,  il  respirare  aria  nuova,  la  comparsa  d' un  lume  neiroscurità  e  si-  mili; 2.0  perchè  quella  cognizione  diviene  argo-  mento della  sagacità  nostra^  la  quale  ha  saputo  cogliere  un  elemento  che,  i:estìo  all'analisi,  al  co-  mun  guardo  ascondevasi*  V  .  ^  "4(^j»*   ,  .'     .'«'  «..V,  .   III.  j4cciò  la  sorpresa  e  il  piacere  cagionino  riso,  vogliono  essere  prodotti  da  lievi  contrasti  0  da  finissime  analogìe;  ecco  qualche  fatto:   •  1.°  Alla  vista,  per  es.  d'un  bel  quadro,  all'udire  una  bella  musica,  noi  proviamo  sorpresa  e  pia-»  cere,  ma  non  rìdiamo;  dite  lo  stesso  allorché  al'  vostro  occhio  sì  presenta  l'arcobaleno  od  altro  si-  mile grandioso  ed  innocente  fenomeno.   "i.^  Vi  cagionerà  sorpresa  e  piacere  senza  farvi  ridere  la  vista  d'un  animale  selvaggio  non  mai  veduto  prima,  per  es.  la  grossa  scimia  chiamata  Qurang-outang.   Ma  se  la  scimia  vi  si  presenta con  berretto  da  cardinale  in  testa,  voi  non  po-  trete comprimere  il  riso:  v'è  qui  un'  contrasto.   Osservate  bene  che  non  tutti  i  contrasti  fanno  ridere^  ma  solamente  i  contrasti  lievi,  e  son  quelli  che  escludono  la  compassione  e  l'orrore.  Se  un  uomo  millantandosi  di  poter  saltare  un  fosso  vi  cade  in  mezzo  come  un  animale,  voi  ridete  sgan-  gheratamente; ma  se,  cadendo  si  rompe  una  gam-  ba od  altro,  voi  non  ridete  più;  qui  il  riso  è  com-  presso dalla  compassione.   Dire  con  Aristotile,  che  il  riso  è  prodotto  da  una  deformità  senza  dolore^  è  ristringere  di  troppo,  secondo  che  io  ne  giudico,  il  campo  del  ridicolo;  poiché  spesso  noi  ridiamo  saporitamente  senza  che  alcuna  ombra  di  deformità  al  nostro  spirito  si  appresemi.  Infatti  ci  fa  ridere  la  sco-  perta di  finissima  analogìa  non  prima  supposta  (p.  471,  nota  i),  l'unione  di  qualità  che  sogliono  essere  disgiunte  (p.  461,  nota  i),  la  disgiunzione  di  qualità  che  vanno  ordinariamente  unite  insieme  (i).   fj*       ,J   m  ....  .  ,  .   "  (I)  TI  rasllf^'lìone  raccoma  come  un  dottore  vedendo  uno  che  per  giusti/.a  era  frustato  intorno  alla  piazza,  e  avendone  compassione,  perchè  'I  meschino,  henchè  le  spalle  lìeramente  gli  sanguinassero,  andava  così  lentamente,  come  se  avesse  passeggiato  a  piacere  per  passar  tempo,  gli  disse  :  Cammina,  poveretto,  ed  esci  presto  di  questo  affanna  Allora  il  luion  uomo,  rivolto,  guardandolo  quasi  per  maraviglia,  stette  un  poco  senza  parlare ,  poi  disse  :  Quando  sarai  frustato  tu,  an-  derai  a  modo  tuo  \  eh'  io  adesso  voglio  andar  al  mio.   Vediamo  in  questo  caso  disgiunte  due  quaìilù  che  sogliono  essere  unite;  cioè,  sotto  Fazione  delle  percosse,  non  scor-  giamo né  I  segni  del  dolore  ,  nè  lo  sforzo  a  liberarsene.  Abbiamo  dunque  da  un  lato  una  forte  sorpresa,  daU'  altro Fonti  4ija0ezie€^^  *   Le  numerose  fonti  dà  cui  s^possoikl  tram  ìetà^   cezie,  vogliono  esser  ridotte  a  cinque  capi  generali. Deformità  logiche;  Deformità  morali;  Deformità  fisiche;   Opposizione  artifiziale  tra  tó  iHile  e  il  sog-getto. Somigh'aoze  e  contrarietà  lontane  o  latenti  ed  miprovvisamente  svelate.  Sono  deformità  logiche  le  deviazioni  dal  retta  raziocinare;  e  ì  gradi  di  esse  saranno  sempre  maggiori,  quanto  più  peccheranno  coatra  le  regole  del  ginsto  raziocinio.  «  L'rghpranza  quindi  delle  1)  pili  facili  combinazioni,  la  credulità  soverchia,,  i>  la  scimunitaggine  sono  fonti  sicurissimi  dia'qiiali  »  emerge  quella  deformità  logica  che  provoca  il  »  riso  senza  eccitare  nè  rodjQ  nèla  compassione:  »  quindi  le  parole^  o  prive  di  senso  o  storpiate,  »  le  interrogazioni,  le  risposte  fuor  di  proposito,  M  le  incoerenze,  la  pertinacia  negli  errori  evidenti,   e  quella  abitudine  che  i  goffi  hanno  dì  dir  seni*»  »  pre  e.  credere  le  cose  a  rovescio  dei  logici  detr  »  tand  ».    un  sospettò  dié  quel  padeiité  o  non  gòffrissC}  il  che  fa  ta-  cére n  denttinéoto  penóso  della  compassioné  ^  o  ituscisae  a  deoilnare  11  dplòre  ^  il  che  dà  luogo  ad  anudirazione  scevra  d'invìdia.   lo  non  saprei  come  innesLire  sulle  azioni  e  sul  discorso  di  quest'uomo  Videa  della  deformità^  mentre  vi  veggo  cbia-  rrsslmo  un  bel  contrasto  con  qùanto  succede  'comunemente;    DUn  esemplo  di  ^&r^giooaaieuto  logico  cagionato  aà  '  bijióna  dó^e  d'òirgotglia  sì  vede  nel  discorsa 'die  l'Alfieri  meite  in  bocca  al  suo  conte,  allorché  co-  stui viene  a  contrasto  eoU'abate,  futuro  mae^a  .de'suo]  pglì^  sup'ofiiararto  che  gli  vuol  dare..    '    «  Ora,  venendo  al  sodo,  '  .S.  ^'"  »  Del  salario  parliamo.  V  do  tre  scudi;  ^'  ;   »  Che  tutti  in  casa  far  star  bene  io  godo.  —   Ma,  signor,  le, par  egli?  a  me  tre  scudi?   "  S  Al  cocchier  ne  dà  sei.  —Clie  impertinenza?  ^  >  »  Mancan  forse  i  maestri  anco  a  du'scudi? Ch'è  ella  in  somma  poi  vostra  scienza  ?  '^r%  Chi  siete^D  somma  voi,  che  al  mi' cocchiere   *  Veniaté  a  cootrastar  la  precedenza?   ^  l  ìK  GU  è  nato  in  casa,  e  d'un  mi'cameriere:  i  i>  Mentre  tu  sei  di  padre  contadino, E  lavorano  i  tucti  r/altrui  podere^  H   »  Compitar,  senza  intenderlo,  il  latino;  '  >     Una  zimarra,  un  mantello n  tallare,  ^^  i  »  rCn>  coUaru^cia  sudi-rcelestrino ,  >  *  - Vaglion  iòrse  a  natura  in  voi  cangiare     r  .  Poche  paròle:  io  p^go^ereibeiiissimo:   C  .  u  '    >»  Se  a  lei  npn  quadra^  ella  è  padron  d'andare  ».   Atteso  una  grata  sorpresa  sono  parìmente  ma-  te)*ie  di  riso  le  imle^  intelligenze^  "  come'  allorché  un  discorso  vien  preso  ih  un  senso  opposto  a  quello  che  gli  fu  dato  da  chi.  Jo  pronunciò  ;  d' onde  na-  sce una  contrarietà  fra  la  dimanda  e  la  risposta,  ed  una  sensibilissima  divergenza  :  per  es.,  Pietro  dhnanda  a  Paolo  dove  va^  Paolo  ^rispofìde  jparfii  pesci.  '  V    .  *    ij,.i^L.o  i_.Appartengono  a  questa  ètasse  té  ISu'tle^^^^  contengono  un  certo  inganno  inaspettato,  per  cui  nasce  molestia  ad  alcuno  senza  dolore  però  e  senza  grave  incomodo.   IL  Per  deformità  morale  intendesi  quella  che  non  è  consona  all'  usata  maniera  con  cui  conver-  sano gli  uomini,  ma  sì  però  che  non  turbi  o  funesti  Tordine  socievole,  poiché  allora  questa  de-  ^formità  andria  congiunta  con  la  scelleratezza,  e  ingenererebbe  odio,  non  riso.  Quindi  fanno  ridere   1.  V  incongruenza  de'caratteri  :  perciò  sem-  brano piacevolmente  assurde  le  millanterijs  in  bocca  d'un  vile,  e  le  gravi  sentenze  sul  labbro  d'una  me-  retrice e  simili. Tutti  i  caratteri  e  tutte  le  azioni  che  hanno  l'aria  di  singolarità^  cioè  che  si  scostano  dalle  ri-  cevute costumanze;   3.  *>  La  discordanza  tra  i  mezzi  e  il  fine  prò-  postosi^  0  le  pretensioni  maggiori  delle  forze. Le  passioni  gagliarde  svegliate  da  lievi  cagioni;  talvolta  per  es.,  resta  annullato  un  pro-  getto di  matrimonio,  di  commercio,  od  altra  as-  sociazione, per  contesa  sui  titoli  de'contraenti  da  inserirsi  nella  carta  di  contratto;  e  le  reciproche  vanità  rimbalzano  come  rimbalzano  e  retrocedono  due  palle  elastiche  che,  moventisi  in  opposte  dire-  zioni, vengono  ad  urtarsi  in  mezzo  al  bigliardo  (?)•    '  (I)  *  Allorché  il  Cardinale  Mazarino,  miuistro  francese,  e  dòn  Luigi  di  HarO)  nìinislro  spagnuolo,  convennero  neirisola  de'  FaggianI  (  in  mezzo  alla  Bidassoa  sul  contine  de'  due  regni),  per  concertare  tra  le  altre  cose  il  malrimonio  d'una    »  S. Gli  sforzi  per  attribuire  agli  altri  la  col-  po, de  nostri  sbagli  (1).   *r  A  scanso  dì  ripetizioni  vedi  la  pag.  343  eseg.  f  HI.  Deformità  Jìsica  si  è  quella  che  emerge  dalle  deformità  visibili,  corporee,  naturali.  «  Va-  M  stissimo  campo  di  ridicolo  si  è  questo,  poiché  »  iufinite  sono  le  aberrazioni  che  notar  si  pos-  »  sono  nel  regno  della  natura,  e  nell'uom  princi-  w  palmente,  che  per  eccellenza  fu  detto  re  della  »  natura  medesima.  Quante  mai  numerar  si  pos-  »  sono  deformità  corporali,  sia  nei  membri,  sia*  »  nel  portamento,  tutte  sono  giocondissima  fonte  »  di  ridicolo,  purché  le  deformità  che  prendonsi  D  per  oggetto  di  scherzo  non  siano  indecenti  o  »  col  dolore  congiunte,  poiché  allora  non  riso,  ma  .  »  ecciterebbero  di  leggieri  odio  o  compassione. Un  uomo  urbano  per  altro  non  farà  mai  og-  getto di  scherzo  quelle  fisiche  deformità  che  non  si  possono  attribuire  a  colpa,  come  ho  già  detto  più  volte.   Ito  f  '    Infante  di  Spagna  (Maria  d'Auslda  )  con  Luigi  XIV  re  di  Francia,  furono  tante  le  recìproche  pretensioni,  sorsero  si  gravi  difficoltà  sul  cerimoniale  e  V  etichetta,  che  trascorsero  due  mesi  prima  clie  i  ministri  potessero  accordarsi.   (I)  Un  ingegnere  mezzo  ul)briaco  e  barcollante  prende  a   .  misurare  un  terreno,  e  commette:  ercoli  tali  die  gli  astanti  ne  fanno  le  maraviglie.  11  buon  uomo  in  vece  di  rendere   ,  giustizia  a  sè  stesso,  se  la  prende  col  suo  strumento,  e  dice  balbetttUìdo:  Ehi  ma  il  difetto  é  nella  mia  pertica:  ora  ella  lia  otto  piedi,  ora  non  ne  ha  (|uattrOj  e  la  getta  sul  fuoco.  In  questo  esempio  primeggia  la  deformità  logica  sulla  defor>  niifà  moràlo.  Ceretti.  .j^  xxl  i^\.^r  Jife  àctoi^  v    ti.    "'llr,   11  ridicolo  nasce  alle  volte  dal  veder  trattali  con  uno  stile  lepido  e  scherzevole  gli  argomenti  gravi  e  severi,  il  che  vellica  piacevolmente  la  ma-  lignità del  cuore  umano,  il  quale  gode  nel  veder  posti  a  livello  gli  oggetti  eminenti  coi  più  comu-  iif,  ed  è  questo  il  copioso  fonte  delie  parodie.  Talvolta  all'incontro  s'induce  riso  col  ragionar  di  ^  oggetti  bassi  e  plebei  in  un  tono  grandioso  ed  eie-,  vato,  dal  che  vengono  essi  a  ricevere  un'aria  co^^  mica  e  faceta,  mentre  sotto  aspetto  di  lode  son  fatti  ridicoli,  e  la  critica  riesce  tanto  più  salsa,  qiianto  più  è  dissimulata.   Senza  alcuna  specie  di  discorso  si  può  eccitare  'ridicolo  con  una  lode  apparente  smentita  dal  fatto.  Batru,  che  aveva  motivo  di  lagnarsi  del  duca  d'E-  pernon,  fece  un  libro  che  aveva  per  titolo:  Le  grandi  imprese  del  duca  d'Epernon:  ma  tutti  i  fogli  del  libro  erano  bianchi.   tt   Debbono  essere  collocati  sotto  questo  titolo  »  que'concetti  d'ambiguo  significato,  onde  può  »  trarsene  una  grave  sentenza  ed  una  arguta  fa-  ì)  cezia.  Così  a  dire  d'un  uomo  liberale,  che  quello  •»  che  ha,  non  è  suo,  può  divenir  salso  ove  si  V  torca  a  biasimo  d'un  ladro:  e  salso  riesce  per  D  non  dissimil  ragione  quel  motto  citato  da  Tullio,  .  )i  a  proposito  d'  un  servo  infedele,  lui  essere  il  y>  solo,  per  cui  mdla  vha  in  casa  disuggellato  «  e  di  chiuso;  il  che  a  lode  d'un  servo  leale  po-  »  irebbe  dirsi  ugualmente.   Se  non  che  sì  fatti  >p  scherzi  vengono  commendati  più  per  ingegnosi  .?>>  che  per  festivi,  essendo  manifesto  indizio  d'a-  •»  cuto  ingegno  il  tor  le  parole  in  altra  signiUca-  w  zione  da  quella  in  che  sogliono  esser  usate. ^^Ordinariamente  questi  scherzi  riescono  insipidi,  perchè  per  Io  più  da  un  lato  lasciano  scorgere  la  voglia  di  scherzare  e  l'impotenza  di  riuscire,  dal-  l'altro  non  producono  effetto  sensibile  sull'animo  per  mancanza  d'acume.  -   V.^'  <t  Tra  tutte  la  maniere  onde  si  perviene  a  movere  riso,  piacevoli  senza  fine  riescono,  tanto  il  torcere  contro  d'altrui  quel  frizzo  che  a  farci  ridicoli  era  stato  proferito,  a  quel  modo  che  Ca-  tullo, interrogato  da  Filippo  perché  abbaiasse,.  Perchè  vedo  il  ladro,  rispose;  quanto  dal  conce*^  dere  argutamente  all'avversario  ciò  stesso  con  che  ti  morde,  trarne  appunto  occasione  di  vituperarlo,  siccome  usò  avvedutamente  L.  Celio,  al  quale  es-  sendo da  taluno  di  bassi  natali  rimproverato  che  egli  fosse  indegno  de* suoi  maggiori:  Affé,  ripi-  gliò, che  tu  se' degno  de' tuoi  »  (i).   In  questi  e  simili  casi  il  piacere  risulta  da  dop-*  pia  fonte:  l.*»  dalla  depressione  d'un  impertinente,  aggressore,  o  sia  dalla  cessazione  d'un  dolore;  il  che,  quando  succede  rapidamente  nelle  cose  mo-.^  fall,  equivale  a  piacere;  2.o  dagli  improvvisi  rap-  porti di  somiglianza  tra  la  proposta  e  la  risposta.  ^*  '  11  ridicolo  risultante  dalla  scoperta  improvvisa  di  somiglianze  o  contrarietà  non  comuni,  non  si    "  '  (()  •  Luigi  XV  disse  un  giorno  al  conte  Eric  di  Sparre,  jche  fu  due  volle  ambasciatore  in  Francia  pel  re  di  Svezia  :   ./SigfioF  di  Sparre,  provo  dispiacere  vivissimo  in  pensando  che  voi  non  siete  della  mia  religione;  un  giorno  o  lallro  io  an<  derò  in  cielo,  e  non  vi  troverò.  —  Perdonatemi,  Sire,  rispose  f  '  ambasciatore  :  il  mio  padrone  m'  ha  ordinato  di  seguirvi  dappertutto.  "    . •  *  •    472  ,  f  può  assolatamaote  attribuis^  alia  iiialigQilà|ii»Ma,  come  si  dovrebbe,  se  in  queste  indagini  si  preip*'  (fesse  peK  gttidé  la  ^ola  teoria  d' Asistoteteì  il  che  multerà  meglio  dall'analisi  del  seguente  fiattóv;Un  contadino,  yenuto  a  dolersi  pon  un  podestà  perchè  gli  era  stato  rubatali  sto  «ino^  dopo  d'a-  erare; parlato  della. Sfla  povertà  e  deiringanno  fat-  tégH  dal  ladro,  per.  fine  pjè  grave  la  perdita  sua,  disse;  Messere,  se  voi  aveste  veduto  il  «lio  asioo^  ,aiio0r,fiitt  riconoscereste  quanto  io  ho  ragion  di  dolermi;  chè  quandi ^veva  il  suo  basto  a^osiSiH   f iHraa  :f  sopriam^iM^  *ii8^^i^hevci  cagiona  qiipste  4i8Cor^^  non  n^sce   dal  vedere  depresso  TulHo  a  livello  delPasino,  ma  DèVoiedei^x^^^^  s£orz;aur  dosi  d'ingrandirne  Videa,  scappa  &ori  improvTl^  ^saQiente  con  un  confronto  nuovo,  e  si  Insinga  ^   t^^ré  sowiigliaiwa.tra  Basilio  e  TiilfiQ^r   lù  ttóte-  le  cose  vi  sono  certi  limiti  che  non  si  éebboào  oltrepassare,  certe,  condizioni  alle  qu^lì  jEa  d'uopo  sottomettersi;  altrimenti  facendo,- si  va  lungi,  dalla  meta  cui  si  proponeva  di  giungere,  non  si  consegue  Io  scopo  che  si  vagheggiava.   Lo  ^opo  cui  miriamo,  i  mezzi  che  possiamo  porre  m  <>pera,  servond  a  farci  ricondscere  quelle  condizioni  e  que'limiti.  '  '   Le  facèzie  x)  celie  che  teodono  a  rendere  festiva  a  brigata,  sì  possono  considerare  \  \   Nella  persona  che  le  dice;.   i.o  Ifelia  persona  che  m  è  l'oggetto;r3«.^  Migli  «auuiti  eh»  ,  le  aseetbp^i'   < Persiona  che^  celia*   .  1^*0  uomo  geutila  nè  ride  nè  fa  ridere  aUa  foggin  de'pazzi^  degU  seioeioliii  id^IL  iilériichif   degli  inetti,  de'buffoni,  Fenelon  non  ischerza  come   arleccliioo:  uè  Xmsm  4ì  §M8to  eaft£<)iìde.il  «mono  de^G^'.  dfiH' a||ia  C9I  fracaaso  assordante  ddle  campane.  .  Vupmo  dmiene^  bttffime,  Mihrchà  Mace^   altri  a  ridere  per  le  sue  sciùcchezzey  allorché  ai4eiU  axgiuti  smtilm$c$  de'mUi  arJecJmetehif  ed  a  misura  che  si  fa  attore  in  vece,  «fi  restare  semplice  narrale;  perciò  alquanto  buffonesca,  aeeottdo  <die  10  Be.^iiuiieo,  fa.  la  wnéatta  iK  IMo*-  gene  nella  seguente  occasione.  Ne'  giuochi  pub-  blici d'Ateoe  si  distribuivano  uu  giorno  de'piemii  a  quelli  che  davano  saggio  di  maggior  destrezza  neg^l  esercizi  dell'arco,  .della  Jotta  e.  delia  €om«  «  Ira  qnoUi  v^Ae  ^tiravmo  Tareo,.  prìmèggiaìFa  4100  per  la  sua  gofiferìa.  Diogene  andò  a  collocarsi  pre-  cisamente alla  meta  cui  mirava  Tarciere;  gli  si  di«  mandò  perchè  sceglieva  quel  posto:  Per  non  es-  ser ferito,  rispose  il  cìnico.  Il  motto  è  arguto,  ma  la  condotta  era  bu£fonesèa  per  un  filosofo;  ed  oltre  a  ciò  troppo  acerba  p^r  Tarciere  ^.  .    (I)  Minore  taccia,  perché  accompagnata  da  minore  pub-  blicità ,  merita  *  la  condotta  di  SoeriOe ,  «norcHè  Alcibiade  rKoniò  da  Olimpia  vincitore  di  tre  premi  al  cdi*8o  deH^tìt  Tutta  la  Grecia  lo  aveva  celebrato  per  questa  sua  vittoria.  Al  suo  arrivo  tutta  Atene  andò  a  ritrovarlo.  Socrate  solo  non    Digitized  by    i.^  iloiiici 'ébe  fiol^iioi  detti  argutt  impirtii  ad  eccitare  negli  altri  il  riso,  nofì^debb'igssere  il  priino  a  rideriie;,iina  facezia. detta  cojxsei^età  riei^eepiù  piccante;     -     '  ^   .  Egii  si  tenderebbe  ridieak)  m  per  si  fatte   ^ver ti  questa  0  quella  brigata  coi»  tale  o  tal  altra  ciUa^  <  6  vJd^iJpÉltaatf '  0MÉ  i^ipateMa  di-  vanto;   .         Non  conviene  fare  oggetto  di  celia  mordace   Gli  uomini  generalmente  stimati^  e  non  taiiitave  JiliisMfiMM^  al  qlMpte'dól^  tanfiNBeoolt  rifèane  an-  cora la  macchia  d'aver  messo  in  deriso  Socrate;  '  .  La  peiaM»  troppo  atolido«'  pat«hè  nott  v*è  glo^  im'nel  venire  a  contesa  con  esse;  *   .1  miaer»  ed- ìi^ìcÌy  perchè  sarebbe  (grude^;  eÓMtMatd  a ^isaÉo  cbe  immé^  mmaMMori;  GU  ttomini  troppo  sensitivii  peròhè  motteg*^  gio  ^  alvvilifiM;  I  vendicativi,  perché  ci  esponiamo  a  pagarne  ii  ioo  lo  «tesso*  si  diea^  degli  igMraQtl«^|K)l^tf9  ai  1pllaI^^tlri  strale  acutis8i«M  €be  ai   pianta  nel  loro  animo*    -  •  1    comparve  che  il  giorno  appresso

,  e ,  in  vece  di  domandare  il  vincitore,  dimandò  i  vincitori,  (ili  schiavi  non  comprendendo  il  suo  pensiero,  egli  ordinò  loro  di  conduco  alta  stalla.  Ejf^li  vi  étitrò  col  suo  seguito^  ed  essendosi  fatto  mosiràre  iisavalli  iIMNmati  da  Olimpia,  si  avvicinò  ad  essi,  li  salutò  con  rispetto,  fece  loro  de'gran  complimenti  sulla  loro  agilità  e  sulla  gloria  che  si  erano  acquistala.  Alcuni  del  suo  seguito  recitarono  loro  l'oite  cl^e  Euripide  i^veva  composto  in  onore  d'Alcibiade,  Dopo  questa  scen^  i^oiffonesqa^  Socrate  si  ritirò  senza  doman-  dar di  vedere  il  Iripoiiilbre.    Digitized  by  Google    m    ,  la  calimi»  «W»  si  4^  iii^o^teggiare  alj[a  cìepa;   It.'  Persona  cui  è  diretta  la  eeiia.   it^  .  l^aiwlla  è.pegUa  4^i9r  cadere, una  eelia  senza  disposta,  di  quello -  elie^  ifnpegnar<A  hi  im  4Kmi}^atUi|i^to  con  p^r$pua  che  forsp  non .  mirò  1^  yvWWfH;  (»Hr«4|^  «l  wilapfi  dagU  scbiarimenti  che,  ìoi  vj^  d'^vj^icio^r^  g^lj  ajoÀmU,  gli  allontaDano   ifi  QMfidla  BOB  Vi  è  pcmHHle  dUsimulare,  e  vedete  gli  altri  a  ridere  a  vostre  spese,  ridete  voi  iwret  e  topralMiO'  hm  imetiste-  lAsMtbneDto  dispiacere,  come  è  stato  detto  di  sopra.  Si  veg-^  goao  ogai  giorno  persooe  incivili  che  non  sanao  rispondere  ad-mi  ìnnoceote  scherso  fncMrchè  con  >  ingiurie  e  viHapì^  pgiKJiq  pgpi,  ((erflQpa  prudepte  cli^  qQ|i,.vi|ote  {s^ii^Qin^    8filg(;e  il  loro  in-  •  contip»      ^  •  '   a.*  Se  nQg.èyfk^m^  dirìiy^  -  ^   to,  è  penDcsso  re4argi|ìre,  e  ripnandare  la  palla  a  chi  la  gettò;  è  que||9  |i  dii^itto  dal  ^iit^cp^.  ob^   Le  facezie  che  piacciono  al  volgo,  riescono  il  .  #iii  d«U«  y9H&.  tPWH^      (Ursone  aeasat^.  !  <P^(^'lwmle  p9S9<wkQ  sembrai^  tra  gravi  matrone  qpelie  ce|'^  cbie,  proiferite  in  un  croccilo  d  up-   .  Altronde  Ya?iaipo  4»^Qto  i  giudizi  degli  no-  li jnini  interno  4, n^P^T^^i^  $SO)hra  qnasj  iip-  »  Dosaihile  il  iiSBarae  11  véro  ed  essenzial  caratatère;  conciossiacliè  a  taluno  parrà  lepido  e  gen-  »  tile  un  molto  che  ad  altri  riescirà  dispiacevole  e  »  rozzo^  Sappiamo  in  sfatti  che  a  Cicerone,  ricco   »  altronde  del  talento  della  facezia,  ivano  a  san-   'fi''   »  gue  gli  scherzi  di  Plauto,  mentre  Orazio  li  ri-  »  prova  siccome  illepidi  ed  inurbani   Ed  ecco  buovi  motivi  per  conoscere  intimamente  il  carattere  e  il  gusto  delle  persone  con  cui  si  con-  versa, acciocché  ì  nostri  detti  non  facciano  nascere  nel  loro  animo  la  noia,  mentre  aspiriamo  ad  ecci-  tarvi il  diletto.  ^   'ik'  IV,  Qualità  delle  celie.  ^   È  necessario  iin"^tìsto  fino  e  delicato  per  di-  Stinsuere  ...ì,j*»«u«u^        y-mm-^: ,   l.«   Ciò  che  adesca  da  ciò  che  punge. Ciò  che  punge  da  ciò'ché  è  insipido  3.0   Ciò  che  è  insipido  da  ciò  che  è  triviale;  ^  4.0   Basta  il  senso  comune  per  discerncré  ciò  che  è  triviale  da  ciò  che  è  ributtante.  -    •  '  -   Questi  quattro  gradi  servono,  a  i^oèì  dire,  di  scala  per  apprezzare  le  celie. La finezza del gusto è il risultato di certa facilità d'immogrnazione, volubilità  di  spirito,  feeoudità  di  idee,  rapidità  di  confronti,  acutezza  di  giudizio,  delicatezza  di  sentimento.    •  '  •  •   Colla  scorta  di  queste  facoltà  si  riesce  a  coii4-  porre  un  misto  felice  di  serio  e  di  giovfale,  a  ve-  stiredi  forme  leggiadre  le  idee  piò  astratte,  a  ri-  trovare una  massima  che  corregge  piacendo,  uri  pungolo  che  scuote  senza  irritare,  una  censura  che  nè  il  rispetto  offende  nè  ramìcizia. Allorché  dunque  muniti  di  queste  fàcòltà  Vac^  cagete  che  gli  asMatì  fiono  disposti  ad  éseoltarvì;  che  n  soggetto  vale  la  pena  che  parliate;  che  tutte  le  circostaii^e  vi  sono  favorevolij  se  ^udebe  idea  festiva  e  cap^  di  irallegrare  una  società  amabile  si  presenta  al  vostro  spirito,  commettereste  una  ispeéfe  d'ingiustizia  se  ne  la  privaste^  qualunque.'  sia  n  vostro  carattere^  qualunque  carica  occupiate  nello  Stato.      '  •»  -y:-    •    '  ■  ^^i'-r'-^^ti   ^  Le  celie  fehe  si  possono  chiamare  il  fiore  dello  sphrito,  vogliono  essere  dilicate.  D' Alembert  rK  .  portando  il  deita*M  padre  Bourdaloué  relativo  à  Despréaux  —  Se  Despréaux  mi  mette  in  ridicolo  netà  sue  satire,  ìq  gli  rènderò  ta^rigtia  Mite  mie  prediche  —  D'Alembert  con  tutta  la  delica-  tezza attica  soggiunge:  V'ha,  apparenza  che  que-  sto non  sarebbe  sueeesso  nella  predica  del  perdono  delle  ingiurie. .  ♦  '  .Per  non  ripetere  ciò  che  è  stato  detto  iòtaTear  pttolò  antecedente,  mi  ristringerò  ad  accennare  alcuni  difetti  che  si  debbono  sft^ire:nel  maneg-  gia delle  celTe.^    .   v  .^  -  /     *  :  :   1.®  Le  celie  non  vogliono  essere  insipide.  Sono  ,  sempre  insipide  le  celie  che  si  risolvono  in  èqui*  voci,  iperboli  esagerate,  giuochi  di  parole,  verbi  a  doppio  senso,  cui  la  vera  significazione  si  toglie  per  sostituirle  un'altra  che  non  l'è.  Ssseudo  più  facile  il  ripetere  delle  parole,  dei  suoni,  delle  sii-  labe^  di  Quello  che  awiéihare  le  qualità  lontane  delle  cose  o  scoprirne  le  latenti;  perciò  le  suddette  ,  celie  piacciono  al  volgo,  mentre  danno  noia  alle  persoa#  seiiHAe»  I  fanciulli  confondono  le  carte  nel  mezzo  della^  partita  quando  non  hanno  buoa giuoco  :  gli  scìoli  non  potendo  alimentare  la  con-  ,  versazione  coiramenità  dei  sentimenti  e  delle  idee,  •  le  interrompono  con  bischizzi  (1),  calembonrg^  discorsi  che  sembrano  dire  qualche  cosa,  mentre  non  dicono  nulla,  e  sono  il  tormento  di  chiunque  è  dotato  di  qualche  spirito,  ij  2.0  Le  celie  non  devono  essere  scurrili.  Esse  sono  tali  allorché  versano  sopra  cose  la  cui  im-  magine offende  il  gusto,  come  la  loro  realtà  of-  fende i  sensi  (2).  Si  chiamano  anche  scurrili  quelle  \  celie  che  fanno  arrossire  il  pudore.  .  Le  celie  non  de  vono  peccare  per  eccessiva   '  .  ìiìalignità. Le  celie  non  devono  peccare  per  eccessiva  acerbità^  dovendosi  bensì  far  uso  del  sale,  ma   .  •  con  moderazione  (4).    (f)  I  bischizzi  consistono  nel  mutare  ^ ovvero accrescere o minuire una lettera o sillaba  d'  una  parola  ;  cóme  colui  che  disse  :  Tu  dèi  essere  più  xlollo  nella  lingua  latrina  cUe  nelia  lìngua  greca. Pecca  pec  bassa  e  villana  scurrilità  il  seguente  epitaffio  che  il  Lasca  fece  ad  un  Grasso  :  .  ,  .   .  •        «  Qui  giace  il  Grasso  (  noli  ben  chi  legge)  ,  .  •       »  Che  avendo  il  viso  simile  al  cui  molto  ,        L'alma,  non  discernendo  il  cui  dal  volto,  »  Se  n'  uscì  per  la  via  dette  coregge.  »  .       -  '  .  (5)  Alla  consccrazione  d  up'  abadessa,  le  magnifiche  tap-  pezzerie, i  vestimenti  ricamaU,  i  diamanti,  ì  profumi,  Ianni-  sica,  i  molli  vescovi  esecutori  delle  ecclesìasliche  cerimonie  ^     sorpresero  una  buona  donfia  in  modo  che  ella  disse:  Ecco  il  paradiso.  Qualcuno  rispose  malignamente  :  Non  vi  sarebbero  tanti  vescovi.   (4)  Una  vecchia  contessa  assai  ricca  avendo  sposato'un  giovine  marchese  malagiato ,  e  nel  contratto  di  matrimonio. Le  celie,  allorché  il  soggetto  lo  comporta^  de»ono  richiamare  gli  spiriti  alla  morale. Non  si  deve  cambiare  il  mezzo  in  fine,  cioè  non  conviene  consecrare  alle  celie  quel  tempo  che  è  dovuto  alle  cose  più  gravi.  Da  tale  pas-  sione pe'combaltimenti  di  spirito  o  duelli  di  mot-,  leggi  e  di  celie  erano  invasi  i  Normanni,  che  anche  neir  ardore  d'  un  assedio  i  nemici  sospendevano  talvolta  le  ostilità  per  abbandonarsi  ad  una  guerra  meno  dannosa,  guerra  di  motti,  di  redarguziom,  d^'  buffonerie.   Allorché  qualcuno  dei  due  partiti,  era  preso  da  questa  vaghezza,  si  mostrava  all'al-  tro in  abito  bianco,  il  che  era  riconosciuto  ed  ac-  cettato come  una  sfida  di  celie.  La  qual  cosa  cer-  tamente non  era  riprensibile  in  tempo  di  guerra,  giacche Non  distrugge  città  guerra  di  lingue  avendogli  falla  la  donazione  di  luUi  i  suoi  beni,  lemelle,  dopo  molte  infedeltà,  che  il  marito  volesse  disfarsi  di  lei,  e  un  giorno  sentendosi  male,  credette  e  disse  d'essere  avvele-  nata,—  Avvelenata  ?  rispose  il  marchese  alla  presenza  di  più  persone.  E  chi  accusate  voi  di  questo  delilto?  —  Voi,  replicò  la  dama.  —  Ah  Signori,  nulla  di  più  falso,  esclamò  il  marito.  Sventralela  subito,  e  toccherete  con  mano  la  calunnia..Qui  l'acerbità  e  la  malignità  vanno  insieme.  .  •  (I)  Si  faceva  rimprovero  ad  una  giovine  perchè  accon-  sentiva a  sposare  un  uomo  che  urtava  di  fronte  gli  usi  e  le  mode  del  suo  tempo,  un  orUjinale  in  una  parola;  ma  la  sin-  golarità di  quest'uomo  non  era  che  un  vizio  dello  spirilo,  e  nissuno  aveva  V  animo  più  onesto  di  lui.  Quindi  la  giovine  che  lo  conosceva,  rispose  con  finezza  :  lo  acconsento  a  spo-  sarlo^ perchè  spero  che  sarà  buon  marito  per  singolarità.    ed  è  meàe  male  dileggiarsi  che  iieoidev9Ì; ma  6ao^   vafìiìi  di  Salisbury rimprovera ai  detti  popoli  quel-  l'eccedente p^issiona  aoebe  ia  tempo  di  pace. Kantagqi  che  si  possono  trarre  .        .        . dalle /ae^ie.   Benché  le  celie  sì  riducano  a  momentanei  tratti  di  npirito^  i^e,  ^imiU^alle  sciatillc,  jcoin|^ariscooo  -e  eeìssano  m  un  utante^  Don  segue  pero  che  dì  grandi  eventi  non  possano  esser  cagione.  Infatti,  alloiìch^  ei  tvatta  di  coscT  mòrali,  gli  effetti  dipeo*  dono  dalia  determinazione  della  volontà;  ora  a  de^  terminarle  la  volontà  i  più  frivoli  motivi  bastano,  sì  .quando  mancano  motivi  più  gravi,  sì  quandi  questi  sj  trovano  in  opposizione/  come  una  sein-  pliee  dramma  basta  per'&r  traboccare  la  bìlaacta<t  allo^hè  i  più  gravi  pesi  là  tengono  in  equilibrio.-  L'aftlisi  de' fatti  porrà  in  maggior  luce  il  mìo  pensiero.^  -      .  .   Coloro  che  nel  calcolo  degli  effetti  consi-  derano solo  le  ma^se,. apparenti,  inarcherapnò  le  ciglia  se  dirò  loro  che  tma  celia  può  in  forza  essere  uguale  ad  t^ailamato;  eppure  bisogna  ri-  gorosamente ammettere  questa  eqtiaasione,  aile^cbè si osserva che un'armata atterrita da maggior numero di  nemici,  può. da  uoa  celia  ricevere  tanta  torza  coraggiosa  da  riuscire  a  vincerli,  come  lo*  ba  provato  più  volte  r^^sperieoza  (i}^.^    .  ^.   (I)  Prima  della  battaglia  successa  a!  Trasknene,  I  Cartaginesi erano  ì»pa\  untati  dai  iìuuiux^g  esi^rcilu  rumano  ^uppi   m   .  2.*^  È  noto  che  l'orgoglio  de' tiranni  non  sof-  fre indugi;  che  le  loro  volontà  si  eseguiscono  in  ragione  del  loro  potere;  che,  sordi  alla  clemenza,  alla  giustizia,  alla  ragione,  mandano  a  morte  chi  fa  loro  rimostranze,  sicché  per  fare  equilibrio  ai,  loro  desideri!,  converrebbe  avere  un  potere  uguale  al  loro.  Questo  potere  si  trova  in  una  celia:  una  celia  può  cambiare  le  più  risolute  voglie  del  più  feroce  tiranno  (1). del  loro.  Glscon  ne  esternò  la  sua  sorpresa  ad  Annibale:  V*  ha  una  cosa,  rispose  questo  generale,  che  mi  sorprende  ancora  di  più,  ed  è  che  in  questo  gran  numero  di  nemici  non  v' ha  un  solo  che  si  chiami  Giscon.  La  storia  dice  che  questo'  sangue  freddo  animò  U  coraggio  de' Cartaginesi;  giacché  non  potevano  essi  persuadersi  che  il  loro  generale  fosse  disposto  a  scherzare  in  un  momento  sì  importante,  $cn/a  essere  sicurp  di  battere  i  nemici,  come  infatU  li  battè  éJi  vinse.  1^   In  caso  simile  un  altro,  generale  veniva  sollecitato  a  far  riconoscere  i  nemici  che  s'avanzavano  in  gran  copia:  Noi  li  conteremo,  diss'egli,  quando  gli  avremo  disfatti.  Queste  pa-  role bastarono  per  far  passare  i  suoi  soldati  dal  timore  alla  speranza,  dall' avvilimento  al  coraggio,  e  renderli  vincitori  di  quelli  da' quali  temevano  pochi  momenU  avanti  d'essere  vinti.   (I)  Tutti  sanno  quanto  era  dispotico  e  feroce  Enrico  Vili  re  d'Inghilterra.  Avendo  egli  de'moUvi  di  scontentezza  contro  Francesco  I  re  di  Francia,  gli  spedì  per  aipbasciatore  un  ve-  scovo inglese  eh'  ci  volle  incaricare  d'un  discorso  pieno  di  fiele,  d'orgoglio  e  di  minacele.  Questo  prelato  scorgendo  tutto  il  pericolo  della  sua  missione  ,  cercò  di  farsene  dispensare.  Non  temete  niente ,  gli  disse  Enrico,  poiché  se  il  re  di  Francia  vi  facesse  morire,  io  farei  abbattere  la  testa  a  molU  francesi  che  sono  in  mio  potere.  Va  benissimo,  replicò  il  vescovo,  ma  di  tutte  queste  teste  nissuna  s'adatterebbe  sì  bene  al  mio    49S    -         '      LIBBO  Tomo   SiTO  MnMwto  dàlPidea  impoiiml»  Moveri  dTitn   mioistroi  «lalla  gravità  de'  moti?!  che  devono  de«-  ternmarlOt  dai  dami  tnm  aeea.  demaail»  chiamato^  atle  pubbliche  cariche,  si  dora  fatica  a  comprenda  <die  una  ceiia  si  possa  j^om^  pén-  queiMmpiego  «fttr*^  em  ^tefe  mepatù  pér  demerito;  e  pure  gueata  posaihUità  ceaUuata  fili  Mita  tOv  ^  /  •  %    fyìsìo  come  quella  che  vi  é.  ^  ^^ta  celia,  «heloee.Bidéee.  Bnlriè^  idasci  a  fario  candMàre.'df  rlsolufeimiie  ;  senza  di  etto   .'forse  l'Inghilterra  e  la  Francia  conlecebbero  una  guerra  di  più.   IVouchirevan,  re  di  Perula,  aveva  condannato  a  morte  uno  de'suoi  paggi  per  aver  ^uesU  kia)i{vertéDteaiea(e:8pas8a  sopra  lui*  della  salla  ^intti)dèii>  a  mensa  i  il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo  ^mmà  di  perdono/ 'ifMò  tutto  II  piatto  sopra  tjùèll'liii||lah  cabile  re.  Nouchlrevan,  più  sorpreso  che  sdegnalo,  volle  sa-  peri la  ragione  di  siffalta  temerità.   «  Prìncipe,  gli  disse  i(   .•  paggio,  io  desidero  die  te  laia  morte  non  rechi  niacclìia  .  1»  alia  «ofiiii»  Hplitazioiia;  com  vóe^   .  •  de'moffiirehi,  ma-  voi  perdereste  quello  bel  tìtolo  se  là  po»  »  slerìtfi  "sapesse  che  per  lievissima  colpa  condannaste  a  morie  •  ano  de'  vostri  sudditi  ;  perciò  ho  versalo  tu  Ito  il  piatto. Nouchirevan  rientrato  lo  se  stesso  ^  vergogpò  della  sua.  col-  lera, e  gli  f(?ce  grazia.  11  Marelìesé  dì  Andrea  tnristeva  pressò  Lòuvóis  ministro  della  guerra  in  Francia,  onde  ottenere  una  carica^  il  ministro  die  aveva  ricevute  parecchie  lagnanze  contro  questo  officiale^  gliela  ricusava.  S  io  eoiniociassi  a  servire^  so.  ben  io  ciò  ^he  faéel,  ri8|Mstf  roffieii|le  un  po^  eómmosso;  fi  che  fareste  vd  ?  gli  disse  fl  mli^stro  con  un  tono  risentila  Regolerei  sì  bene  la  mia  coikloUa,  replicò  l'officiale,  che  non  vi  trovereste  nulla  da  ridire.  Il ministro  sorpreso  plaeevol-  lafDte  da  questa  òsposia,  ac<;ordò  dò  che  aveva  ne|{alo.    Digitized  by  Googlj    4.0   Una  celia  può  ottenere  quel  premio  che  ,  non  ottenne  la  ragione^  che  non  attenne  C  im^  portunità^  talvolta  più  valevolé  detta  fazione  (I).   Non  v'ha  cosa  nè  più  comune  pè  più  no-  iosa idè'n^lHantatork  nàOB  votte  odirotia  «si  le  ra-  gioni <die  condannano  la  loto  condotta,  e  mille  Tòlte  toroano  iii  oamjio.  eolie  toorn  celia  può  agevolmente  ridérre'  à  '^  'Hlimzio  titt  wiWantoioìre;  giacché,  in  genejrale  riesce  più  dif-  ficile il  rispondere  ad  unà:  ieHai  chà  ad  ma  tuona  ragione. Gli  poeta  aspettava  tutu  i  giorni  Augusto  a  certo  pas-  saggio còn  un  epigramma'  alta  mano  :  eglli' sperava  qualche  ricompensa,  mai  la  ricompensa  nòn '^Éttritic  Blair  Un  giorno  l' impilatore,  per  divertirsi  a  spese  del  poèta  è  IrastuHarlò  ^cevolmcnle).gli.pi;sBsentò  deVyéssi  eh' egli  aveva  composti  10^41  Ijoi'.oiiore.  Il  poeia  degpo4*«ieiji  Mtt  ti(Ui|  trasse  (U  tasca  dèi  deuaiO)  e  lò  diede  ad  Augusto,  dicéndo^lt  ch'io  v*ò£fro  non  è  degno  del  vostro^  merito,  ma  iò  nórt  poss^  fere  di  più.  Augusto  incantato  da  questa  risposta  nuovia«  piccante,  gli  fece  dare  fOO,(HW sesterzi  (circa  ^ 30,000  fr.)  —  Ecco  und  ttiolui  ì&àst»-^  oiprale  suttor  u  ^elo  d'una  facezia.  '  V  (2)  Iki  gie«iDe  a^'A  vantava  CU/Sapare  Hutto e  d'aveifo  imparato  in  poco  tempo  ,  aggiungeva  ^  à-avere  speso  grosse  somme  per  pagare  i  suoi  maestri.  Uno  degli  uditori  non  po-  tendo più  contenersi  a  tali  iat(tanze,  gii  disse  freddamenté:  Affé  ,  se  V  voi  trovato  cento  scudi  per  tutto  ciò  ebe  sapete  >  ef«dètefni,  Mn  fiidagteite>*a* pABderiL-    *   ,  .   n  detto  era  eccellente,  ma  pùngeva  un  poHroppo  fUA'iM.   Uno  spiantato  lagnavasi  in  un  crocchio  di  molte  perscibè  •pel  gK^asto  che  la  grandine  aveva  fatto  nel  suo  paese  e  mas-  irimanento  Re;siR>l  pcNlerl.-  tin  ii|le  >cl)e  a  fondo  conosceva  qitel-  mQlantaiofe^  è  che  sapea^  qaaiilk>^  tasse  povero  in  ràiim;  non  potendo  più  contènersi  a  laìl  .iattanze ,  gii  inosse  soìbi^ Grice: “Ferraris’s Galateo was so famous that, unlike Vico with his ‘new science’, a few philosophers cared to consider seriously a ‘nuovo Galateo’. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferrariis. Galateo. Ferraris. Keywords: il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, “Ferraris e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689504373/in/photolist-2mLQ1Vx-2mLGwVU-2mKKMt4-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKHtgX-2mPsh7f-2mKT4G5-2mKCdPg-2mKEftR-2mKRu2r-2mKC3nj-2mPvmTf-2mKbpiZ-2mKk6t5-2mKbkhx-2mKiTu1-2mKJXuD-GWQbEe-GWQbE4-25edKkz-23QXPsh-GWQbP2-23QXPTN-23QXPqU-23QXPAJ-25vgDZG-25vgDYu-GWQbEV-23QXPP9-GWQbEp-26Aotmx-26AotYK-DndBhH-23QrfQy-GWQbNR-23QXPKm-BNWJaB-BK5mza-BmcDUi-BFQviK-BDuNmW-AEEHqM-rrjLo5-o8fd2A-oa4qxd-nBU5Co-nSmehQ-nUgagC-nUiDq1

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