Grice e
Ferraris – supercazzola -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Torino). Filosofo. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance used to be
called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta testuale”
– he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I still
connect!” Si laurea a Torino sotto Vattimo. Insegna a Macerata, Trieste, Torino
al Laboratorio di Ontologia dal Centro
interdipartimentale di ontologia. Studiato a Torino.In ambito teorico, ha
legato il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della “sensibilità” a
un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti (documentalità) e a un
superamento del postmodernismo attraverso la proposta di un nuovo realismo.
Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata.I primi interessi di
Ferraris si rivolgono alla filosofia post-strutturalista (“Differenze”;
“Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente a Derrida, Ferraris ha dedicato:
Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione a Derrida, Il gusto
del segreto e, infine, Jackie Derrida. Ritratto a memoria.Lavorando invece a
contatto con Gadamer, a partire dai primi anni Ottanta si rivolge
all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust,
Nietzsche e la filosofia del Novecento, e soprattutto Storia dell'ermeneutica.Ferraris
sviluppa un'articolata critica alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si
veda in particolare Cronistoria di una svolta, dpostfazione alla conferenza di
Heidegger La svolta), che fa valere, in particolare, l'apporto del
post-strutturalismo come contestazione del retaggio romantico e idealistico che
condiziona tale tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia
nella riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un
ribaltamento della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gli
uomini comuni disprezzano la letterale norme e i vincoli che sono istituiti
attraverso documenti e iscrizioni di vario genere anteponendole lo spirito il
pensiero e la volontà e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto
alla prima. Per Ferraris è la lettera a precedere e fondare lo spirito.Abbandona
il relativismo ermeneutico e la decostruzione di Derrida per abbracciare una
forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività e realtà,
considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di
sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione
tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti
dell'arbitrio.Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento
di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento
teorico.Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra
schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo
significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una
rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con
altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant.Rilegge
Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino Paolo Bozzi (Il
mondo esterno e Goodbye Kant!La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il
mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi
concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla
confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del
sapere), di cui Ferraris articola una tematizzazione critica fondata
sulcarattere di inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si
vedano in particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione
sul realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism. L'esito
naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo
inemendabile di un dominio di oggetti in cui la filosofia trascendentale
kantiana trova la sua adeguata applicazione: gli oggetti sociali,
l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino, Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La
fidanzata automatic, Il tunnel delle multe.La tesi di fondo è che la
distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento
dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti
sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente
di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del
testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per
teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”. Documentalità.
Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua si arricchisce di piccole ma significative
metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con
Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies,
insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come
del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente
quelli per Alfabeta e Alfabeta). La svolta realista compiuta da partire
dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come
ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore
declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi
sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto e che avvia un imponente dibattito, è in
primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici
(l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da
queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle
derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei
realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire
dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra
individuo e realtà).Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla
degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace
della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si
identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia,
Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e
convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni
che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti
extrafilosofici. In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per
quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia
culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di
sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato
una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della
realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti
di Vattimo e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum, di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza.
Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Markus Gabriel, Bentornata
Realtà. Il nuovo realismo in discussione (M. De Caro e M. Ferraris), Torino,
Einaudi, e a Sociologia e nuovo
realismo, Milano-Udine, Mimesis, di Luca
Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da Ferraris e
De Caro, che conta numerose pubblicazioni). Al Nuovo Realismo di Ferraris
hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Mario De Caro (cfr.
Bentornata Realtà, a c. di De Caro e Ferraris), sia filosofi di formazione
continentale, come Mauricio Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Luca
Taddio (Verso un nuovo realismo) e Markus Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia
neo-realista), che ha raccolto il sostegno di pensatori come Umberto Eco,
Hilary Putnam e John Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti
sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il “realismo
speculativo” di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che
sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima
della verità e della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà,
alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo
scorso. Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la
giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero
da dirci a proposito del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta
anzitutto come un realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone
ai nostri schemi concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una
risorsa, come una prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le
cose stanno in questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un
realismo positivo (Cfr. M. Ferraris, Realismo Positivo, Rosenber e Sellier ):
nella sua resistenza la realtà non costituisce soltanto un limite, ma offre
anche delle possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo
naturale, forme di vita differenti possano interagire nello stesso ambiente
senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le
intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto
data, e che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se
necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo
realismo ha intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti
extradisciplinari come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la
medicina. L'ultima corrente filosofica inaugurata ha provocato resistenze
e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero
debole. Altre opere: “Differenze. La filosofia dopo lo strutturalismo”
Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano: Multhipla);
Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale
Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova: Marietti); Proust, Milano:
Guerini e associati, Storia
dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria di
una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e
conclusione, Postille a Derrida, Torino:
Rosenberg & Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma-Bari:
Laterza); Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano:
Bompiani); “Storia della volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon
rationis, Milano: Pratica filosofica, 1nterpretazione
ed emancipazione. Milano: Raffaello Cortina); L'immaginazione, Bologna: il
Mulino); Estetica, (con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto,
con Jacques Derrida, Roma-Bari: Laterza); Estetica razionale, Milano: Raffaello
Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg & Sellier); Una Ikea
di università, Milano: Raffaello Cortina); Il mondo esterno, Milano: Bompiani);
L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma-Bari:
Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove
sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto.
In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia
dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani);
Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia
dell'ontologia, Milano: Bompiani, Una
Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello
Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo);
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire
la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Milano: Bompiani);
Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del
nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza, Bentornata
Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Mario De Caro, Torino: Einaudi); Lasciar
tracce: documentalità e architettura, F. Visconti e R. Capozzi, Milano:
Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Leonardo Caffo, Milano: Mimesis); Realismo
Positivo, Torino: Rosenberg & Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma);
Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Achille
Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è
una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Enrico Terrone,
Bologna: il Mulino, Postverità e altri
enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con John R. Searle,
Torino: Einaudi); Intorno agli unicorni. Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi,
Bologna: il Mulino); Il capitale documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova.
Ontologia della trasformazione digitale, Torino: Rosenberg&Sellier. Responsabile
scientifico di "Pensiero in movimento", Pearson Libri in collana di
quotidiani: Oltre che diverse curatele e interventi per il "Caffè
Filosofico" del settimanale l'Espresso e la collana "Capire la
Filosofia" de la Repubblica si segnalano: "Felicità. Cos'è la ricerca della
felicità?", Roma, la Repubblica, "Libertà.
Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica, "Arte. Perché certe cose sono opere
d'arte?", Roma, la Repubblica, "Male. È possibile vivere senza il
male?", Roma, la Repubblica, "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale
degli altri?", Roma, la Repubblica, "Bellezza. C'è una regola del
bello?", Roma, la Repubblica, s
"Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,
"Morale. C'è un solo modo giusto di
vivere?", Roma, la Repubblica, "Potere. Perché si lotta per il
potere?", Roma, la Repubblica, "Pensiero. Che cosa significa
pensare?", Roma, la Repubblica, "Violenza: La violenza è
inevitabile?", Roma, la Repubblica, "Passione: Chi decide, la ragione o la
passione?", Roma, la Repubblica, "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo
che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica, "Linguaggio: Si può pensare senza
parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli
scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i
filosofi?", Roma, la Repubblica, sha curato, oltre a partecipare con
singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di
Repubblica curandone gli epiloghi. Nel biennio - ha diretto e condotto
tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai
Scuola. Nel e nel ha continuato tale lavoro nel programma
televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Ha condotto la
rubrica di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso
canale. "Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe,
Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani, "Maurizio Ferraris", la Repubblica, Per una rassegna completa del dibattito sorto
intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su
labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua
del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis,Reperibileonline,
fascicolo di Giugno. Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni
degli incontri, sono quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli
altri, Emiliano Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il nuovo New
Realism, Trieste, Asterios,; Perché essere realisti? Una sfida filosofica,
Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a
curadi), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa
di terzo millennio, Roma, Aracne,; Architettura e realismo, Milano Maggioli, Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata
dai filosofi Lo stato dell`arteIl di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in
Il di RAI Cultura dedicato alla
filosofia. "Maurizio
Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani
contemporanei, Milano: Bompiani, "Ontologia analitica e ontologie
continentali: Maurizio Ferraris e i filosofi italiani di impostazione
analitica", in C. Esposito ePorro, Filosofia contemporanea, Roma-Bari:
Laterza, dal Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del
Labont: raccolta estesa di tutti gli interventi a proposito della proposta
teorica sul realism. Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro
Interuniversitario di Ontologia Teoretica ed Applicata, LABONT Laboratorio di Ontologia,
su labont. Il «questionario Proust» a Maurizio Ferraris, su elapsus. Maurizio
Ferraris, il Nuovo Realismo, sul RAI
Filosofia, su filosofia.rai. Wikipedia Ricerca Talcott Parsons sociologo
statunitense Lingua Segui Modifica Talcott Parsons (Colorado Springs, 13
dicembre 1902– Monaco di Baviera, 8 maggio 1979) è stato un sociologo
statunitense. Parsons produsse una teoria generale per l'analisi della
società chiamata "struttural-funzionalista", nella quale sono
evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale nonché
all'etnologia. Cercò di combinare "azione sociale" e
"struttura" in un'unica teoria non limitata al solo
funzionalismo. Il suo lavoro ha avuto grande influenza negli anni
cinquanta e sessanta, particolarmente in America (dove la ricerca era quasi
solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più raffinata.
Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti come Habermas
e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il più
importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto l'etichetta
di "neofunzionalismo", si deve al sociologo Jeffrey C.
Alexander. BiografiaModifica Talcott Edgar Frederick Parsons nasce a
Colorado Springs il 13 dicembre 1902. Frequenta l'università all'Amherst
College del Massachusetts, ed è orientato allo studio della biologia e alla
medicina, ma già nel 1923 si interessa progressivamente all'economia e alle
scienze sociali, anche grazie alle opere di Durkheim e Max Weber. Dopo
Amherst, Parsons si reca alla London School of Economics, dove subisce
l'influenza dei lavori di economisti quale H. Laski e R. H. Tawney, gli
antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi Ginsberg e
Hobhouse. Nel 1925, grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia, si
trasferisce all'Università di Heidelberg, dove consegue il dottorato con una
tesi sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart. Tornato negli Stati
Uniti Parsons insegna presso l'Università di Harvard dal 1927 al 1973. Entra a
far parte del Dipartimento di Sociologia (diretto da Pitirim Sorokin, con il
quale Parsons è in disaccordo) e successivamente presso il Dipartimento di
Relazioni Sociali (diretto dallo stesso Parsons). Nel 1949 viene eletto
presidente dell'American Sociological Association. Muore a Monaco di
Baviera l'8 maggio 1979. Lo struttural-funzionalismoModifica L'approccio
di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone di
individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando le
funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim,
il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno
dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per la
sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque, in
linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due
approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo
dell'individuo, il secondo sul ruolo della società. L'azione
socialeModifica In La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che
l'azione (o atto) è l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto
richiede i seguenti elementi: L'attore, colui che compie l'atto; Un fine
verso cui è orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano
nuove linee d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali
l'attore non ha possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore
controlla e utilizza; Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore
a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul
sistema morale vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in
questa visione di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè
a ridurre l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo
ogni ruolo alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni
in base a un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le
norme collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce
il libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste
norme sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono
espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione
individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme -
Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia
individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del
concetto di sistema. Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale
Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace
di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla
riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere
almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo
concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana
degli anni 70, per giustificare i ruoli: Adattamento all'ambiente;
(Adaptation) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema
economico. Nella famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale
attraverso il lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la
sopravvivenza. Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il
sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema politico. Nella
famiglia a guidare i vari membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il
padre. Integrazione delle parti componenti; (Integration) il sottosistema che
svolge questa funzione è il sottosistema giuridico e il sottosistema religioso.
Nella famiglia, a regolare i conflitti interni, era il padre. Conservazione
della propria organizzazione; (Latency pattern maintenance) i sottosistemi che
svolgono questa funzione sono il sottosistema della famiglia e il sottosistema
della scuola. Nella famiglia, ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli
(latenti) di comportamento su cui, all'epoca, si reggeva la società, era la
madre. In realtà nella visione di Parsons gli individui non sono singole
persone ma persone che svolgono dei ruolispecifici, modelli di comportamento
regolati da norme ed orientati all'espletamento di una funzione: Parsons non
tratta dei signori X e Y, ma dell'insegnante e del meccanico. Il sistema
sociale è dunque un sistema di ruoli: nell'ambito del proprio ruolo ogni
individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del
sistema nel suo complesso. I ruoli fanno anche parte delle istituzioni,
sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti tra loro: la
scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la
famiglia (padre, madre, figli). Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazioneModifica Si è già detto che in
pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite le
norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons riprende
da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione):
ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la
formazione di un'istanza psichica (il “Super-Io”) che riproduce l'autorità
inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa
interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di
socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo
della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli.
La famiglia in Parsons è nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai
figli, residente in un'abitazione indipendente mononucleare. All'interno della
famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre
assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il
bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da
vivere, e il leader strumentale che si occupa dell'interazione tra famiglia e
società. Questi due ruoli sono complementari, l'uno non esiste senza l'altro. I
figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei
genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori. Variabili
strutturali e universali evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di
parametri sulla base dei quali è possibile classificare società e culture
diverse: sono le variabili strutturali (pattern variables). Esse sono scelte
binarie di fondo compiute da una cultura nel corso della sua esistenza:
Particolarismo/universalismo. È la differenza tra il comportamento di un
genitore e quello di un giudice. Il primo è ispirato a criteri
particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio ma non un altro individuo.
Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le regole che applica valgono
per tutti indifferentemente ("la legge è uguale per tutti").
Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a tener conto di
tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel secondo l'azione
si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto dell'insieme
della sua personalità; quando un commesso interagisce con un cliente tiene
conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo.
Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha
tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di
provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di
realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi).
Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali
vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano
sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi
privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è
orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati
(il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società
moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai
tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni
particolaristiche e tratti ascrittivi. Per universali evolutivi, invece,
Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso
della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo
successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana,
le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i
concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto),
tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella
rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di
stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è
caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le
norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel
corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi
universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità. Parsons effettua
una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la
classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella
misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti.
Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo
evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società: - società primitive:
dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra
gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come
passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne:
dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto
universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante L'evoluzionismo
non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons
procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro
evoluzione: - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è
forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di
chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale:
l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre
l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società
tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie
ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra
proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è
quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. -
Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi
sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite"
ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono
all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali,
tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.
Ulteriore sviluppoModifica Le teorie di Parsons sono state sviluppate
ulteriormente da Robert K. Merton, Niklas Luhmann e Pierpaolo Donati.
CriticheModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento
sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni
di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. L'opera di
Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio
dai sociologi Pitirim Sorokin e da Charles Mills, che ne indicava efficacemente
anche le implicazioni sociologiche conservatrici. Il pensiero di Parsons
è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le
società occidentali come il modello a cui tutte le altre società dovevano
tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come
un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi
sulla trasformazione della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla
famiglia nordamericana bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi
le critiche sono venute soprattutto dai movimenti femministi che non hanno
accettato la tendenza di Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della
donna a partire dalla tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi.
Parsons viene criticato anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza
sempre positiva all'ordine sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche
fonte di disordine. Per Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la
società, mentre Merton rileva l'esistenza di disfunzioni. L'attore di
Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai
valori, che ha un comportamento del tipo conformistico e che si comporta come
la gente vorrebbe che egli si comportasse. OpereModifica Ulteriori
informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i
suggerimenti del progetto di riferimento. Elenco delle principali opere:
La struttura dell'azione sociale, 1937 Il sistema sociale, 1951 Toward a
General Theory of Action (con E.A. Shils et alii), 1951 Working Papers in the
Theory of Action (con Robert F. Bales, E.A. Shils et alii), 1953 Saggi di
teoria sociologica, 1954 Famiglia e socializzazione, 1955 Structure and Process
in Modern Societies, 1959 Sociological Theory and Modern Society, 1968 Politics
and Social Structure, 1969 BibliografiaModifica Peter Hamilton, Talcott
Parsons, Bologna, il Mulino, 1983. Alberto Marinelli, Struttura dell'ordine e
funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli, 1988 Riccardo
Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, 1998. Uta
Gerhardt, Talcott Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge
University Press, 2002;. Realino Marra, Talcott Parsons. Valori, norme,
comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica»,
XXXIV-2, dicembre 2004, pp. 315–27. Sandro Segre, Talcott Parsons:
un'introduzione, Roma, Carocci, 2009. Matteo Bortolini, L'immunità necessaria.
Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005.
Christopher Hart (ed.), Talcott Parsons. A Collection of Essays in Honour of
Talcott Parsons, Chester, Midrash, 2009. Voci correlateModifica Ruolo di genere
Anthony Giddens Niklas Luhmann Ralf Dahrendorf Jürgen Habermas Alain Touraine
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Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Parsons,
Talcott, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Talcott
Parsons, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su
Wikidata ( EN ) Talcott Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota
State University. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Talcott Parsons, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàVIAF ( EN
) 29546994 · ISNI ( EN ) 0000 0001 2125 8615 · LCCN ( EN ) n80015395 · GND( DE
) 118591835 · BNE ( ES ) XX1061404(data) · BNF ( FR ) cb120227306 (data) ·J9U (
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, JA ) 00452203 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n80015395
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fa di 151.43.84.5 PAGINE CORRELATE Anomia assenza o mancanza di norme
Funzionalismo (sociologia) posizione dominante tra le teorie sociologiche
contemporanee Robert K. Merton sociologo statunitense Wikipedia Il
contenutoGrice: “There is a big difference between ‘inter-subjective’ and
‘inter-personal’ – and then there’s inter-active, co-active, and shared –
intenzionalita condivisa --. Subject applies to object, so inter-subjective
should be used when a neutral common ground (the object that both subjects
perceive) matters. Usually, this is not the case, since our focus is
communication or psi-transfer. However, ‘interpersonal’ is too vague because we
never know what a person is. Co-active and inter-active seem better, alla
Parsons. The dyad or interpersonal or interactional unit, where A orientates
his action towards B and reciprocally or mutually so does B. Co-operation.” Maurizio
Ferraris. Ferraris. Keywords: the ontology of the intersubjective –
intersoggetivo – a functionalist approach to the inter-subjective – Grice as an
‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist of the inter-subjective. The
intersubjective conditions for the understanding of pretty subjective
utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective intentionality,
shared intentionality, and the inter-subjective – inter-subjective and
inter-personal. ‘conversational’ as short for ‘inter-subjective’ and
‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as relying on utterer AND
addressee. Grice’s definition of communication as relying, obviously, on
utterer and addressee. Ferraris reccognises the rhapsodies of Austin needed
some systematization, and while Ferraris refers to Grice, he does so very superficially
-- and more. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferraris” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761852955/in/dateposted-public/
Grice e Ferrero – implicatura
arimmetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice:
“Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world,
Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras
taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!”
-- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del
Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione
Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi
uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno
spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento
dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che
Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire
sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico
occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più
importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra
filosofia romana e pitagorica,
rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana
classica. Su questa base l’a. arriva a
sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica
ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e
realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la
formazione del politico. Il piano
dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente
permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della
Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice
analitico che ne facilita la consultazione.
Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste. Ferrero is not the first to claim Italianita
and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan!
Numa learned from him! Cicero corrects here – it’s the tradition that counts –
Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by that time, the republic
had an official religion and Pythagorianism was not part of it! The Cusano
thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino claims Plato is
Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for
advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian. The important
bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the rest of Europe
via Italy, that always showed more of an interest for ancient history than the
Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. -
Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì
a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica.
Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la
sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono
per l'esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in
base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione
diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad
apprezzare nella musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione
spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua
dottrina dell'anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal
più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone
platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza
naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni
storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti
rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano
troppo pertinace intento di svalutazione polemica. Pei frammeriti degli
'Αρμονικά vedi le edizioni moderne di P. Marquard (con commento e versione
tedesca, Berlino 1868), di R. Westphal (A. v. Tarent, Melik und Rhytmik des
Klassischen Hellenentums, versione e commento in due voll., Lipsia 1883-93) e
di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes, introd. and
index of words, Oxford 1903). ADVERTISING Bibl.: von Jan, in
Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis., II, coll. 1057-65, che
contiene ulteriori indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg,
Grundriss d. Gsch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 402 del testo e
123-24 dell'appendice bibliografica; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et
la musique dans l'antiquité, Parigi 1924. La restituzione della Geometria
Pitagorica Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I
Poliedri regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del
"postulato" di Euclide 6 PREMESSE 1. Proclo, capo della Scuola
d'Atene (V secolo d.C.), ci ha lasciato un prezioso commento sul Primo Libro di
Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed importanti notizie
che i moderni posseggano sui ri- sultati conseguiti e le scoperte fatte in
geometria da Pi- tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo «Pitagora trasformò
questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimontò ai principi
superiori e ricercò i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura; è a lui
che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure del
cosmo (po- liedri regolari)».1 1 PROCLO, Com. in Euclidem, ediz. Teubner, 65,
15-21: la tra- duzione su riportata è quella del Tannery (PAUL TANNERY, La Géo-
métrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en
savons, Gauthier-Villars, Paris, 1877, pag. 57). Non è una traduzione alla
lettera; e non per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo
che il testo greco non dice che Pita- gora rimontò ai principi superiori della
geometria, ma ἄνωθεν τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa:
considerando dall'al- to i principi della geometria. Anche il Loria (GINO
LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 1914, pag. 9), riporta il passo
con una traduzione analoga a quella del Tannery. 7 Proclo ci
attesta inoltre2 che: a) Eudèmo, il peripatetico3, attribuisce ai pitagorici la
scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qua- lunque la somma degli
angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che
consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato
opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni
formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del
triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un an- golo
piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei
triangoli equilateri riuniti per il vertice riem- piono esattamente i quattro
angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono
qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti;
questa somma non è data esattamente che dai soli 2 Cfr. P. TANNERY, Le
Géométrie Grecque, pag. 102. PROCLO, ediz. Teubner, pag. 379. ALDO MIELI
riporta il passo nel testo gre- co a pag. 273 della sua opera: Le scuole
ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1916. 3 Eudemo da Rodi, l'eminente
discepolo di Aristotele. Aristo- tele è morto nel 322 a.C.; Euclide fiorì verso
il 300 a.C. 8 poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È
un teorema pitagorico».4 c) Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote-
nusa di un triangolo rettangolo: «Se si ascoltano coloro che vogliono
raccontare la storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono
questo teorema a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta»5.
d) «Secondo Eudemo (οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la para- bola delle aree, la loro
iperbole e la loro ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con
questa nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo
designa i problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e
di quel- la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione
geometrica, dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2
e) L'impiego del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di
riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re
l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner,
pag. 304. 5 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 426. Questo teorema è attribuito a
Pitagora anche da DIOGENE LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De
Architectura), IX, cap. II, e da ATENEO. 6 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 419. 7
PROCLO, ediz. Teubner, pag. 65. Per quest'ultimo punto vedi anche GIAMBLICO –
De Vita Pythagorae, 18. 9 2. Queste, insieme a poche altre che
avremo occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si
possiedono sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che
a sua volta le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però
notare che il Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il
punto unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera
geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha
neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad
Euclide da Eude- mo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita
Eudemo solo di seconda mano, e precisamente at- traverso Gemino, autore del I
secolo a.C., un greco, pro- babilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad
Eudemo, per spiegare l'origine delle indi- cazioni passabilmente numerose e
circostanziate perve- nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola
pita- gorica, il Tannery sostiene9 che deve essere esistita un'o- pera di
geometria, relativamente considerevole, che Eu- demo deve avere avuto tra le
mani, opera composta dopo la morte di Pitagora, approssimativamente verso la
metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico desi- gna come: la tradizione
circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di
Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- 8
P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 14 e 15. 9 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 82 ed
86. 10 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 87. 10 za, il quadro era già
quello che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due
retti), al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei
poliedri regolari). Questo è il corona- mento dell'uno e dell'altro; cioè del
riassunto di Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen-
taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de
même que Minerve du cerveau de Jupiter»11. Nulla però sappiamo circa le
dimostrazioni dei teore- mi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la
tratta- zione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eu- demo; nulla,
all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non
manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eude- mo ai
pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop.
32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di
un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi
sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle
parallele o po- stulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma
dei tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella
proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva il
Vacca12, anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- 11 P. TANNERY, La
Géom. gr., pag. 88. 12 VACCA GIOVANNI, Euclide – Il primo libro degli elementi,
Te- sto greco, versione italiana e note, Firenze, 1916, pag. 78. 11
vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica (Metaph., 1051 a
24) si riferisce non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione
di Eudemo. A questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal
duplice punto di vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce
Aristotele, e che è quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si
basava anche essa come quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a
quello posteriormente ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel
passo che riporta da Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ,
la parallela; faceva lo stesso anche Eudemo, e faceva- no lo stesso anche i
pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal caso quale era l'accezione e la
definizione, per loro, della parola: parallela? Ed in relazione a questa
questione di ordine storico si presenta l'altra di ordine teorico: per
dimostrare il teorema dei due retti, è neces- sario basarsi sopra il famoso
postulato di Euclide, o so- pra un postulato equivalente? Possiamo rispondere
che il postulato di Euclide non è necessario per poter dimostrare il teorema
dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si riferisce Ari-
stotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si può fare
senza ammettere o premettere il V po- stulato, o, ciò che è equivalente, senza
ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data pas- sante
per un punto assegnato. 12 Se infatti si ammette, per esempio come fa il
Severi13, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte
di una retta ed aventi da questa una data di- stanza, è ancora una retta, si
può osservare: 1o – che tale retta è unica14; 2o – che per poter dimostrare
come que- sta retta, cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per
il punto assegnato, è anche l'unica non secante della retta data, il Severi
ricorre al postulato di Archime- de15, il che prova che il postulato ammesso
dal Severi non è equivalente al postulato di Euclide; 3o – che la di-
mostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo esterno, e del teorema
sopra la somma degli angoli di un triangolo16 (e che è quella di Euclide), si
basa in realtà sopra le sole proprietà della equidistante (la parallela del
Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta, non si basa sulla proprietà
formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre per il vertice la equidistante
dal lato op- posto ed applicare la proprietà degli angoli alterni inter- ni17,
ossia basta basarsi sul postulato del Severi e non su quello di Euclide. 13
FRANCESCO SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, 1926: vol. I, pag. 113. È
l'edizione non ridotta. 14 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, 114. 15 F. SEVERI,
Elem. di Geom., I, 119-20. Vedremo in seguito come se ne possa fare a meno,
occorre però sempre ricorrere ad un postulato. 16 F. SEVERI, Elem. di Geom., I,
pag. 123. 17 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, pag. 117. 13 Ne segue
che la dimostrazione cui si riferisce Aristo- tele può benissimo sussistere
sulla base di un postulato come quello del Severi o di un postulato ad esso
equiva- lente, e che è legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra
esposta. Ma noi la lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto
riguarda gli antichi pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti,
anche questo unico dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei
pitagorici viene a mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non
dimostravano il teo- rema dei due retti per questa via, ma in altro modo affat-
to diverso e d'altronde anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente il
Loria18: «Una sola cosa bisogna notare a questo proposito, ed è che i
pitagorici ai quali si deve la scoperta di questo teorema non sono per fermo
gli stessi che inventarono questo ragionamen- to, ché altrimenti non si
saprebbe comprendere come Eutocio, in un passo del commento al 1o libro delle
Co- niche di Apollonio (Apollonio – ed. Heiberg, II Vol., Lipsiae, 1893, p.
170) dica: «Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei due retti a
parte per ogni spe- cie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per
l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo
dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli 18 GINO LORIA, Le scienze
esatte nell'antica Grecia, II edizio- ne, Hoepli, 1914, pag. 47. 14
interni di un triangolo sono eguali a due retti». «E» con- tinua Eutocio,
«chi dice questo è Gemino»19. In conclusione anche questo dato viene a mancare,
e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an- goli interni di un
triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli antichi; e che inoltre
tale dimostrazione era suddivisa in tre parti; particolare importante perché
induce a ritenere quasi per certo che la dimostrazione non dipendeva dalla
teoria delle parallele o da quella af- fine delle rette equidistanti. «Ai
pitagorici» scrive ancora il Loria20, «era noto il valore della somma degli
angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano dimostrare [come?] il
relativo teo- rema; ad essi per universale consenso viene attribuita la
scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca- ratteristica del
triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno quanto per
l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il primo
bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna
escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche
essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale
dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo:
«per conto 19 Cfr. ALDO MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica,
Firenze, 1916, pag. 273; ivi è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA
riporta tutto il passo a pagina 154 delle «Scienze esatte...». 20 GINO LORIA,
Storia delle matematiche, Torino, 1929-33, vol. 1, pag. 67. 15 mio
ammiro coloro che per primi investigarono la verità di questo teorema; ma
ammiro ancor più l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con
una di- mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più
generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento»21. 3. Non è noto quale
fosse la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo
affermare, ci sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie-
tà enunciata dal postulato delle rette parallele. Altrimen- ti gli antichi
pitagorici, che per quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero
fatto uso già ed anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto-
cio-Gemino, che solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa
dimostrazione. L'Allman ha indicato come gli antichi possano essere giunti al
teorema dei due retti, che egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva
l'Allman22 che nel caso dei sei triangoli equilateri congruenti attorno ad un
vertice co- mune, essendo la somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno
risulta eguale ad un terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo
hanno per somma due retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può
essere la buona, perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266
dell'opera citata riporta il testo greco di Proclo. 22 ALLMAN GEORGE JOHNSTON,
Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1889, pag. 12. 16
necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si ammette
l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si possano
effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma
nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a
meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo,
indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso
del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo
rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del
triangolo rettangolo qualunque (fig. 2), egli completa il rettangolo (di cui si
presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily
(empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il
trian- golo rettangolo è così decomposto in due triangoli iso- sceli cogli
angoli alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A
hanno per somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli
ad 17 essi rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma
dei tre angoli di un triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di
qui il teorema si estende agevolmente, sebbene l'Allman si dimentichi di dirlo,
al triangolo isoscele, e da questo ad un triangolo qualun- que. Il Tannery
riconosce esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la
proprietà relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i
sei triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante
anche egli inverte l'ordine23 dicendo: «È anche molto possibile che sia stato
il riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti
attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della
eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi
triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino,
prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che,
seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso
particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello
all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que,
soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno.
Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia
quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai
risultati nel- 23 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 104. 18 l'ordine
indicato da Gemino, e che faccia appello all'in- tuizione in modo più semplice.
4. Quanto al teorema sul quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare»,
scrive il Tannery24, «che se non l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa
proposizione fu una delle prime che egli incontrò, ed affatto il corona- mento
delle ricerche», come invece è nel testo del primo libro di Euclide.
Perfettamente d'accordo; ed appunto per questa ragio- ne la dimostrazione
pitagorica del teorema di Pitagora non solo non può essere la coda e la
conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma deve essere indipendente
dalla teoria della similitudine, da quella delle proporzio- ni, nonché dai
postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte, se è noto e certo che gli
egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli aventi per misura dei
lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto trian- golo egizio,
non risulta però affatto che conoscessero il teorema generale sul quadrato
dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse ridotta ad un semplice
pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i peana ed i sacrifici agli
Dei. Ricercando quale possa essere stata la dimostrazione, il Tannery, dopo
avere detto25 che «i greci introducevano il più tardi possibile la nozione di
similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo che Pitagora deve essersi 24
P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 105. 25 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 97.
19 servito della similitudine, il cui impiego si dovette in se-
guito restringere a causa della scoperta della incommen- surabilità. Il
principio di similitudine si dimostra impie- gando il postulato delle
parallele; «inversamente26 am- mettendolo a priori se ne potrebbe ricavare il
postulato delle parallele». Ora, a parte il fatto che si tratta di una semplice
ipotesi non suffragata da alcun elemento, biso- gna notare come sia ben vero
che ammettendo questo postulato della similitudine se ne potrebbero ricavare il
postulato delle parallele, il teorema dei due retti, la no- zione e le
proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la teo- ria delle proporzioni e la
dimostrazione del teorema di Pitagora mediante i triangoli simili, ma non si
spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei
due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche secondo il Loria27 «la
dimostrazione che pre- senta il massimo di verisimiglianza è quella basata
sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che na- scono abbassando
la perpendicolare dal vertice dell'an- golo retto sull'ipotenusa. Con una
agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi di
Euclide». Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di
Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione
accennata dal Lo- ria e dal Tannery, la quale conduce infatti al così detto
primo teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di 26 P. TANNERY, La
Géom. gr., pag. 105. 27 GINO LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 67
in nota. 20 Pitagora, non sia affatto quella originale; senza
contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora dovrebbe
trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra il
quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente
os- serva l'Allman28 che sebbene Pitagora «possa averlo scoperto come una
conseguenza del teorema sulla pro- porzionalità dei lati dei triangoli
equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera
deduttiva», e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora
tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera
più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito
da Bretschneider» (fig. 3)29. Questa è una dimostrazione di cui gli storici
moderni ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono
solo le nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette
perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due 28 ALLMAN,
Greek Geometry, pag. 35. 29 BRETSCHNEIDER C. C., Die Geometrie und die Geometer
vor Euklides, Leipsig, 1870. 21 retti; ed è invece, come vedremo,
indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman30,
l'Hankel31 nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può
obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma
ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema
mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egi- ziani...»,
da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa
cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure
derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe,
secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si
vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura,
la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che
Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del
resto l'ap- prezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della
dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando
codesto criterio è proba- bile che si dovrebbe assegnare una provenienza
orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo
come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto
semplice- 30 ALLMAN, Greek Geometry, pag. 37. 31 HANKEL H., Zur Geschichte der
Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig, 1874. 22 mente
usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed,
anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli
stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone
fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non
soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione
del Menone. 32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, XIX. 23 CAPITOLO I IL
TEOREMA DEI DUE RETTI 1. Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa
questione essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici
dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano
una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle
parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non
ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma
nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette
parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito
non si incontrano mai, do- veva apparire particolarmente ripugnante alla
mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiu- to e
perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte,
escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a
proposizione del li- bro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per-
venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici
dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di
dimostrare il teorema. 24 Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti
il Tannery che al tempo di Pitagora «il numero delle verità ammes- se come
primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso... deve
essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu-
to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il
Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se
questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non
serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di
questo teorema e non a quel- la arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la
esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione
ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici
ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo
riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale permetto-
no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con sole
considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere il
postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di
qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del
postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma
che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo
probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale
fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo
inspirazione e 25 non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo
sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità
pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente
raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi,
quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a
scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi
presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il
contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il
postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi
interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni
nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea.
Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o
no) ammettessero: 1o – i postulati di deter- minazione e appartenenza; 2o – i
postulati relativi alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se
si vuole a rette finite e piani finiti); 3o – i postulati della congruenza o
del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che
cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè: 1) i criteri ordinari di
eguaglianza dei triangoli; 2) le relazioni tra gli elementi di uno stesso
triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di-
suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di cia- 26 scuno degli
interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due...
3) l'unicità della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle
perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle
oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za
con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. 2.
Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo
postulato, ossia ritrova- re l'antico postulato, per poter dimostrare il
teorema dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi
designassero le verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre
proposizioni della geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il
carattere di esigenza logica attribuito al concetto così designato, corrisponde
al greco αἴτημα ed al medio latino petitio, ed appare come termine matematico
nell'edizione latina di Euclide del Commandino del 1619, e come termine
filosofico nella versione latina della Reth. ad Alexan. del Philel- phus (morto
nel 1489). La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati è di Aristotele; ed
Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα. Nell'edificio geometrico
logico degli antichi figurava- no necessariamente delle verità primordiali
ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo avve- nisse per pura
necessità logica, per dare al ragionamento il necessario punto di partenza; né
è detto che venissero 27 scelte e stabilite avendo riguardo unicamente
all'intui- zione ed all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tene- re
presente che la mentalità geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla
mentalità moderna che ha per ideale una geometria pura, astratta, esistente
unicamente nel mondo della logica. Al contrario, osserva il Rostagni33,
«Religione, morale, politica, scienze matematiche non rappresentavano per i
pitagorici materie separate; o ve- ramente si individuarono in progresso di
tempo ma non cessarono mai di essere emanazioni e dipendenze della
cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito nella filosofia pitagorica,
sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le domina tutte,
indifferentemente». Archita, il pitagorico amico di Platone, in un frammento
riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio,34 dice che la
geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono
delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una
disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen-
dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gio- co degli scacchi; era
la scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e
dell'estensione. L'aritmetica era la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del
numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- 33 A. ROSTAGNI, Il verbo
di Pitagora, ed. Bocca, Torino 1924, pag. 71 34 Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore
et la philosophie pythago- ricienne; Paris, 1874, vol. I pag. 279. 28
gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed è evidente il
nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le altre due, la
astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che questa visione
sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era presumibilmente
basata sopra la sola intuizione ed espe- rienza sensibile umana ordinaria e non
aveva per ogget- to soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο, del-
l'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpi- camente inalterabile ἐστὼ
τῶν πραγμάτον, l'essenza del- le cose, l'al di là del περιέχον, della fascia
cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti.
Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna anco- ra all'intelligibile e non al
sensibile gli oggetti della geo- metria. Tenuto conto di tutto questo, la
verità primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è
la seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano
ruo- ta rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato at- torno ad un suo
punto fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta
situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della retta
(orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui ha
ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è
innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, del- l'osservazione e
dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e
rigidamente connes- 29 so con il piano della ruota, si muove anche esso,
e gira sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a
seconda che più o meno gira la ruota; e l'intui- zione e l'osservazione dicono
che la rotazione del seg- mento è eguale alla rotazione del raggio vettore.
D'altra parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare
difetto ai pitagorici; giacché, secondo Eude- mo, il problema, un poco più
arduo, di costruire un an- golo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice
ed un lato dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da
Chio che di Euclide; ed Oinopide (500 a.C. circa) è forse un pitagorico.
All'adozione di questo postulato parte dei moderni obbietterà che esso non
prescinde dal movimento; ma occorre osservare che non si tratta qui di
discutere le questioni teoriche del movimento e della congruenza, si tratta di
giudicare se questo postulato possa essere stato una delle verità primordiali
ammesse dai pitagorici, ed il fatto che esso si basa sul movimento, anzi sulla
rotazio- ne, non porta in proposito nessun pregiudizio. Il movi- mento, ed in
particolare il movimento di rotazione, si presentava come aspetto saliente e
caratteristico della vita cosmica, e perciò non solo poteva ma doveva pita-
goricamente avere la sua funzione anche nella geome- tria. La tendenza a fare a
meno per quanto è possibile del movimento è una tendenza di Euclide, e questa
sua antipatia ha forse contribuito alla sua grande innovazio- ne, alla teoria
delle rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai. Sono rette di
cui nessuno ha mai po- 30 tuto procurarsi l'esperienza sensibile e
nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico e gli ba- stava
che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli dessero il
mezzo necessario per procedere nella sua via. 3. Il postulato pitagorico della
rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario postulato della
rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che quan- do un piano
ruota intorno ad un suo punto fisso O (fig. 4) di un certo angolo α, tutti i
punti di una retta qualun- que AB del piano ruotano intorno ad O, in modo che
due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali che
^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB va
in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto
rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il
postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB,
con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di
un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice
rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la
sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto
esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se
esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna trasla- zione. Il postulato
afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota
di α, non era 31 naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la
AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la
ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si
portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 .
Perciò la proprietà si esten- de subito al caso dell'angolo concavo e
dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro
di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il rag- gio vettore OH si porta sul
prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il
postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con
essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che 32 due rette
perpendicolari in punti diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci
si limita a riconoscere che in questo caso le posizioni iniziale e finale della
ret- ta non si incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra
rotazione esse debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si
potrebbe anche enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota
sopra se stesso in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da
una retta qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure:
se il piano compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la
r va prima in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2
.Macisembrachelaformacheabbia- mo prescelto aderisca in modo più immediato alla
osser- vazione ed abbia quindi maggiore probabilità di coinci- dere con la
verità primordiale ammessa dai pitagorici. 4. Con l'aiuto di questo postulato
il teorema dei due retti nel caso del triangolo equilatero si dimostra imme-
diatamente. Naturalmente ciò presuppone che esistano dei trian- goli equilateri
e che si sappia costruire un triangolo equilatero di lato assegnato. La
considerazione del trian- golo equilatero doveva comparire molto presto nella
geometria pitagorica, per la corrispondenza che essi scorgevano tra i primi
quattro numeri, ed il punto, la ret- ta (individuata e limitata da due punti),
il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo spazio o il volume indi-
viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche 33 in Euclide la
prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il triangolo
equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa Euclide
am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una circonferenza
ha il centro su di un'altra circonferen- za ed un punto interno ad essa, la
taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro caso par-
ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to congiungente due
punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da essa. Posto ciò, per
dimostrare il nostro teorema basta co- noscere il 1o e 2o criterio di
eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo isoscele e sul triangolo
equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo
dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un triangolo equilatero è eguale a
due retti. Sia ABC il triangolo equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo.
34 La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra il lato op- posto in un
punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta
della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no
al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono egua- li perché metà di angoli
eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali
per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice
dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o
o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo
ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB,
ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato,
cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo
nella rotazione, con due altre ro- tazioni eguali, la figura si sovrappone a se
stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni
del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra
parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò
la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia
a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35 5. La verità
del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai
pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della
rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era
naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era
naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti-
colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è
così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte
dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide,
come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi
rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare que- ste
proprietà, che sono del resto comprese tra quelle in- dicate innanzi: a) La
bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed
altezza. b) Esistenza, unicità e determinazione del punto me- dio di un
segmento. c) Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. d) La somma di due
angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. e) Se un angolo di
un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti. f) Se
in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di un
secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36
maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ oppo- sto a b; e viceversa. g) Se un
triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore.
h) In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due. i)
Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un punto.
k) Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele. l)
Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due
rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli
angoli interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il
triangolo isoscele (fig. 6) e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la
bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l
caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in
un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei
triangoli BAO, CAO 37 segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e
perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà
la metà BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L
risultano interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i
triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH =
OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo
adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per-
pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicola- re alla OK in K, e per
il postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta
eguale all'an- golodirotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso
OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e
l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL
sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed
^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di
quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato
rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma
sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti
meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale.
38 Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano
agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare: a) In un
triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un
triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato
maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA: In un
triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A (fig.
7) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque
ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è
divi- so in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' =
AH e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali
per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H.
39 Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA',
CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del
triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un
retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti,
^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La
dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da
Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi
menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è,
da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il
primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da
includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre
solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli
rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali.
Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40 Se BA = B'A' il teorema
è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il
triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi
C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può
condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre
premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote-
nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due
triangoli, ^A=^A '=90° , BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo
rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele
41 B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB.
Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema
fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso
del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC , ^ABC . Si dimostra
al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli
angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo
OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i
casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB.
Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché
anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice
O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC
e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli
rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò
sono eguali, ed 42 OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH,
OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa
in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di
^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo
qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando
da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati,
e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O,
portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente
sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago-
rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH,
^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni
sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due
precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele
include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa
la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, men- zionata da Eutocio
e Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la
tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe
giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme
avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teore- 43 ma nel primo
e semplice caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di
dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi
scoprirono il teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso
del triangolo equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio
se il teore- ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno
giunti a dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può
riferire non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma
all'ordine cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si
riesca a dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo,
siamo con- vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli
antichi, e quasi quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la
dimostrazione dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione
ri- correre ancora al postulato della rotazione. Si tenga pre- sente ad ogni
modo quanto scriveva il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà
che sembrano avere tro- vato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni
più semplici», citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti.
Comunque siamo giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema
fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del
postulato e del concetto delle rette parallele. È un risultato di una 35 P.
TANNERY, La Géom. gr., pag. 101, nota 2. 44 certa importanza se il
postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9.
Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al
postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato
pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa,
ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce
il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il
punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo
sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte
opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in
r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB '
l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I
triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ' , ^OTB'=^STB; e, se
ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il
terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr
' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato
pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma
degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. 45 Ammettendo
quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne
il nostro po- stulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo
equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la
costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la
nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in
sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se
si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale
ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se
oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di
Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso
non equivale al postula- to di Euclide. Infatti il Dehn (1900) ha dimostrato36
che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordi- naria geometria
elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea,
dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infi- nite non
secanti rispetto ad una retta data37. 36 Math. Ann., B. 53, pag. 405-439, Die
Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. ROBERTO BONOLA,
Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ,
Questioni riguardanti le Matematiche elementari, 3 ediz., vol. II, pag. 333. 37
Il Dehn chiama questa geometria: geometria semieuclidea. 46 Lo
stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la
proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si
può: 1o – ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato
quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea.
2o – negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di
Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. 3o – ignorare
completamente i due postulati di Eucli- de e di Archimede e le questioni
relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro ac-
cettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema
dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi
certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione
del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle
parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi ve- niamo a trovarci
esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso
del concetto di pa- 38 La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale
all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, pri- ma
ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed il Lo- ria ritiene che
l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr.
LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, pag. 143-145 e 224). Comunque gli
antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di Archimede. 47
rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti, sempre
senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una
dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo
ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con la
geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però esporre
una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione il
teorema dei due retti. Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un
triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH
all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno
ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri-
sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA',
^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H = 48 ^SAH+^OAH=unretto.
Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la
perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato
della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono
quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S +
^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA',
OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della
precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la
somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si
passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo
la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'al- tezza; ed essendo oramai
complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma
degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decom- posto il
triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele
si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le
tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori
della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora
indicato. 49 CAPITOLO II IL TEOREMA DI PITAGORA 1. Abbiamo avuto bisogno
del postulato pitagorico della rotazione per dimostrare il teorema dei due
retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non ne avremo più bisogno, perché
ci basta il teorema dei due retti ad esso, come sappiamo, equivalente. E,
siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il teorema dei due retti perché
lo dimostravano, la restituzione della geometria pitago- rica procede da ora in
poi partendo da questa loro sicura conoscenza, comunque ottenuta, ma senza il
postulato delle parallele. Anche se la via tenuta per ottenere il teo- rema dei
due retti fosse stata un'altra, sempre però indi- pendentemente dal postulato
di Euclide, ci troveremmo sempre nella medesima situazione di fronte al
problema della restituzione della geometria pitagorica, come svi- luppo e
conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo la nostra indagine a quanto
occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo ai pitagorici, 39 La
testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posterio- re anche a Proclo, è
attendibile. Dice il LORIA (Le scienze esatte, pag. 721) che Eutocio, di
mediocrissimo ingegno, era però assai diligente, accurato e coscienzioso; è
difficile d'altra parte inventa- re una notizia così precisa e circostanziata.
50 omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a
tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta
immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del
rettangolo e la dimostrazio- ne del teorema di Pitagora. E notiamo come dal
teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze:
a) Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello
rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. b) L'angolo del triangolo
equilatero è eguale ad un terzo di due retti. c) L'angolo esterno di un
triangolo qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. 2.
Passando ai quadrilateri, osserviamo subito che Eu- clide ne distingue, nelle
sue definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e
tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla
eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene
subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle
parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un
quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione
di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, 51
discendono invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto (fig.
12) AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo
rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la
semiretta40 perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB
= AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da
parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il
termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e
semirette prolungate all'infinito non pote- va, ci sembra, essere condiviso dai
pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si
riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il
postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si
può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla
parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso
convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La
definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette
infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito
dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco
stesso che precede il testo di Euclide. 52 golo ^ACD. I triangoli
ABC, DBC risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB,
̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli
angoli retti; è dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo
divide in due trian- goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente
che AD = BC e che le due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono
perpendicolari tra loro. 3. Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del
rettangolo. Prendiamo la seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con
tutti gli angoli retti. Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed
A il vertice dell'an- golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad
AB dalla parte di D rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A
rimangono da parti opposte rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC
retto la BD divide l'angolo retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD
sono eguali per il 1o criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53
^CDB=^ABD; e ̂ siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB
sarà comple- mento di ^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero
ABCD è retto; esso è dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i
loro prolungamenti non si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una
stessa retta; si dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che
esse si tagliano per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per
principiare che i vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad
AB, perché altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai
triangoli rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere
retti. Sia dun- ^ADC , ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due
trian- goli rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli
adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del
rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di
^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli
ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di
lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto
so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB,
e su di essa dalla parte di D si 54 prende BC = AD, si unisce C con D ed
ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti
proprietà del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici
l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la
costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la
proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice
comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque;
ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di
altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale.
4. TEOREMA DI PITAGORA: In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato
costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i
cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna
equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide
nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della
no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza
(Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo
rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione41: pre- 41
PLATONE, Menone, XIX – Una traduzione corretta e comple- ta del passo di
Platone trovasi nelle «Scienze esatte nell'antica Grecia» del LORIA a pag.
115-20. Platone conosceva la validità 55 so un quadrato ABCD (fig.
14) e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in
figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di
quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio
del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre
il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed
oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o – quella suggerita
dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è
antica; 2o – quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui
ci ha serbato memoria Anarizio42; 3o – quella di Baskara posteriore a Tabit di
circa tre secoli43. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia
per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa
doppia del cateto minore; risulta dal Timeo, XX. 42 Cfr. G. LORIA, Storia delle
Matematiche, vol. I, pag. 341. 43 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol.
1, pag. 315. 56 grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne
siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione
si possa fare senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo
rettangolo ABC (fig. 15) sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul
prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB
prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B
ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP =
CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD
risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e
precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed
il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del triangolo dato.
Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune CK, perché le tre
semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano
due a due, e 57 siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB
stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del
rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P,
K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB.
Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i
segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero
PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del
triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento
eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano
allineati sopra una perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si
riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i
lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la
terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è
compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro
parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale
alla somma del quadrato costruito sul cateto AB, del quadra- to costruito sul
cateto AC, e di quattro triangoli rettan- goli eguali al dato. Prendiamo ora
sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con
B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o
criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58 tutti i lati eguali. Inoltre
siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli
angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH
che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due angoli ^DGC , ̂FGH risul-
ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli altri an- goli del
quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito sull'ipotenusa BC
del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD
ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a CG. CG divide
dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed il poligono
CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono precedente è diviso
da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono CGHEA; questo a sua
vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo HBE ed il poligono
CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo ABC e nel quadrato
CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE togliendone quattro
triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli
ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei
quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea
(che si trova però già in Aristotele) dice che «togliendo da cose egua- li cose
eguali si ottengono cose eguali»; così il quadrato costruito sull'ipotenusa è
eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. 59 5. Ammettendo il
postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati di Euclide e
di Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi fondamentali della
geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi
sono validi entrambi tanto nel- la ordinaria geometria euclidea ed archimedea
quanto nella geometria più generale che ammette il postulato pitagorico della
rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di
Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria dell'equivalenza;
precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla
base di questa teoria e non alla fine. La dimo- strazione che ne abbiamo dato
dipende unicamente dal teorema dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e
dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla
figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto
agli storici moderni della matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren-
derla indipendente dal postulato di Euclide, di cui i pita- gorici non si
servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che diventa perciò
superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra
affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il fondatore
della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa il
teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria che
ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La dimostra-
60 zione del testo di Euclide prova la validità del teorema di Pitagora
sempre nel senso di eguaglianza per diffe- renza se ed anche se si ammette il
postulato delle paral- lele e nulla si dice di quello di Archimede; le
dimostra- zioni moderne ne provano la validità nel senso di egua- glianza
addittiva (Duhamel), equivalenza od equicom- posizione (Severi), se ed anche se
si ammette insieme al postulato di Euclide anche quello di Archimede. 6. Dalla
dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e
con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni
moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2
Quanto al primo basta semplicemente osservare la fi- gura 15 per riconoscere
che: TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è
eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua-
drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati
eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema
diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è
quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII.
61 am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla fig.
15, ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett.
ABDP ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla
differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma
dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo
che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si
ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone
ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b
) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha
per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro
che la squadra dei mura- tori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un
cateto di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito
sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così
pure il 62 TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il qua- drato costruito sopra
un lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri
due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per
brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo
sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e
chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2 , e
supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 +
c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma
allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo,
come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im-
mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63 TEOREMA:
Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al
rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH
(fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni
CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no-
tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e
di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte
quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+
c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e
h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64 [β]
h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è
la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso
è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+
2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema:
TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è
uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto
sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide. Ri-
cordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che
ad Euclide appartiene solo la di- mostrazione che si trova nel testo degli
Elementi (Libro I, 47). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu-
lato delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due
l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente
il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro
equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la
[β] ossia potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo
è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto
omologo del secondo. Siano (fig. 17) i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ
=Ĉ ed AC = B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian-
golo, c. d. d. b2=(AC)2 –BC·HC=ab' Di questo corollario ci serviremo in
seguito. Tra le conseguenze del teorema di Pitagora ha massi- ma importanza la
scoperta delle grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del
teorema ad un triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel no- stro
tema; così pure non ci occuperemo dei metodi attri- buiti a Pitagora per la
formazione dei triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri
interi45. 8. Dallo studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei
quadrilateri e dei poligoni in generale. Dal 45 P. TANNERY, La Géom. gr., pag.
48. 66 triangolo rettangolo isoscele e dal triangolo rettangolo
qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro proprietà. In modo
simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si ottiene il rombo ed
il romboi- de. Rombo, secondo la definizione che si trova in Eucli- de, è il
quadrilatero equilatero ma non rettangolo (per- ché in tal caso si chiama
quadrato). Sia ABD (fig. 18) un triangolo isoscele non rettango- lo, e dal
vertice B della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A
rispetto alla BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA.
Siccome ̂ABD è acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa
parte rispetto ad AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo
C con D: i due triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e
quindi i quattro lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un
rombo. Gli angoli  e Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC;
la diagonale BD biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C;
67 quindi anche l'altra diagonale biseca gli angoli, è per-
pendicolare alla prima ed il loro punto d'intersezione è il loro punto medio.
Viceversa se il quadrilatero ABCD è un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA
(supponendo i vertici ordina- ti), osserviamo prima di tutto che i vertici B e
C non possono trovarsi da parti opposte rispetto ad AD. Sup- posto infatti che
ciò accada, il vertice C non può trovarsi rispetto alla BD dalla stessa parte
di A, perché i due triangoli isosceli ABD, CBD con la base in comune ed eguali
per il 3o criterio coinciderebbero e C coincidereb- be con A. Ma neppure può
accadere che il vertice C stia da parte opposta di A rispetto a BD e di B
rispetto ad AD, perché l'asse della base comune BD dei due trian- goli isosceli
deve passare per A, per C e per il punto medio di BD, e quindi la semiretta AC
sta tutta rispetto ad AD dalla parte di B. Dunque se un quadrilatero ha i
quattro lati eguali due vertici consecutivi sono situati dalla stessa parte
della congiungente gli altri due vertici. Essendo poi A e C da parti opposte di
BD questa diago- nale divide il rombo in due triangoli isosceli eguali e di-
vide per metà i due angoli B^ e ^D del rombo; l'altra diagonale AC non è che
l'asse di BD; le due diagonali si tagliano dunque internamente, nel loro punto
medio, sono perpendicolari tra loro, e bisecano gli angoli del rombo. 9. La
definizione di romboide data dagli Elementi di Euclide è la seguente: Romboide
è il quadrilatero che ha 68 i lati e gli angoli opposti eguali tra loro,
ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco (ossia un rettan- golo).
Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri quadrila- teri. Subito dopo
compare, in Euclide, la definizione di rette parallele, e manca invece
completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo, la definizione di
parallelo- grammo; mancanza sensibile anche per il fatto che sap- piamo da
Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione di Euclide46. Abbiamo
già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la 23a ed
ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'e- lenco dei
postulati, non va troppo d'accordo con le defi- nizioni 2a, 3a e 4a per le
quali la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei
quadrilateri precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in
con- seguenza la definizione di parallelogrammo. Si ha l'im- pressione che
l'elenco delle definizioni a noi giunte in- sieme al testo di Euclide sia
l'antico o più antico, e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta
sia la classificazione antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima
definizione, come il postulato delle paral- lele è appiccicato in fondo
all'elenco degli altri postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più
conforme ad una geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla
geometria euclidea, basata sul V postulato; 46 PROCLO, ed. Teubner, 354. II-15.
Cfr. ALLMAN G. J., Greek Geometry, pag. 114. 69 e si spiega con il
fatto che i quattro quadrilateri: quadra- to, rettangolo, rombo e romboide si
ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il triangolo rettan-
golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il trian- golo isoscele e,
come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il romboide,
infatti, si ottiene con questo pro- cedimento. Sia, infatti (fig. 19), ABD un
triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A
rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca
C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque
insieme a D dalla stessa par- te rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono
eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide
l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo dunque
costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti
eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i
triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; 70 quindi
̂DMA=̂CMB e perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali
del romboide si ta- gliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide
il romboide in due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è
conseguentemente eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e
poiché gli an- goli opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple-
mentari. Viceversa, se si escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati
e quelli non convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati
opposti eguali esso è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua-
drilatero debbono essere tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo
concavo il vertice C dovrebbe stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed
essere esterno al triangolo BDA e così pure dovrebbe essere A esterno al
triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A interno al trian- golo DCB, sarebbe,
come si può dimostrare, la somma di AD ed AB minore della somma di CD e CB,
mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono essere eguali. Ma se A è esterno
a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da una stessa parte di BD il
quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il quadrilatero ABCD ha gli
angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta rispetto a BD da parte
opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il quadrilatero sarebbe
intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il quadrilatero ABCD,
allora, è divi- 71 so dalla diagonale BD in due triangoli eguali per il
3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati opposti
ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che se un
quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide. Anche
in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD, perché
essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il
triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester-
no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero
ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte
opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma
dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo
eguali le coppie di angoli opposti si avrà al- lora ^CDA+^DAB=due retti; e
quindi ̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teore- ma dei
due retti questa somma ha per supplemento l'an- golo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB.
Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il
secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un
romboide. 72 Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se
un quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47.
10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si
possono definire quadrato, ret- tangolo, rombo e romboide, e riconoscere le
loro pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto
d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre
quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso
ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo
punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri
ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni
rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si
sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della
generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e
dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del
quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al
contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale
verisimilmente e proba- bilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga,
se non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec-
cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo
attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di
Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di
scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei
pitagorici. 73 pone successivamente alla retta degli altri lati, e
nel caso del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di
mezzo giro. Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un
triangolo qualunque quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre
bisettrici, ed il quadrato si comporta come il triangolo equilatero
sovrapponendosi a se stesso quattro volte in un giro completo come quel- lo tre
volte. Se facciamo queste considerazioni è perché il nome stesso del rombo e
quindi anche quello del romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti,
dicono i dizionari, ῥόμβος (da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re
o mosso in giro. Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso
le fila tessute prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al
rom- bo di bronzo di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso
i greci, ed uno scoliaste alle Argo- nautiche di Apollonio dice che il rombo è
un rocchetto che vien fatto girare battendolo con delle striscie di lat- ta.48
Archita pitagorico parla in un suo frammento di questi «rombi magici che si
fanno girare nei misteri».49 48 Apollonio, Argonautiche, L. I, v. 1139. In OMERO
(Iliade, XIV, 413) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo (ed. Teubner,
171. 25) dice che «sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento».
49 Il Il Mieli che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi
(MIELI – Le scuole jonica, pythagorica... pag. 349) e lo CHAIGNET (vol. I, pag.
281) traduce: les toupies magi- 74 Cosicché la classificazione dei
quadrilateri che si trova negli Elementi di Euclide, non solamente è
indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre-
euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al postulato della
rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si riferiscono.
11. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il quadrato
sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo, inscritto in una
circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una circonferenza, in n parti
eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n segmenti eguali,
riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un poligono regolare,
decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di eguale altezza (apo-
tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al centro di un 1n di
angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e quindi in un giro
completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il postulato della rotazione
l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e quello in- terno il suo
supplemento. Aumentando n, l'angolo inter- no va crescendo e si può calcolarne
il valore per n = 5, 6, ... ques. 75 Siamo ora in grado di
occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti attorno
ad un verti- ce che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno tre,
ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'an- golo
giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte
di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro
retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono il
cui angolo è un terzo di giro; e non può verifi- carsi con altri poligoni
regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il
terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teore- ma dei due
retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è
affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come
il Tannery e l'Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita as- serzione di Proclo
che della proprietà dei poligoni rego- lari congruenti attorno ad un vertice fa
un teorema pita- gorico. 76 CAPITOLO III IL PENTALFA 1. La divisione
della circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo
della inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non
presen- tava difficoltà per i pitagorici; occorre appena osservare che dalla
riunione di sei triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene
appunto l'esagono regolare il cui lato risulta eguale al raggio della
circonferenza circoscritta. Più difficile invece si presenta il problema della
divi- sione della circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in
essa del pentagono e del decagono regolari; problema che doveva destare nei
pitagorici speciale in- teresse perché l'arco sotteso dal lato del decagono
stava nell'intera circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno
certamente risolto questo problema, perché altri- menti non avrebbero potuto
costruire l'icosaedro ed il dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno
fatto. Vediamo come possono aver fatto, sempre prescin- dendo dalla teoria
delle parallele, della similitudine, del- le proporzioni e dai due postulati di
Euclide ed Archi- mede. 77 2. Il problema dell'applicazione semplice, che
Euclide risolve dopo avere dimostrato il teorema sopra i paralle- logrammi
complementari (parapleromi) si può risolvere, in un caso particolare, anche
senza ammettere il postula- to delle parallele. Il problema si può enunciare
così: Co- struire un rettangolo di base data ed eguale ad un rettan- golo od un
quadrato assegnato; problema che corrispon- de alla determinazione della
soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc ax=b2 Se a > b oppure
a > c, il problema è risolubile anche nella nostra geometria. Sia (fig. 20),
per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b e BC = c. Preso
sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA = a, completiamo
il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti restano da
parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia in un punto
P interno la diagonale AC. Con- duciamo infine per P la MN perpendicolare alle
AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli ABC, ADC; PNC, PKC; AHP
e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è eguale (in estensione) al
ret- tangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il rettango- lo PNCK si ha che il
rettangolo MNCD è eguale al ret- tangolo dato HBCK. Il segmento CN è dunque
l'inco- gnito x dell'equazione. 78 Se invece a è minore tanto di b
che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più la certezza che la
AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del lato HK. Tale
certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il postulato di
Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel commento ad
Euclide I, 43 (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi dell'applicazione
sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ τὸν Εὔδημον, e
non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è basato sopra
l'autorità di Eudemo. La testi- monianza non è questa volta quella personale di
Eude- mo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza corrisponde il fatto
che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle parallele, potevano risolvere
il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del resto quello che ci interessa,
perché per- mette di risolvere le questioni che ci si presenteranno in seguito.
79 Per risolvere, dopo quello dell'applicazione semplice (parabola), gli
altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo premettere il seguente teorema
ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio dell'ipotenusa di un triangolo
rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed in- versamente se in un triangolo
il punto medio di un lato è equidistante dai tre vertici esso è rettangolo. Sia
ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il verti- ce dell'angolo retto.
Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB la semiretta che forma con AB
un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è interna all'an- golo retto
^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O interno, formando due
triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli alla base complementari
di angoli eguali); quindi O, punto medio dell'ipotenusa, è equidistante dai tre
vertici. Viceversa, se nel triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA
= OB = OC, risulta ^OAC=^OCA; ^OAB=^OBA, , siccome per il teorema dei due retti
la 80 somma di questi quattro angoli è eguale a due retti si avrà:
^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le due altezze dei triangoli isosceli li
suddividono in triangoli rettangoli eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3.
Passiamo agli altri due problemi dell'applicazione. Il problema
dell'applicazione in difetto (ellissi) si può enunciare così: Costruire un
rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra il rettangolo di eguale
altezza e base assegnata ed esso sia un quadrato. Più moderna- mente e più
chiaramente: costruire un rettangolo di data area b2, conoscendo la somma dei
lati a. Si tratta cioè di risolvere l'equazione di secondo gra- do: x (a –
x)=b2 Sia ABCD (fig. 22) il quadrato di lato AB = b. Preso sulla AB dalla parte
di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà di a, si determinano sulla AB
i punti E ed F tali che OE = OD = OF; per il teorema precedente il triangolo
EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co- struito sull'altezza AD è eguale al
rettangolo di lati AF, AE. Costruito il rettangolo EKGF, con EK = AE, se da
esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il quadrato ABCD, la differenza AEKH è
appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF risolve dunque il problema, ed è EA la
81 x dell'equazione data. Affinché il problema ammetta so- luzione reale
occorre che sia a>2b. Il problema dell'applicazione in eccesso (iperbole) si
può enunciare così: costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la
differenza tra di esso ed il rettangolo di eguale altezza e base assegnata a
sia un quadrato. Il pro- blema equivale a costruire un rettangolo conoscendone
l'area e la differenza dei lati, ossia corrisponde alla riso- luzione
dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed ammette sempre soluzione. Sia ABCD (fig. 22) il
quadrato di lato b, e prendiamo dalla parte di B sulla AB il segmento AF'=a.
Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il
triangolo EDF è rettangolo, ed il qua- drato dell'altezza ABCD è eguale al
rettangolo che ha per lati le proiezioni EA = EK, ed AF = EF' dei cateti.
82 Se da questo rettangolo si toglie il rettangolo AHL'F' di eguale
altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap- punto un quadrato EKHA. Il
rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA è la x dell'equazione. 4.
PROBLEMA: Determinare la parte aurea di un segmento; ossia dividere un segmento
in modo che il quadrato avente per lato la parte maggiore (parte aurea) sia
eguale al rettangolo avente per lati l'intero segmento e la parte rimanente.
Questo problema è un caso particolare del problema dell'applicazione in
eccesso; e precisamente il caso in cui a = b. Costruiamo (fig. 23) il quadrato
ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di AD, e prendiamo su AD i
segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo, quindi il quadrato che ha
per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per lati DK = DF ed ED.
83 Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC, ri- sulta DF e
quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque minore del
lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente maggiore; perciò
la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal rettangolo EHKD e dal
quadrato ABCD la parte co- mune AGDK si ha che il quadrato EHGA è eguale al
rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed il segmento BG,
che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG, ossia il lato del
quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel modo richiesto,
ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che AD è la parte
aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della parte aurea
AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte aurea di un
segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG un'altra soluzio-
ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB ‧ BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2
+ (SG)2 + 2AS ‧ SG =
(AG)2 ma (AG)2 = AB ‧ BG
= AB ‧ BS –
AB ‧ SG e
quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧ SG =
AB ‧ BS –
AB ‧ SG e
(AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧ SG +
AB ‧ SG =
AB ‧ BS
84 dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS ‧ SG + AB ‧ SG = 0
ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0 Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può
accadere solo se SG = 0, ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un
triangolo isoscele aven- te l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due
ret- ti è la parte aurea del lato. Un triangolo isoscele VAB (fig. 24) che abbia
l'ango- lo al vertice di 36° e quindi quelli alla base di 72°, è di- viso dalla
bisettrice di uno degli angoli alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed
i tre segmenti VC, AC, AB risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB
risultano inoltre equiangoli tra loro. 85 Abbassando le altezze VH
ed AM, e conducendo da H l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12
BM – 14 BC I triangoli rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il
cateto AH del primo è l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del
capitolo precedente si ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA,
NH) = 4 quad. (AH) rett. (VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC)
Dunque VC, ossia AB è la parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il
teorema inverso: Se un triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del
lato, esso ha l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia
V'A'B' il triangolo dato e la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il
triangolo isoscele VAB con VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di
due retti, sarà per il teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e
per l'unicità della parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali
c.d.d.50 50 Il LORIA (Scienze esatte, pag. 41) attribuisce a Pitagora la
costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della
base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la
base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC
(fig. 24), e sembra che in- 86 6. Per costruire un triangolo
isoscele con l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire
un angolo eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro,
basta prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea.
Facendo com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali
all'angolo al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si
ottiene un decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10
parti eguali, il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del
raggio. Siamo dunque in grado di risolvere il PROBLEMA: Dividere una
circonferenza in dieci parti eguali. Uniamo (fig. 25) il punto medio C del raggio
OA con l'estremo B del raggio perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte
di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio.
Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due
punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA. Questo accade,
naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto ancora, due secoli
dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso particolare,
ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una circonferenza di
centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via fu tenuta anche
da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece, dal teorema di
Pitago- ra, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in partico-
lare il corollario di pag. 53, ed i problemi dell'applicazione che sappiamo
erano stati risolti dai pitagorici. 87 esterno ed uno interno a
tale circonferenza le due cir- conferenze si tagliano. Questa proprietà
talmente assio- matica che Euclide non ha sentito il bisogno di postular- la,
per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale.
Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo
centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano
gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un
numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare
inscritto; riunendo il pri- mo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si
ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come par- tendo dal
teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici
erano in grado di dividere la 88 circonferenza in 5 e 10 parti
eguali, e di inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il
pentagono stellato o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente
conducendo le cinque diagonali del pen- tagono; e poiché il pentalfa era il
simbolo del sodalizio pitagorico, la scoperta della divisione della
circonferen- za in 10 e 5 parti eguali e la costruzione del decagono regolare,
del pentagono regolare e del pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora.
7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra
Scuola non sono tutte di natura geometrica. Cosa naturale, data la connessione
tra la geometria, le altre scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà
geometriche che legano tra loro il rag- gio della circonferenza, i lati del
pentagono e del deca- gono regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del
decago- no stellato o decalfa, sono tante e così semplici e belle da avere
indubbiamente suscitato l'ammirazione dei pi- tagorici e da avere contribuito a
determinare od a giusti- ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola
ed a segno di riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone
ordinatamente una parte. Congiungendo (fig. 26) successivamente i punti di di-
visione A, B, C,... della circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono
regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte
aurea del raggio. 89 Congiungendo A con C, C con E ecc., si ha il
penta- gono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5; congiungendo A
con D, D con G ecc., si ha il decago- no stellato ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'...
LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10; congiungendo A con E, E con I
ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato
con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde
AG, AH... degli archi sestuplo ecc. del- l'arco AB si riottengono in ordine
inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni regolari e stellati
inscritti 90 nella circonferenza, e che si ottengono mediante la sua
suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il pentalfa
deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco) come quello
formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato dal P. Kircher
nella sua Aritmetica (1665)51; siamo però con- vinti che questa è la denominazione
originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le
del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte successi-
vamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza, come la
somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi della
geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due punti), la
superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume (tetraedro,
determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio
(tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi
dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la
sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella
nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e
con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA,
Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91 Il quadrilatero ABDG
che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso
dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha: [1] l2+s2=4r2
10 5 [2] l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali [3] l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione
che lega il raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si
enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del
decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in
una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si
riconosce facilmente che il diametro AOF è per- pendicolare al lato EG del
pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il
trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quin- di ̂EAG di 36°.
Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due
retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I
triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base
parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la
parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF
di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di
72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e 92 le congiungenti
A cogli altri punti di divisione in 10 par- ti eguali della circonferenza
dividono l'angolo piatto at- torno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per
gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN
avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale
al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del
pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti
corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel
lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la
parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un
pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la
metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF.
Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito. 8. Dobbiamo ora
stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella costruzione
dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo
che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza è una
secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tan-
gente in quel punto alla circonferenza. E siccome sap- piamo che il luogo
geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la
circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre
le 93 tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora
(fig. 27) da un punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il
diametro PO ed una secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD
è perpendico- lare alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia
PM + CM e PM – CM è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati
costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2
= = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2.
Prendiamo allora nella figura 26 sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i
triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale
sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al
vertice supera quello alla base, la base 94 OS è maggiore del lato
OA ed il punto S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST,
sarà per il teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del
decagono regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi
ST = AB = l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2
ossia la relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato
del pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per
cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura
26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai
triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC
= l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la
parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si
ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95 Da questa relazione e dalle
altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per brevità
con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6] s2
+r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e
perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l
quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l
=3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo
adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r;
l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF =
l10 sihaAD=AF=s10;CD=s5.PresoAM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si trova
(cfr. LORIA, Scienze esat- te, pag. 271) nel XIV libro di Euclide (che è di
Ipsicle, II secolo a.C.), e così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova
che fossero sconosciute prima di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che
l'apotema del triangolo equilatero è la metà del raggio, proprietà nota
certamente molto prima. 96 sulla perpendicolare alla AM il
segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL risulta rettangolo, perché
CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo compaiono gli stessi cinque
elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha per cateti il lato del
pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha per altezza il raggio
del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa sono
eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re inscritto ed a quello
del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea dell'altezza e
l'altezza è parte 97 aurea della proiezione del cateto maggiore. Il
cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati
costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra
l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni
regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle
diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di
lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una ter- za
relazione tra quei cinque elementi: [11] l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5
l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle
precedenti an- che le relazioni: [12] 2a5=s10=r+l10 [13] 2a10=s5 Vedremo in
seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del
dodecaedro regolare. 10. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico.
Si disegnava, (fig. 29) con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei
vertici le lettere componenti la paro- la ὑγίεια, latino salus, da intendere
nel duplice senso che ha la parola «salute» in Dante e nei «Fedeli d'Amore»,
ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza privi- legiata indicata alla
fine dei «Versi d'oro». 98 Questo antico simbolo pitagorico
riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato di solito
come «la figura di Pitagora». Talora al centro si trova scritta la lettera G,
iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella «flaming Star» di un noto Ordine
Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera,
la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della sua
trasmissione sino a divenire il fa- tidico «stellone» d'Italia. Diremo
soltanto, per chiuder questo capitolo, che il pentalfa ed il fascio littorio
(tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti sim- boli
spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien
dall'Oriente. 99 CAPITOLO IV I POLIEDRI REGOLARI I. Per vedere in quale
modo Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro
inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo
fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello
spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani
paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai
risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora.
Ma per non allungare trop- po questo nostro studio ci limiteremo ad indicare
per sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in
generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che
un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del
semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte
rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche
questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita-
mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che:
100 a) Una retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto
comune è divisa da esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a
quel piano. b) Se due piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è
una retta passante per quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla
comune in- tersezione in due semipiani situati da parti opposte rispetto
all'altro. c) Se per un punto H di una retta m si conducono ad essa in piani
diversi due perpendicolari a e b, ogni altra retta del piano ab passante per H
è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace
nel piano ab. Il piano ab dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta
perpendico- lare m al piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una
retta pas- sa un piano ed uno solo perpendicolare ad essa. e) Teorema delle tre
normali: Se una retta m è perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel
piano una retta a perpendicolare ad una retta r di α (pas- sante o no per il
piede H), la terza retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f)
Due piani che si intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri).
Seguono le definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. 101 g) Sia
β (fig. 30) un piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede.
Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in
β la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è
perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano
retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stes- so esso rimane
perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il
semipiano β vasulsemipianoαedαsuβ'.Iduediedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono,
sono quindi eguali; il se- mipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni
altro semipiano per r è interno all'uno od al-
l'altrodeidiedriα̂βe^αβ';quindiperunarettar del piano β si può condurre uno ed
un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi
102 perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi ^ sezione normale
di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla
r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare
alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la
semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e
quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^
diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per
un punto. Sia H un punto di un piano β (fig. 30), e si conduca per H in β una
retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al
piano β, con- dotta in β una retta b qualunque e per P il piano α
perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo una
retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema
delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra
subito la unicità. i) I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano
sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H
condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre
normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H
si di- mostra per assurdo. k) Se i piani α e β sono tra loro
perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è
perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano,
se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la
perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque.
Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari
a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo
sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi
infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli
e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il
piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla
interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e
perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed
analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD
perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la
EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il
quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un
rettan- golo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo
criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104 sono eguali. Le sezioni normali di
un diedro qua- lunque sono dunque eguali. m) Se due piani α e β sono
perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. n) Due
piani perpendicolari ad una retta non si incon- trano. o) Definizione di piano
assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti
equidistanti dagli estremi del segmento. p) Distanza di un punto da un piano; e
luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto
esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza,
un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il
centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro
e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro α̂ β si
conduca il piano δ perpendicolare allo spi- golo r. I tre piani α, β, γ sono
perpendicolari a δ; 105 condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β
esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con
H, P, K, i triangoli rettan- goli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM
in comune e gli angoli ^HMP , ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β
efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli
si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β
èequidistantedaαedaβ,essoappartieneal ^ Si dimostra nel solito modo, e si
estende all'ango- loide. t) TEOREMA: La somma delle facce di un triedro è
minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango-
loide convesso. v) Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce
eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. x) Definizione
di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni
regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. z) Possono esistere al
massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con
cin- 106 piano γ bisettore del diedro αβ. r) Definizione di triedro e di
angoloide convesso. s) TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma
delle altre due. que facce congruenti in un vertice eguali a dei
triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con
tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra
nel solito modo. 2. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la
possibilità dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro
effettiva costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si
può riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica
indipendentemente dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è
poi facilissimo rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due cir-
conferenze circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di
quello della seconda. Per il centro H di un triangolo (fig. 32) equilatero ABC
si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si
determina nel piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e
rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB.
Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli
angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per-
ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del
triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della faccia e per base lo
spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro
rego- lare di dato spigolo AB. 107 Chiamando l4 lo spigolo, con il
teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24
(BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta sulla h che
è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo
del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo ADD' è rettangolo
perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH è l'altezza di
questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH;
3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del
tetraedro regolare nella sfera di rag- gio r. 108 Preso OD = r e da parte
opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una circonferenza di
diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diame- tro; la sua intersezione
con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano
passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la
circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC.
Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto. 3. Esistenza e
costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD (fig. 33) un quadrato. Conduciamo
per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte
del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I
piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le
perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB,
EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. 109
Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC
perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è
perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al
piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH
perpendicolare all'inter- sezione CH risulta perpendicolare anche al piano
BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare
al piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD,
HGE sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi
appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano
coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce
dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni
vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è
costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è
perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un
quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due
diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF
e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la
diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto
medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano
in un medesimo punto O 110 che le biseca, quindi O è equidistante da
tutti i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi
(EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM
perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà
dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si
riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo
equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del
raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il
TEOREMA: L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del
triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo
del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema
della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi-
dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il
problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile
grazie al seguente LEMMA: Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in
n parti eguali e per i punti di divisione si con- 111 ducono le
perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC
un triangolo rettangolo (fig. 34), e sia l'ipo- tenusa BC divisa in n (5) parti
eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai
cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei
rettangoli e che essendo ^^^ ^^ EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli
rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK =
KI = HI = HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento
dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti
eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano
perpendico- lari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre,
indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema
di dividere un segmento in un nu- mero assegnato di parti eguali. Frattanto per
il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo
quintuplo sia maggiore del segmento dato 112 (per esempio riportando
cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si
descrive so- pra di esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in
uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato si
descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due
circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il
diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del
diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali.
In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre
parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella
sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir-
conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un
diametro CE della sfera (fig. 33) si con- duce un piano, ed in esso si
costruisce il triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato
del triangolo equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della
sfera) si conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M
e per N si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si
costruisce il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i
simmetrici dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici
del cubo. 113 4. Inscrizione dell'ottaedro regolare nella sfera di
raggio dato. Condotto per il centro della sfera il piano perpendico- lare al
diametro EF, sia ABCD (fig. 35) un quadrato in- scritto nel cerchio sezione.
Unendo gli estremi del dia- metro EF con A, B, C, D si ha l'ottaedro regolare
inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli equilateri, gli angoloidi
sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al vertice di triangoli isosceli
aventi il lato eguale all'altez- za della faccia e la base eguale al diametro
della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro che ha per verti- ci i
centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il te- traedro che ha per
vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle tre facce ivi
congruenti è regolare. 114 5. L'icosaedro regolare. Divisa una circonferenza
(fig. 36) di centro V e rag- gio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in
essa il de- cagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari
A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le
perpendicolari al piano α della circonferenza, e si pren- 115 dano
su di esse i segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è
perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano
C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano
C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così
prose- guendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2.
Esso è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α
ed al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la
A4C4 per- pendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un
rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3;
analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un
pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo ango- ̂̂ lo C1 C2 C3 è eguale
all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro,
analoga- mente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono
regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano
α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano
C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q
sta nel pia- no del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un
quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della
circonferenza circoscritta al 116 pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale
alla circonfe- renza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si
ha: (C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della
circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà
C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente
dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 =
B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo
si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si
ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del
pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede
subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla
VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce
che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due
cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono
C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo
DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del
pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi
il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila-
teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E 117 aventi
per lati opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un
icosaedro avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due
pentagoni C1C2C3- C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi-
lateri, ed è inscritto nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista
da D, C2, B2 e così pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali
degli spigoli C2DC2B2 si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3
risulta perpendicolare al piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F
equidistante da D, C2, B2. D'altra parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in
comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è
eguale alla C2F dell'altro, ed è F interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I
triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per lato il rag- gio della sfera
circoscritta e per base lo spigolo dell'ico- saedro quindi sono eguali. E,
poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F risultano eguali per il primo
crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche OFC4 = un retto; FC4 è dunque
perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano DC2B2; ossia C4 sta in questo
piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3 sta in questo piano; e si ha:
FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono DC2B2B3C4 è un pentagono piano
equilatero inscritto nella circonferenza di centro F e raggio FD, ossia è un
pentagono piano regolare ed è base della piramide pen- tagonale regolare di vertice
C3. Analogamente si dimo- 118 stra che ogni vertice dell'icosaedro è
vertice di una pira- mide pentagonale regolare eguale. La sezione normale del
diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo punto medio con i punti
C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di un triangolo isoscele che
ha per lato l'altezza della faccia e per base la diagonale del pentagono di
base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni diedro di ogni angoloide
dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un icosaedro regolare. Per
costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si può dunque procedere nel
modo seguente: 1o – si de- termina (fig. 23) il segmento C1C4 di cui C1C2 è la
parte aurea. 2o – si determina il centro Q della circonferenza circoscritta al
triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza di
centro Q e raggio QC1. 3o – si inscrive in questa circonferenza il pentago- no
regolare C1C2C3C4C5. 4o – si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano
del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel
punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. 5o
– si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. 6o – si
conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. 7o – si abbassa dal
vertice C1 la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1
appartiene alla circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. 8o – si abbassa
da C2 la perpendico- lare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene
alla circonferenza di centro V. 9o – si prende il punto 119 medio B1
dell'arco A1A2 e si inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono
regolare che ha questo punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il
pentagono B1B2- B3B4B5. 10o – si unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E
aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1 aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6.
Inscrizione dell'icosaedro regolare nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E
della fig. 36 è rettangolo in C2 per- ché i suoi vertici equidistano da O
centro della sfera. In esso l'altezza C2Q = r, raggio del pentagono C1C2C3C4-
C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi C2E = s5; perciò per la [8]
(C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 =
(DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha il TEOREMA: Il quintuplo del
quadrato che ha per lato il lato del pentagono di base è eguale al quadruplo
del quadrato del raggio della sfera circoscritta. Premesso questo teorema,
prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque parti eguali. Preso DG
eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen- dicolare a DE sino ad
incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2 = DE · DG ossia
(DH)2=2R·25 R=54 R2 120 DH è dunque eguale al raggio r della
circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del
decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da
OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V
i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si
descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente
i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il
vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra
loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai
vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della
sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il
raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la
parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in
questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli
dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato
l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti
relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E
si ricava: R '=12 s5⋅a10
121 cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro è
eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio
r, oppure è eguale all'apo- tema del decagono inscritto in questa
circonferenza. Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un
triangolo rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza
parte dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R'
–12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2
–r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1
(s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il
quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte
del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo
raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al
pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53
Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 122
Si può riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i
vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti
eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza
della fac- cia, e si può dimostrare geometricamente che questo esagono ha la
stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece
l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene
per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo
dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta
che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R
'= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare. e e quindi e Si ha pure:
ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10 ; s52=2R ·
s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l
52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2 Consideriamo nella fig. 36 la piramide
pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei
lati della base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro
F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 =
C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima
piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N
=2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli
isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 =
N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1
è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1
incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso
accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono
piano equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os-
sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro
congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della
piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro
pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso
il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di
vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124 no piano
regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno
in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni.
Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si
ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a
N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il
centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e
quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è
equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il
dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso
allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce
̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione
normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che
ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che
unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei
triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti
L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che
ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele
che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4
dell'icosaedro. Tali ele- menti restano dunque gli stessi se si prende la
sezione normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125
diedri son tutti eguali, e possiamo concludere che il do- decaedro costruito è
regolare, è inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo
più oltre la costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del
dodecaedro regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un
dodecaedro regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei
vertici del dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro.
Preso infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C,
P; e presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente
opposti, que- sti otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono
tutti eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del
pentalfa inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici
i vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono
trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di ver- tice A è
trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un
momento alla figura 26, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono
regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli
rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali
e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di
126 base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a
partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e
Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del
dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono
dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127 colare alle Q'A e
Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al
loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al
piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare
alla intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C
come pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi
il quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome
lo stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA
in un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare
la CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che
sono dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi
triedri di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si
dimostrano perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al
lato AP di questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto
nel do- decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro
la diagonale del cubo. Dalla fig. 36 risulta che i centri di due facce opposte
del dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro
O della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di
due facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque
nella fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il
centro O ed è O1O – O2O 128 l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del
triangolo OAO1, avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il
raggio O1A = r della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo
raggio non è che l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5
ossia AE ed AP. Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il
triplo del quadrato dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo
quindi: 3(AP)2=2R2 ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il
lato del triangolo equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il
triplo del quadrato del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di
questo quadrato, ne segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato
del lato del triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo
inscrit- to, che è anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del
dodecaedro, è i due terzi del lato del triangolo rego- lare inscritto nella
circonferenza di raggio R. Perciò per costruire il dodecaedro regolare
inscritto nella sfera di raggio OA = R si può procedere così: 1o – Si inscrive
il triangolo equilatero nella circonferenza di raggio R, e si prende i due
terzi del lato. Si ha così lo spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del
pentalfa inscritto nella faccia. 2o – Si determina la parte aurea di questo
spigolo e si ha così AE = l5. 3o – Si costruisce il triangolo rettangolo di
cateti s5 ed l5; l'altezza di questo 129 triangolo rettangolo è il raggio
r della circonferenza circoscritta alla faccia del dodecaedro. 4o – Si
costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto r, l'altro cateto è
l'apotema OO1 del dodecaedro. 5o – Preso un segmento O1O2 eguale al doppio
dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad esso, si
descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed O2 e si
inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è simmetrico di A
rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono quattro vertici del
cubo inscritto. 6o – Si conducono per A e per P i piani perpendicolari ad AP.
7o – Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale
AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli
altri quattro vertici del cubo. 8o – Nel piano AFG si completa il pentagono
regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK
ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del
problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura 26 i
triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA
della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re
inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del
decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della
circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130
perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del
pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella
maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella
maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea
del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e
OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e
quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del
decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella
minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono
inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza
di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per
raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e
sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono
regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella
mi- nore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del
dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze
circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare
alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due
facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6
di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è
perpendi- 131 colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della
faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa
quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano
O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia
inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1;
quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta-
gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono
ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i
lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di
vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce
facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono
rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni
O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi-
colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD.
Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ
è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano
perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare
BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra
che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad
O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132
Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo
che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte
aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne
segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è
eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso
ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e
poiché O1AλΘ è un ret- tangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo.
La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad
r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze
di centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo
l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio
del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è
un triangolo rettangolo di cui l'ipo- tenusaèegualeadr+a5,ilcatetoμB1
èegualeaa5 e quindi: ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10
e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l
s si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi
anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la
faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra
O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10
passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i
piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare
inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del
dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2
r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che
hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5.
Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di
O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa
dai piani degli al- 134 triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla
parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di
s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono
inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di
centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del
dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio
della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al
lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è
disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita
dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle
facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del
dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND
è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta,
DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV,
risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK =
r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che
AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL,
KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono
allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135 parti, AK eguale ad
l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso
allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il
raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti
medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5
2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il
rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e
quindi si ha: 2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10
10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e
gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di
base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di
base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5
ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai
triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136 [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a
2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 )
L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10
e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2
s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 =
4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 =
6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel
dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il
vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato
l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono
eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e
quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali
anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli
angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono
eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i
triangoli 137 PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le
due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del
triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da
9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato
l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la
sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono
dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo
trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il dode-
caedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla prima
e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici: 1o – Dato R si
determina come nel- l'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è
anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella fac- cia del dodecaedro.
2o – Si determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo
spigolo del do- decaedro. 3o – L'altezza del triangolo rettangolo che ha per
cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del dode- caedro inscritti è
eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta alla faccia del
dodecaedro. 4o – Le proiezio- ni dei cateti di questo triangolo sono l10 e s10,
ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti nel- la
circonferenza circoscritta alla faccia. 5o – Si prende un segmento Θη = l10
lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti
ΘO1 = ηO2 = 138 r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro
della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del
dodecaedro. 6o – Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari
ad O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2
eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse
i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B
stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e
che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici
del dodecaedro. 7o – Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si
uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il
dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto
alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte
aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è
s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso
precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5,
si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo
assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5
ed l5, la figu- ra 28 fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'.
139 Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli
circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro
inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può
fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2
... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici
dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 =
L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice
eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1
equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L',
L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo
rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è
in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza
circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella
circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata
geometricamente. 54 Cfr. G. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia,
pagg. 159 e 271. 140 CAPITOLO V IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO 1. In relazione
ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora
soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitago-
rici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica.
Nicomaco di Gerasa, scrittore del primo secolo dell'e- ra volgare, attesta che
Pitagora conosceva le tre propor- zioni aritmetica, geometrica ed armonica; e
Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die
aritmetica, geometrica ed armonica55. Si ha proporzione aritmetica tra quattro
numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed
in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha:
b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la
definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la
loro media aritmetica. 55Cfr. NICOMACO DI GERASA, ed. Teubner, pag. 122; e
JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G.
LORIA, Le scienze esatte, pag. 36. 141 Si ha proporzione
geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti
quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli estremi. Con
questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele e della
similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si sbatte
nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i
pitagorici erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione
semplice, ossia di costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre
segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di
uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se
b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d;
la media geometrica di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al
ret- tangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in
grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di costruire tale media
geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà
che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica quando i loro
inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e
conse- guentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di b è
eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un suo
frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della
proporzione continua 142 di tre termini; le definizioni antiche
coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica,
la definizione della media armonica è invece di- versa. Riportiamo il frammento
di Archita,56 inserendo per chiarezza gli esempi numerici: «La media è
aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale
a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa-
mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si
trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei
più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmeti- ca
perché 12 – 9 = 9 – 6; il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di
12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è
eguale 1+ 12 , ed 13 è minore di 12 )». «Si ha media geometrica, continua
Archita, quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo,
ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più
piccoli (esempio: 6 è la media geo- metrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il
medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando 56 Cfr.
H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin 1912; fr. 2o. Il
frammento di Archita è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251
dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la
philosophie pythagoricienne, 2a ed., vol. I, pag. 282-83) ne dà la traduzione.
143 il primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso,
identica alla frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa
proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto
dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di
6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a
1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita (o
dei pitagorici?) questa proporzio- ne era chiamata ὑπεναντία tradotto con
sub-contraria an- che dal Loria, perché secondo la definizione che abbia- mo
riportato, in questo caso succede il contrario che nel primo57. Da questa
definizione si può trarre con opera- zioni aritmetiche semplici la definizione
moderna. Di- fatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò signi- fica
secondo Archita che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente:
n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI,
Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144
e quindi: 2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche
scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac
: c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pita- gora trasportò
da Babilonia in Grecia.58 In questa impor- tantissima proporzione geometrica
gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata-
mente la loro media aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti,
dalla penultima relazione risulta la presumibile definizione geometrica della
media armo- nica: la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un
rettangolo avente per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al
rettangolo che ha per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che
ha per lato la media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica
di due segmenti a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue
che dati i due segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica,
per determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il
pro- blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- 58 La
testimonianza è di Giamblico, cfr. G. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 36.
145 bile sicuramente (anche senza la teoria delle
parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre
medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12
e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di
armonica alla me- dia sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri-
spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del
tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze
rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la
nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tan- to nella scala
pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo
conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra
le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia).
Ce lo dice, in parte, Filolao in un suo frammento60. Dice Filolao:
«L'estensione dell'armonia è una quarta più una quinta [adoperiamo i termini
moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta
di nove ottavi». Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia
il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo
modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si 59 I
termini di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner,
pag. 122. 60 Cfr. CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; vol. I,
pag. 230. 146 estende mediante l'aggiunta di due corde intermedie
che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il tetracordo composto di
quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle del do, del fa, del sol
e del do superiore (la corda intermedia nel doppio tetracordo)61. Considerando
le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze od altezze dei suoni
emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse delle lunghezze, è noto
come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le lunghezze di queste corde. Egli
trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la metà di quella della prima, e
che la lunghezza della seconda, cioè del fa era semplicemente la media aritme-
tica delle lunghezze di queste due corde estreme. Quan- to alla corda del sol,
il cui suono dà all'orecchio la sen- sazione di un intervallo rispetto al do
inferiore eguale 61 Questo tetracordo non è altro che la lira di Orfeo,
strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il canto. Os-
serva A. TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (1912, Hoepli, pag. 175), che
è «notevole che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della
voce nella declamazione. Infatti, interro- gando, la voce sale di una quarta;
rinforzando, cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di
una quinta». Occorre anche tener presente che «l'accento dell'indo-europeo era
un ac- cento di altezza; la vocale tonica era caratterizzata, non da un rin-
forzo della voce, come in tedesco ed in inglese, ma da una eleva- zione. Il
«tono» greco antico consisteva in una elevazione della voce, la vocale tonica
era una vocale più acuta delle vocali atone; l'intervallo è dato da Dionigi di
Alicarnasso come un intervallo di una quinta» (A. MEILLET, Aperçu d'une
histoire de la langue grec- que, Paris 1912, pag. 22; vedi anche pag. 296). 147
all'intervallo del do superiore a quello del fa, aveva una lunghezza tale
che le quattro lunghezze nel loro ordine formavano una proporzione geometrica.
Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34 , 23 , 12 ;
od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima corda, sono
espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la lunghezza
della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo
dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la
media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica
a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze
che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della
prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde
estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media ar- monica delle lunghezze
delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente.
Se inve- ce delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la
quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde
estreme, e la quarta la media armonica62. 62 In molti testi di fisica e di
matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che
le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione
armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lun-
ghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque 148 2.
Vediamo ora quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino
considerando gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è
immediata. Il cubo ha 12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri
che danno le lunghezze della prima, della terza e dell'ultima corda del sia
vero che nella scala naturale la lunghezza della corda del mi sia la media
armonica delle lunghezze del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala
pitagorica. Nella scala naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei
rapporti semplici, e la media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è
45 = lunghezza del mi; come quella del re = 89 è la media armonica di quelle
del do e del mi. La scala pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul
tetracordo; in esso la lunghezza della terza corda (sol) è la media armonica
delle lunghezze delle corde estreme; la sua elevazione rispetto alla prima
corda è la stessa di quella dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la
stessa elevazione che nel greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di
Alicarnasso per la vocale su cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di
media armonica introdotta da Archita deriva dalla proprietà della corda del sol
nel tetracordo greco, e non dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore
della scala naturale, al- lora inesistente. Filolao ci dice come venivano
stabiliti gli intervalli nella scala pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 :
34 =89 tra le due corde medie del tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo
dal do e dal sol si determinavano le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano
cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi= 64, fa= 3, sol= 9 81 4 149
tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è il cubo del primo numero dopo
l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo armonia geometrica.63 I
numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione che presentano le tre
cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa cosa, naturalmente
potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli, 8 facce e 6
vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della sfera
circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base
pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e
del decalfa in 2 , la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3
27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi
pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra
il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della nostra
ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di media
armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e soltanto
così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano attribuire a
questa media armonica, che con identica legge matematica si pre- sentava nella
musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo del- l'universo. Naturalmente
quest'errore si ripresenta nei testi di filo- sofia. Il Robin, p.e., (LÉON
ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 75) prende per le quattro corde
della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai
numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la
terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. 63 Cfr.
NICOMACO, ed. Teubner, pag. 125. 150 essa inscritti, abbiamo
trovato che: s10 + l10 = 2R. La me- dia aritmetica tra s10 e l10 è dunque R,
mentre per la [9] la media geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia
armonica; indicandola con M si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e
siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M = 45 R Così pure, considerando il
raggio R e la somma R + r dei due raggi, abbiamo trovato che la loro media
geome- trica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica l'apotema dell'ico- saedro. E
quindi, indicando con M la media armonica si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2
2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta
all'icosaedro con il raggio della circon- 151 ossia la media armonica tra la
somma del raggio della ferenza circoscritta al pentagono base ed il
raggio della sfera, è l'altezza di un rettangolo che ha per base il lato del
decalfa inscritto in questa circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato
che ha per lato l'apotema dell'ico- saedro. Venendo a considerare gli elementi
del dodecaedro regolare e della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la
presenza di due quaterne: la prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10
tra i piani di due facce opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici
dalle due facce, e tra loro; la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti
de- terminati sopra di esso dai due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè
dai segmenti AE = s5, AN1 = EN = l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue
queste quater- ne di segmenti, ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo
precede. Ora, se indichiamo con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della
successione che si ottiene prendendo come segmento consecutivo di un segmento
la sua parte aurea, si ha: a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo
termine della successione è la media aritmetica degli estremi. Si ha poi:
b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac – c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi
D'altra parte, indicando con M la media armonica de- gli estremi a, d, essa è
tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro
che il terzo segmento c. Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se
quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di una successione tale che ogni
segmento è seguito dalla sua parte aurea, acca- de che il secondo segmento ed
il terzo sono rispettiva- mente la media aritmetica e la media armonica degli
estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e
terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme.
Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei seg- menti determinati
sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani
delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza
s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del
doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il
lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani
conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e
la faccia più vicina, ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla
faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. 153 Analogamente il
lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del
pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del
pentagono NN1N2N3N4 della fig. 26; mentre il lato AN della punta del pentalfa è
la media armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4.
Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del
pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti,
tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media
aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del
tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10
ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha:
a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s
–r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed
l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 –
R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In
queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due
segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha
infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154 (2a+s
)·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17]
(2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è
eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza
di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli
elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago-
rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli
elementi 2a, s10, r ed l10 deve avere costituito ai loro occhi una conferma
significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regola- re
il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa
corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni
ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché
erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II
dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è
che da leggere alcune pagine del «Timeo» di Platone. Riassumiamo servendoci
della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che «ogni specie di corpo ha
profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di
triangoli», in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di
triangoli e corrispondentemen- 64 PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da
FRANCESCO ACRI, Milano 1915, vol. III, pag. 142-45. 155 te ogni
poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al numero
tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei vertici
che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una retta
che è individuata da due punti. Il punto, la ret- ta, il piano o triangolo ed
il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre e quattro
sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fat- to che ogni
poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è il
principio della generazio- ne65. «I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da
due spe- cie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo
rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri
corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi,
ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro ele- menti]».66 Siccome di
triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma),
Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di
essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipote- nusa doppia del cateto
minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore.
Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr.
PROCLO, ed. Teubner, pag. 166, 15. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET, vol. II, pag.
III. 66 Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per
chiarimento. 156 versa, preso un triangolo equilatero i diametri
della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de-
compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi triangoli
equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere
compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero
di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro
(composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha
venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali
triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce triangolari non vi
sono67. Con il triangolo rettangolo isoscele si ge- nera il cubo; perché
quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso
dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli iso-
sceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro
triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di
composizione che è la quinta, «di quella si fu giovato Iddio per lo disegno
del- l'universo». 67 Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Il Mieli (pag. 262
della sua opera) esclude assolutamente che i pitagorici fossero ar- rivati a
riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta
in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la
dimostrazione di Euclide (XIII, 18) nel suo testo greco. A noi sembra che i
pitagorici potevano benis- simo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi
conoscevano i cin- que poliedri che effettivamente esistono. 157 A
questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per ri- serva68 forse perché nel
caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il medesimo metodo
di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il pentagono con le
sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta triangoli
rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa. La
superficie del dode- caedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triango- li
rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a
Timeo. Ora il numero dodici (che compare anche negli altri poliedri) aveva già
per conto suo un carattere sacro ed universale; dodici era il nume- ro delle
divisioni zodiacali e dodici in Grecia, Etruria e Roma, era il numero degli Dei
consenti, dodici era il nu- mero delle verghe del fascio etrusco e romano, ed
un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenuti- ci stanno ad
indicare l'importanza del numero dodici e del dodecaedro69. Il numero 360 era
poi il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni
dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il
dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. 68 Il
silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche al Robin, il quale
dice (LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris, 1923, pag. 273) che «au sujet du
cinquième polyèdre regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux». Il
Robin non prospetta alcuna ragione di tanto mistero. 69 Cfr. ARTURO REGHINI, Il
fascio littorio, nella rivista «DOCENS» 1934-XIII, numeri 10-11. 158
La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi scrittori.
Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il
quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag- giunge che ogni
faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della faccia per vertice
comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale 360 triangoli.
Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci facce pentagonali
del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni, aggiunge che
questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l'an- no
poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come l'universo
contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, così
il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il περιέχον),
contiene i quattro poliedri regolari che li rap- presentano. Abbiamo veduto
infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro regolare; si
può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per verti- ci i centri delle
facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro regolare
prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un verti- ce
del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti 70 ALCINOO, De doctrina
Platonis, Parigi 1567, cap. II. Cfr. an- che l'opera di H. MARTIN – Études sur
le Timée de Platon, Paris 1841, II, 246. 71 PLUTARCO, Questioni platoniche, v.
I. Naturalmente si tratta dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di
precisarlo. 159 e questi tre fra loro si dimostra che si ottiene un
tetrae- dro regolare. La tetrade dei quattro elementi è contenuta nell'uni-
verso, il κόσμος, e questo nella fascia, come i quattro poliedri nel quinto e nella
sfera circoscritta. Così la te- trade dei punti, delle linee rette, dei piani e
dei corpi è contenuta nello spazio e lo costituisce; e quattro punti
individuano il poliedro con il minimo numero di facce ed individuano una sfera;
così la somma dei primi quat- tro numeri interi dà l'unità e totalità della
decade (nume- ro che appartiene tanto ai numeri lineari della serie natu- rale,
quanto ai numeri triangolari, quanto ai numeri pira- midali, e questo
indipendentemente dal fatto di assume- re il dieci come base del sistema di
numerazione); così le quattro note del tetracordo costituiscono l'armonia. Il
tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed
il tetracordo sono così intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del
dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo
segue, e di cui i medii hanno rispetto agli estremi esatta- mente la stessa
relazione delle corde medie alle estreme del tetracordo, e che individuano i
quattro piani conte- nenti i vertici del dodecaedro. E si comprende perché il
catechismo degli Acusmatici identifichi l'oracolo di Del- fi (l'ombelico del
mondo) alla tetractis ed all'armonia.72 La parte aurea ha grandissima
importanza nella strut- tura del pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo
72 Cfr. LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 78. 160
dell'universo. Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia
tanta importanza nell'architettura pre-peri- clea73; e molte altre cose vi
sarebbero da dire circa l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria
pitagorica, la co- smologia, l'architettura e le varie arti.74 La digressione
sarebbe però troppo lunga. Ci limitere- mo ad osservare che in questo modo lo
sviluppo della geometria pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola)
la inscrizione del dodecaedro nella sfera ed il rico- noscimento delle sue
proprietà, come sappiamo che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo
l'attestazione di Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione
delle figure platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a
quello di Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso;
ma mentre in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le
proprietà del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo
di quella stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note
del tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la
geometria alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- 73 M. CANTOR,
Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, 2a ed. I, 178. 74 Alla
considerazione della media armonica si connette, inve- ce, il canone della
statuaria di Polycleto; cfr. L. ROBIN, La pensée grecque, pag. 74. 75 Cfr. LORIA,
Le scienze esatte ecc., pag. 189. 161 so anche all'ascesi
pitagorica; e si comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente,
come Plato- ne potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere
l'anima verso l'essere eterno, una scuola prepa- ratoria per una mente
scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose
sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non
si conosce la matematica e l'intimo legame di que- st'ultima con la musica»76.
Per i pitagorici e per Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia
esote- rica, mentre la geometria euclidea, spezzando tutti i con- tatti e
divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di
questo particolare legame della cosmologia con la musica, percepibile nel
tetracordo formato dagli ele- menti costitutivi del dodecaedro, non è rimasta
traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di ogni traccia materiale
non sia casuale, perché questo doveva costi- tuire uno degli insegnamenti
segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è fornito dalla subita
riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena giunge a parlare del
dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un passo ab- bastanza importante
per la restituzione della geometria pitagorica, non soltanto dal punto di vista
moderno di restituzione dell'edificio geometrico puro, ma dal punto di vista
pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire 76 Cfr. LORIA, Le scienze
esatte ecc., pag. 110. 162 le connessioni tra la geometria e le
altre scienze e disci- pline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito,
ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας
πάντα ῥητά. 163 CAPITOLO VI DIMOSTRAZIONE DEL "POSTULATO" DI
EUCLIDE 1. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente
teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della
similitudine e della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le
scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il
problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti
i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con-
sentire il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la
abbiamo potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per
i problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella
autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad
Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza
che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la
geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la
assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto
tener conto come ele- 164 mento per la restituzione e non come documento
di pro- va, non era possibile fare di più; e sappiamo che in que- sta
circostanza anche le prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il
loro valore a favore della no- stra tesi. Nello sviluppo della geometria
pitagorica ci siamo li- mitati a quanto occorreva per poter raggiungere i
risulta- ti menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere altri risultati
ancora; ed una parte di essi li dovremo premet- tere per trattare l'importante
questione del «postulato» delle parallele. Il problema dell'applicazione
semplice, corrisponden- te alla risoluzione dell'equazione ax = bc o ax = b2,
si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel caso che ciò
non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può avere solo quando
si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V postu- lato. Una
difficoltà analoga si incontra in altre importan- ti questioni. Così, dati tre
punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre corde passano
per il cen- tro; ma non si può dimostrare in generale che per tre punti non
allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che
sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano
comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno
ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il
concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo adesso
165 di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà.
Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei
due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di
Archimede, dimostrare con il Legendre77 la unicità della non secante una retta
data passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle
parallele); e così pure os- serviamo come il Severi, ammesso il suo postulato delle
parallele78, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato di Archimede, la
unicità della non secante. La cosa è dun- que possibile servendosi del
postulato di Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo
po- stulato perché Archimede è posteriore persino ad Eucli- de, e non è
verosimile che i Pitagorici abbiano ammesso un postulato come quello di
Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato di Archimede ba- sta per
permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad
esso? E se non è necessario, po- tevano i pitagorici, senza di esso ed in modo
più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non
secante una retta data passante per un punto assegnato? 77 Cr. R. BONOLA in
ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., pag. 323. 78 Cfr. SEVERI, Elementi di
Geometria, Firenze 1926, vol. I, pag. 119. 166 Vedremo di sì, e
vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre
proposizioni che si deducono da quelle già viste. 2. TEOREMA: Se due rette a e
b sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendico-
lare ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano
le due rette a e b (fig. 38) perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo
la perpendico- lare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B,
perché altrimenti da B uscirebbero due perpendicola- ri alla b. E siccome la AB
e la PQ perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono
incontrarsi, i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB.
Unendo A con Q il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore
dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e
siccome sappiamo che i due angoli acuti del triangolo rettangolo sono
complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no eguali perché
complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA, avendo
inoltre 167 eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com-
plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio;
e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la
perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ
alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto
qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante.
Infatti, es- sendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB.
Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti.
Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha
dalla b una distanza PQ = AB, al- lora diciamo che questo punto P appartiene
alla perpen- dicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo
infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla
b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente apparte-
nere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q
e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è
acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento
di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo
compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al
complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168 è eguale
ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a per- pendicolare alla AB per A. Ne
segue che ogni altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti
abbiano distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta
equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta
equidistante da una retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta
equi- distante da una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A
abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa.
Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la
distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei
punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed
aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione
è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle
parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi
del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che
ognuna di esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve
che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti.
Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una
retta b passante per un punto 169 assegnato A, non dice affatto che ogni
altra retta passan- te per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi
sono altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti
dalla b: ossia per ora abbiamo di- mostrato la unicità della retta
equidistante; e nulla sap- piamo della unicità della non secante. 3. Valgono
per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le
rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e
for- ma con esse angoli alterni interni eguali esse sono equi- distanti.
Siano a e b (fig. 39) le due rette incontrate dalla tra- sversale AB, e siano
gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni
sono supplementa- ri. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono ret-
ti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema precedente
sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio
^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la
perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170 spetto a B dalla
parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo
retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret-
tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'ango- lo ottuso ̂BAD in due
parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma
^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e
b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Nota: lo stesso accade se
la AB forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni
eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti,
forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali,
ecc. Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se
fosse perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed
il teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti
diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due
rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH
risulta complementare di ^BAH ; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+
̂HAD=2 retti 171 ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono
dunque supple- mentari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Nota: non
è però dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima
deve secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il
problema dell'applicazione semplice nel caso generale. 4. Diventa ora possibile
la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita da Eudemo ai pitagorici,
dimo- strazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica di
Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la
equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni
di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto.
Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo
era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era
anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basava so- pra il teorema
delle rette equidistanti, derivante dal teo- rema dei due retti, doveva
necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa
per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò
inesplicabile la esistenza dell'antica dimo- strazione del teorema dei due
retti menzionata da Euto- cio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le
proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti
o non si usi il postulato di Eucli- 172 de. La equidistante è una non
secante, che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele
secondo la definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente
perciò la dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le
ragioni che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un
postulato sopra le rette equidistanti come quello del Se- veri. Se, come
crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come
conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota
dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia
supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di
poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e
di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica
dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti
Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri
tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso,
per- ché, come il Saccheri ha dimostrato, l'ammettere che delle rette
equidistanti esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato79.
Esso è il postulato del Severi, equivalente alla proposizione Saccheri, ed al
nostro postulato pitagorico della rotazione. 79 GIOVANNI VAILATI, Di un'opera
dimenticata del P. Girolamo Saccheri, in Scritti, 1911, pag. 481. 173
Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a
sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è
certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la
proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è vero- simile
derivi da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette
equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse
sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo postulato,
non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di Pitagora,
ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eu- demo, ed inoltre la
teoria delle equidistanti e, di riman- do, la dimostrazione del teorema dei due
retti attribuita ad essi da Eudemo. 5. TEOREMA: Se una trasversale incontra due
rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta
equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la
trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto
assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento
BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b
angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per
il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistan- ti.
E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174 equidistante dalla
m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto
della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è
un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi
lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel
romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante
si chiama altezza del rom- boide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di
un triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa
incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB
(fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti
i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B
stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno
da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da
questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175 lati
consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e
lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B
e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle
equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC
risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente
per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA
INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è
equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per
assurdo, come conseguenza della uni- cità della equidistante dalla BC passante
per M, e della unicità del punto medio M. 176 Come conseguenza di
questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette
equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi-
sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare
che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci
limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bi- sogno. TEOREMA: Se sul
prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al lato,
e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno degli
altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il
triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul
prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema
precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN
passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. 6. Vogliamo ora
dimostrare la proprietà, fondamenta- le che per un punto assegnato A esterno ad
una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. 80 In modo
simile a questo si può sviluppare la teoria delle ret- te e dei piani
equidistanti e la teoria dei piani equidistanti. Avrem- mo potuto premettere
questi sviluppi, ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in
varie questioni che abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto
fare a meno anche di essi. 177 178 Dal punto A (fig.
42) conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A
conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b en- trambi
perpendicolari alla AB non si possono incontra- re. Si tratta di dimostrare che
ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante della b.
Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a,
almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide
la m in due semirette situate da parti opposte della a; conside- riamo la
semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della
b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b
situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una
delle semirette di origine A e comprese nell'ango- lo ^B A a delle semirette AB
ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne
possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179 b;
anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese
nell'angolo m^a , perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto
N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e
lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento
BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna al-
l'angolo ^mAa, , è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra
parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese
in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB
l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infat- ti, a partire da A su
questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio
M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è
equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che
significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante
della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle
secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A
com- prese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta
b oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB,
la AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono
inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne
all'angolo C A a ; basta infatti 180 prendere un punto S qualunque sul
prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A,
passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta
b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi,
e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A
a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b
costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con
l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon-
denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita or- dinatamente dalle
altre; e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste
l'ultima semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qua-
lunque della b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono
delle altre. Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la
perpendicolare comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono
la AB e precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmen-
to BC; le semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza
biunivoca con i punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di
centro A comprese tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i
punti della spezzata ortogonale ABC, estre- mi compresi. La AB è la prima delle
semirette secanti, la a l'ultima delle non secanti la b. 181 Facciamo a
questo punto una osservazione: La corri- spondenza biunivoca tra i punti del
segmento BC e le semirette dell'angolo convesso ̂BAC che proietta il segmento
da un punto A fuori della retta BC, permette di ordinare l'insieme delle
semirette dell'angolo ^BAC . Per dedurre dalla ordinabilità della retta la
possibilità di ordinare le semirette di un fascio, il Severi81 nota che occorre
prima introdurre il postulato delle parallele, e poi nella corrispondenza
escludere dal fascio una delle semirette. Tale duplice necessità scompare se,
invece di ordinare le semirette in corrispondenza con i punti di una retta, si
può ordinare le semirette in corrispondenza con i punti del perimetro di un
rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la corrispondenza è completa,
nessu- na semiretta esclusa. Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i
ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle parallele, cosa che si
verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra geometria pitagorica.
Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme delle semirette del
fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito il verso di tale
ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente secanti o non
secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una secante è anche
essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è anche essa una
non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima delle se- 81
SEVERI, Elementi di geometria, vol. I, pag. 177. 182 mirette
secanti la b così da un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che
non esista o possa non esistere la prima delle semirette non secanti la b;
ossia che data una semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre
trovare delle altre pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però
osserva che partendo dalla posizio- ne iniziale AB, od anche AC, e girando
intorno ad A sino ad arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una
secante è divenuta alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è
verificata proprio al momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata
ad un certo momento per una posizione intermedia, prima del- la quale la
semiretta si era mantenuta sempre ancora se- cante e dopo la quale si è
mantenuta sempre ancora non secante. Insomma è intuitivamente evidente che
esiste una ed una sola semiretta che è la prima delle non se- canti; e tutto si
riduce a mostrare che tale prima non se- cante non è altro che la a. Da un
punto di vista logico si presenta corrisponden- temente la necessità di
ricorrere ad un postulato; ed era naturale e prevedibile che questo dovesse
accadere, al- trimenti il postulato della rotazione pitagorica (o l'equi-
valente proposizione Saccheri) sarebbe stato equivalente al postulato di
Euclide; soltanto che non si tratta del po- stulato di Archimede ma di un caso
assai più semplice del postulato di continuità. Bisogna ammettere come po-
stulato la esistenza di una semiretta di separazione delle due classi di
semirette secanti e non secanti la b; verità 183 talmente evidente
all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse costituire un
dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non sentire neppure
il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non ha sentito il
bisogno di postulare il po- stulato di continuità nei due casi che abbiamo a
suo tem- po espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere che ciò
sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo due
secoli prima di Eu- clide quando Pitagora per primo faceva della geometria una
scienza liberale. 7. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è
almeno una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e
secanti la b da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una
secante quindi sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce
subito, per assurdo, la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi
intendiamo mostrare che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può
essere la pri- ma non secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è
la prima e l'unica. Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB
(fig. 42) si conduce la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal-
la a e dalla b), ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti
la r sega la h in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega
come sap- 184 piamo la r, perciò una semiretta per A che non seghi la b
non può segare neppure la h; in particolare la prima se- miretta che non sega
la b non può segare la h ed è quin- di contenuta nella striscia ah. Dimostriamo
adesso il TEOREMA FONDAMENTALE: Per un punto non appartenente ad una retta data
passa una ed una sola retta che non la seca. Sia (fig. 43) A il punto dato e b
la retta data. Si con- duce da A la perpendicolare AB alla retta data, e sia B
il piede. Poi da A la semiretta a perpendicolare alla AB dalla stessa parte
della semiretta b e per il punto medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad
AB sempre dalla stessa parte delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta
r che for- ma con la semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non
secante qualunque della b (eventualmente an- che la prima). Allora la prima non
secante, ossia la se- miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di
cui abbiamo ammessa l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con
la r o precede la r, ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a
un angolo ε≥δ dove per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta
allora per A la semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la
b in un punto C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de.
Dovendo essere acuto l'angolo HAB del triangolo 185 rettangolo AHB, il
piede H sta sulla semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la
BA un angolo ε 30° e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la
semi- retta a in un punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta
compresa nella striscia ha, perché la s non incon- trando la b non incontra
neppure la h, quindi B ed H sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e
quindi anche la a. Si ha subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a
BA, sarà il punto K com- preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B
dell'angolo ε in modo che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla
BA in A, va sulla a' perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s,
perpendicolari entrambi alla BD sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H
e D, D e la s stanno da parti opposte rispetto alla a', e quindi anche D
186 e A; perciò il segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla
a'. Con la rotazione la s va sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo
ε penetrando perciò nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un
punto L. La DA forma con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti
^DEK , ̂DAH eguali; quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò
l'angolo esterno ^DLK=2ε. Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP
= AL, ed uniamo P con L. I triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e
l'angolo compreso eguale perché la trasversale CL forma con le due rette
equidi- stanti a e b angoli alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi
^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε;
perciò le semirette LK ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono
allineati, ossia la s' incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli
angoli alla base complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di
BK. Facendo ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la
base BK su BA, il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P
della s' va sopra la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora
sul prolungamento di AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla
b. Dunque la s è una secante della b. 187 Conclusione: la prima non
secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ; ma abbiamo veduto che non può
formare con la a neppure un angolo minore di δ; quindi se esistesse una prima
non secante la b distinta dalla a dovrebbe soddisfare alla condizione di
formare con la a un angolo che non dovrebbe esser né maggiore, né eguale né
minore dell'angolo S formato con la a da una non secante qualunque r. Ne segue
che, essendo impos- sibile soddisfare tali condizioni, tale prima non secante
distinta dalla a non esiste; e quindi la a è una non secan- te della b, è la
prima ed è l'unica tra tutte le semirette di origine A e comprese tra la AB e
la a, che non seca la b. Questa dimostrazione si può facilmente trasformare in
modo da fare a meno del movimento di rotazione at- torno al punto B.
Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della rotazione, o
l'equivalente teorema dei due retti (proposizione Saccheri) o l'equivalente
postulato del Se- veri sopra le rette equidistanti, si può dimostrare il po-
stulato di Euclide, sia ricorrendo al postulato di Archi- mede, sia facendo a
meno di ricorrere al postulato di Ar- chimede, ed ammettendo soltanto la
esistenza di quella semiretta di separazione delle secanti dalle non secanti
che alla intuizione degli antichi doveva apparire indi- scutibile. 8.
Dimostrato il postulato di Euclide si rientra natu- ralmente nell'alveo della
geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro compito è finito. 188 A
noi interessava difatti la restituzione della geome- tria pitagorica, non in
quanto collimava con la geome- tria euclidea, ma in quanto ne differiva. Che ne
differis- se sostanzialmente lo prova la esistenza di quella arcaica
dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata sopra le
proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa dimostrazione
abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero il postu- lato
pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo veduto che ne
segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso particolare
menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che di lì si
trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi sviluppi arrivare
a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e sempre senza
introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato, abbiamo po- tuto
pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente da sola la
più recente dimostrazione del teore- ma dei due retti riportata da Aristotele
ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali obbiezioni si
possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della rotazione, che
presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la capacità di
riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo è un
problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece vedere
se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo postulato
della rotazione. 189 Come riprova del fatto che essi non ammettevano il
postulato delle parallele, definite come in Euclide, ab- biamo addotto la
ragione che per i pitagorici il concetto di infinito si identificava con quello
di imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico,
si potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra
il concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche,
come il concet- to di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed
imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di im- mobilità si oppone a
quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria
dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di
infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo
tenere presenti i le- gami che avvincevano le concezioni geometriche dei pi-
tagorici a quelle cosmologiche; e se «nessuno ha mai veduto due rette parallele
nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si
incontrano mai»82, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento
è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gli astri, ossia gli
Dei, si movevano eter- namente nelle loro danze celesti. E secondo i
pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per
la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di
rotazione restavano im- 82 GIUSEPPE VERONESE, Appendice agli elementi di
geometria, Padova, 1898, pag. 23. 190 mobili e partecipi della
perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una qualsiasi
distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era ammettere
quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno alla terra
od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere che l'angolo
del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse eguale all'angolo
delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere un fatto conforme
alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo raggiungibile dalla
nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente onore ad Eucli- de di
avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei suoi elementi è
chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato possibile». Se dunque
Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di lui se ne do- veva fare
uso ancora maggiore, ed abbiamo così una ri- prova che i pitagorici ne facevano
uso senza tanti scru- poli e che quindi potevano benissimo anche servirsi di un
postulato relativo al movimento di rotazione come quello che abbiamo enunciato.
Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava intimamente tra loro le
varie scienze venne tenuto sempre meno presente, accentuan- dosi la tendenza a
fare della geometria una scienza sepa- rata, puramente logica; ed Euclide,
ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio scopo di liberarsi sem- pre
più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli
elementi etc., pag. 38. 191 mezzo comodo e rapido per risolvere
difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa-
zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai
soddisfatto nessuno e che D'Alembert chiamava «lo scoglio e lo scandalo della
geometria». 9. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari
da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si
incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si
può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si
ammette il postulato pitagori- co della rotazione o la proposizione Saccheri,
si ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette
anche il postulato di Ar- chimede oppure il caso particolare del postulato di
con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendico- lari in punti
distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che
una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad
essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto,
per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione.
Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A ri-
spetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe
appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P,
dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia
coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r:
quindi esse non si incon- trano. 192 tinuità che noi abbiamo
adoperato, si ha che la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non
seca la b. Torniamo dopo ciò ad esaminare la questione della seconda
dimostrazione pitagorica del teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo
direbbe testualmente così: «Sia il triangolo αβγ e si conduca per α la
parallela alla βγ... (καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ παράλληλος ἡ)». Qui appare il
termine parallela e l'articolo determina- tivo ἡ ne implica la riconosciuta
unicità; ma, anche am- mettendo che Proclo abbia riportato di peso la dizione
usata da Eudemo, resta a vedere se Eudemo adoperava il termine parallela nella
accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di Euclide, e resta a
vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva anche in Eudemo
dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi da Euclide.
Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa
dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla
dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante;
egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce
la [retta] di fianco [o di fronte] al lato... Anche in questo passo l'articolo ἡ
mostra che tale ret- ta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nes-
sun modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente
della parola parallela non dà in proposito nessuna luce; il termine è adoperato
in astro- nomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel 193
linguaggio ordinario da Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle
"vite parallele". Dal linguaggio ordinario è passato poi al
linguaggio geometrico, ma quando e con quale precisazione non ri- sulta.
Aristotele lo usa tre volte nella Analitica, come termine geometrico, e
sentenzia che coloro i quali si sforzano di descrivere le parallele commettono
una peti- zione di principio. Così come stanno le cose il passo di Eudemo e
quello del suo maestro Aristotele non provano affatto che la di- mostrazione
posteriore dei pitagorici si basasse sopra una definizione delle parallele e
sopra un relativo postu- lato eguali alla definizione ed al postulato di
Euclide. E non è da escludere che questa retta fosse la equidistante, e fosse
chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica non secante semplicemente per non
essere ancora sorto il dubbio che oltre alla equidistante vi potessero essere
an- che altre rette non secanti. In tal caso il dubbio sarebbe sorto dopo, ed
Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità introducendo il suo postulato. In tal
caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe corretta se quella tal retta con-
dotta per il vertice del triangolo si intende che sia equi- distante, e sarebbe
scorretta se concepita come parallela ne fosse supposta senza base la unicità;
mentre invece quella di Eudemo sarebbe corretta se con il termine di parallela
si intende la equidistante (la cui unicità e le cui proprietà i pitagorici
potevano desumere dal teorema dei due retti) e sarebbe scorretta se designasse
una parallela 194 nel senso euclideo e non si fosse ammesso o dimostrato
il postulato di Euclide. Comunque i due passi, di Aristotele e di Eudemo, non
provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due retti una
dimostrazione identica a quella di Eu- clide. Se, come ci sembra, questa
dimostrazione pitago- rica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette
equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche que- sta dimostrazione era
indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si
incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'ac- cordo
con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che
abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di
prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione
pitagorica. E notiamo an- cora che, anche se non si vuole accordare che la
geome- tria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pita- gorico della
rotazione, la dimostrazione del «postulato» di Euclide che abbiamo esposto si
può fare egualmente, se si ammette la proposizione Saccheri od il postulato del
Severi. E siccome i pitagorici conoscevano certa- mente il teorema dei due
retti indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto
che essi po- tevano dal teorema dei due retti e senza postulato di Ar- chimede
arrivare a dimostrare la unicità della non secan- te. La questione non
trascendeva i loro mezzi, né certa- mente l'intelligenza di quei così detti
«primitivi». 195 10. La trasformazione del postulato di Euclide in teo-
rema è un risultato secondario di questo nostro studio. Ed esula dal carattere
di questo studio, né ci presumia- mo da tanto, il giudicare se l'assetto
euclideo della geo- metria sia, da un punto di vista teorico moderno, preferi-
bile all'antico assetto che abbiamo cercato di ricostituire. Naturalmente tutti
i postulati sono comodi; e, tagliando il nodo gordiano delle parallele con la
spada del postula- to di Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo sce-
gliere tra il V postulato ed il postulato pitagorico della rotazione quale dei
due è meno ostico? Quale dei due è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste
cose è an- che un po' personale, e noi lasciamo che ognuno scelga secondo i
suoi gusti. A noi interessa constatare che il postulato pitagorico della
rotazione consente di dimostrare il teorema dei due retti e quello di Pitagora
indipendentemente dal postula- to e dalla teoria delle parallele in un modo che
ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente da solo di ottenere tutto lo
sviluppo della geometria pitagorica; e non ci consta che sinora si sia trovato
un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiun- gere
lo stesso risultato. Il postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è
servito soltanto per risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il
«postulato» di Euclide in modo non trascendente le possibilità dei pitagorici.
11. Una volta introdotto, come postulato, il V postula- to di Euclide, la
proprietà enunciata dal postulato pita- 196 gorico della rotazione viene
a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non trovarne alcuna traccia
su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto diversamen- te quando ogni
traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad eccezione della tarda
dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra ricostruzione corrisponde
al vero, la in- troduzione del postulato di Euclide dovette sconvolgere
profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto è conforme alle
notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide cambiò l'ordine e
le dimo- strazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della geo- metria,
sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e ricevette un'altra
dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno goduto per oltre
venti secoli gli «elementi di Euclide», aggiungen- dosi a queste condizioni
sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato alla
esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della glo- ria
della «Scuola Italica». Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della
nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fonda- menta, nulla si è
salvato. Un destino avverso sembra es- sersi accanito contro l'opera vasta ed
ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime
pitagorico in Cotrone; disperso l'Ordine e la scuola, le scoperte e le
conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate.
Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra
natura, 197 impedì l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagori-
che, assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la
filosofia, intesa nel senso etimolo- gico e pitagorico della parola, venne
occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del
moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere
salde basi, si è perduta a tutto be- neficio della scuola greca posteriore. Per
quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche
cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla
funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di resti- tuire l'opera
geometrica della «Scuola Italica» è stato per noi non soltanto un importante
argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel
terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti
di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed
all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a
rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto
intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi,
gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti,
preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore
della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo
prendere direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ Leonardo Ferrero. Ferrero.
Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola
pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con
altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto,
aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico,
numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani
sull’origine del pitagorismo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760965851/in/dateposted-public/
Grice e Ferretti
– l’intersoggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Filosofo. Grice:
“I like Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for
Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish
between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti
has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle
of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino,
Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI,
Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg &
Sellier, Torino). Wikipedia Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua
Segui Modifica (LA) «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore
homine habitat veritas.» (IT) «Non uscire da te stesso, rientra in
te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.» (da La vera religione di
Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino subiectus(participio
passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi
assoggettare) letteralmente significa "quello posto sotto", "ciò
che sta sotto". Nella speculazione filosofica il termine ha assunto
una varietà di significati: un essere, sostrato[1] sostanziale di qualità
che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che
determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in
età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza
intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella
storia del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un
ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si
riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una
"oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato
si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito
della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario
greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta
sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della
cosa sensibile come suo fondamento ontologico. Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Guido Calogero § La teoria sul
pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza
(sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e
primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa
per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele
chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli
accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro
apparenza nel tempo e nello spazio. Sempre in Aristotele, poi, il
soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde
al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di
partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il
predicato mutevole. «[...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un
senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di
determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un
secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di
determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso,
significa il composto di materia e di forma[...][2]» Un terzo aspetto
particolare del soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il
sostrato materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente
connessa una forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione
indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere
identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in
terzo luogo con il composto di entrambe»[3]. Il ribaltamento soggetto-oggetto
inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero
soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività
senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui
inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la
coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che
esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di
conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può
pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che
invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto.»[4]
Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con "oggetto":
da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme,
ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato,
voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto).
Nell'Ottocento, "soggetto" assume una serie di nuovi significati come
"interiorità", "libertà" o anche "umanità", in
quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia. Dualismi come
libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello
fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è relativamente
recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di "autocoscienza" o anche
"mente" contrapposta a "realtà esterna". Gli
antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i presocratici, l'interiorità
come già accennato non viene contrapposta alla "realtà esterna": uomo
e cosmosono concepiti in stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non
tematizza il soggetto. Il primo concetto filosofico, archè, indica il
fondamento della legge naturale e di quella umana. Eraclito vede un'unica
legge, un'armonia generale, operante nella natura e nella mente umana, il
Lògos. Parmenideafferma che «lo stesso è pensare ed essere», ed «è necessario
che il dire ed il pensare siano essere».[5] Per Anassagora il Noùs è
l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed agisce. In
tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed
oggetto. I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale
il concetto di "realtà", verso la quale ostentano uno scetticismo o
un relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul
mondo umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere"
al quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il
compito proprio del filosofo diventa: «conosci te stesso». La ricerca si
orienta verso l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e
male, virtù e vizio, giusto ed ingiusto, ecc. Con Platone il concetto
diventa Idea, da sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e
divino. Platone afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le
loro copie sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene
confermata l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale
unità viene sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede
della dòxa, apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione
dell'essere ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista
della dòxa, si presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di
morte"[6]. Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che
coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui
"poggiano" le qualità accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto
grammaticale, di cui si dicono i vari predicati (soggetto logico). Aristotele
afferma che «la sostanza pare che sia in primo luogo il soggetto di ogni
cosa».[7] Alla sostanza competono numerosi altri aspetti (potenza, atto,
materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma tutti questi
aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la sostanza come
soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un caso
particolare di sostanza e di soggetto. Riassumendo la posizione greca:
con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo l'Uomo e la
Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di tensione, dove un
principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la sostanza (ciò che è
esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul soggetto (la
mente). Dal Neoplatonismo al RinascimentoModifica Con il Neoplatonismo la
coppia soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo
della realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a
quello oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o
Uno, anzi sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so
di esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare
dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha
di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento"
dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale. Sulla
scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato
‘oggettivo’: il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso
è corrente nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le
apparenze, nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo
protagonista è sì l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e
pensa grazie all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una
Verità che lo trascende. Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova
concezione di Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o
semplice fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante,
di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Tommaso
d'Aquinoprende posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di
un'autocoscienza del soggetto ricondotta alla trascendenza divina.[8] Su
questa strada anche il Rinascimento descrive variamente l'interiorità come
contatto con l'universale che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino),
Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine
che esprimono quest'adesione del soggetto umano alla dimensione cosmica del
Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi
opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la
realtà. La natura partecipa di questa soggettività universale, essendo tutta
viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma abitata da forze e presenze
nascoste.[9] La filosofia modernaModifica Nel '600 si verificano due processi
paralleli: con Galileo Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica
della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto.
Questo duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e
riflette la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere
sulla Natura. Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono
molteplici Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da
quello platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro
che a queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto
tra il mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia
rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato,
inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la
non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare
un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai
dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che
dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore
del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum"
riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così: Posso
dubitare di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma
non posso ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto
dubitando e ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando
me le pongo; Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso
invece dubitare del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che
dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono
in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un
prototipo di quella che si può definire "metafisica del soggetto",
dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica
che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante
per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res
extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio
identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res
cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e
deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi:
L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è,
per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto
nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le "cose", che il
senso comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la
loro esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza
è perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente
rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la
sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz
tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice
dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a
riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica
platonico-aristotelica;[10] le idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono
nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente)
hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella
sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel
soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion
sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che
quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del
giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero
che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di
tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un
soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri
(«la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale
(appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica),
ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto
scolastico di «armonia prestabilita». L'empirismo inglese, prima con John
Locke e poi più decisamente con David Hume, reagisce a questa
"sostanzializzazione" del soggetto criticando sia la nozione di
"sostanza" (Locke), che poi quella stessa di “soggetto“ (Hume). Ma in
tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare
la concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la
possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da
una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una
frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della
realtà esterna.[11] Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni
soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione
tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre). Concludendo sul pensiero moderno:
all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto
esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio),
generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo). Kant e
l'IdealismoModifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che
mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli
oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo,
e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto
trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda
l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma
universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso (…) deve
poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me
verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato».[12] Il
pensare dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant: «La
chiamo (...) originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre
la rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da
nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre
rappresentazioni».[13] Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua
stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'Io
penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non
ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è
soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che
i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta
dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del
soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del
soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica
razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria,
ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e
fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad
un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.
Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé.
Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio
metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia
di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling
l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io
o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata",
attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite
intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e
oggetto tipica della metafisica neoplatonica. La dialettica
soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati
secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può
esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e
viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben
conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la
ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza,
mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori,
sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da
sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due
termini contrapposti. Hegel identifica esplicitamente il soggetto con
l'Assoluto, ed infine con il Dio cristiano, ma diversamente dai suoi
predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi
nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente
Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito»,[14] ma
quel che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi
della vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così
egli elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed
assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana
consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito,
proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e
dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono
narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata
della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza
sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più
universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è l'autocoscienza
dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie all'opera
mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato alla
Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo "sistema
filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
(1817), basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e
Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso
cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri
di Dio")[15]viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza
universale o Spirito. Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale,
storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e
soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per
l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx
il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza
collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel
sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo
sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non
sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma
piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il
Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si
lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di
significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio
filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte
esistenziale dell'uomo moderno. Il soggetto oggiModifica La filosofia già
da un secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto".
Il soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi
all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si
è messa) al centro del mondo. La Rivoluzione Copernicana esprime un ottimismo
della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e
l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione
soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura.
NoteModifica ^ Secondo Aristotele costituito da una materialità informe,
originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. ^ Aristotele, Metafisica,
VII, 1042a ^ Aristotele, Op. cit., VII, 1029a 2-5 ^ Enciclopedia Treccani,
Dizionario di filosofia ^ Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura), fr. 3. ^
Platone, Fedone, 64a. ^ Aristotele, Metafisica, VII, 3. ^ Giorgia Salatiello,
L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san
Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996 ^ Ad esempio
Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de
caeteris spiritibus (1566) parlava apertamente di entità spirituali
responsabili di ogni legge e avvenimento di natura. ^ Francesco Piro,
Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell'azione in
Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. ^ HomoLaicus: George
Berkeley. ^ Kant, Critica della Ragion pura, par. 16. ^ Ibid. ^ Hegel,
Fenomenologia dello spirito, introduzione (1807). ^ Vedere introduzione alla
Scienza della Logica(1812). BibliografiaModifica (FR) Olivier Boulnois (a cura
di), Généalogies du sujet. De saint Anselme à Malebranche, Parigi, Vrin, 2007.
(FR) Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi,
Vrin, 2007. (FR) Alain de Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet
II), Parigi, Vrin, 2008. (FR) Alain de Libera, La double révolution. L'acte de
penser I (Archéologie du Sujet III), Parigi, Vrin, 2014. Rodolfo Mondolfo, La
comprensione del soggetto umano nella cultura antica La Nuova Italia, 1967
(nuova edizione Milano, Bompiani 2012). Luca Parisoli (a cura di), Il soggetto
e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di
Studi Medievali, 2010. Giorgia Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione
alla ricerca fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana,
1999. (EN) Udo Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal
Identity from Descartes to Hume, New York, Oxford University Press, 2011. Voci
correlateModifica Individuo Oggetto (filosofia) Controllo di autoritàThesaurus
BNCF 21561 · LCCN( EN ) sh85129424 · J9U( EN , HE ) 987007543742405171
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CORRELATE Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del
pensiero Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui
l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io)
Wikipedia Il contenutoGiovanni Ferretti. Ferretti. While subjectivity and
objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that it can always
be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The inter-subjective” sounds
Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e
oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the
common ground’ -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761159508/in/dateposted-public/
Grice e Ferri – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I love Ferri; for one,
he wrote on Ficino’s ‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and
which I may call the most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!”
Insegna a Firenze e Roma. Linceo.
Discusse in tre lettere le “Confessioni di un metafisico” di Mamiani ed
elabora in tre memorie le sue concezioni.
Pubblica la “Rivista italiana di filosofia.” La filosofia platonica poggia su due basi:
cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono
le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni
sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua
scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la
dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle
idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri
sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine,
le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio;
osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini
degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e
l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia,
cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al
Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to Conf. La Dottrina dell'amore
secondo Platone, lezione e note, questa
Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni.
L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia
che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità. Questa
corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto
spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è
percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci.
Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra
facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che
l'amore non ha altri strumenti da applicare. Grato è a noi, dice Ficino,
il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo
bello. E perchè queste tre cose, l'animo Università di Palermo un'analisi
accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà
nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla
traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in
toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza
nome di stampatore: “Il Commento di Marsilio Ficino sopra il Convito di Platone
e il esso Convito tradotlo in lingua toscana per Hercole BARBARASA da Terni con
dedica al maguifico messer Gio. Battista Grimaldi”. Il Convito platonico vi è
effettivamente tradotto in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze,
per Neri DORTELATA con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza
è pure di Firenze e dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo
“Sopra lo Amore ouver Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Marsilio
Ficino a Bernardo del Vero, cad Antonio Manetti, da cui risulta che la versione
in lingua Toscana del Commento edito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal
Giunti è opera propria di Ficino. Le citazioni fatte in questa esposizione
come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da essa. « come a lui
accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre, però
è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci,
con più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura o voce che
chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione, viso e udito, rettamente
si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole conoscere la vera natura
d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I
ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di essere riferiti. Trovandosi
il bello nella forma del corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza
comune. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi
tanto manca che il bello possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in
una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso
pure incorporale. Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque,
la ‘materia’ del corpo sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa
grandezza o la stessa piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non
corrisponde alla condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue
vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali
attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa posizione
di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria -- e
proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in
parts --– analogia -- con qualche soavità di colori. [ocr errors]
("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto,
dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e
generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo
questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna
cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una
voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente
e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il
bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può
essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando
ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto
prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato
e non la medesima “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna
cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la
grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E
ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e
misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si
giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che
dobbiamo stimare la forma bella essere
qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci
ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè
spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è
maggior grazia. E negli uguali di età alcuna volta accade che quello che
supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è
dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè
quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua
causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento
nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la
specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale
poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una
statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il
sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo
fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita
è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in
un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre
l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato
conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il
suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al
finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera
l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo.
L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose;
quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi
le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che
guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e
istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo
concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un
sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per a qual cosa accade che
alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la
cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo,
non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e
« occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa
esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è
dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero
allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque
corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel
corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro
influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti,
debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono
ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo
tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del
tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il
bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce
la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a
innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra
gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè,
l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli
perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero
continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo,
secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di
un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e
brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla
povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere?
Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al
secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre
Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che
tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che
non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del
convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il
primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio
del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il
Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un
amore infinito che spande la bellezza nell' uni verso. Ma prima di
salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia
dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto
della sua vera natura nell'uomo. A malgrado della tendenza mistica che
distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini
e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in
tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è
per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di
quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un
altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento.
Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con
Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito
– cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle
cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini
viventi in terra. Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i
due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere
fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba
attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al
godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e
dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore
con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui
l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza
dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione
che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la
forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che
ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza
il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità
dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo
carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone
scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo
nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa
una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e
prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata
nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la
catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e
il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa
presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella
dell'intelletto. Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della
coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a
portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni
epicuree. Difatto, sogliono i mortali, quelle cose che generalmente o spesso fanno,
dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo
per la nostra stoltiza falla in amore.
Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto
più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo
faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque
nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa
da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per
innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso
della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto
è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello
Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti
dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa
coine nelle altro parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio
entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza
dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto
e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non
sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino
sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo
di esporla il più completamente possibile. Arriviamo con lui al termine
della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È
quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima,
mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei
corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi
come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la
bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine
fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le
specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù,
nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè
accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e
beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie,
la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale
è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga
la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel
fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri «
amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che [ocr errors][ocr
errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande
opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza
superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati,
clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è
virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como
più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più
espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del
mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più «
espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie,
del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste
pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e
notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son «
chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo.
Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine
nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua
dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua
Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni
e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria;
così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o
abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo
dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da
scienza. Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri
mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua
diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le
traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non
diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze
fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende
visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare
l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta
come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli
angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si
ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso
all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora
finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi
concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo
dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti
delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta
Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi,
produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un
medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti
angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel
cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme. In questi
cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla
all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè
della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e
perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come
perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E
il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della
creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella
sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto
ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà
crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra.
Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in
lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene
dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è
la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è
l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e
ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo,
nell'anima e nel corpo. « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a
se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra
Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio
termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un
cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre
modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto
ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna
nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque
cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione». Egli è a questa
dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della
religione che suol chiamarsi naturale, del Cristianesimo e del
Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio
che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio di
Dante sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza
sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua
immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due
cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la
intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di
Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra;
poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti
abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo
amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende
quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che
sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al
cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo
dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi
un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una
esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che
seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti;
quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si
pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più
amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza
contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo
onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva
ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di
ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore
del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi
della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.
Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima
parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e
dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare
che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o
nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un
tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto
per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della
religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli
si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si
ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di
Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza
più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue
inspirazioni. Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle
essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo
proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo
degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì
additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo
della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una
prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva
insegnato como un sublime do [ocr errors] vere la fuga dalle cose
sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro
pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe
prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto
dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei
contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al
cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle
passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai
cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le
vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio
di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale,
egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la
vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità; per lui le
opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e
fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori
della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come
nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento
dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali
all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie. Così è, Platone, a
malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non
separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare
fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde
le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al
cielo. Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore
si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo
mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per
ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in
quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva
ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva
bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza
speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non
accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri
dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle
attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica
ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in
questi confini. Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla
terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali,
artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era
questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la
religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di
vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che
dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e
applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli
affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col
quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto,
accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la
moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina ('). M) A
conferma del carattere mistico del Commento di f'icino si aggiunga che nell'orazione
quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi
colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti,
stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al
reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori
di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell'
amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali,
ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene
dell'individuo e della società. Questo aspetto stupendo dell'affetto
umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo
e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno
non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci
ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in
Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di
contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che
sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero
uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i
nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla
vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre
Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando
con ardore il doppio ordine della degli Androgini esposto da Aristofane
nel Convito platonico è nel Commentu di Ficino trasportato dalla integrità e
divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza
o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e
aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa,
frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra
che ritrovando il lume sopranaturale. vita attiva e contemplativa lo
conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne
penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si
contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di
persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa
giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e
certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due
importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana
dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o
d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo
regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte
soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma
eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con
fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza
l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la
loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della
bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via
d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali,
salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio;
in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto,
separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le
tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla
realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli
vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni
celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati, [ocr errors][ocr
errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia
e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per
renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i
suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita
contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società
scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della
materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico
non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e
frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate
riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo
superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero
insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che
rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità,
innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra
l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato
dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste
sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud
diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea
senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal
modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni
fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se
stesso al trionfo della libertà e del diritto. A questo segno aveva
mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi
l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere
i suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile
nella forza morale. In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per
tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo
straniero che stava per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla
sua bellezza; la trovò mal difesa, la vinse e se ne insignor). Videro i
sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fece schernendo la sua debole
resistenza, e Ficino era fra essi. Lagrimò il pio sacerdote su tanto
male, ricordd agli uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di
punizione; gl'invitd a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a
Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più
informata a carità che a fermezza, si sforzo di volgere l'animo di lui a miti e
clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri
difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostrd di che tempra
sono gli animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il libro di Ficino sopra
l'Amore consta di Orazioni che espongono e commentano con indirizzo
neoplatonico, quelle che sono contenute nel Convito di Platone. Ficino stesso
narra nel capitolo primo l'origine e lo scopo del suo lavoro. Platone
spird (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età
il 7 di ottobre, giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi
platonici, ogni. anno, celebravano cotesto giorno in un convito. Abbandonato
per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, fu restaurato con
regale apparato per ordine di Lorenzo il Magnifico nella villa di Caregri,
sotto la direzione di Francesco Bandini che ne fu costituito
Architriclino. I convitati furono 9, pari cioè al numero delle muse.
Sette figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute
nel Convito platonico. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto
presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel
modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio. Cosicchè
la orazione di Fedro, bello e giovane retore, tocca a Giovanni Cavalcanti, che
per virtù e nobiltà di animo come per bellezza esteriore fu chiamato l'eroe del
Convito; la seconda detta da Pausania ad Antonio degli Agli vescovo di Fiesole,
la terza di Erissimaco medico a Ficino; la quarta di Aristofane a Cristoforo
Landino; la quinta di Agatone a Carlo Marsuppini, la sesta di Socrate a Tommaso
Benci, la settima di Alcibiade a *Cristoforo* Marsuppini. Ma il vescovo e il
medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le
loro disputazioni a Giovanni Cavalcanti. Ficino non poteva essere più cortese
coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale
e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche il Nuti e il Bandini
che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da
lui dimenticati. Al Bandini ordinatore del banchetto non aveva bisogno di
attribuire altra parte che quella assegnatagli da Lorenzo. Dal Nuti suppose
fatta la lettura del Simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo
Bandini sarebbe Cavalcanti che avrebbe persuaso Ficino a scrivere il dialogo
dell’amore per invogliare la gioventù del celeste bello. La versione
toscana del Commento di Ficino al Convito essendo divenuta ziuttosto rara, e
desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del
filosofo fiorentino sull'Amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti
alle citazioni contenute nel testo. Definizione della Bellezza e dell'
Amore. Il bello è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle
volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre
ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più
virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È
ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di
tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella
dell'animo con la mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella
delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque
che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi
possiamo fruiro essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia;
bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli
altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.
Finalmente che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e
grazia, che risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia,
s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo
vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la
distanza delle parti, il modo significa la quantità, la specie significa lincamenti
e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito
naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri
siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno
discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine,
ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale
attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione
di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la
lunghezza d'un volto; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme
congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le
ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza
del labbro e similmente dello orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino
l' apertura della bocca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c
similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza
del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi”
tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e
modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno
parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro
alcuno: perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i
membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente
distanza delle parti; e la distanza ė o nulla, o vacuo, o un tratto di
lince. Ma chi dirà le linee essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine,
e di profondità, necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma
è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti, le quali cose
non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la
spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee.
Per questa ragione si mostra essere il bello dalla materia corporale tanto
discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre
preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i
Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore
di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica:
dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell'
Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa
ornamento di molte cose composto: ed cgli al tutto semplice intendere si debbe.
M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente
angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il
terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi,
ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente
angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della
sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un
certo appetito innato, a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal
suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende
l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta; 'accostandosi piglia le forme;
imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la
natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si
dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e
degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle
pietre, de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie
di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le
idee non dubitiamo; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo
chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e
similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo
elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e
dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone; per la qual cosa, tutti gli dei
assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in
quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio
perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si
accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e prima che il suo
appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e prima che di tale
splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era
rivolto E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la
infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita,
crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore;
[ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte
le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento
significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla
quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica,
la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la
condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle
belle aggiugne. Amore legame universale. Secondo che mostrammo, questo
desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega
la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare
fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe i parti, e quasi
con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti
del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima
macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme
si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e
legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa
macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza il
convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre
felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di quelli che si
distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma
ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto
e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e
che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua
pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché
di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui
Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che
risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli
permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle
ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume,
che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo
posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere
in questi lavori. Bonghi apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si
discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti
riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente
la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori
greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse
rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere
misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in
questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli
accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto
tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non
sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo
di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto
basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua
connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando
che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due
vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha
dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse
un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione
di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della
dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica,
da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza.
Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre
offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo
la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente
del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti,
della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina
dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia
dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale.
Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito
platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e
commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e
l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia
estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi
personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in
qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio,
riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene,
Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in
modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il
modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei
convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di
Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore
ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo
gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di
mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e
precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si
ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano,
ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo
ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente
morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio
spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli
altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli
con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei
costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di
Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di
volgere al bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli
spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua
parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla
passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del
suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del
convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il
soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il
disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il
quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da
Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto
e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra
l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita
universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora
nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la
nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che
ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della
essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta
delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di
suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata
esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della
scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto
dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo
corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi
dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo.
C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo
gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di
corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre
il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa,
intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di
tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale
irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e
il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del
bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate
molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già
liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare
un bello, che su tutte « tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne
scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un
bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di
cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al
sommo della « scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto,
senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a
scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e non accresciuto (nè
scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni
virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore
intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a
tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e
servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore
che s’inizia con la percezione dell’amante del corpo bello dell’amato -- in due
modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col
primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio
specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito
che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto)
nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura
dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’amante e l’amato sempre
povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella
vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fece credere a parecchi
interpreti e critici che Platone quivi, come in altri luoghi, ricorresse a
invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare
coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse
delle sue dottrina dell’amore. Ma al Bonghi sembra, e secondo noi con
ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno
tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma
di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non
sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali
subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopraenumerate che il Bonghi
conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del
Paganesimo rinascimentale di Ficino. Altre opere: Il genio di Aristotele. Discorso, Tip. delle
Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità
nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e del metodo di Rosmini, «Il Cimento»,
Della filosofia del diritto presso Aristotele, «Il Cimento», Estr.: Tip.
Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e
alle dottrine platoniche, «Riv. cont.», Sulle dottrine platoniche e sulla loro
conciliazione colle aristoteliche. Lettera a T. Mamiani, «Riv. cont.», Estr.:
Torino, Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e
coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Tip.
Niccolai, Firenze, Ciò che possa la Filosofia per l'istituzione civile dei
popoli. Discorso inaugurale per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore
di Firenze, Firenze, Rec. di P. L. da Savigliano, La filosofia di Bossuet; di
S. Turbiglio, Storia della filosofia; di C. Cantoni, G. B. Vico, NA, La libertà
del pensiero e la filosofia nelle università italiane, NA, L’epicureismo e
l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un libro recente,
FSI, IEstr.: Cellini, Firenze, Le Meditazioni cartesiane rinnovate nel sec XIX
da T. Mamiani, NA, L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il
materialismo e la scienza moderna, NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle
istituzioni pirroniane. Libri tre, tradotti da S. Bissolati, Imola, Anassagora
e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica contro il materialismo, FSI, Rec. di R. Bobba, La protologia di Ermengildo
Pini, Torino, FSI, Vico e la filosofia della storia [Rec. di C. Cantoni, Studi
critici e comparativi; P. Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva
in Italia; T. Mamiani, Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, Vinci
e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr. editr., Torino, Rec. di F.
Fiorentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana
del sec. XVI con molti documenti inediti, Firenze, ASI, sEstr.: Cellini,
Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, Le forme del
pensiero filosofico o il metodo, FSI, IIl senso comune nella filosofia e sua
storia, FSI, IEstr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi sintetici a priori nelle dottrine
italiane, FSI, Rec. di G. E. Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, Filosofia
della Religione. Sulle attinenze della religione e della filosofia e sulla
incomprensibilità divina. Lettera al Conte Mamiani, FSI, Rec. di F. Fiorentino,
La filosofia della natura e le dottrine di Bernardino Telesio, Firenze, FSI, Estr.:
Paravia, Torino Del principio e concetto di ‘causa’ nella scuola di Herbart,
FSI, Vinci filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea
del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo libro di Strauss e i suoi critici, La
forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, Janet,
La dottrina dell'amore secondo Platone, FSI, Estr.: Tip. Paravia, Roma, L'evoluzione
storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, Importanza della
psicologia nella filosofia moderna, FSI, La coscienza. Studio psicologico e
storico, FSI, L’Avvenire, Herbart, NA, Sulle vicende della filosofia in Roma.
Discorso, Tip. Civelli, Roma, Il metodo psicologico e lo studio della
coscienza, FSI, Cenni biografici su Giuseppe Ferrari, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.:
Tip. Salviucci, Roma, La psicologia di Pietro Pomponazzi, secondo un
manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, T, 3, 8, intitolato: Pomponatius
in libros de anima. Memoria del prof. Luigi Ferri, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Salviucci,
Roma, Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione
degli studi nella Università di Roma «Annuario Univ. di Roma». Estr.: Civelli,
Roma, La questione dell'anima nel Pomponazzi, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma, “L'io e la
coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI,
L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla
dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla
genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.:
Tip. Salviucci, Roma, La psicologia dell'associazione dall'Hobbes ai nostri giorni,
Bocca, Roma, Rec. di G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno(«Acc. Scienze Torino.
Memorie», FSI, “L'assoluto”, FSI, Cicerone
sui Doveri. Conferenza, FSI,Rec. di A. Conti e G. Rossi, Esame della filosofia
epicurea nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia Platonica
fondata in Firenze dai Medici. «Acc. Lincei. Transunti», FSI, Helmholtz sulla
percezione, FSI, Delle Idee e propriamente della loro natura, classificazione e
relazione, FSI, Il Positivismo e la
Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, Mamiani sulla
religione, NA, L'Accademia romana di S. Tommaso d'Aquino e l'istruzione
filosofica del clero, NA, s. II, vol. XXIV, 1880, pp. 613-Sulla recente
restaurazione della filosofia scolastica e tomistica considerata in ordine ai
metodi degli studi ed alle attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia,
«Acc. Lincei. Transunti», Vera, «Acc. Lincei. Transunti», Sulla percezione
esteriore e sul fenomeno sensibile, «Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti
intorno a Giordano Bruno, a cura di D. Berti, Roma, FSI, La filosofia d’Aquino,
FSI, Petrarca e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI, 316-340. Estr.: Salviucci, Roma, FSI, Zanotti, La filosofia morale di Aristotele.
Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di L. Ferri e
F. Zambaldi, G. B. Paravia e Comp., Torino, Dottrina aristotelica del bene e
sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa, «Acc. Lincei.
Transunti», Relazione sul concorso al premio reale per le Scienze filosofiche,
«Acc. Lincei. Transunti», Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la
percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la ‘causa’ della rinascenza del platonismo
nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la struttura delle
revoluzione filosofiche] FSI, Vinci, NA, Il concetto di sostanza e sue
relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al
dinamismo filosofico, «Acc. Lincei. Memorie», s«Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.:
Salviucci, Roma, Il platonismo del Ficino, FSI, La dottrina dell’amore del
Ficino, Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici,
FSI, La giustizia nella repubblica utopica di Platone. A proposito di recenti
pubblicazioni, Storia della filosofia. Il platonismo di Marsilio Ficino. Le
idee e la dialettica. La dottrina dell'amore, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le
malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici
e i fatti fisici, Ercole, «Acc. Lincei. Rendiconti», Conti, «Acc. Lincei.
Rendiconti», sVera, «Acc. Lincei. Rendiconti», “Il concetto di sostanza e sue
relazioni coi concetti di essenza, di ‘causa’ e di forza. Contributi al
dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma - Di alcuni uffici della filosofia
nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia
dell’ipnotismo), FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality –
Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di A. Chiappelli, Del suicidio nei
dialoghi di Platone, FSI, Mamiani,
Lincei, «Acc. Lincei. Rendiconti»,
Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema
filosofico nel nostro tempo, «Acc. Lincei. Rendiconti», Mamiani, RIF, I, Il
fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo,
«Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico,
RIF, Rec. di A. Chiappelli, La cultura storica e il rinnovamento della
filosofia, RIF, ILettera a Pennisi-Mauro, RIF, Rec. di D. Levi, Giordano Bruno
o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF, «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di E. Dal
Pozzo di Mombello, L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, Le
lauree in filosofia, RIF, Della idea del vero e sua relazione colla idea
dell'essere, «Acc. Lincei. Rendiconti», «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip.
Salviucci, Roma, La filosofia politica in Aristotele, RIF, Rec. di M. Panizza,
La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione
del concetto, RIF, Rosmini e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito di Platone
tradotto da R. Bonghi, Roma, RIF, Della idea dell'essere, «Acc. Lincei.
Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Berti, «Acc. Lincei. Rendiconti», Benzoni,
«Acc. Lincei. Rendiconti», La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti
psichici, NA, sFranchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo
secondo Spaventa, RIF, La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec.
di E. Colini, Mamiani, Jesi, RIF, Rec. di D. Berti, Giordano Bruno da Nola, sua
vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta,
Torino, RIF, Rec. di L. Credaro, Lo scetticismo degli Accademici, Le fonti - la
storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani Bruno Nolani
Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario
dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di Tocco,
«Acc. Lincei. Rendiconti», - F.
Cicchitti-Suriani, Della dottrina degli affetti e delle passioni secondo la
filosofia stoica: saggio storico di psicologia morale con prefazione di L.
Ferri, Tip. Aternina, Aquila,Intorno al Pitagorismo in Italia, Nota, «Acc.
Lincei. Rendiconti», Estr.: Roma, Il problema della coscienza divina in
‘Esperienza e metafisica’ di Spaventa, RIF, Rec. di C. Lessona, Elementi di
Morale Sociale ad uso dei Licei (3° corso) e degli Istituti Tecnici, compilati
secondo gli ultimi programmi, RIF, L'Accademia Platonica di Firenze e le sue
vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, «Acc. Lincei. Rendiconti», Della conoscenza
sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, VAlcune
considerazioni sulle categorie, «Acc. Lincei. Rendiconti», Il Teeteto, tradotto da Bonghi, Roma NA, La
percezione intellettiva e il concetto, «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di G.
Zuccante, Saggi filosofici, Renan, «Acc. Lincei. Rendiconti», Taine, «Acc.
Lincei. Rendiconti», La percezione intellettiva e il concetto,
Taine, RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia
della filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni,
Bocca, Roma); Estr.: Tip. Balbi, Roma); “Il carattere nazionale e il
classicismo nell’etica degli italiani, NA, Estr.: Tip. Forzani e C., Roma, Rec.
di F. Maltese, Socialismo, RIF, “L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e
i sistemi filosofici” RIF; Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine, in G.
Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Libreria Editoriale Milanese, Milano, a
cura di O. Campa, La Voce, Firenze 19243. Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love
by Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by
Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated
as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t
care. As for Carmide and Licide, Ferri dedicates little attention. Luigi Ferri.
Ferri. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio – psicologia filosofica
dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con relazione alla percezione
dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito di Platone nella
traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R. Bonghi” RIF, il dialogo dell’amore di Platone come
sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono quattro:
Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferri” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689395171/in/photolist-2mRCLwu-2mPY4jk-2mN1R8H-2mLLBQT-2mLGwFD-2mLP3hz-2mKBEmt-2mKT6cK-2mPvmTf-2mJd7nN-o1cZ1Z-nYkP5S-mujhJF-muktXS-mukt4N-mujkJt-mujmJz-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujjcR-mujo6x
Grice e Ficino –
amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo. Grice:
“If Ficino had JUST commented on Plato’s symposium that would be already a
magnificient achievement! So Renaissance – it taught the Romans and the
Italians, and us, that the dialogue IS the philosophical form per tradition,
whatever Cicero tried!” Figlio di Diotifeci d'Agnolo e da Alessandra di
Nanoccio, studia a Firenze sotto Bernardi, Comandi, Castiglione e Tignosi –
filosofo aristotelico autore di “De anima” e di “De ideis”. Conseguenza di
questo è la “Summa philosophiae”, dedicata a Mercati in cui tratta di fisica,
di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones. Nella dedica a Mercati, scrive
di volerlo introdurre “a quegli studi che devono impegnare la nostra età, secondo
la regola del nostro Platone.” Studia Epicuro e Lucrezio, scrivendo i
Commentariola in Lucretium, il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De
virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di
questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche,
epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione
mnemonica e senza pretese sistematiche. Scrive vari libri di Institutionum
ad platonicam disciplinam, tratti da fonti latine e per questo motivo
trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte greca.
Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto Pierozzi, preoccupato
di possibili deviazioni del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di
studiare l'opera d’Aquino a Bologna. Ma la permanenza a Bologna non è
documentata e resta certo l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica.
Traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco
attribuito a Senocrate. Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la
Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e
una villa a Careggi, che divienne sede del circolo dei “Platonisti”, fondato
dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare la
filosofia di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione. Qui
inizia la traduzione dei Libri ermetici, portati in Italia da da Leonardo da
Pistoia. La sua opera di traduzione avrà un notevole influsso nella filosofia
rinascimentale. Vede in quella sapienza antica la presenza di una rivelazione,
di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della quale
l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo,
scrive che Ermete Trismegisto per primo disputò con grandissima sapienza della
maestà divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine) della
trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo. Lo seguì, secondo
teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino
Platone. Esiste dunque, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae
theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e culmina con
Platone. La «pia filosofia», antitetica alle correnti di pensiero atee e
materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli inganni dei sensi e della
fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce la verità, l'ordine di
tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui, grazie
all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili, possa renderli
partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino numine
revelata). La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già tradotto
in volgare da Benci, viene stampata. Inizia la traduzione latina dei dialoghi
platonici, e vi aggiunge i suoi commenti, al Filebo, al Fedro e al Convivio
(tradotto anche in italiano), al Timeo, e al Parmenide. Stende l'opera più
importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate
animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Compone la Religione cristiana, in
italiano, di cui darà poi la versione latina nella De christiana religione. Scrive
la Disputatio contra iudicium astrologorum e viene dato alle stampe il suo
Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia. Inizia la
traduzione delle Enneadi di Plotino e traduce le opere di Giamblico, Proclo,
Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Psello, la Mistica teologia e i Nomi
divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora. Con questo ampio
corpus platonico persegue la sua teorizzazione della continuità della
tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi
Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, e Bessarione. I tre libri del
De vita gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con un'Apologia. Pubblica
dodici libri di Epistulae che comprendono anche opuscoli come il De furore
divino, la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae
sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica
comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de
voluptate quattuor. Scrisse un Commento a San Paolo. È noto come
Aristotele concepisca l'essere umano come sinolo, unità ordinata e
indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicché il suo principale
commentatore dell'antichità Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne
esplicitamente la mortalità dell'anima contemporanea a quella del corpo. Al
contrario, Platone ha già distinto le due sostanze, concedendo all'anima una
vita separata e indipendente dal destino del corpo. A questa concezione
aderisce Ficino, che in polemica contro Aristotele esalta la dottrina
platonica, al punto da interpretarla come una forma di religiosità propedeutica
alla fede cristiana. La sua Theologia platonica o De immortalitate animarum si
apre dunque con un «Soluamus obsecro
caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum
terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius
peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur. Liberiamoci
in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle
cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste
dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro” (Ficino, Theologia
Platonica). Per comprendere la sostanza dell'anima è necessario comprendere la
struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici: Dio; gli
angeli; le anime; le qualità; la materia. Al grado inferiore sta la materia,
concepita come pura quantità. La materia non ha di per sé nessuna forza che
possa produrre le forme», diversamente da chi la concepisce come «sostanza
produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme. È la qualità il
principio formale che dà sostanza alle realtà corporee, grazie a «una sostanza
incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono strumento le
qualità corporee»: questa sostanza incorporea nell'uomo si eleva al rango di
anima «che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente. Al
di sopra delle anime sono gli angeli. Sopra quelli intelletti che alli corpi
s'accostano, cioè l'anime ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal
commercio dei corpi al tutto divise. E se l'intelletto dell'anima è mobile e
parte interrotto e dubbio, l'intelletto angelico è stabile tutto, continuo e
certissimo. Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità assoluta,
fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta. Dove un continuo
atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una assolutissima
intelligenza» che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le cose.
Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte le cose
e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché da lui ogni cosa
procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e
intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono. Dio e
materia rappresentano i due estremi della natura, e la funzione dell'anima, che
è considerata, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realtà in sé e non
solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi per riunire lo spirito e la
corporeità: Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros come
mediatore dei contrary. L'anima è tale da cogliere le cose superiori senza trascurare
le inferiori per istinto naturale, sale in alto e scende in basso. E quando
sale, non lascia ciò che sta in basso e quando scende, non abbandona le cose
sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe verso l'altro e non
sarebbe più la copula del mondo Theologia Platonica. La "copula mundi"
è l'anima razionale che ha sede nella terza essenza, possiede la regione
mediana della natura» (obtinet naturae mediam regionem) «e tutto connette in
unità». La sua opera unificatrice è resa possibile dall'amore, inteso come
movimento circolare attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della
sua bontà infinita, per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di
ricongiungersi a Lui. L'amore di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per
l'antico filosofo greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo
sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso
cristiano perché, a differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo
attributo dell'uomo ma anche di Dio. Lo stesso Platone viene interpretato in
una chiave di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino
non faccia distinzione tra platonismo e neoplatonismo. Per lui esiste una sola
filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che
in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia.
Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro
dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù
dell'unione vitale del mondo da essi presupposta, filosofia e religione si
fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità,
sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o
«teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'uno è
il bello. Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù Cristo è considerato un maestro
spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il bene dell'umanità. Cos'altro
era Cristo se non una specie di manuale di etica, cioè di filosofia divina, il
quale visse come un inviato dal cielo, essendo lui stesso una divina Idea di
virtù, manifestata agli occhi degli uomini. De Christiana religione. Elevando
il cristianesimo a religione suprema, Ficino asserì che l'Incarnazione del
Cristo era avvenuta anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti
della creazione». Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del
panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante
richiesta delle sue opere, dopo la fine del Rinascimento venne commentato
sempre meno, fino ad essere accusato, immeritatamente, di un ritorno al
paganesimo. In Italia, dove è riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo
cinquecentesco, e in particolare su Bruno, e Vico a raccogliere nel Settecento
l'eredità platonica di Ficino, di cui lesse l'opera di traduzione,
rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui,
rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio. Sottoposto ad attacchi nel
corso del Novecento che giudicarono retorici e privi di valore» i suoi scritti,
è stato rivalutato como uno «psicologo del profondo» e «precursore della
psicologia junghiana», per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni
affermazione proveniente dai campi più disparati, sia della scienza che della
teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene
vista cioè come mediazione e compendio» dell'universo. La conoscenza dell'anima
è infatti la quintessenza del neoplatonismo italiano, in cui giacciono sepolte
le fantasie mistiche di questo strano uomo che suonava inni orfici sul liuto,
che studiava la magia e componeva canti astrologici, quest'uomo gobbo, bleso,
politicamente timido, senza amore, malinconico traduttore di Platone, Plotino,
Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui stesso di alcuni tra gli scritti
più diffusi e influenti (Commento al Simposio) e scandalosamente pericolosi
(Liber de vita) del suo tempo. La centralità attribuita da Ficino all'anima,
per la quale, ancora ragazzo, Cosimo de' Medici lo considerava prescelto alla
cura delle anime come suo padre medico lo era dei corpi, convinse che egli ebbe
un impatto paragonabile per estensione ed intensità solo a quello prodotto oggi
dalla psicoanalisi. Notevole è ad esempio l'intuizione di Ficino del potere
psicosomatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina moderna considera
un effetto placebo. Io sono del parere che l'intenzione dell'immaginazione
abbia il suo peso su immagini e medicine, non tanto al momento della
preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se un tale, a
quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o
certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera intensamente
soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile
fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento
all'aiuto che essa può dare. De vita. Altre opere: “De Voluptate; De Amore o
Commentarium in Convivium Platonis; De religione Christiana et fidei pietate; Theologia
Platonica de immortalitate animarum; Compendium in Timaeum; De triplici vita;
De lumine; In Epistolas Pauli commentaria (Venezia) El libro dell'amore De vita
Teologia platonica; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone La religione
cristiana Epistolarum familiarum, liber I. R. Zerilli, Marsilio Ficino:
alla lente dell'astrologia, Edizioni Capone, Ove non diversamente riportato, le
notizie sulla vita e la dottrina ono tratte da Garin, Storia della filosofia
italiana, I, Einaudi, Giuseppe Saitta,
Marsilio Ficino e la filosofia dell'umanesimo, Fiammenghi & Nanni, Giornale
storico della letteratura italiana, Francesco Novati, Egidio Gorra, Vittorio
Cian, Giulio Bertoni, Carlo Calcaterra, Loescher, Giorgio Bàrberi Squarotti,
Storia della civiltà letteraria italiana: Umanesimo e Rinascimento, POMBA, Giovanni Semprini, I platonici italiani,
Edizioni Athena, La Letteratura italiana: Storia e testi, E. Garin, Riccardo Ricciardi Editore, A.
Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi
Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Eugenio Garin, Ermetismo del
Rinascimento, Ed. Riuniti, «Primus de
maiestate Dei, daemonum ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit.
Primus igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas
antiquae theologiae partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo
successit in theologia Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis
nostri praeceptor. Andrea Cusimano, Storia del pensiero occidentale, Lulu.com,.
L'immenso lavoro di traduzione compiuto da Marsilio Ficino è stato documentato
in particolare da Paul Oskar Kristeller, in Supplementum ficinianum: Marsilii
Ficini florentini philosophi platonici Opuscula inedita et dispersa, Firenze,
Leo S. Olschki, Cfr. anche: Arnaldo Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica
di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in
Firenze, Alessandro di Afrodisia, L'animaAccattino eDonini, Roma-Bari, Laterza,
Parodos. I sentieri della ragione, Le
divine lettere del gran Marsilio Ficino, S. Gentile, Edizioni di storia e
letteratura, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, G. Ottaviano, S.
Gentile, Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e
scientifica, Guido Ceriotti, Bramante, IoanCouliano,
Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press,Il termine
"neoplatonismo" è stato coniato solo nel XIX secolo per indicare le
interpretazioni platoniche che si erano andate via via sovrapponendo a partire
dall'età ellenistica, ma che erano sempre state identificate col pensiero
stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite (cfr. Cenni sulla
tradizione platonica). Sebastiano Gentile, Il ritorno di Platone, dei platonici
e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e astrologia nell'opera
di Marsilio Ficino, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, P.C. Pissavino,
Milano, Bruno Mondadori, La prospettiva storiografica, di E. Lo Presti,
Università degli Studi di Bologna. Battista Mondin, Storia della teologia:
epoca moderna, Edizioni Studio Domenicano, Citazione da A. C. Grayling, Una
storia del bene. Alla riscoperta di un'etica laica, Storia e civiltà, Bari,
Edizioni Dedalo, Cesare Vasoli, Quasi
sit deus: studi su Marsilio Ficino, Cfr.
anche A. Jugegno, Bruno e l'influenza, in «Rivista critica di storia della filosofia.
Hillman, Plotino, Ficino e Vico, precursori della psicologia junghiana, J.
Hillman13, ivi. Aneddoto rintracciabile
in Coenobium, Casa Editrice del
Coenobium. De vita, trad it, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone. Marsilio
Ficino, Commentarius in Convivium Platonis, in Venetia, Giovanni Farri e
fratelli, De christiana religione, Firenze, Nicolò di Lorenzo, Marsilio Ficino,
De triplici vita, Lugduni, apud Gulielmum Rouillium sub scuto Veneto, Theologia
Platonica De immortalitate animorum, Gilles Gourbin, apud Aegidium Gorbinum, Opera
omnia, Torino, Bottega d’Erasmo, Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in
Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, Marsilio Ficino, Opere. Lettere
e carteggi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, De vita libri
tres, Albano Biondi e Giuliano Pisani, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, Scritti
sull'astrologia, Ornella Pompeo Faracovi, Milano, Il neoplatonismo nel
Rinascimento, Roma. Il ritorno a Platone, Firenze, con ficiniana). Tamara Albertini, Marsilio
Ficino. Das Problem der Vermittlung von Denken und Welt in einer Metaphysik der
Einfachheit, Monaco, Cesare Catà, Il Rinascimento sulla via di Damasco. Il
ruolo della teologia di San Paolo in Marsilio Ficino e Nicola Cusano, in
“Bruniana & Campanelliana”, Cesare Catà, L'idea di “anima stellata” nel
Quattrocento fiorentino. Andrea da Barberino e la teoria psico-astrologica in
Marsilio Ficino, in “Bruniana & Campanelliana” Gian Carlo Garfagnini,
Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Garin,
Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, James Hankins, Plato in the Italian
Renaissance, Leida, Paul Oskar
Kristeller, Il pensiero filosofico, Firenze,Paul Oskar Kristeller, Il pensiero
filosofico, Le Lettere, T. Moore, Pianeti interiori. L'astrologia psicologica,
Moretti & Vitali, Erwin Panofsky, Il movimento neoplatonico a Firenze e
nell'Italia settentrionale, in Studi di iconologia, Einaudi, Torino), A. Polcri,
L'etica del perfetto cittadino: la magnificenza a Firenze tra Cosimo de'
Medici, Timoteo Maffei e Marsilio Ficino, in "Interpres: rivista di studi
quattrocenteschi" Roma–Salerno, Michele Schiavone, Problemi filosofici,
Milano, Zerilli, Alla lente dell'astrologia, Edizioni Federico Capone, Torino. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Progetto Gutenberg.
di Marsilio Ficino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von
Ruff. Marsilio Ficino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Sito della società ficiniana, su ficino. Marsilio
Ficino: dalla cristianizzazione della magia alla "magicizzazione" del
cristianesimo, su aispes.net. Eugenio Garin, Una sintetica presentazione del
pensiero di Ficino, RAI. James Hillman, Plotino, Ficino e Vico precursori della
psicologia Junghiana, su rivista psicologi analitica. Il mito greco alla corte
dei Medici. IL CONVITE (traduzione al toscano di
Hectore Barrabasa). Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per
soddisfare la vostra curiosità. L'altro giorno, infatti, venivo in città da
casa mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano
in tono scherzoso. Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento? Mi
fermo e l'aspetto. E quello: Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo
domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che
erano con loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si sono fatti
sull'amore. Mi ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito
parlare da Fenice, il figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di
tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego,
racconta: nessuno meglio di te può riportare i discorsi del tuo amico. Ma
dimmi, per cominciare. Eri presente a quella riunione o no? Si vede bene,
rispondo io, che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi
che la riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto
parteciparvi. Io credevo così. Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni.
Non lo sai? -che Agatone manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da
quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e
che fa. Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed
ero invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che
qualsiasi occupazione sia meglio della filosofia. Non mi prendere in giro,
disse, e dimmi piuttosto quando c'è stata quella riunione. Noi eravamo ancora dei
ragazzini, gli rispondo. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua prima
tragedia, il giorno successivo a quello in cui offrì, con i coreuti, il
sacrificio in onore della sua vittoria. Ma allora son passati molti anni. E a
te chi ne ha parlato? Socrate stesso? No, per Zeus, dico io, ma la stessa
persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo Aristodemo, del demo Cidateneo,
uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli
ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non
ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo.
E lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto. E allora
racconta, presto. La strada per la città sembra fatta apposta per
chiacchierare, mentre andiamo. Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste
cose. è per questo che sono così preparato, come v'ho detto all'inizio, per
parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son
ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne
parlano in mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento
parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente
come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare
chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra,
del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi
dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di
Apollodoro: Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli
altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei
poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome di
Tranquillo, proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai. Ce l'hai sempre con te
stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate. Ma carissimo, non è evidente?
Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle,
quanto deliri? Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare.
Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero
quella notte? E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è
meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il
racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si
era messo dei sandali, contro le sue abitudini. Gli domandai, dove andasse,
visto che si era fatto così bello. E lui mi rispose, Vado a cena da Agatone.
Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perché mi
dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e così
mi son fatto bello. Voglio esser bello per andare da un bel giovane. E tu? Che
ne pensi di venire anche se non sei stato invitato? Io risposi, Ai tuoi ordini.
Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al
proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle
persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha modificato questo
proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta Agamennone come
un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza coraggio. Ma poi
al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che arriva
anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato. L’uomo che val
poco che va al festino di un uomo valoroso. E a questo Aristodemo mi disse di
aver risposto così. Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che
dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere, come in Omero, il pover'uomo che
si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse
trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che mi hai
invitato tu. Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro. E allora
andiamo, che per via penseremo a cosa dire. E con questo proposito, mi disse,
ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva
indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da
Agatone, la porta è aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica. Uno
schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri
avevano già preso posto, già pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice. Aristodemo,
arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro,
rimanda tutto a più tardi, perché ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato.
E Socrate? non è con te?Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo
più. Non mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era
stato lui ad invitarmi alla cena. Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è? Era
dietro a me sino ad un istante fa. Dove può essere finite? Ragazzo, disse
allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu
Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco. E
raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul
divano, un altro arriva dicendone una nuova. Questo Socrate di cui parlate s'è
rintanato nel vestibolo dei vicini, ed è fermo là. Ho avuto un bel chiamarlo,
non è voluto venire. Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a
chiamarlo e non lasciarlo lì. Non fate niente, dissi io, lasciatelo là
piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa
dove, e di restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo
tranquillo. E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu. Quanto a
noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi
pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai
fatto nella mia vita. Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri
invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti. E così,
disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva
tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò,
diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare,
come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano,
gli disse subito. Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa
apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo. A qualcosa
devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là. Socrate
si siede e fa. Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero
scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo
accanto, tu ed io. Come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla
coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo
fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che
per la verità è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è
limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore
della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trentamila
greci, che prendo tutti a miei testimony. Che fai, mi prendi in giro, Socrate?,
disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo
Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare. E così, disse
Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con
lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie
d'uso, ci si preparò a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per dire
più o meno così. Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? Io, ve lo
dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto
un po' troppo e vorrei andarci piano stasera. Del resto voi dovreste essere più
o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri. Allora,
come possiamo fare per bere senza star male? Intervenne Aristofane. Ben detto,
Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perché
sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato. A queste parole,
disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno. Avete ragione,
disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di
bere? Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio. A quanto sembra, disse
Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per
Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso
rinunciare, perché noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione
per Socrate. è tanto bravo a bere che a non bere, per lui andrà sempre bene,
qualunque cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere
del gran vino, forse riuscirò a non essere sgradito a nessuno dicendovi la
verità sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che è evidente che
ubriacarsi fa male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura, né a
consigliare ad un altro di farlo, soprattutto se ha la testa ancora pesante per
il giorno prima. Poi intervenne Fedro, quello di Mirrinunte. Quanto a me, io ti
credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono
matti. Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si
sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si
sentiva. E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno
beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la
nostra giovane flautista che è appena entrata: per stasera suoni da sola o, se
lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata
chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se
volete ve la dico. Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a
Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo. Parlerò, per
cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, perché non son mie queste
parole, che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto
indignato. Non è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni
e peana composti dai poeti e che in onore dell’amore, un dio così potente, così
grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il
più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama. Scrivono in prosa
l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c'è di
peggio. Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che
faceva l'elogio del sale, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso
genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta
pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'amore, lui non ha trovato ancora
nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita. Ecco
come ci si dimentica di un grande dio. Ebbene, io credo che su questo Fedro
abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo
onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito. Adesso quindi potremmo fare
tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento
senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo.
Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'amore, il
più bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parla per primo, perché è al primo
posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea. Nessuno, mio caro
Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la tua proposta. Non sarò io ad
oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'amore son
proprio esperto. Non Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che
trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, né gli altri che vedo qui
stasera. Certo il compito è più difficile per noi che occupiamo gli ultimi
posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo
soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri. che faccia l'elogio
dell'amore. Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di
Socrate. Aristodemo non si ricordava più esattamente ciò che ciascuno disse e io
stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò. Le cose più importanti, o
quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso ve lo riporterò
nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E così, secondo Aristodemo, il primo a
parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso più o meno in questi termini. E'
un gran dio l'amore, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli
dèi per diverse ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i più
antichi dèi, e questo, aggiunse, è un onore. Di questa antichità abbiamo una
prova. L’amore non ha né padre né madre, e nessuno, né in poesia né in prosa,
glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, e la
Terra dall'ampio seno, sicura sede per tutti i viventi e l'amore. E, in accordo
con Esiodo, anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri,
la Terra e l'amore. Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che di
tutti gli dèi, l’amore fu il primo che la dea partorì. Così c'è ampio accordo
nel dire che l'amore è uno degli dèi più antichi. Essendo così antico, è per
noi la sorgente dei più grandi beni. Per me, io lo affermo, non c'è più grande
bene nella giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale
amore in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita
gli uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà
della nascita né agli onori né alla ricchezza, né a null'altro: devono
ispirarsi all’amore. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna
per l’azione cattiva, l'attrazione per l’azione bella. Senza questo, nessuna
città, nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io
lo dichiaro, un amante, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere
un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave
offesa, soffre certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o
chiunque altro. Ma soffrirà molto di più se a scoprirlo sarà il suo amante, il
suo amato. Ed è lo stesso per l'amato. è davanti al suo amante, noi lo sappiamo
bene, che l’amato sente la più grande vergogna, quando sarà sorpreso a fare
qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una
città o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero
certamente il miglior governo che ci sia. Allontanerebbero infatti da loro
tutto ciò che è cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore. E se questi
amanti combattessero l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere, per
così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo, perché
sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un amante innamorato sarebbe più
intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo
amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito. Preferirebbe piuttosto
morire cento volte. Quanto ad abbandonare l’amato chi si ama, a non aiutarlo in
caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'amore non riesca a ispirargli
una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande
coraggio. Esattamente come in Omero l’amore viene a ispirare l'ardore per la
battaglia a certi eroi, così l'amorefa questo dono agli amanti innamorati, ed
essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto l’amante
accetta questo. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato un esempio chiarissimo di
ciò che dico. Soltanto essa acconsentì a morire per il suo sposo, che pure
aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva così in alto su di loro per
la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al loro stesso figlio,
senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo modo, il suo
gesto è sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli dèi. Essi
concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal
fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle più belle
azioni, concessero questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo
gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli dèi onorano la dedizione e il
coraggio al servizio dell'amore. Al contrario essi mandarono via dall'Ade
Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla. Gli mostrarono soltanto
un'immagine della donna per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima,
infatti, sembrava loro debole, perché altri non era che un suonatore di cetra;
non aveva avuto il coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva
cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E'
certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e
hanno fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello
stesso modo con Achille, il figlio di Teti. L’hanno trattato con onore,
aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti, avvertito dalla
madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece tornato a
casa finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con
coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse
non di morire per salvarlo, perché era già stato ucciso, ma di seguirlo sulla
via della morte. Così gli dèi, pieni di ammirazione, gli hanno tributato onori
eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante. Eschilo scherza quando
pretende che Achille sia l'amante di Patroclo. Achille era più bello non
soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme. Era un
ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai più giovane di
Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi onorano soprattutto questo
particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi
ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza dell'amato per
l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, è più
vicino al dio dell'amato, perché un dio lo possiede. Ecco perché gli dèi
hanno onorato Achille, aprendogli la via per le isole dei beati. Ecco dunque,
io lo dichiaro, l'amore è tra gli dèi il più antico e il più degno, ha i
maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virtù e della felicità, sia
in vita che nel regno dell'aldilà. Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo,
il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene.
Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si
espresse in questi termini. Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto
quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'amore. Se dell’amore ve
ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così. Non ce n'è uno
soltanto, e allora è bene prima spiegare di quale amore dobbiamo tessere
l'elogio. Cercherò dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto,
di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un
elogio che sia degno di questo amore. Tutti sappiamo che non c'è Venere senza
amore. Se dunque non vi fosse che una Venere, non vi sarebbe che un solo amore.
Ma Venere è duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due amori. Come negare
che esistano due Venere? Una Venere, senza dubbio la più antica, non ha madre:
è figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Venere Urania.
L'altra Venere, la più giovane, è figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi
la dea popolare, Venere Pandemia. E allora necessariamente l'amore che serve
Venere Pandemia dovrà chiamarsi Amore Popolare (o volgare) Pandemio.
Quell’amore che serve Venere Urania Amore Uranio. Certo, bisogna lodare tutti
gli dèi. Ma, detto questo, qual è il dominio dei due amori? E' questo che
dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non
è né bella né brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare,
chiacchierare, non c'è nulla di bello in sé. è piuttosto il modo in cui si
compie un'azione a dar questo o quel risultato, e così seguendo la regola del
bello e della rettitudine un'azione con rettitudine diventa bella, al contrario
senza rettitudine l’azione diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto o
l’azione dell’amore (l’amore). Non tutto l'amore è bello e degno di elogio: lo
è soltanto quello che porta all’azione di “amare bene”, la azione dell’amore e
bella. Ora l'amore volgare, compagno di Venere popolare, certo è volgare e
opera a casaccio: è proprio degli uomini da poco. Questi uomo si innamora di un
ragazzo. Poi, l’amante ama il corpo bello. Voglie arrivare dritto al loro
scopo. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario.
Come è ovvio, quest’amore volgare, dell’uomo volgare, si unisce alla più
giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia del maschile
che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da
sempre è estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e
poi è la più antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione,
l’uomo che e ispirato dall’amore volgare Eros e attrato dall'elemento maschile.
Ama teneramente il sesso per natura più forte. E proprio da questa inclinazione
ad innamorarsi di un ragazzo si posse riconoscere quanto e posseduto con purezza
da quest’amore volgare, perché l’uomo volgare non ama i giovani prima che
abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima
che il giovane sia abbastanza grande da avere la prima barba. E' questa l'età
dell’efebo in cui è bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per
restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze,
piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui
e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che
proibisse di amare un ragazzo troppo giovane. Così non si sprecherebbero
tante cure per un risultato imprevedibile. Non è infatti possibile prevedere
che cosa ne sarà di un ragazzino, se avrà vizi o virtù nel corpo efebo. L'uomo
che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge. Ma
bisognerebbe anche che chi coltiva l’amore volgare abbia un limite. E proprio
quest’ amante volgare, infatti, che hanno screditato l'amore e dato a certuni
il coraggio di dire che è una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo
fa perché ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di onestà di
quest’amante volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato
quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di più. La regola
di condotta, per quel che concerne l'amore, è facile da comprendere nelle altre
città, perché la sua definizione è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle
altre città in cui gl’uomini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola
ammessa è semplice. è un bene cedere all’amante e nessuno dirà mai che c'è da
vergognarsi. Il fine è di evitare l'imbarazzo di dover convincere il giovane
con la parola, perché non e gran parlatore. Nella Ionia, al contrario, e in
diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene.Sono paesi dominati
dai barbari. Presso i barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici, il
giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante. Lo stesso
giudizio si dà per l'amore per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi
non conviene che nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure una
grande amicizia saldamente unita, come in effetti l'amore, più di ogni altra
cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto esperienza anche i tiranni
qui da noi. L’amore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio, sentimenti solidi,
hanno distrutto il loro potere. Così là dove si ritiene che ci sia da
vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione è nata dalla debolezza
morale dell’uomo: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i
sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta semplicità che è cosa buona,
essa è nata per la pigrizia dell'animo di quell’uomo. Presso di noi la regola è
molto più bella e, come ho detto, non è facile da comprendere. C'è da
rifletterci, in effetti. è più bello, si dice, amare apertamente piuttosto che
in segreto, e soprattutto amare il giovane di nascita migliore e di meriti più
alti, anche se meno belli di altri; di più, chi è innamorato è
straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa
di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco è la sua vergogna. E
nei tentativi di conquista la regola elogia l’amante per delle stravaganze che
esporrebbero alle critiche più severe chiunque osasse comportarsi così per
altri scopi. Supponiamo infatti che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno,
che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi funzione importante. Se
accetta di fare ciò che fanno l’amante per il suo amato - assillarli con
preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro
porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di schiavitù che nessuno
schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo gli e impedito sia dai
suoi amici che dai suoi nemici. L’amico gli rimprovera la sua adulazione e la
sua bassezza; il nemico lo fa ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose,
invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica
affatto. E qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa più strana è, secondo il
detto popolare, che lui solo può giurare e ottenere grazia davanti agli dèi se
tradisce i suoi giuramenti. Dinanzi a Venere, a quanto si dice, nessun giuramento
vale. Così l’uomini danno all’innamorato una libertà totale: lo dice la nostra
regola. E questo porta a pensare che la regola nella nostra città giudichi cose
perfette il bello e l'amore, e l'amicizia che ricompensa l’amante. Ma quando d'altra parte un padri fa
sorvegliare da un pedagogho il suo figliolo innamorato, in modo che non possa
parlar d'amore con il suo amante. Quando i giovani della loro età, i loro
amici, li rimproverano per il loro amore. Quando gli adulti non si oppongono a
queste critiche e non le biasimano come fuori luogo. Allora se si considera
tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda
presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La
faccenda non è per nulla semplice, come ho già detto all'inizio. In se stessa
non è né bella né brutta. E' bella se l’azione d’amar bene rettamente e bella,
è brutta se l’azione d’amare male sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo
cattivo e per un cattivo motivo. è cosa bella cedere ad un uomo di valore e per
un bel motivo. Ora chi si comporta male è, come prima dicevo, l'amante volgare,
che ama il corpo bello. Non ha costanza, perché l'oggetto del suo amore – il
corpo bello -- è incostante. All'affievolirsi del bello del corpo che ama, "s'invola e va
via", e tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse.
Ma l’uomo chi ama il carattere di una persona per le sue alte qualità, resta
fedele tutta la vita perché il suo amore riposa su qualcosa di costante. La
nostra regola si propone di mettere l’uomo alla prova della serietà e dell'onestà,
perché si ceda al’uomo che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi
a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano
di riconoscere di che natura sia l'amante. Su questo si fonda evidentemente la
massima: «a cedere subito c'è da vergognarsi». Più tempo passa, infatti, più si
ha la prova, sembra, della serietà dell'amore. Una seconda massima, poi, dice
che c'è da vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia
che ci si intimorisca di fronte ad un'azione decisa, che rende incapaci di
reagire, sia che non si respingano con sdegno le lusinghe della ricchezza e del
successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria d'essere solido e stabile, e
dunque non può venirne alcuna generosa amicizia. Non resta dunque, secondo
la nostra regola, che una sola via onesta perché l'amato possa cedere
all'amante. Presso di noi la regola è la seguente. Come tra gli amanti non c'è
nulla di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo
quella forma di schiavitù che prima dicevo, e non c'è il rischio di essere
criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavitù
volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù come proprio
oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al
servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, in la virtù, questa
servitù liberamente accolta non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna
dunque riunire in una sola regola, che riguarda l'amore dell’uomo verso i
ragazzo. Vogliamo che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante.
Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme
seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi
compatibili con la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo
diventare buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia. L’uno
potendo contribuire a dare la virtù, l'altro avendo bisogno di progredire
nell'educazione, allora in verità quando queste regole convergono, e in questo
caso solamente, questa coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda
all'amante. Altrimenti, è da escludere. Nel bene, anche se chi cede è
completamente vittima della situazione, non c'è alcun disonore, ma in tutti gli
altri casi, che si sia vittime o meno, c'è di che vergognarsi. Infatti se c'è
qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi
ingannato e non ottiene nulla, perché il suo amante si rivela povero, la cosa
rimane riprovevole anche se si è una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il
fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e
questo non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento, se si cede a
qualcuno credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi
a questo amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua
malvagità, quanto sia povero nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha
nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la
qualità dell'anima. La virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono
l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia.
Quindi è bellissimo cedere, quando si cede per la virtù. Quest’amore viene da
Venere Urania, ed è davvero divino e prezioso per la città come per l’uomo,
perché esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se stessi, per essere
ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame con l'altra dea, la
Venere volgare. Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è questo
il mio tributo per l’amore. Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di
parole sullo stile dei maestri della parola - era venuto il turno di Aristofane.
Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche altra ragione,
avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a Erissimaco di
parlare lui al posto suo. Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio
singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi. E va bene,
rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro. Parlerò al tuo posto e tu parlerai al
mio quanto ti sarà passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il
respiro il tuo singhiozzo si deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei
gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per
solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto
tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà. A te parlare, dunque, disse
Aristofane, io seguirò i tuoi consigli. Allora Erissimaco prese la parola.
"Io credo che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle
esigenze del soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da parte
mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore
mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto l’uomini nei loro rapporti
con le persone belle. Riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra
altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante che la terra
nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri viventi. La medicina, la nostra
arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che
l’amore è un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su
tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincerò dalla medicina, per
fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò
che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo
ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile. L'amore che è
proprio della parte sana è dunque diverso dall'amore che è proprio della parte
malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che è cosa bella accordare i
propri favori agli uomini che se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai
dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di
buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che
chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e
malsano, se si vogliono seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se
vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei fenomeni d'amore propri dei
corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi
fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il
miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si
acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far nascere l'amore nei
corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è davvero
padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di
ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si
odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli contrari: il freddo e
il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così via. E' per avere
saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico
padre Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo - è il
fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta
quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per
l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per
vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito,
benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che l’uno «in
sé discorde con se stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira56».Ora,
è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa
è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a
partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi
in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se
veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe
nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e una consonanza è una
sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti, è
impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e
non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè
da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E come prima la
medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi,
creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa,
nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora,
se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono
essere osservati facilmente, questo accade perché non vi sono due specie
d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie, sia
componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi a
seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in
quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e
si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il
discorso di prima: se bisogna cedere, è bene farlo con uomini dai costumi ben
regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualità;
l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi
all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di
Polimnia, l'Eros Pandemio57, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad
offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare; è come nella nostra
arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per
imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica, in medicina, in
tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura
del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi. Anche
l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi due amori, e quando gli
elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido -
incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato, essi si
armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano l'abbondanza e la
sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun
danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura,
rovina ogni cosa ed è causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha
origine da questi fenomeni e così le più varie malattie che aggrediscono
animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio
senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate
dall'amore. C'è una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli
astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia. Tutti i sacrifici, poi,
e tutto ciò che ha a che fare con la divinazione (cioè tutto ciò che mette in
comunicazione gli dèi e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di
proteggere l'amore e di guarirlo. L'empietà nasce abitualmente dal non cedere
all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal non riverirlo con ogni propria
azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i propri genitori,
viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è il compito assegnato alla
divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed è ancora lei, la
divinazione, che permette l'amicizia tra gli dèi e gli uomini, perché essa
conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto
degli dèi e alla pietà.Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto
l'universale potenza che è propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione
e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli dèi, con
la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di vivere in
società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con
quegli esseri a noi superiori, gli dèi. Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato
alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho
dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però,
se ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo
singhiozzo se n'è andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la
parola. Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo
rimedio e starnutire. Non è strano che il buon ordine del mio corpo abbia
bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, però, che il
singhiozzo è passato appena ho starnutito. Aristofane, amico mio, che dici?,
riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi in giro un attimo prima di fare
il tuo discorso? Così mi costringi a sorvegliare bene le tue parole, che tu non
abbia ad esser comico proprio quando puoi parlare in tutta tranquillità. Aristofane
si mise a ridere e disse. Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi
sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò dire non poche cose che
faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia Musa si
troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso
in giro! Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi
scappare, non è vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve
rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da parte mia ti farò
grazia, ma solo se vorrò!"Discorso di Aristofane "A dir la
verità, Erissimaco - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente
da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano
assolutamente conto della potenza dell'amore. Se se ne rendessero conto,
certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici,
e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è
oggi,quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe
più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso,
porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande
felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, così potrete essere
maestri a vostra volta. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura
della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi
andati62, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto
differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il
maschio e la femmine. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri
degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è
scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva
caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone
di questo genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco
onorevole.Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i
fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro
gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica
testa. [190] Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il
resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come
noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po'
come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto
arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per
cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole,
la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna,
visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra64. La loro forma
e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro
genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il
loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di
Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la
scalata al cielo, per combattere gli dèi.Allora Zeus e gli altri dèi si
domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non
potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come
avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere
completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure
potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente
riflettuto, Zeus ebbe un'idea. «lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far
sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria
arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno
di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo
anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si
muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno
stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su
una gamba sola, come nel gioco degli otri65». Detto questo, si mise a tagliare
gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia
un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di
voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli
uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire,
fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo
voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che
oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al
centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo
ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con
esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per
spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella
regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando
dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due
parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano
l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così
morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza
l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva,
quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse
l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna,
sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava
estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul
davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li
avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra
loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel
posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini
potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo
era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna,
essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se
un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la
sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro
occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così
evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio
d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica
natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo.
Dunque ciascuno di noi è una frazione68 dell'essere umano completo originario.
Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché
quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo
che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando
così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che
abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la
maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei
maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano
dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano
affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre
donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che
provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da
giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli
uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori
tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono,
certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente
di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore
che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta
cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi
nell’occuparsi di politica. Da adulto, ama il ragazzo. Il matrimonio e la
paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le
consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti
di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosi ffatto
desidera un ragazzo e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie
di cui è parte. Quest’uomo - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di
chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state
separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal
sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne
innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un
istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri
non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non è possibile
pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore: non possiamo immaginare
che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola
forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente
la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce
con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro
con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno
dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: «Il vostro
desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in
modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è
il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo
che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola.
Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e
la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi
felici?» A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e
nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che
il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e
fondersi con l'amato. Non più due, ma un essere solo. La ragione è questa, che
la nostra natura originaria è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il
desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho
detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha
separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77.
Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di
essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi
che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo
la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre
esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo
male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra
guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è
inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui,
allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che
adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie
parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti,
probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale
degli uomini dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino
al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando
l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per
forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di
avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più
affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio
che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros,
che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare
della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle
più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra
natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e
felicità. Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros. T'ho già
pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora
ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano,
Agatone e Socrate."Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così:"Sì
sì, farò proprio come dici tu, perché il tuo discorso mi è piaciuto molto e
anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose
d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di argomenti, tante sono le
cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".E Socrate allora
disse. Dici così perché hai già fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al
mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se
non sarà bellissimo -, avresti una gran paura e saresti proprio in imbarazzo,
come me in questo momento"."Non mi fido mica di te Socrate, disse
Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sarà
attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo. Ma Agatone, rispose
Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco coi
tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per
presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e adesso
dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo così pochi?""Come,
Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, così innamorato del teatro da
non capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti
sono più da temere di una folla ignorante?""Farei molto male se lo
credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di stile non
ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro
molta più importanza che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo
saggi. Perché c'eravamo anche noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se
trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a
loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne
dici?""E' vero", rispose."Ma davanti alla folla non ti
vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da
vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la parola e disse:"Mio caro
Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà proprio nulla se la conversazione
prenderà una piega o l'altra, perché a lui basta avere qualcuno con cui
chiacchierare, soprattutto se è un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo
ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci
dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri
discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a
chiacchierare tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione,
Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta
perché avrò ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C'è
tempo.Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di
cominciare. Tutti coloro che hanno già parlato non hanno per nulla, mi sembra,
fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli
devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo
nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque
sia l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la
natura di ciò di cui è responsabile. E così dobbiamo procedere anche noi
nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che
ci ha fatto.Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, Eros - mi sia
permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia - è il più felice, perché è il
più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la sua natura.
Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova
dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la
vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe.
L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre
in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto:
"Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma
non trovo giusto dire che Eros sia più antico di Cronos e di Giapeto. Io
dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che è sempre giovane
e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide sono
figlie della Necessità, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero.
Infatti gli dèi non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi
in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro. Avrebbero
conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui sugli dèi
l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è
giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse
far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso
tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son
delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, ella avanza sfiorando le teste
degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la
dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a
proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina
infatti sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si
muove e abita in ciò che è più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la
sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza
distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro,
fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a
contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ciò che tra tutte le cose
tenere è più tenero, ed è quindi assai delicato, necessariamente. Ecco
dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre
dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare
dappertutto né passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce,
se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità della sua natura, ebbene di
questo la sua grazia ne dà una prova eclatante, quella grazia che l'Eros
possiede in massimo grado perché tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca
ostilità c'è da sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros
indugia tra i fiori. Su ciò che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o
nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là dove i fiori e i
profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa. Sulla bellezza del dio
basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare
delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia,
non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né
dio. La violenza non ha alcuna parte in ciò che subisce, ammesso che subisca
qualcosa, perché la violenza non ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto
quel che fa perché tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E
gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle «leggi, le
regine della città86».E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La
temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c'è piacere più
grande dell'Eros: gli altri piaceri sono più deboli e possono essere dominati
dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante
in massimo grado.Quanto al coraggio, «Ares stesso non può lottare contro
Eros87». Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero
che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si impadronisce di
qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di
coraggio deve avere ancora più coraggio di lui89.Fin qui ho parlato della
giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e,
nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio.
Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con
la sua, dirò che il dio è poeta così sapiente che rende poeti gli altri, a sua
volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l’Eros lo possiede, «anche se
prima non conosceva le Muse». Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una
prova che Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti
ciò che non si ha, o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli
altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oserà
negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i
viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che
l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre
quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro
con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al
desiderio e all'amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo
dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto
per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine «per il governo
degli dèi e degli uomini». Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati
all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per il bello, certo, perché Eros non
si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio,
ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo quanto
narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi nacque
questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per
gli uomini. Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno del
bello, e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte
dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace
agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». E' lui
a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il
nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a
farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di
ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi,
ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo
possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il
Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i buoni ma si
allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso,
egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra
salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la
guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua
gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i
cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini.Ecco il mio discorso, carissimo
Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi
hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate come meglio è stato in mio
potere fare. Quando Agatone ebbe finito di parlare tutti applaudirono perché si
era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si
voltò verso Erissimaco e gli disse. Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo
forse ragione? Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che
Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul
primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo
che Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non
lo credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco,
- riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso così bello, così
seducente! Non è stato tutto perfetto, questo è vero; ma nella conclusione chi
può non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi
riconosco subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e
per un po' ho anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non è
possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da
farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine del suo
discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi
trasformasse in pietra, facendomi diventare muto95. Ho capito allora di
esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio
turno, l’elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose
d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un elogio.
Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verità sull'oggetto
del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse scegliere le
verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero, naturalmente, tutto
fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera
di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare
un elogio non è questo: bisogna piuttosto attribuire all'oggetto del proprio
discorso le più grandi e le più belle qualità - che le abbia davvero o non le
abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era di giocare a
far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che è. Ecco perché, io
penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e
proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza delle sue opere: voi
volete così farlo apparire il più bello e il più buono possibile - ma non si
ingannano coloro che sanno. E certo è una bella cosa un elogio simile. Ma io
ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo,
promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: «ma la lingua promise,
non certo il mio cuore97». Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio così
non ve lo faccio, non ne sono capace. Però, a condizione di dir solo la verità,
se lo desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza
rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho nessuna
intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno di un
discorso di questo genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con le
parole e lo stile che mi verranno al momento.Allora - disse Aristodemo - Fedro
e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un
momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad
Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il
mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E
così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste
parole:"Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la
via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore
e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però,
ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di
Eros, rispondi a questa domanda: è nella natura dell'Eros essere amore di
qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura è di essere
amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una
forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del
padre in quanto padre io domandassi: il padre è padre di qualcuno o no?,tu mi
risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il padre
è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?""Certo",
disse Agatone."E non dirai la stessa cosa della madre?" - Agatone ne
convenne."Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio
comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: «Il fratello, in quanto
fratello, è fratello di qualcuno o no?»Rispose che lo era."Dunque è fratello
di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova
allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di
niente o di qualcosa?""Di qualcosa, evidentemente".[200]
"Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se
egli desidera ciò che ama". "Lo desidera certamente",
disse."Quando possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non
lo possiede?""Quando non lo possiede: è probabile che sia così"
- disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non
è una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e
che non desidera affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo
è chiarissimo. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso",
disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse
desiderare di esser grande? O di esser forte se è forte?""E
impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti
mancare di queste qualità, poiché ce le ha.""E così.""Però
supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo
agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona
salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte
quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle
ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi,
Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che
hanno, che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già? Ma
se qualcuno ci dicesse «Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io
sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che già possiedo»,
allora noi gli risponderemmo: «Tu hai la ricchezza, la salute, la forza; quel
che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per il presente, che tu lo
voglia o no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero ciò che adesso ho già,
queste parole significano semplicemente: ciò che io ho adesso, desidero averlo
anche per l'avvenire». Sei d'accordo, non è vero?Agatone - disse Aristodemo -
lo riconobbe, e Socrate proseguì: "Se tutto questo è vero, desiderare
le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non è forse volere per
l'avvenire che queste cose ci siano conservate?""Certo", disse. "Quindi
l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio,
desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha,
ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo
desiderio e del suo amore." "Sicuramente è così" -
disse."Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su
cui siamo d’accordo. Non è forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza
verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente
la mancanza?""Sì", disse. "E adesso, Agatone, ricordati
cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l'Eros. Se
vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi
hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perché non ci
può essere amore verso quel che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è
vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve, mio
caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros
dovrebbe amare il bello, non certo la bruttezza, non è vero?"Agatone fu
d'accordo."Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama
ciò di cui si sente la mancanza e che non si possiede?""Sì",
ammise."L'Eros manca quindi della bellezza e non la
possiede?""Per forza", disse."Ma come? Chi manca della
bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?""No di
certo.""E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che
Eros sia bello? Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere
quel che dicevo"."Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone.
Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle,
secondo te?""Lo sono, a mio avviso"."Allora se all'Eros
manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza
mancare anche la bontà"."Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non
sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici"."No,
carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi
contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo. Adesso ti lascerò un
po' in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna
di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti.
Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici
che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte
cose su Eros. Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue
parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati
d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la
natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice
è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera
nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto
Agatone con me: io dichiaravo che Eros è un grande dio e che ama le cose belle.
Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono
servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per
usare le mie parole, né buono. E io le dicevo: «Ma come Diotima? Allora Eros è
cattivo e brutto?»«Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi
forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?»«Ma
certo!»[202] "E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere
ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e
l'ignoranza102?» «E qual è?»«Avere un'opinione giusta, senza però saperla
giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non
so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza,
perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione
giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la
piena conoscenza e l'ignoranza103».«E' vero», risposi.«Dunque chi non è bello
non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E
così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono
né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto.
Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra questi estremi».«Però - ripresi io
- tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente».«Dicendo tutti,
parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?»«Io parlo
proprio di tutti».Diotima si mise a ridere. «Come possono dire di lui che è un
dio potente se dicono che non è affatto un dio?» «Ma chi dice questo?» dissi
io.«Tu per esempio - disse - ed anch'io!»Ed io: "Ma cosa dici?»«E' tutto
semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono
felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né
felice?»«lo non oserei proprio», risposi.«Ma chi è felice? non è chi possiede
cose buone e belle?»«Certo».«Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle
cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano».«È vero, ero
d'accordo con te su questo».«E allora come può essere un dio se le cose buone e
belle gli mancano?»«Sembra impossibile, in effetti».«Come vedi - disse -, anche
tu ritieni che Eros non sia un dio».«Chi sarà dunque Eros? un mortale?»«No di
certo».«E allora?»«E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via
tra il mortale e l'immortale».«Che vuoi dire, Diotima?»«E' un dèmone potente,
Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali
e quella degli dèi. Ma qual è il suo potere», chiesi.«Eros interpreta e
trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che
viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro
gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a
mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra
loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene
l'arte divinatoria107, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le
iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino
non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli
dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel
sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa
altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano
qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi
è Eros».«Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre? E' una lunga storia - mi
disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si
radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros110, il figlio di
Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un
giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto
molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne
andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe
l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò
incinta di Eros. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo servitore:
concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per natura amante
della bellezza - e Afrodite è bella.Proprio perché figlio di Poros e di Penìa,
Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è
affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a
piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle,
per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno
l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è
bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine,
sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per
arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua
vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per
natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo
padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è
mai ricco. Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come
accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare
sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possieda davvero il sapere,
infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di
filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va
nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si
crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la
sua mancanza».«Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli
ignoranti?»«E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che
vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La
scienza, in effetti, è tra le cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è
quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione
intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua
origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre
povera tanto di conoscenze quanto di risorse. Così, mio caro Socrate, è fatta
la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi
sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros
fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che
fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato,
perfetto, sa dare ogni felicità. Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella
che ti ho prima descritto117». Io allora ripresi:«E sia, straniera: tu hai
proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser utile a
noi uomini? Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo
carattere e questa origine: ama il bello, come tu ben sai. Ora, prova a
domandarti: che cos'è l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le
cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che
si prova quando si ama? Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci
appartenga, risposi io. Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema:
che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle? Io dichiarai che non ero
affatto capace di rispondere a una domanda simile. E allora - disse lei -
parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le
cose buone, le desidera: ma cosa desidera? Che siano sue», risposi.«E cosa accade
all'uomo che le possiede? In questo caso posso rispondere più facilmente -
dissi -: sarà felice. In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la
felicità delle persone. Così non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa
vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità abbiamo già
toccato il fine ultimo del desiderio».«E' vero», dissi."Ma questa volontà,
questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre
possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi»,«E' così, questa volontà è
comune a tutti».«Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti
gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al
contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano
affatto?"«Sono stupito anch'io di questo», risposi.«Non devi stupirti,
però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una
sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse
l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi
diversi».«Mi fai un esempio?», chiesi.«Certo. Tu sai che la capacità creativa
delle persone può manifestarsi in molti campi. La creatività entra in gioco
tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era e poi
c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della
creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli
artisti."«E' vero».«Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti
artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che
hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di
artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti
lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio
che riconosciamo agli artisti».«E' vero», dissi.«Ed è lo stesso per l'amore. In
generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per tutti
"amore possente, Eros ingannevole. Il desiderio umano ha mille forme
diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello
studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono
una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che
dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati. Sei proprio convincente»,
risposi.«Molti dicono, però, che “amare” significa cercare la propria metà. Io
non sono d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per
l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le
persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte
che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si
affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è
suo sia buono e ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano
altro che il bene. Non la pensi così anche tu?» «Certo, per Zeus»,
risposi.«Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è
buono?»«Sì».«E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò
che è buono?»«Certo che dobbiamo».«E non soltanto possederlo, ma possederlo
sempre». «Dobbiamo aggiungere anche questo».«Quindi - disse - l'amore è il
desiderio di possedere sempre ciò che è buono? E' così», dissi.Se è dunque
chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di
attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere
questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta?
Me lo sai dire? » «Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così
pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per
imparare quel che sai».«Allora - riprese -, te lo dirò io: amare, per il corpo,
significa creare nella bellezza». «Bisognerebbe essere degli indovini per
capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto». «Mi
esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità
creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una
certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare
nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e
della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature
viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la
fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo
non può avvenire se non c'è armonia123: e non c'è armonia tra la bruttezza e
tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con gli dèi.
Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da
Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di
creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si
apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma
quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in
volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta
ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la propria
creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi
possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta.
E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate,
come tu credi. E cosa allora?»«Desidera creare e far nascere nuova vita nella
bellezza. Ammettiamolo», dissi.«E proprio così - ripeté -. Ma perché creare
nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale l'eternità e l'immortalità
possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il desiderio
d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai -
se è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto
quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto
l'immortalità126».Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose
d'amore. Un giorno mi chiese:«Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore
e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro
istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o
volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad
accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre
pronti a combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più
forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono
loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose
necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di
una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore
che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?»Ancora una volta risposi che non ne
sapevo nulla. E allora riprese:«E tu pensi di diventare un giorno davvero
esperto nelle cose d'amore senza sapere questo? Ma è ben per quello, Diotima,
come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so di avere bisogno di una
guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e quant'altro riguarda
l'amore». «Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è
quello sul quale abbiamo più volte discusso, non devi certo meravigliarti.
Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio
quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire
immortale. E non può farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì
che un nuovo essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che
ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla
vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le
stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di
rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue,
insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo,
ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri,
i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per
ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane
ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre
spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli
stessi -, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte.Infatti
noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci
sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo
studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le
conserviamo. E' per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo
rinnovandole. E' così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono
sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro
identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di
nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa dell'immortalità,
nel suo corpo e in tutto il resto; l’immortale vi partecipa in modo del tutto
diverso128. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall'amore e
si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi:
è al servizio dell'immortalità129». Queste parole mi riempirono di stupore e
glielo dissi: «Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?»Ella mi
rispose col tono serio di chi insegna:«Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle
ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai senza dubbio della loro
assurdità; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto è
strano lo stato di coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria
immortale per l'eternità: sono disposti per questo a correre ogni rischio, più
ancora che per difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro
denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi
forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito
Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la
morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di
lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che è giunto sino a noi? E' così,
disse. A mio avviso, è per rendere immortale il loro valore, per acquisire un
nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto più se le
loro qualità personali sono alte - perché è l'immortalità che essi desiderano.
Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il
loro modo d'amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare
alla loro persona l'immortalità - questo essi credono - e la memoria di sé e la
felicità per tutto il tempo a venire. Altre persone, però, sono feconde
nell'anima: c'è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a
volte è superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della
saggezza e delle altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità
eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono
usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è
nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la
giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin
da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere
a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza - perché mai
potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora
verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è
feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto
il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua
forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: così
potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza
dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla luce
quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea,
genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre
all'altro che ama e così nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha generato.
Tra gli esseri di questa natura si crea così una comunione più intima di quella
che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto più solido.
Sono più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le creature che
nascono dalla loro unione. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al mondo simili
creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri
grandi poeti. Si osserverà con invidia quale discendenza essi hanno lasciato,
capace di assicurare loro l'immortalità della gloria e della memoria, perché
anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se vuoi -
disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo abbia lasciato agli Spartani per la
salvezza della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le stesse
ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi -
greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi opere,
mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di quello che
queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti templi135,
mentre questo non è mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di
un uomo e di una donna. Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu
puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni più profonde e la loro
contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua
portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo.
Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo
al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento al bel corpo. In primo
luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di
una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si
accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della
bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è
propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola,
identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi del bello di tutte le
persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non
valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore.
Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della
bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se
non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che
potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà
imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi:
scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli
apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato
allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi
sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della
bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma
d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncerà così alle limitazioni che lo
avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della
bellezza142, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri
saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere143. Finché, reso forte e
grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla
scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò. Sforzati - mi
disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei
capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo
contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine;
raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà
il bello nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine
di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte145. Essa non si accresce
né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è
senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si
osservi. E tutti comprendono che è bella. Il bello non ha forme definite: non
ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non
è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per
esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di
cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua
perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua
forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma
esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo
abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo
gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo
amore per i giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e
perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da
soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la
bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo
deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte,
poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla
pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione del bello in
sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il
momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la
Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le
ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu
e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli
ammirare e poter stare con loro148. Cosa proverà l'anima allora nel
fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea
all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il
nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma?
Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato
sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che
possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente
allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è
visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa
immagine149 egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena
verità150. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per
questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?» Ecco,
Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a
convincermi, così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per
dare alla natura umana il possesso di ciò che è bene, non si troverà miglior
aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro
l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare
altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la
forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se
vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai". Questo
disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di
dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo
discorso151, ecco che si sentì bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare
di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi - disse
Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad
entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a
dormire." Un istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade,
non più molto in sé per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove
fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E così lo accompagnarono
nella sala e stava in piedi solo perché una flautista e qualcun altro dei suoi
compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di
edera e di viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona
sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure
dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via
subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto
venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa
dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente e il più bello: voglio
proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete, ridete,
tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no?
volete o no bere con me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e
gli dissero di entrare e prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiamò,
Alcibiade si diresse verso di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominciò a
togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva
sotto gli occhi non si accorse di Socrate e andò a sedersi accanto ad Agatone,
quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a
loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla testa. "Ragazzi - disse
Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a
noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma chi è terzo con noi?"
Dicendo così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e
disse: "Per Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato
accanto a me! Ti par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta?
E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro
che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto
al più bello della compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu -
dice Socrate -. Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal
giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di guardare un
solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa
delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque,
attenzione, che non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se
tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la sua follia d'amore mi
fanno una paura terribile." "No - disse Alcibiade -, è impossibile:
tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti
un'altra volta. Per il momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che
cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si
lamenti che ho incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i
suoi discorsi vince tutti sempre, e non solamente una volta come te ieri."
Dicendo questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise
comodo e disse:"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi.
Ma questo non vi è permesso: bisogna bere, l’abbiamo convenuto tra noi! Sarò io
il re del simposio, finché voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora,
Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è bisogno.
Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne aveva
appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece riempire e
bevve per primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo: "Con Socrate,
amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non ci sarà
verso di farlo ubriacare."Il servo allora portò il vino a Socrate che si
mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade?
Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente?
beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa
Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti
saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa
dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo,
vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora
ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che
ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un
discorso sull'Eros, il più bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto,
adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che anche tu faccia il tuo
discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta
alla sua destra e così via.""Ben detto, Erissimaco - risponde
Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non può dire cose che stanno
alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi forse una sola parola di
quel che ha appena detto? non lo sai che è tutto il contrario? Perché lui, se
in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che
non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi.""Ma che dici!",
gli fa Socrate."Per Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti,
perché in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di
te.""E allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di
Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che
me la prenda con un tipo così e mi vendichi davanti a voi?""Ma
ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio
elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verità: a te
accettare o meno.""La verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti
chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te,
ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non è vera, tronca a metà le
mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa lì io mento, perché io
volontariamente non racconterò certo delle balle. Però mescolerò un po' tutto
nel mio discorso, e tu non meravigliarti, perché tu sei proprio un bel tipo e
non è certo facile, nello stato in cui sono, ricordare con ordine proprio
tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a
delle immagini. Sono sicuro che lui penserà che voglia scherzare, e invece sono
serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in
tutto simile a quelle statuette dei Sileni che si vedono nelle botteghe degli
scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è
l’immagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro:
eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo
nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io
produrrò dei testimoni. Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto?
Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare
col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo.
Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue
arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono
sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo
degli dèi: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche
sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai
affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti
bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un
altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o
un altro - per mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio
tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa
star tranquilli si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi
del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento -
quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi
discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere più forte di
quello dei Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho
vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri
grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di
simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavitù in
cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da
farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non
dirai che non è vero. E ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di
prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne a meno: proverei le stesse
emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i miei limiti:
io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli
affari degli Ateniesi160. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le
orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di
passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a lui ho provato un
sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho avuto vergogna
di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E
questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli
contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi
allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161. Allora mi
nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel
che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più
vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io
non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco l'effetto delle sue arie
da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa subire. Ma
ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui
l'ho già paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per
certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io, siccome ho già cominciato,
voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate ha un debole per i bei
ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per loro. D'altra
parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno è l'immagine che vuol
dare. Non è questa la maniera di fare di un Sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine
esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta
aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei,
sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge
neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno è ricco o ha tutto quello
che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun
valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi163, ve lo assicuro. Passa tutta la
sua giornata a fare il sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando
diventa serio e la statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini
affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli dèi, preziose, perfette e
belle, straordinarie: e così mi son sentito schiavo della sua volontà. Ero
giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho
creduto fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero
veramente fiero della mia bellezza e così speravo che, ricambiando il suo
interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una
volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando
vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo con lui. Devo
proprio dirvi tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene
correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben
presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice.
Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il
giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica
con me, e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di
concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e
spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non
riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio
scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa
impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un
innamorato che tende una trappola al suo amato167. Ma non accettò subito, anzi
ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar
via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci
un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la
conversazione, senza tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle
andarsene, con la scusa che era tardi lo convinsi a restare. Era dunque
coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun altro
dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti.
Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il
proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci fosse
la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di
meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io
sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano
affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi,
perché solo loro possono comprendere, e scusare tutto ciò che si è osato fare o
dire per l'angoscia del dolore. E io son stato morso da un dente più
crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore,
nell'anima (poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha
trafitto col suo morso, che penetra più a fondo del dente della vipera168
quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa
fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone,
con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza
parlare di Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio
filosofico e alla sua forza dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perché
certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E
voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le
orecchie con le porte più spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu
spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che non dovevo più giocare
d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora,
scuotendolo: "Dormi, Socrate?" "Per nulla", rispose.
"Sai cosa penso?" "Che cosa?" "Penso che tu saresti un
amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai
miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido, io credo, non cedere
ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia
fortuna o i miei amici. Niente, infatti, è più importante ai miei occhi che
migliorare il più possibile me stesso, e io penso che su questa strada nessuno
mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei dinanzi alle persone sagge di
non cedere ad un uomo come te più di quanto mi vergognerei dinanzi alla massa
degli ignoranti di cedere." Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica
e mi dice: "Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se
ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare.
Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla
tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare il bello con
il bello, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto
piccolo. Tu non vuoi più possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza
reale, e quindi sogni di scambiare - non c'è dubbio - il bronzo con l'oro. Eh
no, mio bell'amico, guarda meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono
niente171. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante quando
gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel
momento." Al che io rispondo: "Per quel che mi riguarda, sia ben
chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso, decidere ciò che è
meglio per te e per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni
noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrerà migliore ad entrambi,
su questo punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo
di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli
di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto
il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente
meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai
che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse più forte: non
degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto, fu quasi
offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei
giudici (sì, giudici della superiorità di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo
giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate
senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio
fratello maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso,
ma apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo
trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute
introvabili: e così non potevo prendermela con lui e privarmi della sua
compagnia, né d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene
che era totalmente invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul
solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito175.
Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo è stato
d'altri, gli giravo vanamente attorno. Tutto questo accadde prima della
spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e prendemmo anche i pasti
insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle fatiche non solo meglio di me,
ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte
in qualche punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun
altro aveva tanta resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti,
sapeva approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci
fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa
assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte
stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di
Potidea gli inverni sono terribili - Socrate è del tutto straordinario. Vi
racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto di peggio potete
immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e se lo fanno si
infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello.
Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi
nudi sul ghiaccio con più tranquillità di quelli che avevano le scarpe: e così
i soldati lo guardavano di traverso, perché pensavano li volesse
umiliare. E c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e
sopportò il forte eroe", laggiù in guerra: vale veramente la pena di
sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal
primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a
capo dei suoi problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già
mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate
era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché,
venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro
letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per
vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci
del mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole.
Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento -
perché anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo
scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio,
riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiutò di
abbandonarmi e riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai
generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso
che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali,
considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai
personalmente insistito più di loro perché il premio invece andasse a me.
Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu
quando il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu
il caso a farmelo incontrare. Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava
ripiegando insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito lì
per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati.
In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea,
perché avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di
Lachete - e quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di
avanzare come se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando
occhiate di fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e
facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo
se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna
inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili
situazioni, si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto
attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri
aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perché
sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri uomini
probabilmente meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate, invece, che
lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri
uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si può trovare l'immagine
di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o Antenore, e
questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito
di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi discorsi non
hanno paragoni né nel passato né oggi, per quanto si cerchi con attenzione, a
meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad altri uomini,
ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. Sì, perché
c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili
alle statuette dei Sileni che si aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice
Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi comiche, tutte
intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci
della pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di
sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con
le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è caso che rida dei suoi
discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che
solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla
delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virtù. Chi lo
ascolta è portato verso le cose più alte; anzi, meglio, è guidato a tenere
sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per diventare un uomo che
vale. Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da
fargli, li ho mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non
sono il solo che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il
figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha
ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad
innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo!
Che la nostra esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il
proverbio: "l'ingenuo fanciullo non impara che soffrendo." Quando
Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito
ch'era ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse: "Tu non hai
affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso
così sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è venuto
fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e
invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di guastare
l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba amare
solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te,
da nessun altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la
tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro
Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno
possa mettersi tra me e te." E Agatone di rimando:"Hai detto proprio
la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare proprio tra te e
me, per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così, perché io torno
proprio a mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti
voglio proprio vicino! Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare
quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate,
sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due. E'
impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io
devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se
Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovrà mettersi a fare il mio
elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov'è, mio
divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero
proprio cantare le sue lodi. Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso,
Alcibiade: non è proprio possibile che resti qui. Voglio a tutti i costi
cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate". "Ecco - disse
Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto che per lui
accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso
per farselo stare vicino!" Agatone si era alzato per andarsi a mettere
accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una banda di gente allegra
spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e così
erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala:
senza più alcuna regola, si bevve allegramente un sacco di vino. Allora, mi
disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo,
fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò
ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri
dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora
svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a
destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi
disse, il resto della conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e
dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di
convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a
comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da
quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è
proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il
primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò
anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò
via. Aristodemo lo seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e
passò il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò
a casa a riposare. Platone Carmide Edizione Acrobat a cura
di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it) Platone Carmide Platone
CARMIDE Arrivammo (1) il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea,
(2) e poiché tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei
consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di
Taurea,(3) dirimpetto al santuario della Regina,(4) e qui incontrai molte
persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E
quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi,
chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte (5) invece, da quella natura
bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e
afferratami la mano: «O Socrate», diceva, «come ti sei salvato dalla
battaglia?». Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea,
della quale lì si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: «Così come mi
vedi », dissi. «Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto
dura», disse lui, «e che vi sono morte molte persone note». «Le notizie
riportate sono esatte», risposi io. «Eri presente alla battaglia?» chiese lui.
«C'ero». «Allora siediti qui», disse, «e raccontaci, perché non abbiamo saputo
ogni cosa in maniera chiara». E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a
Crizia figlio di Callescro.(6) Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e
gli altri, ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse
chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra. Quando però fummo sazi di
questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di
qui, sulla filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne
fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza, per bellezza o per
entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perché aveva
visto alcuni giovanetti entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle
spalle che li seguiva, «dei belli», disse, «o Socrate, credo che tu saprai
subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e
gli amanti di colui che ha fama di essere il più bello in questo momento, e mi
sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare». «E chi è», chiesi io, «e
di chi è figlio?» «Forse lo conosci anche tu», mi rispose, «ma non era ancora
adulto prima che tu partissi; èCarmide figlio di nostro zio Glaucone, mio
cugino».(7) «Lo conosco, per Zeus!», esclamai. «Neppure allora, quando era
ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere
decisamente un giovanetto». «Presto saprai», rispose, «la sua età e che tipo
egli sia diventato», e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide. Ebbene,
per quello che riguarda me, amico mio, non si può misurare nulla: infatti io
sono semplicemente una cordicella bianca con i belli (8) - infatti li vedo in
qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia
indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la
bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava, erano
innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -,
molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue
spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci
caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il più
piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se
fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: «Che te ne pare del
ragazzetto, o Socrate?», disse. «Non ha un bel volto?» «Straordinariamente
bello», risposi io. «Ebbene», aggiunse, «egli, se volesse spogliarsi, ti
sembrerà privo di volto, a tal punto è bellissimo di forme». Furono dunque
d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: «Per Eracle»,
dissi, «di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova ad
essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta». «Quale?», chiese Crizia.
«Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima», risposi, «e in
qualche modo è scontato, o Crizia, che egli sia tale, dal momento che è del
vostro casato». «Ma sì», rispose, «è bellissimo e virtuoso anche in questo».
«Perché dunque», esclamai, «non spogliare di lui proprio questa cosa ed
ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa età, desidera
certamente dialogare». «Senza alcun dubbio», rispose Crizia, «sia perché è
appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta».
«Questa bellezza», dissi io, «caro Crizia, voi l'avete, è lungo tempo, dalla
vostra consanguineità con Solone.(9) Ma perché non hai chiamato qui il giovane
e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora più
giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei
insieme suo tutore e cugino». «Certo tu hai ragione», disse, «chiamiamolo». E
intanto al servo: «Ragazzo», disse, «chiama Carmide e digli che voglio
presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi
diceva di essere affetto». Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: «Poco fa
diceva dì sentire come un peso alla testa, quando si è alzato di buon mattino;
ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa?»
«Nulla», risposi, «purché venga». «Certo, verrà», assicurò. E la cosa in
effetti andò così. Infatti venne e suscitò gran riso, perché ognuno di noi che
eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui
accanto a sé, finché di quelli seduti all'estremità uno lo facemmo alzare,
mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese
posto tra me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia
precedente arditezza, che avevo perché pensavo che gli avrei parlato con molta
scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero
colui che conosceva il rimedio, mi fissò con 2 Platone Carmide occhi
quali è impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in
palestra corsero intorno a noi in cerchio da ogni parte, allora davvero, o
nobile amico, vidi ciò che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero più
in me e pensai che il più sapiente in cose d'amore è Cidia, (10) il quale
disse, parlando di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, «di stare
attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della
preda»; mi sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile
animale. Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa,
risposi a fatica che lo conoscevo. «Qual è allora?» chiese. E io risposi che
era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se
veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire
completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità. E
quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te». «Se mi persuaderai o
anche se non mi persuaderai?», dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: «Se
ti persuaderò, o Socrate». «E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?»
«Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te
tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un
fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente». «Ben fatto», dissi io, «ti
parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa
non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula.
Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire
soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno
va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di
guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la
testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di
guarire la testa per se stessa senza il corpo intero è una follia totale. In
base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di
curare e di sanare con il tutto la parte; (11) o forse non ti sei accorto che
dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose. «E pensi che
parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose. E io, al
sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo
in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il
caso di questa formula magica. Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei
medici traci di Zalmoxis,(12) dei quali si dice che sanno rendere immortali.
Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco
fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna
cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo
stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto
che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui
bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte
stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali,
al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi:
bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche
le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima,
mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei
discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza,(13) per
la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e
alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli
incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa
con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima
da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso
questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente
dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò
con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né
bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho
prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a
te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza
a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il
rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide».
Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna
per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare
migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide
ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza,
ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula
magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io. «Dunque sappi
bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di
quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è
inferiore a nessuno». «E infatti», dissi io, «è anche giusto, o Carmide, che tu
emerga tra gli altri per tutte queste cose; perché credo che nessun altro tra
coloro che si trovano qui potrebbe con facilità esibire due famiglie, riunitesi
in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili
una discendenza più bella e più nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato
tu.(14) Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide,
(15) ci è stata tramandata come oggetto di encomio da parte di Anacreonte,(16)
di Solone (17) e di molti altri poeti, poiché eccelle per bellezza, per virtù e
per tutto ciò che è detto felicità; e allo stesso modo poi la famiglia per
parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, (18) tuo zio, nessuno tra gli
uomini del continente si dice avesse la fama di essere più bello e più
prestante, tutte le volte che si recò come ambasciatore o presso il Gran Re o
presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa
famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati, è
naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli aspetti
visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore
in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei
dotato per natura di buone capacità sia per assennatezza sia per tutto il
resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre»,
conclusi. «La 3 Platone Carmide cosa dunque sta così. Se davvero
c'è già nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei
sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno né degli incantamenti di
Zalmoxis né di Abari l'Iperboreo, (19) ma a questo punto bisognerebbe darti
proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di
queste formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il
rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare
in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?». Carmide
dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora più bello - e
difatti la modestia si addiceva alla sua età - poi con animo non certo vile
rispose: disse infatti che non sarebbe stato più facile, lì sul momento, né
approvare né negare ciò che gli veniva chiesto. «Se infatti», spiegò, «non
dicessi che sono assennato, non solo sarebbe strano che uno dica cose simili di
se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e
molti altri ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi
che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei insopportabile; sicché non so
che cosa risponderti». E io risposi: «Mi sembra che tu dica cose ragionevoli,
Carmide. E penso», dissi, «che bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o
non possieda la cosa che ti sto domandando, affinché tu non sia costretto a
dire cio che non vuoi e d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in
maniera sconsiderata. Se dunque ti è cosa gradita, voglio fare questa ricerca
con te, altrimenti lasciar perdere». «Ma tra tutte è la cosa che mi fa più
piacere», disse lui, «quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo
che tu ritieni il migliore». «Ecco allora», dissi io, «quale mi sembra il
miglior metodo di ricerca su questo argomento. è chiaro infatti che se tu
possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio. è
d'altra parte necessario, quando essa è presente, se davvero c'è, che se ne abbia
una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa una qualche
opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi così?»
«Certo, lo penso», disse. «Ebbene, questa cosa che pensi», dissi, «dal momento
che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che sia?»
«Forse», rispose. «E allora affinché possiamo congetturare se tu l'hai in te
oppure no, dimmi», continuai, «che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo
la tua opinione?». Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente
rispondere, poi però disse che assennatezza a suo parere è fare tutto con
ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre
azioni allo stesso modo. «E penso», concluse, «in una parola che ciò che mi
chiedi sia una certa calma». «è forse giusto ciò che dici?», dissi. «Certo,
Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c'è del vero in
quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non è tra le cose belle?» «Certo»,
rispose. «E qual è la cosa più bella nelle lezioni del maestro: scrivere le
lettere simili in fretta o con calma?» «In fretta». «E nel leggere? Velocemente
o lentamente?» «Velocemente». «E suonare la cetra con velocità e lottare con
ritmo serrato non è molto più da virtuosi che farlo con tranquillità e
lentamente?» «Sì». «E allora? Nel pugilato e nel pancrazio (20) non avviene la
stessa cosa?» «Certo». «Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi
del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidità non si addicono al
virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillità?» «è
evidente». «Dunque ci pare evidente», dissi io, «per quel che concerne il
corpo, che non è la calma, ma la massima rapidità e prontezza ad essere la cosa
migliore. Non è così?» «Certamente». «Ma l'assennatezza era una cosa bella?»
«Sì». «Allora per il corpo non la calma, ma la rapidità sarebbe cosa più
assennata, dal momento che l'assennatezza è una cosa bella». «Così sembra »,
rispose. «E allora?» continuai io. «è più bella la facilità di apprendere o la
difficoltà di apprendere?» «La facilità di apprendere». «Ma la facilità di
apprendere», chiesi, «significa apprendere rapidamente? E la difficoltà di
apprendere significa farlo con calma e lentezza?» «Sì». «Non è più bello insegnare
a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente?»
«Sì» «E poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente è più
bello che farlo con decisione e rapidità?» «Con decisione e rapidità», rispose.
«La perspicacia non è una certa acutezza dell'animo, e non la calma?» «è vero».
«Non è forse vero che se si tratta di comprendere ciò che viene detto, sia a
scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro luogo, la cosa più bella
non è farlo con la maggior calma possibile, bensì con la maggior rapidità?»
«Sì». «Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle
decisioni, a sembrare degno di lode non è il più lento nel prendere una
decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa
con la massima facilità e rapidità». «è così», disse. «E in tutte le cose»,
aggiunsi io, «o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che
riguardano il corpo, le azioni di velocità e prontezza non appaiono più belle
rispetto a quelle di lentezza e di calma?» «è possibile», rispose. «Dunque
l'assennatezza non è una certa calma né la vita assennata è calma, in base a
questo ragionamento, dal 4 Platone Carmide momento che deve essere
bella, se è assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai
raramente le azioni calme ci apparvero nella vita più belle di quelle rapide e
forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le più insignificanti,
capita che siano più belle di quelle decise e rapide, così neppure
l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo forte e
rapido, né nell'andatura né nell'eloquio né in nessun'altra situazione, né la
vita calma potrebbe essere più assennata di una vita non tranquilla, dal
momento che nel discorso l'assennatezza è stata da noi posta tra le cose belle,
ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille». «Mi sembra
ben detto, o Socrate», disse. «E allora», ripresi io, «di nuovo, ponendo più
attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto su
quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale
debba essere la sua natura per produrre tale effetto, dopo aver dunque
riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti
sembra che sia?». Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso
con atteggiamento decisamente virile, «ebbene, mi sembra», disse, «che
l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza
sia ciò che di fatto è pudore». «E sia», dissi io, «ma poco fa non ammettevi
che l'assennatezza è una cosa bella?» «Certamente», disse. «E che gli assennati
sono anche uomini buoni?» «Sì». «Potrebbe allora essere buona una cosa che non
rende buoni?» «No, certo». «Non è solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa
buona». «Per lo meno mi sembra». «E allora?» ripresi io. «Non pensi che Omero
aveva ragione quando diceva: "Il pudore non è un buon compagno per l'uomo
bisognoso"?» (21) «Sì». «Dunque, parrebbe, il pudore non è un bene ed è un
bene». «è evidente». «L'assennatezza è un bene se davvero rende coloro nei
quali sia presente buoni, ma non cattivi». «Ma certo, le cose mi sembra che
stiano come tu dici». «Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se
davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore non è un bene più
di quanto sia un male». «A me, o Socrate, sembra», disse, «che questo sia detto
bene: ma prendi in esame questa definizione della assennatezza, come ti sembra
che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato - è una cosa che sentii già dire da
un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose.(22)
Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa». E io: «Ah
furfante», dissi, «tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da
qualche altro sapiente!». «Probabilmente da un altro», disse Crizia, «non certo
da me». «Ma che differenza fa, o Socrate», disse l'altro, Carmide, «da chi l'ho
sentito?» «Nessuna differenza», dissi io, «perché in ogni caso bisogna indagare
non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no». «Ora parli bene»,
disse. «Per Zeus», dissi io, «ma se anche troveremo come sta la cosa, mi
meraviglierei, perché somiglia a un enigma». «E perché?» «Perché sicuramente»,
continuai, «le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo
pensiero, quando diceva che assennatezza è "fare le proprie cose".
Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando scrive o
quando legge?» «Si, certo, lo penso», disse. «Dunque tu pensi che il maestro di
scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi
ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei
nomi degli amici?» «Per nulla meno». «Forse che vi impicciavate degli affari
altrui e non eravate assennati nel fare questo?» «Assolutamente no». «E
certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere
sono fare qualcosa». «Ma certo lo sono». «E infatti il guarire, caro compagno,
il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con
qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa». «Certo». «E allora?»
dissi io, «pensi forse che una città sarebbe ben governata da quella legge che
impone di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le
scarpe, l'ampolla, lo strigile (23) e tutto il resto in base a questo stesso
discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le
proprie?» «Non lo penso», disse lui. «Tuttavia», replicai, «se è governata con
assennatezza, dovrebbe essere ben governata». «Come no?», disse. «Dunque
assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie
cose in questo modo». «Non sembra». «Parlava dunque per enigmi, a quel che
sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le
proprie cose è assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da
uno sciocco dunque questa cosa, o Carmide?» «Minimamente», rispose, «perché
anzi aveva fama di essere molto sapiente». «Soprattutto, a quel che penso,
proponeva un enigma perché è difficile capire che cosa mai significhi fare le
proprie cose». «Forse», disse. «E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le
proprie cose? Puoi dirlo?» «Io non lo so, per Zeus», rispose lui, «ma forse
nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ciò che pensava». E
mentre diceva queste cose 5 Platone Carmide sorrideva e guardava a
Crizia. Ed era evidente che già da tempo Crizia era agitato e desideroso di
farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era
trattenuto, allora non ne fu più capace: mi sembra infatti più che vero, cosa
che sospettai, che Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo
all'assennatezza. Carmide dunque, poiché non voleva render conto lui della
risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era
stato confutato. L'altro non lo tollerò, ma mi sembrò adirato con lui come un
poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guardò fisso e poi
disse: «Sicché, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui
che disse che l'assennatezza è fare le proprie cose, allora neppure lui lo sa?»
«Ma, eccellente Crizia», dissi io, «non è affatto una cosa che desta
meraviglia, data la sua età, che ignori questa cosa; invece è naturale che tu
la sappia, sia per via della tua età sia per i tuoi studi. Se dunque ammetti
che l'assennatezza è appunto ciò che costui dice e accogli questo ragionamento,
tanto più volentieri io indagherei insieme a te se la definizione è vera oppure
no». «Ebbene lo ammetto senz'altro», rispose, «e lo accetto». «E fai bene»,
dissi io, «ammetti anche ciò che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno
qualcosa?» «Sì». «E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle
degli altri?» «Anche quelle degli altri». «Dunque sono assennati, pur non
facendo solo le loro cose?» «Infatti, che cosa lo impedisce?» chiese. «Niente,
per me almeno», replicai io, «ma bada che l'impedimento non ci sia per colui
che, avendo ipotizzato che l'assennatezza è il fare le proprie cose, dice poi
che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano
assennati». «Io infatti, in un certo senso», disse, «questo l'ho ammesso, che
sono assennati coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono
assennati coloro che realizzano le cose degli altri».(24) «Dimmi, tu non chiami
con la stessa parola il realizzare e il fare?» «No davvero», disse, «e neppure
il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo,(25) il quale diceva
che il lavoro non è affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le
occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e
"fare", avrebbe detto che non è una vergogna per nessuno fare il
calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna
crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro è la
realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre
un'opera realizzata è a volte motivo di vergogna, quando non è accompagnata dal
bello, il lavoro invece non è mai motivo di vergogna: infatti chiamava lavori
le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le
chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di
ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi bisogna pensare
che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato
chi si occupa delle sue cose». «O Crizia», dissi io, «non appena cominciasti a
parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le cose proprie
e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite
volte Prodico (26) fare delle distinzioni riguardo ai nomi. Ma io ti concedo di
assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa dài il nome che stai pronunciando.
Dunque, ora dài daccapo una definizione più chiara: l'azione o la
realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose buone, tu dici che questa è
assennatezza?» «Sì», rispose. «Dunque non è assennato colui che compie azioni
cattive, bensì colui che compie azioni buone?» «E a te, nobile Socrate», disse,
«non sembra così?» «Lascia perdere», dissi, «non indaghiamo su ciò che penso
io, ma su ciò che stai dicendo ora tu». «Ebbene», disse, «io affermo che colui
che realizza cose non buone ma cattive non è assennato, mentre è assennato
colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose
buone io te la definisco chiaramente assennatezza». «E certo nulla impedisce
che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia», dissi io, «il fatto che
a tuo parere gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati». «Ma
non lo penso», replicò. «Poco prima non è stato detto da te che nulla vieta che
gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano assennati?» «è
stato detto, certo», disse, «ma che vuol dire questo?» «Niente; ma dimmi se
secondo te un medico, quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se
stesso sia per colui che guarisce». «Sì». «Colui che agisce così non fa forse
il suo dovere?» «Sì». «E colui che fa il suo dovere non è assennato?» «è
assennato, certo». «Non è allora necessario che il medico sappia quando
guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando può
trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no?» «Forse no». «A volte»,
dissi io, «dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli
stesso in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il
tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non è così che dicevi?» «Sì».
«Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente
ed è assennato, ma ignora di se stesso che sia assennato?» «In realtà, o
Socrate», ribatté, «questo non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi,
dalle mie precedenti ammissioni, che è inevitabile che ci si accordi su questo,
io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di
dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che un uomo ignori di
se stesso che è assennato. Io, per me, infatti, più o meno affermo che
assennatezza è proprio questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui
che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. 6 Platone Carmide Penso
infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del
dio a chi entra, in luogo del "Salve", perché questa forma di saluto
non è giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli
uni con gli altri, ma augurarsi dì essere assennati. In qu esto modo dunque il
dio rivolge a coloro che entrano nel santuario un saluto differente da quello
che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offrì, a
mio parere; e dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro
che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica,
come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii
saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione (27) e come sostengo
anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a
mio avviso, è capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni
"Nulla di troppo" (28) e "Garanzia porta guai".(29) Costoro
infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non
un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano; quindi anche loro, per offrire
consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui
io dico tutto questo dunque, o Socrate, è il seguente: ti lascio cadere tutto
ciò che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi più ragione tu in
qualcosa, forse invece avevo più ragione io, ma nulla di ciò che dicevamo era
chiaro -; ora voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza
è conoscere se stessi». «Ebbene, Crizia», dissi, «tu con me ti comporti come se
io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle domande e potessi
essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non è così, al contrario,
infatti io indago assieme con te di volta in volta il problema che si presenta,
perché io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono
d'accordo o se non lo sono. Suvvia, aspetta finché io non abbia fatto il mio
esame». «Fai dunque il tuo esame», disse. «Difatti lo sto facendo», replicai
io, «se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa, è chiaro che sarebbe una
scienza e una scienza di qualcosa o no?» «Lo è di se stessi», rispose. «Dunque
anche la medicina», chiesi, «è scienza della salute?» «Certamente». «Se allora
tu mi chiedessi», continuai «"Essendo la medicina scienza di ciò che è
sano, in cosa è per noi utile e che cosa procura?", risponderei che è di
non poca utilità, perché ci procura un bel risultato, la salute, se accetti
questa idea». «Sono d'accordo». «E se poi tu mi domandassi dell'architettura,
che è la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca, risponderei
che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna
dunque che anche tu risponda a proposito della assennatezza, dal momento che
affermi che essa è conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia,
l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci
procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi». «Ma, Socrate», replicò,
«la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non è simile alle altre
scienze né le altre scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo
la tua ricerca come se esse fossero simili. Perché, dimmi», continuò, «quale
risultato del calcolo o della geometria è simile alla casa dell'architettura o
al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran
numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene, puoi
mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma
non potrai». E io risposi: «Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa
sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere distinto dalla
scienza stessa. Per esempio, il calcolo è la scienza del pari e del dispari,
della quantità, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari
tra loro; (30) o no?» «Certamente», rispose. «Il dispari e il pari, non sono
diversi rispetto al calcolo stesso?» «Come no?» «E a sua volta la statica è
arte del pesare il peso più pesante e il peso più leggero; tuttavia il pesante
e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei d'accordo?» «Sì». «Di'
allora, anche l'assennatezza, di cosa è scienza, che si trovi ad essere diverso
dall'assennatezza stessa?» «Questo è il punto», replicò, «o Socrate: tu arrivi
allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze
l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con
le altre. La cosa però non sta così, al contrario, tutte le altre sono scienze
di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece è scienza delle altre
scienze e anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma,
penso, ciò che poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perché
cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il
discorso». «Quale errore fai», dissi, «a pensare che se ti confuto quanto più è
possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto quella per
cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene,
io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso
di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso
interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi
che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle cose che
esistono diventi evidente nel suo modo di essere?» «è proprio ciò che penso
anch'io, o Socrate», rispose. «Coraggio, dunque», ripresi, «carissimo,
rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia
Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al
ragionamento stesso esamina in che modo ne verrà fuori, se viene confutato».
«Ebbene», concluse, «farò così: le tue parole mi sembrano misurate». «Parla
allora», ripresi io, «riguardo all'assennatezza cosa dici?» «Affermo allora»,
rispose, «che sola tra le altre scienze essa è scienza di se stessa e delle
altre scienze». «Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza», chiesi io, «se
lo è anche della scienza?» «Certamente», rispose. «Dunque soltanto l'assennato
conoscerà se stesso e sarà in grado di esaminare che cosa egli si dà il caso
che sappia e 7 Platone Carmide che cosa non sa, e sarà capace allo
stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di
sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo può
farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza:
conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non è questo ciò che
vuoi dire?» «Sì», rispose. «E ancora», ripresi, «con la terza coppa al
salvatore, (31) come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa sia
possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si
sanno e quelle che non si sanno -; in seconda istanza, se è possibile nel modo
più assoluto, quale utilità ne potremmo ricavare noi a saperlo». «Certo, bisogna
fare un'indagine», disse. «Via, Crizia», incalzai, «esamina se riguardo a
questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa più pieno dì risorse di me,
perché io sono in difficoltà; ma devo dirti in cosa sono in difficoltà?»
«Certo», rispose. «Tutto questo», dissi io, «non sarebbe forse, se davvero è
come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non è scienza di nient'altro
se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della
mancanza di scienza?» «Certo». «Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno,
ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso
punto in altri contesti, ti sembrerà, com'io credo, impossibile». «Come e in
quali contesti?» «In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non
sia la vista di quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la
vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di
vista, e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le
altre viste: ti sembra che possa esistere una vista di tal genere?» «Per Zeus,
no». «E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli
altri uditi e le assenze di udito?» «Neppure questo». «Insomma esamina tutte le
percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se
stessa, ma che delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non
abbia nessuna percezione?» «Non lo penso». «Ma ti sembra che esista un
desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli
altri desideri?» «No davvero». «Neppure una volontà, com'io credo, che non
voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà». «No, certo».
«Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di
nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori?» «No», rispose. «E hai
già osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non
tema neppure una sola delle cose terribili?» «Non l'ho notata», rispose.
«Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose
sulla quali opinano le altre opinioni non opini?» «In nessun modo». «Ma, a quel
che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non è scienza
di nessuna disciplina: non è scienza di nulla, ma è scienza di se stessa e
delle altre scienze?» «Lo affermiamo infatti». «Non è assurdo, se davvero
esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo
piuttosto ancora se esiste». «Dici bene». «Vediamo dunque: questa scienza è
scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no?»
«Certamente». «E difatti noi affermiamo che ciò che è maggiore ha un potere
tale da essere maggiore di qualcosa?» «Difatti lo ha». «E di qualcosa che è
minore, se davvero è maggiore?» «Necessariamente». «Se dunque trovassimo
qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma
che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre
sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero è maggiore di se stesso,
di essere anche minore di se stesso; o no?» «Assolutamente inevitabile, o
Socrate», rispose. «Ancora, se qualcosa è doppio delle altre cose doppie e di
se stesso, sarebbe dunque il doppio di una metà che è sia se stesso sia gli
altri doppi: (32) e difatti non c'è doppio di altro che della metà». « è vero».
«Essendo dunque più di se stesso, non sarà anche meno? Ed essendo più pesante
più leggero, ed essendo più anziano più giovane e in tutto il resto allo stesso
modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avrà
anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire
questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del suono,
o no?» «Sì». «Se dunque sentirà se stesso, sentirà se stesso perché provvisto
di suono, altrimenti non si udrebbe». «Decisamente inevitabile». «E la vista,
nobile uomo, se davvero essa vedrà se stessa, deve necessariamente avere essa
stessa un colore, perché una vista non potrebbe mai vedere niente che sia
incolore». «No, certo». «Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo
esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti
dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le
grandezze, le quantità e altre cose di tal genere è assolutamente impossibile;
o no?» «Certamente». «L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che
possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8 Platone
Carmide cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulità, in altri
forse no. C'è bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguerà
adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per
natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune sì e altre no; e s e
poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c'è la
scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace
di fare queste distinzioni: perciò non posso sostenere fermamente ne se sia
possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, né, nel
caso sia precisamente così, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza,
prima che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o
no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E
tu dunque, figlio di Callescro - giacché stabilisci che l'assennatezza è
questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di scienza - per
prima cosa mostra che è possibile ciò che poco fa io dicevo, in secondo luogo
che oltre ad essere possibile è anche utile; e forse potresti anche soddisfare
me, con l'idea che sia giusta la definizione che dài dell'assennatezza». E
Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficoltà, come accade a
coloro che, nel vedere delle persone sbadigliare, ne condividono il bisogno,
anche lui mi sembrò costretto dal mio essere in difficoltà e preso egli stesso
dall'imbarazzo. Poiché dunque in ogni occasione si faceva onore, provava
vergogna davanti ai presenti, e non voleva concedermi di non essere capace di
distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non
diceva nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo. E io, per far
proseguire il nostro ragionamento, dissi: «Ma se è opportuno, o Crizia,
ammettiamo pure ora questo dato, che è possibile che esista una scienza della
scienza; esamineremo di nuovo se è così o no. Suvvia, posto che questo sia
assolutamente possibile, in cosa allora è maggiormente possibile sapere quel
che uno sa o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo è appunto
conoscere se stessi ed essere assennati; o no?» «Certo», rispose, «e in certo
qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce
se stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio
quando uno ha la velocità, veloce, quando ha la bellezza, è bello, e quando ha
la conoscenza, è uno che conosce; quando però uno abbia una conoscenza che
conosca se stessa, in certo qual modo sarà allora egli stesso conoscitore di se
stesso». «Non discuto questo», ribattei io, «che quando un uomo possieda una
cosa che conosce se stessa, non conoscerà egli stesso se stesso, ma che
necessità c'è che colui che abbia questa cosa sappia ciò che sa e ciò che non
sa?» «Perché queste due cose sono identiche, Socrate». «Forse», ribattei, «ma
ho paura di essere sempre allo stesso punto, perché non capisco come possa
essere lo stesso il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».(34)
«Come dici?», chiese. «Dico questo», risposi, «una scienza che in qualche modo
è scienza di scienza sarà in grado di distinguere di più rispetto al dire: di
queste cose l'una è scienza, mentre l'altra non è scienza?» «No, ma solo
questo». «Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e
per la scienza e l'ignoranza del giusto?» «In nessun modo». «Ma l'una, credo, è
la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non è nient'altro che
scienza». «Come no, infatti». «Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto,
ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo,
potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri,
che sa una cosa e possiede una scienza, o no?» «Sì». «Ciò che conosce grazie a
questa scienza come lo saprà? Infatti conosce ciò che è sano grazie alla
medicina, ma non grazie all'assennatezza, ciò che è armonico grazie alla
musica, ma non grazie all'assennatezza, ciò che riguarda le costruzioni grazie
all'architettura, ma non grazie all'assennatezza, e così via, o no ?» «è
evidente». «Ma grazie all'assennatezza, se davvero è soltanto scienza delle
scienze, come saprà che conosce ciò che è sano o ciò che riguarda le
costruzioni?» «In nessun modo». «Dunque colui che ignora queste cose non saprà
ciò che sa, ma saprà soltanto che sa». «Sembra». «Né l'essere assennati né
l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose
che non si sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa». «è
probabile». «Né costui sarà capace di esaminare se un altro, che va dicendo di
conoscere qualcosa, sa ciò che dice di sapere o non lo sa; ma conoscerà questo
soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa però
l'assennatezza non glielo farà conoscere». «Non pare». «Non sarà in grado di
distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo è e chi invece lo è
realmente, né nessun altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque
da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il vero medico e
colui che non lo è, non si comporterà dunque in questo modo. Non gli parlerà
certo di medicina- perché il medico, come dicevamo, non si intende di
nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?» «Sì, è così». «Di
scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza
soltanto». «Sì». «Né di medicina sa nulla il medico, dal momento che la
medicina si dà il caso che sia appunto una scienza». «è vero». «Che dunque il
medico possiede una scienza, l'assennato lo comprenderà; poiché tuttavia
bisogna sperimentare quale sia, non esaminerà forse di quali cose sia scienza?
O non è forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene 9 Platone
Carmide stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia,
grazie cioè al fatto che è scienza di qualcosa?» «Grazie a questo, certo». «E
la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che è
scienza del sano e del malato». «Sì». «Dunque colui che voglia indagare sulla
medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali
la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle
quali questa non sia contemplata?» «Certo non in queste». «In ciò che è sano e
in ciò che è malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminerà il
medico, in quanto medico». «è naturale». «Indagando dunque nelle parole dette e
nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette,
le azioni, per vedere se sono ben fatte?» «Necessariamente». «Senza la medicina
potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose?»
«No davvero». «Nessun altro potrebbe farlo, com'è naturale, tranne un medico,
neppure un assennato, perché dovrebbe essere un medico in aggiunta
all'assennatezza». «è così». «Soprattutto, se l'assennatezza è soltanto la
scienza della scienza e dell'ignoranza, non sarà in grado di distinguere né un
medico che conosce i princìpi della sua arte o colui che non li conosce ma
pretende di conoscerli o pensa di conoscerli, né nessun altro di coloro che
conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di
una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani». «è evidente»,
disse. «Quale vantaggio dunque», dissi, «Crizia, potremmo ancora ricavare da
una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che facevamo all'inizio,
l'assennato sapesse ciò che sa e ciò che non sa, e sapesse queste cose di
saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro
che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di grandissima utilità,
diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo
l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati da noi. E difatti non
ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che
sappiano, le affideremmo a loro, né permetteremmo agli altri, sui quali
esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ciò che potrebbero fare
bene: e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; e così, una casa
amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una città ben
governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza:
rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni
azione è necessario che coloro che si trovano in queste condizioni abbiano
buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non è
questo», dissi, «Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo
quale grande bene sarebbe conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa?»
«Certamente», rispose: «è così». «Ora», ripresi io, «vedi che non è apparsa in nessun
luogo nessuna scienza di questo tipo». «Lo vedo», disse. «Non ha forse questo
di buono», continuai, «la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il
conoscere la scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra
cosa apprenda, la apprenderà più facilmente e tutto gli apparirà più chiaro,
dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, (35) avrà la visione della
scienza, ed esaminerà meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia
appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in
maniera più debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che
otterremo dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di più grande e
desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia?» «Forse è
così», rispose. «Forse», dissi io, «forse però noi non cercammo niente di
utile. Faccio questa congettura perché mi appaiono certi strani fatti riguardo
all'assennatezza, se è di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso
che è possibile conoscere la scienza e ciò che all'inizio ponevamo essere
l'assennatezza, cioè conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa, non
neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose,
esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porterà anche qualche vantaggio.
Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ciò che
dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene,
facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della città». «Come
mai?» domandò. «Perché», risposi, «ammettemmo con facilità che è un grande bene
per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non
sa le affidasse ad altri che le conoscano». «Dunque non facemmo bene ad
ammetterlo?» «No, non mi sembra», risposi io. «Dici cose strane veramente, o
Socrate», commentò. «Per il cane!», (36) esclamai. «Anche a me sembra così, e
avendo rivolto là lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi si mostravano davanti
alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti
veramente, se l'assennatezza è esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro
quale vantaggio essa ci arrechi». «E come mai?», disse lui. «Parla, affinché
sappiamo anche noi ciò che vuoi dire». «Penso», dissi io, «di star sragionando;
bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con
leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso». «Parli bene»,
disse. 10 Platone Carmide «Ascolta dunque», continuai, «il mio
sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di
avorio.(37) Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere,
essendo quale ora la definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle
scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe
ingannarci, né medico né stratego né nessun altro che finga di sapere qualcosa
che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le cose stanno così,
potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente più sani di ora
e ci salveremo nei pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili,
la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte e molte
altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo
che anche la mantica sia la scienza di ciò che deve avvenire e l'assennatezza,
che è ad essa preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri
indovini quali profeti del futuro. Che così disposto il genere umano potrebbe
agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di
guardia, non permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra
collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo fortuna e saremmo felici,
questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia».
«Tuttavia», riprese, «non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere
fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza». «Insegnami allora ancora una
piccola cosa», dissi io, «secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio
del cuoio?» «Per Zeus, no». «Allora della lavorazione del bronzo?» «Niente
affatto». «Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere?» «No
davvero». «Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive
secondo la scienza è felice. Infatti costoro, nonostante che vivano secondo la
scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo
felice a colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti
riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che conosce tutto ciò che sta
per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a lui o a qualcun altro?» «A lui»,
rispose, «e a un altro». «Chi?», domandai. «Forse un uomo del genere, se oltre
a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e quelle presenti
e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti,
penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive con più scienza di lui». «No,
certo». «Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice?
O forse tutte nella stessa misura?» «Nient'affatto nella stessa misura»,
rispose. «Ma quale più di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose
presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale
conosce il gioco degli scacchi?» (39) «Ma quale gioco degli scacchi?», esclamò.
«Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo?» «Nient'affatto». «Allora
quella per cui conosce ciò che è sano?» «Piuttosto», rispose. «Ma qual è quella
scienza alla quale faccio particolare riferimento», continuai, «grazie alla
quale, cosa può conoscere?» «Quella per cui conosce il bene e il male». «Ah
furfante», esclamai, «da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il
vivere secondo scienza a fare la fortuna e la felicità, né è prerogativa di
tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che è soltanto quella che tocca
il bene e il male. Perché, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre
scienze, forse la medicina farà guarire un po' meno, l'arte del calzolaio farà
calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero
impediràmeno di morire in mare e quella dello stratego in guerra?» «Non meno»,
rispose. «Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo
utile ci verrà a mancare, se questa scienza è assente». «Quel che dici è vero».
«Questa scienza dunque, a quel che sembra, non è l'assennatezza, ma quella la
cui funzione è di esserci utile. Infatti non è la scienza delle scienze e delle
non scienze, ma del bene e del male: cosicché, se dunque la scienza utile è
quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso». «Perché»,
chiese, «non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza è in modo
particolare scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo
potere anche su questa, cioè la scienza del bene, dovrebbe esserci utile».
«Quale fa guarire?», chiesi. «Questa? E non la scienza medica? E le altre opere
delle arti le compie questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non
abbiamo invece stabilito da tempo che essa è unicamente scienza della scienza e
della mancanza di scienza e di nient'altro, non è così?» «Almeno pare». «Non
sarà dunque artefice di salute?» «No, certo». «La salute era infatti opera di
un'altra arte, o no?» «Si, di un'altra». «Né dunque sarà artefice di utilità,
caro compagno: perché poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito, è
vero?» «Certo». «In che modo sarà dunque utile l'assennatezza, se non è
artefice di nessuna utilità?» «In nessun modo, o Socrate, almeno sembra». «Vedi
dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi
rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile sull'assennatezza? (40)
Infatti la cosa che per generale ammissione è tra tutte la più bella non ci
sarebbe apparsa priva di utilità, se io fossi stato di qualche utilità alla
realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti
e non siamo in grado di scoprire per quale delle realtà esistenti il
legislatore (41) pose questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte
cose che non conseguivano al nostro ragionamento. 11 Platone
Carmide Infatti ammettemmo che è scienza della scienza, nonostante che il
ragionamento non lo permettesse e affermasse che non è così; concedemmo poi a
questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che
neppure questo ammettesse il ragionamento, affinché l'assennato potesse
diventare per noi uno che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che
non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosità, senza riflettere sul
fatto che è impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa
assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si sa ciò che non si sa.
Eppure, com'io credo, non c'è nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire
più assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati così disponibili e non
inflessibili, n on è maggiormente in grado di trovare la verità, anzi tanto
l'ha derisa che ciò che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando
insieme, stabilimmo essere l'assennatezza ci appariva manifestamente, con
grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per
te», continuai, «o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per
aspetto e oltre a ciò molto assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilità
da questa assennatezza, né ti sarà di alcuna utilità la sua presenza nella
vtia. Ma ancora di più mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace,
(42) se, mentre è di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo ad impararla.
Ebbene, non credo che le cose stiano così, ma che io sono un ricercatore
mediocre; perché, penso, l'assennatezza è un gran bene e se davvero la
possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno
della formula magica, perché se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di
ritenere me un chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunché,
te invece quanto più assennato tanto più felice». E Carmide, «Ma per Zeus»,
disse, «io non so né se la possiedo né se non la possiedo: come potrei sapere
ciò che neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io
non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di
avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla
impedisce che venga incantato da te tanti giorni finché tu dica che è sufficiente».
«E sia: tuttavia, o Carmide», disse Crizia, «se lo farai, questa sarà per me la
prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento di Socrate
e non ti allontani da lui né molto né poco». «Stai sicuro che lo seguirò e non
lo lascerò», rispose, «perché mi comporterei in modo terribile, se non
obbedissi a te, il tutore, e non facessi ciò che mi ordini». «Ebbene», ribatté
l'altro, «io te lo ordino». «Lo farò», rispose, «a partire da questo stesso
giorno». «Voi due», intervenni io, «che cosa state decidendo di fare?» «Nulla»,
rispose Carmide, «abbiamo già deciso». «Allora mi costringerai», esclamai, «e
non mi concederai la possibilità di un'inchiesta?» (43) «Stai sicuro che ti
costringerò, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ciò
decidi tu cosa farai». «Ma non resta nessuna decisione», dissi io, «infatti se
tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sarà capace di
contrastarti». «No, certo», ribatté: «non opporti neppure tu». «Allora non mi
opporrò», dissi io. 12 Platone Carmide NOTE: 1) è la lezione
"ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al
singolare, "econ men"). 2) Colonia corinzia, entrata nella Lega
navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria
Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo),
incaricato di partecipare al governo della città. Il rifiuto di Potidea alle
richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio
della guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente
ateniese guidato da Callia, durò dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide, 1, 56-66).
Nell'Apologia (28e) Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedeltà, da lui
dimostrata sul campo a Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. 3) Si tratta
evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinità
ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario
si trovava probabilmente a sud dell'Acropoli. 5) Cherefonte, del demo attico di
Sfetto, è ricordato come amico di Socrate già da Aristofane (Nubes 104) e da
Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come interlocutore anche nel
Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta
Tiranni nel 404 a.C., rientra ad Atene nel 403, con Trasibulo. Nel 399, anno
dei processo e della morte di Socrate, Cherefonte era già morto (cfr. Apologia
Socratis 21a). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate
il più saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte,
perdute tuttavia già nell'antichità. 6) Callescro era fratello di Glaucone,
nonno materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua
volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente).
Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto
nipote di Carmide, e figlio della cugina di Crizia. 8) Cfr. Sofocle, frammento
330 Radt: «su pietra bianca cordicella bianca». I carpentieri che normalmente
usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca
strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate
si definisce dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per
questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni.
Ma Carmide, come dimostreranno già le prime battute sul suo arrivo, smantellerà
completamente questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di
Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era
nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. 157e; Timaeus 20e). Secondo Diogene
Laerzio, Volume 3, 1, e Proclo, In Platonis Timaeum 26b, Dropide era fratello
di Solone. Solone fu arconte ad Atene nel 594/593 a.C. (Diogene Laerzio, Volume
1, 62) o nel 592/591 a.C. (Aristotele, Respublica Atheniensium 14, 1). Abolì i
debiti e liberò dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libertà a
coloro che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riformò
il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta più leggera, con una
svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia
ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei
pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene
Laerzio, Volume 1, 61), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da
identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e
Archiloco (De facie in orbe lunae 19, 931e). 11) Il principio qui esposto,
della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano,
è alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum
è compreso un trattato (Sul regime di vita). 12) Divinità dei Traci,
identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco
Crono. Erodoto (quarto, 94-96) racconta che prima di essere dio fu uomo,
schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libertà, tornò in Tracia, dove
annunciò ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti
in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che Erodoto ha raccolto
tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra
sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce
la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis è in realtà vissuto prima di
Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, pagine
159-209. 13) Per il senso più ampio da attribuire al termine greco
"sophrosúne" cfr. quanto osservato nella premessa al dialogo. 14)
Cfr. le note 7 e 8. 15) Cfr. la nota 9. 16) Anacreonte nacque a Teo, in Asia
Minore, intorno al 570 a.C., e morì nel 485 a.C. Visse alla corte di Policrate
dì Samo (tiranno dal 533 al 522 circa) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia
e ad Atene. Fu autore di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri
lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. 17) Del Crizia
antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone
(frammento 22 Gentili- Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di
Pericle (Plutarco, Pericles 13). Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni
che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle
fonti come secondo marito di Perictione, madre di Platone. 19) Abari è sciamano
e taumaturgo, che Erodoto (4, 36) definisce sacerdote di Apollo. Pindaro
(frammento 283 Bowra) lo assegna all'età di Creso (560-546 a.C.). Di lui si
raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con sé una freccia
donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione
ufficiale dal paese degli 13 Platone Carmide Iperborei ad Atene al
tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora, è un altro
esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente. 20)
Combattimento combinato di lotta ("pále"), e pugilato
("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente
ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario.
Cfr. Platone, Euthydemus 271c-272a. 21) Cfr. Odyssea libro 17, verso 347. 22.
Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia è
confermato dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce in 162c. Si
tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale
del percorso di ricerca della definizione ultima di "sophrosúne". In
Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e
riflettere il «settarismo esclusivista di una concezione di vita che
sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica» (A. Battegazzore, in
Sofisti. Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A.
Battegazzore, Firenze 1962, pagina 339). 23) Lo strigile era uno strumento
impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia.
Probabilmente c'è qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias
minor 368b-d), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad Olimpia esibì
un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e
perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente realizzati da
lui. 24) Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso
significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non necessariamente
collegato con una realizzazione di oggetti che è invece implicita nel verbo
"poieo", come anche nel verbo "érgazestai" 'lavorare', che
Platone impiega qualche riga più in basso (A. Braun, I verbi del «fare» nel
greco, in «Studi italiani di filologia classica» 15, 1939, pagine 260-261). 25)
Esiodo, Opera et dies 311. La formulazione anticipa uno dei princìpi del
l'etica attivistica periclea, nel "manifesto" della democrazia
ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di
sviluppo dall'età micenea all'età romana, Bari-Roma 1994, pagina 208; Idem
Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma 1995, pagine 104-105. 26) Prodico dì
Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel
400 a.C., scrisse le "Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla
natura". Viaggiò in molte città greche come ambasciatore e spesso ad
Atene, dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilità
di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue
ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr.
Platone, Hippias maior 282c. 27) L'iscrizione sull'architrave del santuario di
Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di ammonimento al
visitatore affinché ricordasse la sua condizione mortale. 28) Cfr. Teognide,
335 e 401. 29) Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il
commediografo Cratino. 30) Cfr. Platone, Gorgias 451b-c. 31) Espressione
proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus
Salvatore), il decisivo, perché decisivo ci si augura che sia il terzo
tentativo di definizione della "sophrosúne". 32) Passo di difficile
interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: «se qualcosa è doppio di altri
doppi e di se stesso, sarebbe doppio essendo quindi metà sia di se stesso sia
degli altri doppi», oppure come proposto nel testo. 33) Cfr. 167a. «Dunque
soltanto l'assennato conoscerà se stesso...». 34) Non è a mio parere necessario
aggiungere al testo «con il conoscere se stessi», coma propone Diano, né
espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase «il sapere ciò
che si sa e il sapere ciò che non si sa». 35) Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36)
Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis
22a). 37) Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno
passano i sogni veritieri inviati agli uomini dagli dèi, attraverso la porta di
avorio passano invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa
'compimento', 'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine'
usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges 739a). I
"pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati
"cuboi". 40) Cfr. 172c. (I tipi di vantaggi che otterremo
dall'assennatezza...). 41) L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore
o da una legge divina è ampiamente sviluppata nel Cratilo. 42) Cfr. 156d. (E
io, al sentire che approvava, ripresi coraggio...). 43. Il termine
"anácrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria
preliminare. Platone Liside Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi
(patsa@tin.it) Platone Liside Platone LISIDE Percorrevo la
strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia (1) direttamente
al Liceo. (2) Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana
di Panopo, lì incontrai Ippotale, (3) figlio di Ieronimo, Ctesippo (4) del demo
di Peania e altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena
mi vide avvicinarmi, disse: «Socrate, dove vai e da dove vieni?»
«Dall'Accademia vado direttamente al Liceo», risposi io. «Ma vieni qui,
direttamente da noi. Perché non cambi strada? Ne vale la pena»~ disse egli.
«Dove mi inviti e da chi di voi?», domandai io. «Qui», rispose, mostrandomi un
recinto davanti al muro e una porta aperta: «qui passiamo il tempo noi e molti
altri bei giovani». «Cos'è questo luogo e come passate il tempo?» «è una
palestra costruita da poco. Per lo più passiamo il tempo in discussioni, di cui
ti renderemmo volentieri partecipe», rispose. «E fate bene: ma chi insegna
qui?», domandai. «Un tuo amico e ammiratore: Micco», (5) rispose. «Per Zeus,
non è certo un uomo da poco, ma un valente sofista», osservai. «Vuoi seguirci
per vedere chi c'è dentro?», chiese Ippotale. «Prima ascolterei volentieri per
quale motivo devo entrare e chi è il bello», chiesi a mia volta. «Ognuno di noi
la pensa diversamente, Socrate», rispose egli. «Per te chi è, Ippotale?
Dimmelo». Interrogato su questo arrossì e io dissi: «Ippotale, figlio di
Ieronimo, non dirmi più se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato,
ma ti sei spinto molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non
servo a molto, ma questo dono ho ricevuto dal dio, la capacità di capire subito
chi ama e chi è amato». Udendo queste parole egli arrossì ancora di più e
Ctesippo disse: «è bello che tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate
quel nome; ma se egli si intrattiene anche poco con te, sarà sfinito
sentendotelo ripetere un numero infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e
riempito le nostre orecchie con il nome di Liside: e se poi beve ci è facile,
quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di Liside. E quanto
dice a parole, anche se terribile, non è così terribile come quando tenta di
rovesciare su di noi poesie e prose. E ciò che è ancora più terribile è il
fatto che canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e
sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce». «Liside è un giovane, a
quanto pare: lo intuisco dal fatto che sentendone il nome, non lo conosco»,
osservai. «Infatti non lo chiamano molto con il suo nome ma è ancora chiamato
con il nome del padre che è molto conosciuto, perciò so bene che non puoi
ignorare l'aspetto di quel ragazzo, poiché è in grado di farsi notare solo per
questo», disse. «Mi si dica di chi è figlio», chiesi. «è il figlio maggiore di
Democrate del demo di Aissone» disse. «Bene, Ippotale, che amore nobile e
giovane da ogni punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ciò che
mostrerai a costoro, perché io veda se sai ciò che un innamorato deve dire del
suo amato di fronte a lui stesso e agli altri», osservai. «Ma Socrate, perché
dai peso a come parla costui?», chiese Ippotale. «Neghi di amare il giovane di
cui costui parla?», domandai. «No, ma nego di comporre poesie e prose per
l'amato», rispose. «Non sta bene, ma farnetica e delira», disse Ctesippo. Io
chiesi: «Ippotale, non ti chiedo di ascoltare qualche verso o qualche canto, se
ne hai composti per il giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo
ti comporti con l'amato». «Te lo dirà costui: infatti lo sa bene e se ne
ricorda se, come afferma, è rimasto assordato a furia di ascoltarmi». «Per gli
dèi, me ne ricordo bene, poiché sono cose ridicole, Socrate. Infatti esser
innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in particolare senza
sapergli dire nulla di ciò che anche un bimbo non saprebbe dirgli, non è
ridicolo? Ciò che la città tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del
ragazzo, e di tutti i suoi antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di
cavalli, le vittorie pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da
corsa, questo egli compone e declama, e cose ancora più antiche di queste.
Ultimamente infatti ci raccontava in un poema l'ospitalità data a Eracle, cioè
che un loro antenato aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacché
anche lui era nato da Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti,
questi e molti altri simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo è ciò
che costui, dicendo e cantando, ci costringe ad ascoltare». Tali furono le
parole di Ctesippo. E dopo aver udito ciò, così dissi: «Ridicolo Ippotale,
componi e canti un encomio indirizzato a te prima di aver vinto?» «Ma non è per
me, Socrate, che io compongo e canto», ribatté. «Tu credi di no», incalzai.
«Come stanno le cose?», chiese. «Questi canti sono indirizzati a te più che a
tutti gli altri perché, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi
canti saranno per te un onore e saranno realmente encomi per un vincitore,
poiché hai conquistato un tale amato; se invece ti sfugge, quanto più ampi sono
stati i tuoi elogi dell'amato, tanto più apparirai ridicolo, privato di una
conquista tanto importante. Dunque, amico, chi è sapiente in amore non loda
l'amato prima di averlo conquistato, poiché teme il futuro 2 Platone
Liside e come andrà a finire. Nel contempo i bellì , quando qualcuno li
loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia così ?»
«Sì », disse. «E più sono orgogliosi, non sono più difficili da conquistare?»
«è naturale». «Come ti sembrerebbe un cacciatore se, cacciando, spaventasse e
rendesse più difficile da catturare la selvaggina?» «Evidentemente un inetto».
«Ed è una grande rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per
inselvatichire: non è così ?» «Mi pare di sì ». «Bada allora di non procurarti
tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io credo che tu non
ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia sia un buon
poeta, dal momento che arreca danno a se stesso». «No, per Zeus, perché sarebbe
del tutto privo di logica. Ma è per questo, Socrate, che ti consulto, e se
puoi, consigliami quali parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare
gradito all'amato», così mi pregò. «Non è facile dirlo: ma se tu volessi farlo
venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ciò che bisogna dirgli al
posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli rivolgi», dissi io.
«Ma non è difficile. Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere,
credo che egli si avvicinerà a te - d'altronde è molto amante delle
discussioni, Socrate, e inoltre, poiché si celebra la festa di Ermes, (7) si
sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si
avvicinerà. E se ciò non si verifica, egli è amico di Ctesippo per via del
cugino di costui, Menesseno, (8) di cui è il più caro amico. Dunque che
Ctesippo lo chiami, se non si avvicina da sé», ribatté Ippotale. «Bisogna fare
così », dissi. E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli
altri ci seguirono. Entrati, trovammo lì che i bambini avevano terminato i
sacrifici, giocavano agli astragali, (9) poiché la cerimonia era quasi finita,
ed erano tutti ben vestiti. Dunque i più giocavano fuori nel cortile, alcuni in
un angolo dello spogliatoio giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali
che tiravano fuori da alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno
osservandoli. Tra di essi c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i
bambini e i giovinetti e si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della
sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte
sedendoci all'angolo opposto - infatti lì c'era tranquillità - e ci mettemmo a
discutere tra noi. Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era
chiaro che desiderava avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava
avvicinarsi da solo; poi dal cortile entrò Menesseno in una pausa dal gioco e,
non appena vide me e Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo,
Liside lo seguì e sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono
e Ippotale, quando vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi
dietro di loro, là dove pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di
infastidirlo, e restò così ad ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli
chiesi: «Figlio di Demofonte, chi di voi è più grande d'età?» «Possiamo
discuterne», rispose. «E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due è
più nobile», dissi io. «Certo» rispose. «E allo stesso modo su chi è più
bello», continuai. Entrambi risero. Io continuavo: «Non domanderò chi di voi
due è più ricco perché siete amici. O no?» «E molto», dissero. «Dunque si dice
che le cose degli amici siano comuni, sicché in questo non sarete differenti,
se dite la verità sulla vostra amicizia», dissi. Assentirono. Dopo questo
scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due fosse più giusto e più
sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare Menesseno, dicendo
che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse celebrando un rito.
Egli pertanto se ne andò e io domandai a Liside: «Liside, ti amano molto tuo
padre e tua madre?» «Certo», rispose. «Non vorrebbero dunque che tu fossi
quanto mai felice?» «E come no?» «E ti sembra che sia felice un uomo che sia
schiavo e non possa fare ciò che desidera?» «Per Zeus, non mi sembra proprio»,
disse. «Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia
felice, è chiaro che si danno premura in ogni modo perché tu sia felice». «Come
no?», disse. «Dunque ti permettono di fare ciò che vuoi senza rimproverarti e
impedirti di fare ciò che desideri?» «No per Zeus, Socrate, mi impediscono
moltissime cose». «Come dici? Pur volendo che tu sia felice ti impediscono di
fare ciò che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi salire su uno dei carri di tuo
padre prendendo le briglie, quando c'è una gara, non te lo permetterebbero,
anzi te lo impedirebbero?», domandai. «Per Zeus, no che non lo
permetterebbero», rispose. «E a chi lo permetterebbero?», chiesi. «C'è un
auriga che riceve da mio padre un compenso», fu la sua risposta. «Come dici?
Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli più che a
te, e per giunta lo pagano per questo?» «E allora?», domandò. «Ma, credo,
affidano a te di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per
batterli, lo permetterebbero». «E come potrebbero mai permetterlo?», disse. «E
allora? Nessuno può batterli?», obiettai. 3 Platone Liside «Può
farlo il mulattiere», disse. «è uno schiavo o un uomo libero?» «Uno schiavo»,
rispose. «A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a
te che sei loro figlio, preferiscono affidare più a lui che a te le loro cose e
gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora
questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano?»
«Come, affidarmelo?» chiese. «Allora qualcuno ti guida?» «Sì , il pedagogo»,
(10) rispose. «è forse uno schiavo?» «E allora? è nostro», disse. «è strano
che, pur essendo libero, tu sia guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni
questo pedagogo ti guida?», chiesi. «Senza dubbio conducendomi dal maestro»,
rispose. «E non è forse vero che anche i maestri ti comandano?» «Certo».
«Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E dunque,
quando arrivi a casa da tua madre ella, perché tu sia felice, ti lascia fare
ciò che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo di
toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione
della lana». Ed egli ridendo disse: «Per Zeus, Socrate, non solo me lo
impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi». «Per Eracle, hai forse
fatto un torto a tuo padre o a tua madre?» «No, per Zeus», rispose. «Ma in
cambio di che ti impediscono in modo così terribile di essere felice e di fare
quello che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di
qualcuno e, in una parola, senza che tu possa fare nulla di ciò che desideri?
Sicché, a quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che
sono così cospicue, ma tutti le governano più di te, né tu governi il tuo corpo
così nobile, ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside,
non comandi su nessuno e non fai nulla di ciò che desideri». «No, perché non ne
ho ancora l'età, Socrate», disse. «Figlio di Democrate, non è questo a
impedirlo, perché c'è almeno una cosa, come credo, che tuo padre e tua madre ti
affidano e non aspettano che tu ne abbia l'età. Infatti quando vogliono che sia
letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo, il primo in casa
cui commissionano questo compito. O no?» «Certo», rispose. «Dunque in questo
caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e così pure capita per
la lettura. E se prendi la lira, come credo, né tuo padre né tua madre ti
impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di farla
vibrare con il plettro. O te lo impediscono?» « No di certo». «Dunque, Liside,
quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti
mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa?» «Credo perché queste cose
le conosco e quelle no», disse. «Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta
l'età per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considererà più
saggio di lui, allora ti affiderà se stesso e quanto possiede», osservai. «Lo
credo», disse. «E sia: allora? Il tuo vicino non seguirà nei tuoi confronti la
stessa regola di tuo padre? Credi che ti affiderà la propria casa da
amministrare quando ti riterrà più saggio di lui nell'amministrazione di una
casa o la dirigerà lui stesso?», continuai. «Credo che l'affiderà a me». «E
allora? Credi che gli Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si
renderanno conto che sei abbastanza saggio?» «Sì ». «Per Zeus, e il Gran Re?
(11) Preferirebbe affidare al proprio figlio maggiore, a cui spetta il regno
dell'Asia, l'incarico di mettere quello che vuole nel brodo, mentre la carne
cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo di essere più bravi di suo
figlio nella preparazione del cibo?» «A noi, è chiaro», rispose. «E a suo
figlio non permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi,
anche se volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe». «E come no?»
«E se suo figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo
ritenesse un medico, o glielo impedirebbe?» «Glielo impedirebbe». «Se invece
ritenesse noi esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e
cospargerli di cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti».
«Dici il vero». «E allora non affiderebbe anche a noi più che a se stesso e al
proprio figlio tutto il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi più sapienti
di loro?» «Necessariamente, Socrate», rispose. «Dunque è così , caro Liside: le
cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano, Elleni e barbari, uomini e donne,
e in esse faremo ciò che vogliamo e nessuno deliberatamente ce lo impedirà, ma
in esse saremo liberi, comanderemo sugli altri, saranno cose nostre e quindi ne
trarremo vantaggi. Invece le cose nelle quali non saremo abili nessuno ce le
affiderà per farne quel che ci pare, ma tutti ce lo impediranno per quanto
possono, non solo gli estranei ma anche nostro padre, nostra madre e coloro che
ci sono ancora più vicini, e in esse dipenderemo dagli altri e ci saranno
estranee, poiché non ne trarremo guadagno alcuno. Sei d'accordo che la
questione stia in questi termini?» «Sono d'accordo». «Dunque allora saremo
amici di qualcuno e qualcuno ci amerà in relazione a ciò in cui non potremo
essere di utilità alcuna?» «No di certo», rispose. «Dunque ora né tuo padre ama
te, né un altro amerà chi è inutile». «Così pare», disse. «Se dunque diventi
sapiente, ragazzo, tutti ti saranno amici e intimi - perché sarai utile e buono
- altrimenti nessun altro, 4 Platone Liside nemmeno tuo padre, tua
madre e i parenti ti saranno amici. Pertanto, Liside, è possibile essere
orgogliosi di sé nelle cose in cui non si sa ancora pensare?» «E come potrebbe
essere?», chiese. «E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora
pensare». «Dici il vero». «Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se
sei ancora privo di pensiero». «Per Zeus, Socrate, non mi sembra», disse. Io,
dopo averlo ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco mancò che non
commettessi un grande errore, poiché mi venne da dire: «Così , Ippotale,
bisogna parlare all'amato, umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu,
insuperbendolo e blandendolo». Però, vedendolo in ansia e turbato da ciò che si
diceva, mi ricotdai che voleva assistere senza che Liside se ne accorgesse,
quindi mi ripresi e mi trattenni dal rivolgergli la parola. A questo punto
ritornò Menesseno e si sedette accanto a Liside, nel posto da cui si era
alzato. Liside allora, in modo molto fanciullesco e amichevole, di nascosto a
Menesseno mi disse a voce bassa: «Socrate, di' anche a Menesseno ciò che dicevi
a me poco fa». E io risposi: «Glielo dirai tu, Liside, giacché hai prestato
molta attenzione». «Certo», disse. «Dunque prova a ricordartelo nel modo
migliore possibile, per riferirgli tutto per filo e per segno. Ma se qualcosa ti
sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi incontri» continuai io. «Lo
farò, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma digli qualcos'altro, perché
io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di tornare a casa», disse.
«Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di venirmi in aiuto, se
Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che è un eristico?», (12) chiesi io.
«Sì , per Zeus, e anche abile: per questo voglio che tu discuta con lui»,
rispose. «Per rendermi ridicolo?», domandai. «No, per Zeus, ma per dargli una
lezione», rispose. «E come? Non è facile, poiché è un uomo abile, allievo di
Ctesippo. Ma c'è anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo», notai. «Non
preoccuparti di nessuno, Socrate, ma su, discuti con lui», disse. «Bisogna
discutere», così dissi. Dunque, mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese:
«Perché conversate soltanto voi due e non ci coinvolgete nella discussione?»
«Ma certo, partecipate pure. Costui infatti non comprende nulla di ciò che
dico, ma afferma che Menesseno crede di saperlo e mi ordina di interrogare
lui», dissi io. «E allora perché non lo interroghi?», chiese Ctesippo. Io
risposi: «Lo interrogherò. Menesseno, rispondi a ciò che ti chiedo. Fin da
ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera un'altra; uno desidera
avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un altro onori. Io invece
non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e
preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo (13) più
belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane - e credo
proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l'oro di
Dario, (14) anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia.
Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici
perché, pur essendo così giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con
facilità questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te.
E dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama
di colui che è amato o chi è amato di colui che ama? O non c'è alcuna
differenza?» «A me pare che non ci sia nessuna differenza», rispose. «Come
dici? Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno
dell'altro?», chiesi io. «Io la penso così », rispose. «E allora? Non è
possibile che chi ama non venga ricambiato da colui che egli ama?» «è
possibile». «E allora? è dunque possibile che chi ama sia odiato? Talvolta, ad
esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro amati: infatti, pur
amando quanto di più non potrebbero, alcuni credono di non essere ricambiati,
altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia vero?» «è del tutto
vero», rispose. «Dunque in questo caso uno ama e l'altro è amato?», chiesi. «Sì
». «Chi dei due quindi è amico dell'altro? Chi ama di colui che è amato, sia
nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi è amato
di colui che ama? O in tal caso nessuno dei due è amico dell'altro, dato che
entrambi non si amano a vicenda?» «Sembra proprio così ». «Dunque ciò che
pensiamo ora è diverso da quanto pensavamo in precedenza: allora pensavamo che
se uno dei due prova amore, entrambi sono amici, ora invece pensiamo che
nessuno dei due sia amico dell'altro, se non sono entrambi a provare amore». «è
probabile», disse. «Dunque per chi ama non c'è amicizia se non è ricambiato».
«No, pare». «Quindi non sono amanti dei cavalli quelli che non sono amati dai
cavalli, né amici delle quaglie, dei cani o del vino o 5 Platone Liside
della ginnastica o della sapienza, se la sapienza non li ama. O ciascuno ama
comunque queste cose che non gli sono amiche e allora il poeta che disse:
"Fortunato chi ha per amici dei fanciulli e cavalli solidunguli e cani da
caccia e un ospite di terra lontana" (15) mentiva?» «Non mi sembra»,
rispose. «Ti sembra che il poeta dica il vero?» «Sì ». «Allora, a quanto pare,
ciò che è amato è amico di ciò che lo ama, Menesseno, sia nel caso in cui ami
sia in quello in cui odi; per esempio, anche tra i bambini piccoli, alcuni non
amano ancora, altri già odiano, quando vengono puniti dalla madre o dal padre;
tuttavia, anche nel caso in cui provino odio, sono quanto di più caro i loro
genitori hanno». «A me pare che sta così », disse. «Dunque ne consegue da
questo ragionamento che amico non è chi ama ma chi è amato». «Sembra». «è
dunque nemico chi è odiato e non chi odia». «Così pare». «Quindi molti sono
amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici degli
amici, se amico è ciò che è amato e non ciò che ama. Eppure, caro amico, è del
tutto privo di logica, anzi credo che sia impossibile essere nemico dell'amico
e amico del nemico». «Mi sembra che tu dica la verità, Socrate», disse. «Dunque
se questo è impossibile, ciò che ama sarebbe amico di ciò che è amato». «Così
sembra», disse. «E quindi ciò che odia sarebbe nemico di ciò che è odiato». «Di
necessità». «Pertanto risulterà necessario arrivare alle stesse conclusioni di
prima, cioè che spesso si è amici di coloro che non lo sono e spesso
addirittura di coloro che sono nemici, quando si ama senza essere ricambiati o
quando si ama chi invece nutre odio, e che spesso si è nemici di coloro che non
lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a sua volta
non odia o addirittura nutre amore». «è probabile», disse. «Dunque come ci
comporteremo se amici non saranno né quelli che amano né quelli che sono amati
né quelli che nel contempo amano e sono amati? Diremo che oltre a questi casi
vi sono ancora persone amiche tra loro?», domandai. «No, per Zeus, Socrate, non
è affatto facile risolvere bene la questione», disse. «Forse allora non abbiamo
condotto la ricerca in modo del tutto corretto?», chiesi. «Non mi pare,
Socrate», disse Liside, e mentre parlava arrossì , infatti mi sembrò che quelle
parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione
prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse.
Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore
del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: «Liside,
mi sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato
correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo
più per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi
pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo
avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza,
dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi
dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri.
Dicono all'incirca così , credo: "il dio conduce sempre il simile verso il
simile" (16) e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi?» «Sì »,
rispose. «E non hai letto gli scritti dei più sapienti che dicono le stesse
cose, cioè che è giocoforza che il simile sia sempre amico del simile? Costoro
sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto». «Dici il vero». «Dunque
dicono bene?», chiesi. «Probabilmente», rispose. Continuai: «Probabilmente a
metà o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra che il
malvagio, quanto più si avvicina e frequenta il malvagio, tanto più ne diventi
nemico, poiché commette ingiustizia, ed è impossibile che chi commette
ingiustizia e chi la subisce siano amici. Non è così ?» «Sì », rispose. «In
questo modo, dunque, la metà di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono
simili tra loro». «Dici il vero». «Ma credo che essi vogliano dire che i buoni
sono simili tra loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di
loro, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili,
e ciò che è dissimile e diverso da se stesso, difficilmente potrebbe essere
simile o amico di altro. O non ti sembra così ?» «Sì », disse. «Quindi, mi
pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il simile è amico del
simile, cioè che solo il buono è amico unicamente del buono, mentre il cattivo
non è mai veramente amico né del buono né del cattivo. Sei d'accordo?». Annuì .
«Dunque ormai sappiamo chi sono gli amici: il ragionamento ci indica che sono i
buoni». «Mi sembra che sia proprio così », disse. Continuai: «Anche a me.
Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per Zeus, vediamo in cosa consiste il mio
sospetto. Il simile, in quanto simile, è amico del simile, e come tale è utile
all'altro che è tale? O meglio: una qualunque cosa simile quale utilità o quale
danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che anche questa non possa
comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non possa subire anche per
opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi reciprocamente, se non
ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra? è possibile?» «Non lo è». «E ciò che
non è amato, come può essere amico?» «In nessun modo». «Allora il simile non è
amico del simile e il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe
amico del buono?» «Forse». 6 Platone Liside «E allora? Il buono in
quanto buono non sarebbe sufficiente in quanto tale a se stesso?» «Sì ». «E chi
è autosufficiente, nella misura della propria autosufficienza, non ha bisogno
di nulla». «E come no?» «E chi non ha bisogno di nulla, a nulla aspira». «Certo
che no». «E colui che non desidera nulla, neppure ama». «No». «E chi non ama
non è un amico». «Pare di no». «Dunque i buoni come saranno fin da principio
amici dei buoni, se quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti
anche quando sono separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non
hanno un'utilità reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente?»
«Nessuno», rispose. «E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a
vicenda». «Dici il vero». «Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque
ci siamo completamente ingannati?» «Come?», chiese. «Ho già sentito dire una
volta da uno, e adesso me ne ricordo, che il simile è assai ostile al simile e
i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo, dicendo: "il vasaio odia
il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante odia il mendicante".(17) E
quanto al resto diceva che giocoforza le cose più simili sono piene di invidia,
rivalità e ostilità reciproca, mentre quelle più dissimili sono le più propense
all'amicizia: infatti il povero è costretto a essere amico del ricco, il debole
del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama
chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora più convincente, dicendo
che il simile è assai lontano dall'essere amico del simile, anzi sarebbe
proprio il contrario, dal momento che l'opposto è amico soprattutto del suo
opposto, poiché ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco
desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il
vuoto il pieno, il pieno il vuoto e così via, secondo il medesimo rapporto. Il
contrario infatti è nutrimento per il contrario, mentre il simile non trae
vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio, dicendo questo sembrava un
tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come sembra che parli?», chiesi.
«Bene, almeno a sentirlo così », rispose Menesseno. «Dunque dobbiamo dire che
il contrario è soprattutto amico di ciò che a lui contrario?» «Certo». «Bene:
ma non è strano, Menesseno? E soddisfatti ci assaliranno subito questi pozzi di
sapienza, gli antilogici, (18) e ci domanderanno se l'odio non sia quanto di più
contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo loro? Non dobbiamo per forza
ammettere che dicono la verità?», chiesi. «Per forza». «E dunque, diranno, ciò
che è nemico è amico di ciò che è amico o amico di ciò che è nemico?» «Né l'una
né l'altra cosa» rispose. «Ciò che è giusto di ciò che è ingiusto, ciò che è
saggio di ciò che è intemperante, ciò che è buono di ciò che è cattivo?» «Non
credo che le cose stiano così ». Io dissi: «E tuttavia se una cosa è amica di
un'altra in base alla contrarietà, è necessario che anche queste cose siano
amiche». «Di necessità». «Dunque né il simile è amico del simile né il
contrario è amico del contrario». «Pare di no». «Esaminiamo ancora questo
punto: a noi non sfugge più il fatto che l'amicizia non è veramente nulla di
tutto questo, ma è ciò che non è né buono né cattivo che diventa così amico del
buono». «Come dici?», chiese. «Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le
vertigini per la difficoltà del ragionamento e forse, secondo l'antico
proverbio, ciò che è amico è il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di
morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via
facilmente, poiché è tale. Dico infatti che il buono è bello. Non credi?» «Sì
». «Dico dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono è ciò che non è
né buono nè cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che ci
siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né
cattivo. E a te?» «Anche a me», disse. «E che né il buono sia amico del buono
né il cattivo del cattivo nè il buono del cattivo, come neppure il ragionamento
precedente consente. Resta allora che, se una cosa è amica di un'altra, ciò che
non è né buono né cattivo sta amico o del buono o di ciò che è tale quale esso
è, cioè né buono né cattivo, perché una cosa non potrebbe essere amica del
cattivo». «Dici il vero». «Né il simile del simile, dicevamo poco fa: non è
così ?» «Sì ». «Dunque ciò che è tale e quale ad esso non sarà amico né del
buono né del cattivo». «Pare di no». «Quindi ne risulta che solo al buono è
amico unicamente ciò che non è né buono né cattivo». «Pare debba essere così ».
«Ragazzi», dissi, «ci guida bene ciò che si è detto ora? Se vogliamo
considerare il corpo sano, esso non ha affatto bisogno della medicina né di un aiuto,
infatti è autosufficiente, sicché nessuno, quando sta bene, è amico del medico,
considerata la sua buona salute. O non è così ?» «Sì , nessuno». «Invece il
malato, credo, lo è a causa della malattia». 7 Platone Liside «E
come no?» «Dunque la malattia è un male, mentre la medicina è cosa utile e
buona». «Sì ». «E il corpo in quanto corpo non è né buono né cattivo». «è così
». «Il corpo è costretto dalla malattia ad accettare e amare la medicina».
«Così la penso». «Quindi ciò che non è né cattivo né buono diviene amico del
buono per la presenza di un male?» «A quanto pare». «Ma è chiaro che ciò
avviene prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perché una
volta diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne
amico, dato che dicevamo che è impossibile che il cattivo sia amico del buono».
«Infatti è impossibile». «Esaminate ciò che dico: dico infatti che alcune cose
sono determinate da ciò che è presente in esse e altre no: per esempio, se
qualcuno volesse spalmare di colore una cosa qualsiasi, ciò che è spalmato è
presente su ciò su cui è spalmato». «Certo». «E allora ciò su cui è spalmato è
tale nel colore quale ciò che vi si trova sopra?» «Non capisco», disse.
«Pensala così », dissi: «se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che
sono biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi?» «Lo
sembrerebbero», rispose. «Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza». «Sì
». «E tuttavia non sarebbero più bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la
bianchezza, non sarebbero né bianchi nè neri». «è vero». «Ma quando, amico mio,
la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora diventerebbero come
ciò che è presente in essi, cioè bianchi per la presenza del bianco». «E come
potrebbe non essere così ?» «Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne è
presente un'altra, quella che la possiede sarà come quella che vi è presente o
lo sarà se quella è presente in un certo modo, altrimenti no?» «è così ,
piuttosto», rispose. «E dunque ciò che non è né cattivo né buono, quando è
presente un male, talvolta non è ancora cattivo, ma lo è quando ormai è
diventato tale». «Certo». «Dunque, quando pur essendo presente un male, esso
non è ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene, quando invece
lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell'amore per il bene.
Infatti non è più né cattivo né buono, ma cattivo, e il cattivo non è amico del
buono, dicevamo». «No, infatti». «Per questo potremmo dire che anche quelli che
sono già sapienti non amano più la sapienza, siano essi dèi o uomini. Né
d'altra parte amano la sapienza coloro che hanno un'ignoranza tale che li rende
cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e ignorante ama la sapienza. Restano
quelli che hanno questo male, l'ignoranza, ma non sono ancora diventati privi
di senno e ignoranti per opera sua e ammettono ancora di non sapere ciò che non
sanno. Perciò sono amanti della sapienza quelli che non sono ancora né buoni né
cattivi, in quanto i cattivi non amano la sapienza né lo fanno i buoni, infatti
nei ragionamenti precedenti ci è apparso che né il contrario è amico del
contrario, né il simile del simile. O non ricordate?» «Certo», risposero. «Ora
dunque, Liside e Menesseno», dissi, «abbiamo trovato fra tutte le cose ciò che
è amico e ciò che non lo è. Infatti diciamo che sia che si tratti dell'anima,
sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ciò che non è né buono
né cattivo è amico del bene per la presenza del male». Entrambi furono
assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse così . Anch'io ero molto
contento, come un cacciatore che è felice di ciò che ha cacciato, ma poi, non
so come, mi venne lo stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre
conclusioni e subito dissi crucciato: «Ahimè, Liside e Menesseno, forse è un
sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza». «Perché?», chiese
Menesseno. «Temo», dissi io, «che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in
ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani». «Come?», chiese. «Procediamo
così nel ragionamento», dissi io: «chi è amico è amico di qualcuno o no?» «Per
forza», rispose. «Dunque lo è senza nessuno scopo e senza nessuna causa o per
qualche scopo e per qualche causa?» «Per qualche scopo e a causa di qualcosa».
«E quella cosa in vista della quale l'amico è amico dell'amico, è amica
anch'essa o non è né amica né nemica?» «Non ti seguo del tutto», rispose. «è
naturale», dissi, «ma forse così mi seguirai e, credo, anche io saprò meglio
ciò che dico. Il malato, dicevamo poco fa, è amico del medico; non è così ?»
«Sì ». «E dunque è amico del medico a causa della malattia e in vista della
salute da riacquistare?» «Sì ». «E la malattia è un male?» «E come potrebbe non
esserlo?» «E la salute», chiedevo, «è un bene o un male o non è nessuna delle
due cose?» «è un bene», rispose. 8 Platone Liside «Dicevamo dunque
che, a quanto sembra, il corpo che non è né buono né cattivo, a causa della
malattia, cioè a causa del male, è amico della medicina, e la medicina è un
bene; e la medicina ottiene l'amicizia in vista della salute, e la salute è un
bene. Non è così ?» «Sì ». «E la salute è una cosa amica o no?» «è una cosa
amica». «E la malattia è una cosa nemica». «Certo». «Dunque ciò che non è né
cattivo né buono, a causa di ciò che è cattivo e nemico, è amico del bene in
vista di ciò che è buono e amico». «Sembra». «Dunque ciò che è amico è amico in
vista di ciò che è amico e a causa di ciò che è nemico». «Così pare». «Bene»,
dissi: «dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo attenzione a
non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ciò che è amico sia diventato
amico di ciò che è amico e che il simile sia amico del simile - cosa, questa,
che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a questo, che non ci
inganni ciò che ora è stato detto. La medicina, diciamo, è una cosa amica in
vista della salute». «Sì ». «Dunque anche la salute è cosa amica?» «Certo». «Se
dunque è amica, lo è in vista di qualcosa». «Sì ». «Di una cosa amica, se sarà
la conseguenza dell'ammissione precedente». «Certo». «Dunque anche ciò sarà cosa
a sua volta amica in vista di una cosa amica?» «Sì ». «Quindi non è necessario
che rinunciamo a procedere così o arriviamo a un principio che non si riferirà
più a un'altra cosa amica, ma giungerà a quella che è la prima cosa amica in
vista della quale diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche?» «è
necessario». «Questo è ciò che voglio dire: badiamo al fatto che non ci
ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di
quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di
quella prima cosa che è veramente amica. Infatti riflettiamo in questo modo:
quando qualcuno tiene qualcosa in grande considerazione, ad esempio in taluni
casi un padre che antepone suo figlio a tutti gli altri beni, egli che è tale da
considerare suo figlio più importante di tutto, non apprezzerà forse molto
anche qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha
bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo
ritenesse utile per salvare il figlio?» «Sì , certo. E allora?», domandò.
«Dunque apprezzerebbe anche il recipiente in cui ci fosse quel vino?» «Certo».
«E allora non tiene forse in maggior considerazione una tazza d'argilla
rispetto a suo figlio o tre cotile (19) di vino più di suo figlio? O le cose
forse stanno così : tutta la sua attenzione non è rivolta a questi oggetti
predisposti in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono
tutti predisposti. Nonché spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar
gento, ma forse la verità non è per niente questa, e ciò che teniamo in grande
considerazione è quello che appare come ciò in vista del quale si predispongono
l'oro e ogni altro oggetto. Diremo dunque così ?» «Certo». «E dunque lo stesso
ragionamento non vale anche per ciò che è amico? Infatti quando definiamo cose
amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra cosa amica, ci riferiamo
a esse evidentemente con una parola sola; ma è probabile che veramente amica
sia proprio quella mèta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie».
«Probabilmente è così », disse. «Dunque ciò che è realmente amico non lo è in
vista di un'altra cosa?» «è vero». «Ci siamo sbarazzati anche di questo
problema: l'amico è amico ma non in vista di una cosa amica. Ma dunque il bene
è ciò che è amico?» «A me pare di sì ». «Quindi allora il bene è amato a causa
del male, e le cose stanno così : se delle tre categorie che enumeravamo poco
fa, cioè il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo ne fossero
conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non si attaccasse a
nulla, né al corpo, né all'anima né alle altre cose che diciamo non essere in
sé né cattive né buone, allora il bene non ci sarebbe per niente utile ma
sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse più danneggiare, non
avremmo bisogno di alcun aiuto e così diventerebbe chiaro che accoglievamo e
amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male
e il male una malattia: ma se non c'è la malattia, non c'è nemmeno bisogno di una
medicina. Dunque il bene è così per sua natura e a causa del male esso è amato
da noi, che siamo a metà tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non
ha alcuna utilità?» «Sembra che sia così », rispose. «Dunque quella mèta per
noi amica, alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle
erano amiche in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti
queste sono chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia
sembra essere per natura tutto il contrario di questo, poiché ci è parso che
ciò che è amico lo sia a causa di ciò che è nemico, ma se ciò che è nemico si
allontana, non ci è più amico, a quanto pare». «Mi pare di no, in base a quello
che ora si è detto», rispose. «Per Zeus!», dissi io. «Se il male sparisce, non
ci sarà né fame né sete né altri mali simili? O la fame ci sarà, se ci sono gli
uomini e gli altri esseri viventi, ma non sarà dannosa? E la sete e gli altri
desideri ci saranno, ma non saranno cattivi, 9 Platone Liside poiché
il male è scomparso? O è ridicolo chiedersi cosa ci sarà o non ci sarà allora?
Infatti chi può saperlo? Ma questo dunque sappiamo, che avere fame può essere
ora dannoso, ora utile, o no?» «Certo». «Dunque avere sete e tutti gli altri
desideri di questo genere talvolta possono essere utili, talvolta dannosi e
talvolta né l'uno né l'altro?» «Certo». «Pertanto se i mali spariscono, perché
devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali?» «Per nessun
motivo». «Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non sono né
buoni nè cattivi». «Sembra». «E dunque possibile che chi desidera e ama non sia
amico di chi desidera e ama?» «Non mi sembra». «Dunque, a quanto pare, ci
saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono». «Sì ». «E se il male
fosse causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere
amica di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che
esistesse ancora ciò di cui questa era la causa». «Dici bene». «Dunque noi
avevamo convenuto che ciò che è amico ama qualcosa e a causa di qualcosa: e
allora non avevamo creduto che ciò che non è né buono né cattivo amasse il bene
a causa del male?» «è vero». «Ora, invece, a quanto pare, sembra essere altra
la causa dell'amare e dell'essere amato». «A quanto pare». «Dunque realmente,
come dicevamo poco fa, il desiderio è causa dell'amicizia, e ciò che desidera è
amico di ciò che è desiderato, quando lo desidera, mentre ciò che prima
dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo elaborato
poema?» «Forse», disse. «Tuttavia», dissi, «ciò che desidera desidera ciò di
cui è privo, o non è così ?» «Sì ». «E quindi ciò che è mancante è amico dì ciò
che manca?» «Così credo». «Ed è privo di ciò che gli è stato eventualmente
sottratto». «E come no?» «Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia e il
desiderio lo sono di ciò che è proprio, come sembra, Menesseno e Liside».
Assentirono. «Se voi dunque siete amici uno dell'altro, per natura siete in un
certo qual modo affini l'uno all'altro». «Esattamente», dissero. «E se pertanto
uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo né
amarlo né essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o
nell'anima o in qualche altra altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o
nell'aspetto», dissi io. «Certo», disse Menesseno, mentre Liside taceva.
«Bene!», dissi: «a noi è parso che sia necessario amare ciò che è affine per
natura». «A quanto pare», disse. «Dunque è necessario per l'amante reale e non
fittizio essere ricambiato dal suo amato». Liside e Menesseno assentirono anche
se a stento, mentre Ippotale diventava dì tutti i colori per il piacere. E io,
volendo esaminare il ragionamento, dissi: «Se ciò che è affine è differente in
qualcosa da ciò che è simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire
dell'amicizia ciò che essa è; se invece simile e affine sono identici, non sarà
facile respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile è
inutile al simile in virtù della somiglianza: ma è assurdo ammettere che l'inutile
sia amico. Dunque», dissi, «dato che siamo come ubriachi per il ragionamento,
volete che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine è diverso dal simile?»
«Certo». «Quindi stabiliremo che il bene è affine a ogni cosa e il male è
estraneo a tutto? O che il male è affine al male, il bene al bene e ciò che non
è né bene né male a ciò che non è né bene né male?». Risposero che secondo loro
ogni cosa è affine a ciò che le è corrispondente. «Dunque, ragazzi», dissi,
«siamo caduti dì nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo
respinto: infatti l'ingiusto sarà amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo
non meno che il buono del buono». «Pare di sì », rispose. «E allora? Diciamo
che il buono e l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il
buono è amico del buono?» «Certo». «Ma anche su questo punto credevamo di poter
essere confutati; o non ricordate?» «Ricordiamo». «Dunque cosa ricaveremo
ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi
prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si
è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né
i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io
infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico,
non so più cosa dire». Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di
coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come
démoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro
fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già
tardi. Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si
curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e
nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e
quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione.
Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno,
siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene
diranno che noi crediamo di 10 Platone Liside essere amici uno
dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di
trovare cos'è l'amico». 11 Platone Liside NOTE: 1) Giardino a nord
di Atene, dove Platone avrebbe poi fondato la sua scuola. 2) Ginnasio presso il
tempio di Apollo, a nord-est di Atene. 3) Sembra assai improbabile che sia il
discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Libro 3,45. 4) Ctesippo, che
non è l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo di Socrate presente alla
morte del maestro, è uno degli interlocutori dell'Eutidemo. 5) Di costui nulla
si sa. 6) Le Pitiche erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni
quattro anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano
in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di
Zeus: prima ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. 7) Ermes
era il dio patrono dei ginnasi e delle palestre. 8) è il protagonista
dell'omonimo dialogo platonico. 9) Gli astragali sono una sorta di dadi. 10) Il
pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli del
padrone. 11) Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca. 12)
L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi
avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva
raggiungere risultati contraddittori tra loro. 13) Entrambi uccelli addestrati
per il combattimento. 14) Dario, il ricchissimo re dei Persiani, aveva regnato
dal 521 al 485 a.C: aveva tentato l'invasione della Grecia, ma venne bloccato e
sconfitto a Maratona nel 490. 15) Si tratta di un frammento di Solone (17
Gentili-Prato). 16) Omero, Odyssea libro 17,218. 17) Esiodo, Opera et dies
25-26. 18. Gli antilogici erano coloro che teorizzavano e praticavano la
possibilità di contraddire ogni argomentazione e ogni ragionamento. 19) La
cotila è un'unità di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro.Marsilio
Ficino. Ficino. Keywords: desire, love, beauty, il bello, amore, cupido,
desiderio, platonismo, walter pater – Plathegel e Ariskant, sensibile,
percezione, “I platonisti” fisiologia dell’amore, convito di Platone, amore
platonico, amore socratico, dottrina dell’amore, I dialoghi dell’amore di Platone:
Fedro, Convito -- --. Refs.: Ficino’s “Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi Speranza, "Grice e Ficino," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692400360/in/photolist-2mRRHVK-2mRkgtK-2mQifgs-2mPF8UJ-2mN8Hgb-2mLLZRD-2mKCQBD-2mKT4G5-2mKFnvf-2mKBsEN-2mKHqkS-2mKth3c-2mKjsJY-2mKiPND-2mGnP2f-BvUfSB-nuoDVU-nsj5ZA-ncSabS-nnvnLQ-nr43e9
Grice e Fidanza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoregio).
Filosofo. Grice: “Italians call Fidanza an ‘anti-dialectician’ but then they
have Aquinas, who is an hypoer-dialectiician!” essential Italian philosopher. Figlio
di Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita.
Inizia i suoi studi al convento di San Francesco "vecchio". Si
recò a Parigi a studiare nella facoltà delle Arti. Ddvenne maestro e ottiene la
licenza d'insegnare. Francesco predica agli uccelli. Intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo.
Attacca quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo. Morì a
causa di un avvelenamento. è considerato uno dei filosofi maggiori, che anche
grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria scuola di filosofia. Combatté
apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali.
Inoltre valorizza alcune tesi del platonismo. La distinzione della filosofia in
‘filosofia naturale’ (res) (fisica, matematica, meccanica), filosofia razionale
(signa, segni) (logica, retorica, grammatica) e filosofia morale (azione) (politica,
monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa ed actiones -- la
cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione
verso l'unione mistica. La parzialità delle arti è non altro che il rifrangersi
della luce con la quale Dio illumina il mondo. Nel paradiso, Adamo sapeva
leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata
anche perdita di questa capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della
contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae,
conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che
altrimenti smarrirebbe se stessa nell'auto-referenzialità. L’intelletto agente
è capace di comprendere la verità inviata dall'intelletto passivo. Nel
“Itinerario della mente" spiega che la filosofia serve a dare aiuto alla
ricerca umana, e può farlo riportando l'uomo all'anima. La "scala"
dei 3 gradi e un “primo grado” esteriore, è necessario prima considerare il
corpo. L’anima ha anche tre diverse direzioni. La prima direzione si riferisce
al corpo, e la sensibilità o animalita. La seconda direzione dell’anima ha per
oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé. La terza direzione ha per oggetto la “mente”
-- che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre
l'uomo a elevarsi a Dio, perché ami Dio con tutto il corpo, l’anima, e la
mente. La sinderesi è la disposizione pratica al bene. Cf. Moore –
‘external world’ – mondo del corpore. Tre modi. Il primo modo e il vestigium (vestigio)
o improntum. Il secondo modo e l’immagine, che si trova solo nell’uomo, l’unica
creatura dotata d'intelletto, in cui risplendono la memoria, l’intelligenza e la
volontà. Il terzo modo e la “similitudine”, che è qualità propria di una buona
persona, una creature giusta, animata di benevolenza e carità. La natura e un
segno sensibile. «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le
pietre.»» (Lc, 19,38-40). The stones will shout. The shout of the stone
MEANS that thou shalt be benevolent. Una creatura, dunque, e una impronta o vestigio, una immagine, una
similitudine (Per Lombardo, ‘imago e similitude’ is redundant). La pietra
"grida" – la pietra e una impronta – la pietra significa – la pietra
segna che p. Altre opere: “Breviloquio; Raccolte su dieci precetti; Raccolte
sui sette doni dello Spirito Santo; Raccolte nei Sei Giorni della Creazione, Commentari
in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo, Il mistero della
Trinità; questione disputata, La perfezione della vita alle sorelle, La
riduzione della arti alla teologia), Il Regno di Dio descritto nelle parabole
evangeliche, La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità, Le sei ali
dei Serafini, La triplice via, Itinerario della mente verso Dio, La leggenda
maggiore di San Francesco, La leggenda minore di San Francesco, L'Albero della
vita, L'Ufficio della passione del Signore, Questioni sopra la perfezione
evangelica, Soliloquio, Complesso di teologia, La vite mistica. Eletto Ramacci,
S. Bonaventura e il Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, Oggi del
convento restano solo i ruderi. Grado
Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei Minori, in Francesco
d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, G. Bosco,
Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone” (Torino,
Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione di Lorenzo Gastaldi, arcivescovo
di Torino, Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo,Tip.Camera dei Deputati,
Roma, Pinzi parla dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in
occasione del Conclave e dell'amicizia con Gregorio X. Testi: Bonaventura da Bagnorea presunto, Meditationes
vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, Legenda maior, Milano, Ulrich
Scinzenzeler, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud,
Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum, Lyon,
Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea,
Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre;
Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe;
Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre;
Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, Lyon,
Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Commentaria in libros
sententiarum, Lyon, Borde, Philippe;
Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, 1668. Studi Bettoni E., S. Vita e Pensiero,
Milano, Bougerol J.G., Introduzione a S. Bonaventura, trad. it. di A. Calufetti,
L.I.E.F., Vicenza, Corvino F., Bonaventura da Bagnoregio francescano e
filosofia, Città Nuova, Roma, Cuttini E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia,
etica della “mens” in Fidanza. Rubbettino, Soveria Mannelli, Di Maio A.,
Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico
di Bonaventura da Bagnoregio, Aracne, Roma, Barbara Faes, da Bagnoregio, Biblioteca
Francescana, Milano, Mathieu V., La Trinità creatrice secondo san Bonaventura,
Biblioteca francescana, Milano 1994. Moretti Costanzi T., San Bonaventura,
Armando, Roma, Ramacci Eletto, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Associazione
Organum, Bagnoregio, Todisco O., Le creature e le parole in sant'Agostino e san
Bonaventura, Anicia, Roma, Vanni Rovighi S., Vita e Pensiero, Milano); Raoul
Manselli, Dizionario biografico degli
italiani, 11, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Emiliano Ramacci, Un Inno, Associazione Organum,
Bagnoregio, Emiliano Ramacci. TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Bonaventura da Bagnoregio, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bonaventura da
Bagnoregio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. (DE) Bonaventura da Bagnoregio, su ALCUIN,
Ratisbona. Opere. Audiolibri di Bonaventura da Bagnoregio, su LibriVox. Bonaventura
da Bagnoregio, su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Biografia di San
Francesco d'Assisi, su assisiofm. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio
Itinerario della mente in Dio, su lamelagrana.net. Itinerarium mentis in Deum, Peltiero Edente,
su documentacatholicaomnia.eu. San
Bonaventura online, su dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione
dei padri francescani di QuaracchiSalvador Miranda. Wikipedia Ricerca
Trinità (cristianesimo) dottrina centrale delle più diffuse Chiese cristiane
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Santissima
Trinità" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Santissima
Trinità (disambigua). Santissima Trinità Masaccio 003.jpg La Trinità di
Masaccio Dio, uno e trino AttributiDio Padre, Dio
Figlio, Dio Spirito Santo La Trinità è la dottrina fondamentale e più
importante[Nota 1] delle chiese cristiane, quali la cattolica[Nota 2] e quelle
ortodosse, oltre che delle Chiese riformate storiche come quella luterana,
quella calvinista e quella anglicana. Tale dottrina non viene comunque
presentata in modo univoco.[1] Icona rappresentante i tre angeli
ospitati da Abramo a Mambre, allegoria della Trinità. Dipinta dal
monaco-pittore russo Andrej Rublëv (1360-1427) e conservata a Mosca, Galleria
Tret'jakov. Schema della relazione trinitaria fra Padre, Figlio e Spirito
Santo secondo le chiese cristiane di origine latina come la Chiesa cattolica.
DescrizioneModifica La dottrina si è precisata nell'ambito del Cristianesimo
antico: prima nel credo del primo concilio di Nicea(325), poi nel Simbolo
niceno-costantinopolitano(381), dove venne affermato come primo articolo di
fede l'unicità di Dio e, come secondo, la divinità di Gesù Cristo figlio di Dio
e Signore,[Nota 3] a seguito, tra le altre, della controversia suscitata dal
teologo Ario, che negava quest'ultima. Il dogma della "trinità"
è in relazione alla natura divina: esso afferma che Dio è uno solo, unica e
assolutamente semplice è la sua "sostanza", ma comune a tre
"persone" (o "ipòstasi") della stessa numerica sostanza
(consustanziali) e distinte. Ciò è stato anche interpretato come se esistessero
tre divinità (politeismo) o come se le tre "persone" fossero solo tre
aspetti di una medesima divinità (per il modalismo semplici energie o modi di
apparire della Divinità). Le tre "persone" (o, secondo il linguaggiomutuato
dalla tradizione greca, "ipòstasi") vengono d'altra parte
tradizionalmente intese come distinte ma della stessa sostanza di Dio:
Dio Padre, creatore del cielo e della terra, Padre trascendente e celeste del
mondo. il Figlio: generato dal Padre prima di tutti i secoli, fatto uomo come
Gesù Cristo nel seno della Vergine Maria, il Redentore del mondo. lo Spirito
Santo che il Padre e il Figlio mandano ai discepoli di Gesù per far loro
comprendere e testimoniare le verità rivelate. Nella dottrina trinitaria il Dio
di Israele Yahwehracchiude tutta la Trinità ed è quindi Padre Figlio e Spirito
Santo. Al mistero della SS. Trinità[Nota 4] è dedicata, nella
Chiesa cattolica, la Solennità della Santissima Trinità, che ricorre ogni anno,
la domenica successiva alla Pentecoste. La dottrina trinitaria è stata
accolta dalla maggior parte dei Protestanti, particolarmente dal
protestantesimo storico (di cui fanno parte fra gli altri il luteranesimo e il
calvinismo). Origine del termine e della nozioneModifica Il termine
"trinità" deriva dal latino trīnĭtas-ātis (a sua volta da trīnus = di
tre, aggettivo distributivo di trēs, tre) e fu utilizzato per la prima volta da
Tertulliano nel II secolo, ad esempio nel suo De pudicitia (XXI). Occorre
ricordare che prima di lui già Teofilo di Antiochia (II secolo), apologeta
cristiano di lingua greca, utilizzò nel suo Apologia ad Autolycum (II,15) il
termine analogo greco di τριας (triás). Se il termine "trinità"
non è certamente antecedente al II secolo, la nozione che rappresenta
sembrerebbe invece apparire già a partire dal Vangelo di Matteo (I sec.):
(GRC) «πορευθέντες οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς
τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος[Nota 5]»
(IT) «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Vangelo di Matteo
XXVIII, 19) A tal proposito lo studioso e teologo cattolico francese Joseph
Doré[2] nota come l'espressione al singolare eis to onoma (εἰς τὸ ὄνομα) ovvero
"nel nome" unitamente alle due ricorrenze della congiunzione kai(καὶ),
"e", quindi nel significato di "del Padre 'e' del Figlio 'e'
dello Spirito Santo" evidenzierebbe la presenza di un credo già
trinitario. Allo stesso modo e in tale senso possono essere letti alcuni
altri passi dei Vangeli canonici, ad esempio: (GRC) «βαπτισθεὶς δὲ ὁ
Ἰησοῦς εὐθὺς ἀνέβη ἀπὸ τοῦ ὕδατος καὶ ἰδοὺ ἠνεῴχθησαν οὶ οὐρανοί, καὶ εἶδεν πνεῦμα
θεοῦ καταβαῖνον ὡσεὶ περιστερὰν ἐρχόμενον ἐπ' αὐτόν[Nota 6]» (IT)
«Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli
vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.»
(Vangelo di Matteo III, 16) (GRC) «καὶ ἀποκριθεὶς ὁ ἄγγελος εἶπεν αὐτῇ,
πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σέ, καὶ δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει σοι· διὸ καὶ τὸ
γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ[Nota 7]» (IT) «Le rispose
l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra
la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato
Figlio di Dio» (Vangelo di Luca I, 35) e in particolar modo in alcuni
passi del "discorso dopo la cena" riportato nel Vangelo di
Giovanni: (GRC) «πιστεύετέ μοι ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρὶ καὶ ὁ πατὴρ ἐν ἐμοί·
εἰ δὲ μή διὰ τὰ ἔργα αὐτὰ πιστεύετε μοι[Nota 8]» (IT) «Credetemi:
io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere
stesse.» (Vangelo di Giovanni XIV, 11) (GRC) «καγὼ ἐρωτήσω τὸν
πατέρα καὶ ἄλλον παράκλητον δώσει ὑμῖν, ἵνα ᾖ μεθ' ὑμῶν εἰς τὸν αἰῶνα τὸ πνεῦμα
τῆς ἀληθείας, ὃ ὁ κόσμος οὐ δύναται λαβεῖν, ὅτι οὐ θεωρεῖ αὐτὸ οὐδὲ γινώσκει· ὑμεῖς
γινώσκετε αὐτό, ὅτι παρ' ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔστιν[Nota 9]» (IT)
«Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con
voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non
lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e
sarà in voi.» (Vangelo di Giovanni XIV, 16-7) (GRC) «ὁ δὲ
παράκλητος τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον, ὃ πέμψει ὁ πατὴρ ἐν τῷ ὀνόματι μου ἐκεῖνος ὑμᾶς
διδάξει πάντα καὶ ὑπομνήσει ὑμᾶς πάντα ἃ εἶπον ὑμῖν ἐγώ.[Nota 10]»
(IT) «Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio
nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho
detto.» (Vangelo di Giovanni XIV, 26) (GRC) «εἰ οὐ ποιῶ τὰ ἔργα τοῦ
πατρός μου, μὴ πιστεύετέ μοι· εἰ δὲ ποιῶ, κἂν ἐμοὶ μὴ πιστεύητε τοῖς ἔργοις
πιστεύετε, ἵνα γνῶτε καὶ γινώσκητε ὅτι ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί .[Nota
11]» (IT) «Se non compio le opere del Padre mio non credetemi, ma
se le compio anche se non volete credere a me credete almeno alle opere, perché
sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.» (Vangelo di
Giovanni X, 37-38) Joseph Doré[2] nota anche qui che se il termine greco πνεῦμα
(pneúma, "spirito", "soffio") è certamente neutro esso viene
indicato con il pronome relativo al maschile come ad evidenziarne la
personificazione. Lo storico delle religioni italiano Pier Cesare
Borispiega al riguardo: «La teologia degli scritti di Giovanni è diversa
negli strumenti concettuali: nel Prologo del Vangelo, per comprendere la natura
e il ruolo della funzione messianica di Gesù, diventa fondamentale la categoria
del Lógos, la parola creatrice che "è con Dio, ed è Dio" (stessa idea
di preesistenza in Colossesi I,15 ed Ebrei I,6). Un ruolo importante in questi
sviluppi dottrinali dovette avere, più che la filosofia ellenistica, la
speculazione giudaica del tempo, che attribuiva un grande ruolo a potenze
intermedie tra Dio e l'uomo, prime fra tutte il Lógos e la Sapienza divina,
tendenzialmente ipostatizzate. Il risultato complessivo è l'affermazione della
divinità di Gesù, e dello Spirito, uniti nell'invito finale di Matteo, 28,18, a
battezzare "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo".
Una formula trinitaria che presiede all'evoluzione che porterà alle
formulazioni trinitarie e cristologiche dei concili del IV e V secolo. Al
termine il monoteismo biblico riceve una enunciazione completamente nuova: la
sostanza, o natura unica divina, contiene tre ipostasi o tre persone; la
seconda ipostasi unisce in sé nell'incarnazione due nature, quella divina e
quella umana.» (Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in
Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993,
pag.205) Allo stesso modo vi sono dei richiami alle tre figure divine nelle
lettere attribuite agli apostoli: (GRC) «Ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ
[Χριστοῦ] καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν[Nota
12]» (IT) «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la
comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (Seconda lettera ai
Corinzi XIII, 14) (GRC) «κατὰ πρόγνωσιν θεοῦ πατρὸς ἐν ἁγιασμῷ πνεύματος
εἰς ὑπακοὴν καὶ ῥαντισμὸν αἵματος Ἰησοῦ Χριστοῦ, χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη
πληθυνθείη.[Nota 13]» (IT) «Secondo la prescienza di Dio Padre,
mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per
essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza.» (Prima
lettera di Pietro I, 2) Uno studio approfondito sulla presenza della Trinità
nel Nuovo Testamento giunge a questa conclusione: É ora possibile
rispondere alla domanda, "La dottrina delle Trinità è presente nella
Bibbia?" La risposta è che non c'è un'affermazione formale della dottrina,
ma una risposta al problema della Trinità. Almeno tre autori neotestamentari,
Paolo, Giovanni e l'autore della Lettera agli Ebrei sono consapevoli
dell'esistenza di un problema. Paolo e l'autore della Lettera agli Ebrei si
concentrano sulla relazione tra Cristo e Dio, ma Giovanni era conscio del
problema della mutua relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo.[3]
Nonostante questo anche la teologa cattolica statunitense Catherine Mowry
Lacugna ricorda che sia gli esegeti sia i teologi concordano sul fatto che il
Nuovo Testamento non contenga un'esplicita dottrina della Trinità[Nota 14]. Del
tutto assente è invece, sempre per gli esegeti e per i teologi, qualsivoglia
riferimento alla dottrina della Trinità nell'Antico testamento[Nota 15].
Nel II secolo, san Melitone di Sardi affermò che Dio Padre aveva un corpo umano
e divino come quello del Figlio Dio, e un'anima distinta da quella del Figlio
Dio, unita al proprio corpo. Di fatto, si affermava la consustanzialità del
Padre e del Figlio nella duplice natura umana e divina del corpo e dell'anima.
In tale dottrina, la distinzione fra anima e spirito descritta in 5.23[4]
portava a identificare lo Spirito Santo Dio con l'unico spirito comune alle due
anime e ai due corpi di Dio Padre e di Dio Figlio, in modo tale da unire due
persone distinte in anima e corpo in un solo Dio tripersonale la cui sostanza è
Spirito. Lo studioso cattolico statunitense William J. Hill nota
comunque come questo "trinitarismo elementare" sia presente anche
nell'opera di Clemente di Roma (I secolo) il quale nella Prima lettera di Clemente
(cfr. 58 e 46) si richiama espressamente a Dio Padre, al Figlio, allo Spirito,
menzionando tutti e tre insieme. Allo stesso modo Ignazio di Antiochia (inizi
II secolo) nella sua Lettera agli Efesini (cfr. 9) chiama il cristiano a
"incorporarsi" nel tempio divino come per diventare uno con Cristo,
nello Spirito fino alla filiazione del Padre. Ciononostante, anche per lo
studioso statunitense, la soluzione trinitaria, per come successivamente verrà
proposta, era ancora ben lontana[Nota 16]. Sviluppo della nozione nei
teologi e nei confronti conciliari del IV e V secoloModifica Ulteriori
informazioni Questa voce o sezione sull'argomento Cristianesimo non cita le
fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Come è possibile
affermare che Dio è "uno e trino"? Secondo la fede cristiana la
natura divina è al di là della conoscenza scientifica, ed è incomprensibile e
non conoscibile se non fosse per quanto è dato sapere attraverso la rivelazione
divina. Quindi la dottrina trinitaria non è una conoscenza, come quella
dell'esistenza di Dio, a cui si potrebbe pervenire attraverso la ragione umana
o la speculazione filosofica, sebbene anch'essa non sia dimostrabile. Tuttavia
molti teologi e filosofi cristiani (cfr. Agostino d'Ippona) hanno scritto
innumerevoli trattati per spiegare la paradossale identità unica e trina di
Dio, che è un mistero della fede, un dogma (cioè una verità irrinunciabile
anche se non compiutamente dimostrabile) in cui ogni cristiano-cattolico è
tenuto a credere (dal Concilio di Nicea del 325 E.V. in poi) se vuol essere
tale. Unicità, Unità e Trinità di DioModifica Completa
rappresentazione Teo-cristologica Dio è uno solo, e la divinità unica. La
Bibbia ebraicapone questo articolo di fede sopra tutti gli altri, e lo circonda
di numerosi ammonimenti a non abbandonare questo fondamento della fede,
mantenendo la fedeltà al patto che Dio ha fatto con gli ebrei: "Ascolta
Israele, il Signore nostro Dio è uno solo", "tu non avrai altri dei
di fronte a me" e anche "Questo ha detto il Signore re d'Israele e
suo redentore, il Signore delle schiere: io sono il primo e l'ultimo, e oltre a
me non c'è alcun Dio". Ogni formula di fede che non insista sull'unicità
di Dio, o che associ nell'adorazione un altro essere diverso da Dio, oppure che
ritenga che Dio possa venire all'esistenza nel tempo anziché essere Dio
dall'eternità, è contraria alla conoscenza di Dio, secondo la comprensione
trinitaria dell'Antico Testamento. Lo stesso tipo di comprensione è presente
nel Nuovo Testamento: Non c'è altro Dio se non uno. Gli "altri dei"
di cui parla San Paolo non sono affatto dei, ma sostituti di Dio, cioè esseri
mitologici o demoni. Secondo la visione trinitaria, è scorretto dire che
il Padre o il Figlio, in quanto alla divinità, siano due esseri. L'affermazione
centrale e cruciale della fede cristiano-cattolica è che esiste un solo
salvatore, Dio, e la salvezza è manifestata in Gesù Cristo, attraverso lo
Spirito Santo. Lo stesso concetto può essere espresso in quest'altra
forma: Soltanto Dio può salvare Gesù Cristo salva Gesù Cristo è Dio In
parole semplici è possibile esprimere il mistero della Trinità nell'Unità
dicendo che il solo Dio si conosce (nel suo Figlio, Verbo, Pensiero, Sapienza)
e si ama in esso (Spirito Santo, Amore). Il Padre è trascendente e nessun
vivente poté vederlo, attraverso il corpo di uomo di Gesù poté rivelarsi ed
essere visto e creduto dagli uomini. La Trinità e AgostinoModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pensiero di
Agostino d'Ippona § Il problema trinitario e De Trinitate (Agostino
d'Ippona). La Coronazione della Vergine, di Diego Velázquez (1645), Museo
del Prado A tale proposito è interessante leggere quanto scritto da
sant'Agostino nel De Trinitate e in altre opere per tentare una chiarificazione
del concetto di unica Sostanza e tre Persone. Nell'uomo, ragiona Agostino, si
può distinguere la sua realtà corporale (esse), la sua intelligenza (nosse) e
la sua volontà (velle). Se Dio ha creato l'uomo a propria immagine e
somiglianza è allora necessario che questi tre aspetti appartengano anche alla
Divinità, anche se in modo perfetto e divino, non imperfetto e umano: così Dio
è Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito Santo). Ecco alcune
citazioni bibliche al riguardo: « Dio disse a Mosè: «Io sono colui
che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi».
» ( Es 3, 14, su laparola.net.)« Gli disse Gesù: "Io
sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di
me". » ( Gv 14, 6, su laparola.net.) « Dio è amore;
chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. » ( 1Gv 4,
16, su laparola.net.)Creazione dell'UniversoModifica La creazione dell'universo
viene attribuita alla Trinità tutta intera; Dio Padre crea l'universo per mezzo
del Figlio ("il Verbo","la Parola") e "donando" o
"riempiendolo" di Spirito Santo. Il credo recita infatti:
«Per mezzo di lui [il Figlio] tutte le cose sono state create»
(Credo) La fonte di questa interpretazione è in Genesi, al primo capitolo, Dio
crea il mondo attraverso la Parola, espresso con la duplice formula: "Dio
disse..." e "Dio chiamò ...". Questo è appunto il "Verbo di
Dio", ossia nella visione cristiana proprio la seconda persona della
Trinità, ovvero il Cristo. Valga, a titolo di esempio il racconto della
creazione: Primo giorno: « Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu
» ( Genesi 1, 3, su laparola.net.) « e chiamò la luce giorno e le
tenebre notte » ( Genesi 1, 5, su laparola.net.)Secondo
giorno: « Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque... »
( Genesi 1, 6, su laparola.net.)« Dio chiamò il firmamento cielo. »
(Genesi 1,6, su laparola.net.) e così prosegue nei
"giorni" successivi con lo stesso schema, fino alla creazione
dell'Uomo: « E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza, » ( Genesi 1, 26, su laparola.net.)Anche lo Spirito
Santo, che è la relazione d'amore fra il Dio Padre e il Figlio, terza persona
della Trinità, partecipa alla creazione: « La terra era informe e vuota,
le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito Santo aleggiava sulla
superficie delle acque » ( Genesi 1, 2, su laparola.net.)Natura e
ruolo di GesùModifica La Santísima Trinidad, di Francesco Cairo(1630),
Museo del Prado In ambito teologico trinitario viene fatta una distinzione fra
la Trinità da un punto di vista "ontologico" (ciò che Dio è) e da un
punto di vista "ergonomico" (ciò che Dio fa). Secondo il primo punto
di vista le persone della Trinità sono uguali, mentre non lo sono dall'altro
punto di vista, cioè hanno ruoli e funzioni differenti. L'affermazione
"figlio di", "Padre di" e anche "spirito di"
implica una dipendenza, cioè una subordinazione delle persone. Il trinitarismo
ortodosso rifiuta il "subordinazionismo ontologico", esso afferma che
il Padre, essendo la fonte di tutto, ha una relazione monarchica con il Figlio
e lo Spirito. Ireneo di Lione, il più importante teologo del II secolo, scrive:
"Il Padre è Dio, e il Figlio è Dio, poiché tutto ciò che è nato da Dio è
Dio." Simili affermazioni sono presenti in altri scrittori
pre-niceni,[5] cioè prima dello scoppio della controversia ariana:
«vediamo ciò che avviene nel caso del fuoco, che non è diminuito se serve per
accenderne un altro, ma rimane invariato; e ugualmente ciò che è stato acceso
esiste per se stesso, senza inferiorità rispetto a ciò che è servito per
comunicare il fuoco. La Parola di Sapienza è in sé lo stesso Dio generato dal
Padre di tutto.» (Giustino) Immagine ripresa anche da scrittori
successivi: «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando
affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno;
perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio
perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così
da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché
Egli è nato da Dio.» (Ilario di Poitiers, De Trinitate) Se Gesù Cristo
nel vangelo di Giovanni viene chiamato l'"unigenito" Figlio di Dio,
evidenziando con questa affermazione il suo essere ontologicamente in Dio,
secondo la dottrina ortodossa Gesù è anche diventato una creatura con
l'incarnazione, svolgendo un ruolo "ministeriale", e in un certo
senso subordinato in relazione a Dio, nei confronti dell'umanità. Viene
pertanto chiamato "primogenito" in altri passi, in riferimento alla
creazione e redenzione, ad esempio è detto "immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione... egli è principio, primogenito dei
risuscitati". La distinzione è ripresa nell'affermazione che Gesù fa
quando dice che dovrà "ascendere al Padre mio e Padre vostro, Iddio mio e
Iddio vostro", distinguendo così fra l'essere figlio di Dio in senso
proprio (caratteristico di Gesù) e in senso figurato (caratteristico degli
uomini). Atanasio di Alessandria sviluppa questa distinzione commentando
il passo evangelico in cui Gesù dichiara di non conoscere il giorno e l'ora
della fine del mondo: «Ancora un altro passo che è detto bene, viene
interpretato male dagli ariani: Voglio dire che "Quanto a quel giorno e a
quell'ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli, neppure il figlio." Ma
essi ritengono che avendo detto "neppure il figlio", egli, in quanto
ignorante, abbia rivelato di essere creatura. Ma la cosa non sta così, non sia
mai! Come infatti dicendo: "Mi ha creato", lo ha detto in riferimento
all'umanità, così, anche, dicendo: "neppure il Figlio", si è riferito
alla sua umanità. ... Poiché infatti è diventato uomo, ed è proprio dell'uomo
ignorare, come l'aver fame e il resto (infatti l'uomo non sa se non ascolta e
apprende) egli, in quanto uomo, ha dato a vedere anche l'ignoranza propria
degli uomini per questo motivo: in primo luogo per dimostrare di avere
veramente un corpo umano, poi anche perché, avendo nel corpo l'ignoranza
propria dell'uomo, dopo aver mondato e purificato tutta l'umanità, la
presentasse al Padre perfetta e santa. ..... quando dice: "Io e il Padre
siamo una cosa sola e Chi ha visto me ha visto il Padre e Io nel Padre e il
Padre in me", dimostra la sua eternità e la consustanzialità col Padre.
.... Nel vangelo di Giovanni i discepoli dicono al Signore: Ora sappiamo che tu
sai tutto...» (Atanasio, Seconda Lettera a Serapione, trad. M. Simonetti)
Origine e sviluppo della dottrinaModifica La nozione dell'unicità di Dio e di
Gesù Cristo come "Dio da Dio" e consunstanziale al Padre è stata
affermata come articolo di fede al primo concilio di Nicea (325) e sviluppata
nei successivi concili ecumenici. Il termine "trinità" non è
utilizzato nel credo niceno, ma il termine è precedente e rintracciabile già in
scrittori ecclesiastici come Tertulliano. Nel Nuovo Testamento il termine
non compare, tuttavia la cristologia di Giovanni, che presenta Cristo come
Logos di Dio, (cioè verbo e ragione), assieme ad alcune affermazioni di Paolo
di Tarso, sono stati considerate dai Cristiani come le basi per lo sviluppo
della dottrina trinitaria. Per la Chiesa in più punti del Nuovo Testamento si
ravviserebbe il carattere trinitario di Dio, ad esempio quando Gesù dice:
"Il Padre ed io siamo una cosa sola" od ancora nel Prologo del
Vangelo di Giovanni: " In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio." In un saggio sulla divinità di Gesù nel Nuovo
Testamento il biblista americano Raymond E. Brownipotizza che Gesù sia chiamato
Dio nel Nuovo Testamento, ma lo sviluppo sarebbe stato graduale e non sarebbe
emerso fino a un'epoca tarda nella tradizione neotestamentaria: «...
nella fase più antica del cristianesimo prevale l'eredità dell'Antico
Testamento nell'utilizzo del termine Dio, per cui Dio era un titolo troppo
ristretto per essere applicato a Gesù. Esso si riferisce strettamente al Padre
di Gesù, al Dio da lui pregato. Gradualmente, (negli anni 50 e 60 d.C. ?), con
lo sviluppo del pensiero cristiano Dio venne compreso in un'accezione più
ampia. Si vide che Dio rivelò così tanto di sé stesso in Gesù al punto che Dio
includeva sia Padre che il Figlio."» (Does the New Testament call
Jesus God?) Il primo teologo cristiano a discutere sistematicamente la dottrina
della Trinità fu forse Prassea (II secolo),[6] la cui opera ci è nota solo
attraverso la confutazione che ne fece Tertulliano nel suo Adversus Praxean
(dopo il 213), opera in cui è esposta per la prima volta la formula del
rapporto tra una sola sostanza e tre Persone.[7] Lo sviluppo completo
della dottrina si ebbe in seguito, anche in reazione alle dottrine di Ario che
introdusse le sue interpretazioni subordinazioniste di Gesù come essere
semidivino (vedi arianesimo). Molti termini che si impiegano per
esplicitare questo insegnamento sono stati mutuati dalla filosofia greca e
ulteriormente approfonditi per evitare di esprimere concetti erronei. Tra
questi si possono citare: sostanza, ipostasi e relazione. La Trinità viene così
definita in teologia come tre ipostasi individuali, cioè tre Persone o
sussistenze, che hanno e vivono in un'unica essenza o sostanza comune.
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipostasi § Nel
cristianesimo. La controversia arianaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Arianesimo e Ario. La causa che portò alla convocazione del primo concilio di
Nicea fu la disputa ariana, che giunse a una svolta all'inizio del IV secolo
d.C. I protagonisti furono tre teologi-filosofi provenienti da Alessandria
d'Egitto. Da una parte c'era Ario, e dall'altra gli ortodossiAlessandro e
Atanasio. Ario affermava che il Figlio non fosse della stessa essenza, o
sostanza, del Padre e che lo Spirito Santo fosse una persona ma inferiore a
entrambi. Parlava di una "triade" o "Trinità", pur
considerandola formata di persone ineguali, delle quali solo il Padre non era
stato creato. D'altra parte Alessandro e Atanasio sostenevano che le tre
persone della Divinità fossero della stessa sostanza e che pertanto non fossero
tre Dei, ma uno solo, sebbene il Padre fosse il "primo" e la causa
delle altre due. Ario, "volendo difendere il monoteismo più
rigoroso, secondo cui Dio è trascendente"[8] accusò Atanasio di
reintrodurre il politeismo. In effetti l'arianesimo viene considerato da molti
studiosi moderni[senza fonte] come il ramo più rigoroso del subordinazionismo
cristologico dei primi padri della Chiesa (Giustino, Ireneo di Lione ecc.) e
scrittori cristiani (Origene, Tertulliano ecc.) i quali ancora non si
interrogavano sul rapporto fra le persone della divinità. Atanasio accusò Ario
di reintrodurre il politeismo, dal momento che distingueva la natura divina
delle tre persone. Accanto a Dio, Ario poneva infatti una creatura
"che può essere chiamata dio in modo improprio"[9], considerato il
Figlio di Dio, ma ritenuto da lui semplicemente "la prima creatura di cui
il Padre si era servito per compiere la creazione", incarnatosi in Gesù,
simile ma non uguale a Dio, che avrebbe avuto esistenza dal nulla, affermando
che "generare" e "creare" fossero sinonimi. Gli ortodossi
invece ribadivano l'assoluta unità di Dio, e se il Logos era divino, (come era
affermato nel prologo di Giovanni "il Logos era Dio"), ciò non
comportava una suddivisione o una moltiplicazione di dei, ma Dio era sempre uno
solo. In questo senso il termine "generazione" indicava l'unità della
natura e non andava inteso in senso temporale e umano, con un "prima"
e un "dopo", ma il Figlio era eternamente generato, cioè era sempre
stato insito in Dio. Al tempo opportuno il Verbo si sarebbe incarnato in Gesù,
in un processo di abbassamento e annichilimento, e l'unione della natura divina
e di quella umana nella persona di Gesù diede origine ad un'altra serie di
controversie nei secoli successivi. La controversia ariana non terminò a
Nicea. L'arianesimo ebbe grande fortuna nell'Impero romano e in certi momenti
presso la corte imperiale. Molte tribù germaniche che invasero l'impero romano
professavano un cristianesimo ariano e lo diffusero in gran parte dell'Europa e
dell'Africa settentrionale, dove continuò a prosperare fino a gran parte del VI
secolo, e in alcune zone anche più a lungo. La Trinità nei primi scritti
cristianiModifica Santissima Trinità, di Hendrick van Balen (anni 20 del
XVII secolo), Sint-Jacobskerk, Anversa I primi scrittori cristiani così si
esprimono al riguardo:[10] «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità
divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio,
uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non
è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza
nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da
Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.» (Ilario di Poitiers De Trinitate)
«Quando affermo che il Figlio è distinto dal padre, non mi riferisco a due dèi,
ma intendo, per così dire, luce da luce, la corrente dalla fonte, ed un raggio
dal sole» (Ippolito di Roma) «Il carattere distintivo della fede in
Cristo è questo: il figlio di Dio, ch'è Logos Dio in principio infatti era il
Logos, e il Logos era Dio - che è sapienza e potenza del Padre Cristo infatti è
potenza di Dio e sapienza di Dio - alla fine dei tempi si è fatto uomo per la
nostra salvezza. Infatti Giovanni, dopo aver detto: In principio era il Logos,
poco dopo ha aggiunto e il logos si fece carne, che è come dire: diventò uomo.
E il Signore dice di sé: perché cercate di uccidere me, un uomo che ha detto la
verità? e Paolo, che aveva appreso da lui, scrive: Un solo Dio, un solo
mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» (Atanasio di
Alessandria, Seconda lettera a Serapione) Teologia delle Chiese orientali e
della Chiesa latinaModifica L'interpretazione trinitaria nella Chiesa latina si
differenzia da quella greca. Se entrambe le Chiese, infatti, riconoscono
l'unità delle tre Persone divine nell'unica natura indivisa, per cui ciascuna
di esse è pienamente Dio secondo gli attributi (eternità, onnipotenza,
onniscienza ecc.), ma ciascuna è a sua volta distinta e inconfondibile rispetto
alle altre due, è altresì vero che nasce il problema di comprendere le
relazioni che intercorrono fra di esse. Con il simbolo
niceno-costantinopolitano, approvato nel primo concilio di Costantinopoli (381
d.C.), si afferma che il Figlio è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è
spirato dal Padre. Il Padre è dunque l'unica origine della Trinità. Col
Concilio di Toledo, però, e con i suoi successivi sviluppi, la Chiesa latina,
usando una terminologia diversa, stabiliva unilateralmente che lo Spirito Santo
procede anche dal Figlio (la questione del cosiddetto Filioque), cioè che è la
terza persona. Gli ortodossi rifiutano tuttora tale sviluppo, temendo che essa
renda il Figlio concausa dello Spirito Santo; per questo preferiscono parlare,
secondo la teologia greca, di "spirazione dal Padre attraverso il
Figlio" (proposta da grandi teologi come san Gregorio di Nissa, san
Massimo il Confessore e san Giovanni Damasceno), pur non introducendo questa
specificazione nel Credo. La Chiesa cattolicaritiene valide entrambe le
versioni, infatti le chiese cattoliche orientali utilizzano nella liturgia la
versione priva del Filioque. Anche altri gruppi cristiani hanno rifiutato
il Filioque; in particolare bisogna citare il caso dei vetero-cattolici, che
accettano la validità dei primi sette concili ecumenici, rifiutando le dottrine
cattoliche successive. Invece le Chiese nate dalla riforma hanno generalmente
accettato questo dogma nella versione occidentale (comprensivo, cioè, del
Filioque). Simboli di fede Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Simbolo di fede. La dottrina della Trinità è
espressa in alcuni Simboli di fede, cioè proposizioni il più possibile chiare e
prive di ambiguità che si riferiscono a punti controversi della dottrina. Ad
esempio al primo concilio di Nicea venne approvato il seguente paragrafo (dal
cosiddetto credo di Nicea) relativo al significato di Figlio di Dio riferito a
Gesù Cristo: «...nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce
da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del
Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create.» Tale
proposizione deriva dal passo del primo capitolo della lettera agli
Ebrei: «...il Figlio, che Dio ha costituito erede di tutte le cose e per
mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione
della gloria (di Dio) e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la
potenza della sua parola....» Il simbolo atanasiano (detto anche
Quicunque vultdalle parole iniziali) è invece un'esposizione sintetica della
dottrina della Trinità secondo la tradizione latina, probabilmente composto in
Gallia verso la fine del V secolo, ed usato nelle chiese occidentali:
«...veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità. Senza
confondere le persone e senza separare la sostanza. Una è infatti la persona
del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma
Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna
maestà. ...Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio,
onnipotente lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo
onnipotente... Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. E
tuttavia non vi sono tre Dei, ma un solo Dio. (...) Poiché come la verità
cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e
Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o
Signori. ... E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di
maggiore o di minore: ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e
coeguali. (...) Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato.
Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato. Lo Spirito Santo
è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma da essi
procedente.(...) ... il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e
uomo. È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità; è
uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre. Perfetto Dio, perfetto
uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana. Uguale al Padre
nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità.» In seguito vennero
elaborati altri simboli di fede in cui si riassumevano le dottrine precedenti e
si trattavano altri punti controversi, ad esempio al XI Sinodo di Toledo (675)
venne elaborata un'altra "confessione" attribuita in passato ad
Eusebio di Vercelli, di cui si riporta solo l'inizio: «Professiamo e
crediamo che la santa ed ineffabile Trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito
Santo, secondo la sua natura è un solo Dio di una sola sostanza, di una sola
natura, anche di una sola maestà e forza. E professiamo che il Padre non (è)
generato, non creato, ma ingenerato. Egli infatti non prende origine da
nessuno, egli dal quale ebbe sia il Figlio la nascita, come lo Spirito Santo il
procedere. Egli è dunque la fonte e l'origine dell'intera divinità.»
Posizioni antitrinitarie Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Antitrinitarismo, Gesù nell'ebraismo e Gesù nell'islam. La dottrina del Dio Uno
e Trino non è accettata al di fuori del cristianesimo, dato che afferma la
divinità di Gesù Cristo, che è caratteristica delle maggiori confessioni di
questa religione. Ebraismo ed Islamrifiutano questo aspetto, e nel Corano in
particolare questo punto dottrinale viene esplicitamente negato[Nota 17].
Anche nell'ambito del cristianesimo vi sono movimenti religiosi e diramazioni
anti-trinitarie; fra queste le più note a partire dall'età moderna e
contemporanea sono i testimoni di Geova[11], la House of Yahweh, i
cristadelfiani, gli antoinisti, i mormoni, la Chiesa del Regno di Dio, la
Chiesa cristiana millenarista, il cristianesimo scientista, la Chiesa
dell'unificazione e le chiese odierne che si rifanno all'unitarianismo.
Ordini e congregazioni della Santissima TrinitàModifica Numerosi istituti
religiosi condividono la devozione alla Trinità e sono a essa intitolata:
l'Ordine della Santissima Trinità, con il ramo delle monache e le congregazioni
delle suore di Madrid, Roma, Valence, Valencia e delle Montalve; le
statunitensi congregazioni dei Missionari Servi e delle Ancelle Missionarie
della Santissima Trinità; le canadesi Domenicane della Santissima Trinità; le
spagnole Giuseppine della Santissima Trinità; le messicane Serve della
Santissima Trinità e dei Poveri e le italiane Adoratrici della Santissima
Trinità. NoteModifica ^ (EN) «Trinitarian doctrine touches on
virtually every aspect of Christian faith, theology, and piety, including
Christology and pneumatology, theological epistemology (faith, revelation,
theological methodology), spirituality and mystical theology, and ecclesial
life (sacraments, community, ethics).» (IT) «La dottrina Trinitaria
tocca virtualmente ogni aspetto della fede cristiana, della teologia e della
devozione, comprese la Cristologia e la pneumatologia, l'epistemologiateologica
(fede, rivelazione, metodologia teologica), la teologia mistica e la
spiritualità e la vita ecclesiale (sacramenti, comunità, etica)»
(Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol.14. NY,
Macmillan, 2005, pp. 9360 e segg.) ^ «non è esatto dire che i cristiani credono
in Dio! Per lo meno non è esatto rispetto al fatto che essi non si contentano
di affermare l'esistenza di quell'Essere supremo, onnipotente, creatore del
cielo e della terra che gli "uomini chiamano Dio" (Tommaso d'Aquino)
e che, nel vasto mondo e nella storia, anche tanti altri credenti riconoscono.
La sola cosa che, in realtà, si possa dire se si vuole usare un linguaggio
preciso, è che i cristiani credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo;
o ancora nella Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che insieme
costituiscono l'unico Dio vivo e vero.» (Joseph Doré. Trinità in
Dictionnaire des Religions (a cura di Paul Poupard). Parigi, Presses
universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni.
Milano, Mondadori, 2007, pp. 1918 e segg.) Cfr. ad esempio il Catechismo della
Chiesa Cattolica che al n. 232 riportando l'Expositio symboli (sermo 9) CCL
103,48 di Cesario d'Arlessostiene «La fede di tutti i cristiani si fonda sulla
Trinità». ^ Il "simbolo niceno-costantinopolitano" rispetto al credo
di Nicea, amplia gli aspetti cristologici e pneumatologici: Gesù Cristo figlio
di Dio è generato da sempre dal Padre, è increato, è homoúsioncioè della
"stessa sostanza" del Padre e per mezzo di lui si è realizzata la
creazione; egli è dunque Dio vero da Dio vero, luce da luce. Lo Spirito Santo
ha parlato per mezzo dei profeti, egli è Signore e da lui proviene la vita,
procede dal Padre ed è elemento di culto come il Padre e il Figlio. Cfr., ad
esempio, Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle
religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993, pagg. 203 e
segg. ^ Per la Chiesa cattolica la "trinità" è un mistero della fede
ovvero uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se
non sono divinamente rivelati» (Concilio Vaticano I, DS 3015; FCC 1.080). ^
«poreuthentes oun mathēteusate panta ta ethnē baptizontes autous eis to onoma
tou patros kai tou uiou kai tou agiou pneumatos» ^ «baptistheis de o iēsous
euthus anebē apo tou udatos kai idou ēneōchthēsan oi ouranoi kai eiden pneuma
theou katabainon ōsei peristeran erchomenon ep auton» ^ «kai apokritheis o
angelos eipen autē pneuma agion epeleusetai epi se kai dunamis upsistou
episkiasei soi dio kai to gennōmenon agion klēthēsetai uios theou» ^ «pisteuete
moi oti egō en tō patri kai o patēr en emoi ei de mē dia ta erga auta
pisteuete» ^ «kagō erōtēsō ton patera kai allon paraklēton dōsei umin ina ē
meth umōn eis ton aiōna to pneuma tēs alētheias o o kosmos ou dunatai labein
oti ou theōrei auto oude ginōskei umeis ginōskete auto oti par umin menei kai
en umin estin» ^ «o de paraklētos to pneuma to agion o pempsei o patēr en tō
onomati mou ekeinos umas didaxei panta kai upomnēsei umas panta a eipon umin
egō» ^ «ei ou poiō ta erga tu patròs mou, pistèuete moi; ei dè poiō, kan emoì
mē pistèuēte tòis ergòis pistèuete, ìna gnōte kai ginōskēte oti en emoi o patēr
kagō en tō patrì.» ^ «ē charis tou kuriou iēsou [christou] kai ē agapē tou
theou kai ē koinōnia tou agiou pneumatos meta pantōn umōn» ^ «kata prognōsin
theou patros en agiasmō pneumatos eis upakoēn kai rantismon aimatos iēsou
christou charis umin kai eirēnē plēthuntheiē» ^ (EN) «Further, exegetes
and theologians agree that the New Testament also does not contain an explicit
doctrine of the Trinity. God the Father is source of all that is (Pantokrator)
and also the father of Jesus Christ; "Father" is not a title for the
first person of the Trinity but a synonym for God.» (IT) «Inoltre,
esegeti e teologi sono d'accordo che anche il Nuovo Testamento non contiene
un'esplicita dottrina della Trinità. Dio Padre è fonte di tutto ciò che è
(Pantokrator) e anche il padre di Gesù Cristo; "Padre" non è un
titolo per la prima persona della Trinità ma un sinonimo per Dio.»
(Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY,
Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN) «Exegetes and theologians today are in
agreement that the Hebrew Bible does not contain a doctrine of the Trinity,
even though it was customary in past dogmatic tracts on the Trinity to cite
texts like Genesis 1:26, "Let us make humanity in our image, after our
likeness" (see also Gn. 3:22, 11:7; Is. 6:2–3) as proof of plurality in
God. Although the Hebrew Bible depicts God as the father of Israel and employs
personifications of God such as Word (davar), Spirit (ruah: ), Wisdom (h:
okhmah), and Presence (shekhinah), it would go beyond the intention and spirit
of the Old Testament to correlate these notions with later trinitarian
doctrine.» (IT) «Esegeti e teologi oggi sono d'accordo che la
Bibbia ebraicanon contenga la dottrina della Trinità, anche se era abituale nei
trattati dogmatici della Trinità citare testi come la Genesi, "Facciamo
l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (vedi anche Gn. 3:22, 11:7; Is.
6:2–3) come prova di pluralità in Dio. Sebbene la Bibbia ebraica descriva Dio
come padre di Israele e usi personificazioni di Dio come Parola (davar),
Spirito (ruah: ), Saggezza (h: okhmah) e Presenza (shekhinah), andrebbe oltre
le intenzioni e lo spirito del Vecchio Testamento correlare queste nozioni con
la successiva dottrina trinitaria.» (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in
Encyclopedia of Religion, vo.14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN) «In
the last analysis, the 2d century theological achievement was limited. The
Trinitarian problem may have been clear: the relation of the Son and (at least
nebulously) Spirit to the Godhead. But a Trinitarian solution was still in the
future. The apologists spoke too haltingly of the Spirit; with a measure of
anticipation, one might say too impersonally.» (IT) «In ultima
analisi i risultati teologici del II secolo furono limitati. Il problema
Trinitario poteva essere stato chiaro: la relazione fra il Figlio e (almeno
nebulosamente), lo Spirito alla Divinità. Ma una soluzione Trinitaria era
ancora futura. Gli apologisti parlano con troppa esitazione dello Spirito; con
il valore di un'anticipazione, si potrebbe dire in modo troppo
impersonale.» (R.L. Richard e William J. Hill. Trinity, Holy. The New
Catholic Encyclopedia, vol.14. NY, Gale, 2006, p. 191) ^ «O Gente della
Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro che la
verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Allah,
una Sua parola che Egli pose in Maria, uno spirito da Lui [proveniente].
Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà
meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A
Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra.
Allah è sufficiente come garante» (Cor., IV:171). RiferimentiModifica ^ Catherine
Mowry Lacugna, "Trinity", in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY,
Macmillan, 2006, p. 9360 ^ a b Trinità in Dictionnaire des Religions, pag.1923
^ Arthur W. Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK 1962,
pp. 265-266. ^ Ts 5.23, su laparola.net. ^ Philippe Bobichon, "Filiation
divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin
Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez
(dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del
cristianismo, vol. III, Madrid, pp. 337-378 online ^ Roger E. Olson, The Story
of Christian Theology: Twenty Centuries of Tradition & Reform, Downers
Grove (IL), InterVarsity Press 1999, p. 92. ^ Tertulliano, Contro Prassea, ed.
critica e trad. italiana di Giuseppe Scarpat, Torino, S.E.I. 1985. ^
"Terzo millennio Cristiano", paragrafo: "Eresie
cristologiche" ^ "Dizionario Mondadori di Storia Universale" ^
John Henry Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano, Jaca Book 1981. ^ Com’è
nata la dottrina della Trinità? JW.org BibliografiaModifica Arthur W.
Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK, 1962. Voci
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Dio Padre Dio Figlio Diofisismo Figlio dell'uomo Figlio di Dio Gesù di Nazareth
Gesù nel cristianesimo Iconografia della Trinità Inabitazione trinitaria
Pericoresi Prosopon Spirito Santo Solennità della Santissima Trinità Triade
(religione) Trinità (araldica) Unione ipostatica Verbo (cristianesimo) Altri progettiModifica
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Trinità Collegamenti esterniModifica Trinità, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Enrico Rosa e
Umberto Gnoli, TRINITÀ, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1937. Modifica su Wikidata trinità, su sapere.it, De Agostini.
Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) Dale Tuggy, Trinity, in
Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. ( EN )
H.E. Baber, The Trinity, su Internet Encyclopedia of Philosophy. URL consultato
il 29 luglio 2019. ( EN ) Anne Hunt, The Development of Trinitarian Theology in
the Patristic and Medieval Periods( PDF ), su TRINITY - Nexus of the Mysteries
of Christian Faith, google.it. URL consultato il 26 aprile 2018. La Trinità
secondo le Sacre Scritture, sito evangelico pentecostale Controllo di
autoritàThesaurus BNCF 30177 · LCCN( EN ) sh85137555 · GND ( DE ) 4060909-1
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Wikipedia Il contenuto Contenutisticamente l'ascesa a Dio si scandisce in
tre tappe (ognuna delle quali a sua volta divisa in due): il mondo
sensibile, vestigium Dei l'anima, in quanto realtà naturale, imago Dei l'anima,
in quanto abitata soprannaturalmente dal Mistero trinitario, in Cristo,
similitudo Dei Il mondo, vestigium Dei la predica di S.Francesco agli uccelli
nel pensiero di Bonaventura vibra la nuova percezione francescana della
natura. L'importanza data alla prima tappa, il mondo sensibile è ciò che
differenzia Bonaventura da Agostino, in forza dell'eredità francescana, che gli
consente di recuperare qualcosa della impostazione aristotelica, più
valorizzatrice del livello corporeo. Il mondo può essere letto come un segno,
un simbolo del Trascendente: tutto parla di Dio, e permette perciò di risalire
a Lui. Non occorre fuggire dalla realtà, ma è nella realtà, anzitutto
materiale, che l'uomo trova la testimonianza del Creatore invisibile.
Secondo Bonaventura la realtà ci parla di Dio non solo nella unità della Sua
natura, ma ne annuncia anche il Mistero trinitario: ad esempio la conoscenza
delle cose corporee è simbolo della processione del Figlio dal Padre. Come
dalla cosa si stacca una immagine, così dal Padre è generato il Figlio, e come
l'immagine della cosa si unisce all'organo sensoriale corporeo, così il Verbo
si è unito alla carne, facendosi Uomo. L'anima creata, imago Dei
Tuttavia è soprattutto nell'anima che Dio si rivela: il mondo è solo un
vestigium, mentre l'anima è imago Dei. Tra l'altro testimonia e parla del
Mistero trinitario, come già per S.Agostino, la tripartizione dell'anima in
memoria (che rimanda in particolare al Padre), intelletto (che rimanda al
Verbo) e volontà (che rimanda allo Spirito Santo, come Amore del Padre e del
Figlio). L'anima redenta, similitudo Dei Più di tutto ci dice chi è Dio
l'anima in stato di grazia, l'anima abitata da Cristo: nessuno più del santo ci
mostra il volto di Dio. Non basta perciò uno spiritualismo generico. L'uomo non
è solo corpo e anima: ma l'anima stessa deve superarsi, dilatarsi, accettando
una misura più grande: l'Ospite che ci inabita e chiede di crescere in noi.Dire-
zione e gradi del cammino si presentano anche nelle forme di rapporto, tra cui
vengono analizzati la realtà nel suo insieme e l'uomo in particolare: traccia
(vestigium) del Creatore nel sensibile, sua immagine (imago) trinitariamente
sviluppata, nelle facoltà o attività dello Spirito e massima somi- glianza
possibile (similitudo) con Lui nello stato della contemplazione perfezionatrice
o unione con Lui. Vestigium o speculum, traccia o specchio come primo
grado della «contemplazione riflettente» di Dio indica la forma di essere e di
movimento del mondo sensibile che rinvia il pensiero alla sua origine; imago,
immagine, cone caratterizzazione della mens conduce il pensiero che si accerta
di se stesso al suo archetipo trinitario; similitudo, somiglianza, in- dica lo
stato di colui-che-supera-se-stesso nel suo massimo avvicinamento possibile o
nella connes- 26 sione con la meta dell'ascesa. Itinerarium c. 1 e 2: per
vestigia e in vestigiis. 3 e 4: per imaginem - in imaginem. All'agire della
mens come o nella similitudo (It. III 2 [303 b], VI 7 [312 a],
corrispondono i gradi descritti nei capitoli 5 e 6. Un'interpretazione del
rapporto tra vestigium e imago nell'Itinerarium è stata presentata da L. Hodl:
Die Zeichen-Gegenwart Gottes und das Gott-Ebenbild-Sein des Menschen in des hl.
Bonaventura Itinerarium mentis in Deum, cc. 1-3, in: «Miscellanea Media-
evalia» 8, Berlin 1971, pp. 94-112. Sulla differenziazione di
vestigium-imago-similitudo ulteriormente: De scientia Christi q. 4 concl. (V 24
a). Orizzonte neoplatonico di «traccia» = ἴχνος: il male stesso ha ancora una
«traccia del Bene (ἴχνος ἀγαθοῦ, Proclo, In Remp. I 38, 26). «Essere» come
«traccia dell'Uno», in Plotino, vedi sopra pp. 80 ss., ss. e la relazione con
la dottrina dell'immagine. Nel contesto oggettivo e storico di questa dottrina
vi è Agostino: il creato, l'ente molteplice e temporale nel suo insieme è
«traccia dell'unità e atemporalità (divina)» (unitatis e aeternitatis
vestigium: Vera rel. 32, 60. Gen. ad litt. imp. lib. 13, 38. Anche Eriugena
segue questo concetto di «traccia», che vede nel sensibile la traccia o la
manifestazione dell'Essere divino in sé nascosto, come punto di partenza della summitas
theoriae: omnis creatura corporalis atque visibilis sensibusque succumbens
extremum divinae naturae vestigium non incongrue solet in Scripturis appellari:
Periphyseon III 25; 186, 26-28. Sulla «teofania» cfr. Beierwaltes, Negati
affirmatio, pp. 241 ss.; sull'aspetto della metafisica della luce: sopra p.
310.Grice: “Bonaventura is generally more liked than Aquinas at Oxford. More
platonic, less dogmatic sort of type!” -- Findanza. Fidanza. Keywords: Lc.
19:38-40 ‘grideranno le pietre’ ‘la pietra grida’ – i segni trinitari - primo grado: vestigio o impronta; secondo
grado: immagine; terzo grado: similitudine --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691361846/in/photolist-2mRGVwA-2mPGkBm-2mMQbzj-2mLznXk-2mKNM4g-2mKMJYE-2mKC3nj-2mKCnei-2mKjR8g
Grice e Figliucci – Giove e Ganimede – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Siena).
Filosofo. Grice: “Of course I love Figliucci, who doeesn’t? Of course, there is
Figliucci and [Vincenzo] Figliucci, both moralists at Siena; what I love about
Figliucci is that he championed the big ones: Plato’s Fedro – with the
charismatic metaphor of the winged warrior; and then Fedro is an interesting
character for maieutica; and Aristotle’s ethical ‘books,’ which we hope he
instilled on Alexander!” – Studia a Padova. Dopo aver vissuto le piacevolezze mondane
della corte, entrò nel convento domenicano di Firenze. Altre opere: “Del bello”
(Roma); “Ficino” (Venezia); “Le undici Filippiche di Demostene con una Lettera
di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in lingua Toscana” (Roma, Appresso Vincenzo
Valgrisi); “Della Filosofia morale d'Aristotile” (Roma); “Della Politica,
ovvero Scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, libri VIII scritti in
modo di dialogo” (Venezia, Gio. Battista Somascho); “Catechismo, cioè
istruzione secondo il decreto del Concilio di Trento”; Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. FIGLIUCCI, “IL FEDRO O VERO IL DIALOGO
DEL Bello di Platone, Tradotto in lìngua Toscanà per Felice Figliucci
Sense. IN ROMA Con priuilegio del Sommo
Ponstefice per anni X.IL FEDRO. Ó VERO il D/4iWa id Bello di Telatone. TRADOTTO
in lingua Tofcana» Perfone del Dialogo, SOCRATE, ET FEDRO. O Fedro mio
caro,doue uai tu,ac Soc. donde uieni ^ F E D. Socratc,io uego da cafa di Lifia
figliuolo di Cefalo,flC hora me ne uh un poco à fpafTo fuor della città: per
ciò che buona peza feco à ragionar fedendo, da quefta mattina per tempo, per
fino à hora fon dimorato. Et hora,c(rendo à ciò ftato perfuafo,da Acumeno tuo
amico, fiC mio,fò caminando efTercitio: il qual modo di efTercitarfi, egli
affai più facile, CC molto più gjoueuole giu:sdica, che laftaticarfi nel
correre, come molti fanirsno. SOCR. Certamente Fedro mio, eh* egli ti configlia
bene^ma fecondo il tuo dirc,Lifu dee elTere nella città, è uero ^ F E D,
Ve^sro,fi£ alloggia infieme con Epicrate nella cafa di Morico,uicino al Tempio
di GioueOlimpiót SOCR. rimali di gratia,clie faceuate uoi quiui f Inuitouui
forfè Lifia al parto delle fuc orationii' FE D. Tu lo fapra!,par clic tu babbi
tempo di uenire i(ifieme coumeco^fin che io te l habbia narrato. SOCR. Che dici
tu.^ Hor Don penfi tu, che io proponga à ogni mia facen <ìa (come di^Te
Pindaro) il ragionamento di Li:s fia,fl£iltuo? FED, Seguitami adunque S 0,C R.
Di pure^ F E D. Et fappi Socra;^ tc.che quella difputa, che nacque fra Lifia^a
ine.è {lata à punto degna delle tue orecchie. Per ciò che il parlare,che Ci\
ùilto,(ìx in un cers; to modo tutto intorno alle cofe d'amore;.pcr ciò che
Lifia haueua fcritto una oratioue doftiG:: fima,fi£eIegantiflima,manoDÌn fauore
d'uno 'amante,anzi pier quello era artificiofa.fi: Icggias: dra,che egli in
quella prouaua,che più toftofi dee far ccfa grata à chi non ama, che à chi ama»
S O C. O huomo certamente digniffuno; uo:s lefTe lddio,che egli haueffe fcritto,che
fi hauefe fe à fave bene più tofto à unpoueio.che à un ricco, ftàunuecchio, che
à un giouane,aà moltialtrijiquali in molte altre cofe fono mal condotti, come
me: per ciò che fe tale fufTe fta^ ta la fua oratione.all' bora fi poteua
degnametc ^nc ce piaccuole.a utile. Non di meno anchora che ella non fia (lata
cefi, egli m'è foptags giunta una fi gran uogliad' udirla, che (e tu cdis
minando te ne andaflj perfino à Mcgara,flC fc (comeècoftume di Hcrodico ) tofto
che alle mura della città fiifli giunto.indietro te ne tornaflì,io per queflo
fon difpofto di non ti aK? bandonarmai. FED, Che dici tu Socrate^' Penfi turche
io giouane inefperto poffa hora narrarti, flC ramentarti quelle cofe,chc Lifia
moi te più dotto di quanti Sìcrittori hoggi fi troua:^ no, in molto tempo à fua
commodità compofe/ Sappi,che io fono affai lontano da quello ti uoglio dire,chc
iouorrei più prefto fimil cofa faper fare, che effer d' infinite riccheze
poffeffo? re. SOCR. Fedro cparrebbe.cheip non fi conofcefL, non fai tu, che
tanto à me farebbe il non fapere chi tu fei, quanto lo fcordarmi di me
medefimo.^ Delle quali^ofe neffuna è uera: per ciò che io fo beniflimo,che tu
non udirti una uolta fola quefta Oratione di Lina,ma te U facefli replicare
affai uolte. Et Lifia fo io, che uo lentieri ti ubidiua: ne quefto anchora ti
fu affair ma fattoti al fine dare m mano il libro. doue eri
fcritta,confiderafti ineffo tutte quelle cofe,U quali maggiormente defideraui
fapere: il che come hauedi fatto, fianco di hauere in quel Iugo fi fungamciife
fedufo,(i partifti per andare tene a fpafTo. Et io giiiraréi,che bora tela mefe
teui alla memoria, fé gii non fufTeftata troppo lunga, te neandaui fuor della
città^perconi fiderare date ftefloà quello, che haueui letto» Ma poi che tu ti
fei abbatuto ì un'huomo pazo di udire fimili ragjonamèti,come fono io,toflo che
iMiaiucduto, ti fei oltra modo rallegrato, quafi che tu fufli certo di hauerc
uno, che dei niederimo,che tu,tecori hauefli à rallfgrare,flc fare feft^,flC
cofi mi bai commefTo.che io uenea teco. Quindi pregato da me defiderofiflimo di
ud/rti, che à dir cominciaflj, bai finto ciò efTerti difficile, come fe tu non
hauefli bauto uoglia di raccontarmi quefta cofa: flC io fon certo, che. al
fine, quando alcuno qui non fuffe ftato,che ti haueffe per fe fteflo uoluto
udire, tu haueui tan ta uoglia di dire quello, che haueui udito, che tu cri per
sforzare qualunque fi fuffe.à udirti à fuo mal grado. Et però Fedro mio caro,
non tt fare pregare à mia fòdisfatione di fare queU lo, che eri ogni modo per
fare fenza che alcuno te ne ricercaffe^ FED. Sarà adunque me;s gbo dirti quefla
cofa, come jo faprò,purcbc io la dica; per ciò che e mi pare, che tu non fia
per abbandonarmi mai, fin che non Thabbia fentita. <^ Sccr. I o S O C R.
Certamcnfe che tu hai^buon credtere* F E Cofi adunque faro: ma per dirti il
uero Socrate, io non ho imparate le parole tutte à mente, ma io mi ricordo bene
quafi di tutte le ragioni, flC argomenti: per li quali egli dimcftra un'amante
efferdifTimile da chi no ama, fiC cofirdì fon deliberato nan-artele tutte
ordinatamen:? te. SOC Moftrami di gratia prima quel, che tu hai nella man
fiftiftra fotto il mantello, che à dirti il uero, io dubito che tu non habbia
quel libro proprio: il che fe è uero, pen(à che io ti ftimo afTai; non di meno
fe io poffo udire jLifia,non uoglio ftarc à udir te. Ma che fai tu, che ncn me'
1 moftrif F E D • Deh fta fermo: tu m'hai leuato d'una grande fperanza o
Socrais te, che io haueua di efercitait hoggi il mio ingc^ gno con teco: ma poi
che io non poffo farlo, po niamcd à federe, per leggere doue più fi piace • S O
C Aridiamocene, prima che à leggere. cominciamo,dj U dal fìume Iliffo, ftquiui
ci porremo à federe, doue più ci parrà FED. A tempo mi truouo difcalzo,ma fu
non uai mai altrimenti: & però ci farà ageuole paiTare quefta piccola
acqua, ne anchora ci douerà difpiaccre, tnaflimamente in quefta ftagionc,&à
quefta hcra. SOCR. Va uia adunque, ft in tanto confiderà, doue po(&amo
federe » F £ Vedi tu quel Platano cofi alto S O G R. Si ueggo. F E D. Qoiui è
una piaceuolc ombra, •fiC un uentolino fcaue.flC l'herba tenera in ogni parte:
fi che pofTjamo porci à federe,© à giacere, doue più ci piacerà. SOCR. Va
Ij^adaquc. F E D, Dimmi un pooc Socrate, non fi dice egli, che già in quefto luogo
Borea rapì Oriss fhia,uicinoaI fiume Iliffoi' SOCR, Col; fi dice» F E D. Non ti
pare egh, che qui fi uegga una acquetta grata, pura, fiC chiara, nella quale
commodatamcte pofTano le fanciulle fcher zarci' SOCR» Non é quefto il luogo, ma
po co più di fotto, lontano due ò uero tre ftadi,do:s ue habbiamo trouato il
Tempio di Diana, flc in quel medefimo luogo è un certo altare fatto ad honore
di Borea. F E D. Io non fq bene quc ftacofa. Ma dimmi per tua fe Socrate, penfi
tu che quefta fauola fia ftata uera t S O C R. Se -io non penfafli^che fuffc
uera, come fanno an^s chora tutte le perfone fauie.non per quefto farei da
elTere ftimato fcioccho: ma non uolendola in tutto negare, potrei fingermi
quefta cofa,fiC dire, che il uento Borea ulcito da quefte pietre ui:s cine à
(chcrzare.flC foUazarfi con Farmacia, fi ina; contro in Onthia,cCla
fecegrauemente à terra cadere, della qual cola ella ne. mori: OC di qui hanno
finto, che ella fò rapita da Borea, non già da qiiefto luogo, ma dallo
Ariopago.doue bora fi giudicano le caufe: per ciò che è /ama affai da quefta
diuerfa^che ella non fu rapita da quello^. ma da quel luogo. Hora io Fedro mio,
giudico certamente quelle cofe molto diletteuoli, ma da huomini troppo curiofi,
& folkcjti di quello» che poco importa, fiC da perfone anzi poco fortunate,
che non: le quali fe per altro non hauefs fimo à chiamare infelici, quefta però
farebbe cas:gione giuftf/Tima^che eglino tégono cofa neceffarla, che bifogni
interpretale la forma de i Centauri, delle Chimere, flC di molte altre fintioni
inutili. Et non folo fi truouano quefte fi fatte figure, ma à chi fi intrica in
fimili cofe.gli pio^ uonoà doffo.k turbe de i Serpenti, delle Gorgoni,fiC la
bugia del cauallo Pegafo,& di moU te altre forme contrafatte; onde fe
alcuno di quefti cofi diligenti non crederà, che quefte co^ fe fienò flate nel
modo, che fi narrano, ma uorrà Qgni cofa ridurre alla fua allegoria, & al
fenfo più, fecondo lui,conuenienfe,coftui certo bara otio d'auanzo,flf fi
fiderà di elTér ricordato per uia d'una fcientia roza,flc di poco memento»
Maio,à dirti il uero,non ho tempo à cercare (i^ mili ccfe; perche non anchora
pc/To ccnofcerc me fl:e(ro,ri come ci infegna clie dobbiamo fare 1 oracolo
Delfico. Et per qnefto à me pare cofa da ridere, il uoler cercare di fapere le
cofe d altri,' Don conofcendblhcTìora quelle, che à me fi ap35 partengono,flf
che fono in me ftefTo. Per il che laiciate andar quefte cofe.ft crededo
paramene» te à quello, che credono gli altri intorno à qucfto,non perdo il
tempo nella cqnfidcrafione Io ro,malo metto à confiderare me {lefTo. ft^cofi ^
taì'hora fra me dico. Sono io una beftia più (u^ riofa,flC più rabbiofa,che non
fu il gigante det^ to Tifone,© pure (come è uero ) fono nato ani^ m^ile più
placabile, fiC humano,fiC più femplice; participc per natura della mente
diu{na,fiC nato per godere al fine uno ftafo.ft una forte felicif^s fimar Ma
non è egli quefl:o,al quale ragionado, fiamoarriuati, quello albero, doue tu
mimenas ui^ FED, Quefto é d elfo. SOCR. Cerato che quefto è flato un viaggio
degno: per ciò che quefto Platano hai rami larghifTimi.fiC è molto alto,£(la
alteza di qpcllo Agnol cafto; infieme con l'ombra che fa, è bella oltra modo,'
ficpiaceuole: fichoraè il tempo, nel quale più che mai,fiorifce: per il che il
luogo tutto intorbi noe ripieno di foauiflìmo odore. Oltra ciò, è quefto
fonte,che fotlo il Platano la terra riganjs s ^ do. (io bagna, cliiariflìmo, CC
di acqua frefca puc afrai,comeripaoconofcerenel metterci dren^ to un piede. Et
le fanciullesche quiui fcolpitc j] ueggono.&lealfre belle
imagini.dimoftra:? no chiaramente, che il fonte c ftatofagratoak le
Ninfe.&ad Acheloo. Non ti accorgi olfra di quefto, quanto gioconda,
écfoanefia Taura^ (che quiui fpjrar fi lente r Oltra ciò/i ode una
moifitu'crine di cicale: ìe quali, fecondo il temrs po cantando, ne fanno
fentiie un concento non fo come fcaue.fiC piaceiiole. ma più dbgni altra
'Cofa,mj pare degna deffcr lodata quefta tenera herbetta,Iaquale.4 mirarla,
pare che ella beni:s griamenteafpetfi, che altri ripofiil capo fopra 4/ lei
perriceuerlo.tìcfoftenerlo commodiffima mente. Per il che Fedro mio caro, fu mi
hai me nato hcggi qui, doue io fono come foreftiero, per farmia ftare più
uolenfierijl che hai fatto prudentemente. FED. Chi ti.fentifre.crede:^ rebbe
che tu fufli huomo da pochiTIimo: flC cer:s tamente a quel. che tu dici, tu
pari più prefto un foreftiero.che uno del paefe: talmente di^ moftn non hauer
mai pafTato i noftri confini, ne effer mai ufcito delle noftre porte, S OCR,
Perdonamf Fedro mio da bene,|) ciò che io, coxnc (u fai^foiamente defidero
imparare:& fu bea falche gli alberi, fiele unie,& li campì, non ttìì
pofTono ifegnare cofa alcuna, ma fi bene gli huo >mini, che habitano la
città. Ma tu, fecondo me> hai truouato un modo da allettarmi all'ufcircì
qualche uolta: per ciò che fi come coloro, che à *gli animali moftrano
frondi,ac porgono frutti, li menano doue uogliono: cofi tii,moftrando5 mi
queftolibro,mi menareftiper tuttq il contar no d' Atene, doue tu uoleffj. Hora
poi che fias mo giunti qui, mi pare di pormi à federe: fiC tu acconciatoti in
quel n(iodo,che più commodo ti parrà, comincerai à leggere, F E D * Odi
adunque» • I N Q^V E S T O (lato certamente fi trubuano le cofe mie: flC quefto.comc
fai,p0:s co fì intefo da me,penfo che m' babbi à gioua:^ re affai. Hora io
uoglio che fappi, che io ftimp, ce giudico, fecoia alcuna io ti domanderò, dos:
uerla da te per quefta cagione impetrare, per ciò che io non fon prefo del tuo
amore • Et che ciò Ca il aero, tu fai che gl'amanti, come prima han no la lor
libidine fatiata,fi pentono de i benefiis cii,che ti hanno mai fatti: ma
quelli, che dall'ai mor legati non fono, non fi pentono per tempo alcuno, la
ragione è quefta, Che eglino fanno li bcneficii per fe fteflì penfatamente, fiC
fecondo che pofTono.fif che le facalfà loro compocifanot & non fono à ciò
sforzati, còme gli amanti. Ob tra cib,gli amanti alle uolte tra fe ftcflj
penfand quanto negligentemente dall'amore impediti J habbino le lor faccende
condotte à fine,ft quaa li beneficii habbino con troppo danno loro à gli amati
fatto.flC quanti affanni,» quante fati^ che habbino fofferto: fif per quefta
cagione mai hanno da gli amati bene alcuno,tengonù per certo non glie n'effere
obligati.mahauera gliene per J'addietro dato degno guiderdone^ Ma coloro, che
dall'amore non fi truouanoinii ' - gannafi,nonfi lamentano di effere ftati pccd
accorti nelle faccende lóro: non gli duol delle paffate' fatiche, non fi
rammaricano, per cagion deiramato,hauer con li parenti fatte grauiHime
nimicitie,come fpeffe uolte fuol auuenire. Onai k de tolti uia tanti mali, che
à gli amati fòlamenie interuengono, refta folo,che quelli, che non amano, come
fo io. fieno fempre pronti,» para^ tiffimi à fare tutte quelle cofe,che penfano
potergli arrecare giouamento. Sono molti che dicono,che per quefta cagione fi
douerebbond affai gli amanti appiezare: per ciò che grandif^ fima è la carità,
che uerfo gli amati loro hanno « tutte le bore, flC che fempre apparecchiati fi
truo «ano à ubbidire air amato, ec a fargli cofagri!* fa ce con le parole,
& con le opere, anchora che perqucfto ceruffimi fuffcro, doucre offendere
pgni altra perfona. il qual parere di qui faciU xncnfe fi può confidcrare non
edcr uero.chè Ic^s uafa alle uoltc la beneuolentia da uno,* in ua^ litro
portala, affai più confo de i nuoui amanti 0inno,chc di quelli, che prima
haucuano: fiC che pm,fequefti amanti più frcfchi gli el com mette/fero,
diuentarieno c^udeh/Tjmi inimici de Ipaffati. Etin qual modo pofTjamo noi dirc^
che ne gli amanti fia cofi ardente amore, efTenj: do à quella infelicità, &
calamità fottopofii, dals: la quale perfona alcuna quantunque fauia,& acs:
corta, mai potrebbe rimuouerhV Et quefto è, che codoro ccnfeffano per loro
fleffi effere anzi fuor di loro, che non^ft dicono conofcere la loro
fcioccheza,a: pazia,ft non di meno non poa» tjfrfene rifenere,o i;ifliuouerc.
Et pero gli huoismini faui, come potranno approuare,& giudicar hiioai i
configli,fiC i pareri di perfone da tal mancamento macchiate.'' Olfra CIO, fe
tu uorrai fciogliere un'huomo in ogni parte perfetto tra gli amanti, bifognerà
che tu faccia quella fcelfà tra pochi, che pochi fono quelli, che amantifi
poffano dircma fe tu uorrai procacciarti ungami tò.ì)totnpagfio,recòr)(5ofl
Mi^ctio tuo,^acl t^nicofa atto;&accommodato^tra quelli, chè non amano Jo
potrai più fàcilmente fare:pct tiòchc tra molte petfone ti ùd toncefTo
fctrglict lo:^ più debbi fpcrare di bauere un buono ami co tra molti, cHc tra
pochi, à trotianc- Et fe al fi* ne tu temi,» fuggi, come debbi fjre,l'in6mf*
publica.i8C il biafimo unuierfale, quale per òrdi ration delle leggi fi può
ffTet dato.ti & bifos^ gno ramf n(arti,che gli amanti\li quali per quel la
cagione uoriebbono tfTer^ amati ^ per \m quale amanoilogliono poi che al
defiderato fint fi ueggono giunti, gloriarfi, OC uantarfi alla fco3f perta,che
eglino non hanno m uano ncHorol «more confumato il tempo. Ma quelli,che noft
tìmano, con ciò fvache facilmente pofTano taccsi re,a: tenerfi di due quel, che
hanno fatto, han^a no coftume di cercar più toilo quel, che penfa^j no
eflérottim.o per loro.fiì per lamico^che Tefa fer dalla moUitudine,fiC dal
nolgo ricordati,^! portati per bocca. Aggiugnc anchora à que^s fto.che
acccrgendofi la plebe, che un'aman:^ te fegua un' amatorie afliduaménte in ogni
cofa Mclcntierrgli ubbidifca,^< fimilmente gif compiace a, fubito entra in
fofpùlto^ che tr* loro non fu flato, o nori fia càttiuo defidcdQ^ ma non ha già
ardire di bafitnarc le amicitie dr coloro, che non amano: per ciò che ben fa,
che à gli huomini fa di bifogno ben fpelfo infieme ritroiiarfi.ò uero per
cagione di amicitia,ò uera per qualche lorocommodità. Etfe forfè tu teis fnefTì
di quelli, che non amano, fic penfaffi, che fuffecofa diffìcile, che con quei
tali Tamicitia durafTe, anzi nata qualche guerra, ò nimicitia, du^jitafTe che
ne ne fu(Te per uenire danno deU r uno, ài deir altro: CC (e poi tu, concedendo
i un, che non t'ama, quello che più d'ogni altra Éofa apprezi,ne uenifli per
quello non poco ofss fefo,fiC faccfTì non piccola perdita, facendo cofa grata à
chi poco, ò niente ti appreza, ti dico^^che per quefta cagione barai
maggiormente da te^s mere gli amanti.per ciò che molte cofe fon quel le, che
gli offendono, CC fenipre penfano che ciò the fi fa, per danno loro fia fatto»
Et per quefto uietano à gli amanti loro il conuerfare tra gli aU fri, temendo
fempre che quel l'i, che di loro più ricchi fono, non li fuperino de benefici!,
ò uero che gli huomini dotti non li uincano di fape:^^ re. Et in fomma fe
perfona conofcono. che in fc babbi cofa alcuna di buono, quàto più poffono, fi
sforzano da coftui rimuouere gli amici, flC cofi perfuadendoli, che da fimil
pratiche fi guardi^ no. no,à poco à poco li prfuanó di tutti gli amfciv^ ^ Hora
le tu penlerai bene à te, « a quelJo,chc>i fi conuiene,flC Te farai miglior
deliberafione di loro, non fi appiglierai al parer loro, ma te ne difcofterai
quanto potrai. AlT incontro coloro^ che del tuo amore non fon preri,ma fanno
quei le cofe,che ueggonoefTer conuenienti,& fi fcr^ uono ne i bifogni,folo
per operare uirtuofameij te,(5f efortati à ciò da una mrtù,a: bontà d'ani:? mo,
non ti haranno inuidia,fe ti ucdranno prassticar con altrui, ma piu tofto
quelli harani>ojp odio, che à te non fi uor ranno accoftare,penfando (come è
uero ) che coftoro li fprczino,£Ì gli amici ti giuouino,à; aiutino: flC per
qucftp^ molto maggiore fperanzafi dee hauerc,che da quefta praticane uengano
amicitic,che inimù citie.Aqueftecofe fi può aggiugnere,che la maggior parte de
gli aitanti, prima defiderano pofrcdere,flC godere il corpo dell amato.che hab
biano conofciuti li coftumi fuoi,ò l'altre cofe^ che debbono in un'amato
ritrouarfi. Et di quì uiene.che fi dubita,fe latiatala uoglia loro,dei bano
nella amicitia perleuerare. Ma traquelli^^ che non amano, li quali efTcndo per
T addietro flati amici, non laceuano quelle fimihcofe in bf neficio dell'
amico, per che eglino fuffero trop:? po afFcttionatl urrfo Ai hì^t cofa
ragicneuolc, che l amieitia fia minore: ima bifogna ben cons; fefEire,chc i
beneficii, che Tannargli facciano, accio che per quel mezo habbiano à efier
iicor:s ciati daqnelli,che dopo loro iierranno,doue gli amanti ad altro, che al
prefente,no attendono. ©Ifra di quefto(credi à nfie)diuenterai affai nusj
gliore,fc afcolterai un che non ti ama, che fe à un amante prederai le orecchie:
per ciò che gli amanti con lodi infinite inalzano oltra modo tutte le cofe,che
fu fai, odici: parte per che te:J tnono,fecendo altrimenti di non ti offendere:
parte per che dallo ardente defiderio loroacce:^ catione! giudicare fi
ingannano: per ciò che la^ more fa, che coloro, che ne i cafi d'amore poco
fortunati Ci ritruouano, fono sforzati à giudicare quelle cofe trjfte.ft
infelici, chea gli altri non darebbono moleflia alcuna ^ Et per il contrario
quelli^che hanno buona fortuna^flf che dtll'as worlofo fi godono, a mal ior
grado fonconrx dotti a lodar quelle co(è, come fauoieuoli.fiC gioconde, che non
meritano, ne poffono fare ftar contento huomo alcuno: ££ però più toflo farebbe
di b/fogno di quelli tali hauer compaf? fione. che fegui tarli ♦ Hora fe tu
uorrai credere. alle ter alle mie parole, io primieramente uoglio effe* tuo
amico,ac darti apprcfro,non per il piac^re^t che di te al prefente potrei
haiiere, ma per la utf lifà,che la mia amicitja per Io auuenire ti potrà dare.
Et non farò quefto, legato, òuinto.ò fog^ gietto all' amore, ma uorrò effer
patrone di mcs ftefTo: a non douerai temere, che io per cagiost ne alcuna, ben
che leggiera, habbia fra noi à (xt nafcerc grauiffime nimicifie,anzi fc pure
alle- uolfe mi altererò alquanto, non lo farò fenza grandiflìma cagione. Et non
di menoqnclli er:s rori che inauuertentemente mi uetran fatti, al fine
liconofcerò: ft quelh,nelii quali uolontariamente incorrerò, mi sforzerò
emendare, AC»- fchifare.flCquefli fono ucri fegni d'unaami^ dtia,che habbia
lungamente à durare. Etfe for fé tu pcnfi,che non pofla truouarfi una ueia^CC '
durabile amfcitia,fe dall'amore non è cagtona^. fa, debbi confiderare,che per
quefta medefinia cagione noi non appiezeremo gli figliuoli, ne ameremo li
padri, ne terremo cari, flC fedeli co:s, loro.che per buoni ufficii,a:
beneficii fattici, d fuffero diuentati amici, fe da quefto ardore amo rofo non
haueflcro hauto principio ♦ Potrecs ftr dirmi. Si dee fempre fare bene à queU
li huomini^ che ne hanno più di bifogno; ft però è cofa conucnientc.non cercar
di giouars rcàglihuonnini,chepcr fe fteflì hanno, mai quelli, che fono più
bifognofi: per ciò che co:^ ftoro^fe da me ne i maggior bifogni loro farani; no
aiutati, mi renderanno Tempre infinite gra:^ tie. Aqueftofirifpondo,chefe ciò
fuffe uero, nelle fpefe^che priuatamcte facciamo,fiC ne i do ©eftici conuiti,
non haremo à inai tare gli amis; Ci.ma più torto gli affamati, fiC li mendichi:
per che coftoro molto più apprezeranno un tal bcis,neficio,ti feguiteranno,ti
corteggieranno, ti fanno fefl:a,ti ringratieranno infinitamente, fiC pregherano
iddio per te. Onde tu puoi uedere, che fi conuiene non compiacere à i bifognofi
principalmente, ma fi bene à quelli, che ti pof:^ fono riftorare. Et per quefto
non à gli amanti^ comeà bifognofi, ma à quelli, che mentano, debbi far piacere:
& non debbi fodisfare à quei lische della tua belleza fi delettano,maà queU
lische anchora quando farai uccchio,ti fono per dare utile: ft non debbi
giouare à quelli, i quali hauendo il defideno loro adempiuto, fcoperta^: mente
fe ne uanteranno^ ma a quelli, che uer:^ gognofi taceranno. Et non debbi far
cofa gra^s ta à coloro, che per ifpafio di breue tempo ti ho BorerAoao.ma a
quelli^che tutto il tempo dell* uifa tua ugualmente ti ameranno: 6C non debb
accarezare coloro,! quali, fpeto l'ardore del loro sfrenato
defiderio,cercherano Tempre cagioni di far nafcere nimicitie^ma quelli,! quali (anchora
che la belleza manchi ) Tempre moftrano la fcrj: meza^flCla conftantialoro.
Ricorderatì aduns: que di quelle cofe, che io ti ho dette, flC penfej: rai che
gli amanti fono da i loro amici riprefi,fiC accufati,per chc.ramoreècofa
brutta, OC inde^ gna,ma nenuno uitupera,ò biafima quelle, che non ama,
dicendogli, che egli fi gouerni male, come fi può dire à gl'amanti. Foife mi
domane: derai.fe io fi uoglioconfegliare.che tu debbia ubidire à tutti quelli,
che non tramano. Al che io ti rifpondo,di nò: perciò che io focerto^chc
iimilmentc un tuo amante con ti comandereb be.chc tu à un medefimo modo amafli
tutti quelli che ti amanorper ciò che quelli, che han no da hauere gli
benefici! da te, non meritano tutti ugualmete.nc à te farebbe cofa facile coms:
piacere à tutti, fe uolefll che uno non s'accorgef fi dell'altro;&bifogna
che di quefto feruirc nonne uenga danno alcuno, ma fi bene/che r uno a l'altro
ne cauì qualche utilità. Hora io penfo hauer detto à baftanza: fe à te pare,
che io ci debbi aggiugnere qualche coU,Aor.uujgi da,ch^ io ti fodisfarò. Cloe
ti pare di quefla Ora fione Socrate r' Non é ella fiC nelle altre cofe,&
nelle parole comporta mirabilmen ter S O C R* Ella è tanto marauigliofa, che mi
ha fatto ft(i:s pire,fif tutto, per tua cagione Fedro mio, mi (os no fentito
commouere, mentre che io guardauj gli attrae i gefti,chc nel leggere quefta
Oratio^: ne faceui. Et però penfando che tu meglio, che io, conofca^flC intenda
fimili cofe,ho hautoad ufcir di me per troppa allegreza infieme con tes: co^ F
E D. Inqueftomodo mi uuoi burss lare? S O C R. Adunque parti, che io ti burhf'
Non penfi tu,ch'io dica da aero/ F E D., Non certo: Ma dimmi un poco per tua
fe^penss fi tn,che altro Greco intorno à fimil materia po fede dire più cofe,«
pia d9ttes* S O C R, Pen fiamonoi.chcfia da effer lodato uno Scrittore
folamente per che gh babbi detto quelle cofe, che fono ftate necefTarier'òpure
diremo, che me^: riti lode, per che egli babbia tutte le fue paroledifpcfl:e,£(ordniate
chiaramente, numeroiamen te, a elcgantementes' Se à te pare, che bifogni lodare
Lifia per la inuentione, IO per farti pia^: cere, tei concederò ma io per la
mia fciocche^: za,(S(ignorantia,non Tho in luì conofciuta.pcr ciò che folamente
ho attefo alla eloquentia dei • pariate: al che poter perfettamente fare, io
non penfo che Ljfia fteffo hc'^bbia penfato d' efier fla fo bafteuole. Et
cerfainenfe à irìeè parfo(fé già '^tu non uolefh dire il contrario) che egli
habbia leph'cato dne,flC tre uolte le medefime cofe.co^ me fe gli fufTe fnacata
copta di faper dire diuerfe cofe fopra una mcdefima materia.ò uero uoglia^ 'imo
dire, che egli no babbi hauto Ibcchio à quc fto. A me certo, fe tu uuoi,cheio
ti dica la mia cpintone,è parfo che egli habbia uolufo parere •^di faper
moftrare elegantemente in ogni modo, *cKe à lui pareua quella cofa,che fi
metteua à dl^ chiarare, dicendola bora in uno,& hora in un' al tro modo. F
E D. Socrate tu no dici niente: per ciò che quella Oratione h*a in fe
quefto,chc neffuna cofa ha lafciato in dietro di quelle, che intorno à tal
fuggietto accomodar fi poteuano: "onde io giudico, che neffuno poffa di
quefto me defimo più cofe dire.tt phi uerifimili di quelle, che egli ha dette.
S O CR. Quefta cofa non 'fi poffo io hormai più concedere, per ciò che gì'
huomini raui,chc ne tempi paffafi furono, flC le donne, che di queflo hanno
parfato.ficfcritto mi riprenderebbono,* mi arguirebbono con:? 1ra,fe io per la
tua fodisfàttionc tei concedeffi ^ J £ D. Chi fono eglino quefti huomini, flC
qiicftc donne Et douchai tu udite migliori cofc diqueftes' SOCR. Al prcfente io
non me ne ricordo cofi bene, ma fappia cerfo,che io non fo in che luogo ho
letto,flC udito quel, che io ti dico, & potrebbe efTere.che fufTe ò nelle
opere della^èlla Saffo. buero ne libri del fa:5 aio Anacreonte,ò uero d'altri
Scrittori: fiC faps; pi, che non per altra cagione fo ioquefta coniet
4ura,cheper fentirmi pieno d'altri argomenti non forfè peggiori de fuoi,che
intorno à ciò fi potrebbonp addurre, Et per che io conofco be^ ni/Timo la mia
ignoranza, fiC confcfTo che io non fo cofa alcuna, fenon per hauerla ueduta in
aU tri^fiCnonperhauerla imparata da me, hi fogna che io confeffi di hauere
attinte quefte cofe daU le fonti d'altrui à guifa di un uafo: ma per U piia
rQizeza,mi fono fcordato da chi io le habbù.iaiparate,flCinche modo. F E D. O
Socrate da bene, tu fai bene à dir cofi.ne uoglio che tu,dica anchor che io
te'l.comanda(ri.dachi,fi(eoa?.me babbi quefte cofe apprefe: ma uaglio benc^ che
tu mi moftri (come confeffi di poter fare.).quelle ragioni, che dici, che fai
più efficaci, OC più dì quelle che Lifia intorno a ciò fcriffe.ll che fe farai,
non dicendo le cofe, che diffe Lifu^ ti prometto confegrare in Delfo una
ftatuadcl mcdefimo pefo,chc fci tu j1 che fcgliono fare i none noftri
Magiflrati,come fai» SOCR* Tu mi uuoi Fedro caro un gran bene,& fei uc^^
ramente d'oro,fe tupenfi che io poffa dirti, che Lifia habbia errato, ftche fi
pofTano fcriuerc cofe migliori di quelle, che egli ha fcritto. Io uo glio che
tu fappia,che io non direi, che ciò po:5 tefTe accadere à un uiliflTimo
Scrittore, non che i lui. Ma per dirti anchora quelle cofe,che io fo, non già
per riprendere lui, primieramente parlando folo di quello. che fi appartiene à
quc ftonoftro ragionamento, penfi tu che colui, che uorra prouarc.che fi habbia
più tofto à fare pia:^ cere à chi non ama, che à chi ama.fe prima^nbh
prouerà,chechi non ama,fia fauio,flf pruden:? te,ft l'amante infano, flC fe
quello non loderà, flC queflo non biafimerà (le Squali cofe fenza dù bio
alcuno, ne uengono di neceffità ) poffi nel proceder fuo dir cofa alcuna, che
alle prime fia corrifpondente (Non di meno io giudico, che quefte fimili cofe,
che di neceflìtà ne fegucno, fi habbiano à rimettere nella uolòta de gli Scrit
tori,ficfe non le dicono, gli fi pofTa perdonare: per ciò che di queftj tali
non fi dee lodare la in:^ uentione,man bene la difpofitfone.Ma di quel le
cofe,che neceffanamente non fi concedono, flCcIie difficilmente
firitruouano,non foìo pèfì55 fo io, che fi babbi à lodare la difpofitione^niala
muentione anchora. F E D. Ti concedo che fu uero quello, che tu dici: per che
mi pare, che tu habbia detto apprcfTo che bene, OC ioanchora intendo non
indugiare k fare quefto.che hai detto: « però ti concedo^che tu prefupponga,
che un' amante fia peggio trattato, che uno che Jima. Hora fe tu nelle altre
cofe,che dirai, mi fass rai fentire p/u dotte ragioni, flC più degne parole che
egli nò fece, ti prometto, che ti farò una ftass tua d'oro nella Olimpia
apprcfTo alle ftatue de gli fucceffori diCipfelo. SOCR. Tu liai Fedro forfè
hauto per male, eh' io habbia ripres: fo un'huomo tantoàtecaro,ma io mi burlaua
teco. E penfi forfè tu, che io fia per pigliare(la:i fciamo andar le baic)un
imprefa di hauere à di^ recofa alcuna più elegantemente di Iui,che.c fauifrimo,C£dottiffimorF
ÈD. Tu fei ritor* nato Socrate mio in un medeftmo, dicendo que fte parole. Tu
hai da dire in ogni modo quel, che tu fai;ft eoe potrai: flcfopra tutto
auuertifct^ che in quefto noftro ragionamento non ci con:» uenga fare quel, che
fanno coloro, che recitano le Comedie.ciÒTè rifponderci troppo fpeiTo T un 1
altro;il che é.fccondo me.mokftjflimo. E non far fi, che io fja sforzato à
dire, come tiJ,pòco fi dicefti. Se ici no fapefli chi fufle Socrate, potrei
dire dj non conofcere anchora me ftefTotperchc certamente fo,che tu hai
defidcrio di fodisfarmi: ma tu uuoi fingere, che quefta cofa ti fia difficii
k,'Et per dirtela, finalmente tu hai da penfare, che tu non Tei per partirti di
qui ^ prima che tu non mi habbi dette tutte quelle cofe,che tu dirs ceui fapere
migliori di quelle, che hai udite: pei! ciò che tu uedi,che nei fiamo foli,(3C
in luogo re moto.fiC regreto,fiC io fon più giouane,(!f più ga gliardo di te.
Si che per quefte cofe tu puoi ìn^ tendere per difcrctione quel, che io uoglia
infes? rire: ne uoler più tofto hauere i ragionare sfor^> zatOjChe di tua
uolontà.. S O C Io lo fo mal uolentieri.-perche io conorco,chc io farò degno
delTer beffato, fe io, che fon rozo flC fciòc co al poflibIle,uorrò coptcdere
con uno cofi per fetto Scrittore, flC fe io uorròalla fprouifta difpu tare di
quel mcdefimo,di che eglipenfafamentc ha ragionato. F E D, Sai tu f^gmc la co(a
ua^ Lafcia andar quefte cofe meco: per che io credo quafi hauer trouato una
uia,|) la quale io ti con durrò.flC sforzerò à dir quel, ch'io defidero, Soc.
Non mei dire di gratia. Fed.Come no mei diref anzi Io uoglio dire, io mi
uolterò alli giurameff^ poi che alfro non mi naie. Io ti giuro per qatW iddio
clie tu uuoi, flC anchora,fe ti pare, per quc fto Platano, che fe tu non dici
quel, che tu fai al la fua prefentia,fiC fotto quefta fua ombra, io da qui
innanzi non ti moftrerò.ne ti manifefterò mai più oratìone di perfona alcuna. S
O C R. OfceIerato,chehaitudettor'Ocomc bene hai ritrouato il modo di sforzare
un'huomo defide» rofo di udire orationi,come fono io,à fare queU lo,che ti
fuffe in piacere, FE D. Hora fe tu ne fei, come dici,cori defiderofo,che indugi
tu più? S O C R. Io nonindugierò più lunga^ mente, poi che tu4iai fatto un
fimil giuramen:? to: per che come potrei io uiuere.fe io fuffe pri uo di cofi
dolce cibo? FED. Hor dì aduns: que. SOCR, Saituqucl,cheiouogliofa5: re? F E Che
cofa t' S O C R. Io dirò quel,che io intendo dire, col uolto.fiCcol capo
coperto, per dire più pretto: per che fe io mirafs fi a te, farei impedito dalla
uergogna. F E Di Pur che tu dica, fa quello, che fi piace. S O C R; Hor fu
dunque ò Mufe dolci, il qual cognome ui fi dà perii modo del uóftro cantare, ò
uero perladolceza della Mufica uoftra,la quale fi dolcemente fuona,fauoritc ui
prego,& aiutate quello mio ragionamento, il quale mi sforzai éitt quefto
huòino da bene: accio che poi che mi harà udito^giudichi anchora molto più pru^
dente il fuo caro amico Lina, che prima cefi uìó gli pareua* T V haicla
fapere,chefik già un fanciullo^anzi pure un giouane di gen:i
tiliflìmoafpetto:coftui haueua molti amanti^ tra li quali un'huomo certamente
allato gli diede ad intendere, che non Tamaua^nc per ciò punto meno de gli
altri il fencua caro, fif gli uo leuabenc.Hora auucnne.che un giorno egli lo
pregò, che al fuo defideno compiacer doucli fe,flC per impetrare quello, che
egli domanda» ' ua,gliprouò che maggiormente fi doueuafare cofa grata à colui,
che non amaua,che à colui^ che amaua • Et per farglielo intendere, gliCi moflrò
con quefte ragioni » In tutte le còfe fall v^>^^> ciuUo mio à coloro, che
confultar bene,ò difpuf-^'^-^\ tar uorranno,fa di bifogno hauere un folo.qjìj
roedefimo principio, quale è il conofcere,flC insK ^ ^/ tendere che cofa fu
quella, intorno alla quale fl'^;:^ ^o' confulta, ce difputa: altrimenti è
neceffario in tutto errare» E fonomolti,chenonfi accorga:» no di non conofcere,
ne fapcre la fuftantia della cofa, della quale ragionano; fif cofi come fc
egli» nolafapeffero^nel principio della difputaloro ' altrimenti non la
dichiarano: tal chenel lor pioi^ cedere ne feguc,come è hccefTario che
inferuerii: ga.che eglino dicano cofe fuor del loro propos: fito^adagli altri
male intefe. Adunque acciò che ne à me, ne à tc interiienga quei, che in al::
^rui biaCimiamo,pofcia che egli è hora differctiìi tra noi, Te fi dee più tofto
pigliare Tamicitiadi colui, che non ama, che di colui, che ama, farà buono che
uediamo, che cofa fia amore, & che forza egli habbia, dandogli qualche
difFinifio^ ne, alla quale l'uno, fif l altro di noi acconfenta» tt cofi dipoi,
hauendo fcmpre 1 occhio, flC ogni. fìoftio argomento drizandoà quella
dijffinitio:: ne, confideraremo fé egli dannoso utile near^ reca. E adunque
ccfa manifefta a ciafcuno,che l'amore altro non è, che un certo defiderio. Sap
piamo anchora,che fimilmente queni,che non ainano, hanno queflo defiderio di
cofe belle, fiC buone. Per intendere aduBque in che fia diffe^ rente l'amante
da quel, che non ama, tu dei fa:5 pere, che in ogni perfona fono due idee, le
quali ci fignoreggiano,ó: doue più li piacerci uolta^ no Je quali noi fumo à
feguitare sforzati ouunis que elle ci conducono. Vna delle quali infiemc con
noi è nata.fiCqucftaè j1 defiderio de i piacer ri, L altra T-habbiamodopo il
nafcimento noftro acquiftata; fiC quella è quella opinionc,che ne gli ììiiomfni
(5el fonimo Wne fi ut je,per fa qn* ic tanto afìetfuofamc'jntc lò defider/arho.
Qaeftft: alle uoltefono in noi fra loro amiche, alle uoltèi' in difcordia fi
truouano,& bora quefla uince^ feor fupera quella Quando adunque quella opf
fìione del fortìmo bene, cÌ>e difopra hò detto^ dalla ragione guidafa,à qrfel'lo
ciie è nero b^nc^; •ci conduce, uincendo il defideriode i.piacen\ quefto'nTodo
di uiirere fi domanda femperanfiaS ma quando quello sfrenato defiderio, lontano
al tutto dalla ragione, ci fpingc.flf sforza à feguià tare ipiaceri,& amai
grado noftro fi fa di nof ^padrone, quello fuo imperio fi domanda libidi^si w:
ài efTcndo h libidine di moìu fòrti, £(ha^j uendo molte parti, anchorà è
nominata in molss li modi. Et di quelle molte forti di libidine, chfi io dico,
quella cbe più ch'altra T alc'unb fi ritrud ua,dj à colui quel nome,col quale
ella é chiais mata me può à coloro, li quali ella fignoregà già, nome alcun
dare bonefto,ò buono- per chè quel defiderio, che intorno alli cibi uince
&Ia ragione, fiC ogni altra uoglia,fi domanda golo^s fità: 8C colui;che ha
in fe quefto alt pigi ian:^ do il.nome medcfimo, fi chiama golo(o, Anà chora
quel deficlcno, che intorno al bere,d'ù'à no fi impadronifcc^è co(a chiara, flC
maiiifefta^donic fi douerà chiamare, fiC anchora che nome liauerà colui, che da
tal noglia fi lafcerà uincere: àfimilmentc pofTono cfTer chiarina manifefti. ì
nomtde gli altri defiderii congiunti à quefti. Hora io penfo,che quafi fia
fcoperto.perqual ca gionc 10 ti habbia dette quefte cofc, ma uoglio io tacerlo.
òuoglio dirlo.'' Io lo dirò pure, per elle più fi intende una cofa à dirla, che
à non dirla. Et pero dicp,che quel defiderio priuo di ragione, il qual
fupera,&: uince quella opinion: ne, che è Tempre al giufto,fiC all' honefto
indirirs zata,a ci rapifce à cercare il piacer della belles: za, quindi col
moftrarci quei diletti, che dalìa bellezadiun corpo fi cauano, pigliando non
piccole forze. fiC rinfrancandofi, ci uincealtutrs to>flC ^^^p^t^aquel
defiderio, dico é detto ^§cù9» ciòèamore,daf 6J/^K?,che uuol dire gagliardia.
Parti egli, tedio mio caro,comc ì me, eh' io habbia détto diuinamente T F E D »
Certamente ò Socrate che fuor del tuo folito,ti fei non fo co:5 me più
ampiamente allargato. S O C R. Taci adunque,^ odimi; per ciò che qucfto luogo è
certamente diuino,flC pero non ti marauigliare, fe nel parlare farò dalle Ninfe
di quefto luogo iafpirato à dire cofe diuinc: fif tu puoi hauer co
fiofciuto,chequci]o,che iopocofa,diceua,non fono Tono (late molto difllmili da
i uerfi Ditirambi ' che fogliono dire le facerdoti di Bacco all'horaj^, che dal
loro iddio fono ripiene di diuinità^ FED. Tudiciiluero. SOCR. Di que? (le cofe
ne fei cagion tu fenza dubio alcunormk odi quelle cofe, che reftano, accio che
io non nji fcordi di quello, che hora me fouuenuto,al che fo certo io che iddio
mi aiuterà, ft no mi ufciran no di mente. Et pero ritorniamo, feguitando il
ragionamcto noftro,al fanciullo,col quale. diao zi parlaua.Hora fanciullo mio,
noi habbiamo detto flC dichiarato che cofa fia quella, della quacs le noi
ragioniamo. Adunque hauendo feraprc- I occhio à quefto.confideriamo.lora quel,
che nercftaà dire,flCquefto è,Chegiouamento,Ó: che danno fia per uenirc per
cagion di un aman te,ò di un che non ami,à colui, che gli ubidirà. E adunque
neceffario.chc un' huomo uinto dal la libidine, Sedato alli piaceri, cerchi
femprc con ogni fuo sforzo, che ramato più che altra cofa,gli babbi da piacere.
Sai àhchora che ad uno che é infermo,gli piacciono, flC gli fon gra^ te tutte
quelle cofe, che alla uolontà fua non re:^ pugnano, f5C quelle gli
fonomo(efte,fi£ difpia^ ceuoli^che fono di lui migliori, ò feno migliori,
ugualmente buone /£t pero efTendo T amante \t)fcmo,fìon potrà mai pafifc,clìe
uno amato jpaà lui uguale, ò da pia, anzi cercherà femprc- ^^uanto potrà, fìflo
da manco di lui.a più bifors ' ^^nofo. Et per che tu fai, che un ignorante è
d:a^ manco che un dct(o,8C d'un forte un'timìdo,* 'id'un oratore,© olequente
uno inelegante. fi(po^ co atto adire,» d'uno acuto, «uiuo ingegna
kinofcmplice,er fcioccho.fe qaefti,»: molti ali. |ri mancamenti dell' animose
per natura conofcè; Ìitfóuar(ì,ò per ufo in un'amato efTcr nati, ali Thora
godeva fi rallegra lamantetS: non gli bi ìftando quello, fi sforza anchor de
gli altii pro^:^ cacciargliene;altrimenti non gli pare poter ca^ Ilare dell'
amor fuo piacer alcuno. E adunque- HeccfTario, che un amante habbia Tempre
inui* ^laall'amato & rimoucndolo da ogni amicitia,^ ite da ogni
efercitio^per il quale "pò te (Te diuenà tare eccellente, bifogna che
grandemente glii inuoca; a k non gli nocelle per altro, per quei, ■fio al meno
gli è dannofc,che lo prfua di queli |a co6,che ne fa prudentflimr. Per cièche
la di iiina fìlofofia è quella.per la quale ueniamo pru^ "déntiffimi'dalla
ì]*tiafc lamanfe e sforzato rfmua ll^rc quanto può ì' amato, temendo Tempre di'
•pon effcre'fprezato da lui, fé pm prudente chft; V?li nQO è.diuentaiTe,.CC in
fomnia fi sforza f?r« ogni cofa,'pèr la qaale egli al fu((o ignorate dh
uenga.&fimaraiiigli folo di quelle parti, che ramante pofTiede. Qriando
adunque farà tale la niato,airhora farà ali amante carilIìmo,ma dans: nofiffimo
a fe ftefTo: fiC cofi puoi uedere,che in torno à quelle cofc,che al fapere fi
appartengo:?. no,è lamicitia con un'amante nocina. Debbia^ mo bora confiderare
in che modo colui, che c sforzato à anteporre il dilefteuole al buono, hab bia da
hauer cura di quel corpo, che egli ama,ca fo che a lui fuffe una tal cura
commefTa. Certas: mente che egli defiderà che quel corpo non fia fchietto,fiC
duro, ma delicato. & molle, non nus:, trito.aauuezo al Sole nelle fatiche,
ma fottò - l'ombra nelle dchcateze. Vorrà che fiaalleuato lontano da futri Ij
pericoli,» fatiche, che non habbia mai prouato fudore,» lo farà uiuere con cibi
feminili.ac delicati. Lo auezerà à crnarfi di colorila fàccia,» di
ftranieri,fiC nuoui ucftimeti la perfona,» à fimili altre cofe,le quali tutte
eù fendo dishonefte,» brutte à raccontare pia lun gamente,perpafrare ad altro
le lafciercmo an:? dare.Vn corpo adunque fi fattamente allcuato^ nelle guerre,»
in ogni altra pericolofa necefll^ ta,incmicì ficuramente uincono; onde li faci
amici,» gli amanti hanno femprc più paura, che à coftui qualche male n5
interuenga^che ad *ltri: ma qiicftacofa.efTcndo per fc fteffa cliias ra.lapoflTiamolafciarc
andare. Hora habbiama da dire che dannoso che giouamcnto nelle co^ fesche di
fuor uengonojaamicitia.flC laguar^: dia d* un amante ci arrechi, Qnefto adunque
è chiaro à tutti, flC nnafiime à un amante, che egli ' defidera.che il fuo
amato fia priuato di tutte quelle cofe.che egli pofTjcdeJe quali amiciflì^
lfte»gratiffime,tì:peift:ttiffimegli fono: perciò che egli defidera, che gh
fieno tolti li parenti,, Ce gli amici, penfan do che quelli gli dieno gran df
impedimento à goder la dolceza della ami^ citia dell'amato, Ol tra ciò
penfa,che un fanciul lo ricco dbro.o di qual fi uogli altra cofa,non poffi cofi
facilmente effere prefo d'amore: flC fe pure è prefo.uede che troppo lungamente
in quello amore non può durare. Et pero bifogna che un'amante^comejnuidiofo,fi
dolga della felicità dell' amato, flC fi rallegri della miferia del medefimo,
Defidera anchora,che lungo tempo uiua fenw moglie, fenza figliuoh\OC fenza
cala^ bramando goderfi quel pucere,che quando co:^ (Ifi ritruouano,foIamente
e/fj fentono. Sono ^^n(;hora molti altri mali in quefto amore, ma nel ia
maggior parte di quefti mali, come prima (i comincia i amar qualche fpirita
diuino,mefco5i. la fubifo un certo piacere, come ha fatto à uno adulatore, il
quale è certamente una dannofifljs: ma fiera, fiC una grandifljma calamità: non
di meno la natura ha mefcolato con quefta adulai tione un non foche di piacere
non al tutto da fprezare. Oltra di quefto farà alcuno, che biafi:s mera le
meretrici, come cofa noceuole^fiC altri fimili animali, ò uero fi fatti ftudi,
quali foglio:? no al prefente deiettarci, douc 1 amante non fo^ lamente è
noceuole^ma anchora nel praticarlo c moleftifTimo • Per ciò che tu fai, che il
prouerbio antico è. Che li pari facilmente con li pari s*a^ nifconorper ciò che
la ugualità dei tempo, della età di due(con ciòfiache per lalomiglian za de gli
anni conduca gh huomini à delet^ tarfi de i medefimi piacerijpartorifce
facilmente 1 amicitia.Ma ne gli amanti la età non pure non genera amicitia.ma
arreca un faftidio troppo grande: per che la neceflìtà in ogni cofa à cia^.
fcuno è mole{la,la quale più che ogni altra cofa è in uno amante uerfo T amato,
accompagnata dalla difTomiglianza de gli anni, Et che fia il uc ro,tu fai, che
amando una perfona attempata qualche giouane,mai ne il dì, ne la notte per fc
ftcffo da Uh partir fi uorrebbe,ma è coftretto dal la necefljtà.à; dalla
pafFionc amorofa^tt è fcm^prc dalle carcze de i piaceri allctfato.lc quali nel
ucdcre, l'amato gufta, ft pruoua nell' udirlo, ne! toccarlo. fiC in fomma nel goderlo
con qual fi uogli fciitimento: tale che con grandifTimo fuo piacere fempre fi
ftudia compiacergli. Ma r amato da qual forte di piacere, ò da qual follai zo
potrà effer trattenuto, che in ogni modo egli non fu da grandilTima molcftia
oppreiTo.^ Eflcn do fempre sforzato mirare una feccia d' un huos ino di
tempo,flCbrutto.<5C molte altre cofe.che Don folo à colui fono molcfte.à chi
elle intera ncngono,maanchoraà chi l'ode.tiouatc folo per una certa
neceflità.che ha l'amante di farfi r amato bèneuolo: flC qucfto è l'effer
fempre disf lìgentemcnte guardato quanti pafll faccia, l'udì re ogn' hora
quelle faftidiofe lodi.tt quelle ima portune riprcnfioni, delle quali fempre
gl'aman* ti abbondano, flC con le quali ogni giorno li ma ' Iettano: le quali
cofe accafcandoà uno, che fia padron di fe.fono però intollerabili: ma à uno,
the è fuor di fe,come uno amante, non folo fos no intollerabili.ma anchora per
la troppa licerla tia,chefj pigliano di dire apertamente quel, che- gli' pare,
fono brutttffime. Oltra di quefto men» tre che uno ama, è fempre dannofo.flC
importa* no: ina quando poi ha l'aujor fine.diuenta perI auuenirc contra dj
quello poco fedele, quale.,.con molti giuramenti, flc preghi, & promcflc ^
pena potè condurre. che egli dalla fpeme di pre mioàciòperfuafo.fidifponcflj à
Apportare la moIeftafuaamicitia.Ai fine quandòpur glie concelTo ritornare in
fe.fi rifolucà pigliare un nuouo padrone,ac ubidire ad altro fignore: £C cofi
in uece dell'amore.a: della pazia.feguita lo intcllctto.a la ragione.* la temperanza;
onde ùtto un altro,cerca fempre dall' amato fuggire, <f afcondcrfi. All'hora
l'amato ricordandofi del* le cofc die tra loro fi fono dette flC fatte, de i
dati beneficii la mercede domanda, penfando che la mate habbia feco à ufar le
mcdefime parole,chc prima ufaua. Ma l'uno per la ucrgogna non ar* difce
confe/Tare d'elTer mutato,ne fa tronarc in ' che modo egli fodis6cci alli
giuramenti, A pro:^ mefle,che mentre fotto la crudel fignoria d'amo refi
ffouaua.inconfideratamenfc fece: « teme, «flendo già diuentato temperato. &
nhidictc alli ragione, facendo le medefime cofe che prima.di non diuétare il
medefimo.che dianzi era. £t di qui nafce.che colui. che poco fa. amaua, bora ua
da fuggcndo.ac fchifando l'amato.ft mutatofi di fantafu.fi allontani da lui.come
fe un di coloro |u|fc,a cui il gittato uafo fw cafcato à contrailo. tome ben
fai.clic nel giuoco infcrutène, elici noftri fanciulli foglion fare. L altro
all'incontro è sforzato à feguifare T amante. flC parendogli pur mal ageuclc
cfler lafciato/j uolta al fine alle ma* le parole. Ne ciò gli accade contra
ragione.per ciò che nel principio quefto tale no fapeuaquan tomai fi
conuenifle, ce quanto poco lecito.» honefto fufTe à un'amante far cofa grata.
quale è di neceffità fuor di mente.» quanto ben fatto fu (Te compiacere à
un'huomo dall'amor libero, che fuor di fe non fi ritrouaffe. Ne tonofccns
dofimilmente.che fidandofi di un'amante.G fida d'un huomo fttano.inuidiofo,
moleflo, dannofo.a inutile, prima alla roba. «poi ai corpo.ma molto più
noceuole alla fcientia del* ■ l'aoimo.della quale nefTuna cofa è certamente.
pia oenerabile a appreffo Dio,» apprelTo gii huomini. Qucfte cofe adunque
douiamo fans ciullo mio confiderare.CC oltra di quefto fi ha da luuertirc.chc
l'aroicitia d' uno amante da bene» uolcntia alcuna non nafce, ma da una certa
aui» diùdi faturfi.comc gli a ffamati: & però ben diffe colui in quelli
uet6, fe^omeillupo l'agnello. Cefi un giouin l' amante ardendo brama. Qiiefte
fono ò Fedro quelle cofc.che io h Uf ua promcffo narrarti: flC però non uoglio
pa bora dire altro, ma farò fine al mio ragionamens: to,anchòra che io penfaua
d efTer folamcff giun toalmezodcl mio parlare, flC ci reflaffe à dire
altrettanto di quelle, che non ama,&piouarc che più torto fi haiièffi ad
ubbidire i un tale: oltra di quefto penfaua hauere i raccontare di quanti beni,
flC di quante utilità uno, che non ama,fia ripieno, F E D, Perche adunque fi
reftii' SOCR. Non hai tu confiderato,chc io non fo più quei uerfi Ditirambi,
che dianzi m'ufciuano di bocca,quantuque il mio ragiona:? meto fin qui fia
flato nel uituperarei* Hoia le io feguitado uolefli lodare quel, che n6ama,quan
tohobiafimato l'amante, che penfi turche io dice/Iìf' Non ti accorgi tu, che io
fono aiutato,, flC ripieno di fpirito dalle Ninfe di quefto iuos^ go,fiCper
tuagratia,fiC per aiuto diurno l'Per la qualcofaio concluderò breuemente,che
tanti beni fono in quello, che non ama, quanti mali ti ho moftrato truouarfi in
un'amante; ft però iion ci bifogna far più lungo ragionamento, ha:? uendo già
dell' uno, fiC deiTaltrò a bailaiiza ra^ gionato. Et pare à me, che la noftra
fauola hab^ bla hauto quel fine, che era conuenientc & pcs^ "
ròpaffando d fiunic^mi uoglio partire, prima D i i i the fu mi %(orz\ atìirc
quatcKc altra cofa piuvfm portante, F E D • Non ti partire anchora So^ crate,
prima che il caldo non fe ne uada:n6 uedi tu,chehoraè à punto il mezo giorno,
nel qual tempo è il caldo grandiflimoi^ Et peròafpettani: <Joqui^ 6C
ragionando infieme delle cofe, che habbiamo dette, come prima il caldo farà
mcinrs cato, ci partiremo. SOCR. Certamente Fe^ dro, che nelle tue parole tu
(ci diuino,fiC uerais mente mirabile: flC però io penfo certo^che dcU
JeOrationi.qualialtuoìtempo fonoftafe fatte, nefTuno ne habbia dato più
cagione, che tu,flC neiTuno altro à più Thabbi potuto pcrfuadere.ò aero
conletue efoifationii quello conducenrs |Cloli,ò uero in qualche altro modo
sforzandoli • Et certamente m quefto(cauatonc SimiaTebac no)tu auanzi tutti gli
altrirJC bora 'fecondo me) tu folo fei (lato cagione, che io habbia à dire di
nuouo,non fo checofe,che nella mente mi fo^ no fopraggiunte. Il che facendo tu,
pollo dire, che tu mi facci una guerra. FED, Etinche modo ti fo io guerra flC
che cofe fon quefte.chc tu mi uuoi.dire^ SOCR. In quel, che io uo leua paffare
il fiume, quel mio fpìnto fohto,chc tu faì,paiuc che mi faccffe lufato cenno:
il che ogni uol tacche mi accade^ nò è uietato fare quel lo.cJic fogia
farpeniaua,Quindi mi paruc udi:^ re una uocejaquafe mi liietana il partire.
prima che io non lùuefTe placato gli dei,cofl:ie fe con^:
fradiIoroIiaueflìconiiiìe(To qualche errore. Io adunque fono fcnzadubiohoggi
indouino,fiC flC fe io non fono cofi de buoni, fono al meno di forte^che forfè
à me farà affai, come battano, anchora le poche lettere a coloro, che male le
hanno apprefe, Lt però Fedro mio, hormai ip chiammente concfco il mio fallo:
per ciò che c,mi pare hauer neiranimo un no fo che, che mi indouini r
erfor,che,^ ho fatto. Et quefta cofa dianzi,mentre che ioragionaua,mi turbò
tnt^ to: per il che io cominciai in un certo modo à temere di non acquiftarmi
gloria apprefFo gli huomini del mcndo^all'hora che io contra gli iddìi
grauemente erraua (fecondo che già dilTe Ibico nella fua opera )flc bora al
fine conofco, come t'ho detto T error mjp. f £ D, Qnale er^ rorc è quefto/ S O
C R, Ò Fedro.un trillo ra:^ gionamento.un tritio ragionamento edro hai hoggi
mcfTo in carapo.fic sforzatomi i ragiona|C ne. FED. In che modqj' S O C R. E
(lata cofa ftoIta.dC empia, della quale che fi può egli più tpfto.a: noccuolc
ritrouarcs' FED. N is cnte.fc tu dici iJ uero. SOCR. Ohimè, non fai tu quel,
che fia amore i Non è egli fi^ gliuolodi Venerei Non penfi tu,che^gli fu uno
iddio 1^ F ED. Cofi fi tiene per certo. S O C R. Et non di meno Lifia non ha
detto.quefto^nc manco il tuo ragionamento, il quale non io, ma tu hai fatto:
per ciò che tu me T hai à forza canato di bocca, come per incanto, Hora fc
[amore è Dio, come e certamente, ò uero qual che cofa diuina.non può efler
cattiuo,& non di meno noi habbiamo parlato di lui, come fe fuÉ: fe cattiuo.
In quefta cofa adunque habbiamo peccato contra amore. Et certamente quefte no
ftre qùeflioni fono moho fuor di propofito,an^ chora che forfè paiano piaceuoli:
le quali non ritenendo in fe cofa alcuna di fincero,ò di uero, nondi meno fc
per cafo faranno approuate da qualche huomiciuolo di poco fapere, quelli, che
le fanno, fe ne gloriano, come fe fulTero di granrs de importanza. Hcraàme fa
di bifcgno per quefto errore, placare gli iddii: & hai da fapere^ che a
quelli, che nel ragionare, ò nello fcriuerc errano,è ordinato un certo modo di
placare gli iddii antico, il quale Homeronon feppe cono^ fcert.mafi bene
Steficoro: per ciò che efTendo (lato priuato de gli occhi, per che haueua
uituis perata Helena, conobbe come huomo amico del le Mufe.pfrqual cagione
cieco fu/Te diuentafo, il che non fece Homero; per il che fubito fece quei
uerfi,>^Non fu uer quel parlarne in l'alfe naui Fuggendo, andafle alle
troiane mura. Et cofi fatto un'altro poema di nuouo al conai trario di quello,
che prima comporto haueua,fu bitoglifurendutoil uedere.Ma io in quefto farò più
fauio d'ambe due loro, per ciò che in^ ^ nanzi che male alcuno mi interuenga
per il hh fimo, che all'amore ho dato, mi sforzerò dire il contrario di quello,
che tu hai udito r il che fa^ ' cendo mi uogli fcoprire il capo, flC non uoglio
tenerlo per uergogna afcofo,come ho fatto nel mio primo ragionamento. F E D. Tu
non mi puoi fare ò Socrate il maggior piacer di ques fto. SOCR.
Telcredo,perchetu tidebbi ricordare con quanta poca uergogna habbiamo letto
quelle cofe.che il libretto di Lifu contess "^Tieua,fiC quanto anchora
fciocchamente io hab^ bia ragionato di amore. Per che fe qualche huo mo di
generofo animo, modello, che al pre:s fente ama(Te qualche fuo uguale, ò uero
per lo addietro l'hauede amato, ci haueffe fentito dire, che gli amanti fanno
per Iteui cagioni nafcerc grandiiTime nimicitie^flc che fono huomini in^
niàìofi^a noccuolia gli amati, certo clic egli harebbc pcnfato udire tanti
huomini auuezi fo Io,flCalIeuati dentro alle naui,liquali nonco:s nobbero mai
un uero,fiC gentile ancore: CC unaperfonafauia non ci concederà in modo alcuno,
che quelle cofe fieno Licre, che in biafmio d'sts: more habbiamo ritrouate. F E
D. Certo che,io crcdo^chc tu dicail ueio per mia fe. S O C R. Et però temendo,
che qualche huomo cofi fat^i lo, non rhabbia à fapcre, fichauendo anchorz paura
d' amore, defidero lauare^fli nettarela mea tc.ÓL le orecchie noftrc di quello
amaro, flC no^, ceuole ragionamento, cbe habbiamo fatto, con qualche altro più
foaue parlare, & al gufto no:2 ^ftro più giocondo. Lo fo anchora pergiouare
à lifia,perfuadèdogli che cglifubito debbia fcri:^ ucre.che più toftofi habbia
da fodisfarc à unoamante,che à uno che non ama, quando l'amor re è tra li
fimili. F E D. Sappi certo, che egli lo farà, per ciò che dipoi che ti barò
fenti to lo;:.dare l'amante, farà necefrario,che io lo sforzi à criuereanch
egliii medefimo. S O C So certo, che ti uerrà 6tto fin che durerai dVfferc co
mefei alprefente, F E D. Hor dì adunque arditamente. S O C R. Hor fu; douc è
egli quel fanciullo, col quale dianzi ragionaua,ac:s ito clic egh oofi ancìiora
cfue^o mio nuouo pire lare, che fe forfè non infendelTe altro cIa me^ cercarcbbe
anch' egli lemerariamente fare pia:: éere a.chi non Tama, F E D.
QLieftofaticiulis lohauendotelo finto,tì è femprcappreflo: gni uolti^che
louuoif SOGR. Fa aduns: quc conto fanciullo mio gentilesche il mio pr^ mo
ragionamento Cu flato detto dà Fedro Mirjs rinefe,figh(ioIo di Pitoclc,ÒC
queflo che hora di ro^da Steficoro.figkuolo di Eufemio,fauomo degno d' eiTere
daciaiciino amato.il qual ragio namcnto in quefto modo cominceifemo. Q^V E L
ragionamento non è uero,ìneI ^uale fi è detto, che per edere l'anì^inte pieno
di fiiWc^À quello, che non ama da tal furore lifae^s ro,fi debba mjggriormente
fare cofa grata m pri feotia d^i un'amante, à chi non ama, che per iì contrario:
per ciò che fe fuflè in tutto uero^che il furoretuifecattiuo,haremo per certo
ragioncj» uolmente parlato. Ma io ti uoglio dife,,ch^mol tì.ac grandiffimi beni
ci intcraengonoper mcjs zo del furore, concefTo certamente folo iptxbt^
neficiodiuino.Etchcfia il uero^ucdiche pri-? ma quella Sacerdote, che in Delfo
predice il futuro, fiC qudla altra apprefTo Gioae Dodosc nco. fono
cefliflimamente ripiène di furóre^non di meno hanno Tempre date molte, C(gran
diflimc commodità i gli huomini di Grecia flC priuataniente,flf publicamcnte:
ma mentre che da tal furore fon libererei fanno o poco, ouero nefTuno
giouamento. Et fc io uoleflì horara^s gionare delle Sibille, &dituttiquegli
altri^chc hanno per uirtù diuina indouinato il futuro, flC feiotiuolefli dire
cjuanfo eglino predicendo molte cofe da uenirc,habbino giouafo, troppo farei
nel mio parlare lungo, ol tra che io direi co fa chiara à ciafcuno. Non di meno
par cofagiu^ (la dimofl:rare,che li noftri antichi, li quali pos: fcròi nomi
alle cofc.uiddero.fif conobbero, che il furore non era cofa brutta, o
uituperofa.che fc gli haue(Tero altrimenti penfato,non harebbo:^ ^ noqucfta
arte perfettiflima^con la quale il fu:s turo fi conofce, chiamata ^àyiKHv » che
tanto uuol dire, quanto furore diurno: per eie che il furore uiene à gli
huomini peruolontà diuina, & pero parendo k coftoro,chc fufle come è quers.
fto furore, un gran bene,à quefta fi honcfta arte uolfero mettere un fi
honorato norhe. Ma hogs gi quefti pia moderni interponendo i quella uoce un
poco confideratamentc hanno qn erto furore chiamato fuy-v7JH«f, che uuot ^ire
arte di ifadouinare.d: non furore. Et hai da fapcrc,chc il modo dello
indoufnarc il /ufuro^' che hanno gli huomini priui di quel furore dis aino,pcr
uiadegh* uccelh^flf delle conietturc, parendo à efli,chc procedere da difcorfo
huma^ nojl domandarono oÌovohsìkh: ma quelli, che fon uenuti dipoi, mutando Io
piccolo nel Io6)grande,]' hanno con più honefta uocc chiamato oiqvisihm • Et
pero quanto è più perfetto,a: più nobile lo indouinare per uirtù dinina,chc per
coieffure,flC per uccelli, tt qiun fo il nome diuino,chc è /xocvmK?, c più de^
gnocheThumano^cheè fMy^Kug, ftpiuun opera, che l'altra perfetta, tanto i noftri
antichi hanno detto, che il furore, che uiene dal ciclopc più degno, che la
prudentia^flC l'arte humana. Tu debhi purfapere,che già per riparare alle
grandi infirmiti. che ueniuano,flC per liberarci da qualche auuerfità troppo
grande, che alle uolte per gli antichi errori li popoli minacciai uano,ueniua à
una certaforted'huominique^ (lo furore diuino non fo donde. Et da
quellconfigliati,queirimedii ritrouauano,che erano alla falute loro
neceffarii^facendoli quel furore ricorrere alli uoti.& alli preghi, al raccoman^
darfi à Dio: per quefla uia impetrando mife^ f icordia/i rendeuano da ogni
infirmità.dCpe^ rìccio fahii CT per quel te nripo,* pcrquc1To,chc haueua da
uenifc: K cofi acquiftauano.fiC rice:^ iieuancpfrmczodi qucfto furore dal'
cielo la sflblutione del II errori loro, pur che di furore de gno,&: buono
fuffeflo ripieni. Il terzo furore è quello,che uien? dalie Mufe, il quale
rapifcc.J'i^nima altrui, anchor dafimile forza non più of fefa,a cefi la
fjfiieglia.flC k infpira. Per il che è per uu di cantico facccdo qualche
t^pbile poe fia, ornando con Ufuoi numeri, fiffcriucndouirs finiti ùtti òc gli
antichi, per tal uiainfegnaà colorii, che dopo Ihì uerranno. #Jf quello, che
fenzail furc^l■ delle Muk ha ardire di accoftarfi pure alla porta delb
poefia,fidajndofi per quaU che fuaingfgnofà arte haiieicà diuentar buoi^
poeta^ti d'jco,che qiicfto tale 4 fine farà tenu:^ to fciocco: a lapoefia di
un'hUdmoda que:s furore hbero, «i^fce finalmente uana, fit, fenza fugo alcuno,
i couipararione d/ quella^ che da un' huorao funofo è ritruouata. Tut:^ quefli,
a molti altri' nobilj/Timi effetti del. furor djuifìo tipofloio raccontare: per
la qual cofà noi non hsbbiamo hoimai più da temersi rè ua furiofo.Ne
aTgomento-^ò neramente ra:?- gioac alQU<w.CJllM da fpau.Gntarc^moftrandoci
clìepiu foflo fi Iiabbfa ad eleggere un'amico prudente, & fano,che uno
incitato, flC furiofo*. Ma lafciamo andare quefto.jMoftiimi coIlui,fc può, flC
in quefto uincami, che i' ancore non fia da Dio (lato truouato per utilità
dell' aman^s le.flC dell'amato. Doae io hora per il contrae rìogli
uog!iomoflTare,chequcflo tal furore e flato dato da Dio à gli huomini per una
gran^ difllma (cìicità.LsL qual mia dimoflratione à quelli, chehtigiofi fono,
& che ogni cofa tropss po minutamente uogliono' fapere,tt che ogni cofa
uituperano,fiCà ogni cofa appongofièf.fàà rà forfè incredibile: ma afii faui
farà il con^ frario. Ma prima che à quefto ucnga,ci fa di bifogno,confiderando
bene le operationi,fiC gli affetti dell'anima humana, fiC diuina, troitare la
uerità di quello, che intorno à lei fi può ra^ gionare,flC difputarc. Sari
adunque il princi:? pio di queda mia dimoftratione cofi fatto. OGNI anima c
immortale, per ciò che quella cofa, che fcmpre da fe fi muoue^queU. la douiamo
direefTere immortale: ma quella co^ fa,che altri muouc,tì: da altro è mofra,con
ciò fia che ilfuomoto fia terminato, ha anchora il termine, 6: il fine della
fua uita. Et pe:sr rò folamente quella cofa^ che fe (leda muoue/ per ciò che
mai non fi abbanclona.nonfi rcfta mai di muouere^anzi quella e fonte, ££
principi pio del moto di tutte le altre cofe.che fi muos: iiono.Ettufai,cheil
principio è fenzanakis: mento alcuno; per ciò che egli è neceffario, che tutte
le cofe^che fi generano, nafchino da un principio, flC quel pnncipio non ha
altro prin^s cipio: per ciò che sci principio nafceffe da qual che altra cofa,
non potrebbe gii nafceredaun principio, cfTendo il principio egli • Ma cfTendo
il principio fenza nafcimento.è necffTario che;inchorafia fenza mancamento, o
fine alcuno; per ciò che fe il principio mancaffe,© morilTc^ non potrebbe più
ne egli nafcere da un'altro,, tie un'altro rifufcitare da lui, con ciò fia che
fu neceffario, che tutte le cofe nafchino da un pria cipio. Se adunque il
principio è un moto,chc inuoue fe ftefro,queflo principio non può ne mancarcene
nafcere da un'altro* & fe altrimenti fuffe, farebbe neceffario, che tutto
il cielo man:s caffè, a fi diftruggeffe,flC ogni altra cofa creata» ^oltra di
quello non fi potrebbe mai fapere on^ de quefte cofe nafchino, & da chi
fieno moffe^ Adunque effendo chiaro, che quella cpfa^che fc flefla muoue^è
immortale, non harà da temere di due il falfo.chi affermerà che la fuftantia
del l'anima è cofi fatta;Ia ragione è quefi:a,chc ogiiìi corpo, che ha il nìoto
da altri,è corpo inanima:^ to. Ma quel corpo, che ha il moto in fe ileffo^.
& per (e fi miioue, quello è animato: fimilc» adunque puoi penfare,che fia
la natura dell'ara nima. Et però (e gli è uero.che altra cofa non fi truoui,che
in fe fle/Tafi muoua, fuor che Tanis: ma,di neceflìta ne fegue, che I anima Tia
fenzi principio, fiC immortale. Dell' immortahtà dela l'anima habbiamo detto
affai. Voglio bora u:: gionare della fua ideà;ò aero della fua forma,» ìmagine
in quefta guifa. Se io uolefli narrarti tutte le Tue qnalità,CJ particularità,bifognareb:à
becheio (i\([ì un'huomo diuino, fiC poi farei troppo lungo. Ma può bene
un'huomo motà tale,comcfonio,defcriuere una certa fimilitua dine,flC figura di
quefta anima, flC quella porre dauanti à gli occhi; & à far quefto,fari
cofa pia breue,che à entrare nelle altre diffic ulta, che nel ragionar di lei
fi ritruouano. Et però diremo per bora cofi, Facciamola per quefta uolta fimi^i
le à un carro alato, che habbia il fuo rettore: la qua! figura ci è affai nota,
flf (a intendiamo be:s nifijmo. Hai adunque dafapere.che tutti li cast:Ualh\flC
li rettori de i carri de^li iddii fon buo^ ni,tt nati df buoni •De gli
altri^che non fona fddii, parte fono buoni, & parte non. Primierajf. mente
colui, che dell'anima. della mente norx j ftra tiene il gouerno, raffrena,
guida, flf corrfg:^ geli duecaualli,cbe il carro noftro tirano con. le briglie
in mano.Oltra diquefl:o,un di quefti duecaualliè buono.fiC bello,flC nato di
ftmilfó Taltro è il contrario, & nato di contrarii. Per ii che accade, che
quefta noftra moderatione,flf reggimento di caualli fia di ncceflifà difficile
• Horamiuoglio sforzare moftrarti breuementc. perqual cagione fia detto
un'animale mortale, 6: uno immortale, Ogni anima ha cura di tuts?: i to il
corpo inanimato, flc difcorre per tutto il cielo bora pigliando una forma, bora
un' aU fra; fiC mentre che ella è anchora perfetta, « riaij tiene le fue ale
intere inalza in alto,fiC gouer:P na air bora tutto il mondo. Ma quella anima,
alla quale fieno per qualche cafo, come ti dirò^ cafcatc le 3lc,rouiDa al bado,
ne mai fi ferma, fin che non fi intoppi in qualche corpo fohdo,clic la ritenga.
Quando poi quella anima ha trouas^ to doue habitare,* ha per fua ftanza prefo
qual che corpo (errenp (il qual corpo fabitp che ha, in fe quefta anima, par che
comincia à muo^^ ucrfi,macpera lapotentia della anima, che lomuoue} muoue) ali
'bora tatto qucfto fi chiama ani? male: & qucfta anima unita infieme con un
cor po terreno (come ho detto ) U un'animale.il quale fi domanda mortale. Ma il
corpo immorj: tale fi conofce non per ragione alcuna per ora' didifcorfo
ritruouafa.ma quel, che fi dices'd fingono gli huomini da fe ftefli; perciò che
quefto corpo non lo habbiamo mai ueduto. ne à baftanza ci è maj flato dato ad
intendere, Ids dio adunque è un certo animale immortale il quale fenzadubioha
ranima.flcfimilmentc il corpo,flCquefte due cole fono liate per natura in
fempiterno infieme congiunte. Ma queflc cofé bifogna dire che fieno, come piace
i Id* dio, a ragionandone, à lui bifogna' riferirfcne. Hora ci rcfta à dire per
qual cagione le ale caa (chino all'anima. Tu ha» da fapere,che la nas tura.ef
il proprio delle ale di quefta anima.é il- leuare il graue in alto uerfo quella
parte del'cics lo, la doue habilano gli iddiU Sappi anchos ra, che di tutte le
cofe.chc in un corpo fi nst truouano, ranima,piu d'ogni altra cofa.della diurna
cognitione è participe. Qiiefta diuinità tengo io che fi pofli dire, che fia
cofa bella.iaa uia, bHona,flC ciò che i tali cofe c fimilc.Da quc* (lo adunque
prindpaimclìfc fc ale dell'anima fono nutrite,* per quefto più che per altro
crc:s fcono,flC mchora per le cofe brutte, flC trifte>ac per le altre à
quelle'contrarie, che di fopra ti ho dette, mancano, fl£ uengono à niente.
Oltra di quefto hai da intendere, che in cielo è un gran Principe^il quale fi
chiama Gioue. Coftui pd^ mo à tutti gli altri, guida con uelocità un fuo carro
alato, ornando, fiC affettando ciafcuna cofa,. ce con fomma diHgentia al tutto
procurandoé Dopo coftui feguita lefercito de gli altri iddiì^ femidei,fiC fpiriti
diuini, diuifo, flC ordinato in undici parti, 6C folamènte nella cafa de gli
iddii f cfta la Dea Vefta. Ma gli altri iddii (dico fola^ mente quelli, li
quali fono poftì nel numero de j dodici ) fe ne uanno ordinatamente, fecondò
che fono difpofti,& ordinati. Et hai da fapere^ che dentro al cielo fono
molti fpettacoli,fiC mol ti uiaggi,difcorrendo Intorno fi fanno diuinifTì^
mi,& beatifTjmi: alli quali i beati iddii femprc ftanno intenti, &
ciafcuno fa quello ufficiosa! quale è fl:ato pofto,CC che gli fi conuiene.fiC
cofi ua feguitando ciafcuno iddio fempre potendo ugualmente,* uolendo: per ciò
che dal diuin choro è femprc ogni inuidia,* ogni maleuolen tia lontana, Quando
poi fe ne uanno al celeftc cofluifo, ce à guflarc le diuinc uiuande, all'ho::
ra inalzate, & già in alfo afcendendo^caminano per la circunfèrentiade i
cieli. Li carri delli do5 dici iddìi bene accónci, flC aflettati, con le
briglie de i caualli uguali, flf parimente da ogni banda pefando, fàcilmente
caminano. Ma gli altri carri che cofì no fi truouano.à fatica fi poflono muo
uere: per cicche quel caualio trifto è dalli uitii aggrauato,6C cofi uerfo la
terra fi p^^ga, & feco il carro, & il rettore à forza tira.fiC quefto à
quelsj li rettori interuiene,che j1 caualio non buono, hanno troppo
ingraflato,fiC alThora patifcono le anime una fatica eftrema^fic fono in un
graridifs fimo combattimento. Per ciò che quelle anime; che fon chiamate
immortali, ciò è quelle, che no fono dal trifto caualio sforzate, quando
allafom miti giunte fono,allontanatefi dalle altre, fi fer mano nel dorfo del
cielo, fiC quiui pofatc,fono dalla circunferentia attorno rotate: ft quefte
fos: no quelle anime, che ueggono quelle cofe,chc fuor del cielo fono pofte, Et
quel diuino luogo (opra tutti li cieli non è anchorada alcuno dei noftri Poeti
flato fin qui lodato: ne alcuno fi tro uerà,che mai quanta egli menta, lodar lo
pofla. Quefto luogo è fatto in un tal modc(& mi met^: to i dire quefto; per
che parlando della uerità, pofTo tiene hiuctt ardire di dire il acro ) è adun
que fcnza colore, fenza figtira alcuna. non fi può toccare.è una cfTcntia; la
quale fola fi può dire.chc ucramcntc fiaft qucfta effentia fola» mente li Icrue
dello intelletto, guida, flf gouer^ Inadore dell'anima, il quale intelletto
femprc fta in continoua contemplatione del (omwo bello^Etla uera fcientia,
flCil perfetto fapere altro luogo non ha, che quello, che c pofto ins: torno i
quefta effentia ucra,£c nella fuacognfc ttònc. Come adunque il penficro^a: la
contems plationc diuina è poftafolo intornò i un'ina tellettopuro,fiCà una
fcicntia immaculata, cefi il penfiero, flc la contemplatione d'ogni ani^: '
ìna,che habbia i pigliare che corpo, ò forma fi uoglia (pur che à lei fia
conuenientc ) rifguarp dando per qualche tempo in quella efienfia, che io dico,
che fola fi può dire che fia contea!? ta della contemplatione della uerità,di
quella fi nutrifcc,a: di quella fi con tenta, fin che un'aia: tra uolta la
circa nfercntia aggirandola, non la ritorni in quclmedefimo luogo.Et in quefto
fuo aggiramento uede la giuftitia, con tempia la temperanza, fcorgc la
fciehtia, K non uedc (jueftc uirlù come generate/flCpoftein uno,ò^in un'alfrc
(Ti comé potiamo dire ) che fiend quelle. che noi qua giù confiderandaci paio^
nouirtù,ft cofi le chiamiamo, ma uede quella iiera fcientia, che è in colui,
che folamcntcfi può dire che fia.-flCinquefto medefimo mo:s do ucde, flC
contempla tutte le altre uirtù,chc fono uirtù ueranente. Quindi di quefti cibi
nutrita, a fatia. ritornando di nuouo dentro al cielo, fc ne ritorna à cafa,
dalla quale dianzi fi parti: flC dipoi che è ritornata, il Rettore mets: fendo
li cauallr nella ftalla à ripofarc.gli da:per cibo T Ambrofia. (JC gli fa bere
il Nettati:rc,fif quefta è la uità de gli iddii/te altre ani^.-jne poi, alcuna
che dirittamente ha gli iddìi feguitato,6tta che è à lorofimile, fa tanto, che:4inchora
ella inalza il capo del fuo Rettore à ^uedere quel bellifllmo luogo, che
iotihodet^: oefTer fopra li cieli rftcofi ancho ellainfies» me con gli iddii è
dalla circunferentia de i cicjs li aggirata, a portata, ma à T ultimo dalli
cauals: li e trafportata fuor della uia: talmente che à grandiflìma fatica può
mirare quelle cofe, che in quelli Iuoghj,di uentà piene fi ritruouais no*
Alcuna altra anima hora il capo del Ret^ Jore in alto leua^tt hora la abbafTa:
onde daU £ ini Ifcaiialli sforzata, parfe ucde quel bcne,flf parte non. Et le
altre anime tutte ugualmente defiderando ftar di fopra.feguitano quefte tutte
ins, fj fiemc confufamente: a non potendo in alto le:: I uarfi,premendofi tra
loro, fono à torno portate: ! fCcalcandofi^ficrunaialtra fpingendo,ft ciafcu i:na
quanto più può di pafTare innanzi sfor7an5; dofi, fanno tra loro grandiffima
contefa:.onde j ne nafce un romore,un. combattimento, una fafica grandiffjma:
nella qual con(éfa,per uitio, ce difetto de i rettori, molte fi azoppano, molte
delle altre rompono le penne delle ale,a al fin tutte dopo un;i lunga, flC gran
fatica, fen za p 0:5 ter pur uedcre quella effentia diuina.che io di:^, co, che
è ueramente,fi partono, flC dopo quefta lor partita fi pafcono folo d'opinione,
non potendo quel fommo bene per altra uia conofcerc: a ciafcuna fi sforza,
quanto può, di poter haue:5 re quefto cibo,defiderando conofcere doue fia il
bel campo della uerità. Per ciò che di quefto prato la natura dell'anima per fe
fteffa ottima, xaua conucniente cibo,Cf di quefto fi nutrifcc la natura delle
ale,con le quali in alto fi leua^ La potentia diuina poi (la qual non può in
al:^ <un modo fallire ) tiene quefta regola, che cia:^ felina animaja quale mentre
che gli iddii ac:$compagnaua.C6mpagnaua,puotc ucdèrc qualche fcintiTIa del la
uerità,quefta tale dico, uuolc che per fin che un'altra uolta non fia dalla
circunferentia aggi^ rata (come ho detto difopra ) fia fuor del perb xólo di
perder le ale, òdi riceuere danno alcu» no:fiC fe Tempre potefle girando quella
uerità uc •dere,non farebbe mai in parte alcuna offefa,Ma fe non potendogli
iddii Seguitare, non fi fuffc potuta condurre i uedere quel fommo bene,flC per
qualche cafo contrario ripiena d' ebliuione, ce di malignità fuffe dalli uitii
al baffo aggraua:^ ta,flC in queftoabbaffarfi.a deprimcrfi rompete fi le ale,
fiC cefi rouinando in terra cafcafre,al2s rhora la diuina legge uieta,che
quefta tale anb ma la prima uolta, che qua giù à forma alcuna -s accoda, fi
uada ad accompagnare con la natus ra di beftia alcuna fenza ragione, ma uuolc,
che •quella anima, che molte cole fa in cielo habbia uedute^uadaà trouare
lageneratione d'un huo tno,che habbia da effer Filofofo,ò uero defiders rofo di
belleza,ò uero Mufico,ò uero d' un huo modato alle ccfe d'amore. C^ell'altra,
che non ^quanto la prima habbia ueduto, ma nel fecon:5 do luogo fu pofta,
comanda quefta legge, che difcendainuncorpo,chehabbia da effereRc per legge,
fiC ragioneuolmete.ò uero in un bua iao dato alle guerre, flC atto ad efferc
Impera^s <lore,ò Capitano ♦Quelle poi, che nel terzo Iuoj: go fi
fruouano.ordjna che fi mettino jn un huomo.chc habbia da efTere gouernatore
d'una Rcpubhca^òuero in uno, che debba difpenfa^ re,ft diftribuire la robba.ft
hauer cura della fajs miglia, ò in uno,chefia dato al guadagno. Quel
k.chcpiugiu tengono il quarto luogo, fe ne uarino in un huov(}o,Ql}€ hsihbìà da
durar ùth.ca,òaeroin uno, che fi habbia daefercitare in^: torno alla Medicina,
fif alla cura de i corpi.Quel Ic,che più di foltonel quinto luogo fon pofte, é
s'accoftanoà coloro, che debbono fare l'arte di indouinarc,òuero di augurare
per uia di facrb jficii,ò d'altri mifteri, Quelle, che la fefta fede
tengono,defcendono in un'huomo,che hab:s bia da diuentare pQeta,ò ucro in uno
di coloro, che fono nati ad imitare altrui. Quelle, che fono le feftime dalle
prime, uanno;fn uno.che habs biada efTere òartefii^e^ò agricoltore. Le ottauc
in un fofifta,òucro in una perfona plebea.flC iiile. Quelle finalmente, che nel
nono, flfultis: mo luogo fi ritruouano.fc ne uanno a diuentare uno, che debbia
efTer tiranno. Et in tutti quefli •fiati di Ulta qualunque giuftamente
haràmes». -fiato i giorni fuoi.dopo la morte harà miglior forte, clic quelli,
che friftamcnte fono uirtuH: flf quelli, che ingiufti fono flafi,uannOÌ pcg:^
|fóré fl'a(o,che colore), che fono ftafi buòni: pei d'oche non ritoma Tiinimatn
quel medefimo luogo,dcnde prima fi partì. più preflo che ih fpatio di dieci
hhirlia anni.Per ciò che auanti i queftofpatiodifefnponon può racquiflare le
àie, fuor che l'anima di coluj,che uitiendo hà fenzauitio alcuno atfefo alla
Filofofia,òuer«5: mcnfeha amato la helleza^fiC infieme grande^ ifnente
defiderafo la fapienfia: per ciò che quei ftefali arfime/enza dubio alcuno, dipoi
che ^treuolte fono paiTate mille anni (purché efs Icno^ uoglino dopo la prima
morte, tre uolte tornare in quefta uita ) all' bora hauendo rac» quiftate le
ale dopo tre milia anni,al cicl uo^ landò fi partono. MoHé altre aniine, morte
che fono, la prima uolta fono da Iddio gJu^ dicate, a dannate r ttcofi
giudicate, altre an^- dando fh^un'iù'ògo,il qaaTé ne! cèntro dcU la terra è
porta per punit»one delle anime cgitti tiue.quiui patono del fallir loro
meritcnoli pe:» he. Altre pòi dal giudicio dìuino innalzai te, in certo luogo
del cielo forio in quel modo trattate, che fi hannoqnagiu in terra uiucns do
meritato: flf poi tra mille anni qucfte due- forti d'anime, ritornando al mondo
fi eleggono una feconda uita,ec ciafcuna può pigli^rfi queU la forma, che uuole.
Quindi uienc, che l'anima humaha pafTa alla uita d'una beftia^flC dipoi
dunabeftiadiuenta di nuouo huomo,pur che quella anima fia (lata un'altra iiolta
in un'huo mo. Per ciò che quella anima, che non harà mai ucdutaìauerità,òpoco,b
a(rai,non potrà mai pigliare la humana figura: per che bifogna che quello, che
l'huomo mtende, l'intenda per me:s zo delle fpetie delle cofe,che dauanti gli
ii ap:5 prefentano.a quefte fpetie per uia di molte, ÒC uarie cognitioni nella
mente noftra raccolte, fo^ ijoalfine con difcorfo infieme pofte,eCc9m5s prefe.
Et quefta cofa altro non è, che la rimems: branza di quelle cofe,che già Y
anima noftra in C4elouidde,air bora che infieme con iddio era perfetta.-a
quando ella fprezaua quelle cofe,che noi fcioccamente diciamo che fono,riuolta
fola:? mente allcontemplatione di colui, che è uera^ mente. Per la qual cofa
l'anima folo del Filofoss fo meritamente racquifta le ale.per ciòchequan to p-r
un'huomo è poflibile,fempre con la mera móna fi riflringe,flC fi accofta à
quelle cofe^allc quali accoftandofi,(5f riftrfngendofi iddio, è di^ uino» Colui
adunque, che farà quefta confide^, ratione din'ttamenfe,&
ragioneuoImente,flC cefe cherà fempre di nempirfi la mente di qucfti cofi
pcrfet(i,fi£ fanti mifteri, quefto folo diucnterà perfetto. Et cefi diiiifo
dalli ftu di, che fanno gli altri huomini,flf accoftandofi alla diuinità,è th
prcfo,flC morfo dal uolgo,comc fe egli fufle ufci to di fe. Ma egli ripieno,
flC ebbro della contem plationc di Dio, non fi lafcia cònofcere alla mol titudine.
Per quefto adunque ho fatto io qùc^ fto mio ragionamento, il quale è porto
intorno alla quarta forte di furore-peri! qual furore quan do alle uolte uno di
quefti tali nel uederequa giù qualche belleza, fi ricorda di quella uera, che
gii uìde in cielo,rimettc fubito ralc,fiC cofi rimelTe che V ha, fi
sforza,quanto puo,uolando al cielo inalzarfi. Ma non potendo ciò fare^coje me
gli uccelli po(rono,guarda,flC confiderà pur uerfo il cielo, fprezando qucfte
cofe bade «onde ne è biafimato fiC ne riporta uergogna,dicendo:j gli
ciafcuno,che egli è poco fauio,flC ripieno di furore. Per la qual cofa quefta
diuina feparatio:^ • ne dell'anima dal corpo è fopra tutte le altre, che
interuehire ne poffano migliori, Et da ca:^ gioni ottime nata,d: non folo è
gioueuole à chi in tuttolapo(riede,ma à chi qualche poco ne participa. Et
coiui,che di quefto iurore fanto.tt |>uotio è ripiano, con ciò fia clic egli
afmrla bel:? ilcxa.quefìo ueramente fi può dire arhantc. Per ciò che, fi come
ho difbpra detto.ogni anis ma huroana già ha iieduto quelle cofe, che ue^
ramente fono: per ciò che fe non le haueffe uc jàiite, non farebbe difcefa in
quefto animale hu mano: & non, è f^c^le i tutte le anime ricor:i
darfidclfecòfedilàfù.per uedere quelle/cbc qui fono. Et prima lo poflono mal fare
quelle; che per breue fpatto di tempo fù in ciclo gli fu conceffo uederic:
dipoi non è conccfTo anchora ^ quelle, che nel mondo uenendofono fiate ina
felici, ce Ila nno hauto mala fortuna: di modo che corrotte da alcuni coftumi
cattiui.che qui pjgliano/ifccrdano in tutto di molte cofe (st^ gre,©: buone,
nelle quali in cielo erano gii ammacftrate. Perii che poche anime fi ritruor?
uano,che àbaflan2a delle cofe celefti fi ricors dino. Ma quelle poche quando
tal'hora qua giù- fcorgono qualche iomiglianza di quelle cofe^^ che in cielo
gii urdderò, fi ftupifcono, ftquafi cfcono di fe. Et non di meno non fanno don^
de quefto lor mouimcnto proceda; per ciò che non conofcono in tutto la
uerità.ne a baftanza fe ne ricordano. Ne pct/amonoi fcorgere,menp tKchcqyagiàftiaDoioin
quelle fi^ure,« imaa gini,fplrndòrucro alcuno di giuflitia, di tfmp< ranza,
fiC delle altre uirtù,che gl'animi npftji J)<^ norano.flC amano. Ma per
certi inftruirenti,fiC fxìczi imperfetti ofcuri à pena pochiflimi huomini
accoftandofi pure alle imagi ni> di iq^cl le uirtùcelefti,che nel mondo fi
ritruQuano, tifguardanoin qaelle imagini quella forte, di uirtù,che fimile
imagine gli. rapprefej?ta. ali' hora ci era lecitc,<X conceffo uedere una
chi^ riflima^flC pmiflìma belleza, quando con quel beato choro fegiutando noi
quella felice uìGq:» ne, 6: quella fanti/Tjma contemplatione. della quale
dianzi fi ragionai, noi infiemc conGio:^ ut,& ìt aìttc 2nitrìc inficmecon
qualche altro iddio, fecodo che era ordinato, pQtcmo con teni:^ piare la
diuiniti: flC quando à quelli miftcri,fl£ cofc fagre dauamo opera, li quali
potiamo ragio iicuolmentc dire efTer più di tutti gli altri miftc ri fagri,flC
beati, alli quali all'hora noi poteuamq attendere, quando anchora immaculati.
flC nò of fefi da mille mali efauamo,che poi habbianio in quefto modo
prouati.Onde confiderando all'ho ra quelli celeftì fpcttacoli cafti,femplici,durabi
li^tt beafi^poteuamo beniflìmoà tal fanto efcr^l tic fcruirc ftado noiin una
luce pura pun^ttfen M machia alcuaa,Iib^ri,&fciolti da c^uedo^chcWtor
chiamiamo <;orpo,il qiul crbifogna ì torno portarci noftro mal grado,
efTendo à quello le:5 gati,6f in quello rinchmfi à guifa d'oftnchej ce quefte
cofc non fi fanno, feno per uia di mc^: nicria,per che noi ci ueniamo à
ricordare delle cofe padatecdallaqual ricordaza hora io fon fpin to: ce
efortato perii defiderio) che ho di quelle xofe.che già ho altre uolteuedute,
ti ho fàtto queflo ragionamento, Hora la belleza(come ti ho detto ) quando già
erano le anime in cielo,^ Infieme con loro caminando rifplcndeua,fiC di poi,
chequi fumouenuti.rhahbiamo riconos fciuta, per ciò che ella chiariffimamente
rifplen:? de,& fi moftraà quel fenfo dellj noftri,che più •di tutii gli
altri ha in noi forza, flC quefto é il feri fo del uedere: per ciò che quello é
il più acuto di tutti gl'altri noftri fenfi^che permezo del tòVpo fon
cagionati, col qual corpo, flC con li quali fenfi non fi può cognofcere.nc
uedcria fapientia: per ciò che ella farebbe nafcere in noi ìun'ardentiffimp
amore di po(rcderla,fe un qual chcfimulachro,òimagine di ki dauanti à gli occhi
manjfefìamcnte ci fi pofgefTe: fiC il medefi mò potiamo dire di tutte l'altre
cofe,che fono degne de/Tere amate. Non dimenolabellezsi fok ha jpiu dellaltre
haute quella preminentfa^^ che ella più;d- ogni altra ci fi fa uederc,& piu
che ogni altra cofa ad amarla ci muoue. Et però colui, che dianzi non atteie à
quelli fagri miftc;? ri, ch'io ti difli,anzi più tofto e, dando qua gm^
corrotto da quefte cofe bafle^non cofi preftofi inuoue,fiC leua ranimo all'
amor di quella bels: Ieza,anchor che qui uegga una certa fc^iglian za di
quella, che da quella eterna il^ nome pi:^ ghando.pur belleza fi chiama. £t per
quello nel uederla non l'ha in ueneratione,flC non l'ha nora,maà guifa d' una
beftia.dato folamente al piacere, uorrebbe pure à quella belleza acco:5 ftarfi,
flC generare, & produrre figliuoli: fiC cofi importunamente afTaltandola,
non teme punto fargli difpiacere.ne.fi ucrgogna dandofi in prc:? dai quel fuo
difordinato appetito, pafTar gli or^s dini della natura, Ma colui, che alli
detti mifte;^ ri poco fa diede opera, fiC che già in ciclo con^ tempio, molte
cofe degne, flC (ante, quando egli uede un uolto ben fatto,ft di belleza diuina
ot^ nato, il quale perfettamente quella diuina, & uc ra belleza
rapprefenta,ò uero quando contems? pia nò pure il uolto, ma qualche altra parte
ben fatta del corpo, primieramente fi empie dihorrs rore,fiC tofto teme di lui,
come fe fufleunacofa (ckfte già dalui pa altri tempi u^duta: quindi più
minutamente rifguarclandolò come Iddio lifaonora.flC fé egli non temefTc di
edere accuiaj«; to per matto, ti dico che egli non altrimenti aUj l amato fuo
facrifìcarebbe^chc farebbe à una fta^r tua di iddio. Et mentre che egli pure il
contem pla/ifentequcU'hprrore. del quale era pieno, in fudore,fl(in ardore
conuertire, dal quale in brcuc tempo tutto fi truoua occupato. Per ciqr che air
hora,che egli per gli occhi beue quclU bcllcia Cubito tutto dentro fi riicalda:
dal qual caldo la natura delle penne della lua anima é co me matfiata,a dipoi
che egli è bene infuocai^ to,fi intcncnkono quelle parti delle ale,clic
pullular doueuano.ac che dalla dureza riftrctte, metano alle penne il poter
gernpogliare. Qjiianp do poi per gli occhi e ben penetrato il nutrìs; nicnto di
queftc alenali' hora il germoghar delle penne, che prima comincia dalla radice
i ingrof (àfC,ìmpetuo{amente per tutta 1 anima moftrarfi (i sterza per ciò che
Tcinima era già tutta dalle pcnne copcita.fif da quelle io alto foftenuta}
tak^^ in quello tempo ci anima tutta in grao dèiiìmo leiuore^tt uonebbe pure
inaizarii: flC non aitranrti che làccino ifanciuUt. quali allW u che pruni
mcttoiìo i depti^t^no da on certo iociOiC iMfitfi, aiiiciué dà un dolore delie
gicQ gfc moleftatì.cofi l anima iicl meffere le penne tutta fi commuoucflffi riempie
in un tempo dj piacere,» di moleftia. Per il che mentre che eia la uede un
giouane bello, beucndo per gli ocs chi quel piacere, «quel defiderio.chc da
lu|'t uiene,airhora inaflìata.come ho detto, fi rifcalr da,flC all'hora nó fi
duole. ma fi rallegra cifra mo do. Ma quando poi egli s allontana.flC che
quefcl li meati fi rifeccano.per li quali l'ala uoleua ufcir fuon.allliora
andi.fif riftretti.uiefano il gcrmoa gliare delleale: di modo che quefta ala
infieme2i con quello amorofo defiderio, parendogli elTcr dentro rinchiufa,
uolendo pur' "faltar fuori dai (e flcfTa, richiude quei meati.donde ufcìr
po* trcbbe.fif fa che di nuouo ne nafce ali anirra nó poco dolore. Et pe^quéfto
è tutta l'anima da ogni banda oii'efa,fiC grandemente dimoiata,» mal trattata Ma
ricordandofi poi di nuouo del? la ueduta belleza,in quello fi diletta.» di quel
Io folo fi rallegra. Et cofi da ambe due queftc paffioni infiemc mefcolate.ciò
è da quello sfor* zamento.ec impeto di rimettere le ale. & dalU maraiiiglia
della piacciuta belleza è in un fems po moleftata.Onde piena di
anfietà,<urio(à d/» licnfa flCè daqucftofuror in tal modo condotta, che ne
la notfc può dormire, ne il giorno in lue go alcuno fermarfi, ma quinci, 6f
quindi fi ags gira,fiC fi fbatte,mofra pure dal defidcrio di riue dcre quella
bcUeza, la quale di nuououedcn^ tìo,& beuendoquel defiderioamorofo per gli
occhi, CQmc ti ho detto, all' hora di nuouo apre, & ageuola quelle parti
delle fue penne, che prtp ma erano infieme riftrette.fic chiù fé: fiC cefi àh
poiché ella ha cominciato à rifpirare,fiCriha2: uerfi,à poco à poco fi hbera da
quelli ftimoli'i ft da quelli dolori, dalli quali prùr^a era offef^é Tale che
da quefto foaui/Tjmo piacere 6nto è in quei tempo uinta,che mai per fe da
quelli allet^: tamenti non fi partirebbe, ne altra perfona più appreza,chc
l'amato, ma fi fcorda del padre, CC della madre, de i fratelli, fif di tutti
gli amici ' fuoirttfe tal' bora (come interuiene ) manda in quefto amoremale.ft
confuma il fuo,non fe ne cura punto. Oltra di quefto fpreza tutte le
'.amicitie,flC dignità, che haueua fuo padre, delle quali gli fi farebbe tra
gli altri gloriato,^ fole fi contenta di feruire^fiC diefler foggietto àogni
''«olontà dell' amato, pur cbe egli pofTa efferaps: prefTo al fuo fuoco • Per
ciò che non folo honoi^ ra,ficha in ueneratione quefto b^llo,chc tgli ama^ma
anchora Io truoua ottimo medico d' gni fiu grauifTima paflionc. Quefto afFetto
adun qac,2(quefl:o mouimento,b giouane gentile, gìihuomini l'hanno chiamafc
ef^SiDC cioè amore. Et fe io ti dicelTe in che modo quefto amore è chiamato fu
in cielo dalli dei, certamen te,che per cfTer tu giouane, harefli ragione di
ridere. Et che fi^il uero, certi imitatori d' Hos: fnero compofero già due
iierfi fopra quefto amo re.cauati (come penfo ) dalli fecreti.flC mifteri
diuini,delliquali unoèin uenti affai goffo,flC poco elega n te, flC dicono
cofi, Chiamano amor uolatore i mortali. Li dei alato, per che à forza uola., ^
A quefti uerfi in ^arte fi può credere, in parte non: ma fia come (ì uoglia,un
tratto quefta^ che io di fopra ho detta, è la aera cagione damo rc,fiC lo
affetto, flC la paffione de gli amanti; Ci però tutti quelli, che ameranno, h
quali già fe^ guitarono Gioue,po(fono più fauiaméte,fiC più conftanfemente
portare il pefodi quello alato, che io ti ho detto. Ma coloro, che già
honoraro^ no Marte, Ce fu in cielo infieme con lui andoro^ no intorno, poi che
dall' amore allacciati fi truo^ uano,fe mai penfano di riceuere dall' amato in^
giuria alcuna, facilmente corrono à far dei ma^ lc,fi£ à uccidere; cefi
furiofamente ò fe ftefli, è gTi amati loro priuano uifa/SimìImfnfc eia fcuno
honoraquel roedefimo iddio, col quale già andò in fchicra: flC quello cerca
fcmprc quan to più può, in Ulta fua di imitare, fin che egli non fi lafda da i
uifii corrompere. & in quefto modo mena i giorni della prima fua uita,t3C
cofi fafto a gli amati fuoi^flC à gli altri Tempre fi mos: ftra, Et però cfaicu
nò, fecondo i coltumi fuci.fi elegge à amare uno, che à lui paia bello. Qujns:
di,comc fé quello fufTe il fuo iddio, fe ne labri^ ca una imagine.fiC
quellaorna & fa bella in quel modp,che fe à quclla,flC non ad altro idolo
ha:? uedeà dare honcri,flCà facrificare» Onde co:5 loro.che di GiòUe furono
feguaci,flf che quello honorarono, cercano d'amare uno. che Simiù mente habbia
T animo giouiale: fiC per quefto / confiderano, prima che l'amino, molto bc5:
nc,fe quefto tale è atto per naturatila FìIoì: fofia, òueramente al regnare,
alle quali cofe Gioue inclina. Et poi che conofcmto(o,fiC ri:^ truouatolo tale,
lo amano, fi sforzano con ogni ftudiodi farlo diuentare fimile al fuo iddio. Et
fe forfè eglino non fapeffero per loro quel, che à gli altri uogliono
inregnare,airhora ol:? tra modo fi sforzano, flC cercano di imparar fem:5 pre
qualche co(à per qualunque uia gli è con:s cef?o: flf coli infiemtf con gli
amati à queftrf coli honcfta.flclodeuole opera fi mettono, (alt che
diligentemente ricercando, fif in fc fteffi inue^ ftjgando la natura di quello
iddiojl quale ad honorarc fono inclinati tanto fanno. che al fu: re pur uengono
a capo di quefto loro honc;^ ftodcfiderio. Etnon'c ciòmarauiglia,per ciò che
eglino fono dall' angore sforzati à dirizarc la mente, ftconfiderare con
intentione gran^ dilTjnia à quel fuo iddio: di modo che pur al fine
ricordandofene, fono fubito di undiuino fpiiito ripieni: il quale fpirito fa,
che eglino pt^.glino coftumi, fif ftudi tali, che in brcuc tem^s pofi fanno
participi della cognitione di Dio, tanto però, quanto à un'huomo è lecito. Et
per che di tutte quefte cofe fanno che ne è cas: gione l'amato, ogni giorno più
ardentemente nel fuo amore fi accendono. Et fe cclloro th ceuono quefta
diuinità da Giouc (come anchoss ra le Sacerdoti di Baccho,cheda lui di furor
fono ripiene ) infondendola tutta ncir animo dell'amante, in breuefpatio di
tempo, quanto poffono.à Gioue lor proprio iddio, fimilifTimo Io rendono. Tutti
quelli poi, che già in cielo feguitarono Giunone, cercano per amato loro un
giouane d'animo regio: ilqual poi che han^ ìfìo frbuato.dfucntano Cmili à
*q!iclli\che di fos prati ho detto.fiC uerfo di quello operano in quel mcdefimo
modo» Oltra di quefto, quelli, che honorano Apollo, ò qualunque altro iddio,
ciafcuno il fuo proprio iddio, imitando, cercano ' tutti un giouanc.che per
natura habbi il medcsi fimoanimq^chc loro: il quale poi che hanno trouato,
prima il lor proprio iddio imitando, poi alli giouani pcrfuadendo,che li
medehmo faccino,flC moderandogli in ogni loro cperatio:? ne, fecondo il lor
fine, quanto le forze loro com portano, di condurlo fi sforzano alla imitatione
del proprio loro iddio, fiC alle loro fimili operai troni «Non portano coftoro
alli fuoi giouani ìnis uidia,òmaleuolentia alcuna, ma con ogniftu^ dio fi
sforzano di conformarli alla loro perfetta Ulta, ùmilmente a quella di quello
iddio^ che ambe due naturalmente honorano. La cura ' adunque, & il fine di
quelli, che ueramente fo5 no amanti (pur che eglino fi conducano à poÉs federe
quel,che io ti ho detto, che defidcrano ) fenza dubio alcuno altra non è, che
qucftachc io ti ho defcritta. Et è quefto fine per cagion del Tamtete per amor
furiofo in ultimo all'amato lodeuole, 2C feliciflìmo.fe quefto amato farifi^
inamente prefo d'amore, £t per che tu fappu irCome un amafo fi conofce dallamor
uinto.te Io;:dirò. In quefto inodo adunque qualunque ama ^(ofarà d'amor
prelo,fi conolceri. Nel prii ci pio di quefta noftr^. fintione diuidemmo ogni
anima in tre parti, flfdimoftrammo li caualli di;due lorti.ò: cofi
ppncmo^fpiDjC due parti dell'ai fili ma, li Rettore fu poi la terza parte.
Quefte me;defime cofe ci fa di bifogno cònfiderare al pre:? rfente,Già tu fai,
che di quelli caualli uno ne è buono, flc uno trjrto; ma qual.uirtù habbia quel
ivjibuon cauallo,fi(qual fia la malignità del trifto non Thabbiamo ar)chor
detto^flf però bora deb biamo dirlo. Il caual buono è di perfonapiu ^
j.grande,(Sf più ben formato, ben compofto,flCà »^artei parte tutto ben fatto,
con la tefta alta, le narici affai bene aperte, come quelle dell' Aqui^ 'la, di
color bianchifTimo.coJi gli occhi negri,. defiderofo folamente di honore, fiC
ripieno di temperantia,fiC di uergcgna, & amiciffimo del { aero; non ha
bifogno di ftimulc^òdifprone al:» ccuno^ma folamente fi regge, fl£ guida con l'
efor.Catione, & con la ragione. L'altro poi è torto, uario,CC malifTimo
fatto, di una oftinata "oglia, }{b col collo bado, ha il modaccio
fpàanato,^^ fchiaciato di color fuko,cò gl'occhi brutti,flC di color fanguigno
macchiatile garofo^bcftiale, con le orecchie pelofe OC forde^flf à pena
ubedi> fcc alle battiture, fiCalli ftimoli.Oliando adun^ quc il Rettore uede
un uolfo degno defTer ama to.fiC infiamma tutta I anima del piacere, che ne
fente,è fubito da una certa allegreza commofc fo, flC da certi ftimoli di
defiderio. all'hora quel cauallo, che delìi due è al rettore ubedienfe,co me è
fuo coftume, dalla uergogna raffrenato da fe fte/To indietro fi ritin per non
andar' ali amac (oàd doflo. Ma l'altro non fi può far reftare ne con gli
ftimoli.ne con le battiture, anzi auanti fi fcaglia,ft per forza il cauailo,che
è feco con^s giunto, ac il rettore infiemc rcompigIia,flCà/cit mal grado li
tira à uoler fentire il piacere, che da Venere fi caua. Ma quelli due nel
principio no l'ubidifcono,fdegnati che dal rio cauallo à cofc indegne &
ingiufte fieno à forza tratti.finalmefc lìoncefTando quello importuno diùxcil
peg^: g/o, che j può, sforzati purfilafciano portare, flC cofi gli cedono,
& Io contentano di fare quello^ che à lui piace; (ale che in qucfto modo fi
ucn^i gono ad accodare al piaciuto bello, flC uaghegs.giano tutti infiemc il
charo afpetto di quella, Ilqualpoiche ha bene il Rettorconfiderato, a poco à
poco della uera natura di quella bclleza Ti uien ricordando^& cofi un'
altra uolta^come già in del fece, col pènderò riiiede.mà u^clc quella nera
dalla temper^ntia accompagnata, fiC ftabilita nel fermo fondamenfo della
caftjia: però parendogli pur iiedcre quella uera,& diui na t'elfeza,
comincia di lei riucrentcmente à tc^r mere; flc dairhonoiT.che gli porta
uintojn tcx^ ra hufnilmente fi lalcia andare.-fiC facèdo qucfto, c sforzato di
tal forfè tirare le briglie delli due ca ual!(,che bifogna che k forra dieno
dellegropsc pe in ferrala uno di quelli per fe flelfc,ptf ciò che non fa ali'
incontro sforzo alcuno, ft l' altro, che è tiif(o,fiC beftiale,C! na al tatto
contrafua fcogliartì ariojifanandod poi da quella belleza^ iìV dì quelli per la
uergogna,d marauiglia grafi che hahauta,tuttaranifnadi fudor lafcial^a gnatafiC
laltro libero da quel' dolore, di che il tia rar del freno,5C il cafcar in
terra Thaiiea ripieno,i fatica può tr^it* il fiato.-ma poi eli e tn fe r
itornaK)', tutto da fdtgno comoffo il Rettore, & il cauallo feco congiunto
riprede, che per paura, fiC da po^ cagine di là fi fieno pattiti, doue egli
tirati gl'ha ue*i.Quindi non uolcdo però eglino ritornargli, di nuouo sforzadcglf,pur
al fine à fatica gli con cede, che con preghi da lui impetrino, che per fino
all'altro giorno fi indugi à ntornare!il quale ordinato tempo'uentndo, fingono
di non (e nt ricordare;.ma egli con tutto cicgh el rammcna ta,ftdi nuouo
sforzandoli, 2f gridandoli, flf df nuouo à forza feco tiradoli, pur li conduce
à uo Icr dire all'amato le medefime parole, che hieri gli differo. Ma dipoi che
più appre/Tati fi fono, egli torcendofi.flCabbafTandofi (tendendo la co
da,ftringeil freno, flCcofi furiofamcntc feco li tira. Ma il Rettore. che
l'altra uolta affai mags giormentehaueua lemedefimc forze fofFerto. pur in
altra parìe uoltandofi, molto più forte,. che dianzi, le briglie ritirala: cofi
sforza la dura bocca del triftocaiiallo, flC bagnandoli in que^s fto modo la brutta
linguacce le mafcelle di fan^i gue,lo butta al fuo difpetto di nuouo à ferra,
fiC còfi del fuo errore gli fa patir le pene, il che poi the più uolte hail
trifto cauallo fofFerto,lafcia pur al fine la fua pazia,fif cofi horamai
diuenu:^ to piaceuoIe,ubidifce alla prouidentia del Ret^ tore.flCinfiemecon
lui, quando l'amato bello rifguarda, tutto per la paura trema: di modo che
affai fpeffoauuienc, che egli feguiti le pe:^ date dell'amante con reuerentia,
flC honorc.flC quelle dell'amato con timore. L amato aduns que connfcendo efTer
dall'amante fuo, come fe à iddio fufTc uguale, ubbedito, flCofreruatò,fl£
ucdendo che egli no finge, ma è à ciò fare dalla inore sfor2ato(ac maffime che
ogni perfona ho^ fiorata, per natura pare che fia amica di colui,' che r honora
) al fine fi diTpone hauer la mcdc^ fima uoiontà,che l'amante. Et ben che
pnipai tt dalli amici fuoi,CC da quelli, che infieme feco ftudiauano,flC da gli
altri, forfè per dargli biafis ino,fufli flato ingannato, elTendcgli da quei
tali detto efTercofa brutta, che un giouane appreffo al fuo amante fia ueduto,
fl£ per quefto forfè habbia già l'amante da fe fcacciato,non di me^ no air
ultimo per fpatio di tempo &' la età, fiC r ordine debito delia natura del
fuo amante lo rendono amico: per ciò che non fi trouò mai, che un trifto non
fufTe amico d' un trifto,flC un buono d' un buono. Et però poi che un gioua-*
ne comincia à praticare col fuo amante, & afcoU ta i fuoi ragionamenti,
airhora facendo lamanar te ogni giorno più il fuo amore conofcere,sfor:j za
ramato à marauigliarfenc nel confiderare: che fe la beneuolentia de i parenti,
flC di tutti gli altri amici à paragon fi metterà di quella di un' amante
ripieno di furore, a di fpirito diui:? no, farà per certo di pochifTimo,© di
nefTuno momento. Et fe quello huomo di più età, che (ara amante, feguiterà in
queftaguifa per quaU che tempora: fempre « nelle fchuole,ft in fijs miìi altri
luoghi apprefTo all' amato cercherà ri^ frcnaifi,alI*hora il fonte di quel
liquore f quale già G ione, quando dall'amor di Ganimede fu prefo, dicono che
chiamò inf]ufroarDororo)qua le nell amante dall'amato belìo. più abbondanti
temente, che nell'amafo è infufo, parte nelTarJ mante fi uùz^Ct parte di fuor
traboccndo fi fpar ge.flC cofi in quel modo,che fapiamo fare laerc. ^ flC
quella ucce,ché chiamiamo Eccho,qua!e da qualche corpo c)heue,òfòIfdo
percoda/tn quel luogo, donde prjma fi partì, ritorna: cofi quello influffo
amcrcfo ritornando per uia de gli rechi i in quel bello. donde già fi lcuò,p€r
li quah egli hacoftume di penetrare alTanima noftra,di tali) forte
inaffia,& bagna i meati delle penne della anima delTamafo/che facilmente
po/Tono.fiC co minciano à germcgliare: flc cofi T amante lanist model fuo amato
ikmpie d'un corntpondentc ^ amore. Et di qui uiene, che egli ama, ma non fa
certo quel,che egli ami, ne conofce quefta fua paflicne.ne la può, ò (a dire.
Ma;ion altrimenti che fe perlagiiaLdafLU-i d'uno, che hauc/Tegli cechi mal
fàni, fi fei] ti ffe hmiimcnte gli occhi fuoiguafti, cofi non fa.dire ia
cagione di quella Uia infirmiti, ne fi accorge, che egli uede.a ua4 gbeggia fe
ftcfTo nell'amante. come in uno fpec «hia*Oi:ide cientre.che gli ci amante
prcfente^ fcnfc anch' egli mancare il dolore: fic quan dog, poi r ha lontano,
in quel modo, che egli é defi^ dèrato, altrui defidera: flC cofi in fe haiiendo
unt ìmaginfe ucra d' un cortifpon dente amore, non- più amore, ma amicitia la
chiama, flc cofi penfa^ chefia* Defidera adunque quafi quanto Ta^ mante (hen
che alquanto più moderatamente) uederlo, goder (empre deirefTer con lui,fiC
femprechegli è concelTo» cerca, flcfj sforza di farlo. Per jl che durando
quella pratica tra co:$ ftoro,iI cauallo trifto dell'amante al Rettore ri*
uolto, domanda per tante fue fatiche un breue, flCinhonefto piacere. Il cauallo
all'incontro del giouane non fa quello,che fi habbia à dire, ma tutto anfio^fiC
nell'amor commoflo,ama raman te tanto,quanto egli é amato.à: fi gode di luti
uer uno ritruouato^che tanto lo ami,£C di qucU io con lui fa fefta,&fi
rallegra. Et ftando iti quefta conuerfatione.è paratiiTimo quanto à lui è
poiTibile à ogni defideno dell' amante fcdif^ fare: ma l'altro cauallo col
Rettore inficroe.dalis la uergogna,à: dalla ragione ammaefiirati/ems pre in
fimili cofe gli tono contrani. Per la qual cofa fe coftoro, fecondo un giuftomodo
di uiuerc, fi: fecondo li ftudi della Filofofia^ fi empieranno di buom^belii^ft
Unti pcijiien^^.meneranno la uita loro feliciffima, flcbeata^con concordia
grandiffima.di loro fteflì padronf;^K in ogni loro affare modefti. Hauendo
quella parte foggiogata, OC uinta, nella quale fta tutto il ultio dell anima
noftra,a: per il contrario quel là altra libera, alla quale la prudentia,&
la bon^ tà fi appartiene. Et cofi al fine di quefla uita ha^s '^uejidogià le
ale racquifl.ate,ueloci al cielo uo^ landò fe n'anderanno, con ciò fia che
habbino uinto un combattimento delli tre, nelli quali fi fono ri{rouatì,come
hai innanzi udito, quale bc ne fi può dire efTere della maniera, che fon quel
li, che olimpici fi domandano; del quale bene nefTuno più degno può à gli
huomini arrecare l'humana temperantia,ò uero quel diuino furo^ re,chehabbiamo
detto. MafeqMeftì tali fegui^; fcranno nell'amor loro una uita brutta. fiC in
tut lo di Filofofia priua,& non di meno piena d am bitione,gli potrà
auuenire,che li intemperati cauallj asfalteranno le poco auucrtite anime lo^:
ro,nnientre che ò à qualche difordinato defideno fodisfaranno,ò mentre che in
qualche altra ma:: -niera licentiolamente perderanno tempo:& con ^ducendoli
pure à delettarfi di quelli piaceri^ nel liquali gli hanno troaati (ommerfi^lj
sforzerano ri fejguitare qudk forte di follazo^chc è dal uoU go perfettifTimo
giudicato. Tale che poi femprc fi daranno inuol(i,flf occupati nella fantafia
fodjsfare à quel trifto defidcrio. Ma haranno queftafodisfattione,che cercano
di rado: per ciò che il penfiero deir animo non confente tutto à far qucfto,
& però quefti fimili amici anchora f ben che manco amicitia fia la loro che
quella, che di fopra ho detto) fiC mentre che 1 amor loro bolle, fiC poi che
egli è eftinto infieme amrche^ uolmente uiuono; per ciò che tengono per cer^j
to di hauerfi lun 1 altro data una ftabiliffima ks de: flC però giudicano eder
cpfa ingiufta quel^ la fede rompere, flc doue già erano amici, inimiss ci
diuenìre. Finalmente quando poi alla natura cedono, fiC dal mondo fi partono,
non hauendo anchor mefTe le ale, ma folo hauendo cominciai to à mettere le
penne, non riportano poco pre^t.mio del loro amorofo furore. P^r, ciò. che la
diui^ na legge non uuole,che coloro, che già haueua no cominciato à caminare
per quel uiaggio,chc al ciel può condurre,difcendino nelle tenebre fottola
terra.Ma quelli, che qualche lodeuolc uita fanno, mentre che infiemc uiuono
amore^ uolmente, ac infieme rimettono le ale.comanda (}ue(U legge.che fieno
beati: di queflo ne c folo cagione amoVe. Tante adunquc^fl: fi fatte utilità
giouancmio gentile, dall' amicitia d'u^» fio amante, come da cofa diuina ti
faranno dars t2,Ma la compagnia di coluiche non ama,con:s / giunta folamente
con la temperantia del mons: do,fiC non con la diuina, come è lamicitia d uno
amante, & data in tutto ad atti,ft operationi mortali, fiC uili, genererà
nell'animo del fuo ami co quella licentia di parlare, che pare al uolgo
uirtù:fiC farà fi che dopo la fua morte preftamens: teanderànoue miliaanni intorno
allaterra,fiC fotto aggirandon,& errando. Quefta nuoua can zona,ò
amatiflimo amore, flc contraria in tutto à quella, che prima detta haueua.
quanto più dottamente, fif in quel migliore modo, che ho U puto,con paroIe,flC
figure poetiche, pereforta:/ (ione di Fedro in tuo honore ho cantato; per il
che perdona à quelle parole,che prima diffu, Etqqefte cofc afcoltan do, dette
da me con gra^s to ànimo^ benigno, flcfauoreuole mi ti moftra^ fiC non mi
priuare per qualche fdegno dell' arte damare, la quale già m'hai conceffa, ne
manco punto fcemar la uogli.anzi più tofto fammi gra tia,che per Tauuenire io
fia per que(la cofa più apprezato^chc per 1 adictro ftato non fono.oUra eli
qucflo fe io.ò Fedro co/à alcuna foco degna del tue bel nome habbiamo det(o,accofa
di ciò lifia.il quale fu primo autore del noftro ragios namento.acfa.che egli
per lo auueiiire più di fimili cofc non patii: JC riuoltalo alla Filorofia, '
^ome il fuo fratello Polemarco.acciò che Fes dro.chcfommamentc io ama, non
habbia da tenere bora una opinione, fic bora un' altra, co* me fino à hoggi ha
fatfo,ma più torto nello ftu dio dell'amore. & della Filofofia meni /
giorni della Ulta fua. F E£>. Ioanchora.fe gh è il •meglio, prego Iddio, che
ciò mi conceda. Ma io ti dico benejl uero. che io flupifco del ragios Bar, che
hai fatto, ucdendo di quanto babbiauanzato quel di piima: tale che io comincio
à dubitare.che il parlare di Xifia non mi babbi à parer ba(ro,«humile.fe forfè
un nuouo ragios mmento facendo, à qucfto tuo lo uorrà aiToes oiigliare, Et
uoglio che tu fappi,che pochiffB mi giorni fono, che un certo noftro cittadino
lo uituperò grandemente, folamente per qucs fto fuo fcriuere.* in tutu la fua
accufationc lo chiamaua, per largii ingiuria. Scrittore d'oratio* ili. Tale che
per qucfto potrebbe forfe,fe egli c punto defidcrqib di. hpnore.per lo aiuenire
•fteocriidircriucrc, $ 0 C R. Fedro que» Ha tua opinione c degna certamente di
rifo, ficfarcftimolto lontano dalla fàn(afia, & dals la mente di Lifia.fe
tu pcnfafli. chc eglifufs fc cofi timido. Ma forfè che tu credi, che quel fuo
accufatore dicefli il nero in tutte quelleco* fe;checon(raLifiadiflc. FED.
Certamente Socrate che à me parue cofi.ne anchora à te è oc culto, che
gl'huomini grandi, flC nobili delia no (Ira Republica temono, fiC fi guardano
di coms porre orationi.flC no uogliono.chc fieno uedutc fcritte,per non
moftrarc à quelli, che uerranno, dcÀTcr flati fofifti.effcndocofa facile lo
fcriuerc ttnaOratione. SOCR. A quefto modo ò Fedro tu non intendi il prouerbio
del gombito dolce, ilqual prouerbioc tratto dal lungo, fiC trifto gombito del
Nilo.flC debbi pen fare, che ^, dicendofi dolce, fia facile, come pare che tu
cress da, anchora che il fare Orationi fia di poca fiti* ca.eiTtndo però di
grandi (Ti ma. Et ne folamens te iiò fai quefta cofa.ma anchora penfo che non
ti fia noto.che quelli cittadini. li quali per pruss dcntia fono eccellenti,
attendono grandemente à fcriuerc Orationi.CC à fare che quelli, che uers
ranno,le po/Tino uedere. Etqueftì tali di mo* do amano quelle perfone, che
lodano le compo iitioni loro,che la prima cofa di quelli fanno
mentione.meutione.che hano ufanza dir bene delli fcrifs ti daltrui.douc 11
truouano. F E D. Come dici tu queftoJ'Io non ti intendo a mio modo •r. SOCR,
Non fai tu,chc nel principio d'un libro, che da qualche huomociuile fia corapo^
fto.fi fa fempre mentione di colui, che l'ha lo^ dato? FED, Inchcmodof* SOCR*
La primacofa,che,dicono,cquefta. La opinione noftra,òuerolanofl:rafcrittura fu
appruouafa dal Senato, ò dal popolo, ò da ambe duerquindi con una certa
ambitiofa ricordatone di loro ftef fi, mettono per ordine tutte quelle parole,
che quei tali in fauor loro hanno dette, fempre dando colui, à cui è il lor
parere piaciuto.Dopo quefto dicono quello, che intendono di fcriucj^ re; fempre
faccendo moftra del lor faperc à cos^ loro, che li lodano, flC quefto lo fanno
affai uol^s te: ce non folo nel principio, ma anchora dipoi che una lunghiffima
Orationc haranno detta. Parti egli quefto altro, che uno fcriuerc Oratici ni?
FED. Ccrtamentcnon. SOGR. Ho rafe queftò dir loro è approuato,fubitOj d' allc:s
greza ripieni, fi partono dal Senato,comc fareb bc un Poeta dal Teatro, fe la
fua Comedia fuffe ^ piaciuta. Ma fe per forte fuffe riprouato,ò rifiu^s Wo^ac
il lor configlio non fuffe ammeffo, ne ri:s pìlfafo dfgfiò di cffere fcritfò
con gTi àlfrf /non foJofi cnvpfono di triftitìaqufi tali, ma li loro amici
anchora. F E D. Sitrattnftano certa:* in rn te non pòco. SOCR. In queflo mo^ do
adunque dimcftrànò,chc eglino non fanno poco conto di qnefto efercitio di
fcriuerc,anzi diapprczirloafTai. FED. Grandemente cer toloftimano. S OC Dimmi
un poco, Se qualche grande Oratore, ò ucro uu Re/i haueCs feacquiftata t^nta
facultà,a: tanta fcientia nel dire, che come Ligurgo, Solonc.o Dario, pote&
fe degnamente nella fna città efTer tenuto Scritii tore perfettifllmo^flC
immortale, non gli parria f/Tcre, mentre che anchor qua giù uinefTe quafl
fimile^ò uguale à Iddio / Et quelli, che dopo luiuengono,conriderandoIeccfe,che
egli ha lafciato Tcritto, non hanno di lui quel medefi^ mocrcderer' FED.
CertifTimo. SOCR. Pcnfi tu adunque, che alcuno (fia pur quanto fi lioglia
trillo, ft inuidicfo) Uituperi quefto flu dio dì fcriuerc? E E D. Per quelle
core,chc tu hai dette, non par conucniente: per che eia:» {cuno,pare à
me,uituperarcbbc quelle cofe,del le quah egli fi diletta. SO CR. Etperòque^ fto
può efferc à ciafcuno chiaro, che alcuno non c daelTerc uituperato folamentc
per che egli i • fciiua. fcriua. F E D. Per che adunque f SOCR. Ma quello c
bene, come io penfo, brutto, par:^ lare, a fcriuere cofe brutte, ftcattìuc. T E
D. Quefto è ccrtiflimo. S O C R, Qual farà adun qtie la ragione dj fciiuerc
benc,tt male f Non penfi tu Fedro, che ci facci di bifogno di firoili cofe
domandarne Lifia^ò qualunque altri, che ò nero habbia à qualche tempo fcritto
qualche cofa.ò uerohabbiada fcriueie ò qualche fatto publico d una citta, ò
qualche faccéda priuata, quefto lo facci in uerfi, come Pceia,ò uero in profa
come perfona priuata f E E D. Mi doman di fe io penfo,chc facci di bifogno
domandare, & cercar di fapere quefla Cofaf' Dimmi un pocd, nó fono alcuni,
che uiucndo ad altri piaceri non, attcdono,che à quelli di domandare K di uoler
da ciafcuno fapere la ragioe delle cofef Et quefti tali come faui, nò attendono
nella loruitaà quel li piaceri,]^ quali di ncceflltà hanno prima quaU
chedifpiacere,altrimeti il piacere no fi potrebbe godere.il quale effetto
interuiene quafi à tutti li piaceri del corpciflfp quello ragioneuolmetc fo no
chiamati piaceri uili H di poco momcio. Soc. Noi habbiamo tepo ÓC cfio aliai,
& ancora mi par ueder,che quefte cicaie,<:he fopr'il Capo noftro,.cantano^com'è
ufan«Joio:ncl caJdo,att^ndar^o à quefta noftra difputa. Se adunque elleno ci
uedefTcro addormentati, come fpeffo molti altri fanno, li quali nel mezo giorno
non difputan:: do, ma più prefto dormendo, fono al fonno per poca anuertenza
loro da quelle allettati, merita^ mente fi potrebbono ridere di
noi,confideran2: do,fl£uedendo che dal fonno uinti fuffimo. Ma fe elleno ci
uedranno difputare,fiC conofce^: tanno, che noi non fiamo flati uinti dà
loro(co:5 me fono alcuni dalle Serene, per il che non pof fono pigliar porto )
forfè che uolentieri ci donc fanno quel premio, del quale per gratia de gli
iddii poffono à gli huomini fare dono. F E Chedonoèquefto? A me non pare
hauerlo mai intefo. SOCR. Non fi conuiene,che uno huomoftudiofo,flC amico delle
Mufe, come fci tu, non fappi una fimil cqfa. Si narra che quc^: (le cicale
inanzi che fuffero le mufe, crono huo mini: ma nate che furono le Mufe,fiC poi
che il canto hebbero moftrafo,fi dice che ad alcuni di quelli tanto quel canto
piacque, che per cantare non fi curauano di mangiare, ne di bere: £C cofi
imprudentemente fi lafciarono mancare la uita: delti quali nacque la fpetie
delle cicale, le quali hanno dalle Mufe quefta gratia,che non han bi fogno di
nutrimento alcuno.ma mentre che ui iooà uono, foci lO'lOOf IfìOt Sì nono,
ftmprc cantando fi mantengono fcnza mangiare,flC fenza bere, Dipoi finiti i lor
gior^ ni, (e ne uanno à trouar le U iife per dargli no^ titia,fl: informare
quali fieno quegli huoniini^ che qua giù amano più una Mufa,che un'altra» Per
il che dimoftrando. à^.Tcrficore quelli, che ^iu che in altro, ne i canti, flC
nelle fefte femprc fi ritruouano, gliela rendono propitia, OC fauo^ reuole, A
Erato poi moftrano tutti coloro, che ne i càfi amorofi Vitrouandofi, hanno il
fuo ftu:: dio&ìmitato,6Chonorato.Et cofi fimilraentc fanno con le altre
Mufe,flC gli mettono in gratia coloro, che più che h altri lamano.Rapportano
anchoraà Calliope, OC à Vrania,che fippreflogli ua,la uita.flC i fitti di
coh)ro,che nella Filofofia fi efercitano;fiC honorano la loro fcientia.Lc qua
li oltra tutte le altre Mufe*hanno cura della cojs - gnitione del cielo, ficfi
efercitano in ragionai menti cofi diuini, come humani con uocifoa^ uiflime* Et
però per molte cagioni dobbiamo dir qualche cofa,ne in modo alcuno habbiamo nel
mezo dì a dormire. F E D, Habbiamo à dire per certo. S.O C R. E adunque hormai
tempo di dichiarare quello, di che poco fa ordisi nammo di difputare,ciò è in
che modo un'huo inofcriua,ò parli bene, fiC non bene, £ £ Qocfto c propfo
quello, fopra il qnalf ha da eù: fere il noflro ragionamento. S O C R. Non
pcnfi turche fia neceffario^chc colui, che habx^ fcia da dire qualche cofa/e ne
uorrà ragionare a pieno, fiC bene, habbiapiena^flCuera cognitio::
ne^flCintelIigcntia di quella coia, della quale pirlaf' F ED. Io c Socrate, ho
udito dire, che a uno, che debbi diuentare Oratore, non e nes: ceflario il
fapcre quali fieno quelle cofe.che ue^s ramentc fieno giufte, ma debba folamente
quel le conofcerc,che al giudicio del uolgo parran:: no cofi: ne manco debba
fapere quelle cofe^ che ueramente fono buone, « hcnefte,nia quel Ie,chc
compaiono. Perciò che dicono quefti tali, che per uia di quefte cofe non
uere^fi può più facilmente perfuadere.che ccn la uerità, ^. OCR. Mai òf
fdromio,non fi hanno da iprezare li detti de gli huomini faui,anzi fi
deedil/gentemente considerare quel, che fignifichi:?:iio. Et però à me non pare
di iafciar pacare quel le parole,che hai poco fa dette, F E D. Tu parli bene, S
o C R. Confideriamo adunque quefta cola in quefte modo • T ED. Cowtf S O C R.
Cefi, Se io per cafo fi uolefFi perfuasi dcre,che tu fuffiper uinceregli tuoi
inimici.;quando tu haueffi un buon cauallo,nc alcuno Ai noi f^ipein che coA Me
quefto cauallo,m4'tb fohtfìtnìt tkpm:chc kù ndtì fai gii come uh tJiaalfo fia
fatto, ma che tu penfi,ch'C egli fià ti*» ànimale domefì/co con gì Wcxhi gridi.
F E Dv Sequeftofu/fe/ceftameinte farebbe cofa da rr* <ìere. S O C R, N òn
^t^u cfto non bafta. Ma quando io con ogni sforzo nìi?ngegfìaffi di pet
fuaderti (non f^pendo nt tu^nfc io àltfC ) chè quello anÌTTidefurti^ un
cauàlJo/a per quefto iò liaue^S compóflÀ nna Òrationeìn lode dell'Afiis no,
chiamando quello anrm^lè càuàilo, afferà mando efTere animale pérfètdfTinìo,
utile per ca fa, perle facccnde/tSc prontiiTimo/fiiore aib battaglia, atto à p
citar fome.'fiC à molte altre cofe tommodiffiiT>o> f ED. CJi^^efto fi
/che farebì be fuòrd^* pfopofitóalpònTjble. S |0 C K. Kon è egli meglio, che
un'amico fia ficetó,fit piaceuò!e,5Cche faccia ridere, che ftrano,ttdi malanimof
F '£ O.Cofi par à me. S OG.Qnan do adunque un oratore ignorate del male,tt deì
bene perfuade i una città fimilmenre ignoranti non con una oratione compofta in
lodxr d'uno Afino, penfando che fia un Caudillo, ma ragion Dando. flC difputado
del male,cr€dedo che quel lo fia bcnetflC cofi tirando à Tua diiiotionc le opf
n oni del uolgo, metta in quella citta tìn'ufanzà dì far male in cambio dì
b'efie,che ricolta pcnfi tu che un fimile oratore facci della fua (cmtiìUi FED.
Non troppo buona. SOCR. Non confeffihoratu,chc noi habbiamo uitupcrato l'arte
dell'orare un. poco più fcioccamcnte.chc non fi conueniuai' Et fc per cafo ella
ci haucfle fentifo, flf bora fiuoltafTc à noi, «ci dicertr* Seteuoiimpazati
Socrate, fiC Fedro mici cari^ 10 n5 sforzo alcuno à orare, che prima non hab
bia cognitione del uero: ma fé gli huomini fa;? ranno à mio modo,airhora mi
imparerano quan do la ueriti haranno cpnofciufa.fiC io ui pofTo af fermare
quefto con uerifà (il che è certamente gran co(à)che anchor fenza l'aiuto mio,
pur che uno fappi render ragione delle cofe.flC le cono:? fca,harà in fe ogni
modo l'arte del perfuadcre 5, Se coftei dicerte cofi,non harebbe ella ragione-^
F ED. Io te'lconfertb^purche molte ragion ni, che io ho intefo, faccino
teftimonio,che il fa per folamente fia arte; per che è mi pare hauer^ udito
certe ragioni, che prouano^che l'arte del dfre fenza il fapere dicendo d'eflèr
l'arte, nò dice 11 uero: per cièche altro non è, che un' ufo fen za arte. Et
Lacone difre,che la uera arte del dire fenza la uerità trouar non fi può, ne
mai fi tro^s uerà. Qtjefte ragioni ò Socrate fanno hor di bi? fogno, flC però
adducendole moftrami un po^ coqucl,checoftoro dicano, flCin qual modot^ S O C R,
Soccorrlnmi adunque, ft ucngano -in mio faiiore tutti gli animali generofi.fiC
pcrsx iiiadinoà Fedro, che fc egli non attenderà alla Filofofia^non faperà mai
di cofa alcuna à baftan ■ za ragionare, flC Fedro mi rifponda ogniuolta, che io
lo domanderò. F E D. Domandami adunque • S O C Dimmi un poco,la Ret^ torica non
diremo noi, che (la una arte, che per mezo delle parole alletti gli animi de
gli huos mini^ Et queflo lo fa non folamcnte dauanti al li giudici, flC nelk
altre publiche raunate di huo mini.maanchoraquefta medefima arte difpu^.terà
nelli priuati ragionamenti Mi ciafcunacofa cofi d'importantia,comc non. Per ciò
che nien^ te è più honoreuoie,ò più degno il parlare con arte nelle materie
grandi,che fia nelle piccole* Hai tu mai udito dire quefto.^ F E D. Non io
certamente,anzi ho intefo,che quefta arte fola^ mente (ì efercita nelli
giudicii,flC nelle Orationi al populo,ne ho mai udito, che ella fi di^lenda più
in la. S O C R • Hai tu mai intefo ragion tiare della grande arte del dire, che
Neftore,fiC VlifTe efercitauano, mentre che erano à Troia? Hai intefo quella di
Palamede 1* F E D. Non io,fe gii tu nò uoleffe dire che Gorgia fuffe Nes
ilore,£C Kimilmente che Trafimaco^ Teodoro fttfléio \Wc. $ O C R. forfè che io
!o pos» ♦rei dire. Ma Ufciamo andate ccfloro.fiC rifpon» aiini à quefto, ISe i
gindicii gliauuerfani^cb* liàtaftcìoi «gUno r Non cercheranno feinprc dt
cònfradire à tutto quello ^che dice la parfc con;* frariac Puoi tu dire,che.faccino
altro;' F E I>. Quefto ianno.ft non altro. SOCR. Non contendono, &
djfputano fempre cjual fia il giù ftoi,« qua! fu k) iingiiifto f f E D. Cofi è,
j^P C R. Colui.che faprà fare quefta cofa con jirtc,i.ion potrà fare anchora
che a quelli mede» fin^i pai» uni cola ficflahora giufta.fthora in;s giufta,.^
f E I>. lo potrà fare per certa» / S O C R.. Ijtfuwlmeute egli orerà in pu*»
l>ljco,potrà fàre,cheaHi fuoi cittadini le medes fitBCCQf? parranno Upra
buone, <SC hora triftc;* F E, Cerfaaiente. SOCR. Et quefta
nonèsnarauigliofo.perchc noi habbiamo rn* tefo.ehe.i^aUiBede Eleaf€,eol fuo
artificio del dire era fclito far fi che à chi,!f)..udÀua.pareflero ie noe defw«.<pfe
bora fimili.Sf bofa'diuerfe,ho ta una c.o{a,iibU,ft hor» wp] te-, bora che ogni
cq. fafufreiaiwobile.&hora che i'ufliuerfa fcms: pre fteffe i,n moto, f E D.
l' ho intefo ans ^' io pei certQ. S Q C R, Adunque quefta jppteftUa, di
confradiKiik fiofe d^tte innanzi^. non folo è porta nélli giud/di, ft nelle
pubfi^' che radunate, ma anchora^come ti ho moflratoj fi truoua in ogni
ragionamenfo,che fi fa: per ciò che dò che fi dice tutto è un'arte, con la qui
le ciafcuno potrà fingere, flc dare ad intendere à ogni perfona, che tutte le
cofe fieno fimih'^ac faperi trouare i nìodi di moftrare quefta cofa,fl(intenderà
come habbia a fare, chiare quefte. fo:*. miglianze. F E D. In che modouuoi tu,'
che fi facci quefto.^ S O C R. In quefto* Dimmi un poco,rngannanfi gii huomini
in quelle cofe, che fono tra loró molto differenti, ò in quelle. che fono poco?
F E D. Inquelle^ che poco fono diffimili, S Ò C R, Bene ha(rifpofto. Hora fe
tua poco i poco pafferaida un fimile all' altro, più facilmente potrai inganni
naregli auditori,che fe in un tratto dfalterai^* F E D. Chi dubita di queftof'
S O C.Adunquc bifogna.che ogniuno,che uorrà ingannare un* altro, facci prima in
modo, che no fia ingannata egli. Et però farà necefrario,'che conofca beijiJ(fi
ino le fomigliaze flf le diffomigllanze delle cofe* F E D, Quefto è neceffario,
S O C R. Potrà adunque uno che fia ignorate della uerftà di eia fcuna cofa dar
giuditio della fimilif udine ò gran de^ò piccola di quella cofa eh egli non
cooofcc/ FED. Qnéftocimpofribile. SOCR. Et però c cofa chiara, che coloro, che
hanno qual^s che opinione fuor del naturale, ò credono il fal^ fó di qualunche
'cofa, non per altra cagione fo^ no in quella fantafia, flCin quel falfo
parere, che per qualche finiilitudine,che gif ha ingan^ mti. FED. Cofi
interuiene. SOCR. Potrai tu dire adunque che alcuno, fé farà di
quellocheuorriadifputare ignorante, pofTa con con arte,flC aftutamente à poco à
poco rimuoue^ re uno dal uero,fiC fargli credere il falfo per uia di qualche
firnilitudinej'ò crederai, che quefto tale poffa fardi non cafcarc nell'errore,
nel qua^? Ic'cerca gli altri condurre FED. Certo che io noi crederò mai. SOCR.
Et per quefta cagione qùàlutìque perfona farà ignorante della uerità dolina
cofa, & folo dairopinione fi lafirie* rà guidare, coftui dimoftrerà di
hauere un'arte di dire fciocca.flC più da fare altrui ridere, che buona ad
altro, FED. Cefi mi pare certe. S D C R. V noi tu hora uedere, ft confiderare
flC neiroratione di Ljfia,che hai in mano,& nel feritire il mio
ragionamento, douc fi parli artifi^t. ciofamentc,a: doue fénza arte^" FED.
Que^i fto uorrei io più che altra cofa ♦ Per ciò che al prefcnU noi ragioniamo
troppo feccamcnte.no potendo pofendo dimoftrarc ercnopi chiari di quelle co*
fc. che diciamo. SOCR. Si.ma ionogho, che tu fappia.chc la maggior parte delle
Ora* tioni fon dette à cafo.come è manifefto: le quaxs li ci moftrano
chiaramente, che un' huomo.chc appia bene.flc conofca la uerità delle cofe.men
tre che egli con parole fcherza, ec fenza punto penfarci.ragiona.conduce l'audifore
à quello, che uuole. Et io certamente Fedro, penfo che gliiddìi di quello luogo
habbiano hoggi cagio nato in me quefto effetto di perfuaderti.ft forfè potrei
anchor dire.che le cicale interpreti delle Mufe.le quali fopra di noi
cantano,mi habbias no fatto quefta gratia. per che in foma in me nó è arte
alcuna di dire. F E D. Sia come tu uuoi. pur che tu mi moftri qucl.che mi hai
promelfo. SOCR. Leggi adunque il proemio dell' Os catione di Lifia. FED. «■ IN
Q^V E S T O (lato certamente fi truouano le cofe mierflC quefto.come hai poco
fa intefo da me, penfo che mi babbi à gjouarc affai. Hcra io uoglio che
fappia.chc io ftimo,a: giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò.doucrs la da te
per quefta cagione impetrare: per ciò che 10 nó fon prefo del tuo amore. Et che
ciò fu iluero,tu fai che gli amanti, come prima han*; 1)0 la !or libidine
faflata/i pentono de i benefis ci.che t'hanno mai fatti. S O C R. Non legge/
pili. Bifogna bora dire in che cofa coftm erri.flC quel, che dica fenza artt.
Nò ti par cofi:' F E D. Certamente. SOCR. Dimmi un poco, non è quefto chiaro à
ciafcuno.che in molte cofe ne i ragionamenti noftri tutti crediamo à un modo,
fi(in molte altre non habbiamo il medefimo ere derei? F E D. Ben che mi paia
intendere quel, che tu dici, però io uorrei che lo diceffi più chia ro. SOCR.
Quando unofa mentione del fer ro,ò dell' argento, tutti fubito intendiamo una
incdefima cofa. F E D. Certo. SOCR. Inter uiene egli cofi.quado fentiamo il
nome del giù fto.ò del buono, nò crede all' bora ciafcuno dis uerfamente? Et
non pure non ci accordiamo con l'opinione de gli altri.ma anchora fiamo in
dubio della noflra. F E D. Cofi ua. S O C R. tt però in molte cofe
acconfentiamo tutti à un inedefimo.flC in molte fiamo di uarie opinioni. 5 E D.
Cofi è., S 0 C R. Doue potiamo noi più facilméte effere ingannati. « in qual
d,i que ftc cofe ha la Rettorica più forza:* F E D. E cofa chiara, che in.
quelle. delle quali più dubis(iamo.piu ha forza l'arte del dire. S O C R, Et
per quefto fa di bifognoi colui, che uuolc ini*. parare. jwirare, R atrquiflare
la Retorica, prima di uederc quefte cofe tutte ordinatamente, & feparare
Tuss na dair altra, & gli è neccflàrio ccnofcere di quaf forte fieno le
cofe tatte,intorno alle quali fi può. ragionare, ò uero della forte delle dubitò
pero delle certe:fiC fapere doue maggiormete il uolgo poffi elTere
ingannato,fiC doue nà, J^Jf. U. Ccf tamente Socrate che colui, che col penfiero
^ja^ piffe quefta cofa,che tu dici,harel)l>c una bella cognitione. SOCR»
Dipoi io penfo, che quc fto tale debbia fapere la natura diciafcunacofa, acciò
che dj quella quado gh' farà bifognOjpofFa render ragione: fiC uoglioche
ingegnofamente intenda di qual forte, fiC di che genere fia quella cofa,
intorno alla quale fi debba ragionare ò delle dùbie,Q delle certe. F E D.
Perche noni S O C R. Diremo noi, che 1 amore fia poftq tra le cofe certe, ò tra
le dubiei' F E D.Trale dùbiecertamente. S O C, Penfi tu ch'egli fi conceda.maliche
tu dica di lui quelle cofe, che poco, fa.hai dettecelo è eh egli fia noceuole
all' amato, flC ali amante Et dipoi ch'egli fia il maggior bene chefitruoui:''
F ED, Tu parli bene. SOC, (Ma dimmi un poco anchora quefta cofa, per cheÀdirti
il uerojo non mene ricordo troppo bene Ì>er effer ^ato io nel ragionamcto
mioi occupato a uinto da quella diuinifà,clic fu (af. Ho io nel principio della
mia difpufa difBnifo^chc cofa fia amore? F E D. Si hai,flC beniflimo. S O C O
quanto tu dimoftri (dicendo che io fi bene rho diffinito ) che le Ninfe d'
Acheloo.flC Pan figliuolo di Mercurio, fono più ingegnofi al comporre Orationi,
che no fu Lifu,per ciò che quefti mi hanno fatto dire. Non ti pare egli, che
iodica il ueroi' Ma Lifiaanchora nel principio della fua Oratione ci sforzò ad
intendere, che la more (come egli uoleua ) era un non fo che po fto fra le cofe
dubbie, flC incerte; flC cefi accom:^ modando a quefta cofa tutto il feguente
fuo ra^ gionamento,fini la fua Oratione • Vuoi tu, che un'altra uolta leggiamo
il fuo principio.'' F ED. Come tu uuoi,ben che quel,che tu cerchi, ih efTo non
ci fia • S O C R. Leggi, acciò che io loda. F ED^ I N Q^V E S T O flato
certamente fi truouano le cofe mie: ft quefto,come hai po:s co fa intefoda
me^penfo che mi babbi à gioua^ re affai. Hora io uoglio, che fappi,che io
iiimo, ce giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò, do:s uerla da te per quefta
cagione impetrarerper ciò che io non fon prefo del tuo amore ♦ Et che ciò fu il
uero^tu fai che gì' amanti^come prima haa DO la lor libidine fatiata,fì pentono
de i bcnes: fìci, che ti hanno mai fatti. S O C R • Egli c molto lontano,
fecondo me, da quello, che noi cerchiamo r perciò che egli pare, che fi sforza
di ordinare il fuo ragionamento, non cominciando dal principio, ma dal fine,
con un certo modo à contrari0,ac fotto fopra» Et che fu il ucro,uedi che
comincia da quelle cofe,che l'amante rin^j fàccia al l' amato, dipoi che T
ancore è eftinto, "N 5 tifare egli.che 10 habbia detto il uero^ F E D.
Senza dubio che quello, di che egli nel princirs pio ragiona,è.il fine. SOCR.
Che diremo noi delle altre cofer Non ti pare egli, che tutte le parti di
qiiefla Oratione fieno fparfe confufa:? mente Pcnfi tu che quello, ch^ egli nel
fecon;? do luogo ha detto della fua Oratione, egli V hab bia congiunto con la
prima parte, conofcendo cheneceffariamentegli bifognaffefàrlor Et fi:: milmentc
le altre cofe,che^egIi ha dette, credi tu, che le habbia con ordinc,flC con
modo difpo fte^ Per ciò chea me, che fono dbgp.i cofa igne rante.pare che tutte
le cofe,che da uno fcrittore fono dette, non debbano cfler dette, flC ordinate
fenza cagione. £ t però uedi, fe tu fapefli truo;? uare qualche cagione
nectffaria^per la quale noi potiamo.dirc,che egli fi fia mcflo à ordinare,flC H
ili djTporrc il fuo ragionamento nel moclo,chc hib biamo ucdiifo. FED,
Troppofareblfc ò So crafe,fe io cefi fcttilmente fapeffi dare giudicio
dellifcritti d'altrui* SOCR. Io penfopu:^ rechebjTogneri,che al meno tu dica,a:con5:
fe/Tj quefio^cbe tutta un'Orationc debbia ciictc come Ufi animale, fiC debbia
bauete il fuo corpo, i\ quale non fia fenza capone non gli manchi:^ no li
piedi, ma che gli babb/a ciafcuna fua parJe conuemente,a: coirifpondente al
tutto. F ED. Che uuoitu dire per qucfto?' SOCR. Cons: fiderà ti prego, fc
TOratione del tuo amico Ga fatta cofi,c) altrimcnte,truouerai che ella none
punto difterenfe da quello Epigramma Jl^ua^s le alcuni dicono,che fu fatto
(opra il fepolcro diMida Frigio. F E Che Epigramma è ques fto,ftdicheforte/
SOCR, Odilo,egli di^ ccuacofi, Son fu' 1 fepolcro una Vergìn di Mida/ Fin
ch'andran T acque, & fien le piante ucrdi. Qui dando, ammonirò cialcun che
pafTj, Che nel mefto fepolcro Mida giace. tìora 10 penfo, che per te fteffo
beniffimo co nofca, che non importa qua! parte di quello •ponghi prima^flC qual
dopo^ ^F E D. A ques: fto modo ò Socrate^ tu bufimi,fi£ mordi la no^ ftra
Oràtiòìiè S O C R. Lafciamo adunque àhdare.acciòche tu non (i corrucci meco,
ben che in efTa fi potrebberotroirarcmolti efempi, li qaali confidcrati^ci
uerrebbe quefta utilità, che non imitafiTimofinrili modìdi dire. Ma pafe fiamo
alle Orationi di certi altri, le quali certa:^ irierife hanno in fe qualche
ccfa degna d' cfTerc offeruata da coloro, che di quefta arte fono fturs dioG. F
E D. Che cofa è quella, che in que:s fte Orafionifj pnoofTeruarer S D C R.
Queftc' Oratfoni erano tra loro contrarie, per c òchc una irfFernnaua,cbe un
giouane aniato fi douefle ac:? coftare alTamante: <3C un'altra à uno, che
non amafTe. F E D. Beniflimo certamefc. S O C R: Io penraua,chc tu rifpondeflj
con più uerità,flC che tu diceffi non bcniflimo^ma pazamente,flC furiofamenfe
certifTimo/non di meno quel, che 10 uoglio dire flC che io cercaua,che tu
diccffi nò può efTerc alfritnenti^come fi ixìoftrerò. Nò hab biamo noi detto
che lanDore abro non è, che un certo furerei' ÌF E D.Cofl hàbbiam detto. Soc;
Horaio pogo due forti di furore J'una delle qua 11 èda mancamèto humano
cagionata, lai tra prò cede da una diuina alienatone dr menfe^per la quale è
l'huomo rapifoflC leuato d^lla fu a ordina Ila uita. F BD. Cofi è per certo.
Soc. le parti adunque di qucfto furor diuino fon quattro, aU le quali anchora
quattro iddii fono propoftjrpcr dò che noi diciamo, che Apollo fia di quella
inrs fpiratione cagione, che à quelli Sacerdoti uiene, che poi indouinano quel,
che debbe efTere nel tempo auuenire, Dionifio della cognitione di quelli
mifteri,che fono più occulti, flC delle co^ fe, che s appartengono al culto
diuino. Le Mu fc della Poefia, Venere, & Amore dell'amorofo furore affai
migliore di tutti gli altri, £C io non fo in che modo,metre che dianzi uolfi
con imagi^ fìijflC fimilitudini moftrar l'effetto d' amore /orfc può cffcre che
io habbia detto qualche uerità,flC forfè anchora ho trapaffati li termini del
uero. Et perqueflomefcolandocofi quelle cofe,chc hora ho dette, quel
mioragionamento, il quale non fu al tutto da efler biafimato,tu fai, ch'io or
dinai,flC compofi quella mia fabulofa diceria, flC quafi fcherzando,fiC per
giuoco, modeflamentc lodai il tuo, ce mio Signore Amore, protettore de giouani
gentil* & belli, come fei tu, F E D. Qiiefle cofc l'odo molto uolentieri. S
O C Et però bora da quella mia Oratione potremmo cauare,fiCfapereinchemodo la
noftra difputa uenifTe dal biafimo,onde la cominciamo, alle iodi* F E
Etcomeuuoitu fare queflof SÒCR, A mccertamchff pare, che fin qui habbiamo
parlato per burla. Ma fe farà alcuno, che artificiofamente conofca la forza
delle due forti, flc delli due modi di difpufare, nelle quali bora fiamo à cafo
incorfi,coftui certo harà fatto un'opera degna. & bella* F E D. Che forti,
fiC che modi di dire fono qriefl:i,che tu dkii S O C La prima è qucfta. Che
colui, che uuol dirputare,facendofi nella mVnte un'idea di tutte le cofe,che
uuol dire:& hauendo à quel [a folamente l'occhio, metta infieme tutte le
co^ fe,che fono fparfe fif diuife, acciò che uedendole tutte raccolte, dando
poi la uera dìffinitione di ciafcuna.quello facci chiaro,&
manifeftp,intor:3 no al quale fi difputerà: come al prefente hab:* biamo fatto
noi, che habbiamo diffinito che cofa fia amore, flC ò bene, ò male, che
Thabbiamo fat^ to,hai pure hauuto la noftra difputa,per quefta cagione una
chiareza, flC una concordanza in tutte le cofe,che dipoi fi fono dette. F E Le
altre forti di direnò modi, quali iiuoi tu che Heno ò Socrate.'' S O C R. L
altro modo é quc fto. Che come egli ha tutte le cofe raunatein uno, di nuouo
parte per parte, fecondo la natu^ ra loro, le diuida,flC parta, flf non
fpezi,ògua{|ti membro alcuno del fuo ragionamento, come farhora li cuocKi mài
pratichi fogliono farc,rna faccia quel medefimo.che habbiamo fatto noi ne i
ragionamenti pafTati; nelli quali habbiamo tntefo quella mutati6e,ò alienatione
della mtrte generalmente, ac con parola commane, anchora che fia buona,&
cattiua, Ma fi come in un cot^ po quelle membra, che fono doppie, fi chiama:?
nocol medefimo nome. ma uno é detto dcftro; raltrofiniftro",ccfi qiicfta
forma della aliena:: tione deliamente noftra,la quale è dall'amor cagionata, è
per natura fua in noi una foIa;flC cefi babbiamo detto nel ragionamento noftro.
Et pero quel pripio parlare,che facemmo, diuij dendola parte finiftra di quella
alienatione, ò mouimento della mente, fiC di nuouo poi pars: fèndola,non fi
reftò,fin che egli ritruouò unais mor finiflro.il quale conofciuto come cofa
non conueneuolfe, uìtuperò. L'altro ragionamene: fo/he dipoi habbiamo fatto, ci
con du (Te à co:s nofcere la deftra parte di qucfto furore, doue un amor
ritruouando inquanto al nome fimile al fJrimo, inquanto à gh effetti diuinojo
lodò, & ingrandì con parole, come cagione di gran^s diffimi noftri beni. F
ED. Tu dici il uero. SiÒGR. Io certamente o Fedro fon molfo. imito di quefle
dmifioni, fiC diquefti raccogli:?* tendere quel, che io ucgl/o più facilmente;Ò[
meglio ne polfa ragionare. Et fé mai io ueggo alcuno, che fo penfi^ che egh*
fia atto a confide^ ' fare bene prima quella idea unfueifale,chc io fi ho
detto, pei particolarmente la moltrfudinc delle cofe fecondo la Datura tero di
coftai io feguito le. pedate, ftgli uo dietm mn altrias menti, che fi fuffe
diuino: & colcrO;che tal eoa: fa fono atti à fare, io gli cKiiimo
Dialettici, fc io li chiamoo bene,o male. Iddio lo fa lui.. Ho:* ra dimmi tu di
grafia in che modo /fecondo il parer tuo, ò di Lifia,tu chiamavcfti coftoro.
pare à te quefta q^iella'^arte del dire, che ufb Trafi^ maco,'flC molti altri
faui, li quali per il dir lo? ìfo furono fenzadubio fiut,coiiìeho detto, flC
anchora fecero gli altris" Talmente che q^ielli^ che da loro impaiono,
uorrehbero o'fterirgli do:? *)i,come fi fuol fare à grvndifTimi Re • F E t),
Certamente che cometudici.qucUi tali huo* mini fonodiqncllo honore meriteucli,chealli
Re darfi uediamo,ma non per qaeflo fon dotti in quelle cofe, delle quali hoxa
tu domandi. Ma à me pare, che qnefto fìuouo modo di ragiò nare,tt di
difputare^che hai truccato, il quale tu chiami Dialettica Jo chiami cofi
r^ioneuob mcntc.manon per qucdo fappiamo anchora;' ihccofafialaRettorica.ma fi
bene la Dialets fica. S O C R. Come dici tu quefto !" Penfi tu che cofa
alcuna bella,ò ben detta pofli efTerc giudicata, che quefti miei ordini non
feguitf, quantunque con arte fi impari i Hora per ciò che
queftofolononbafta.non uoglio che noi lafciamo à dietro quello.che oltra ciò
nella Ret torica faccia di bifogno. F E D. Molte cofe ò Socrate fonoftate
lafciafe fcritte ne i libri, che dell'arte del dire fono flati compofti. S O C
R. Hai detto beniflimo, Pcnfo aduque.che il proc mio fi debbi dire la prima
parte della Oratione^ Non domandi tu quefte fimili cofe gli orna* menti iieri
di quefta arte;' F E D. Senza diibs tio. S O C R. Seguita nel fecondo luogo la
fiarrationé.flC infieme il produrre de i teftimos ni, nel terzo ucngono le
conietture.flC nel quar to gli argomenti, cauati da cofe uerifimili. Et pa re à
mecche un gran compofitor d'Orationi.chc fu da Bizantio,ci mettelTe anchora le
pruoue,CC le ragioni, che faceuanoper colui, chcoraua. F E D; Tu uuoi dire
Teodoro, che fu fi eccels lente, è ucro;" S O G R. Si certamente. Coftui
anchora trojiò nella accufatione,fiC nella difens fione^i argomèti raddoppiati,
£t per che non faciamo fìoi ricordanza di Euano Parìo? il qùàfc prima à
tuffigli altri frouò le dichiarafioni: flC cifra di quefto fu inucntorc delle
Oratiohi.chc in lode d'altrui fi fanno, fiC non mancano molti che dicano, che
egli per meglio à memoria ntc^ nerlc,tramezaua le fuc Orationi con certe uifua
pcrationi fatte in uerfi. Et di ciò non è da mara^ uigliarfi^per che egli è un
huomo fauio.Lafcia^ mo pur andare Tifia,flC Gorgia, li quali propone gonoil
uerifiHiile al aero, flc con la forza delle Orationi fanno le cofe grandi parer
piccole, flC le piccole grandi,* fimilmcnte che le cofe uec:s chic moftrino
effcr nuoue,& le nuouc uecchie, hanno trouato una breuità di parlare moza,
ft poi per il contrario una infinita lunghcza di parole ♦ Le quali cofe gii
fentendomi raccontare Prodico,fe ne rife,a moftromi.chc egli folo ha:^ ucua
trouafo, quali parole à quella arte (àceffe;* ro di bifogno; & mi difTe^chc
ella 'non haucua di bifogno di molte, ne di pochc^ma fi gouer^ naua in quel
mezo. F E D. Sauiamentc difTcProdico. SO CR. Non fa di bifogno ricor^s dare
Hippia,per che io penfo,chc con lui s'ac* cordi anchora il noftro hoftc
Helienfe. F E Non bifogna per certo ♦ SOCR, Che dirc^ mo noi della confonante
concordanza.che ha rif rollato Toh? il q irate In qu arte introcìufjs le
repllcationi delle parole Je fent?tie,le com paratìoni Je fi m i li fri di ni, &
Tufo de i nomi con. elegantia in quel n5odo,che egli da Lidmnionc l'apprefTe.F
D D. Dimmi un poco Socrate^ li (critti di Protcìgora non erano quafi fimilià
Èjuefti.^ S O C R. f^edro mio, il parlar di Pros rtagora è buono, fif propio,££
nel luo ftilc fi truo uaJiomoltecofcnurauigliofe.tTia nel niuouerc à pietà, fiC
a milericordia^ccl ricorJfe41i iiecchie za^ò la pouerfà lorafore di Calccdonia
fù cccel:r Jente, & aiicliora ikH' incitare,fl£ mitigare l' ira ^cra
potentifiìnio^fii non altrimenti placaua una.ifato^che fe egli liane/Te
adoperato li incanti: fa anchcra fopia tutti gl'altri nel difendeifri,fif pur
garfi dalle calumnie dateli, & nel darle ad aU tri ogni uolta,che gli
bilognaua. Ip forno al fi:? ne delloratione pare a mecche tutti s accordino
infieme^ma-ino^ti chiamano quello fìne,Repe;{ titione,5(molti Ju altro modo. F
F D. Voi tU che li fine fu il ridurre nella memoria alli audi:^ toribrtuemente
tutte k cofe^che difopra fono fiate detter S O C R. Q^ieflo uoglio che fia^, Ci
fe tu inforno à ciò fapeifi qualche altra ccfa; dillà,cheiouolentieri ti.
afcolfo» F ED. Io certamente non fo fenoa cofe di poco moipens! to,ac non degne
d'efTer rfcordafe. SO CR.^ le cofe di poca importanza lafciamole andare;' flC
pm predo attendiamo à dichiarare che forza habbia qiiefta arte quando quefta
arte fi pot ficonofccre. F E Grande certamente, fes; condo me,è.la forza della
oratoria apprefTo alla moltitudine, flf al uolgo, S O C R. Grande per certo. Ma
confiderà un poco di gratia,co^ me fo io, come queftì Oratori, uanno con tutu
quefta loroarte.non di meno male in ordine, flC mefchinamente, FED. Dimmi un
poco^ quefta cofacome uaf' S O C R. Stammià udì:: te, Se fuffe unoxhe trouando
il tuo amico Lifi:^ inaco,gli djccfli in quefto modo (o uero a fuo padre
Acumeno ) Io ui dico, che io fo beniffi;: 8ìo,flC conofco quelle cofe, che
accoftate à nn corposo uero da un corpo adoperate ufate,fa rò chea mio fenno
quel corpo fi rifcalderà^flC raffredderà.oltra di quefto io fo prouocare il uo
mito,fo fare reuacuatione,fo ordinare lepurga^. tioni,& intedo molte altre
cofe funili: per il che io fo profeffione di Medico, flC dico di poter fare
diuetare Medico ciafcuno che uprrà. Se uno gli parlalTi cofi,che penfi tu che
gli rifpondeffero^ •Ped.Che uuoi tu ch'io dica altro, fenó ch'eglino
i'^auefferoàdomadareje anco egli fa à quali per fonc.in che fempi.ft fin quanto
queftc tali co* fe.chc egli dice fapere.fic conofcere/i hauefles ro à operare,
fif ordinare. SOC'R. Seaduns quc colui gli rifpondeflé.che egli di qucfto nó
(àpe/Tj render ragione. ma che faccfTc di bifos gno.che colui che hauelTe
imparato da lui quel le cofe che egli fa/apeffe per fe fteflo.fiC potcfle fare
il rcfto.fiC conofcefle i tempi, £t le perfonc, uerfo di chi.fic quando fi
haucfTerà à mandare à effetto. Se quefto tale gli dicelTe cofi.che penfi tu.che
eglino gli rifpondelTero.'' FED. Cers tamente che altro non potrebbono
dire.fenon che quefto (al'huomo fiifTe fuor di fe, con ciò fia.che hauendo
folamente da qualche libro di Medicina udito una pocp cofa.ft elfendogli nel
leggere uenutoalle mani qualche modo di mes dicare, & non di meno non intendendo
di quel la arte cofa alcuna, penfi per quefto effere diuen tato Medico. S O C R.
Ma che diretti tu.fe fulfe uno,che.andaffe à dite a Sofocle, flf à Èus
ripide.che egli fa i -una piccola cofa fare un lungo parlamento, ec per il
contrario fopra una grande parlar breuemeute.'' Oltra di quefto che ogni
yolta.ehe uuole.fa commouerc gli audis tori à mifericordia; flC fimilmentc
all'ira.che è fua centuria, fa far nafcere horrore.ec fpauento/ fa minacciarci
fa fare fimili altre còfc, fiCchc fieli' infegnarle egli penia faper moftrare
Tartc, ce la Poefia Tragica • F E D. Io penfo, che co ftoro fimilmcnte fi
riderebbero di lui,uedendo che egli teneffe per fernìO,che la Tragedia folas
niente fi conteneffe nel far quelle cofc^chc egli dice fapere.CC non
peniaffe^chc la uera Trage:? dia uuole tutte quefte cofe bene infieme compo
fte,a ordinate, fic uuole hauere tutte le parti tra loro corrifpondenti.flC
conuenicnti alla materia, CCalfubiettodellacofa* SOCR. Etnopea fo io, che per
quefto eglino lo riprendeffero uiU lanefcamentc, ma farebbero come un Mufico,
che fi abbatteffe in un'huomo,che fi pcnfafTe d'efTer Mufico folo per fapere in
che modo le corde fi faccino fonare, hor bafre,hor alte.Que^ fto Mufico, che fi
deffe in coftui,non gli direb^: be con un mal uolto, O pouero \ te, tu impazi (iome
ogn' altro forfè farebbe ) ma come Mu^i fico.h quali fono tutti piaceuoli.cofi
più amo$ reuolmente lo ammonirebbe. O huomo da be^ ne,colui che debba effer
Mufico, bifogna che fappia quelle cofe, che fo io: £C colui, che fa deU la
Mufica quello^che fai tu/i può dire, che non ne fappia cofa alcuna: per ciò che
tu folamente conofci quelle cofe, che dauanti all'armonìa fof^ no nfceffaric^ma
della armonia ne fefignoranfc; F E D, Beniflimo, S O C R. Similmcnfe potrebbe
Sofocle dire à colui, che gli fi facciTe incontro, come io ti ho detto, ciò è,
che egli più predo fapcfTe quelle cofe,che uanno innanzi alla Tragedia, che
eghconofceffe, che cofa fuflc Tragedia. Et fimilmente Acunieno Medico po trebbe
dire à quello altro, che egli fapcffe queU le cofe,che uanno innanzi alia
Medicina, ma che la Medicina non la intendere • F E Cofièper certo. SOCR, Ma fe
lo clegans: tifljmo Adraflo,flC Pericle udifTero quelle parole fcelte,
ftartificiofe, quelli parlari mozi, quelle fimilitudini,fi£ quelle altre
cofe,chepocol'arac contauamo,fiC narrandole giudicauamo effer da confiderare^
penfiamo noi, che eglino (come forfè faremo noi ) fi adiraffero con coloro, che
tal cofc infegnando,penfafrero infegnare l'arte ora^ toria,òpure uogliamo dire,
che eglino, come più faui di noi,in quefto modo dicendo ci ris: prendefferoi'O
Socrate, Fedro Je fonoalcu:? tti.che elTendo ignoranti dell' arte della Diale
t^ tica non pofrono,ne fanno diffinireche cofafia Rcttorica,con coftoronon
dobbiamo adirarci, ma più tofto hauergh compaflione, ££ perdos: nargli • Et
fono aUuni^chc ftandofi in quella lo ro fgnorantia, mentre ch'eglino
folamenfepof^s^^ggono,fiCfanno gli amniacftramcnfi, che quel lecofe inlegnano,
che uanno innanzi all'arte della Rettorica,fi uantano,fiC gloriano di hauer
troua(a,ec di faper perfettanìente la Rettorica! ce infegnando folamente quelle
cofe che fanno, ^penfano,tt dicono di infegnare l'arte dell'orai fc
perfettamente. Ma poi il modo di teffeie in^j Cerne, 6f commettere tutte quelle
cofe in un cor po,in tal modo, che à chi rafcoIta,po(rano per:? fuadere, dicono
che fa di bifogno,che lo fcho;s lare fe lo guadagni, fiC per fe ftelTo
Timpari^cois me le à ciò non fi facelle di bifogno il maeftro, F £ D. Tale
certamente, fecondo me,èquellaarte, che coftoro in cambio di Rettorica infegna
no,a: fcriuono; & mi pare, che tu habbia detto il uero. Ma dirami un poco
in che modo,flC per che uia potremmo noi acquiftare l'arte d'uno
Oratore.flCd'unperfuaforeuero S O C Egh è cofa conueniente Fedro, & forfè
neceffa^ ria, che fi come in ogni altra cofa,cori in quefta un'huomochclauuole
acquifl:are,fia in ogni parte perfetto. Per ciò che fe la natura ti incih nera
à effere oratore, fc poi ci aggiugnerai la dot trina,a la
efercitatione,diuenterai un'oratore ec celiente, Ma fe una di quelle due
cofe,prarte,ò la natura tì nianclicri.noii farai perfetto. Hora quanto quefta
arte fia grande, non fi puojecod do me, per quella uia fapere,chc Gorgia.A
Tra:s fimaco feguifarono.ma per altra. F E D. Per qualef' SOCR, Non fenza
cagione Pericle è flato giudicato il più perfetto Oratore,che mai fufTe/FED.
Perches' SOCR. Tutte le arti granxij hanno di bifogno della efercitatione nella
Dialettica, & della contemplatione delle cofe celefti,fiC della cognitione
della natura del le cofe: per ciò che quella alfeza^che nella men te noftra fi
uede,flC quella efficace forza di po^: tereciafcunaimprefa cominciata condurre
à ne, pare che nafchi in noi per Io ftimolo^chc quefte cofe baffe^fiC terrene
ci danno, il che Pe^^ ride congiunfe con la fottiglieza del fuo inge^ gno: per
ciò che fidatofi nella domefticheza,CC amicitia di AnafCigora ritrouafore di
fimili cofe, n de in tutto alla contemplatione,tt cofi com^ prefe^^ imparò la
natura della mente noflra^flC anchora del mancamento di quella, il quale •Anaffagora
copiofamente dichiarò,flC di quiui ca uò tutto quello, che à lui parue,che
fuffe al prp porito,flC utile per l'arte della Rettorica. F E D. Come andò
queftacofa^ SOCR. 'Tu fai, <he il modo di medicafe^flC di orare è quafi il
medefimo» Hiedefimo. FED. ìnchcmodo^ SÒCR. In ambe due ijfticftc arti fcifogha
diuidcrc la na tura, ma in una fi parte la naturi del corpo, nek l'altra quella
della anima. Pur che non fole per uia di efercitio^flC di far buona, &
moderata ui^ fa.maanchora con Tarte habbia un Medico à dare à un corpo &
medicine, ÓCcibi, di forte che Io faccia fano, ac rcbufto diuentare.Et fimik
niente,pur che fi habbia à metteré in una anà ma la urrtii.flf la perfùafione
per ragioni, flC per giufte,fiC legittime ordinatiorri. F E Cofi ò Socrate fi dee
credere che fia. S O C R • Uo^ ra penfi tn,chefi pòfll conofcere la natura di
djuefta stnitn^t bafteuolmente,fenza là cognitiòij ne di tutto quefto noftro
compofto.il quald chiamiamo huomor F E t). Se fi debba crcs^ dcre a Hippocratc
fucceffore di AfcIepo,non fo lamenfe diremo che non fi pofla conofcere la n*
turi! della a'tìima fenza quella cognittónc,che ta dici,maalnchorache non fi
poffa fapcre queib del corpo. S O G R. Dottamente parlò Hip:^ pocrate. Hòra è
bifògria^ eòrifiderare,fe quefta cofa,ché io t'ho detto, fa al propofito della
no^ ftradifputa. FED. Faccificome tu uuoi. S O C R. Attendi adunque qitello,che
non iblo Hipjpocrate^i^ia anchora la uera ragione di^cario di
qucftainucftfgationc della na(uta,cli€ IO t'ho detto. Cofi adunque la natura di
ciafcurs nacofa fi ha da confiderare* Principalmentehabbiamo da uederc.fe
quella cora,,della quale noi uorremmo fapere 1 attera: ad altri ifegnarla,
èYcn)plice,flC d'una loia natura, ò pure di molte forti. Dipoi cafo che fia
fempUce,fi ha da confi derare, che natura fia la Tua neiradoperarri,ac nel
fare, conìe anchora nell'effere adcperata,fiC nel patire.Mafequefta cola harà
più capi,diui dendoh* prima tutti;& raccontandoh ordinata^ mente, in
ciafcuno habbiamo à cercare particors larmcnte quella fua natura, & intorno
al farc,flC intorno al patire. F E D. Cofi pare, che s'hab bia da fare. S O C
Et fenza far quefto fasi fi il procedere di colui, come il caminó d' un cieco.
Ma colui, che qualche cofa tratta con ar^, non fi harà adafTomigliare à un
decorò à un Tordo, anzi bifognerà dire, che qualunque farà, che con arte parli
à un altro, prima cercherà chia ramente moftrarc la natura di colui, al quale
parlerà, flC quefto altro no è che lanima. F E D,; Senza dubbio* S O C R, Dimmi
un poco, • Vno che parli ccaarte ad un' altro, non fi sforss za egli fopra ogni
altra cofa perfuadergli tutto ^ fluello,che auolei* F E D. Certamente, S O
C.'Et péro c cola chiara.che Trafimaco.Cf qualuns que altro attende à infegnare
la Reftorica, prima donerà con (omnia dilic;entia defcriuere.ìBC di^ chiarare
fe l'anima è per natura Tua una cofi fo^ la^ficfimile tutta afe fl:e(Ta,òuero
fe à fimilitu^ dine del corpo, fia di pia forti. Per ciò che qtian do 10 dico,
che fi debba moftrare la natura della anima, non uogiio intendere altro, che
quefto# F E U. Cofi douerà fare certamente. S O C Patto che farà quello,
bifognerà che egli dimo^: ftri che potentia fia la fua,fiCuerfo che cofc la
polTi ufare,C(à che paffioni ella fia fottopofta^ r E D. Certamente. S O C R.
Dipoi ha:^ ucndo già diftinte,CC diuife tutte le forti degli affetti
dell'animala de li difcorfi, & ragionai menti fuoi,gli farà di bifogno
raccontare tutte le cagioni, per le quali tali affretti in lei nafcono,
accommodando fempre le cagioni a gli affetti fuoi,& infegnando le qualità
dell'anima, Cf che difcorfi fiano I fuoi,fiCper che cagione qucfta ftia
fcmprcin confideratione,flC in nioto,flC quel la mal à contemplatione alcuna ne
fi leui,flC fem pre fi ftia ferma. F E D • Quefta farebbe una cofa
ingegnofiHima.Soc.Et perciò ti dico, che no fi potrìmai dire, che uno fratti, ò
ragioni bene di cofa alcuna, non pur di quefta, di che t'ho ragio mtòjc
alfrimcti procccJèrà.Ma li fcritfbri Ai qut fta arte de i noftri tepidi quali
tu anchora puoi haucre uditi, fono aftuti.flC conofccndo beniffi^: mo quefta
natura deiranima,chc io dico, non di meno ce la afcondono,flC non ce la
uoglionomoftrare. Et io ti dico, che fé eglino non parler ranno^flCnon
fcriueranno.feguitando il modo mio, non dirò maliche con arte, ò bene fcriua^
no. FED Qual modo dici tu SOCR. Io non ti potrei cofi facilmente dire le
parole, che ci uanno,ma in che modo ci bifognaffe feri ucre,fe l'hauefTemo à
fare,te'l dichiareiò in quel miglior modo, che mi farà poffibile. FED* Dillódì
grafia, SOCR. Poi che noi hab:s biamo ueduto^che la fcientia del dire altro non
è, che un tirare à fegP animi, flC un dikttarfi,bi^ fogna che colui, che debba
effere Oratore, cono^j (ca quante parti habbia quefto animo. Hora quc fte fono
affai, flC di molte, flC uarie qualità, fiC for^ ti,per le quali gli huomini
uengono anch' efli diucrfi.ft di molte qualità. Confiderate quefte
cofCiCjpuiamo dire, che fieno tante forti di Oras: ' tioni,fl(di parlari, di
quante forti fono le qua:: • liti delle anime noftre.Etperò quelli animi, che
peir le qualità loro fono à qualche lor parti:? «olar dcfiderio
difpofti/fàcilmente con quellimodi di dire fi perfuadono, che alla natura loro
fieno fimili: doue che fe tu in un modo parler rai,a; 1 anime di chi ti ode,
fia altrimenti difpo:? fto,non lo perfuaderai mai. Et però à colui, che harà
bene quefte cofc confiderato,poi che hariueduto,flf conofciuto la natura d'uno,
flC le ope:: re,fif le attioni comprefe.farà di bifogno potere in un fubito nel
Tuo ragionamento a{regnare,flC dimoftrare ijuefte Tue attieni, flc dimeftrare
di conofcerle: ft fe altrimenti farà, potrà dire di no Tapere altro che quelle
core,che già dalli maeftri gli furono infegnafe. Ma colui, che può con uc rità
dire,flCconofcecon qual forte di parole fi può ciafcuno huomo perruadere,flC
ingegnofa^ mente auuertifce,checolui,che gli è dauanti,c di quello ingegno, flc
di quella natura, della qua le egli ha dimoftrato,flC fapendo fimilmentc, che
un tale huomo ha bifogno di parole tali^ quale egli è ^per uolerlo condurre à
far quelle co fe,alle quali egli è dalla fua natura inchnato^co^ ftui dico, che
cefi farà ammae (Irato, all' hora po trà u erame n te affermare di poffedere
qneftaarte del dire. Quando aggiugneràà quefte cofe,che
iotihodettedifopra,ilfapere quando fi habs bia à tacere, ce quando à parlare,
quando fi habsj bia à effer breue nel direna quando non^Oltca di qucfto quando
conofccrà, quando fi haràda -uCire una Commiferatione, & qciando una uehe
mcntia di parlare più afpra, quando s'habbia da fare una Amplificaticnc,flC
qtiando in fomma fa, prà in quefto fimil modo uiarc tutte le altre par ti della
Oratione,che fono dalli maeftn (late in:5 degnate: flf prima che tal cofa non
fappia^non potrà in modo alcuno e(Ter detto Oratore. flC co^ lui^al quale una
di quelle cofe.qual fi fia^mans; cheràònel dire,ò nello rcriucrè.òhello infe:?
gnare,flC non di meno affermerà parlare con ar:? tc.airiioraquel tale, che
tenia eller perfuafo fi partirà da lui, fi potrà dire uincitore. Ma forfè
qualcuno di queftì Sciittoridi Rcttorica ci po^ trebbe direnò Socrate, &
Fedro. peniate uoi che l'arte del dire fi habbiaa imparare in quefto mo do.flC
non in altroi' FED. Socrate à me pare impoffibiìe/he fi pcffi intendere
altiimcnti, quantunque quefta dimodri eflere una opera, & una fatica
gianiffima, SOCR. Tu dici il acro, per ciò che ella è, come tu dici.dilfi::
Cile. bifogna parlando, & ri£arlando di quefta. cala più uolte,ceicare,tt
confiderare fe forfè po teffjmo ntrouare una uia,che più facilmente, fl£ in più
breue tempo iui ci pofc/Ie menare, acciò che noi noli
^iidiaaioinconfideratamente er;i rando ' ranJo per ufa lunga, d: difficile,
pofendo noi ca minare per una piana, & breue: per il che fé a qucfta cofa
tu mi pcteffi dare qualche aiuto coiji quelle cofe^che hai ò da Iifia,ò da
altri imparai te,uedi di ricordartene, & dichiaramele» F ED. Potrei forre,
per prnnare k mi riufcifle/arquci; che tu dici, ma non in queflo tempo. S O C
Vuoi adunque,che io ti racconti un ragionai irento^che io gii non fo quando,
udì intorno a queftacofaf FÉD, Digratia, SOCR. E fi dice.che egh ègiufto iddio
quello, che uno ha neir animo, come coloro, che pagano quelli danari alla
fiatuii di Lupo, come (ai, F E D. Cefi uoglio che ^cci, S O C R. Dicono ^diin
qne coftoro,clie non fa di bilbgno tanfo con pa role inalzare (e cofe,che un
dice, ne con lunga Oratione ingrandirle, come fare fi fuole: perciò che
uogliono quefti tali (come habbiamo det^s to nel pnijcipio del ncftfo
ragionam.ento)chc à uno,che habbia da eHere Oratori, non faccia di bifogno
ccncfcere la uerifà delle ccfe giufte, & buone A dicendo quefto, intendono
cofi/dcl le cofe,come de gli hucmini òper naturalo pcf ufo giudi. Et
allegganoquefla ragione à prora uare che non bifognjfapere,che cofa Ca il gitH
&o: per che ueJii gmcUcu h Oiatori nò fogliono hauer cura dimoftrarc la
uerità,ma pia prefto at fendono à pcrfuaderc l'opinioni Io. C£ pero dico. Ilo,
che è cofa uerifimile à credere che ia perfuac iìone fola fia quella, alla
quale debba indrizar la mete colui, che con arte uorrà faper dire. Et che» fii
il ucro, dicono cofloro che nefTuna cofa fi ere àttì mai che fia (lata fatta,
fé prima non farà mo ftrato effer cofa probabile fiC aerifimile,che pcfTì
<ffercaccaduta. Ma pure uogliono coftoro,chc -jpiu tofto fi habbino à
addurre le cofe uerifimili neiraccufare.che nel difendere: flC cofi afferma-
no, che un' Oratore fa poco conto della uerità, & che folo feguita il
uerifimile^flC uogliono che fe quello loro Oratore feruerà in tutte le fue Ora
tioni quefto ordine di moftrare il uerifimile,fi pofli dire, che egli moftri di
faperc l' arte orato^ ria beniflimo • F £ D. Socrate tu hai raccon^ fato quelle
cofe, che fogliono dire coloro, che fanno profeffione di infegnare la
Rettorica.Et io mi ricordo.che nel ragionamento noftro po^ co fa toccammo un
poco di quella cofa*& quel, che haidetto,foche debba parere cofa troppo
grande à coloro, che in quella arte fi efercitano. Ma io ti fo dire, che tu hai
dato una buona ba^ donata à Tifia. S O C R • Poi che tu mi hai
ticordatoTifia^uorrei che egli mi dice/Te, fe e pcnfa.chcii probabile, flC il
ucrifimilc fia alfro;^ che quello, che pare al uolgo. F ED, Che uuoi fu che
riaaltrof* S O C R. Trono olxra di quefto, fecondo me, Tifia qucfta altra
cofabeU la,& degna di lui, & la fcrifle anchora. Et que:* fto è, che fé
per cafo un'huomo debole, ma au^ dace.che hauc/Te battuto, flC
fpogiiatouD'huoi^ mo forte, flC timido^fafTe menato in giudicio,, uiiole TiTia
che nefTuno dicoftoro habbia à con fefTare il uero,ma uuole che il timido
dica.chc egli non è (lato battuto folamente dall'audace, & 1 audace l'ha à
negare,* moftrare d effer ft^ (0 folo,flC pigliare quefto argomento. Come uo^
leteuoi,chcio,chefon debole, habbia aflalita coftni,che è gagliardo^Ma quel
timido no coraj fefTerà per quefto la fua timidità, ma penfando, ritruouando
qualche falfità,cercherà di accu^ fare Tanuerfario, Et cofi fimilmcntc in molte
altre cofe accafcono fimili cafi, nclli quali(dicc^ ua Tifia ) bifogna haucrc
quella arte. Non ti p;i re egli cofi FedroJ' F E D, Cofi certo. S O O quanto
aftutamente dimoftra TifiadihauejCieritruouata un'arte afcofa,* diffìcile, ò
ueroqua^ lunche altro (ìa (lato, che habbia tenuta quefta Tua opinione, ft
habbia nonfe^comc £i uoglU»! Ma uuoi tu, ch'io dica quefta coiàio od^ JF £ p« '
Chccofaèqucfla.clicfu uuofdìre^ SOCR. 'Io uoglio parlare un pcco con Tifia.O
Tifia ih» «anzi che tu ueniffi con quefta tua atte, noi tes ncuamo per certo,
che quefto probabile,fiC ucris fimile.nonfipotefii al uolgo per altro iTiodo
moftrarc.checonlafomiglianza della ucrità.fiC pcnfauamo.che quelle fomiglianie
del uero fos lo da colui potefTero cfTer trouate,chc peifettas niente la uerif
a ccnofceffi. Per il che fé tu cidi'raiintorno àqiicfta arte qualche altra
cofa.uo* lentieri ti afcol faremo: ma Te non dirai altro, noi ci ftarenso à
quello, che poco fa habbiamo defcs to.ft^ 9^*^^*^ crederemo. Et quefto è.chc fe
• uno non conofcerà bene gli ingegni delli audfe tori.ft fe quelli l'un da
l'ahro non. diftinguerà, a fe non diuiderà le cofe.di che egli ha da pars lare
nelle fue parti fe quindi di tutte un'idea fola facendo, in quel modo non le
comprendes rà auefto tale nó potri mai acqui{lar*e quella ars te del dire. che
può hauere un'huonrto. Etques > fta cofa non la può imparare fenza,un lungo
uu, dio. Nella qua! cofa un' huomo prudente nófo lamentc fi affaticherà per
poter dùe.a orare in modo, che piaccia a gi'huomini, ma anchora ut cherà di
poter djre.a tare quelle cofc.chc habs jj^j^jano da e(ftr gxate a Dio. Per
cièche io uoglioche tu fappia Tifia/he quelli Iiuomini,chc fors no flati più
faui di noi, bino detto che un'huo mo fauio non debba follmente penfare di (om^
piacere à tutte le bore à quelli, che feco fono fa un niedefimo fcruitio, ma fi
ha da cercar di ubi dire à buoni Signori. Per il che non ti maraui^: gliarc.fe
io ufoquefta lunghcza di parole, per ciò che gh è neceffario che io fia
lungo^efTcndo le cofc,che io tratto, di importanza, il che forfè tu non
credi.Etfappi,che (come fi fuol dire ) che dalle cofe buone ne nafcono le
buone, cofi anchor dalle uere pofTono uenirne le uerifimili. F E D. Qyefta cofa
pare à me che fia beniffimo detta. SOCR. Egli è certo difficile, ma egl'è
anchora cofa hoaorata,flf degna lo sforzaifi (em predi aitiuare air acquifto di
cofe eccellenti, fl(degnerà patire tutti quelli difagi,che in tale sforzo ne interuengcno.
F E Tu hai ragio ne. SOCR, Habbiamo horaà baftanza ra^ gionato della arte j ce
del trifto modo del comrs porre Orationi. F E D • A baftanza per certo* SOCR.
Ci refla bora à ragionare intorno alla bclleza dello fcnuere^flC à dire onde
nafca labru teza dell'orare, F E D. Quefto ci refla. S O C. Sai tu in che modo
ò ragionandolo orando lì f offa nelle parole piacere a Iddio f' F £ D, Non
ccrfo^ft tu? Spc. Io ho udito dire no fo che cog. fc, le quali già furono
infegnate dalli noflri anti chiamala uerità di qucfta cofa la fanno cffi^fif
ilo io. Hora fe noi ritrouaffemo modo di piacer nel parlate a iddio, pefi tu
che ci bifognafTe più haucre cura di quello,che gl'hucmini intorno a ciò
fciocamente pcnfanor F E D. Qnefla tua do ìiiada è da ridere. Ma raccontami un
poco quellecofe^chc tu dici hauere udite • S O C lo - ho udito, che là prefTo
al Naucrato di Egitto; fu già un certo iddio de gli antichi. al quale e
dedicato quello uccello, che chiamano Ibin^flC quefto iddio é detto Theute.
Quefto dicono, che fu il primo^che trouòii numerosa la com:? putatione,flf
raccpglimento de i numeri, non folo uogliono che fuffi ritrouatore di quefta
co::^ fa, ma anchora della Geometria, & della Aftrono miarritrouò anchora-
fecondo loro, Tufo de i das di.fiCil mododi fare le forti, flC finalmente fu
inuenfore delle lettere. Era in quel tempo Re di tutto r Egitto Tamo,2C ftaua
in quella granr: di/Tima, CL nobilifTima Città, che chiamano li Greci Thebe
di'Egitto; flC queftì popoli hannp po(]:o nome à Iddio Ammone. A quello Reue
nendo Theute, gli moflrb le fue arti, flf gli diC^ (e.che farebbe flato buono,
che egli à poco à pp co le diftribuifcc à tuffi li popoli dì Egitto. Ma egli
domandò a Thcute,che utilità ciafcuna di quelle arti à gli huomini apportai »
Il che di^ chiarandoli Thcute,Tamo approuaua quello,) che gli pareua ben detto:
quello poi, che non gli piaceua.lo biafimaua.fiC all' hora fi dice.che Tamo
dichiarò^a moftrò à Theute intorno à eia fcuna arte molte cofe,flC per una
parte^ & per la altra; le quali fe io tutte uolcffi nan-arti/arei trop po
lungo. Ma poi che uennero al ragionar dcU le lettere^ di/Te Theute, Sappi
Re.chequeftadifciphnafaràdiuentaregli Egitfii più faui^flC di maggior memoria:
per ciò che ella è ftata tro:j uata per rimedio della fapientia^ft della memo:^
riamai che egli rifpofe, Aftutiflimo Theute uo:s glio che (àppia,che fono
alcuni^che fono atti k ^ fabricare gli inftrumentijchc per una arte fono
neceflarii,ac buoni; alcuni altri faranno poi più pronti à giudicare che
dannoso che utile quelli arte debba an:ecare. Matu,chefci padre delle lettere,
forfè perla troppa bcneuoIcntia,che gli porti,haidimofl:ratodi conofcer poco la
forza loro,hauendo affermato che elle cagionano in noi quello efFetto,del quale
niente é uero,anzi fanno il contrario. Per ciò che T ufo delle lettere facendo
che noi poco ci curiamo di tenere à me moria co(aa!cuna,pàrtoriTcfnciram eli
chi fe impara^obliaionc di ciafcuna cofa • Et qiìefto ne auuicne,pcr db che
confidati nelli fcritti dal tri,non uogliamo cercare di rauuoUarci troppo ncir
animo le cofe: per il che tu non puoi dire d'haucr troiiato il rimedio della
memoria, tna più tofto d' un rammentarfi delle cofe già fapuis (e.Oltra di
quefto à me pare, che tu più preda infegni alli tuoi fcholari una opinioe della
Icien ha, che la uerità: per ciò che hauendo quelli fen za la dottrina del
maeftro lette, flC imparate mol:^ te cofe^parràal uolgo.anchor che fieno ignors
ranfi,che non di meno molte cofe fappiano,oU fra di queflo diueterànno nel
praticarli più mos: lefti,flcfafl;idiofi,ne ciòauuerrà fenza cagione: per ciò
che efFi non pofTederanno la ucra fapien tiajfhapiutofto feranno ripieni d'
un" opiniors ne di hauerla. ¥ ED. O Socrate, tu con po^ ca fatica fingi,
che li Egittii parlano, ft qualunis que altro più ti piace, pur che ti uenga
bene^ S O C Qaefta non è gran cofa, per che an:^ chora quelli, che ftanno nel
Tempio di Giouc Dodoneo, affermano che le prime parole del fufuro indouine, che
effi udirtera,ufcirono d'una Querele: li che à quelli popoli del tempo anti^ co
(per CIÒ che eghno non erano cofi faui.co^ TOC fetc uot del dì d'^hoggi )
baftaua pci fr disfare alla loro fcioccheza udire ie^.pktrf ^i) k Qucrcie.pur
che elle gli diceflero il uero* Ma (i5 peni! che importi qualche cofa chi fia.ò
d'onde lia qucllo,ckc parlj. Et ciò ti auuiene,pcr >ch^ tu non confideri
folo fe qucUo.che parla, dice il uero,ò non, ma uuoi udire parlare i p^erfone à
tuo modo, F E P. Ragion^uolmcntc finii h«ii riprefo • fif à me certamente pare,
che nelle letiP tere interaenga quello, che fecondo il tuo dire, diceua
Tama;chc à coloro accadeua.chc U (ape tiano* S O C R.- Et pero qualunque
perfona penfa fcriuendo intorno à quefta arte, 6 quelle cofc imparando. che da
gli altri di lei fono itatc fcritte, per queftoche dalli fuoi fcritti fi habs»
bla certeza alcuna i cauare.ò uero per il fuo im^ parare,douer faper cofa
ucra.coftui certamente c fciocco,a: di poco ceruello.flc fi può dire, che egli
fia in tutto ignorante dello Oracu lo di Gìq ue Ammonio, con ciò fia che egli
penfi^che le Orationi fcritte pifi poffuio,che non potrà uno chcdafe fteffo
fappia quelle cole, delle quali Quelle Orationi ragionano. F £ BeùiSì^, tno. S
O C Queftoo Fedro ha la fcnttura piena di grauità,& dignità, che ella è
fimihdl^ ina alla pittura: per ciò cIk ie^opere della pittUiP ra pare clic
fìcno ufue^ma fc tu gli domanderai qualche cofa, uergognofam ente fi taceranno.
Hon altrinienti delle Orationi potrai dire,fif ti parrà, che elleno intendendo
qualche cola, U polfano anchora dire,ft moftrarc. Ma fe poi for^ (e di
laperdefiderofo, gli domanderai di quaU che fuo detto la cagione^ femprc ti
diranno una cofa, & ^<^»^pre ti lignificheranno il medefimo:
<3CogniOratione,comeellaè feritta una uolta, Tempre. flf in ogni luogo la
medéfima lì ritruo^ ua,fiC moftra le cofe fue à quelli, che fanno,* à gh' altri,'alli
quali forfè niente importa, flC non faella,o puo dire à chi bifogni
manifeftarfi, 6 àchi nonb]fogni,2(fe mai gh è ingiulla:^ mente fatto ingiuria,©
detto mal di lei,femprc ha bifogno dell'aiuto di fuo padre, ciò è di chi rha fcritta,per
ciò che ella al.nemico non rcpu? gna,ne à fe fteffa può dare aiuto. • F E D.Quc
Ite còfc anchora pare à me, che fieno ueriffimc,. S O C R. Ma che dirai tu à
quello? Credi tu, che fi polU uedere un'altra forte di parlare fras: tello di
i^ueftof Et che fi polfa concfcere come quello, che io ti dico,fia legittimo,
fiC quello del quale habbumo ragionato badando, & quanto migliore, flC più
potente nafcai' F E D. Che parlare è queltof CC come uuoi tu che fi facciaf^
tu' ' Soc* S O G R. Qucfto parlare è queIIo,chc fi kwt ncir animo di chi impara
per mezo della fcipnjs tia,flC è migliore, per che quefto può aiutare à fc
flefro,fif conofce co qua] forte di p<rfonc fi bia a parlare., flC con quale
à tacere. F E D. Xji uuoi dire il parlare d' un dotto, che fia uiuo,flC che
habbia fpirito,deI quale una Oratione fcri(» ta ragioneuolmente potremo
chiamare un fimu^s lacro. S O C R. Quefto dico fenza dubbio. Ma dimmi anchora
quefta altra cofa, Vno agr(^ culflcre che fia fauio^ credi tu che uorrà
fpargerc^ ft gettare nel tempo della ftate quelli femi.chc egli bara più
cari.ft delti quali egli afpetta con defiderioil frutto, ne gli horti d'Adone,
cor» ogni ftudio,fiC diligentia,acciòche perfpatio di otto giorni ne pQ)[fi
uedcre i fiorii (comelai^chc miracolofamenfe in quel terreno ìnteruiene) ò nero
dirai, che fe egli pure il farà, Io farà per pat fac tempo in qualche giorno di
fefta.fif per darfi piacere, fiC no per cauarne utile alcuno^Ma quan do egli
farà da uero, ce che uorrà "attendere alla agricuItura,non li feminerà in
quelli horti,ma in terreni conueneuoli,flC gli parrà hauere affair fc con
interuallo di otto meli, flC non d otto gior ni la fuafementafi maturerà. F E
D. Certas mente Socrate, che come tu dici, quel tale femi;? fi^^è gfi WrH (!•
AcJdftc pft btirla.ft per foU lazt),^ nel terreno buono da uero^ S O C R.
t>^jf nfaremo noi, che un^huomo. ch^ (appia xke toù'fu il giudo, Ce il
buono, ft« rhonefl-o, fi^ iiello fj^argere la fua fementa pia fciocco d u
fio-agricultorer F B In neffuno modo, O C R Ef pero egli no femmerà i (noi
detti ftudiòfamente con la penna nell'acqua negra, ^órtmietten doli alle
fcritturc,fapendo egli che ft'mai poi portaflero pericolo alcuno non gli po tra
dare aiuto: flC conofcendo anchora^che con lèfcriuere non fi può moftrare à
pieno la ueri:? ti. F E D. Certo ch^ il feminare^come hai dctfe,è fuor di
propofifo. S O C R^ Certo, ma prahìerà beh coilui gli horti delle lettere per
darfi in quella follazo,fiC per pafTarc il tempo/ ce in quelli feminerà^ftcofi
fcriuerà qualche co Éi^t'Af pofcia che fi uederà hauerc fcritto,terrà qùéli
fuoi (catti per mcmoria,&' gli harà cari, come fe fu (fero tefori atti à
fargli fcordaie gli afi^ tìnni/che gli ha da arrecare la futura uecchieza.
Etnonfelopenferà,chcgli habbino à cagioni rtàrecjUefto in lui^ma in tutti
coloro'^che feguis teranno le fue pedate, ecinfieme fi rallegrerà di tiedere
già nati i fuoi teneri frutti: fif mentre che Ili altri huomini uanno pur altri
piaceri fegui» tando. tando,cclebràndo conuit?,& fimili altri cU;:»*ti%
egli lafciate quefte cofe folamcntc attenderà a ui nere nclli piaceri^ che
danno li piaceuolj,& "dotti ragionamenti* FED, Socrate tu mi nioftli
un trattenimento molto più degno di molti altri,cheà me paiono nili, narrandomi
quei di co^ lui, che può Tempre hauer piacere ne i ragionamenti, a disputare
della giuftitia,«di quelle altre cofe, che tu dici • SO CR* Cofièccrtamente
Fedro mie caro, ma molto più degno ftio c quello di quefti tali (fecondo me )
quan^ do alcuno, poi che ha ritrouata un animala quel locheegh intende infegnarli
afta, ufaudo Tarlc della Dialettica, piantala: femina in quella ani^; male fue
parole con la fcienfia: le quali parol^c fonobafteuoliàgiouarà fe ftefre,&
à colui, che le pianta: per ciò che non folamentc portano fc co grandilTinìO
frutto, ma anchoia il if me doa^s de nuoui frutti pedano nalcetc.Onclt^
pafTando poi quefte paroÌe,6: quefte fcientie <A]ixn hixf:^ mo in un' altro,
mantengono qucftft.gtiecic^ dono immortale: colui, che Ila in fe tal do:? no,
pongono in qdello ftato di beatitudine, che è ^oflibile à un'huomo. F E D,
Qaxtlh è an^ chora molto più degno, & honoreuole* S o Hormaio Fedro hauendg
noi le cofe^ che Labe L un biamo dette diTopra conceflc, potiamo beniflirs- ino
confiderarc quelle cofe,che^tu fai. F E D. Quali S O C Qijelle, che per
conofccrlc fin giù habbiamo ragionato, ilqual ragionamen tb non habbianìo per
altro fatto, che per poter ^ confxderare il modo di uitupcrare Lifia tuo in^
quanto all'arte dello fcriuere: non folamcte Liria,ma anchora tutte quelle
Orationi.che con arte.ò fenza arte fi fcriuono.Età me pare, che già à baftanza
habbiamo dichiarato, chi fia colui,cheartificiofofipofli dire, ficchi quello,
che fia priuo d' arte • F E D. Cofi pare à me • SOC R. Et però bifogna di nuouo
ricor^ darfi,che alcuno non può perfettamente faperc l'arte del dire,ò uoglila
faperc per perfuaderc Viltrni,òper infegnarla (fi come le ragioni di fo |)ra ci
hanno dichiarato )fc prima non conors fcerà la uerità di quelle cofe.ch' egli
dice,òfcri^: uc t ce fe non faprà diffinire tutta la materia deU la cofa,che
tratta: fl£ fatta qùeftà diffinitione,di nuouó diuidere tutte le parti, tenendo
alle co:s fc particolari, ftindiuidue,fl£cofi contemplanti do,flC confiderando
in quefto modo un'anima, alla quale habbia da perfuadere qual fi uogli co •
fa,ac haucdo quelle cofc ritrouate,che con ogni forte di ingegni fi
accompagnano, flC fono con:: ' uenienti. 'ucjjJenti.cofi fopra fu«o ordini^ fi:
acconci il fuo parlare, che co un' anima uaria.fi: di diuerle
fantafie.accommodi parole, & modi di dire uas rii.flC di molte forti.flt
con una anima femplice, fi£ di un fol uolere ufi parole femplici.fl£ pure. FED.
Cofifièdetto. SOCR. Chedires mo hora noi di quella queftionc, che di fopra
habbiamotocco.ciòè feegli è cofa honefta.ò bratta il comporre Orationi.fi: in
che modo qucfto ftudio fi poffi ragioneuolmente uituperarc, a in che modo non.
Non ti pare egli,che le ras gioni dette di fopra ci habbiano dichiarato ques
fto paHb i baftanza ^ P E D. QjaaU ragioni? SOCR. Quefte.che fe Lifia.ò
altri.Ccfiachi uuole ignorante della uerità fcyfTe mai.ò ucro ■fcnue al
prefente.ò fcriuerà cofa alcuna priuatas rmcnte.ò ucro che fi appartenga al
publico.cos me farebbeno certe ordinationi ciuili.ó fimili cofe,flC che coftui
penfi.che di quefti fuoi fcritti fe ne poffa cauare unacerteza.flC una
fermiflima ftabilità.quefta tal cofa T uno fcrittore fe fi ha da giudicare che
fia^brutta.Dichinlo le perfonc.ò noi dichino.chequefto imparta poco:|> ciò
che il non fapere,che cofa fia il uero.ne il falfo intot no alle cofe
giufte.fiC ingiufte, buone, CCtriftc, (anchora che il uolgo tutto lodoiTe
quefta igno.twifia}non può pero effefc.che confidcrarK^o il uero non fu
bruttiflima. F E D. Bruftiflima pcrccrfo. SOCR. Perii contrario poi. colui che
penfa che fu neceflàrio qualche uolta per trattenimento, fif per fcherzo
fcriuere^at nó giù <ljca che Oratione alcuna oin profa.o iq ucrfi mcrti^che
fi perdi un gran tempo nel comporta '{come fanno quelh. che fenza
confidcratione al tuna.CC fcnza dottrina, folamentc per daxad ins tendere una
cola.fogliono alle uolte recitare ucr fi)ma terrà per certo.chc li fcritti,che
buoni fi poflono dirc.fieno flaticompofti folo à quelli, chefanno.ma faprà che
nelli ragionamenti, che fi &nno per cagione di imparare.fif di infegnarc
adaltri.fifchc jicrauientc fi fcriuono.fiCimpria: ^tnono nell'animo d' uno.li
quali trattano delle cofe gi"uftc,hcnefte.abuone,in quelli folas mente è
ia uera chiareza flC la pcrfettione. A quc ragionamenti foli tienc^che mcntino
ftudio, ttquefti/olifuoi figliuoli legittimi chiama.dt di queftl ragionamenti
primieramente appr/za quello.chc m fe ftefTo efler conofcc(pur che in fe h
ntroui}dipoi tutti quelji,che di quel fuo parto.comc %lmoli,Cf fratelli,© nel
fuo ania wo.ó nell'altrui menti fono nati: fic. tutti gl'als tri difpreza, a
difcaccia, quefto tale, dico, pare 4 me mt telile fia tale,qualc <3a noi fi
potrcì>fyé^8drK!*« rare. F E D. lo acmi ò S cerate, efièr conife t:olui,cIic
ttì ilici di queflo ne priego Aìhàtas mente Iddio. SOCR. Ma fia detto aflai^cl
r^rte del dire per qaefta uolta^iiauendo noiparr lato più
per{ratteiiimtnto,-clTe per altra cagioine. E t però tu potrarf dire à Lifia,
ciré ncrtlTenfi do andati doue è il fonte delle Ninfe, ideile
Mufe,habi>iaino uditi certi ragion ameti, li cpali hanno comandato, che noi
dtcfatno A à itif » ^(à tutti gli altri Scrittori d' Orat foni: ol tra dì
quefto à Honicro,ò;fe altri è (lato che c qualche ftuda,CC bada Poefia babbi
compofl:o,ó pùre or nata, fiC niimerofa,ul{irnaoien(e à Solone/fiCi tutti gii
altri^che delle ordinationi tiiiili hanno fcritto,che fe eglino tali<cofe
<:onìpofero con faji peucli della ue<ità,flC col difputarc, pofTono dì: difendere
le cofe^cbe eglino hanno trattato,iÓC con ragioni fa^r fi,chc li fcritti
dinioftrano c{{ctc dainanco,ft pia uili delle parole loio,fif dclU noce uiua,fe
quefto che io dico, faranno • Farei ine,<he habbiano à pigliare il nome ne
da quel le cofe,che con la penna fcrifTero^twa pio prcftat da quello, che
doftamete ccnfiderarono.F E U. Etchc cognome lata quefto, <££ in the modelli
lo darai tui' S O C il gran ccgncMM ài piente folo à iddio/ccondo me, fi
conufener flC pero à qucfti tali huomi ni, ch'io tlio difopradc^ fcritti,gli
porrci più conucnicntemete il cogno:: medi Filofofo,ò di qualche altra uoce
fimile. F E D, Certo che quefto no fi difconuerrebbc. S OCR. Et pero dimmi un
poco, chiamerai tu ragioneuolmcnte Poeta, ò vero fcritfore d'Os: rationi.òdi
leggi colui, che in fé cofa alcuna no habbia migliore di quelle, che ha
fcrittof' Et che lungo tempo rauuollendofi, fiC aggirandofi il ceruelIo,con una
affidua emendafione finalmen te habbia fatto una compofitionef F E D. Che
uuoitudircperquefto? SOCR. Voglio di re,chetudica tutte quefte cofe al
tuoLifia. F ED^ Et tu non farai il medefimo col tua amico. ^ per che in uero
non mi pare da lafciarlo andare. SOCR. Q^ale amico dici tu^ F E Dico
Tfocratcgiouanc perfetto. Che dirai tu à coftui Socrate Chi diremo noi, che egli
fia (SOCR. Ifocrate ò Fedro, è anchora giouanetto^ma io non uoglio lafciarc di
dire quek lo,cheioindouinodilui, FED. Che cofa f S O C R. A me pare, che egli
fia di migliore ingegno,chenon dimoftra d'eflcrLifia per li fuoi Sritti, &
oltra di quello di più gencrcfi cofiumi ornato» Per il che io non mi
marauigliarci punto. punto,fccrcfcendoinIuigIi anni, egli diuens tafTc più
eccellente nelTarte del dire, nella qua le hora fi efercita di quànti mai à
quella fi fono dati: flC credo, che egli non contento di queftc cofe per un
certoinftintodiuino,cheè in lui, fi inalzerà ad imprefe maggiori; per ciò che
io uo glio che fappi,che nel fuo ingegno è (lata daU la natura poftain un'
certo modo la Filofofia, Quefte cofe adunque, che da quefti iddìi hofa^
pute,manife(leròal mio amicilTimo irocrate,& tu dirai al tuo cariffimo
Lifia quelle altre cofe. F E D. Cofì farò. Ma partiamoci di qui,con ciò fia che
il caldo fu hormai calatto à fatto* S O C« InnanziportajrCjò trarre
feco,fen6colui,che fia t» perato, Penfi tu che fi debba domandare altro ò Fedro
^ A me par hauerc con preghi domandato uclfo,cbefaceuadi fxifognó, F E Pieg
afichoia,che quel trcdcfmio conccdinoa me: pei* ciò che tra gli amici cani cola
è conh SOCR* Partiamoci Adunque. Ricerca
Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo,
coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti
Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, III secolo d.C.(?) Nome orig.Γανυμήδης
SessoMaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e
Principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un
personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo
descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo. «La vicenda
mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore
tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle
donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i
riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].» In una versione del
mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come
coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il
costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche
erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma
latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite,[2] indicante
un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Modifica
Figlio di Troo[3][4][5] e di Calliroe[3] (o di Acallaride[6]). Le
varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia
figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente
Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10]
oppure Assarco[11]. Non risulta aver avuto spose o progenie.
Mitologia Modifica
Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo
berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico
fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia
il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus,
così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato
dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di
Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un
tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era
ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei,
una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre
Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale
aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge
sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò
quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere
d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a
essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con
la coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di
Frigia[14]. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel
giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus
considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto
del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come
costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella
dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario. Busto
di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del
Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia
Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio
adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico
(vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame
sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi
amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente
un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi
rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo
appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.[15] Zeus e Ganimede,
rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali
cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato
durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei
fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo
un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si
riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo
a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo
all'eterosessualità. [16] FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto
pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il
rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza
della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua
funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di
Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17]. Nel dialogo
platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante
carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto
spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non
certo il suo corpo[18][19]. Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione
mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento
dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte
funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in
letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe
del 1774. Damiano Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI
(National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo
dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile
dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide,
poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di
essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20],
poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati
disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un
motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio[23]. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo
contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite
si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il
personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di
Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio
del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava
ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in
questo caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di
epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036
Ganymed. Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose
di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a
cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio
il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza
Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.»
Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche
in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa
anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche
un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato
nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande
scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della
coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di
Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari
grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o
simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in
immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi
eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un
lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un
grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente
nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte
pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede (circa
1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli
rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti,
Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno
dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay
ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514
circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato
contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti
catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di
Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è
più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter
Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo
Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che
un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e
si fa la pipì addosso per lo spavento. Ratto di Ganimede (1700), di
Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono
stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente
affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata".
Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel
Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita
alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse
per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste Marie
Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien,
Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di
Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La
scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a
Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo
come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26]. L'artista
danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi,
ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e
l'aquila. Particolare di una scultura della seconda metà del II
secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito
figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale
di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato
a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante
omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio,
tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a
figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre). Ganimede
e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale
per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522) Illustrazione gli
Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente
l'anima che si "rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo
(1505-1566), Giove bacia Ganimede (1550 ca.) (Ashmolean Museum, Oxford)
Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da
Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al
giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il
Ganimede di Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez
Cubero Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen
Albero genealogico ModificaAtlantePleioneScamandroIdeaElettraZeusTeucroDardanoBatea
ErittonioIlo TrooCalliroe Euridice IloAssarco IeromneneGanimedeLaomedonte Strimo(o"Leukyppe")TemisteCapi
PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEnea Lavinia
AscanioSilvio SilviusEnea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys
Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio
MarteRea Silvia ErsiliaRomoloRemo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and
Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata
inventata l'identità omosessuale Fazi editore 2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER
("The American Heritage Dictionary of the English Language", 2000),
catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro, Biblioteca III, 12.2, su theoi.com.
URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su
theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca
Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com. URL consultato il 10 giugno 2019. ^ (
EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I, 62, su penelope.uchicago.edu.
URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae
disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ ( EN ) Clemente Alessandrino,
22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019. ^ Igino, Fabulae 224 ^
Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122; Burkert fa purtuttavia
notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^
Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il
mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^
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V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^
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ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de Paris 10, 2008, ISBN
2-84016-010-2. Giulio Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), 2009,
ISBN 978-88-04-58347-9, SBN IT\ICCU\URB\0846664. Particolare di Zeus
accanto a Ganimede (1878), di Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona
gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella
mitologia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Ganimede Collegamenti esterniModifica
(EN) The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)
Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. ( DE , IT )
"Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di
Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016
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Ptolemaios PAGINE CORRELATE Troo re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Erittonio Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e
moglie di Tindaro Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di
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would use euphemysms when subtitling Phaedrus, “a dialogue on love and beauty”,
Figliucci contradicts Diogenes for whom Phaidros is ‘peri ton erotes’ – and has
it as ‘il fedro o vero dialogo del bello’ – del bello is neuter in Italian
(kalon), but also masculine – hence Figliucci’s reference to Giove and
Ganimede. Felice Figliucci. Figliucci. Keywords: Giove e Ganimede, il bello,
bei, kalos, kaloi, kaloskagathos, kalon, eros, to kalon, to kalos, eros. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Figliucci” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760037737/in/photolist-2mRRHVK
Grice e Filangieri – lo stato secondo ragione –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Sebastiano). Filosofo. Grice:
“The importance of Filangieri is in the concept of ‘ragione retorica;’ indeed,
on the footsteps of Vico, Filangeri ‘posseduto della ragione,’ shows that
illuminism is incompatible with the ancien regime!” Dei principi di Arianello,
figlio di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del
duca di Fragnito, nacque in Villa Filangieri, nel Casale di San Sebastiano di
Napoli. Nella medesima villa Filangeri morì Giovan Gaetano Filangieri: il nonno
dell'illuminista. Da una delle famiglie più antiche della nobiltà partenopea:
lo zio arcivescovo era Serafino Filangieri. Riceve un'educazione severa che
si svolse privatamente nel Palazzo Filangieri di Largo Arianello. Se ne
occuparono lo zio Serafino, e soprattutto Luca. Si dedica alla filosofia.
Si laurea. A seguito della carica di gentiluomo di camera presso Ferdinando IV,
si dedica al progetto della riforma di giustizia e divenne ufficiale di
marina. Il suo illuminismo è considerato napoletano in quanto non
assimilato dall'esterno. Si tratta di un illuminismo prodotto nella Napoli. La
città partenopea si era dimostrata sì come uno dei maggiori laboratori di idee
d'Italia, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e
il lusso sfrenato di nobiltà, mentre la massa plebea continua a vivere
nell'ignoranza. Si parla a questo proposito di "questione
meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva
in discussione anche l'esistenza di una civiltà, dato che il tessuto sociale
era ridotto a brandelli. In tale contesto rappresenta la voce riformatrice, la
cui efficacia e tuttavia limitata dalla precoce morte, prima delle vicende
rivoluzionarie. Scrisse un saggio, “Morale de' legislatori”, nel quale dichiara
di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in discussione le tesi di
Beccaria. Afferma infatti che nello “stato di natura” – non lo stato civile -- ciascuno
ha il diritto di togliere la vita a tutti per proteggere la propria
ingiustamente minacciata". Tali temi vengono poi ripresi e trattati ne “La
scienza della legislazione”. Stampa a Napoli le riflessioni politiche su l'ultima
legge del sovrano. Le riflessioni riguardano la riforma dell'amministrazione
della giustizia. In particolare afferma la necessità, per il magistrato, di
motivare la propria sentenza in base alla legislazione scritta nel regno,
permettendo in questo modo di eliminare gli abusi e i privilegi per il giudice. L'Illuminismo napoletano di Filangieri emerge
in particolar modo in “La Scienza della Legislazione”. Analizza le linee sistematiche di una scienza
pratica destinata a essere guida delle riforme legislative e basata sulla *felicità
individuale* del cittadino come premessa *utilitaristica* allo stato buono.
Filosofi come d'Alembert e Montesquieu, con il loro spirito di classici
dell'Illuminismo, contribuirono a influenzare Filangieri. Ottenuta la
dispensa dal servizio di corte, si trasferì a La Cava, poco lontano da Napoli.
Qui si dedica interamente alla filosofia. Arrivano le prime condanne da parte
dell'Inquisizione, anche se la Chiesa romana non contesta la legittimità dei
provvedimenti assunti dal governo borbonico sulla scorta delle proposte
contenute in “La scienza della legislazione”. Divene capitano di fanteria. Consigliere
del Supremo Consiglio delle Finanze e, preso dagli impegni politici, non riusce
“La Scienza”. Si ritira a Vico Equense. Essendo
stato iniziato in massoneria in una loggia napoletana, ebbe solenni funerali
massonici, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le logge napoletane. A
Filangieri e intitolato il carcere minorile di Napoli. A Milano è intitolata la
piazza antistante il carcere di San Vittore. Composta da otto libri, “La
Scienza della legislazione” è un'opera di alto e innovativo valore in materia
di filosofia. E così apprezzata per la sobrietà della critica e per la concreta
esposizione sul piano giuridico. Espose una filosofia frutto della grande
cultura napoletana antecedente all'Unità d'Italia, rappresentata in particolare
da Vico e Giannone, che interpola con
Montesquieu e Rousseau. Porta alla luce le ingiustizie sociali che
affliggevano Napoli, pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di
aristocrazia, sfruttatori del popolo. Al tempo stesso essa chiede alla Corona
di farsi portatrice di una rivoluzione pacifica, una sorta di modello di
monarchia illuminata, secondo i canoni illuministici, da conseguire attraverso
una seria azione riformatrice da attuarsi sugli strumenti giuridici.
Importanti l'affermazione dell'esigenza di attuare una codificazione delle
leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale, la necessità di
operare un'equa ripartizione delle proprietà terriere e anche un miglioramento
qualitativo dell'educazione pubblica oltre ad un suo rafforzamento su quella
privata. Per ciò che attiene al diritto criminale dà un'innovativa
definizione di delitto. Una azione A puo essere contraria alla legge L ma non
un ‘delitto’. Un agente che commette A (non delitto) non e un ‘delinquente’. Un’azione
A disgiunta dalla volontà V non è imputabile dallo stato civile. La volontà V disgiunta
dall'azione A non è punibile dallo stato civile. Un delitto consiste dunque in
una azione che viola la legge L, accompagnata dalla *volontà* dell’agente
‘delinquente’ di violar la legge L. Tratta le principali proposte di riforma,
nel campo politico-economico (abolizione del privilegio feudale, ecc.), penale,
dei rapporti tra religione e legislazione, e, in modo particolare, nel campo
educativo. Essa comprende il Libro I, dedicato a “Le regole generali” della
scienza legislativa, il Libro II a “Leggi politiche ed economiche”; Libro
III, “Leggi criminali (procedura; delitto e
pena), Libro IV, “Leggi che riguardano l'educazione, i costumi – Kant
‘zitte’ Varrone, mos, ethos -- e
l'opinione pubblica), Libro V, “Leggi che riguardano la religione”; Libro VI,
“Leggi relative alla proprietà, rimase abbozzato (ne fu steso soltanto il sommario),
e Libro VII, (Leggi sulla famiglia). Tra le varie tesi esposte in questo libro
emerge la considerazione che ha dell'agricoltura. Sotto l'influenza di
Genovesi, di Verri e dei fisiocratici, la considera un settore importante del
sistema economico e propose la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed
economico al suo sviluppo e alla libertà del commercio dei suoi prodotti,
sostenendo altresì l'imposta unica sul prodotto della terra. Il trattato
fu messa all'Indice dalla Chiesa romana per le sue idee giacobine. Infatti
critica l'atteggiamento di Roma, ritenendo appunto che questa pesasse sulla
società e si avvalesse di privilegi. Ha messo in campo proposte (giustizia
sociale e giuridica, uguaglianza, pubblica istruzione, espropriazione dei beni
ecclesiastici donati dai fedeli, ecc.) miranti al progresso in senso
rivoluzionario attraverso un'azione legislativa fondata sulla ragione (non la
fede) e rivolta ad un altrettanto presunto sviluppo della realtà di Napoli, ma
con i metodi tipicamente giacobini basato su coercizione e sentimento massonico
e anti-romano. Stampa altri due saggi, i quali ebbero grande successo, con
elogi entusiastici rivolti all'autore, come quello di Franklin, il quale avviò
una corrispondenza con Filangieri e lo tenne presente per la stesura della
Costituzione. Suscita interesse e discussioni anche grazie all'attenzione
dedicatagli da Constant. Altre opere: “Riflessioni politiche su l'ultima legge
del sovrano, che riguarda la riforma dell'amministrazione della giustizia” (Napoli);
“La scienza della legislazione” (Napoli); “Il mondo nuovo e le virtù civili: l'epistolario”
(Napoli. Ricca); “Discorso genealogico dei Filangieri estratto dall'istoria del
feudo di Lapio” (Napoli, Bernardo Cozzolino); “San Sebastiano: un itinerario
storico artistico e un ricordo” (Poseidon Editore, Napoli); “Signore di Lapio,
Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio di Capuana, fu
decorato con diploma imperiale di Carlo VI d'Asburgo, col titolo di principe di
Arianello. Vittorio Gnocchini, “L'Italia dei liberi muratori. Brevi biografie
di massoni famosi” (Roma-Milano, Erasmo Editore-Mimesis); Giampiero Buonomo,
Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!, BECCHI, PAOLO. De Luca, S. Il
Pensiero Politico di Gaetano Filangieri. Un'Analisi Critica. Il Pensiero
Politico; Firenze, Seelmann, Kurt. La proporzionalità fra reato e pena.
Imputazione e prevenzione nella filosofia penale dell'Illuminismo” (Società
editrice il Mulino); Trampus, Antonio, Diritti e costituzione” (n.p.: Soc. Ed.
Il Mulino, Domenico
Valente,"Poliorama Pittoresco", Conferenza tenuta dal comm. Giovanni
Masucci al Circolo giuridico di Napoli, n.p.: Napoli, Tip. gazz. Diritto e
giurisprudenza, Gerardo Ruggiero, Un
uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Alfredo Guida Editore
Pecora Gaetano, Il pensiero politico. Una analisi critica, Rubbettino Editore, Ferrone
Vincenzo, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo, Roma-Bari,
Laterza, Cozzolino Bernardo, San Sebastiano: Un itinerario storico artistico e
un ricordo” (Edizioni Poseidon, Napoli Giancarlo Piccolo, “Cappella Filangieri.
Indagini sulla Parrocchia Immacolata e Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS
Edizioni, Cercola F.S. Salfi, Franco
Crispini, Elogio, Cosenza, Pellegrini, "Frontiera d'Europa" (Rivista
storica semestrale, Esi editore Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), intitolato
“Studi filangieriani” Berti, F., Il repubblicanesimo, Pensiero politico Mongardini,
C., Politica e sociologia, Giuffrè, Trampus, A. e Scola, M., Diritti e
costituzione. Pensiero politico. Ascione Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella
di San Vito Martire a San Domenico: Il restauro del dipinto della Madonna del
Carmelo di Giovanni Antonio d’Amato, Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San
Sebastiano. Filangieri Illuminismo in Italia. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Open MLOL, Horizons Unlimited
srl. Il pensiero politico di.Una analisi critica, su politica magazine.
Fu detto, e ^giustamente, che G. F. I lerbarth è stato il creatore
della Pedagogia scien- tifica, (i) perchè alla costruzione empirica
delle teorie educative sostituisce « un sistema organi- co di
proposizioni derivanti le une dalle altre, co- me conseguenze da verità
fondamentali e come veri- tà fondamentali da principi, laddove prima era
piut- tosto una raccolta di ammaestramenti per le di- verse
contingenze che si presentavano nella pra- tica educativa, (juasi una
raccolta di ricette pe- li) X. ¥()RXK\ JA - La Peda^^oo^ìa
secondo Herharth r la sua scuola - liologna, 1890. Pag". 3.
lOI dagogiche; (i) e perchè pone a fondamento
del- la nuova scienza educativa la conoscenza dell'e- ducando e
delle leggi del suo sviluppo psichico, oftrendo, come bene scrive il
Romano, (2) i ger- mi preziosissimi e fecondi di ogni ulteriore
svi- luppo della psicologia pedagogica. Ma non si deve
dimenticare che, prima del- l'Herbarth, il nostro Filangieri, pur non
essendo un pedagogista sistematico, né preoccupandosi, come il
primo, di organizzare un sistema scien- tifico di Pedagogia, abbia studiato
il fatto del- l'educazione umana come acquisto lento e gra- duato
della psiche, svolgentesi e sviluppantesi per gradi, sino alla
consapevolezza e libertà del volere. Tanto l'Herbarth (|uanto
il Filangieri parto- no dal principio Lockiano della tabula rasa,
che con le masse apperccpicnti del primo, e la pci'- ce^ione e la
inenioria del secondo si svolge in in- telligenza operante; e
dall'amoralità del neonato, per via dell'istruzione educativa e delle
casuali contingenze della vita, all'acquisto del carattere morale e
della felicità. Ottimisti entrambi, come tutti i filosofi e
pedagogisti del secolo XVIII, . all'istruzione asse- (i) L.
CREUARO - A<7 Pedagogia di (r. F. Ilcrbarth -Torino, 1909. Pag.
293. (2) r. ROMAXO - Psicologia Pedagogica - T(^rino.
1900. Pag. xvm. ' ' ., I02 Limano
un pou^rr illimitato, essendo a l'uno e a l'al- tro ii^note le
\e\:^\J!;'i dell'eredità psicologica Come vedremo in seguito, più
d'un princi- pio fondamentale della pedagogia Herbartiana
troveremo, in germe, in i|uella del Filangieri; e ciò varrà anche a
convincerci che le leggi del vero non sono il prod(ìtto geniale di un
solo intelletto, ma per via di lenta elaborazione e di successi- ve
integrazioni, si vanno svolgendo e rivelando; (i) se pure non ci farà sospettare
che l'Herbarth abbia letta anche lui, come i pedagogisti della
Rivolu- zione, la Scienza della Legislazione. Il Filangieri
non è psicologo, nel senso che i l)roblemi della psiche lo abbiano spinto
a ricer- che, a critiche, alla formulazione di teorie pro- jjrie;
egli segue le idee sensistiche dominanti al- lora, e diffuse in Napoli,
specialmente per opera del Genovesi, che ebbe una forte schiera di
se- guaci, tanto e maggiormente nel campo degli studi economici,
quanto in quello dei filosofici. (2) Così il Nostro si ricongiunge
al Locke, da cui il Genovesi trasse il suo criticismo, che con-
fina spesso coU'agnosticismo; e al Rousseau che, come tutti i pubblicisti
francesi del secolo, si rifa dal filosofo inglese. (i)
V. G. A. COLOZZA - L'immaginazione nella Scien- za -'Yoùno, 1900. Spcc.
pag. 65 e S^&g"- (2) /'. (t. Gentile- Z>a/ Genovesi al
Galliippi-y,-^.- poli, 1903. Pag. i6 I03
L'uomo non ha idee innate, nasce nell'igno- ranza di tutto, non é
né buono né cattivo: le circostanze fortuite, o deliberate mercè
l'educa- zione intenzionale e metodica, lo piegheranno al bene o al
male, lo renderanno colto o incapace di guidarsi nelle vicende della
vita. L'errore è acquisito; e poiché l'infanzia é l'età della
curio- sità e della imperfezione della ragione, é ordi- nariamente
l'epoca di questo fatale acquisto. 11 Filangieri segue la teoria delle
facoltà, efificace- mente combattuta dall' Herbart, (i) e dalla
psi- cologia contemporanea, che vede in essa il mas- simo grado
d'imperfezione della scienza e il se- polcro della ricerca. (2)
Ma, pur affermando che le facoltà di scn'irc, di pensare, di
z'olcrc, sono nell'uomo appena na- to, non le considera <; entità
reali, personifica- zioni di tante e diverse forze a sé e
trascenden- ti, » (3) ma semplicemente attitudini, potenze della
mente, che trovano fuori dell'uomo le cau- se del loro sviluppo. Queste
cause sono le cir- costanze nelle quali viene a trovarsi l'uomo; e
l'oggetto dell'educazione é appunto di sommini- strare un concorso di
circostanze il più atto a sviluppare queste facoltà, secondo la
destinazio- (1) V. CREDARO - Op: cit. Pag. 46-47.
(2) G. DANDOLO - Appunti di filosofia - Messina, 1903. Voi. I. Pag.
37. (3) COLOZZA - Op. cit. - Pag. 1 79. — I04
— ne dell'individuo e gl'interessi della società del- la
(juale è membro. {\) Poiché l'anima è una talutla rasa, senza
pen- sieri e senza desiderii, come acquisterà essa le conoscenze e
perverrà agli atti volontari? La prima operazione dell'intelletto
è la per- cezione, ossia l'impressione che si fa nell'animo
all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi. Come e perchè si
produce questa impressione, l'autore non dice, forse perche accoglie le
idee critiche del Genovesi, il (juale, come fa vedere il Gentile,
(2) confessava d'ignorare la natura e l'origine della percezione e delle
idee e la natu- ra dell'anima: conoscenze inaccessibili alla capa-
cità degli uomini. Anche il Locke aveva affermato che noi non
possiamo niente sapere di certo né sul cor- po né sullo spirito; (3) e,
riducendo alla sensa- zione (da cui derivano le idee semplici) e
alla riflessione (idee composte) l'origine di tutte le o- perazioni
intellettuali, non indaga, neanche lui, il come e il perchè. (4)
Per lo stesso Rousseau, benché egli abbia. (1)
FILANGIERI - A/7;r^ IV. Cap. XXIV. (2) GENTILE - Op. cit. Pag. I -
2 - I I. (3) LOCkE - Saggio siiirintendimcìito nmano - IV. 3,
26 e segg. Citato da G. M. Ferrari in Locke - Roma, 1906 - Pag. 69.
(4) FERRARI - LocA-c - Cit. Pag. 70 - I IO. — I05
— come il nostro Filang-ieri, intuizione d'una nuo- va
psicologia da porre a fondamento dell'educazio- ne, le funzioni
psicologiche, come scrive lo Stop- poloni, (i) sono sempre quelle immaginate
dagli aristotelici medioevali, tutte belle e formate, inca- stonate
l'una dopo l'altra, l'una sopra l'altra. Il Filangieri però
riconosce che le facoltà intellettMali, quattro, secondo lui, si
annunziano sollecitamente e contemporaneamente, e si svilup- pano
gradatamente. V Non confondiamo l'annunzio delle facoltà intellettuali,
col loro sviluppo. Il pri- mo é sollecito e quasi contemporaneo, ma
l'ul- timo è lento e progressivo. > (2) Ripudiate le idee
innate, ammesse le facol- tà che si svolgono gradatamente, secondo
l'età del bambino e le speciali circostanze in cui que- sti sarà
posto, deriva che l'opera educativa non potrà che seguire il processo
naturale, offrendo a queste potenze intellettuali i mezzi per
isvolger- si e svilupparsi. Ed ecco la Psicologia in ser- vigio
della Pedagogia. Il Filangieri ammette dunque quattro
facoltà, che si annunziano quasi contemporaneamente, ma
progressivamente si sviluppano: percezione, memoria, immagimizione,
raziocinio. \jò. percezione è «l'impressione che si fa nel-
(i) STOPPOLONI- Rousseau -Roma, 1906 -Pag. 163. (2)
FILANGIERI - Libro IV. Gap. XXIV. — io6 —
l'animo all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi. Senza di
essa gli oggetti agirebbero inutilmente sui nostri sensi, e l'anima non
ne acquisterebbe cognizione alcuna. Per mezzo della mciuoria,
le cognizioni accjuistate per via delle percezioni, si conservano,
si riproducono, si riconoscono. Adoperata ap- pena è annunziata sarebbe
l'istesso che impedirne lo sviluppo. Bisogna aspettare che
sia nel suo vigore per profittarne, e nel suo vigore non é prima
che il bambino abbia nove anni, dopo che la sua intelligenza, per via
dell'istruzione fornita con le percezioni, abbia acquistato vigore.
Si potrebbe domandare al Filangieri come potrà essere nel suo
vigore una facoltà che non sia stata esercitata; ma ai suoi tempi erano
igno- te le leggi dello sviluppo sincrono delle attività psichiche,
che in Herbart, con la teoria della imiltilarità dell'interesse e della
concentrazione del- ristrìLzione, trovarono il genio precursore.
Avute le immagini e le rappresentazioni de- gli oggetti reali per
mezzo deWa. />ercezione e del- ia memoria, l'uomo le compone e le
combina per mezzo deW immaginazione (terza facoltà), la ([uale, per
isvilupparsi richiede un lungo lavoro intellettuale percettivo e
memorativo. L'ultima a svilupparsi é la facoltà di ragio-
nare, che combina e compone, non già le idee degli esseri reali, opera
questa dell'immaginazio- IO' ne, ma le
idee di già generalizzate, cioè quelle delle qualità, delle proprietà,
dei rapporti di esseri che non hanno cosa alcuna di reale, e non
sono altro che nostri modi di vedere e di pensare, e pure
astrazioni. La divisione Lockiana in idee semplici, pro-
dotte dalle sensazioni, e in complesse, prodotte dalla riflessione, è in
Filangieri ancora più com- plessa. Tutte le idee semplici sono anche
astrat- te; ma alcune si acquistano immediatamente, per mezzo dei
sensi (colore, freddo, caldo) e sono quindi idee astratte e semplici ma
dirette; altre non riconoscono nei sensi la loro remota origi- ne,
e si formano per successive e combinate o- perazioni dell'intelletto
(idea dell'esistenza, del- l'essere) e sono astratte e semplici ma
indirette. Altre idee, in line, hanno, come le seconde, la loro
remota origine dai sensi, si formano per combinate e successive
operazioni dell'intelletto, ma si rendono quindi di nuovo sensibili coi
mez- zi immaginati dall'uomo. Tali, per esempio, in geometria le
idee di linea retta, di superhcie piana, che costituiscono una terza
specie di idee: le astratte e semplici ma indirette e figurate.
Queste tre specie di idee semplici si acquistano: le prime, coU'associare
la parola che esprime l'idea (es. rosso) con la sensazione del colore;
le seconde, con operazioni successive dell'intelletto di astrazioni
e di sintesi; le terze, col primo procedimento e col secondo.
iO(S Altre idee sono composte, (costituite da
idee semplici) (juali: corpo, sostanza, albero, animale, ecc., che
hanno subita una considerevole progres- sione di operazioni
intellettuali. Il Filan^-ieri offre un saggio del
procedimento mentale per l'actiuisto dell'idea astratta di ciuer- cia,
albero, vegetale, corpo, sostanza, che è una bellissima pagina di
psicologia, giudicata dal Ni- sio il più bel tratto che abbiamo nella
letteratu- ra filosofica, (i) Stabilito che le facoltà
intellettuali si svilup- pano progressivamente, consegue che il savio
e- ducatore debba saper con quali esercizi comin- ciare e dove
pervenire; e il periodo educativo sappia dividere in tanti gradi, quanti
sono quel- li dello sviluppo intellettuale. Così, nella prima
età, quando padroneggia- no le sensazioni che ci ventrono dal mondo
e- sterno, devesi secondare tale disposizione natura- le, offrendo
per pascolo all'intelligenza materie di studio che trovino nella
percezione sensibile il loro fondamento. Tali sono, oltre della
lettura, della scrittura, dall'aritmetica, l'osservazione sul- le
produzioni e sui fenomeni della natura, il di- segno e l'esercizio
diretto dei sensi. L'uso della seconda facoltà, la nienioria, é
as- (i) Filangieri- Libro IV. Cap. XXV; cirt. VII;
Kisio - Op. cit. - Pag. 3 1 5. — I09 — segnato al
quinto anno d'istruzioni. Di questa facoltà non bisogna abusare, (i)
perchè é un pregiudizio considerare la memoria una macchi- na « le
ruote della quale diventano altrettanto più facili, quanto più sono state
usate e le di cui molle acquistano maggior vigore, a misura che
vengono con maggior forza e con minore intermissione compresse; > (2)
ed é assurdo il metodo <v che imprime nella memoria vocaboli e
nomi invece d'idee, che riduce il sapere dei fan- ciulli ad efimeri
sforzi, che produce l'abito di apprendere e d'obliare colla stessa
celerità, e che favorisce tanto la vanità dei fanciulli. »
Per conservare ed aumentare il vig-ore di questa facoltà é
necessario non impegnare la me- moria in sforzi inutili; facilitare il
lerame fra le idee, in maniera che la riproduzione d'una, ri-
svegli immediatamente l'altra (3); rinfrescare soven- te le tracce delle
idee. (4) In questo secondo periodo di sviluppo in-
(i) Cfr. Credaro - (9/. r//. -Pag. 109. (2) Filangieri -
Libro IV. Gap. XXV. (3) ^f^- HERBART, che per via AqXY
appercezione, vuole che ogni nuova serie di cognizioni trovi
nell'in- terno del fanciullo una serie vecchia appercepiente, ossia
che il nuovo s'innesti organicamente sul vecchio, e che Y appercezione
segua con facilità e piacere e sod- disfi un bisogno interiore fortemente
sentito (credaro- Op. cit. - Pag. 108 - 109.) (4) C/r. DE
BOMINICIS - Lince di Pedagogia, cit. Pag. 133. Parte prima^
I IO tellettuale, che dura tre anni, vanno
continuati ;^li esercizi di osservazione dei prodotti e dei
fenomeni naturali; il disegno, esteso allo studio della i^eoo^ratìa,
cominciato lo studio della sto- ria e della lingua latina.
All'ottavo anno d'istruzione e tredicesimo d'età, il bambino ha
acquistato quel grado di sviluppo e quella quantità necessaria di
cogni- zioni atte a fornirgli l'elemento per l'esercizio della
terza facoltà, r immaginazione, che si edu- cherà senza precetti e
regole, e solo che il vero, il bello, il grande, il sublime sia nello
spirito del fanciullo, nei suoi occhi, nelle sue orecchie e nella
sua memoria, (i) Dopo un anno, il Filangieri avvia l'alunno
x\q\V ai'ic di ragionare, coltivando la corrisponden- te quarta facoltà,
ed avviandolo allo studio della geometria, dell'aritmetica e
dell'algebra, della grammatica e della legislazione, che apprestano
ampio materiale per l'esercizio e lo sviluppo del raziocinio.
Questi principii di psicologia pedagogica il nostro Autore applica
quindi nell'educazione spe- ciale di avviamento alle varie professioni,
con la certezza che, con tale sistema, gli allievi « non
(i) FILANGIERI - A/<^/-^ //', Cap. XXV.- l'. il bel lavoro del
COLOZZA.- L'Immaginazione nella Scienza - cit; concordante in parecchi
punti con le idee del nostro Autore. 1 1 1
si lasceranno imporre dagli immensi volumi che si sono
scritti sopra ciascheduna scienza, ricono- sceranno il vero stato dei
progressi che in essa si son fatti, (i) e invece di cominciare da
dove han cominciato i loro predecessori, essi comin- ceranno da
dove quelli han fmito, seguendo nel- l'ordine progressivo delle
istituzioni il disegno indicato dalla natura nel progressivo
sviluppo delle facoltà intellettuali. Il sistema proposto non
regge certo alla critica della psicologia contemporanea, né ai po-
stulati più accettati della pedagogia scientifica, specialmente quando,
oltre allo stabilire delle>- coltà preesistenti all'attività psichica,
artihziosa- mente, seguendo l'indirizzo allora comune e dif- fuso,
conseguenza necessaria, come bene afferma il De Dominicis, della teoria
delle facoltà, asse- o-na date età, con nette demarcazioni, per il
lo- ro sviluppo e la loro educazione. Nell'istesso er- rore era
caduto il Rousseau. Oggi si farebbe compiangere il pedagogista
che vofesse scindere così l'unità della psiche, e che credesse incapaci i
bambini di ragionamenti e di astrazioni, prima che fossero passati
attraverso all'educazione speciale della percezione e della
memoria; poiché, come scrive l' Angiulli, una del- (lUl
Filangieri vuole pervenire 2\X autonomia men- tale, che dev'essere il
fine ultimo di ogni educazione intellettuale. I I
2 le conquiste più importanti dei moderni studi psicologici
consiste nella scoperta dell'unità di composizione della mente. Le
operazioni più al- te dell'analisi e della sintesi, della
astrazione, del raziocinio, ci chiariscon modi difìerenti e più
complessi di ([uel processo della discriminazione e dell'assimilazione
che si rivela anche nella for- ma più bassa dell'esperienza e della
sensazione :>(i) Anche tra gli Herbartiani, il Lindner (2)
distingue tre gradi o periodi di sviluppo intellet- tivo, che sono: i
quello à^VC accoglimento (pcì'cc- zione)- periodo dell'infanzia, periodo
dell'impara- re; 2 (juello del raccogliere ed ordinare - perio- do
dell'adoloscenza- periodo dell'imparare; 3 quel- lo déW elaborazione
(apercctio)i) - periodo della gio- ventù - periodo della formazione dei
pensieri. Anche la Pedagogia scientifica ammette dif- ferenze
relative alle diverse età del discente; ep- però vuole che i gradi dello
sviluppo psichico si corrispondano con quelli dello sviluppo
fisiologi- co, e distingue l'infanzia dall'adolescenza; e que- ste,
dalla gioventù e dalla maturità: periodo in (i) AXGIULLI -
La Filosofia e la Scuola - Nap>oli, 1888. Pag. 180. V. ORESTANO -
An^irùilli - Roma, 1907. Pag. 60 - 74; COLOZZA - Ani^iiiìli - Diz. di
Pe- dag. cit; DE DOMlNiCIS, che in - IJnce di Pedagogia. cit. Pag.
180 - I, formula la legge della simultaneità della cultura
psichica. {2) FORNELLI- La Pedagogia secondo Herbart, ecc.
cit. Pag. 16. I I cui sensazioni e
percezioni sono prevalenti, l'im- pulsività vince il potere d'inibizione;
e periodo dell'attività memorativa e immaginativa, dei sen- timenti
sociali ed estetici, e via; e appresta va- ria coltura, tendente a
rispettare la legge del tempo educativo, così formulata dal De
Dominicis.(i) Però, mentre il sistema del Filangieri e del- la
vecchia Pedagogia empirica delle facoltà si e- saurisce in una serie di
educazioni parziali, quel- lo dei pedagogisti contemporanei, pur
riconoscen- do delle prevalen^-e nei gradi dello sviluppo, non
circoscrive l'azione educativa, ora alla sola perce- zione, o alla sola
memoria, o alla sola immagi- nazione; ma, accettando il principio
Herbartiano della tmUtilarità deir interesse, anche nella più ele-
mentare lezione cerca di sviluppare, tanto l'attività percettiva, quanto
l'appercettiva, e pervenire, dalle più semplici impressioni , al sentimento
estetico e morale. (2) 2 — Come si è più volte accennato, il
Filangieri, tanto nell'esplicazione del suo si- (i) DE
DOMINICIS - IJ)iee di Pedagogia - cit. Par- te I. Pag. 177 e segg.
(2) Per gli stadi dello sviluppo intellettuale del bambino, V.
CESCA - Principii di Pedagogia Generale - cit. Pag. 74-79; DE DOMINICIS -
Zz;ì(?(? di Pedagogia - cit. Pag. 117 e seg. - Antropologia Pedagogica -
cit; VY.^y:l -\.2l Psycologie de t'en/a?ii -Paris, 1882-86; SULLY -
Etudes sur Venfance -Vtxx'x's,, igoo; T\\\£X - Psicologia deir infanzia -
Trad. it. Messina, 1903. — 114 — stema
sociologico e giuridico, (juanto in quello educativo, è ottimista; e
assegna all'educazione un potere illimitato, sia perchè parte dal
princi- pio della bontà originaria della natura umana, come dalla
convinzione che la buona educazione e i buoni costumi tutto possano. È
ottimista, co- me lo erano stati Leibniz e Locke, Rousseau e
Pestalozzi, e quasi tutti i grandi filosofi antichi e moderni, (i)
Per far vedere i prodigi dell'educazione, il Filangieri ricorda i
Greci e i Romani, che egli però non intende imitare quando non rispettano
le leggi di natura. « Se il fiero Licurgo, col soccorso
dell'edu- cazione, potè formare un popolo di guerrieri fanatici,
insuperabili nella destrezza, nella forza e nel coraggio, per qual motivo
un legislatore più uma.no e più saggio, non potrebbe egli for- mare
un popolo di cittadini guerrieri, virtuosi e ra- gionevoli? » (2)
L'istruzione diminuisce i tristi effetti della corruzione e si
oppone ai progressi del dispoti- smo e della tirannide: ecco il principio
direttivo del Filangieri; ed ecco l'aiuto che l'educazione porge
alle altre parti della legislazione, perchè si (i) V. DE
DOSnKlClS - Soc/o/ogi a Pedagogica - cit. Pag. 1,59- 172/ C¥.^CK -
Aniinowic psicologiche e socia- li delV Educazione -W.Q^s\wai, igoò. Pag.
1-37. (2) FILANGIERI - Z.//^;-^ IV Cap. I. 1
i.S raggiunga il fine supremo di essa: la felicità,
col benessere di tutti e la libertà. E come la mano dell'uomo
ha soggiogato la natura, creando anche nuove specie di vegetali e
di animali, cosi può trasformare, mercè l'educa- zione, anche il mondo
morale; e, dirigendo il corso dello spirito umano, distraendolo
dalle vane speculazioni, richiamandolo agli oggetti che interessano
la prosperità dei popoli, perpetuare il benessere e la virtiì.
Dalla suprema importanza del problema educativo, deriva la
necessità che lo Stato, co- me nel campo degli interessi economici e
giuri- dici esercita il proprio potere, dirigendo ed integrando
l'azione dei singoli, così in quello edu- cativo, che offre maggiori
difficoltà, si sostituisca senz'altro all'opera della famiglia, per più
rispet- ti disadatta ad apprestare le occasioni utili e necessarie
per la formazione del cittadino ope- roso e morale. La teoria
socialista del Filangieri si oppone recisamente alla individualista del
Rousseau, e in parte, dell' Herbart, il quale però, come bene fan-
no notare il Credaro, il Fornelli e l'istesso Ora- no, (i) tende al fine
etico- sociale, apprestando una somma di cognizioni che diventano
attività (l) CREDARO- Op. cit. - Pag. 69-277; FORNELLI
Op. d'i. 6-13; ORANO - Herbarl -l^oxn-A., IQ06, Pag. 46 - 48. 62,
120 e seg. - - 1 1 f) — operanti e concorrenti
al benessere della col- lettività. Il socialismo del
Filangieri e l'individualismo dell' Herbart, (che è tutt'altra cosa di
quello del Locke e del Rousseau, tendenti a formare, il primo il
gcntilnovio; l'altro, riiovid) divergenti nei mezzi, si congiungono nel
fine, che è di for- mare l'uomo socievole morale, (i)
Partendo il Rousseau dal principio: tutto ciò che è in natura é
buono e diventa cattivo nel le mani dell'uomo, perviene alla negazione
di qualsiasi azione positiva dell'educatore sull'edu- cando, cosi
che il suo é piuttosto nichilismo peda- gogico, che individualismo: né
famiglia, né socie- tà debbono intervenire nell'educazione umana;
se mai l'educatore, anzi il pedagogo, nel significato greco, non deve
che seguire, vigilare attivamente, mai sostituirsi all'opera educatrice,
progressiva della natura, al lavoro spontaneo dei germi in-
tellettuali e morali latenti nella personalità del- l'educando.
L' Herbart ammette l'opera dell'uomo sull'uo- mo; e della scuola,
per assoluta necessità, essendo impossibile assegnare un maestro per ogni
edu- cando; ma, potendosi per la prima educazio- ne farne a meno,
la famiglia lo sostituisce; (i) Sulle questioni dell'indirizzo
individualista e socialista in Educazione V. CESCA -Antinomie, ecc. -
cit. Pag. 11 -71; STRATICÒ - Pedagogia socia/e - Pag. 63 - 95.
— 117 — e crede nulla l'ingerenza dello vStato nella
pub- blica educazione, perchè esso « non si prende cura della massa
dei cittadini, che svolgono la loro esistenza senza compiere alcuna
importante e pubblica funzione. Esso bisogna di soldati, a-
gricoltori, operai, impiegati, professionisti, eccle- siastici. Allo
Stato importa ciò che fanno tutti costoro, ma non ciò che sono, (i) Esso
non ha modo di conoscere né di migliorare l'intimo del- l'animo.
(2) Cosi l'Herbert sconosce, ne prevede quale alta funzione
educativa lo Stato potrà e dovrà, direttamente e indirettamente
esercitare (3); e stabilendo un'opposizione tra l'opera dello Stato
e quella della famiglia, che mal risponde alla realtà delle cose,
sconfessa quasi, come scrive il Credaro, l'alto concetto che informa
tutta la sua pedagogia. Il Filangieri copre le lacune,
completa le deticienze del Rousseau e dell'Herbart, con una visione
precisa delle esigenze della personalità dell'alunno, dei diritti e dei
doveri della famio-Ha e dello Stato, dell'efìficacia e della necessità
del- (i) É facile l'obiezione: Se allo Stato importa ciò
che fanno i cittadini, deve parimenti, anzi primie- ramente importargli
ciò che sono, poiché l'uomo agi- sce, opera secondo che è.
(2) CREDARO - Op. cit. - Pag. 264 (3) STRATICÙ Pedagogia
sociale. OV. -Pag. 161 - 235. 1 i<S
l'educazione sociale. <•. Per formare un uomo io preferisco
la do- mestica educazione; per formare un popolo io preferisco la
pubblica. L'allievo del magistrato e della legge non sarà mai un lunilio;
ma sen- za l'educazione del magistrato e della legge, vi sarà forse
un Emilio, ma non vi saranno citta- dini. -- (i) E poiché il
nostro Autore si propone di formare individui sociidi, cittadini operanti
per il proprio benessere e per quello della collettivi- tà,
educazione famigliare e sociale s'integrano e si armonizzano ed operano
di conserva per la. conformazione psichica e morale del bambino,,
sino alla piena consapevolezza degli atti ed al- l'autonomia.
Vero è che allo Stato il Filangieri assegna un'azione di gran lunga
superiore a quella delia- famiglia; ma bisogna esaminare la questione
sen- za preconcetti sentimentali o politici per convin- cersi che,
dove le famiglie, come purtroppo ai nostri giorni, e più ai tempi
dell'Autore, sono in gran parte, anzi nella (juasi totalità,
incapaci ad apprestare ai piccoli una conveniente educa- zione, è
necessario che la scuola, organo dello Stato, si sostituisca a quelle,
per la conservazio- ne del patrimonio di coltura tramandatoci dalle
(i) FILANGIERI- Libro IV Caf). II. — 119 —
generazioni passate, per la diffusione della mo- ralità e per la
difesa contro i nemici interni ed esterni. L'Autore enumera i
motivi che lo determi- nano per l'educazione pubblica, fra cui
l'ignoran- za e la miseria del popolo, la perdita dei paren- ti e
l'abbandono dei genitori negli orfani e negli esposti, la mancanza di
tempo, le dissipazioni e i piaceri negl'industriali e nei ricchi, i
pregiudi- zi e gli errori diffusi; l'effetto dell'amor male in-
teso e della debolezza così frequente nei genito- ri; la cura eccessiva
della conservazione fisica, che produce pusillanimità e debolezza
d'animo e che distrugge la confidenza nelle proprie for- ze; e
sopra tutto la corruzione dei costumi in tutte le classi sociali.
Anche l'Herbart, pur essendo fautore del- l'educazione famigliare,
riconosce che « in pra- tica le condizioni della massima parte delle
fa- miglie sono tutt'altro che propizie per l'esecu- zione del
programma educativo » e riconosce pure che la spinta dell'emulazione si
trova nelle scuole pubbliche; ma crede che le nature gagliar- de
non abbiano bisogno dell'impulso dell'emula- zione; e per esse, in
difetto dell'educazione fa- migliare, consiglia gl'istituti privati, dove
l'istru- zione può svolgersi rapidamente e meglio adat- tarsi
all'individualità dell'alunno, (i) (l) CREDARO- Op. cit.
Pag. 265 I 2 Si potrebbe domandare all'I
lerbart quali e (juante sono le nature gagliarde, che non abbia- no
bisogno della spinta dell'emulazione; e se non sia in vece nel vero il
Filangieri, il quale é con- vinto che l'educazione sia quasi interamente
fon- data sull'imitazione. Tra i vantaggi dell'educazione
pubblica, il Filangieri dà grandissima importanza al fatto che,
solo per mezzo di essa può formarsi il carattere nazionale, appunto per
effetto dell'imitazione, (i) I fattori dell'educazione sono la
natura, Var- ie, le circostanze . Così il nostro pedagogista mo-
stra di avere una visione precisa della natura del fatto educativo, che
involge tre fondamentali (questioni: eredità psico-fìsica, azione dell'ambien-
te sociale, azione deliberata del docente sul di- scente. Lo stesso
triplice fattore nel processo e- ducativo rileva il De Dominicis: (i)
<; E indu- (i) Cfr. THOMAS -(9/. «V. - Pag. 33 « Nella
ma- niera di parlare, di camminare, di ragionare, proprio di ognuno
di noi, facilmente si ritroverebbe tracce delle influenze che abbiamo
subite, perchè insensibilmen- te ci modelliamo su quelli che ci
circondano, come in- sensibilmente essi si modellano su noi. In tal modo
si spiega in parte quel che si é giustamente chiamato carat- tere
ìiazioìiate, le somiglianze generali cioè che esistono fra i cittadini di
uno stesso Stato, come le rassomiglian- ze che esistono fra gli uomini di
una stessa epoca e d'una medesima civiltà » V. anche: LEVY - Op.
cit. Pag. 66 - 80. Per V educazione nazionate: FORNELLI - E-
ducazione Moderna - Napoli, 1905. Pa^. 319 - 327. ( I ) DE
DOMINICIS - Sociotogia Ped. cìt. Pag. 1336 seg. I 21
bitato quindi nel processo educativo umano un triplice
fattore: il fattore fisiologico o dell'eredi- tà dello sviluppo organico
e dell'azione estrinse- ca della natura fisica; il fattore sociologico e
sto- rico, o dell'azione dell'ambiente sociale e delle sue varie
forme; il fattore dell'azione diretta, de- liberata, voluta della
g-enerazione adulta sulla generazione adolescente » Il
Filangieri non ci ha lasciato una sua de- finizione dell'educazione,
considerata in senso largo; ma da quello che s'è detto si comprende
com'egli, prima d'ogni altro pedagogista anterio- re a lui e dei
posteriori, fino al De Dominicis e al Cesca, (i) che presentano
definizioni eccellen- ( I ) DE DOMINICIS - O/». cit. Pag.
154; «L'Educa- zione é fatto universale di necessiiria e naturale soli-
darietà tra esseri formati ed esseri in formazione, per cui l'uomo sul
fondamento della sua spontaneità e dei suoi bisogni, nel periodo di suo
sviluppo, perfe- ziona se stesso secondo l'azione dell'ambiente
fisico sociale e l'azione diretta e deliberata degli adulti, in
ordine al fine individuale e collettivo della lotta per l'esistenza, alle
idealità d'un popolo e della specie umana e alla propria personalità e
vocazione. » CESCA - Principii di Pedagogia Generale - cit. Pag. 26;
«L'e- ducazione è l'insieme delle azioni che si esercitano su un
individuo ancora immaturo per affrettare e miglio- rare il suo sviluppo
organico e psichico e per render- lo meglio atto a vivere nell'ambiente
fisico in cui si trova e della società di cui fa parte. » Chi abbia va-
ghezza di conoscer le varie definizioni A>è\V Educazione , date dai
più noti filosofi e pedagogisti antichi e mo- derni, veda: G. TAURO -
Introduzione alla Pédagogia Ge- nerale - ^oma., igo6. Pag. 226-235.
I 22 ti, si sia di più avvicinato al più
completo con- cetto del fatto dell'educazione; e più chiaramen- te
manifesta il suo acume quando determina che « l'oggetto dell'educazione
morale è di sommi- nistrare un concorso di circostanze il più atto
a sviluppare le facoltà di sentire, di pensare, di vo- lere, a seconda
della destinazione dell'individuo e degl'interessi della società. :>
(i) Confrontando questa definizione con quelle del De
Dominicis e del Cesca, si osservano delle somiglianze, specialmente per
ciò che si rife- risce alla coordinazione dei mezzi tendenti a
integrare le esigenze individuali con le sociali. Bisogna anche
considerare che la definizio- ne del Filangieri si riferisce alla sola
Educazio- ne inorale, e perciò trascura gli elementi tenden- ti a porre
in luce altri fattori, che l'Autore va rivelando quando si occupa
particolarmente di istruzione, educazione fisica, ecc. E
importante notare che il Filangieri, anche per l'educazione morale, vuole
lo sviluppo della facoltà di sentire, di pensare, cioè
Xistritzione, propriamente detta, che per ciò è istruzione edu-
cativa; cosa che, per altro, egli fa vedere in tut- ta l'opera, e
specialmente dove si occupa dell'i- struzione pubblica. Egli
é il primo a porre in rilievo Xeduca- (i) Filangieri - Libro
IV. Cap. X. — 123 — zione delle circostanze; (i)
e afferma giustamente che un sol uomo malvagio e stupido, a
contatto col fanciullo, può distruggere il lavoro di più an- ni; e
vuole che egli viva in un ambiente di at- tività e di moralità, qual'è la
casa à^\ custode. Il Filangieri divide l'educazione in
fisica, morale, scientifica (intellettuale): tripartizione re-
spinta dagli Herbartiani, i quali escludono dal cam- po educativo le
leggi dello sviluppo fisico, che assegnano alla Medicina e all'Igiene;
(2) ma ge- neralmente adottata, se non per significare tre ordini
di fatti irriducibili, che l'unità psicofisica è ormai dimostrata ed
accettata dalla Pedagogia positiva, (3) per comodità di trattazione, e
per porre in rilievo i tre aspetti o momenti del fatto educativo,
inteso nella sua più larga significa- zione. L'una di queste
tre educazioni deve preva- lere sull'altra, secondo la destinazione
sociale del bambino; perchè, mentre per la classe degli ar- tigiani
dev'esser prevalente l'educazione fisica, come quella che pone l'operaio
in condizione di affrontare le fatiche e i disagi del lavoro mate-
riale, per la classe dei cittadini che saranno av- (i) V.
CESCA- Op. cit. Pag. 56-58. (2) V. CREDARO - op. cit. Pag. 197 - 8;
CESCA- Op. Ht. - Gap. I - II; BAIN - La Scienza de//' Educazione -
To- rino igog. Cap. IL ,(2) F. MARTIXAZZOLI - Educazione - in
Dizionario di Pedagogia Martinazzo/i e Credaro - Cit.
— 124 — viati alle professioni, sarà mai^o-iormente
curata l'educazione scientilica; e parimenti sarà appre- stata una
speciale educazione morale, giustificata dall'ambiente sociale in cui gli
educandi verran- no a trovarsi. E, a mio avviso, se è vero
che l'uomo è e fa, in massima parte, ciò che le persone con cui si
trova più spesso a contatto, le proprie oc- cupazioni, le impressioni
della fanciullezza rela- tive all'ambiente famigliare, lo fanno essere
e gli fanno fare, l'educazione uniforme, date le at- tuali
differenze sociali, intellettuali, morali, non è soltanto un'utopia, ma
anche un principio non rispondente alle leggi di evoluzione. Per
perve- nire all'uguaglianza ideale degli uomini, dato che ciò possa
costituire un bene, é necessario par- tire dalle disuguaglianze attuali,
e adattare istitu- zioni legislative, economiche, educative ai vari
gruppi o classi che costituiscono gli strati socia- li. Considerare il
figlio del contadino, dell'ope- raio, del minatore, suscettibile della
stessa edu- cazione da apprestare al bambino ricco e, in ge-
nerale, più sviluppato fisicamente, intellettualmen- te, moralmente, (i)
è un'illusione, retaggio d'un falso concetto di democrazia.
La pedagogia scientifica, come rispetta l'in- (i) y.
A. 'ìilCEFO'RO - Afdropologia delie c/assi pove- re - Milano. Spec. pag.
57 - 119; M. MONTESSORI - A)i~ tropologia Pedagogica - Milano.
12=; dividualità del bambino, tende alla
divisione del- le scolaresche in gruppi, che presentano varia-
zioni fisiopsichiche e morali, (i) in armonia coi principii della
psicologia collettiva. Come bene scrive il Ferri: « Ogni maestro che
abbia qualche attitudine all' osservazione psicologica, distingue
sempre in tre categorie la sua scola- resca. Quella dei discepoli
volenterosi e diligen- ti, che lavorano per propria iniziativa e
senza bisogno di rigori disciplinari; quella dei disco- li
ignoranti e svogliati (nevrastenici o degenera- ti) dai quali né la
dolcezza né i castighi possono ottenere qualche cosa di buono; quella
infine dì coloro, che non sono né troppo volenterosi, né del tutto
discoli, e pei quali può riuscire veramente effi- cace una disciplina
fondata sulle leggi psicologi- che. Così avviene delle soldatesche, così
dei pri- gionieri, così di ogni associazione d'uomini e co- sì anche
dell'intera società. I gruppi d'individui, stretti da relazioni costanti,
che ne fanno altret- tanti organismi parziali nell'organismo
collettivo della società, riproducono in questo la società stessa,
come un frammento di cristallo riprodu- ce i caratteri mineralogici del cristallo
intero. » Ed in Nota : <; Vi é tuttavia qualche differen- za
nelle manifestazioni dell'attività di un gruppo di uomini e di tutta una
società. Per questo io (i) V. VSyìslK^O - Psicologìa
Podagogica - cit. pag. ^43 - 285: MONTESSORI- Antropologia Pedagogica -
cit. 12 6 credo che tra la psicologia, che
studia l'indivi- duo, e la sociologia, che studia una società in-
tera, vi debba essere un anello di congiunzione in ciò che si potrebbe
chìamdLve psi'co/oo-m collet- tiva. I fenomeni propri di certi
aggruppamenti d'individui, sono regolati da leggi analoghe, ma non
identiche a quelle della sociologia, e varia- no a seconda che i gruppi
stessi sono una riu- nione accidentale o permanente d'individui.
Co- sì la psicologia collettiva ha il suo campo d'os- servazione in
tutte le riunioni di uomini, più o meno avventizie: le vie pubbliche, i
mercati, le borse, gli opifici, i teatri, i comizi, le assemblee, i
collegi, le scuole, le caserme, le prigioni, ecc. (i) La tesi del Filangieri
si riassume dunque in questo concetto: educazione universale, ma
non uniforme; pubblica, ma non comune. Egli fon- da questo principio
sulla divisione dei cittadini in due grandi classi: in quella di coloro
che servono o potrebbero servire la società colle loro braccia, ed
in ([uella di coloro che la servono o potrebbero ser- virla con
l'intelletto; a ciascuna di esse intende for- nire una speciale
educazione. Il nostro Autore (i) FERRI- Op. cit.-Fcig. 374.
Il Ferri espresse questo concetto geniale nella prima edizione
(1881) della sua forte opera. - Soa'o/o£-ia Cri»! ifia/e - Quindi
se- guirono gli studi speciali pregevolissimi di:SlGHELE- Lm. folla
delinquente -boxino, 1895: LE BON - Z,a Psyco- logie des foules - Paris,
1895; ROSSI - L'animo della folla -Cosenza, 1898; 'àTlWTlCÒ - Psicologia
Collettiva, -Paler- mo, 1905. 127 — non
propone la ferrea distinzione delle classi in- diane; ma una pratica,
utile, necessaria distinzio- ne educativa, che avvii, senza perturbamenti
e spostamenti, allo sviluppo graduale ed armonico, fisico,
intellettuale e morale, delle varie classi di cittadini che speciali
circostanze e attitudini de- terminano a seguire una via piuttosto che
un'al- tra. Il Filangieri parte poi dal concetto, forse non errato,
che il figlio del contadino, il quale abbandona la zappa per correre alle
Università o alle Accademie, priva la classe produttiva d'un
individuo, per aggiungerlo alla classe sterile, la quale è utile sia meno
numerosa che sia pos- sibile. Lo Stato perde un colono per
acquistare per lo più un infelice architetto, un pessimo pit^ tore
o un semidotto, (i) 3 — La preparazione del cittadino, sia
che debba attendere a un mestiere o a professione libe- rale, è
opera dello Stato, per le ragioni già esposte. (2) A tal fine in ogni
provincia è un magistrato (i) FILANGIERI - Libro IV Gap.
XVII. (2) Su l'ingerenza dello Stato in materia di pub- blica
istruzione, vedi l'importante volume di G. M. de FRANCESCO - Rapporti tra
to Stato, Comune ed altri enti locali in materia di Pubblica Istruzione -
Athenaeum. Ro- ma MCMXII. Spec. Gap. I: « Posto, tra i fini dello
Stato, quello dell'istruzione, si presenta logicamente il problema se,
per il raggiungimento di tale fine, sia necessaria l'azione della
pubblica amministrazione, in- tesa come una forma di attività statuale, e
precisamen- -- 128 — supremo, rappresentante del
governo, incaricato della pubblica educazione, e in ogni comune
7ìia- j^i^i>-atì iìifcìiori e custodi. Poiché sarebbe
impossibile fondare tanti colles^i quanti fossero necessari per
contenere tutti i fanciulli della prima classe, dai cinque ai
diciotto anni, l'Autore vuole solo per i fanciulli della seconda classe,
gli agiati (plebei o nobili non importa, anzi tanto meglio per
l'educazione sociale) la fondazione di collegi; e aftìda i bam-
bini poveri, a gruppi di quindici o meno, ai ai- stodi, scelti dal
magistrato comunale fra gli ar- tigiani più probi e virtuosi del Comune,
i qua- li vengono istruiti e vigilati dal magistrato co- munale.
Ciascun custode veglia sui fanciulli a lui affidati, li dirige, li
nutrisce, li veste, secon- do le istruzioni del magistrato comunale; li
ac- compagna alla scuola, che dura due ore e mez- zo, e li tiene
quindi con se per avviarli nell'ap- j)rendimento del suo mestiere.
Il piano di educazione generale, riguardan- te come
quell'attività concreta e pratica, con cui lo Stato, nei limiti del
diritto obbiettivo, persegue i pro- pri scopi: problema che lo Stato moderno
ha risoluto nel senso affermativo non solo, ma anche in modo cosi
ampio, così comprensivo ed efficace, e, sopratut- to così uniforme « da
fiir arguire l'esistenza di una legge storica, che ottiene nel secolo
nostro il suo esplicamento » Lo Stato i)uò dirsi oggi, presso tutte
le nazioni civili, il più grande e poderoso organo per lo sviluppo della
vita intellettuale del popolo. » 129 — te lo
sviluppo fisico, il morale, l'intellettuale è stabilito dalla legge. Il
padre, appena il figliuo- lo ha compiuto cinque anni lo affida al
magistra- to comunale d'educazione pubblica. Il Filangieri
discute due gravi questioni, che risolve con fine accorgimento:
l'istruzione è ob- bligatoria? come rispettare la vocazione indivi-
duale e il diritto del padre nella scelta del me- stiere?
L'Autore, come poi i pedagogisti della Ri- voluzione, non vuole
l'obbligo dell'istruzione; per- chè è inutile obbligare le famiglie
quando i van- taggi sono tali che nessun padre é possibile pos- sa
volontariamente rinunziarvi. E' anche mia con- vinzione che quando noi
sapessimo attuare, con le necessarie difierenze volute dal tempo,
un'or- ganizzazione scolastica rispondente all'ideale del
Filangieri, apprestando ai piccoli il pane e la cultura dello spirito ed
avviandoli ai mestieri, e le famiglie cosi vedessero i vantaggi, anzi
la necessità della scuola, sarebbe superfluo ogni costringimento,
(i) Nelle nostre istituzioni scolastiche si va ora afìermando
il principio dell'operosità, con la pre- parazione manuale alle arti ed
ai mestieri, prin- cipio fattivo genialmente intuito dal Pestalozzi
( I ) V. G. SERGI - Come la scuola può educare - Nuo- va
Antologia - i marzo i g i o. — I30 — perchè
l'istruzione sia educativa (i) Il movimento, partito dalla Svezia,
si è pro- pagato rapidamente negli Stati civili; ma, in Ita- lia
specialmente, la tendenza conservatrice si é opposta fortemente alla
innovatrice, e l'idea del- la scuola operativa e fattiva incontra
ostacoli in coloro che ne credono assolto il compito con l'inse-
gnamento e l'educazione morale. (2) Di pedagogisti anteriori al
Filangieri, nes- suno aveva proposto, come il Nostro, un ordi-
namento scolastico che fosse suftìciente a se stesso, dando modo di
provvedersi all'avvenire dei fan- ciulli. Che se Rabelais vuole che
Gargantua spac- chi le legna nei giorni piovosi e sappia costrui-
re strumenti e figure geometriche; (3) se il geyi- tiluoiuo del Montaigne
dev'essere esperto nel ca- valcare, nel danzare, correre, maneggiare le
ar- mi, e deve aver muscoli di acciaio; (4) se quel-
(i) PESTALOZZI - Come Geltriide istruisce i suoi figli -Milano,
1886. Spec. pag. 127 e seg. (2) V. SERGI- Ar/ico/o citato in N.
Antologia: ElAh. e DI ROSA - Coordinazione della scuola Popolare alla
Me- dia - Roma, 1907. (3) V. STOPPOLONr - Francesco Rabelais
- cit. Pag. 98 - 106. {4) MONTAIGNE - Essais-Tovi\Q premier-
Paris. Pag. 187. E' nota la frase del Montaigne: « Ce n'est pas une
ame, ce n'est pas un corps qu'on dresse, c'est un hommc, il n'en faut pas
faire à deux. Et comme dit Platon, il ne faut pas les exercer l'un sans
l'au- tre, mais les conduire ègallement, comme un couple de chevaux
attelez à un mesme timon > (pag. 187). — 131 —
lo del Locke è addestrato al lavoro; (i) se Emi- lio apprende un
mestiere; (2) se Pestalozzi vuo- le l' attività e la fattività; (3) sono
tutti ben lon- tani dalla concezione del Filangieri; perché i
pedagogisti citati, ed altri, che attingono nei pri- mi, quali Basedow,
Salzmann, Froebel, Herbart « avevano vagheggiato il lavoro, come scrive
il De Dominicis, (4) come mezzo adatto per tem- perare il lavoro
della mente; come utile eserci- zio per temperare l'irrequietezza
dell'età giova- nile; come atto a rendere utili alle moltitudini le
scuole e a dar loro sembianze democratiche; come mezzo per offrire a
tutti, in certe evenien- ze, modo di vivere esercitando un mestiere;
e anche per rendere sotto alcuni aspetti, attivo e (1)
V. FERRARI - Zc^/(-<? - cit. Pag. 185. (2) ROUSSEAU - Èmile -
cit. Pag. 136-158- 172. Rousseau proclama che l'uomo veramente libero
è l'artigiano: «Or, de toutes les occupations qui peuvent fornir la
substance à Thomme, celle qui le rapproche le plus de l'ètat de nature est
le travail des mains; de toutes les conditions la plus indèpendente de
la fortune et des hommes est celle de l'artisan. {3)
PESTALOZZI- Op. «V. -Pag. 127 e seg. F. an- che: S. RACCUGLIA - Il lavoro
manuale secondo Rabelais, Montaigne, Locke - e II lavoro mammle nel sistema
edu- cativo di G. G. Rousseau- ^2i\Q.rvao. 1907. \n- Risveglio
Magistrale - Nello studio del Raccuglia, come da altri per altre
questioni, il nostro Filangieri non vien ricor- dato. (4) DE
DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola in Scienza Comparata delV
Educazione - Cit. Pag. 245. — 132 — concreto
l'esercizio del pensiero, (i) Quello che nei citati pedagogisti è,
o può essere, espediente educativo, o anche necessità in-
dividuale, come in Rousseau; in Filangieri è ne- cessità, istituzione
sociale, diritto e dovere di o- jjni cittadino e dello Stato.
(i) Anche oggi i nostri pedagogisti, accettando il lavoro
manuale nelle scuole, lo fanno più, anzi quasi esclusixamente, per
esigenze didattiche, che per utilità pratiche. Lo stesso De Dominicis lo
crede sussi- diario di altri insegnamenti, che miri a rendere sen-
sibili idee ed applicazioni scientifiche e sia mezzo d'in- tuizione e di
fattività; {Vi'/a /n/ema.Pa.g. 245) e pensa che il lavoro industriale nelle
scuole non debba esse- re la preparazione a questo o a quel mestiere; le
scuo- le altrimenti creerebbero delle vocazioni forzate; (pag. 251)
sì che, prendendo la scuola aspetto di un picco- lo laboratorio, d'una
piccola officina, dovrebbe anche variare da luogo a luogo, (pag.
249) Il Sergi invece, in un lucidissimo e importante articolo
(A'^. Antologia, i marzo 1910, cit.) vuole una scuola di cultura mentale
per coloro che sono desti- nati a professioni liberali, e una scuola «
per la ini- ziale cultura mentale e per alcune cognizioni utili
ele- mentari pratiche per la vita e nel tempo stesso scuo- la di
lavoro, di lavoro elementare che avvii al lavoro completo delle arti e
dei mestieri » . Chiama giusta- mente il lavoro manuale, com'è introdotto
nelle scuo- le « un simbolo o giuoco rappresentativo » . Invece di
un simbolo di lavoro bisogna introdurre il lavoro reale; ver-
rebbero così assicurate le sorti della scuola e dell'educazio- ne,
poiché, fra l'altro, il lavoro educa incosciamente, sviluppa e affina il
sentimento dell'ordine. « A mio av- viso — scrive — la scuola di questo
tipo, che io deno- mino attivo, dovrebbe aver circa una metà di ore,
siano due o tre, consacrate all'insegnamento della lingua e o delle
cognizioni utili elementari; le altre dovrebbero — ^33
— Il Filangieri discute e risolve così la seconda questione,
cioè — se la scelta del mestiere debba essere fatta dal padre — : <
Limitare l'arbitrio del magistrato e del padre, dare all'uno e
all'al- tro una parte nella scelta. Il padre aver dovreb- be il
solo diritto di pretendere che il tìglio fos- se iniziato nella stessa
sua professione. Il magi- strato dovrebbe aver quello d'indicare il
custo- de o della stessa professione del padre, quando questi
volesse far uso del suo diritto, o di quella professione che vuole,
quando il padre rinunziar volesse a questo diritto » (i) Come
rispettare la vocazione dei fanciulli? (2) « Una delle cure del
magistrato particola- re di ciascheduna comunità esser dovrebbe di
osservare nel corso dell'educazione, se tra' fan- ciulli per le classi
secondarie ripartiti, ve ne sia- no alcuni che sembrano negati a
quell'arte alla essere consacrate al lavoro, chiamiamolo
pure manuale, di mestiere e secondo la tendenza di ciascun fanciul-
lo. Proclama la scuola col lavoro scuola dclV avvenire e afferma che i
nostri ordinamenti scolastici sono invec- chiati e in essi facciamo
invecchiare i nostri figliuoli, mentre si attenta alla loro salute e si
dà loro un'abi- tudine di pigrizia e di passività che nuoce a loro
e a tutta la vita della nazione. Ecco l'ideale del Filan- gieri
rivivere in uno dei più illustri scienziati con- temporanei.
(1) FILANGIERI - Z,/«5;-^ IV Cap. Vili (2) V. in proposito un
interessante studio del CO- LOZZA - Errori e pericoli degli studi
elettivi - in Questio- ni di Pedao^gia- ~R.orm., 191 1. Pag. 119-
155. — 134 — «jualc sono stati destinati, e ve
ne siano degli altri, che manifestino le più sicure disposizioni o
per riuscire in un'altr'arte, o per risplendere nella classe di coloro
che si destinano per ser- vir la società coi loro talenti :> (i)
Ma come può lo Stato sopperire alle spese ingenti pel mantenimento
di tutti i fanciulli, me- no degli agiati ? Bisogna destinare
alla pubblica educazione gl'immensi tesori che lo Stato spende pel
man- tenimento delle truppe perpetue. Quando il pro- posto
provvedimento non fosse sufficiente, si do- vrebbero impiegare i capitali
ottenuti dalla ven- dita dei demani, destinarvi le rendite del sacer-
dozio, sopprimere le casse di misericordia e de- stinare le maggiori
entrate del pubblico erario, secondo il sistema tributario proposto nel
Li- bro li. (2) Per la seconda classe, le spese
dell'educa- zione e del mantenimento sono sostenute dalle famiglie.
Che se si oppone: son poche le fami- glie che possono andare incontro a
tali spese, il Filangieri risponde che anche ciò è un bene, perchè
« se uno mi domandasse qual'è il pae- se che più abbonda in errori, io
gli risponderei che è quello ove costa meno l'avviarsi nella car-
riera delle lettere. L'uomo che ha minori errori (1)
FILANGIERI - /./<5r^ /V. Cap. Vili. (2) FILANGIERI - Libro IV
Cap. XVI, XVII. — 135 — è il vero dotto. Ma la
i^ran sede detrli errori non è in colui che non sa, ma in colui che
sa male Il paese più culto, a creder mio, sareb- be quello ove vi
fossero meno errori e più ve- rità diffuse nel volgo e meno semidotti tra
gli scienziati. » Col sistema proposto si libera il pubblico
da un peso che dev'essere portato da quelli che profittano ; e s'ottiene,
senza escludere nessuna condizione dal diritto di poter partecipare
alla educazione superiore, che il numero sia giusto e
moderato. Bisogna notare che gli studi generali, tan- to dei
futuri magistrati, come dei futuri artisti, guerrieri, o letterati, ecc,
sono gli stessi, meno opportune e necessarie istruzioni speciali.
Il nostro Autore vagheggia un tipo di scuo- la unica, che è
tuttavia problema insoluto, e to- glie alle Università il carattere
professionale, per darlo agli istituti d'istruzione media. La
vita in collegio e la relativa istruzione dura 14 anni, dai 5 ai 19. Al
19° anno il gio- vane, con le solennità stabilite anche per gli ar-
tigiani, è emancipato, e può, a suo agio, frequen- tare l'Università o
darsi all'esercizio della pro- fessione. Le Università sono
di coltura generale e speciale superiore, di ricerca scientifica e
filoso- fica, destinate per i pochi che hanno doti spe- ciali per
eccellere nei più alti rami del sapere. — 136 —
Così costituite esse non possono essere che libere. 4 —
Quello che in Rabelais, Locke, Kant, (i) costituiva un insieme di
consigli sul nutri- mento, sul sonno, sulle vesti, ecc, nel Libro
IV della Scienza della Legislazione, diventa Educazio- ne fisica,
cioè parte ed importantissima dell'Edu- cazione Generale.
Dopo il Filangieri, le (juestioni dello svi- luppo fisico
dell'educando, o più propriamente, •dell'educazione fisiologica, andarono
abbraccian- do molti altri problemi, sì da costituire una scien- za
a parte, derivata dalla Medicina e dalla Pe- dagogia : l'Igiene
Pedagogica o Scolastica. (2) Le vecchie leggi empiriche sullo
sviluppo fisico, sono andate, man mano, trasformandosi quando non
sono state del tutto abbandonate, in principii scientifici, che partono
dallo studio anatomico e fisiologico del bambino, involgendo anche
questioni speciali relative al periodo ute- rino e dei primi giorni della
nascita (3) Si é venuto anche affermando un diritto sa-
li) V. STOPrOLONI - Rabelais - cit.; FERRARI - Lo- cke -
cit.;VALDARNlNI - La Pedagogia di E. Kant, - Trad. it. Torino.
1887. (2) V .\. LUSTIG - Igiene della Scuola - Milano, 1907.
(3) V. V. DALLA DEA - La Guida della madre - Mi- lano, 1907.
— 137 — nitario scolastico, che abbraccia le
c[uestioni re- lative all'editicio scolastico, alle malattie della
scuola, all'orario e ai programmi, al materiale di- dattico, agli esami,
alle vacanze, ecc. (i) In Gaetano Filangieri l'educazione fisica, co-
me poi nello Spencer, (2) è questione capitale per la felicità degli
uomini. Partendo dal principio generale : — come l'uomo ha
perfezionato tutto e si è reso padro- ne della natura, così può
migliorare e perfezio- nare la propria specie — l'Autore presenta
un piano di educazione fisica che, se naturalmente è stato
sorpassato dalle regole mediche ed igie- niche moderne, pure rivela la
maturità dei suoi studi e della sua intelligenza. ì^éX
Educazione fisica il Filangieri compren- de cinque oggetti principali:
nutrimento, sonno, vestimenta e nettezza, esercizi, vaccinazio7ie.
Egli si rifa dal Montaigne, dal Locke, dal Rousseau; ma correggendo
e migliorando dove crede sia più consono ai dettami della scienza e alla
pra- tica della vita. Propone certe differenze di edu- cazione
fisica tra i fanciulli della prima e quelli della seconda classe. Segue
la dottrina greco - ro- (i) F. DE DOMINICIS - Linee di
Pedagogia- cit. p. i* pag. 87-105; e- Sociologia Pedagogica - cìt. pag.
485- (2) SPENCER - Dell'educazione int. mor. e fisica Cap.
IV. — i3« — mana, fatta propria dal Locke, ^q\X
indurimento^ Dà grande importanza agli esercizi, (ginnastica)
attribuendo ad essi, non la sola azione tendente a fortificare ed
abbellire il corpo, con la conseguen- te vigoria intellettuale, ma anche
un'utilità pra- tica, specialmente col nuoto e con le passeggia- te
notturne ;ed un'utilità nazionale, con gli eser- cizi militari.
E' compreso ormai da tutti, come bene scri- ve il Colozza, (i) che
« la ginnastica, se non ò la disciplina migliore per promuovere il
funziona- mento organico, è senza dubbio utilissima pel
perfezionamento morale > specialmente per i giuochi, con cui si educa
il non volere, che è gran parte della disciplina morale. (2)
Ormai la ginnastica, nel piano delle disci- pline scolastiche é
assurta a materia importan- tissima, specialmente in Francia, dove é
anche preparazione pel futuro soldato, e dove, svolgen- dosi e
perfezionandosi, potrà avviare, secondo l'ideale del Filangieri, la
nazione alla diminuzio- ne rilevante, se non alla scomparsa
deiresercito- permanente. Il Filangieri, in relazione alle
proposte del Libro II Cap. XII, sull'abolizione delle truppe
perpetue, ha interesse che i giovani si rendano (i) COl^OZZK
- Del potere d' inibizione - Q\\.. Pag. 80. (2) COLOZZA - Il giuoco nella
Psicologia e nella Peda-- gogia - Cit. Pag. 268. — 139
— forti per sopportare le fatiche degli esercizi mi- litari
proposti negli ultimi anni d'istruzione, e quelli della guerra, qualora
la patria richiedesse l'aiuto dei cittadini per la propria difesa.
Il Filangieri segue l'indirizzo di cjuella che ora va sotto il nome
di ginnastica inglese, (i) Come il Locke e il Rousseau, consiglia
il nuoto, oltre che per utilità pratica, per la net- tezza e la
vigoria del corpo. Suggerisce le escur- sioni notturne, attingendo l'idea
rxeWEinilio. Lo -abituare i fanciulli all'oscurità, egli dice,
signi- fica frenare la loro immaginazione, estirpare mol- ti errori
ed abituarli ad essere coraggiosi. Io credo gli esercizi notturni
utilissimi anche per l'educazione del potere inibitorio, e per lo
-sviluppo della riflessione e dello spirito critico ; poiché i fanciulli,
alle eccitazioni del mondo ester- no, che l'abitudine dell'osserv^azione
dimostra lo- ro non sempre prodotte dalle apparenti cause, ma
effetto d'illusioni, specialmente ottiche ed acu- stiche, non reagiranno
prima che tra percezione •e deliberazione non sia intervenuta una
sosta, un periodo di concentrazione, per quanto fuga- cissimo.
L'attenzione, da involontaria si trasfor- ma in volontaria ad ogni nuova
immagine, met- tendo in moto l'osservazione attenta e la rifles-
sione. Li credo altresì utili per l'educazione dei (i) DE
DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola- Cit. Pag. 237 -242.
— I40 — sentimenti sociali, perché l'uomo, e
specialmen- te il bambino, mai é tanto proclive alla simpa- tia,
quanto allorché teme. Allora si sentono più forti i vincoli di
solidarietà fra l'uomo e la spe- cie. Il Filangieri propone che a
siffatti esercizi sieno dedicate tutte le sere delle vigilie delle
feste; io credo più opportune, per ovvie ragio- ni igieniche ed
educative, le ultime ore della notte, prima dell'alba. 11
Filangieri fa rientrare r\é\V Ediicazione fi- sica l'innesto del vaiuolo
; ed è merito suo aver- ne proposto l'obbligo per tutti i fanciulli,
quan- do esso era contrastato da diffidenze molte e da pregiudizi
popolari, (i) 5 — Come abbiamo avuto agio di vedere^ il
sistema educativo del Filangieri differisce essen- zialmente da quello
dei pedagogisti anteriori a lui, co' (juali abbiamo spesso stabilito dei
con- fronti, e da cui egli deriva qualche principio ge-
(i) Rousseau, dominato dall'idea di lasciar fare la natura in tutto
(si notino i versi di vSeneca, posti in principio dell'Emilio «
Sanabilibus aegrotavius malis\ ipsaqnc nos in rectum Goiitos natura, si
cmeìidari veli- ìuus, Jiival > (De Ira, lib. Il, cap. XIII) è contrario
all'innesto; o meglio <' Il sera inoculò, ou il ne le se- ra pas,
sclon les temps, les lieux, les circonstances: cela est presque
indifFérent pour lui. Si on lui donne la petite vérole, on aura
l'avantage de prévoir et con- noìtre son mal d'avance: c'est quelque
chose: mais s'il la prend naturellement, nous l'auron preservò du
mé-^ docili » {Op. cii. Pag. loi.) — 141 —
nerale : Locke e Rousseau. La morale del gentihwmo e quella
di Emi- lio non può certamente esser quella del cittadi- no del
Filangieri. Per Rousseau la morale è un acquisto fatale nel fanciullo :
solo la società de- gli uomini potrebbe renderlo tristo,
pervertirlo. Niente azione deliberata, metodica, per promuo- verla
: il bambino farà da sé, e saprà com- portarsi nella vita perchè saprà
giudicare, e di- scernere il vero dal falso, il bene dal male.
Locke mette avanti la disciplina dell'esem- pio e la molla potente
del sentimento di digni- tà personale. Ma quali i mezzi ? La sola
azio- ne della famiglia e del precettore. La morale del Filangieri
nasce dalla fusio- ne delle disposizioni e degli acquisti
individua- li con l'azione sociale. Il sistema del Locke si
esaurisce in un in- sieme di precetti e di esempi, e nella convin-
zione che il sentimento dell'onore tutto può; quello del Rousseau, nel
sentimento egoistico dell'utile personale : - ad bono ? - ', il sistema
del Filangieri è la coordinazione del bene individua- le e del
collettivo, nasce dai rapporti tra indivi- duo e società, e si sviluppa
con e per la socie- tà, in mezzo a cui e per cui si vive. La
morale diventa cosi sociale, non è più individuale; e i mezzi per lo
svolgimento di es- sa non possono essere forniti che dalla società,
tenuta presente la natura dell'educando, la sua — 142
— destinazione, il line cui si tende. Come la
psicologia metafisica, individualista, si evolve in psicologia collettiva
e sociale, sban- dite le facoltà e i sentimenti innati, così la mo-
rale singola, individuale, effetto spontaneo della moralità innata, si
trasforma in morale sociale, derivante dalle contingenze e dai rapporti
sociali. Giustamente il Ferri afferma che « dicesi coscien- za
vioi'ii/c, ma dovrebbe più esattamente chia- marsi coscienza sociale »
(i) L'intervento dello Stato diventa necessario perchè la
famiglia non può, per le sue condizio- ni morali, intellettuali,
economiche, apprestare quel concorso di circostanze atte allo
sviluppo della moralità; e perchè, per se stesso, l'ambien- te
famigliare é insufficiente, mancando in esso gli stimoli: l'azione cioè
dell'imitazione e del- l'esempio, che sono condizioni essenziali.
Il Rousseau, come nega l'azione della socie- tà e il non intervento
di essa in educazione, ne- ga conseguentemente che lo Stato possa o deb-
ba intervenire nell'educazione morale del cittadi- no, nella sua
conformazione ad un dato ideale eti- co. Questo principio è accettato dal
Tolstòi, il (luale, come abbiamo accennato, é seguace del- la
dottrina del Ginevrino ; e l'intervento in edu- cazione morale contesta
anche alla scuola, per- (i) - FERRI - Op. cit. - Pag. 543.
V. G, VIDARI - Ele- menti di Etica -ÌA\\,\x\o, 1902. Pag. 119- 139.
— 143 — che: « i" Essa non deve intervenire nella
forma- zione del carattere e delle credenze di colui che viene
istruito, al quale si deve lasciare assoluta libertà di ricevere, secondo
meglio gli aggrada, l'insegnamento che pare meglio corrisponda ai
suoi principii ; 2° Non si può teoricamente prova- re la possibilità del
non intervento della scuola in educazione. La sola cosa che lo conferma è
l'os- servazione che dimostra come le persone che non hanno
ricevuto educazione alcuna, (i) cioè che sono state esposte alle sole
influenze istrut- tive libere, le persone del popolo, sono più fre-
sche, più potenti, più indipendenti, più giudizio- se, più umane, più
necessarie delle altre. 3° La scuola deve avere un solo scopo: la
trasmissio- ne del sapere, dell'istruzione, senza cercare pe- rò dì
penetrare nel dominio morale delle con- vinzioni, della fede, del
carattere. » (2) Io credo che la ragione dei principii nega-
tivi del Tolstòi sull'ingerenza dello Stato e della -scuola in educazione
morale, va trovata nel sen- timento di ribellione ch'egli intende
trasfondere contro il governo del suo paese, che esercita sul
popolo una doppia oppressione, politico -religio- sa, anche per mezzo
della scuola. La scuola di Jasnaia Poliana non vuol essere dunque
conside- ( I ) Qui la parola educazione il Tolstòi adopera
nel senso ristretto di ammaestramento. (2) G. POLITO - Il
pensiero pedagogico di Leone Tolstòi - CU. Pag. 64-75
— 144 — rata che quale aperta ribellione a ogni domma
politico, religioso e anche pedagogico, ma sopra- tutto religioso,
(i) La Key, altra illustre seguace della dottri- na del Rousseau,
proclama il principio della pie- na libertà in educazione morale, perchè
: « les- interventions de l'éducateur d 'aujourd'hui, qu'el- les
soient tendres ou rudes, détournent ces efFets (gli efìetti
dell'evoluzione naturale e dell'adatta- mento) au lieu de les laisser
agir avec toute leur rigueur » (2); per modo che « le plus grand
crime que commette contre l'enfant l'éducation actuelle, c'est de ne pas
le laisser en paix. Le but de l'èducation future sera, au contraire,
de creer un monde de beaut^, au sens propre et au sens figure, dans
lequel laisserait l'enfant se dévellopper et se mouvoir librement
jusqu'au moment ou il se heurterait à la frontière iné- branlable
du droit des autres » . (3) Cosi che « Laisser la nature elle méme agir
tranquillement et lentement, et veiller soulement à ce que les
conditions envirronnantes soutiennent le travail de la nature; Voila
réducation » (4) Che lo Stato e la scuola debbano interve-
( I ) V. CESCA - Religiosità e Pedagogia moderna - CU. Pag.
143 -4; e -Religione morale deW umanità - Bologna,. 1902. Pag. 204 -
6. (2) KEY - Op. cit. Trad. frane. Pag. 96. (3) Ivi
-Pag. 87. (4) Ivi - Pag. 84. — H5 —
nire nell'educazione morale, meno le esagerazio- ni
individualistiche di pochi, ora non è chi con- trasti. Giustamente
osserva il De Dominicis che, sopprimere nell'educazione l'ambiente é
quanto sopprimerlo in biologia, (i) Stabilita la natura
dell'educazione morale, la sua necessità, quale il fine ? « La
destinazio- ne degli individui della prima classe è di servi- re la
società colle loro braccia. Gl'interessi della società sono di trovare in
essi tanti cittadini la- boriosi ed industfiosi in tempo di pace, e
tanti difensori intrepidi in tempo di guerra ; buoni coniugi e
migliori padri, istruiti dei loro doveri, come dei loro diritti ;
dominati da quelle passio- ni che alla virtù conducono, penetrati dal
rispet- to per le leggi e dall'idea della propria digni- tà. -•>
(2) Per i fanciulli della seconda classe, al- cuni fini speciali debbono
adattarsi alla diversa loro destinazione sociale, e quindi variare i
mez- zi educativi. Nel piano del Filangieri l'educazione
mo- rale, specialmente per i fanciulli della prima classe, ha il primo
posto. Essendo riservata al custode la cura di av- viare i
fanciulli al mestiere; dlV istruttore quella di fornire le cognizioni
elementari indispensabi- ( I ) DE DO:minicis - Antropologia
Pedagogica - Cìt. Pag. 173-4. (2) FILANGIERI- Libro IV, Cap.
X. — I4<^^ — li anche all'esercizio
dell'arte, l'ufticio più impor- tante nelTeducazione pubblica non poteva
esser che quello deW /sù'ué/orc viorale, che il Filan- gieri, con
ra<^ionc, vuole affidato a chi possa e- sercitare un'azione «grande nell'animo
dei fanciulli, ,sia per la sua posizione sociale, come per le do-
ti intellettuali e morali: cioè al viagistrato che presiede
all'educazione del comune. 11 Filani^ieri distingue le istruzioìii
dai di- scorsi morali. Le istruzioni durano un anno; i discorsi
vanno continuati per tutto il tempo del- l'educazione. Le prime hanno un
ordine stabili- to dal legislatore e si ripetono ogni anno, le se-
conde sono ad arbitrio del magistrato. Le istruzioni costituiscono
un corso di mo- rale umana e civile che si svolge in un anno; però
il Filangieri propone che sia ripetuto un ^secondo anno, in maniera che,
ogni giorno, ter- minata la lezione, il magistrato proponga dei
dubbi da risolvere (problemi morali e sociali) specialmente agli alunni
del secondo anno. Terminato il secondo corso delle istruzioni
morali, i fanciulli sono ammessi ai discorsi ino- rali, tenuti dallo
stesso magistrato. Vi assistono tutti i fanciulli lino al termine della
loro edu- cazione. La legge, mentre stabilisce gli oggetti
ge- nerali delle istruzioni, che sono le due massime le fjuali
contengono tutti i principii di giustizia -e di virtù umana: <; — non
fare agli altri ciò che — 147 — non vuoi si
faccia a te; — « — procura di fare agli altri tutto quel bene che puoi
>, lascia a discrezione del ma_yistrato la forma, lo svolgimen-
to, la materia dei discorsi. Stabilisce però alcu- ni oggetti da
svolgersi, riguardanti: la virtù, la patria, la verità opposta agli
errori della pub- blica opinione, la dignità umana, il lavoro, il
ma- trimonio, (i) Ma le istnizioni e i discorsi debbono
essere vivificati dall'esempio, fornito specialmente dal
^magistrato e dal custode. Il nostro Autore propone la lettura di
ro- mansi per i fanciulli che possono assistere ai discorsi morali;
cioè specie di biografie di uomi- ni eccellenti nei rami dell'attività
umana e del sapere: dalla storia del fabbro, del marinaio, del
contadino, che si sono distinti, a ciucila del ma- gistrato, del
filosofo, ecc. Il desiderio del Filangieri, in tanto fiorire
di letteratura scolastica, ò rimasto inascoltato. Meno qualche lavoro
eccellente, di azione poten- temente educativa, nei nostri libri per i
fanciulli facilmente si scorgono contrasti vivi e stridenti tra il
mondo vissuto dai piccoli, e che vedono vivere, e quello che loro si
presenta; tra i loro bisogni, e la pesante, contorta mole di morale
e di scienza che s'intende loro apprestare, senz'or- dine e senza misura.
Diventano maggiori i con- (l) FILANGIERI - Z/^rd7 IV Cap. X
Art. I. 14^ trasti, più sciocche le
pretese nei libri di lettura, \ (inali, perchè siano, come si vuole, il
punto di concentrazione dell'insegnamento etico ed ar- tistico,
dovrebbero guadagnar subito l'interesse e la benevolenza dei piccoli.
L'arte di scrivere codesti libri è divenuta facile occupazione, sì
che la lettura, noiosa ed arida per il maestro, è per il discente, vuota,
tediosa, nociva. La nostra coltura ed educazione scientifica
non si rispecchia affatto nell'educazione scolasti- ca pel tramite del
libro di lettura, come se la scienza si svolgesse per esigenze
dialettiche e vivesse lontana dalla vita, nelle aule delle Uni-
versità e nelle riviste. Mentre, specialmente ne- gli Stati Uniti e in
Francia, la scienza pedago- gica ha una profonda ripercussione nei
sistemi l)ratici educativi, e i libri scolastici tendono a
rispecchiare le nuove tendenze, da noi trionfa ancora il catechismo
rimodernato e la filosofia del buon Candido del \'oltaire. E allora?
Bisogna creare una nuova lettera- tura scolastica infantile, il contenuto
della quale trovi fondamento nella scienza contemporanea e si
espanda nei contrasti, nelle lotte, nei dolori, nelle gioie vere della
vita che i piccoli vivono e che vivranno adulti, e nell'etica nuova attinga
ispirazione e materia, (i) (i) Sui libri di lettura è un
volumetto di L. \^5• C\TTlKl- / t/óri sco/as/ùi - San Remo, 1909; il
quale — 149 — Oltre i ro7na7iz{, il Filangieri
consiglia la compilazione di un notiziario di avvenimenti che
possano esercitare azione educativa. In questi ultimi tempi, s'è
venuta afferman- do l'idea, credo manifestata primieramente dal
Ciralli, (ispettore scolastico, perito nel disastro di Messina)
d'introdurre nelle scuole la lettura del giornale, che il De Dominicis
reputa effica- ce, specialmente per l'educazione del sentimen- to
di nazionalità e per i progressi della cultura (i) Si debbono
premiare le buone azioni, la buona condotta, la diligenza, lo studio, le
buo- ne maniere? Gli antichi, legislatori e scrittori, ammettevano,
senza restrizioni e limitazioni, tan- to i premi, quanto i castighi; e i
Gesuiti spe- cialmente, ne fecero poi mezzo esclusivo per il
governo della scuola: sistema al quale s'informò in gran parte la
pedagogia moderna. Lo stesso Locke, il quale ammette i pub-
blici premi, (2) e, in certi casi, cioè per ostiìia- zione o ribellione,
anche la fnista, a somiglianza svolge una critica ricca di
richiami psicologici e ma- teriata di fatti, sulla forma, sul contenuto,
sul fine dei nostri libri scolastici, pervenendo alla stessa mia
con- clusione, cioè che manca ancora da noi il libro adatto alla
psiche del bambino e alle esigenze della morale sociale. (i)
DE DOMINICIS - Z« Vita Interna della Scuola - -CU. Pag. 172.
(2) V. G. M. FERRARI - A(?c/r - OV. Pag. 174. — I50
— di (juanto praticavano i Gesuiti, (i) consiglia che il
frustatore (corrector mormn dei Gesuiti) sia un servo. Locke vuole così
perchè il figlio non sen- ta avversione verso il padre. (2)
Locke sconsiglia le ricompense materiali. I fanciulli mostrano viva
compiacenza per una pa- rola d'incitamento, per un semplice sguardo
di approvazione, e si rattristano e soffrono all'in- differenza
della madre, ad uno sguardo severo del padre. (3) I fanciulli debbono
essere trattati da uomini: ecco il principio direttivo della
pedago- ofia morale del Locke. Mentre così la dottrina del
governo del fan- ciullo è fondata per il Locke sull'esercizio e
sul- l'abitudine; per il Rousseau, il quale vuole che « la seule
habitude qu'on doit laisser prendre à l'enfant est de n'en contracter
aucune » , tan- to che consiglia « qu'on ne la porte pas plus sur
un « bras que sur l'autre » (4)^ il governo, cioè l'azione deliberata del
docente sul discente per avviare questi secondo un fine, è
assolutamente nulla. Bisogna lasciar completamente libero il
fanciullo, perché il solo che sia padrone della sua volontà é colui che
non ha bisogno di stendere le sue braccia verso quelle di un altro:
niente ( I ) V. COMPAYRÉ - Op. cii. - Pag. I 1 6
(2) P'ERRARI - Op. cit. Pag. 175 - 177. (3) FERRARI - Ivi
- (4) ROUSSEAU - Émile - Cit. Pag. 31 151
premi, niente castighi: le ingiunzioni e i constrin- gimenti
sono contrari alla formazione del carat- tere. Questi sono i capisaldi
della dottrina delle conseguenze naturali, che lo Spencer dovrà
quin- di maggiormente illustrare e diffondere. Il Pestalozzi
trascura di dare speciali sug- gerimenti sull'educazione morale, cui
crede di poter pervenire con l'amore alla madre e Vistm- zione
religiosa, (i) Sono il Filangieri prima, l'Her- bart poi che ne fanno
speciale ed importante og- getto, indipendentemente dall'azione
dell'insegna- mento religioso. E la pedagogia del governo del-
l'Herbart ha molti punti di somiglianza con la disciplina morale del
Filangieri, specialmente per ciò che riguarda i castighi.
L'Herbart, seguendo il Pestalozzi e il Kant nella teoria del bene
per il bene, non ammette premi; e segue anche, facendola propria, la dot-
trina delle punizioni del Kant. (2) Cosa curiosa, scrive il De
Dominicis, (3) « molti vorrebbero nelle scuole castighi e non
premi. Ma perchè si dovrebbe prescindere nel- l'educare l'uomo in
formazione, l'uomo piccolo, da quello da cui non sanno fare a meno gli
uo- mini formati, gli uomini adulti? Scopo supremo (i)
PESTALOZZI - Come Gdtìude istruisce i suoi figli Cit. Pag. 141 -
149. (2) KANT-ZdT Pedagogia -TxzA. it. Torino, 1887.
(3) DE DOMINICIS -Za vita Interna- Cit. Pag. 291. — 152
— dell'educazione ó di certo, il condurre gli alun- ni ad
amare il bene per sé. Ma se nessuna socie- tà ha saputo finora
prescindere da distinzioni, da ricompense e da lodi, se uno sterminato
numero di uomini adulti vi è stato e vi é tanto sensibi- le, perchè
si dovrebbe rinunciare alle distinzio- ni, alle lodi e ai premi nella
società scolastica? Non è anche il premio un mezzo adatto, non solo
per punir meno, ma per guidare, colle lu- singhe di soddisfazioni immediate,
gli alunni de- boli a potersi compiacere in seguito del bene e
della virtù per se? >> E il Filangieri: (i) « Due passioni, l'una
piccola, l'altra grande; l'una per- niciosa, l'altra utile; l'una
incompatibile colla grandezza dell'animo e l'altra a questa costan-
temente associata, procedono entrambe dall'istes- sa origine. La vanità e
l'amor della gloì'ia sono queste due passioni, e il desiderio di
distinguersi ne è la madre comune. Questo desiderio di di-
stinguersi, indizio ed effetto della sociabilità; que- sto desiderio che
si manifesta nel barbaro e nel civile, nello stolto e nel saggio,
nell'empio e nell'eroe, questo desiderio che si annuncia fin
dall'adoloscenza, e che accompagna l'uomo fino alla tomba; questo
desiderio, io dico, produce l'una e l'altra passione, a seconda che é
male o bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanità negli uni,
amor della (gloria neofli altri, » (i) FILANGIERI- Libro IV
Cap. X Art. IV. — 153 — Ammessi i premi, fondati
sulla pubblica o- pinione, vuole siano assegnati con solennità, e
che il giudizio sia dato dagli stessi fanciulli, (i) Il Filangieri
proscrive l'uso del bastone. Non bisogna mai battere i fanciulli, per
nessun mo- tivo, perchè non si deve permettere che i mezzi ■destinati
a risvegliare l'idea della dignità, ven- gano combinati con quelli che
avviliscono e che degradano. (2) I fanciulli abituati alle
pene corporali, per- dono la sensibilità e diventano vili, ipocriti,
ven- dicativi, crudeli. Tanto il magistrato, quanto il custode,
così nel correggere, come nel punire, dovrebbero serbare quella freddezza
che dipen- de dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel ca-
(i) Per tutto quanto ha rapporto con la discipli- na scolastica e
la formazione del carattere, benché af- fidi alla religiosità, come la
più parte dei- pedagogisti tedeschi, un'azione preponderante, vedi:
FORSTER- Se leo/a € Carattere - Tvdid. it. Torino, igo8; spec. pag.
183-208, dove riferisce il sistema americano e svizzero del self-
governeìiimeìit e dello school - city - system, che affida ap- punto
d\\di public - opinion l'assegnazione dei premi e delle ricompense. F.
anche: BAIN - C^/>. f/V- Pag. 119, il quale scrive: « Il principio di
Bentham del giurì della scolaresca, benché non riconosciuto
formalmente nei metodi moderni, vige sempre tacitamente. L'opi-
nione della scuola, nel massimo suo d'efficienza, é il giudizio riunito
del capo e dei membri, del maestro e della massa; ogni qualunque altro
stato di cose è guerra, benché anche questa non si possa evitare. »
(2) FILANGIERI - Libro IV Gap. X Art. V. — 154 —
lore e a (luei trasporti che indicano passione, (i) Nel piano di
educazione morale tracciato dal Filangieri, entra poco l'insegnamento
reli- gioso, ed entra in quanto costituisce un omag- gio al
Creatore, al di fuori di qualsiasi credo religioso, perché i princii)ii
di morale non deri- (i) Dal Locke, al Kant, all'IIerbart, al
Filangieri, tutti in ciò sono d'accordo, ma in pratica non riesce
molto facile. Sul sistema punitivo scolastico, come sul
sociale, non può certo essere detta ancora l'ultima parola; è
necessario prima determinare con certa precisione gli impulsi, i moventi
psicologici e sociali dell'azione, de- finire le basi della
responsabilità, sfrondare la mente di legislatori e di maestri da molti
pregiudizi psico- logici, religiosi, sociali. La questione del libero
arbìtrio é d'importanza primaria; e il Ferri giustamente scri- ve:
« La negazione del libero arbitrio può soltanto e deve avere influenza
nel sentimento che accompagna questa reazione difensiva; poiché così
nelle punizioni famigliari, come in quelle scolastiche, come in
quelle sociali, chi crede al libero arbitrio reprime gli autori di
un atto sconveniente o dannoso con sentimenti di rancore, o per lo meno
con ciò che dicesi <' risentimen- to » in quanto attribuisce il fatto
alla malvagia volon- tà (anche nei bambini!). Il determinista invece si
di- fende o reprime per quanto è necessario, ma senza rancore e
colla persuasione, togliendo le occasioni al mal fare o distraendo per
vie meno dannose le ten- denze individuali. Piuttosto che abbandonare i
bambi- ni o gli scolari alla propria espansività fisio - psicolo-
gica per reprimere gl'inevitabili eccessi, limitandosi tutt'al più
all'inutile tentativo di prevenirli con le mi- sure o le imposizioni, vai
meglio incanalare la loro attività per vie utili, distraendola con
occupazioni a- datte e sopratutto togliendole gl'incentivi degli
urti e quindi delle .sopraffazioni » (C^/>. cit. Pag. 583.)
-- I.S5 — vano dalle pratiche del culto.
Il Filangieri affida la cura dell'istruzione re- ligiosa allo
stesso magistrato. '-^ Se mi si oppor- rà che questa cura dovrebbe essere
affidata ai ministri dell'altare, piuttosto che al magistrato
educatore, io risponderò che, siccome niuna re- ligione proibisce ai
padri d'istruire nei loro dommi i figli, molto meno potrà proibirlo al
magistrato che dalla pubblica autorità viene scelto per far- ne le
veci; dirò che non si deve mai inutilmen- te moltiplicare il numero degli
istruttori, dirò che il magistrato si dee supporre più istruito
nell'arte d'istruire i fanciulli, di quello che lo può essere un uomo,
che a tutt'altro oggetto ha rivolte le sue cure, dirò finalmente che, finché
non si combinino perfettamente gl'interessi del sacerdozio con quelli
della società e dell'impero, è sempre pericoloso il metterlo a parte
della pubblica educazione :> (i) Egli assegna alla
religione l'ultimo posto nel suo piano di educazione morale, e vi spende
po- che parole, sperando che il lettore non lo accu- si per ciò di
riconoscervi poca importanza. Gli è che, si giustifica l'Autore, se non
scrivesse per tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tem-
pi; se l'universale e il perenne non fossero l'og- getto della scienza; o
pure se uno fosse il tem- (i) FILANGIERI- Libro IV Gap. X
Art. VI. — 156 — pio, una l'ara ed uno il nume;
se comune fosse il culto, uniformi i dogmi e la fede uniforme
presso tutti i popoli ed in tutti i tempi, (i) po- trebbe entrare in
dettagli che allo stato delle co- se è conveniente evitare.
La ragione dell'esclusione dell'elemento re- ligioso in educazione
morale va anche ricercata nell'intima convinzione dell'Autore che la morale
é al di sopra di (jualunque religione. Però, nel- la preoccupazione
costante di rendere accetto a tutti il suo piano educativo, egli tempera
con certa forma il suo pensiero ardito, e, (questa vol- ta
eretico. Ecco perchè non accoglie l'idea del Rous- seau, che
non vuol si parli di religione ad Emi- lio, se non quando sarà in grado
di comprende- re la divinità, senza farne oggetto d'idolatria. (2)
Il nostro Autore dichiara che non ammette né contrasta tale teoria; però,
pur suggerendo che l'insegnamento religioso cominci quando i bam-
bini sono ammessi ai discorsi morali, (9- 10 an- ni) scrive che « se non
si vogliono fare dei fanciul- li tanti idolatri, o almeno tanti
antroponiorfiti, il magistrato non risparmierà alcuno dei mezzi at-
ti a comunicar loro la più semplice e la più au- gusta idea della
Divinità, allontanando dalle sue (i) FILANGIERI - Libro IV
Gap. X Art. VI. (2) ROUSSEAU - Èmi/e - CiL Pag. 228 e seg.
— 157 — espressioni tutto ciò che potrebbe associarla
alle materiali immagini, alle quali l'uomo è purtroppo inclinato a
rappresentarla, (i) Mira del magistrato, nell'educazione del
sen- timento religioso, dev'esser di prevenire il fa- natismo e le
false massime di morale; pernicio- se, specialmente nel popolo. Poche
preghiere, semplici e brevi, ma piene di luminosi principii di
morale universale. (2) Epperò nessuna diffe- renza tra le istruzioni
morali dei fanciulli della prima e della seconda classe. Qualche
difierenza solo nei discorsi morali. Poiché i fanciulli della
prima classe sono più esposti alla viltà, e quelli della seconda
al- l'orgoglio, per la loro diversa condizione sociale, bisogna
fare in modo che tali due opposti sen- timenti scompaiano negli uni e
negli altri, espo- (i) Sulla tendenza antropomorfa del
bambino e su quello che il Cesca chiama secondo momento del compi-
to negativo deW istruzione , cioè lo sradicamento della tendenza
antropomorfa, vedi lo stesso - Coltura e Istru- zione - Cit. Pag.
125-132. V. anche: SPENXER - /*;-/;/- cipii di Sociologia - Cit. Pag. 87
- 92; e a pag. 306 il curioso brano di poesia in francese arcaico,
narrante come Domeneddio sia andato in Arras, ad imparare le
canzoni del paese, come vi cadde malato e come fa curato da un trovatore,
che lo fece ridere. Si ri- cordi che tutta la poesia prov^enzale e la
prcvenzaleg- giante italiana, fino alla scuola del dolce stil novo,
sog- giace alla tendenza animistica, con la personificazione del
sentimento dell'amore. (2) FILANGIERI - Libro IV Cap. X Art.
VI. — 158 — nendo loro i principii « deirumana
eguaglianza, del rispetto che si deve all'uomo; dell'ingiusti- zia
di quello che si cerca nella sola condizione; dell'insania, dell'orgoglio
e della piccolezza della vanità. » (i) Nei bambini della seconda
classe bisogna specialmente sviluppare il sentimento del- l'umanità
e della compassione. « Per divenir com- passionevole un fanciullo,
bisogna ch'egli sappia •che ci son degli esseri simili a lui, che
soffrono ciò che egli ha sofferto, che sentono i dolori ch'egli ha
intesi e ch'egli sa di poter sentire ; bisogna finalmente che la sua
immaginazione sia attiva a segno da potergli presentare e compor-
re queste dolorose immagini, allorché vede sof- frire, e da trasportarlo,
per così dire, fuori di se medesimo per identificarlo coU'essere che
sof- fre. » (2) E sopratutto bisogna rinvigorire, stringere
i vincoli sociali, che l'inevitabile disuguaglianza delle
condizioni tende purtroppo a indebolire; e promuovere la civiltà delle maniere,
con l'esem- pio fornito da tutti coloro che circondano il bam-
bino. Per i fanciulli della seconda classe il Fi- langieri consiglia la
lettura de Le Vite di Plu- tarco, seguendo il consiglio del Montaigne,
ac- colto dal Rousseau. (3) (i) FILANGIERI- Libro IV
Gap. XXIII Art. I (2) Ivi. (3) MONTAIGNE - i^^^a/V -
OV. Pag. 176; ROUSSEAU Evi il e - Cit. Pag. 211. — 159
— In conclusione, il sistema morale del Filan- o-ieri,
partendo dal principio dell'utilità sociale, principio tanto combattuto
dal Rousseau, tende a coordinare gl'interessi dell'individuo con
quelli della collettività, per raggiungere il fine della diffusione
della morale sociale: é l'azione armo- nica di tutti i cittadini onde
raggiungersi il trion- fo della giustizia, con la libertà, l'uguaglianza,
la fratellanza. Credo inutile aggiungere che l'educazione
morale del Filangieri, educazione della scuola e della vita, è
essenzialmente laica, umana, tanto nel contenuto, quanto nella
forma. E' questo uno dei meriti grandissimi del filosofo
napoletano, che ha potentemente contri- buito a indirizzare le
istituzioni scolastiche ver- so il tipo ancor tanto contrastato dai
fautori della vecchia filosofia della vita, in opposizione recisa
coi fautori della filosofia della scienza, (i) (i) V.
l'aureo libro del CESCA -/.a filosofia della i///a - Messina, 1903.
L'Autore, sul contrasto da noi ac- cennato scrive: « La perduranza della
lotta si deve a parecchie ragioni, non soltanto intellettuali, ma
anche morali e più specialmente sociali. La concezione teo- logica
é sempre viva, non solo perchè è il prodotto dell'eredità di una lunga
serie di secoli e perché sod- disfa il bisogno di quiete e la tendenza
misoneistica cotanto diffusa in tutte le classi, ma anche perchè è
legata tenacemente lA principio di autoritcà, e quindi è sì il riflesso
che la base dello spirito di conservazio- ne del passato nell'ordine
economico e nell'ordine po- litico. Tutti coloro che temono di perdere
qualche cos Ci è differenza tra una nazione che nasce, ed una nazione
adulta. Romolo e Ninna seppero trovar la moneta onde comprar
l’opinione dal popolo nascente , e i loro suc¬ cessori seppero
mutarla, allorché si doveva comprare da un popolo a- didto . Ed in
fatti ne’ tempi più illuminati fu stabilito tra i Ro¬ mani che j
consoli, i tribuni del (i) EJiano Far. Histor. lift. a. c. 37. e
/. ij. ctp. 24* (*) Plut. nella vita di Licurgo. DEL
PRIMO TOMO. Introduzione - Piano ragionato
dell'Opera. \ Libro P ri ih o . P*
7 2J0 Belle regole generali della Scienza della
Legislazione. Cjp. I. Oggetto unico ed univer¬ sale della
Legislazione } dedot¬ to dall ’ origine delle società ci¬ vili .
19 Cap. IL. Di ciò che si comprende sotto il principio
generale della tranquillità e della conservazio¬ ne^ e dei
risultati che ne deri¬ vano. $9 Cap. III. La Legislazione ,
non al¬ tramente che tutte ie altre fa¬ coltà j deve avere le sue
rego¬ le, e i suol errori sono sempre
34 * ^ i più gravi flagelli delle na¬ zioni .
Cat. IV. Della bontà assoluta delle Leggi • Cat.
V. Della bontà relativa delle ; Leggi . j Op. FI. Della
decadenza dei Co¬ dici . j^ Cat. VII. Degli ostacoli che s’
in¬ contrano nel cambiamento della Legislazione d un popolo, e dei-
mezzi per superarli. jg.o Cat. Vili. Della necessita d’ un
Censore delle Leggi , e dei do¬ veri di questa nuova magistra¬ tura
. ^ j-jj Cat IX Della bontà relativa del- le Leggi
considerata riguardo agli oggetti che costituiscono questo rapporto.
jfij X Primo oggetto di questo rapporto : la natura del
Go¬ verno . y 6~2 Cat XL Proseguimento dell istes- so
oggetto , su d ’una specie di Governo che chiamatisi misto .
J9° Cat. XII. Secondo oggetto del rap -
343 '
porto delle Leggi : il principio che fa agire il cittadino
nei diversi Governi . Cap. XIIL Terzo oggetto del rap¬
porto delle Leggi.- il genio , e l'indole dei popoli. £>5l
Cap. XIV. Quarto oggetto del rap¬ porto delle Leggi : il clima.
2>19 Cap. XV. Quinta oggetto del rap¬ porto delle Leggi : la
fertilità o la- sterilita del terreno, gfo Cap. XVI. Sesto oggetto
del rap¬ porto delle Leggi: la situazio¬ ne e V estensione del
paese. 3?3 Cap. XVII. Settimo oggetto del rapporto delle Leggi: la
religio¬ ne del paese. Cap. XVIII. Ultimo oggetto del
rapporto delle Leggi : la matu¬ rità del popolo. 33&
INDICE
°EI CAPITOLI Compresi nel IH.
Volume. libro ih. VELIE LEGGI
CRI MIN All PARTE PRIMA Bella
Procedura . Cap. I. Introduzione . pag
2 Cap. IT Prima parte della criminale
procedura . Dell1 accusa giudiziaria presso
gli antichi. Cap. IH, Dell ’ accusa
giudiziaria presso i moderni . r)f
Cap. IV. Nuovo sistema da tenersi
ri‘ guardo alV accusa giudizio ria .
^3 Cap, V: informa da farsi nel
sistema ^ della procedura inquisitoria . %
Cap. VI. Seconda parte della proce¬
dura criminale. 5or V intimazione
all' accusalo, eia sicurézza della suapersona .
jog Cap. VII . informa da farsi in
que¬ sta parte della criminale proce¬
dura . ^9 Cap. FUI. Delle
condanne per con¬ tumacia . /5^
Cap. IX Terza parte della crimi¬
nale procedura . Delle pruove c degli
indizj del delitti . Cap. X
Trosegiiimenio dell istesso soggetto . Sulla
confessione libera ed estorta . Cap.
Xf. Parallelo tra r Giudizi di Dio
de’ tempi barbari , e la tortu¬
ra. - . Cap. XII* Principj
fondamentali, dal quali dee dipendere la
teorìa delle pruo've giudiziarie. &39
Cap. XIII- Della certezza morale.
3>$5 Cap. XIV. Risultati de principj
che si sono premessi . Cap.Xv .
Canoni di giudicatura che determinar
dovrebbero iZ criterio legale. Cap.XVL
Quarta parte della crimi¬ nale procedura
, $01 'Bella ripartizione delle
Mudi, zie ne funzioni, e della shltadd
giudict del fatto. "aP‘ XVIT.
Della viziosa ripartizio¬ ne della
giudiziaria autorità in una gran parte
delle nazìoniàì „ Eurol’a • m
<up. XVIII. Appendice aW antece- dente
capo sulla feudalità. 357 Cap. XIX*
Piano della nuova ripar¬ tizione da
farsi delle giudiziarie j funzioni per
gli affavi crimina¬ li'/ 388 Articolo
y. Divisione dello Stato, ggs Articolo
% Scelta de 9 presidi . 5041 Articolo
5, Funzioni di questama- gistratura . '
' Articolo Durata di questa Magi-
straiura e suo salario . 59# -Articolo fj.
Be’ giudici del fatto. «?oa Articolo
6. Requisiti legali che ri- cercar si
dovrebbero in questi giudici. ^3
Articolo 7. lunzìoni di questi giu-
* 00 g Articolo Fumerò di
questi giudi¬ ci in ciascheduna provincia ?
ed in ciaschedun giudizio. 0o8 5°3
Artìcolo 9. Delie ripulse di questi
giudici • 4°9 Articolo xo. De’
giudici del drit - - io .
Articolo ir . Numero di questi giudi¬
ci in ciascheduna provincia. 4/4 Artìcolo
tm Funzioni di questi giù* dici , ‘
; 475 Articolo T5- Delle sessioni
ordinarie di giustizia . 4 2)0 Articolo
14. Delle sessioni straordi¬ narie. 4%3
Articolo j 5. Magistratura per ogni
comunità . 437 Cap . XX. Quinta parte
delia crimi¬ nale procedura. La difesa
. 44$ Cap . XXL Sesta parte
delia crimi¬ nale procedura. La sentenza
* 4 58 Cap.XXIL Appendici della
senten¬ za che assolve , 0 5 i tr
cle/7a- ripa¬ razione del danno , e
del giudi¬ zio di calunnia . 473 Cap
. XXIIL Altra appendice della sentenza
che assolve , edellasen - zensa che
sospende il giudi¬ zio. - 480 aJ
R |l ' V'f * i 1
p 4 - t >. * r — ^ l '
ilPM' 1 V 1 'tr\\ f
,y ■ .‘iv*. *■ * •{ -x l
tlM'il#.: tliS.::' i'?”' Hi,
kv.!r- ■; * tiSi '►L v,
*** XXIV. Appendice detta seri* tcnza
che condanna , e corichili- 5Ìone del
piano geii era Ze diri/or- nia c'fre si
è proposta. ^ léZmL k'ù':
t zì2 ^ La Scienza distoglierlo
dal provvedersi de Legislazione, 215
del destino . Per Della
colorchecker MSCCPPCC0613 ►I«x-rite
Grice: “There are many references, but unsystematic, to the
Romans, or to Roman Law, -- but not a systematic chronological thing. Romolo is
cited twice, and there are passing comments on the Twelve Tables and its
corrections, how the Romans were disallowed to sell their own children. There’s
a critique to the dislike for the frugality that the Roman law enjoined. Also a
praise for the ‘dittaura’ – there are references to Cicerone – but he just as
well comments on the Greek law, and modern law from France and other European
countries. His illuminism is based after all on Montesquieu! But the references
to the Roman and the Roman law have been systematically studied. He refers to
an ‘emering nation’ as Rome was under Romolo – and he makes passing comments on
aristocracy, monarchy, mixed government, republic, and the question of
citizenship – how the Romans bestowed Roman citizenship on habitants of cities
other than Rome! Etc. -- Gaetano Filangieri. Filangieri. Keywords: lo stato
secondo ragione, ‘stato naturale’ ‘stato
civile’ – costume – il romano – le costume dei romani – devere e volonta –
implicatura deontica – passione e ragione – illuminismo – anti-clericalism –
anti-Roman – Grice: “Catholicism gives a bad name to ‘Roman’!” -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Filangieri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716123341/in/photolist-2mRjtgo-2mQjVch-2mN35cA-2mMYDGZ-2mN113U-2mLQc9e-2mKEPgR
Grice e Filippis
– implicatura metafisica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Tiriolo).
Filosofo. Grice: “Fillippis is an interesting one, for one there is a Palazzo
De Fillippis; for another he was into the philosophy of mathematics; he was executed,
but not for this.” Martire della
Repubblica Napoletana. Nato in una famiglia di piccoli proprietari terrieri,
studia al Real Collegio di Catanzaro. Si recò a Napoli dove fu allievo del
grande economista Genovesi. Ebbe modo di frequentare gli ambienti illuministici
entrando in contatto fra gli altri Pagano. Proseguì in seguito gli studi in
filosofia a Bologna sotto Canterzani. Insegna a Catanzaro. Fu fra i principali
artefici della Repubblica Napoletana. Entra nel governo come ministro degli
Interni. Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione
in Piazza Mercato. Scrisse importanti opere di filosofia, quali “Etica”;
“Metafisica”, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria,
Torino, Bocca); Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana; B. Croce, G.
Ceci, M. D'Ayala, S. Di Giacomo, Napoli, Morano); La Repubblica napoletana” Roma,
Newton), Dizionario biografico degli italiani,
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generalized skew derivations on multilinear polynomials, Communications Algebra
44/7 (2016), 3122-3138. 30. V. De Filippis, Engel-type conditions involving two
generalized skew derivations in prime rings, Communications in Algebra 44/7
(2016), 3139-3152. 31. V. De Filippis, G. Scudo, Subsets with generalized
derivations having nilpotent values on Lie ideals, Communications in Algebra
44/9 (2016), 4073-4087. 32. V. De Filippis, Rather large subsets and vanishing
generalized derivations on multilinear poly- nomials, Communications in Algebra
45/6 (2017), 2377-2393. 33. L. Carini, V. De Filippis, F. Wei, Annihilating
Co-commutators with Generalized Skew Deriva- tions on Multilinear Polynomials,
Communications Algebra 45/12 (2017), 5384-5406. 34. N. Baydar Yarbil, V. De
Filippis, A quadratic differential identity with skew derivations,
Communications Algebra 46/1 (2018), 205-216. 35. L. Carini, V. De Filippis, G.
Scudo, Vanishing and cocentralizing generalized derivations on Lie ideals,
Communications Algebra 46/10 (2018), 4292-4316. 36. E. Albas, N. Argac, V. De
Filippis and C. Demir, An Engel condition with generalized skew derivations on
multilinear polynomials, Linear Multilinear Algebra 66/10 (2018), 1925-1938.
37. V. De Filippis, F. Wei, An Engel condition with X-Generalized Skew
Derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46(12) (2018), 5433-5446. 38.
R. K. Sharma, B. Dhara, V. De Filippis, C. Garg, A result concerning nilpotent
values with generalized skew derivations on Lie ideals, Communications Algebra
46/12 (2018), 5330-5341. 39. V. De Filippis, F. Wei, b-generalized skew
derivations on Lie ideals, Mediterr. Journal of Math. 15/2 (2018), article
number 65 (https://doi.org/10.1007/s00009-018-1103-2). 40. M. Ashraf, V. De
Filippis, S.A. Pary, S.K. Tiwari, Derivations vanishing on commutator identity
involving generalized derivation on multilinear polynomials in prime rings,
Commu- nications Algebra 47/2 (2019), 800-813. 41. V. De Filippis, B. Dhara,
Generalized Skew-Derivations and Generalization of Homomorphism Maps in Prime
Rings, Comm. Algebra 47/8 (2019), 3154-3169. 42. V. De Filippis, F. Shujat, S.
Khan, Generalized derivations with nilpotent, power-central and invertible
values in prime and semiprime rings, Communications in Algebra 47/8 (2019),
3025- 3039. 43. B. Dhara, V. De Filippis, Engel conditions of generalized
derivations on left ideals and Lie ideals in prime rings, Comm. Algebra 48/1
(2020), 154-167. 44. C. Demir, N. Argac, V. De Filippis, A quadratic
generalized differential identity on Lie ideals in prime rings, Linear
Multilinear Algebra 68(9) (2020), 1835-1847. 5 45. N. Argac, V. De
Filippis, Power-central values and Engel conditions in prime rings with gen-
eralized skew derivations, Mediterranean Journal of Math. 18/3 (2021), article
number 82. 46. V. De Flippis, G. Scudo, F. Wei, b-Generalized Skew Derivations
on multilinear polynomials in prime rings, Proceedings of INdAM Workshop
”Polynomial Identities in Algebras” Roma 16-20 settembre 2019, Springer Indam
Series 44 (2021), 109-138.Vincenzo De Filippis. Filippis. Keywords: implicatura
metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Filippis” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761688145/in/dateposted-public/
Grice e Filolao – l’arciere di Taranto – filosofia
italiana – Luigi Speranza -- Italian
philosopher from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write a
book. The surviving fragments of it are the earliest primary texts for
Pythagoreanism, but numerous spurious fragments have also been preserved.
Philolaus’s book begins with a cosmogony and includes astronomical, medical,
and psychological doctrines. His major innovation was to argue that the cosmos
and everything in it is a combination not just of unlimiteds what is structured
and ordered, e.g. material elements but also of limiters structural and
ordering elements, e.g. shapes. These elements are held together in a harmonia
fitting together, which comes to be in accord with perspicuous mathematical
relationships, such as the whole number ratios that correspond to the harmonic
intervals e.g. octave % phenotext Philolaus 1: 2. He argued that secure knowledge
is possible insofar as we grasp the number in accordance with which things are
put together. His astronomical system is famous as the first to make the earth
a planet. Along with the sun, moon, fixed stars, five planets, and
counter-earth thus making the perfect number ten, the earth circles the central
fire a combination of the limiter “center” and the unlimited “fire”.
Philolaus’s influence is seen in Plato’s Philebus; he is the primary source for
Aristotle’s account of Pythagoreanism. DELI
A DIALETTICA CONSIDERATA NELLE TRE SCUOLE DI CROTONA, DI ELEA, E DI
ALESSANDRIA. Cousin avvertiva che la dialettica è lo strumento
della filosofia di Platone, ed ancora che la dialettica platonica
sta tutta nella definizione. Imperocché definire vuol dire ricondurre una
cosa particolare qualunque sotto un ge- nere più o meno esteso (1). Ma
egli non risaliva alle vere • •' scaturigini della dialettica , le quali
si trovano soltanto nella scuola d'Italia, secondochè aveva osservato il
Reid, attribuendo a questa scuola la dottrina della definizio- ne
(2), nella quale la Dialettica si riduce e si assomma. E valga il
vero: definire vuol dire porre limiti , e non si può limitare nessuna
cosa senza il concetto del diastema o dell’ intervallo, eh’ è peculiare
della scuola pitagorica. Il limite suppone qualche cosa di comune ,
e qual- che altra di differente ; onde f una e f altra ricerca co-
stituiscono il vero ufficio della dialettica , la quale fu .detta così da
due parole greche ( Ai *— Uyu > ) , che si- gnificano raccogliere
attraverso , come se si dicesse tro- vare l’uno per dentro il moltiplice.
Da qui venne che due concetti fondamentali costituissero il perno
della scuola italica, il conflitto dei contrari cioè, ed il loro
ac- (1) La dialectique est 1’instrument de la pliilosophie de
Platon , et la dialectique de Platon est loul entière dans la
délìnition.Or, definir, c’e.st généraliser, c’est à dire ramener à un
genre quelconque, plus ou moins olendo, Ielle ou Ielle cliose parliculière.
Cousin Frag. Pini. Tom. /. Pla- ton, I angue ile la théorie
tlesiiléex. (2) Telle est.., la doctrine d’ Aristote sur la
définition , et probable- mcnt l’invention de cette doctrine appartieni à
Fècole pythagoricienne. ( Reid , Analgxe de la log. d’ Ami. cliap.
Il sect. I.) Digitized by Google — 18 —
coi do. Aristotile ci tramandò nella tavola delle dieci ca- tegorie
gli opposti riluttanti, che sono : il limile c l’ il- limitato, l’ impari
e il pari, il destro e il sinistro, il ma- stino e la femmina, Io stabile
c il mobile , il retto ed il curvo, la luce e le tenebre, il bene ed il
male, il quadra- to e il rettangolo. Ei ci avvertì inoltre , che da un
lato stessero gli elementi positivi , dall’ altro i negativi. Il
numero poi che non era nè pensiero puro , nè cosa sen- sibile, ma qualche
cosa di mediano tra 1’ uno e 1' altra , serviva a stringere il moltiplice
con l’uno, ed in questo accordo appunto consisteva 1’ armonia (1).
Nella bella architettura del sistema pitagorico si pos- sono però
notare due gravi inconvenienti , che viziano ed infermano la solidità
della base. L’ infinito allogalo tra i concetti negativi è il primo. In
questo modo dibatti al vero e saldo concetto dell’infinito se ne
sostituisce un altro tutto diverso, che n’è appena 1’ ombra, vale a
dire quello d’indefinito. Con ciò l’iiifmito si pareggia a tutti
gli altri opposti , che si debbono accordare, e però sup- pongono un
concetto superiore. La compiutezza dell’ in- finito scompare
totalmente. L’ altro vizio , nè meno pregiudizievole del primo è
, che il numero risultando dalla molliplicità delle Monadi, le
quali erano distinte dal diastema o dall’ intervallo , intanto avea
consistenza c realtà , in quanto esso inter- vallo avea capacità
bastevole di discernerlo. Una volta, però che l’ intervallo era il vuoto
; la realtà del molti- plice tornava un bel nulla. L’ apeiron ed il
renon, l’ in- finito ed il vuoto adunque guastavano e magagnavano
l’ interna orditura del sistema pitagorico; apparecchia- vano nuovi
errori da scopi ire e da aggiungeie ai pensa- tori susseguenti.
Ma vuoisi rendere una giustizia al filosofo di Samo , (1)
Armonia viene da ap^os, che propriamente prima significava un te- game
materiale, commessura, compagine , articolo , e che poi si volse a
significare un accordo qualunque. Digitized by Google
— 19 — la quale consiste nel notare , eh’ egli non aveva
confuso la Monade con questo infinito, che attribuì esclusivamente
alla Diade. Plutarco esponendo il sistema di lui, dice (lj: « Dei
principi disse la Unità Dio, ed anco il bene , eh’ è di natura un solo, e
lo stesso intelletto : il due infinito, e genio tristo , d’ intorno al
qual due si sta la quantità della materia ». Ora la Diade in mentre
ch’era f inde- finito, veniva detta eziandìo la ripetizione della Unità
, onde forse posteriormente la sua natura si confuse con quella
della Monade. Sesto Empirico difatti espone cosi: Dalla prima unità nasce
1’ uno: dall' unità, e dallo inter- minato binario, il due; perchè due
volte uno fa due (2): Ma il binario è veramente la ripetizione della
Monade ? No; perchè 1' uno ripetendo sè medesimo dà sempre uno;
egli viene ad inlinitarsi , non a moltiplicarsi. Nella du- plicazione ci
è un altro elemento, che non era nell’Uno; ci è la finitezza , e la
successione. Venghiamo all’ inter- vallo. Aristotile assevera, ch’esso
non fosse altro nel si- stema pitagorico che il vuoto , e però una
semplice ne- gazione. Codesta sua chiosa viene impugnala da altri,
i quali tengono che la parola vacuo fosse stata pigliata dai
Pitagorici in senso metaforico , dimodoché non signifi- cava un semplice
concetto negativo; ma una distinzione reale (3). Accenno qui delle
osservazioni , che mi sono sforzato di rincalzare in un lavoro apposito
su la storia della nostra filosofia, la quale mi pare che sia stata
più pura nelle sorgive, e che nel corso siasi di poi rimesco- lata,
e falla torbida. La scuola di Elea trasse i corollari dei principi
o vi- ziosi o viziati della scuola pitagorica. L'infinito era stato
(1) Delle cose naturali, lib. 1. cap. VII. (2) Adv.
Matlicra. lib. 10. « A prima quidem unitale , unum : ab uni- tate autem,
et interminato binario, duo. Bis enim unum, duo ». (3) Il P.
Silvestro Mauro commentando il cap 8. dui IV. lib. della Fisica di
Aristotile, osserva così : « Aliqui cum Phiiopono pulant Pjtbagoricos
locutos metaphorice, ac nomine vacui inlellcxisse distinctionem,_qua rcs
inviccm separantur, ac distinguuntur ». Digìtìzed by Google
— 20 — allogato fra i (ermini oppositi della serie
alla quale so- vrastava l’Unità, però ragionevolmente Senofane
inferì, die 1' Essere non fosse nè finito nè infinito, il qual con-
cetto vedremo rinnovato ed ampliato in Plotino (1). Il diastema era stato
chiamato il vacuo, però, ripigliò Par- menide, la moltiplicità delle cose
non è reale; è una vana apparenza, è un nulla. II vero essere è l’Uno.
Imperoc- ché leva dal moltiplice l’intervallo, che discerne l’uria
cosa dall’altra, quel che ti rimarrà, è soltanto l’Uno. Così la scuola
elealica è intimamente e logicamente con- nessa con la italica ; se non
che ella ne continua la parte negativa , ed in ultimo costrutto riesce
nella sofistica , che rampollò da lei, e che chiuse il periodo della
nostra filosofia sì bene avviata da principio. La filosofia nostra
incominciò con la vera Dialettica, con 1’ armonia , e de- generò nella
medesimezza, che non era più accordo, ma annullamento di un termine in
grazia dell’ altro. Se odi l’Hcgel, cotesto fu vero progresso, egli
Eleati toccarono il colmo della speculazione. Ognuno ha il suo modo
di vedere, o meglio di foggiarsi la storia. Gli Ionici, ei ti di-
ce, concepirono l’Assoluto sotto una forma naturale; i Pi- tagorici come
numero , che non è nè pensiero puro nè cosa sensibile, e tramezza tra
l’uno e l’altra, studiandosi di accordarli insieme. Gli Elcaliei da
ultimo sceverarono il pensiero non che dalla forma sensibile degli
Ionici, ma eziandio dal numero dei Pitagorici, e lo considerarono
nella sua purezza, affermando che tuttoè Uno. Per quanto slrana paia
colesta medesimezza del pensiero e dell’ Es- sere, ella è deduzione
cavata a martello di logica daPar- menidc. Ei difatti dice recisamente:
Se 1’ Essere è uno, il pensiero e la cosa pensata sono la medesima cosa ,
o bisognerebbe dire che il pensiero non è. Ma per qual ra- ti) Il
(Xenophane) enseignait que Dicu n’est ni infini ni fini, puisque l'infini
n'est que la uon-existence, ear rimìni est ce qui n’a ni commen- cement,
ni milieu, ni fin, et que le fini est l’un par rapport à l’autre;
caractère de la nmltiplicité des clioses». Ritter, Ilist. de la phil.
ancien. T. I liv. V. eh 2. — 21 — gione
l’Essere è uno, ed il nòn-enle è impossibile? Fin- giamo Parmenide che
mediti sui principi della scuola pitagorica, e seguitiamone il
processo. Tutte cose si fanno dall’Uno; ma ciò che si fa
dall'Uno è Uno; adunque tutte le cose sono uno. Ma perchè si fanno
dall’ Uno ? Perchè la Monade è 1’ Essere; e dal non-ente non si fa nulla.
Se il non-ente non è , e l’ intervallo dei Pitagorici è il non-ente; esso
adunque non è. Ma il tempo e lo spazio si fondano su l’ intervallo;
adunque essi nem- meno esistono. Ma il moto è la sintesi del discreto
spa- ziale e temporaneo ; adunque il movimento non esiste. Ma i
cangiamenti della natura sensibile si fanno per mo- to, adunque le
mutazioni non esistono, e sono illusorie. Qui si vede una logica
intrepida e franca. 11 mondo sen- sibile se n’ è ito, ed il pensiero solo
rimane , immedesi- mato con 1’ Essere. Il pieno è il pensiero, conchiude
in- fine il rigoroso pensatore di Elea. ( Tò yAf «uà» «ari vowx.)
Pitagora avea chiamato il mondo ordine , Cos- mo , facendo trovar luogo a
tutto (1) ; Parmenide per contra lo stremò ad una metà. Ma eglino si
ponno dire di aver tracciata fin da tempi remotissimi ogni via di
fi- losofare; nè di altre mi pare che se ne siano aperte, nè che
forse se ne possano aprire. Noi con tutta la nostra ostinata insistenza
non siamo usciti di Crotona e di Elea; e le lotte che stanno agitando ora
l’Italia e la Germania, la filosofia della creazione e quella della
identità , sono rinnovazioni più o meno profonde di quegli antichi
si- stemi. Mi si dirà forse che la Germania abbia aggiunto dippiù
il movimento medesimo del pensiero , e che ne abbia disegnato 1’ ordine
ed il processo ; e questo pure voglio vedere se sia schiettamente
originale, o non anzi accattalo d’ altronde. Nel provarmi a cercare
coteste re- lazioni, io non voglio detrarre nulla alla profondità
dei pensatori odierni, ma lo faccio con l'intendimento di ren-
(1) Pitagora primo di tutti nominò il mondo 1’ Unione di tutte le
cose, rispetto all’ ordine che si trova in lui. Plut. Delle cose nat.
lib. II. c. 1. — Digitized by Google — 22
— dere a me stesso ragione del cammino che ha percorso il
pensiero umano, e delle orme che passando ha lasciato. Agli uomini mi
giova anteporre la verità. Se la filosofia eleatica aveva nelle sue
sottili e spe- ciose investigazioni raggiunto il concetto della
medesi- mezza, o l’Uno convertito in Tutto, ella avea trovato il
bandolo della scienza , ma non ne avea dipanato la ma- tassa. « Ritrovare
il punto di riunione non è il più gran- de secreto ; ma sviluppare fuori
dello stesso anche il suo contrario, questo è proprio del più profondo
secreto del- l’arte (1) ». Come il Tutto rampolla dall’Uno, ecco
quel- lo che si sforzò di spiegare la scuola di Alessandria, che
toccò il colmo di sua perfezione in Plotino. L’Infinito negativo dei
Pitagorici , consideralo immobile da Par- menide, piglia movimento in
Plotino. Ed io credo far cosa grata al lettore ponendogliene sott’ occhio
la descrizione che ne fa il famoso Ncoplatonico, allegando le sue
mede- sime parole. « E la infinità medesima , ei dice , in che modo
si può trovare colà (nell’ Uno;? Imperocché se ella ha 1’ essere, già
esiste in un ordine determinato di enti: o certo se non sarà determinata,
non vuoisi allogare nel genere degli enti, ma forse parrà da noverare
nell’ordine di quelle cose, che diventano , siccome interviene
altresì nel tempo. Forse ancora se ella si definisce , per cote-
sto medesimo ella è infinita ; perocché non il termi- ne , ma l' infinito
è che si determina. Nè v’ è locata nessun’altra cosa mediana tra l' infinito
ed il termi- ne , la quale subisca la natura di termine. Certamente
cotesto infinito sfugge all’idea di termine, ma viene com- preso ed
attorniato esteriormente. Sì che nel fuggire non va da un luogo in un
altro , chè luogo alcuno non ha ; ma allorché ei v iene compreso, eccoti
allora la pri- ma volta aver esistenza il luogo. Il perchè non si ha
da stimare che il movimento, che nel parlare si attribuisce
\ (1) Platone nel Piloto cit. nel Dialogo dello Schelling
intitolato il Giordano bruno. Trad. della Florenzi p. 103.
— 23 — all’ infinità , sia locale, nè che gliene avvenga
alcun al- tro di quelli che soglionsi nominare. Sicché non mai si
muove, nè mai permane. E dove volete che stia, se co- testo medesimo che
si chiama dove, nasce dopo? Pare però che all’infinità si attribuisca il
moto, perchè ella non sta ferma. Forse che adunque ella sta così come
se fosse nel medesimo luogo sospesa in alto, e che si aggi-' rasse?
Od anzi, che là stia levata, e qua pure si agiti ? no , che in nessun
modo è così. Imperocché ambedue queste cose sono giudicate al medesimo
luogo , sì per- chè s’innalza senza declinare dove appartiene allo
stesso luogo, sì ancora perché declina. Adunque altri andrà
pensando che cosa sia l’ infinità? Egli allora per fermo la penserà,
quando avrà separato la specie dalla intelli- genza. Adunque che
intenderà allora ? Forse intenderà insieme i contrari, e i non contrari:
perocché là inten- derà il grande ed il parvo ; perché diviene l’ uno e
1’ al- tro ; il permanente ed il mosso , perché queste cose ivi
diventano. Ma prima di diventare , è chiaro eh’ ella non sia
determinatamente nessuna delle due , chè al- trimenti tu l'avresti già
determinata. Se adunque quella natura è infinita, e queste cose, come io
diceva, infinita- mente ed indeterminatamente sono ivi, così
certamente vi appariranno. Che se yi ti accosterai più da vicino,
ed adoprerai alcun termine, onde volessi irretirla , tosto ti
sfuggirà, nè vi troverai nulla, chè altrimenti già l’avre- sti definita.
Ed anzi se t’ imbatterai in alcuna , siccome una, incontanente ti si
porge come moltiplice. Se tu di- rai: sei moltiplico, mentirai di nuovo;
chè dove ciascuna cosa non è una , nemmanco molte sono tutte. E questa
medesima è la natura della infinità, che secondo una im- maginazione è
movimento; e sin dove si aggiunge la fan- tasia è stato. Inoltre cotesto
medesimo , perchè tu non puoi vederla per sé stessa, è un colai
movimento, e caso dalla mente. In quanto poi non può sfuggire , ma viene
costretta attorno esteriormente , tanto che non può pre- terire i limiti
, dee giudicarsi un certo stato. Di che si Digitized by
Google — 24 — pare, che non pure di Jei si possa
affermare il movimento, ma eziandio lo stato (1) ». La dottrina di
Plotino si ri- duce adunque in questi capi: 1. L’ infinito non è un
es- sere in atto; se fosse tale, sarebbe in un dato ordine, sa-
rebbe perciò medesimo finito. 2. L’ infìniludine si oc- culta nel
.termine che finisce qualche cosa. 3. Togli di mezzo tutte le forme,
tutt’i termini, tutl’ i fini, ed avrai l’ infinitudine. 4. Quando
l'apprendi, ella svanisce, per- chè già l'hai terminata. 5. Ella non
appartiene a nessun genere di oppositi ; se avesse un contrario , sarebbe
da questo limitata. 6. Ma ella è o uno, o l’altro degli oppo- sili,
in quanto uno di essi nega 1’ altro. Dalle quali cose conseguita
che l'Infinito dei Neopla- tonici non è nemmeno l’Essere, inteso come
qualche cosa di sussistente e di definito, ma è l’uno considerato come
principio dell’ Ente medesimo. Plotino assegna la ragio- ne di ciò
dicendo, che se l’Ente non fosse nell’ Uno, in- contanente si
dissiperebbe. Per contra l’Uno non si fon- da nell'Ente, perchè
altrimenti l’Uno sarebbe prima di essere Uno (2). Or questo Uno diventa
Primo nel pro- durre il Secondo , o la Ragione , la quale è inferiore
al suo principio , perchè nella serie delle emanazioni pen- savano
gli Alessandrini, che il prodotto di tanto scemas- se, di quanto dal
principio si discostasse come lume va- niente per l'aere, che ai più
lontani giunge più pallido. In ciò sta forse uno dei principali divari
che corrono tra la triade alessandrina, e la tricotomia hegelliana,
perchè dove in quella la perfezione si va scemando, e l’essere si
va dissipando , in questa al contrario la smilza e magra natura dell’
Idea si va rimpolpando e rinsanguinando per via, finché tocca in fine
quel colmo di perfezione, in cui la forma adegua perfettamente il
contenuto. Il che mi pare assai più logico del processo alessandrino,
dove Tes- ti) Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. III. (2)
Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. IV. Digitized by Google
— 25 — sere nè ti si porge molto dovizioso da principio, nè
se ne rifa più che tanto in ultimo. Comunque però dal seno
del Primo erompa la Ragio- ne, egli rimane nondimeno immutato. Ciò perchè
la ne- cessità di cotesta manifestazione non gli è estrinseca ; s’
egli non può rimanere solo, è perchè tale è la sua na- tura, la quale rimane
pur sempre libera. Il Secondo per essere rampollato dal Primo abbiamo
visto che gli deve sottostare ; sicché 1’ unità e la semplicità del Primo
non si travasa intera nella Ragione. Questa però partecipa alla
moltiplicità. Ma v’ha dippiù. In che modo la Ra- gione rassomiglia al
Primo, postochè questo non sia Ra- gione ? Plotino risponde alla
difficoltà osservando, esser proprio della natura del Secondo di
rivolgersi verso il Primo; però di vederlo, però di diventar Ragione,
anco- raché il Primo non sia tale. La Ragione non vede quindi sè
medesima ; e la cosa non dee parere strana , quando si consideri , come
fa il Ficino, eh’ ella opera nel movi- mento, ed ogni moto tende verso un
altro posto fuori di sè (1). La Ragione rassomiglia al Primo
nell’inchiudere il du- plice concetto di essere permanente e di moto;
sicché in essa si può distinguere l’energia e la facoltà, o, che
tor- na il medesimo , la possibilità e 1’ atto , la materia e la
forma. In quanto ella può diventare, contiene la materia del mondo sovrasensibile;
ed in quanto è, ne contiene la specie o la forma. Yi ha dunque nel
sistema di Plotino una materia nel mondo sovrasensibile , come nel
sensi- bile , e noi vedremo che Giordano Bruno ha spiritualiz- zalo
ancora la materia sino a questo segno. La Ragione è una perchè guarda al
Principio, al Bene ; è moltiplice perchè è forma delle cose.
Nel modo medesimo che 1’ Uno produce la Ragione , (1) Ficino
sopra il 3." lib. della V. Enneade di Plotino dice: « Cum ra- tionis
proprium sii in molu agere, et motus tendat in aliud, merito ratio
communiter circa alia potius, quam circa seipsam se volutat, ideo non est
eius proprium se cognoscere # . Digitized by Google
- 26 — questa alla sua volta liglia e partorisce l’Anima,
la quale operosa com'ò, e resa feconda dalla Ragione estrin- seca
il mondo sensibile. E qui nota che la Ragione da sè non opera nulla , ma
contiene soltanto il germe del- 1‘ operazione , il quale diventa pratico
nell’ Anima del mondo. Plotino adunque concepisce cotesti tre
termini in un modo che si potrebbe rendere più chiaro, e quasi
sensato, rappresentandocelo così. Nel centro sta l’ Uno , attorno a cui
la Ragione descrive quasi un cerchio immo- bile, ed attorno a questo
cerchio immobile 1’ Anima del mondo circoscrive un nuovo cerchio, i!
quale movendosi produce i! mondo sensibile. Quest’ ultimo mondo ,
fat- tura dell’Anima mondiale, è l’opposto dell'Uno; perocché
esiste nello stato di dissipamento , di disterminazione , di esteriorità.
Onde la sua esistenza è apparente , non vera, consistendo la verità in
quello che nelle cose vi ha di più intimo; e la Triade delle emanazioni,
che si pos- sono chiamare sovrasensibili, ha compimento con l’Ani-
ma. In questa avviene la cognizione di sè medesima, per- chè il suo
movimento è circolare , e però dee tornare al punto medesimo onde si
mosse. « Perchèil cielo si muove rincirculando ? » Domanda Plotino ; «
Perchè imita la mente (1) ». Onde si può dire eh’ egli consideri
prima il pensiero in sè stesso, poi lo stesso pensiero come ob-
bietto ; finalmente l’ identità dell’ uno e dell’ altro , o la
compenetrazione nella quale sta il pensiero propriamente detto, o il
pensiero riflesso (2). La nomenclatura medesima , non che la
tripartizione (1) Ennead. II. lib. 2. (2) L’ itléc
fondamentale de ce qu’on appelle philosophie néoplatoni- cienne ou
philosophie d’Alexandrie, était celle du vo’j? ayant pour objet lui-méme.
C’est d’abord la pensée comme Ielle , puis la pensée cornine objet
(vonrov), et enfin 1’idcntité de l'une et de l’autre: c’cst, selon He-
gel, la trinité chrétienne, et cette idée est Tètre en soi et pour soi.
Dieu, T esprit absolu et pur et son action en soi, le Dieu vivant, actif
cn soi , tei est T objet de cette philosophie. WiUm. Hist. de la phil.
Alleni. Tom . 4, Phil. de Hegel, chap. 17. Digitized by
Google — 27 — dello sviluppamento posto dai
Neoplatonici nell' Infinito, ci dà subito a divedere eh’ eglino abbiano
voluto immi- schiare alle speculazioni greche ed orientali le tradizioni
cristiane intorno al dogma della Trinità. Hegel medesi- mo P ha
avvertito, ma il profondo pensatore di Germa- nia non ha osservalo che la
Scuola Neoplatonica aveva non copiato, ma sformato e travisato il sublime
concetto cristiano. Imperocché nella nostra Trinità ci è gerarchia
ed uguaglianza ad un tempo, dove quel continuo digra- dare delle
emanazioni aggiunto dagli Alessandrini appaia cose dell’ intutto
contrarie. Plotino medesimo non sapea come cavarsi d' impaccio nello
spiegare in qual modo la Ragione potesse rampollare da ciò che non era
Ragione. Nella Trinità cristiana l’Infinito compenetra sé medesi-
mo , ma sempre infinitamente , dove negli Alessandrini tal
compenetrazione diventa possibile soltanto a costo di smettere la propria
natura , e di diventare finito e moltiplice. Nella Trinità degli
Alessandrini il Principio , o 1' Uno non ha notizia di sé medesimo , in
mentre che secondo i pronunziati cristiani il Padre , conoscendo sé
medesimo, genera il Verbo. K molte altre differenze si potrebbero
trovare, per le quali le due Trinità si riscon- trano soltanto nel nome,
che gli Alessandrini accattarono dai Padri della Chiesa; ma nel fondo
rimangono sempre cose onninamente disparate. Di qualche cosa però la
fi- losofia si era avvantaggiata , riconoscendo un processo nella
Dialettica, per lo quale le esistenze non erano cose morte , ma viventi.
Imperocché nelle relazioni intime dell’Infinito con sé medesimo si trova
il concetto primi- tivo e perfettissimo della Dialettica. L’ altra della
crea- zione non è , se non una copia finita di quella prima ed
interna. Onde se nella prima l’ Infinito si trova in rela- zione con sé
stesso , considerato sempre come attuale ; nella seconda egli si trova in
relazione , ma considerato una volta come attuale , ed un’ altra volta
come poten- ziale. Nella prima però ha luogo un processo
estemporaneo. Digitized by Google — 28 —
nella seconda vi ha progresso effettivo, ed acquisto vera- ce. Le
due dialettiche confuse ed immischiate l’una con P altra dagli
Alessandrini, passarono in retaggio a tutt'i panteisti. Se noi adunque ci
siamo fermati a tratteggiare per sommi capi il loro sistema , come venne
fornito da Plotino, non è stato senza motivo; che da Pitagora a
Pio- tino la scienza fece passi giganteschi, comunque spesso
sviandosi dal diritto sentiero. Il Conte Mamiani mede- simo notò nella
leggiadra prefazione al dialogo citato dello Schelling , che le massime e
le tradizioni dei filo- sofi della Magna Grecia, e i libri dei
Neoplatonici furo- no al Bruno il semenzajo usuale e continuo onde
trasse i germi delle idee di maggior momento. Nella esposizio- ne
che faremo delle dottrine del Nolano cotesto riscontro si parrà più
chiaro. Filolao. Keywords: Crotona, Crotone, Metaponto, Aristoxenus of
Tarentum. H. P. Grice, “Pythagoras: the written and the unwritten doctrines,”
Luigi Speranza, “Grice e Filolao” -- “Grice a Crotone, ovvero, Filolao,” per il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760343533/in/dateposted-public/
Grice e Fineschi – eroticologico, filologico –
l’amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Fineschi shows how COMPLEX
Marx’s theory of cooperation is!” -- Grice:
“I like Fineschi; when at Harvard I played with ‘cooperation’ I didn’t really
know what I was talking about! Fineschi does! He calls me a Marxist – and
that’s why I dubbed my ontological occam’s razor as ‘ontological marxism’!” Studia
a Siena sotto Mazzone con “Marx rivisitato”. Per il suo dottorato, svoltosi
sotto Domanico a Palermo, si occupa del rapporto Marx-Hegel. Ha vinto la prima
edizione del premio David-Rjazanov-Preises. Altre opere: “Ripartire da Marx.
Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici La Città del Sole, Napoli); “Marx:
rivisitazioni e prospettive, Mimesis, Milano (Itinerari filosofici) “Marx e Hegel.
Contributi a una relectura” (Carocci editore, Roma); “Un nuovo Marx. Filologia
e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica” Carocci editore,
Roma). Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di
Sigmund Freud Lingua Segui Modifica Al di là del principio di piacere Titolo originale Jenseits
des Lustprinzips Freud 1921 Jenseits des Lustprinzips.djvu AutoreSigmund Freud
1ª ed. originale1920 GenereSaggio SottogenerePsicoanalisi Lingua
originaletedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des
Lustprinzips)[2] è un saggio di Sigmund Freudpubblicato nel 1920, incentrato
sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di
vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).
Giuditta II di Gustav Klimt, 1909, Venezia, Galleria internazionale
d'arte moderna.[1] Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a
morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori
proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il
dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini
dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli
presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di
Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore
(o Amicizia) e Odio (o Discordia). «Empedocle di Agrigento, nato
all'incirca nel 495 a.C., si presenta come una figura fra le più eminenti e
singolari della storia della civiltà greca [...] Il nostro interesse si
accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina
psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le
due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella
del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a
una validità biologica. [...] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa
(amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la
funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie
Eros e Distruzione.»[3] Il nome di Eros deriva da quello della divinità
greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più
complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una
forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud
la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora
l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome
del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la
rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).»[4]
Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo,
un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo
si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la
sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si
oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato
inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni
della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa
non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E
perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito
ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di
convalidare?"[5] «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma
egli, a quanto riferisce Jones,[6] l'avrebbe talvolta usato nella
conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a
Federn.»[7] Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza
di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,[8] per Freud
Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare
al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di
destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla
libido). Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal capitolo
sette de L'interpretazione dei sogni (1899) e che adesso, sotto l'influsso del
pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del Nirvana
proposto da Barbara Low:[11] le eccitazioni della mente, del cervello,
dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute
costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado
zero della realtà inanimata.[12][13][14] La coazione a ripetereModifica
Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una
coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di
piacere.»[15][16] Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare
autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»:[17]
"Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi,
le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da
un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si
creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso
attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco".[18] La
coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci
della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli
eventi più violenti. Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi
della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete
per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno
dell'uguale».[19] Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud
notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e
atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un
fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una
pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la
coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io.
La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia
psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli
stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel
lavoro. Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più
ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto
usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto
lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a
sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare
l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla
vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il
rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il
rocchetto è di nuovo vicino.[20] Dopo l'esposizione d'una serie di
ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze
traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto),
Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte,
riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli
organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico,
inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo. Conclusione Modifica In definitiva, «sembrerebbe proprio
che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte [...].
A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado
attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si
presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser
disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo
periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti
che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato
se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie
opinioni.»[21] ImplicazioniModifica Uno psicoanalista con competenze pure
di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera
psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna
aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte,
per parlare di vera e propria psic[o]analisi. [...] [Essa] comincia con la
rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. [...] Il
nuovo modello freudiano [...] individuava nello psichico un nucleo patogeno
fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a
se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e
contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni
illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro
che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni
umanitarie».[22] Dal 1920 sino al 1939, anno della sua morte, Freud non
cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà
la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso
arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato
l'esatto contrario. Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo (1927) e
Analisi del carattere (1925), propose una propria ipotesi di confutazione alla
teoria della pulsione di morte. La madre morta (1910), Egon
Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa
che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale
compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto
del 1910: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un
involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del
nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.» (Marco
Vozza[23]) Agonia (1912), Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue
Pinakothek. Madre con i due bambini(1915-1917), Vienna, Österreichische
Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo
nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una
trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in
un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto
l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel
godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa
sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia del 1912 [...],
sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del
dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime
omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato
Grünewald.» (Marco Vozza[24]) «La Madre con i due bambini [...] esibisce
un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il
deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo
render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit,
l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka,
in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza[25]) Note Modifica ^ Quadro
che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del
connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza,
2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi
screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere
di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti 1917-1923, Torino,
Bollati Boringhieri, 1986. ISBN 978-88-339-0059-9. Ed. paperback 2006. ISBN
978-88-339-0479-5. ^ Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937),
in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti
1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 527-529. ISBN
978-88-339-0115-2. Ed. paperback2009. ISBN 978-88-339-0481-8. ^ Umberto
Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, 2001, p. 802. ISBN
88-115-0479-1. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri
1978, p.509. ^ Ernest Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase
(1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche,
Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia
della psicoanalisi, vol. 2, Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, 8ª ed. 2008.
ISBN 978-88-420-4259-4. ( EN ) The language of psycho-analysis, Karnac,
Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Anteprima
disponibile, p. 447, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del
principio del piacere, op. cit., p. 240. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 195. ^
Sigmund Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 241. ^ Matteo
Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del
masochismo". URL consultato il 6 febbraio 2011. ^ Leonardo Della Pasqua,
Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza.URL
consultato il 26 agosto 2009. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op.
cit., voce Principio di piacere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp.
272-3, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 209. ^ Jean Laplanche,
Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. ( EN ) Op. cit.,
Anteprima disponibile, pp. 78-80, su Google Libri. ^ Sigmund Freud, op. cit.,
pp. 207, 221-2. Cf. anche Il perturbante (1919), OSF vol. 9, p. 99. ^ S. Freud
Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund
Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p.
39, ISBN 978-88-339-0055-1. ^ Cf. Sigmund Freud, Al di là del principio di
piacere, op. cit., pp. 200-1. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 248-9. ^ Antonello
Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut
aut 315 (2003), pp. 134-6. ^ Marco Vozza, Il senso della fine nell'arte
contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas 54 (5/1999), p. 884. ^
Marco Vozza, op. cit., p. 885. ^ Marco Vozza, ibidem. Voci correlate Modifica
Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido
Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Edizioni e traduzioni di
Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Modifica
su Wikidata ( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere,
su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata (EN) Jean Laplanche, Jean-Bertrand
Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN
0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Thanatos, p. 447, Nirvana Principle, pp.
272-3 e Compulsion to Repeat, pp. 78-80. Controllo di autorità Thesaurus
BNCF 6768 · LCCN( EN ) sh98005003 · BNF ( FR ) cb12125623j(data)
Portale Letteratura Portale Psicologia Ultima modifica 1 anno
fa di 79.52.113.137 PAGINE CORRELATE Psicoanalisi teoria dell'inconscio e
relativa prassi psicoterapeutica che hanno preso l'avvio dal lavoro di Sigmund
Freud Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso,
si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza Wikipedia Il
contenuto. Grice: “The problem with erotico-logy is that eros allows for myth
as much as it does for logos!” – Grice: “Philology can mean love for word as
much as word for love, as philosophy can go from love of wisdom and wisdom of
love. If we have eros instead we have erotosophia and erotologia, erotology,
erotosophy – so there!” Grice: “It always irritated me that at Oxford a
philologist was supposed to be a sort of scientist whereas the logist is what
he loves (philein) – it’s a passion – unretrained even – for words!” –
unfettered – loose --. Roberto Fineschi. Fineschi. Keywords: eroticologico,
filologico, amore, Grice’s ontological Marxism, implicatura filologica –
Kantotle, Plathegel, eros e Thanatos. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fineschi”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760720949/in/dateposted-public/
Grice e Fioramonti – implicature economica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice:
“Fioramonti, like Hart, and myself, has philosophised on human right, legal
right, moral right.” Frequenta il liceo a Roma, situato nel quartiere di Tor
Bella Monaca. Si laurea a Roma con una tesi in Storia della economia
filosofica, incentrata sul ruolo dei diritti di proprietà ed individuali. Studia
Politica comparata a Siena. Insegna a Pretoria, ed è direttore del Centro
per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo. È
inoltre membro del Center for Social Investment dell'Heidelberg, della Hertie
School of Governance e dell'Università delle Nazioni Unite. Si occupa di
economia e integrazione economica europea. Per il Financial Times, sostiene che
il PIL è "non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie
sempre più complesse, ma anche un impedimento a costruire società
migliori". I suoi articoli sono inoltre apparsi su The New York
Times, The Guardian, Harvard Business Review, Die Presse, Das Parlament, Der
Freitag, Mail & Guardian, Foreign Policy e open democracy.net. Ha una
rubrica mensile nel Business Day. È stato co-direttore della rivista
scientifica The Journal of Common Market Studies. è inoltre coautore e
co-editore di diversi libri. Oltre ai best seller Gross Domestic Problem: “La politica
dietro il numero più potente del mondo e Il modo in cui i numeri governano il
mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella politica globale, pubblica “Economia
del benessere: successo in un mondo senza crescita, Presi per il PIL. Tutta la
verità sul numero più potente del mondo e Il mondo dopo il PIL: economia,
politica e relazioni internazionali nell'era post-crescita. Ha avuto
un'esperienza come assistente parlamentare, collaborando a titolo gratuito con
Antonio Di Pietro (IdV) a sviluppare politiche per i giovani nelle
periferie. Viene resa nota la sua candidatura col Movimento 5 Stelle alle
imminenti elezioni politiche di marzo, risultando eletto alla Camera dei
deputati nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela con il 36,65% dei
voti. è stato nominato sottosegretario presso il Ministero
dell’istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte I. Nominato Dino
Giarrusso suo segretario particolare, affidandogli l'incarico di coordinare la
comunicazione del suo ufficio e curare le relazioni istituzionali. L'onorevole
ha inoltre aggiunto di aver chiesto a Giarrusso di aiutarlo anche ad evadere le
segnalazioni inviate al Ministero sulle presunte irregolarità che si verificano
all'interno dei concorsi universitari. Il 13 settembre il Consiglio dei ministri, su proposta di Bussetti,
lo ha nominato vice ministro all'istruzione, università e ricerca. Proposto
il 4 settembre come ministro dell'istruzione,
dell'università e della ricerca nel Governo Conte II, viene nominato
ufficialmente. All'inizio del suo mandato ha istituito un comitato scientifico
di consulenza, composto tra gli altri da Shiva. Nel mese di ottobre intervenendo ai microfoni della trasmissione
radiofonica Un giorno da pecora ha affermato di "credere in una scuola
laica" e di essere favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole,
per sostituirlo piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, e criticato
dalla Conferenza Episcopale Italiana. Annuncia l'introduzione in Italia, primo
Paese al mondo, dello studio del cambiamento climatico e dello sviluppo
sostenibile come materia scolastica. Dichiara di essere pronto a
rassegnare le proprie dimissioni qualora nella Legge di bilancio non fossero stati trovati fondi per 3
miliardi di euro da destinare all'istruzione. Invia al Presidente del Consiglio
Giuseppe Conte una lettera in cui annuncia le proprie dimissioni e dichiara
che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere l'IVA al fine di incassare i
fondi che chiedeva per il proprio ministero. Comunica la propria uscita
dal Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto alla Camera.
Annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco. Eco rappresenta
un'ipotesi, un'idea guidata dalla volontà di costituire una entità in
collaborazione tra società civile e parlamentari, ma la cui concretizzazione in
una nuova realtà non è ancora certa. Entra a far parte di Green Italia,
insieme all'onorevole Rossella Muroni e Elly Schlein, vicepresidente
dell'Emilia Romagna. Dopo che il quotidiano il Giornale ha pubblicato
alcune dichiarazioni fatte nel passato su Twitter da Fioramonti, ritenute
inappropriate per la carica da ministro, diversi partiti (tra cui Lega, FI e
FdI) chiedono le sue dimissioni dal dicastero, annunciando il deposito in
Parlamento di una mozione di sfiducia È stata effettivamente depositata? Che ne
è stato? Il ministro ha quindi dichiarato sui social che tali opinioni erano
state scritte di getto e si è quindi scusato. Nello stesso periodo
suscita polemica il fatto che, secondo quanto riportato dalle chat di alcuni
genitori, il ministro avrebbe scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese
e di non fargli fare l'esame di italiano. A seguito di tale notizia, scrive un
post sui social in cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia
di voler presentare un esposto al garante della privacy. Altre opere:
Diritti umani 50 anni dopo. Aracne); “Fuori. Fermento,. Poteri emergenti nell'economia
politica e internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica. ETS,. Presi
per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo. L’Asino d’oro
edizioni,. Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della
post-crescita. Edizioni Ambiente,. Un'economia per stare bene. Dalla pandemia
del Coronavirus alla salute delle persone e dell'ambiente. Chiarelettere. Vincenzo
Bisbiglia, chi è il candidato M5S: dalla laurea in Filosofia alla critica al
pil. Con tappa alla Rockefeller foundationIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto
Quotidiano, Professor Lorenzo Fioramonti, su up.ac.za. Has GDP become an
impediment to a better society?, su Financial Times. 1World needs a new Bretton
Woods with Africa in the lead, su bdlive.co.za, Business Day. Eligendo: Camera
[Scrutini] Collegio uninominale 05 ROMA ZONA TORRE ANGELA (Italia) Camera dei
Deputati Ministero dell'Interno, su Eligendo. F.Q., Governo, nominati 45 tra
viceministri e sottosegretari: Castelli e Garavaglia al Mef. Crimi
all'Editoria. Dentro anche SiriIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Università,
dietrofront su Giarrusso. Fioramonti: "è solo il mio segretario, non un
controllore", in Repubblica, Governo: Galli, Rixi e Fioramonti nominati
viceministriTgcom24, in Tgcom24, Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il
ministro Fioramonti che vorrebbe toglierlo dalle classi, su Repubblica, Fioramonti:
da settembre il clima sarà materia di studio a scuola Fioramonti: 3 miliardi per l'istruzione o
confermo le mie dimissioni -, su Orizzonte Scuola, Il ministro dell’Istruzione
Fioramonti ha dato le dimissioni, Corriere della sera, Fioramonti lascia il
gruppo M5S: «C'è diffuso sentimento di delusione», Il Messaggero, 30 L’ex
ministro Fioramonti: «Un altro governo non è un tabù. Ora un’area civica progressista»,
su Il Manifesto. Bufera su Fioramonti per alcuni tweet. Meloni chiede le
dimissioni, per Lega e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, Bufera su Fioramonti
per offese web, ministro si scusa Politica, su Agenzia ANSA, Chi è Lorenzo
Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su theitaliantimes, Governo Conte II
Ministri dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica
Italiana. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Openpolis,
Associazione Openpolis. Radio Radicale. PredecessoreMinistro dell'istruzione,
dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione.
png Marco Bussett, Giuseppe Conte (ad interim) PredecessoreViceministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore
MinisteroIstruzione. Anna Ascani. Quarterly gross domestic product
William Petty came up with a basic concept of GDP to attack landlords against
unfair taxation during warfare between the Dutch and the English between 1654
and 1676.[10] Charles Davenant developed the method further in 1695.[11] The
modern concept of GDP was first developed by Simon Kuznets for a 1934 US
Congress report, where he warned against its use as a measure of welfare (see
below under limitations and criticisms).[12] After the Bretton Woods conference
in 1944, GDP became the main tool for measuring a country's economy.[13] At
that time gross national product (GNP) was the preferred estimate, which
differed from GDP in that it measured production by a country's citizens at
home and abroad rather than its 'resident institutional units' (see OECD
definition above). The switch from GNP to GDP in the US was in 1991, trailing
behind most other nations. The role that measurements of GDP played in World War
II was crucial to the subsequent political acceptance of GDP values as
indicators of national development and progress.[14] A crucial role was played
here by the US Department of Commerce under Milton Gilbert where ideas from
Kuznets were embedded into institutions. Wikipedia Ricerca Economico
(Aristotele) opera attribuita ad Aristotele Lingua Segui Modifica Economico
Titolo originale Οἰκονομικά
Oikonomiká Aristotelesarp.jpg Autore Pseudo-Aristotele
1ª ed. originale Genere trattato
Sottogenere economia
Lingua originale greco
antico L'Economico (in greco antico: Οἰκονομικά, Oikonomiká; in latino:
Oeconomica) è un'opera attribuita ad Aristotele. La maggior parte degli
studiosi moderni lo attribuisce a un allievo di Aristotele o del suo successore
Teofrasto. Struttura Modifica
Il libro I è suddiviso in sei capitoli che iniziano a definire
l'economia[1]. Esso, quindi, è un'introduzione che mostra la
formazione di base di un'economia, ossia la famiglia. Il testo inizia
affermando che l'economia e la politica differiscono in due modi principali,
ossia nei soggetti con cui trattano e nel numero di governanti coinvolti. Come
un proprietario di una casa, c'è solo una sentenza in un'economia, mentre la
politica coinvolge molti sovrani. I praticanti di entrambe le scienze cercano
di sfruttare al meglio ciò che hanno per prosperare. Una famiglia è
composta da un uomo e dalle sue proprietà e l'agricoltura è la forma più
naturale di buon uso per questa proprietà. L'uomo dovrebbe quindi trovare una
moglie, mentre i bambini dovrebbero venire dopo, perché saranno in grado di
prendersi cura della casa man mano che l'uomo invecchia. Questi sono i
capisaldi dell'argomento economico. Il secondo libro[2] si sviluppa con
l'idea che ci sono quattro diversi tipi di economieː l'economia reale,
l'economia satrapica, l'economia politica e l'economia personale. Chiunque
intenda partecipare con successo e solidarietà a un'economia deve conoscere
ogni caratteristica della parte dell'economia in cui è coinvolto. Tutte le
economie hanno un principio in comuneː indipendentemente da ciò che viene
fatto, le spese non possono superare le entrate. Questa è una questione
importante, fondamentale per la nozione di "economia". Il resto del
secondo libro riguarda eventi storici che hanno creato importanti modi in cui
le economie hanno iniziato a funzionare in modo più efficiente e danno le
origini di alcuni termini ancora in uso all'epoca e l'argomento principale è il
flusso di denaro attraverso qualsiasi economia ed eventi particolari. Il terzo
libro è noto solo dalle versioni latine dell'originale greco e tratta del
rapporto tra marito e moglie. Il classicista tedesco Valentin Rose, nella sua
classica edizione dei frammenti aristotelici del 1886, ha ipotizzato che questo
libro non fosse altro che il Περὶ συμϐιώσεως ανδρὸς καὶ γυναικός e i Νόμοι ανδρὸς
καὶ γαμετῆς indicati nel catalogo di opere di Aristotele che compaiono nella
biografia attribuita a Esichio di Mileto, tradizionalmente chiamata Vita
Menagiana. Note Modifica
^ 1343a-1345b. ^ 1345b-1353b. Bibliografia Modifica
Aristote, Économique. Testo greco a cura di B. A. van Groningen e André
Wartelle, traduzione e note di A. Wartelle, Paris, Les Belles Lettres, 2002
(edizione critica) Aristotele, Opere, vol. 8, Politica. Trattato sull'Economia,
trad. di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2019. Voci correlate Modifica
Aristotele Pseudo-Aristotele Controllo di autorità VIAF ( EN ) 4465159521639733070006 · BAV492/10544 ·
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Aristotele Wikipedia Il contenuto L'espressione filosofia dell'economia
può riferirsi alla branca della filosofia che studia le questioni relative
all'economia o, in alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle
proprie fondamenta e del proprio status di scienza umana[1]. Note Modifica ^ D. Wade
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2ª ed., 2008. Controllo di autorità LCCN
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I CORSI Dl PREPARAZIONE POLÍTICA L’ECONOMIA
FASCISTA Mod. 347 LA LIBRERIA DELLO STATO
AN NO XIV E. F.
CONTENUTO I. Concetti fondamentali * ♦ ♦ * *
Pag* 7 II* Política economica e monetaria * * » 23 IIL
V agricoltura italiana e la política rurale dei Regime ******
81 IV* Industria e artigianato * * ♦ * » 101 V* La
política dei lavori pubblici * * » 1x9
CONCETTI FONDAMENTALI
I L
PROFONDO, sostanziale contrasto che separa il Fascismo dal liberalismo si
riflette in forma vigorosa e tipica nel campo economico. In
economia difatti lo Stato fascista si oppone nettamente alio Stato
liberale, perchè mentre questo non interviene nella vita economica e si
limita generalmente alia funzione di difesa e di istruzione («Stato
carabiniere » e «pedagogo »), quello considera suo compito preciso il
regolare e determinare lo sviluppo materiale e spirituale delia
collettività, negando che dal libero e incomposto cozzo delle forze
individuali possa prendere origine la forma piú perfetta e piú alta di
vita civile. Lo Stato fascista non crede alie armonie economiche
realiz- zantisi con il totale assenteismo di uno Stato abúlico che
si limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli indi-
vidui; lo Stato fascista è Stato etico appunto perchè ha una sua
consapevolezza e una sua volontà da realizzare. È Stato che non si
estrania dai problemi deH’economia, ma li studia, li incita, li guida, li
frena, perchè non concepisce il divorzio fra politica ed economia ma
considera che questa discenda da quella. Gli economisti e i
politici che affermarono in maniera recisa e perentória che lo Stato è
specialmente utile quando si astiene da qualsiasi intervento nel campo
economico, — e furono numerosissimi nel secolo scorso — oggi vanno
scomparendo. In tutti i paesi lo Stato giganteggia. Soltanto esso può
risolvere le drammatiche contraddizioni dei capitalismo; soltanto
esso può awiare verso una soluzione quel complesso di fenomeni
materiali e spirituali che si chiamano crisi e che possono essere
superati e vinti entro lo Stato. Questo particolarissimo stato
d'animo di fronte al libera¬ lismo disfatto fu definito dal Duce con la
seguente domanda: « Che cosa direbbe dinanzi ai continui, sollecitati,
inevitabili interventi dello Stato nelle vicende economiche, 1
’inglese 9 Bentham,
secondo il quale T industria avrebbe dovuto chiedere alio Stato soltanto
di essere lasciata in pace, o il tedesco Humboldt, secondo il quale lo
Stato ocioso doveva essere considerato il migliore? »♦ Ma se
anche la seconda ondata degli economisti liberali fu meno estremista
delia prima, perchè apriva già la porta agli interventi dello Stato
neireconomia, rimane pur sempre un incolmabile abisso tra Stato liberale,
anche, diremo cosí, corretto, meno intransigente di quello concepito un
tempo, e lo Stato fascista* Bisogna ricordare che chi dice
liberalismo dice pur sempre indivíduo; chi dice Fascismo dice
Stato* Con questo però lo Stato fascista non intende di
solito ingerirsi direttamente nel fatto economico, ma
sopraintendervi, affinchè esso si svolga secondo gli interessi delia
collettività* È da questa concecione política dello Stato che deriva
la concezione economica delia corporacione* Lo Stato fascista
che in política non è reacionário ma rivo- lucionario, in quanto anticipa
le solucioni di problemi comuni a tutti i popoli, in economia dimostra in
maniera inequivo- cabile il suo carattere morale e storico perchè è
proprio nella disciplina dei fatti economici che si rivela la maturità di
una collettività organiccata e si dimostra la capacità creativa di
una nuova dottrina, che, come quella dei Fascismo, è pensiero ed
acione* II Duce, il 16 ottobre deiranno X, innanci a migliaia
di gerarchi convenuti a Roma per la celebracione dei decennale si
domandò: « Questa crisi che ci attenaglia da quattro anni è una crisi dei
sistema o nel sistema?»* II 14 novembre XII, data che segna Tinicio delia
fase risolutiva delia politxca corpo¬ rativa dei Fascismo, il Capo
rispose a quella grave domanda 10 con un fondamentale
discorso al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, nel quale sono
precisati i caratteri particolari deli' Economia corporativa.
Egli in quella storica assemblea affermò in maniera recisa che la
crisi è penetrata cosi profondamente nel sistema da diventare una crisi
dei sistema . Non è piú un trauma, e una malattia costituzionale, Egli
disse. Se meditiamo intorno aH'affermazione dei Capo per com-
prendere i motivi storici che 1'hanno determinata, riconosciamo súbito
che una profonda rivoluzione si è operata tanto nel sistema di produzione
quanto nelle organizzazioni politi- che che hanno retto sino a pochi anni
or sono i diversi paesi civili. Egli ha definito il
capitalismo e ne ha tracciato la storia che ha vissuto nel secolo scorso:
la nascita, il culmine, il declino. L/analisi che il Duce ne fece
in quello storico discorso è cosi perfetta che se ne trascrivono qui di
seguito concetti e parole, sostanza e forma. «Giunto alia sua
piü perfetta espressione — ha detto il Duce — ü capitalismo è un modo di
produzione di massa per un consumo di massa, finanziato in massa attraverso
Temissione dei capitale anonimo nazionale e internazionale. II
capitalismo è quindi industriale e non ha avuto nel campo agricolo
manife- stazioni di grande portata ». Nella storia dei
capitalismo tre periodi si distinguono: il periodo dell’ascesa; il
periodo delia massima potenza; il per iodo delia decadenza.
II primo periodo è quello che va dal 1830 al 1870. Coincide con la
introduzione dei telaio meccanico e con 1'apparire delia locomotiva.
Sorge la fabbrica. La fabbrica è la tipica manife- stazione dei
capitalismo industriale. È 1'epoca dei grandi mar- gini e quindi la legge
delia libera concorrenza e la lotta di tutti ir
contro tutti può giuocare in pieno. È il período in cui un grande
fervore di attività pratica awince i popoli e in cui la scienza che aveva
saputo carpire alia natura i suoi gelosi segreti offre aU'uomo mezzi
formidabili di conquista e di dominio. In Inghilterra, in Francia, in
America, si disfrenano concorrenze acerbe e si tentano imprese
ardite. In questi 40 anni vi sono dei caduti e dei morti, ma
in questo periodo le crisi sono crisi cicliche che si ripetono ad
intervalli di tempo, non sono nè lunghe nè universali. II
capitalismo è nel periodo migliore delia sua vita. Ha ancora tale
vitalità e tale forza di recupero che può superare brillantemente e
rapidamente le awersità delia con- giuntura economica.
L'attività imprenditrice trova facilmente le condizioni favo-
revoli per il suo sviluppo, poichè grandi sono le possibilità dei mercati
di consumo mentre limitate sono ancora le capacità delia
produzione. È 1'epoca in cui Turbanesimo si sviluppa e si inizia
1'esodo rurale. Le città che divengono centro delia produzione
capi- talistica si accrescono vertiginosamente. In questo primo
periodo dei capitalismo — awerte il Duce — la selezione è veramente
operante. Ci sono anche delle guerre, ma sono guerre brevi che non
possono essere paragonate alia guerra mondiale. Esse eccitano anzi, in un
certo senso, 1 ’economia delia Nazione. In America comincia
la faticosa e dura conquista delle sterminate campagne dell'ovest, che ha
avuto i suoi rischi ed i suoi caduti come ogni grande conquista. Mentre
si vengono organizzando le formidabili aziende agricole degli Stati
dei sud, le città deli’Atlântico raggiungono un enorme sviluppo.
II ricordato periodo dei capitalismo che dura 40 anni e potrebbe
essere compreso tra 1'apparire delia macchina a xa
vapore e il taglio deiristmo di Suez, è certamente tra i piü
dinamici che la storia ricordi* Esso è caratterizzato daSassenza dello
Stato nella vita economica* II Duce ha detto che durante questi 40
anni lo Stato si limita ad osservare* Esso è assente, e i teorici dei
liberalismo dicono: ((voi, Stato, avete un solo dovere, di far si che la
vostra esi- stenza non sia nemmeno awertita nel settore
deireconomia* Meglio governerete, quanto meno vi occuperete dei
problemi di ordine economico »♦ Con il 1870 ha inizio il
secondo período* II Duce ha dimo- strato che da quel momento si awertono
i primi sintomi delia stanchez^a e delia deviazione dei mondo
capitalistico* La fer¬ vida e sana lotta per la vita, la libera
concorrenza, la selezione dei piú forte, non si esplicano piü col
primitivo vigore, con quella energia e anche con queirentusiasmo che si è
riscontrato nel período precedente* Lo documentano i numerosi
cartelli, sindacati, consorzh Si inizia Tèra dei trust. Si
può dire che ormai non ci sia settore delia vita economica dei paesi di
Europa e di America dove queste forze che carat- terizsano il capitalismo
non si siano formate* La conseguenza di questo stato di cose, che
gli economisti liberali, ossequienti ai dogmi fondamentali dei classici,
non awertirono, fu di una importanza grandíssima: la fine delia
libera concorrenza * Essa rimase una parola morta* La capacità di
assorbimento dei mercato non corre paralle- lamente alia crescente
capacità produttiva; il saggio desinte¬ resse e dei profitto, cioè il
rapporto tra il guadagno ricavato e la quantità di capitale impiegato
neirimpresa, si riduce forte¬ mente* Essendosi ristretti i margini,
Timpresa capitalistica trova che anzichè lottare è piú conveniente
accordarsi, fon- dersi, dividersi i mercati ripartendo i profitti*
13 La stessa legge delia domanda
e deirofferta sulla quale è stata costruita la teoria economica dalla
quale dipende il sistema scientifico elaborato dai classici deireconomia,
non può piü agire con libertà nella nuova realtà economica che si è
venuta formando* Attraverso i cartelli e i trusts si può agire sulla
domanda di merci e specialmente suirofferta che di queste può essere
fatta in un determinato mercato* Questa economia capitalistica
coalizzata, trustizzata, sempre meno idônea a vivere di vita própria,
cerca di agire sullo Stato onde ottenere favori leciti o illeciti* Essa
chiede anzitutto la protezione doganale* II liberalismo viene
colpito a morte, ma gli economisti non se ne accorgono: continuano
imperterriti la loro costruzione astratta, avulsa dalla realtà economica,
come se il mondo eco- nomico da cui avevano pur tratto gli elementi delia
loro costru¬ zione scientifica non li riguardasse piü* La dottrina
economica che aveva esaltata la libertà in ogni forma di attività e
Tassen- teismo dello Stato, viene ad essere colpita proprio da
quelle forze che erano cresciute nel periodo dei trionfo* Gli
Stati Uniti d'America, fra i primi, elevarono delle barriere doganali
quasi insormontabili; essi si giustificarono con 1'afferma- zione che le
loro industrie erano giovani e avevano bisogno di pro- tezione e di
difesa per poter crescere e prosperare* Come TAme- rica, altri paesi
hanno via via elevato barriere sempre piü estese e piü alte: oggi la
stessa Inghilterra, che per tanto tempo aveva predicato e sostenuto il
liberalismo economico, perchè tornava tanto utile alia sua organizzazione
economica, e agli interessi dei- T Impero britannico, ha abbandonato il
liberalismo, rinnegando tutto ciò che ormai sembrava tradizionale nella
sua vita polí¬ tica, economica, sociale, rinnegando una dottrina
scientifica delia quale si era fatta banditrice e tutrice* Ad Ottava fu
varata la costi- tuzione di un'economia chiusa fra la Madre Patria e i
dominions* 14 i Í 1 período che
il Duce ha definito período statico e che inizia col 1870, finisce con la
guerra* Dopo la guerra, e in conseguenza delia guerra,
Fimpresa capitalistica si inflaziona* Incomincia la decadenza* «
L/ordine di grandezza delFimpresa — ha detto il Duce — passa dal
milione al miliardo* Le cosidette costruzioni verticali, a vederle da
lontano, danno Fidea dei mostruoso e dei babelico* Le stesse dimensioni
delFimpresa superano la possibilità delFuomo. Prima era lo spirito che
ave va domina to la matéria, ora è la matéria che piega e soggioga lo
spirito* Quello che era fisio¬ logia diventa patologia, tutto diventa
abnorme »* II capitalismo giunto al parossismo, non sapendo piú
come giustificare la sua esistenza e trovare i mezzi di vita
indispen- sabili alFazione, non volendo riconoscere la nuova realtà delle
cose, crea una utopia: Futopia dei consumi illimitati* II Capo ci ha
detto che Fideale dei supercapitalismo sarebbe la stan- dardizzazione dei
genere umano dalla culla alia bara* Questa esigenza è la lógica
conseguenza delle cose, perchè sol- tanto con la standardizzazione dei
gusti il supercapitalismo pensa di poter fare i suoi piani* L f impresa
capitalistica cessa di essere -*un fatto meramente economico per divenire
un fatto sociale* È questo il momento preciso nel quale F impresa
capitalistica, quando si trova in difficoltà, si getta nelle braccia
dello Stato* È questo il momento storico in cui nasce e si rende
sempre piú necessário Fintervento dello Stato* Lo Stato ha il
dovere di intervenire appunto perchè Fim¬ presa capitalistica di cui si
discorre non è soltanto un # impresa economica: essa interessa
direttamente la collettività* Lo Stato ha il diritto di intervenire per
evitare che le sane energie delia Nazione si disperdano e che la sacra
forza dei lavoro dei popolo si prodighi in forme che possono essere
nocive alia stessa vita e potenza delia Nazione* 15
Ormai il maggior numero di imprese economiche si
vale degli aiuti dello Stato; coloro che ignoravano il suo intervento
lo cercano affannosamente* II Duce ha detto che oggi siamo al punto in
cui se in tutte le Na^ioni di Europa lo Stato si addor- mentasse per 24
ore, basterebbe tale parentesi per determinar e un disastro.
« Questa è la crisi dei sistema capitalistico preso nel suo
significato universale »♦ Quanto alia Nasione italiana, che fonda
la própria economia prevalentemente sulFagricoltura e sulFartigianato,
sulla piccola e media industria, la vicenda capitalistica non ha avuto
che aspetti e conseguenze limitatu II supercapitalismo
degenerato e pernicioso da noi non esiste e laddove esso è nato, già è
moribondo: esiste invece una nume¬ rosíssima schiera di piccoli e medi
produttori che vivono dei quotidiano lavoro, che ignorano le awenture dei
sedicenti industriali e dei pseudo banchieri; i quali, sorti in
numero impressionante durante e dopo la conflagra^ione europea,
avrebbero preteso di continuare a pescare nel torbido che essi avevano
provocato e che poi tendevano a mantenere* Questi awenturieri, che ebbero
assicurati dalFinfla^ione e dalFau- mento dei pressi elevati profitti,
non furono, almeno nel nostro Paese, che una sparuta minoran^a, la quale
è stata duramente punita dalle stesse vicende delFeconomia.
L/Italia non è una Nazione capitalistica nel senso or ora
ricordato* L/essenza delFeconomia italiana è stata precisamente definita
dal Duce nei termini seguenti: Fltalia deve rimanere una Nazione ad
economia mista, con una forte agricoltura che è la base di tutto, una
piccola o media industria sana, una banca che non faceia delle
speculasioni, un commercio che adempia al suo insostituibile compito che
è quello di portare rapidamente e razionalmente le merci al
consumatore* 16 Esaminato lo
svolgimento attraverso il quale si è compiuto il ciclo di vita dei
liberalismo economico e dei supercapita- lismo, sepolto ufficialmente il
14 novembre 1933, con lo storico discorso dei Duce per lo Stato
corporativo; dimostrata fallace la creden^a neiruniversalità dei
liberalismo a torto giudicato e ritenuto método storico ed universale, è
opportuno soffer- marsi sulle profonde antitesi che differen^iano
Fascismo e socialismo* La dottrina fascista nega quel
materialismo storico sul quale si imperniano la conce^ione política e
quella economica dei socialismo* Secondo la dottrina marxiana
le vicende delia società umana si spiegano soltanto con la lotta
d'interessi fra i diversi gruppi sociali* Sono soltanto i fatti economici
che hanno importan^a nella vita delbuorno; soltanto essi sono capaci di
promuovere nuove forme di vita civile, di determinare aspetti e
configura- zioni diversi nella società* Nessun peso hanno invece i
motivi ideali, nessuna importanza la tradi^ione, il culto delia
Patria e degli Eroi, il desiderio di portare sempre piú in alto i
destini delia Na^ione* In questo senso liberalismo e
socialismo tradiscono una comune origine dottrinale* Tanto che non è per
mero caso — come ha rilevato il Duce — che il tramonto delFuno
coincida col tramonto delFaltro* Non è certo il Fascismo, che ha
instaurato nella vita política e sociale un senso virile delia realtà,
che possa negare Timpor- tanza delheconomia, come fattore delia vita dei
popoli* Ma il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e
nelheroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico lontano o
vicino agisce* La lotta degli interessi è stata ed è un
agente principale delle trasformazioni sociali, ma non può essere
concepita come 3-4 17
movente esclusivo delbevoluzione delia società. La fallacia dei
materialismo storico e dei determinismo economico sta appunto in questa
concezione, per cui gli uomini non sarebbero che com- parse nella storia,
incapaci di dirigerla o crearla, quasi fantocci in balia dei flutti,
mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, che
sarebbero le forze dell’economia. Accettare una simile concezione
delia vita significa annullare qualsiasi forza morale e riconoscere
1'incapacità dell’uomo a creare la sua storia. II socialismo
che si basa sul materialismo storico e sul con- cetto delia lotta di
classe e che mira attraverso questa a creare forme di convivenza sociale
nelle quali siano alleviate le sof- ferenze degli umili, dimostra una
singolare ingenuità dottri- nale e una paurosa sterilità politica.
Esso voleva raggiungere un ideale, materialistico, massimo
benessere per tutti i componenti la collettività, credendo che in
siffatta maniera si sarebbe ottenuta la felicità. E la mèta era da
conquistare attraverso la socializzazione di tutti i mezzi di produzione,
l'annullamento dei diritto di proprietà, la spersonalizzazione di ogni
attività economica, il sacrifício delia iniziativa individuale, la
negazione di una funzione produttiva al capitale. II difficile compito
delia produzione dei beni eco- nomici sarebbe stato lasciato ad un
mastodontico Stato mate¬ rialistico, le cui delicate funzioni sarebbero
esercitate da un esercito di burocrati. A questo Stato socialista,
accentratore e déspota, padrone di ogni bene economico, si sarebbe
dovuti giungere, secondo la profezia di Cario Marx profezia mancata
— attraverso un processo di graduale e continuo accentramento delia
produzione industriale e dei capitale in mano di pochi, a cui sarebbe
stato assai facile il toglierlo per trasferirlo in seno alio Stato e
creare cosi, con 1’usurpazione, la nuova realtà economica dei
socialismo. 18 Le previsioni di Cario Marx non si
sono verificate: fra tutte la caduta dei saggio di interesse e dei
profitto, rappresenta il punto cruciale delia dottrina socialista* II
saggio d'interesse, che costituisce la retribuzione che si deve al
capi- tale, cioè il prezzo che si paga per Fuso dei medesimo, è un
dato di fatto che non si può smentire; le recenti esperienze di economia
socialista dimostrano che laddove ufficialmente il saggio d'interesse si
nega, si uccide anzitutto ogni stimolo al risparmio e poi nella realtà
delia vita economica esso risorge per infinite vie diverse, e con estrema
frequenza assume la vecchia forma delFusura* II socialismo
come sistema economico e anche come sistema politico-sociale ha quindi
peccato di ingenuità per non dire di viltà: esso non ha saputo guardare
con occhio sereno e pene¬ trante nella realtà dei fatti economici per
distinguere ciò che era contingente e relativo a determinate situazioni
di tempo e d'ambiente, da ciò che è eterno e connaturato con lo
spirito deiruomo* Al contrario il Fascismo, che ignora le
snervanti logomachie e gli oziosi e raffinati ragionamenti intessuti su
premesse metafisiche, e che invece ama Tosservazione delia realtà
per costruire su solide basi non solo la dottrina ma le opere e gli
istituti, ha da tempo affermata la sua fede nella inizia- tiva privata,
come fattore insopprimibile delia produzione economica* Ma
questa iniziativa privata non è libera di svolgersi nelle maniere piú
diverse per dominare il campo economico; si tratta di una iniziativa
privata la quale deve essere regolata, controllata, disciplinata dallo
Stato che la ospita e la difende, la tutela e Tincoraggia, non perchè
essa formi solo la fortuna personale di colui che la esercita, ma in
quanto lo scopo raggiunto coincida con le necessità e le finalità dello
Stato* La dottrina economica dei
Fascismo riconosce inoltre una funzione al capitale, il quale costituisce
il frutto dei lavoro deiruomo, risparmiato e impiegato nei nuovi processi
produt- tivi. In tal modo essa esalta la virtú dei risparmio, come
mezzo per aumentare la potenza economica delia Nazione e quindi per
dare vigore e sostanza all’azione política. Riconosce la
fondamentale funzione delia proprietà privata, la quale non è piú intesa
nel senso liberale, di diritto di godere e disporre delle cose nella
maniera piú assoluta, ma e intesa come dovere sociale. II suo esercizio e
quindi limitato da leggi le quali subordinano 1'interesse deli’indivíduo
a quello dello Stato. In ogni caso però lo Stato fascista, pur giungendo
anche alia espropriazione, fa si che non si creino sperequa£ÍonÍ a
danno dí particolarí individui, poiche in esso il senso romano dei
diritto e delia equità è sempre vigile e operante, Dovere sociale è
anche Fesercizio delFimpresa, cioè 1 espli- ca^ione delFini^iativa
privata, II Fascismo, pero, se pur rifugge dal concetto esclusivo di
impresa statale, proprio dei socialismo, non ripudia, come fa il
liberalismo, la possibilita, anzi ammette la necessita, che certe imprese
che eserciscono pubblici servizi o che rivestono generalissimi interessi,
sieno esercitate dallo Stato, Nel campo dei lavoro, poi, il Fascismo è
Stato rivoluzionario in maniera veramente superba, Esso, che ha sempre
intesa la storia, cioè il passato, come base dei presente dal quale
si diparte Fawenire, non ha mai sacrificato con leggetezzz e
superficialità, per amore di novità, quello che era il frutto delia
tradizione e la conquista delle passate generaçioni, II Fascismo ha
inserito sul tronco delia storia italiana le sue audaci inno- vazioni
rivolusionarie, Tra queste, principalissime quelle nel campo dei
lavoro. Durante tutto Í 1 secolo XIX la posicione dei
lavoratore rispetto alF impresa, era in condizioni di soggezione, II
lavoratore 20 era alia mercê deirimprenditore,
il quale, avendo una netta superiorità economica, poteva imporre le
condizioni e gover- nare il cosidetto mercato dei lavoro* II
Fascismo, superando il concetto delia lotta di classe, dimostrando
fallaci le dottrine che ad essa si ispirano, ha anche posto in evidenza
che il connubio tra il liberalismo e il socialismo, proprio dei periodo
storico in cui vi era il libero sindacato degli operai che cocava contro
il libero sindacato dei datori di lavoro, poteva causare perdite
gravissime per la Nazione, la quale non otteneva da questa forma di
libera con- correnza tra sindacati quel massimo di utilità che le
dottrine dei classici delheconomia pronosticavano* Inserendo
il sindacato nello Stato, non ha attuato una forma di socialismo di
Stato, come era preconizzato dagli osservatori superficiali e dai nemici
irriducibili delia nuova Idea, ma ha realizzato in maniera giuridica le
vere e giuste aspirazioni dei popolo senza sacrificare Timpresa,
superando la lotta di classe, sostituendo al diritto di sciopero e di
serrata, il dovere nazionale dei lavoratori e degli imprenditori*
Ha raggiunto un nuovo sistema di equilibrio senza cadere in
grossolane contraddizioni e senza fare una dolorosa espe- rienza piena di
inenarrabili sacrifici per le classi operaie, quale hanno fatto coloro
che vollero applicati gli schemi marxisti* II lavoro non è
piú considerato una merce che si vende sul mercato e il salario non è piú
un prezso che si forma nel con¬ trasto fra merce offerta e merce
domandata* II lavoro è un diritto e non una concessione*
II Duce, infatti, ci ha detto che in tutte le società nazionali c'è
la miséria inevitabile; però quella che deve angustiare il nostro spirito
è la miséria degli uomini sani e validi che cer- cano affannosamente e
invano il lavoro* 21
Per questo il Fascismo considera il lavoro come un diritto. E il
Regime ha creato a questo scopo, come vedremo, Istituti nuovi, non per
dare forma ai suoi schemi dottrinali ma per dare risultati positivi,
concreti, tangibili alia sua azione: per far si che il diritto al lavoro
dei popolo italiano non rimanga una mera affermazione dogmatica, ma possa
estrinsecarsi nella nuova realtà economica dei nostro Paese.
política economica e monetaria
LA POLÍTICA DEL
LAVORO L A política dei lavoro ha le sue tavole fondamentali
nella Carta dei Lavoro* Questa costituisce una dichiarasione
política di basilare importanza; insorge contro la concezione liberale
che considera il lavoro come merce, e afferma che «il lavoro sotto tutte
le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche,
manuali, è un dovere sociale »♦ Lo strumento creato dal Fascismo
per regolare le condidoni di lavoro è il contratto collettivo, nel quale
trova la sua espres- sione concreta la solidarietà dei vari fattori delia
produ zione, mediante la conciliasáone degli opposti interessi dei
datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli
interessi superiori delia produzione* La solidarietà fra
tutti i fattori delia produzione, e non soltanto tra imprenditori e
lavoratori delia stessa categoria, è proclamata nella dichiarasione 4 a ,
la quale assegna al contratto collettivo di lavoro la delicata e
difficile funzione di concretarla* La Carta dei Lavoro (dichiarazione 3 a
) afferma che la orga- nizzasione professionale e sindacale è unica* II
solo Sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello
Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria
di datori di lavoro e di lavoratori per cui è costituito, di
tutelarne di fronte alio Stato o alie altre associazioni professionali
gli interessi, di stipulare contratti collettivi di lavoro
obbligatori per tutti gli appartenenti alia categoria, di imporre loro
contri- buti ed esercitare rispetto ad essi funsioni delegate d'interesse
pubblico* II Sindacato ha il compito di tutelare gli interessi
delle categorie, ma nello stesso tempo ha Fobbligo di promuovere
25 in tutti i modi
Taumento e il perfezionamento delia produ- zione e la riduzione dei
costi; esso deve anche adoperarsi per il conseguimento dei íini morali
deirordinamento corporativo* Nella Carta dei Lavoro come si
reagisce alia concesione dei lavoro come merce, si introduce il concetto
di salario giusto ed equo, che sarebbe il salario corporativo, in quanto
esso deve uniformarsi « alie esigenze normali di vita, alie possibilità
delia produzione e al rendimento dei lavoro»* Aggettivi e
condizioni, quelli e queste, che equivalgono ad eresie per gli economisti
classici, pei quali non esiste altra giustizia in economia se non quella
stabilita dal ptezzo di equi¬ líbrio, determinato dairincontro
delhoíferta e delia domanda di lavoro* Poichè — essi hanno sentenziato —
il fatto econo- mico è un fatto naturale, meccanico e perciò non può
essere nè giusto nè ingiusto, come una reazione chimica o la caduta
di un grave* La Carta dei Lavoro risolve felicemente il problema
delia determinazione dei salario giusto, cioè di un salario che
garan- tisca al lavoratore un minimo di tenore di vita sen2;a che
esso incida sul giusto profitto delhimprenditore* E siccome questa
determinazione non è suscettibile di una solucione di carat- tere
generale, essa lascia un grado sufficiente di elasticità, che permette al
salario di essere il risultato di un accordo contrat- tuale convenuto fra
sindacati* Le ragioni economiche sono perciò mirabilmente armoni^ate con
quelle sociali e politiche; il senso di alta umanità, cui si ispira il
fondamentale docu¬ mento politico in matéria di lavoro, viene confermato
nella dichiara^ione 18 a , la quale assicura al lavoratore la
continuità dei salario anche in seguito al verificarsi di
determinate evenien2;e* «Nelhimpresa a lavoro continuo, il
trapasso delhazienda non risolve il contratto di lavoro e il personale ad
essa addetto 36 conserva i suoi diritti nei
confronti dei nuovo titolare. Egual- mente la malattia dei lavoratore,
che non ecceda una deter- minata durata, non risolve il contratto di
lavoro. II richiamo alie armi o il servizio delia M. V. S. N. non è causa
di licen¬ ciamento ». Ispirata alia stessa preoccupazione di
tutelare il lavoratore è la dichiaracione 14 a , la quale stabilisce che
la retribucione deve essere corrisposta nella forma piú consentânea alie
esigence dei lavoratore e dell'impresa. Quando la retribucione
sia stabilita a cottimo, e la liquida- zione di cottimo sia fatta a
periodi superiori alia quindicina, sono dovuti adeguati acconti
quindicinali o settimanali. II lavoro notturno, non compreso in regolari
turni periodici, viene retribuito con una percentuale in piü rispetto al
lavoro diurno. Ma la parte fondamentale relativa alia
determinacione dei salario, merita qualche consideracione.
Ancitutto va osservato che le condicioni di vita, a cui deve
uniformarsi il salario, non sono qualche cosa di astratto e di costante,
ma, essendo in stretta relacione con le condicioni dell’economia
nacionale, subiscono continue variacioni col progresso generale di
questa. Per esse non bisogna intendere il minimo necessário per la vita
fisica dell'individuo, ma un livello sufficiente a consentire
1'elevacione dei lavoratore. Questa concecione morale delia vita
persegue anche finalità di carattere economico. Le cattive condicioni dei
lavoratori non solo riducono la capacità di consumo dei mercato
interno, per il quale gran parte degli imprenditori producono, ma
ne menomano anche il rendimento, ostacolando il progresso economico e
civile. II secondo elemento che bisogna tener presente nella
deter- minacione dei salario è dato dalle possibilità delia
producione. 27
í Si è detto che la Carta dei Lavoro ha sempre presente il
rag- giungimento di una finalità di carattere superiore e cioè
quella di aumentare la potenza política ed economica delia Nazione.
Si comprende, quindi, come sia stata sua preoccupazione costante quella
di far si che il salario venga stabilito in maniera tale da non causare
1'annullamento dei giusto profitto che deve percepire 1'imprenditore,
perchè in tal caso si annullerebbe lo spirito d'intrapresa, lo stimolo al
risparmio e quindi si inaridi- rebbero le fonti delia ricchezza, che sono
le fonti dei lavoro. Tale disposizíone non deve essere perciò
interpretata soltanto come difesa delPimpresa, perchè con 1’aumento delia
potenza economica si creano nuove fonti di lavoro. È anche
per questo motivo che la Carta dei Lavoro affida la concreta
determinazione dei salario ai liberi accordi contrattuali; essa ha
perfettamente inteso che questa matéria deve essere disciplinata seguendo
con grande accortezza le contingenze economiche. Qualora non fosse
consentita la indispensabile elasticità, le ricordate disposizioni si
risolverebbero in un danno altrettanto grave per i lavoratori quanto per
gli imprenditori. I ricordati criteri non devono essere mai
dimenticati nè dalle associazioni sindacali nè dalla Magistratura dei
Lavoro. L’ultimo elemento fissato dalla Carta dei Lavoro per
proce- dere alia determinazione dei salario è il rendimento dei
lavoro. Con questa disposizione la Carta dei Lavoro ha voluto
ricono- scere in maniera esplicita che anche tra i lavoratori il
concetto di differenziamento, in relazione alie singole capacità,
deve essere tenuto presente onde evitare di agguagliare i singoli
ed eliminare le naturali diversità nelle attitudini e nella
capacità di lavoro. Ciò costituisce anche un vantaggio sociale che
non poteva essere trascurato dal Fascismo il quale cerca sopratutto
di ottenere che i singoli elevino loro stessi servendo la causa dei
Paese. 28 II salario non deve quindi essere
necessariamente eguale per tutti gli operai, nè per tutti i generi di
lavoro* Esso varia inoltre in relacione al luogo e al tempo*
II comune, piü generale e forse piü antico sistema di retri-
buzione è quello dei salario a tempo, corrisposto in base al numero di
ore o di giorni di lavoro prestato: forma che pre- scinde dal rendimento
perchè fa astrazione dalla quantità di lavoro compiuto* Accanto a questo
vecchio sistema, che alio svantaggio di richiedere una assidua
sorveglianza unisce quello di mancare di sufficiente stimolo, si sono
venute affermando forme di retribuzione che vanno sotto il nome di
salario a incentivo * Questo va esente dai ricordati inconvenienti, ma
anzi stimola Tattività delboperaio e quindi la produttività dei
lavoro* Questi indiscutibili vantaggi possono però essere accompa-
gnati da svantaggi considerevoli, specie se considerati dal punto di
vista nazionale* E consistono appunto nella qualità piú corrente o
ordinaria delia produzione e specialmente nel periodo di uno sforzo
eccessivo dei lavoratore che, se lunga- mente protratto, può essere
nocivo per la salute deiroperaio. I vantaggi che con questo sistema
si conseguono sono però tanto importanti da renderlo preferibile ogni
qual volta sia opportunamente regolato* Come fa la Carta dei Lavoro
quando si preoccupa delle conseguenze dei sistema a cottimo nei
riguardi dei lavoratori meno capaci, che non arrivano ad otte- nere un
reddito corrispondente alia paga base* Per la loro tutela la Carta dei
Lavoro dichiara che « quando il lavoro sia retribuito a cottimo le
tariffe di cottimo devono essere deter- minate in modo che alPoperaio
laborioso, di normale capacità produttiva, sia consentito di conseguire
un guadagno minimo oltre la paga base»* Lo scopo dei
legislatore fascista, regolando questa matéria dei salario a cottimo nel
modo indicato, è stato quello di sti-
molare attraverso di esso, nel lavoratore, la convenienza
ad incrementare la produzione, legandolo alia rnedesima, assi-
curando altresi un trattamento che non determini grandi disparità di
retribuzione tra i singoli lavoratori e nello stesso tempo non sia motivo
di logorio fisico delPoperaio. Obbligando il lavoratore a una
fatica superiore alie sue medie possibilità, si crea un sistema di lavoro
privo dei requisiti fon- damentali dei lavoro fascista, che deve essere
gioia creatrice e non grigia fatica che stanca e non piace. Per questo il
Fasci¬ smo non è mai stato molto entusiasta dei sistemi di paga che
hanno avuto tanto furore e cosi estesa applicazione nei Paesi dei
supercapitalismo e specialmente negli Stati Uniti d’America. I sistemi
basati sulla cosidetta organizzazione scientifica dei lavoro e che fanno
capo al taylorismo, spesso fiaccano la fibra delPoperaio costringendolo
ad un lavoro mec- canico monotono e sempre eguale senza varietà e
diversioni capaci di sollevare lo spirito dei lavoratore. I
vari sistemi — Rowan, Halsey e Bedeaux — si ispi- rano tutti in sostanza
al concetto di fissare la paga in relazione al rendimento dei singolo e
indipendentemente o quasi da certi minimi, che diremmo di carattere
umanitario. Lo Stato corporativo, pur stimolando la nobile e
generosa gara dei lavoratore non vuole che questo si trasformi in
una parte di macchina; questi razionalissimi sistemi, frutto esclusivo
delia ragione e dei calcolo, che fanno astrazione da qualsiasi
caratteristica individuale, trasformano invece il lavoratore in una parte
delia macchina di cui egli. diventa il servo. II problema non
va quindi impostato da un punto di vista meramente e prettamente
economico e materiale, ma va con- siderato anche da un punto di vista
etico, sociale e político, come lo ha considerato lo Stato corporativo
che non opera 30 guardando solo il presente, ma
con gli occhi e 1’anima tesi sopratutto verso 1'awenire. La
determinazione dei salario rappresenta la parte piú importante e delicata
dei contratti di lavoro e va affrontata con animo mondo da qualsiasi
preoccupazione partigiana e demagógica; va affrontata, cioè, con spirito
fascista, con spirito che armonizza in una perfetta unità i due maggiori
fattori delia produzione: il lavoro e il capitale. LA
CORPORAZIONE L'idea centrale e fondamentale che caratterizza nel
terreno economico e sociale la Rivoluzione delle Camicie Nere, è la
Corporazione . II Corporativismo è espressione essenziale dei
Fascismo, Che cosa siano le Corporazioni lo ha definito il Duce
nello storico discorso dei novembre XII, al Consiglio Nazionale
delle Corporazioni. Le Corporazioni, secondo la definizione datane
dal Duce, sono «lo strumento che, sotto 1 'egida dello Stato, attua
la disciplina integrale, organica e unitaria delle forze
produttive, in vista dello sviluppo delia ricchezza, delia potenza
política e dei benessere dei popolo italiano». II corporativismo —
ha ancora affermato il Duce — «è Teconomia disciplinata, e quindi
anche controllata, perchè non si può pensare ad una disciplina che non
abbia un controllo: il corporativismo supera il socialismo e supera il
liberalismo, crea una nuova sintesi». È cioè la sintesi dei contrastanti
interessi di categoria e di gruppo nel supremo interesse delia società
nazionale. II corporativismo implica quindi anzitutto una perfetta
e completa conoscenza dei vari settori deireconomia nazionale;
31 delia loro
portata economica assoluta e relativa. Implica un indirizzo di política
economica conforme a certe finalità sociali che lo Stato ritiene piú
vantaggiose per la collettività nazionale. Diciamo portata assoluta
e relativa delle diverse attività economiche delia Nazione, perchè non
tutte hanno la stessa importanza per gli interessi che rappresentano o
per i fini che lo Stato fascista persegue. Non mancano, nel campo agricolo
come in quello industriale, modeste attività in confronto di larghi
generali interessi economici. II liberalismo può atten- dere dal cozzo la
soluzione che pel solo suo trionfo ritiene socialmente piú vantaggiosa;
il corporativismo no. Deve appro- fondire 1'importanza relativa di ogni
branca dell'attività economica e con una visione nazionale, organica
quindi e inte- grale, evítare che limitati interessi, anche se potenti,
deprimano interessi ben piú larghi anche se meno agguerriti o protetti.
Discende da ciò che lo Stato corporativo non può difendere
egualmente ogni settore economico, grande e piccolo. Vi sono settori,
attività, branche che ai fini nazionali vanno tutelati e difesi, in
confronto di altri che non meritano eguale tutela. Una política economica
corporativa non può non fare questa cernita di interessi in armonia ai
fini sociali che intende raggiungere. Questa è Tessenza
dell'economia corporativa. Vediamoun po' il suo sviluppo storico.
II Duce sin dall’anno I, parlando il 2 giugno ai lavoratori dei
Polesine, affermò il concetto fondamentale delia collabora- zione: « La
lotta di classe — Egli disse — può essere un epi¬ sódio nella vita di un
popolo; non può essere sistema quoti¬ diano, perchè significherebbe la distruzione
delia ricchezza e quindi la miséria universale». «
Collaborazione, fra chi lavora e chi dà lavoro, fra chi dà le braccia e
chi dà il cervello — tutti gli elementi delia 32
produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie_* attraverso
a questo prpgramma voi arriverete al benessere, la Nâsione arriverà alia
prosperità e alia grandeza». E il 32 maggio deiranno II, al
Consiglio Nazionale dei bmdacati fasdsti, il Duce rivolgeva alFassemblea
il seguente richiamo: « La collaborazione di classe deve essere
praticata m due; 1 datori di lavoro non deVono approfittare dello
stato attuale restaurato dal Fascismo, che ha dato un senso di
disciplina alia Nazione, per soddisfare i loro egoismi; essi devono considerare
gli operai come elementi essenziali delia produzione; devono fare il loro
interesse in quanto coin¬ cida con quello delia Nazione e non invece il
contrario. Solo in questo modo si potrà avere una massa realmente
disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alie fortune delia
Patria »* Nello stesso anno, mviando un messaggio al Congresso
delle Corporazioni Smdacali Fasciste, rilevava che in molte zone la
mtelligente collaborazione di classe era stata realizzata e la pace era
mantenuta. Ciò dimostrava che quando le due parti sanno mettersi sul
concreto terreno delia produzione, la colla- bora2;ione di classe è
possibile* Nd maggio dell'anno III il Duce, pubblicando in
Gerarchia un articolo su «Fascismo e Sindacalismo» ricordava che
sin al dicembre dei 1921 il programma dei Partito affermava clie le
Corporazioni vanno promosse secondo due obiettivi rondamentali: e cioè
come espressione delia solidarietà nazio- nale e come mezzo di sviluppo
delia produzione. Le Corporazioni non debbono tendere ad annegare
l'indi- yiduo nella collettività, e a livellare arbitrariamente la
capacità e le torze dei singoli, ma debbono anzi valorizzarle e
svilupparle. In questa schematica dichiarazione vi sono i
fondamenti delia nuova dottrina corporativa*
II Fascismo, conquistato il potere, si dedico con rara
energia a consolidare le istituzioni, a risolvere gli impellenti
problemi posti dalla vita economica dei Paese, senza però
dimenticàre lo sviluppo orgânico delia legislazione corporativa che
doveva portare alia legge fondamentale dei 5 febbraio 1934.
Da un punto di vista dottrinale, e se si vuole anche storico, lo
sviluppo delia Corporazione è contrassegnato da tre fasi o momenti di
importanza fondamentale: la legge dei 3 aprile 1926, sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di la- voro; la legge 20 marzo 1930 sul
Consiglio Nazionale delle Corporazioni; la legge 5 febbraio 1934 sulla
costituzione e sulle funzioni delle Corporazioni. II
legislatore fascista già nella legge dei 1926 forni i primi elementi
giuridici dei nuovo istituto delia Corporazione, e si può anzi affermare
che tutte le disposizioni di quel documento fossero ispirate a questo
concetto fondamentale. Era 1’idea nuoVa che animava e giustificava
Tordinamento instaurato dalla legge. Secondo la legge
ricordata, 1 * Istituto delia Corporazione aveva anzitutto lo scopo di
attuare la completa collaborazione tra le categorie, collegando le
rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di laVoro dei ramo
di produzioni per cui la corporazione è costituita; di rappresentare in
maniera unitaria gli interessi economici dei proprio settore
produttivo di fronte alie altre categorie. La delicatissima
funzione dei collegamento era esercitata dallo Stato. La
legge dei 1926 prevedeva, accanto alia organizzazione sindacale a
carattere verticale, una organizzazione corporativa a carattere
orizzontale: la prima serviva per tutelare gli interessi dei singoli
elementi delia produzione, la seconda per la difesa degli interessi
comuni a ogni singolo ramo delia produzione. Già in
questa legge agli organi corporativi fu attribuita la facoltà di emanare
norme generali sulle condizioni di lavor o, di conciliare le controversie
collettive tra le associazioni colle- gate,di promuovere, incoraggiare e
sussidiare tutte le inizia- tive intese a coordinare e meglio organizzare
la produzione, di istituire uffici di collocamento, di regolare il
tirocínio e Í1 garzonato con norme obbligatorie. II secondo
passo di carattere fondamentale sulla via che doveva condurre alia
Corporazione fu fatto con la legge 20 tnarzo 1930, sul Consigho Nazionale
délle Corporazioni , la quale non solo forniva un nuovo strumento
giuridico per disci- plmare i rapporti economici collettivi, ma
attribuiva nuovi compiti e funzioni alie associazioni sindacali. Queste
estesero il loro campo di attività dalla disciplina dei rapporti di
lavoro, al regolamento collettivo dei rapporti economici tra le
diverse categorie delia produzione. Ma è con la legge dei 5
febbraio 1934 che si dovevano realiz- sare in maniera definitiva le
Corporazioni. Sin dal 22 aprile delFanno VIII il Capo aveva detto:
«il sindacalismo non può essere fine a se stesso: o si esaurisce
nel socialismo político, o nella corporazione fascista. È solo
nella corporazione che si realizza 1 idea economica nei suoi
diversi elementi: capitale, lavoro, técnica; è solo attraverso la
corpo¬ razione, cioe attraverso la collaborazione di tutte le forze
conver- genti ad un solo fine, che la vitalità dei sindacalismo è
assi- curata. È solo, cioe, con un aumento delia produzione e
quindi delia ricchezza, che il contratto collettivo può garantire
condi- zioni sempre migliori alie categorie lavorative. In altri termini,
sindacalismo e corporazione sono indipendenti e si condizio- nano a
vicenda; senza sindacalismo non è pensabile la corpora¬ zione; ma senza
corporazione il sindacalismo stesso viene, dopo le prime fasi, a
esaurirsi in un*azione di dettaglio, estranea al 35
processo produttivo; spettatrice non attrice;
statica e non dinamica». Parlando al popolo di Bari il Duce
disse come 1 'obiettivo dei Regime nel campo economico fosse la
realizzazione di una piú alta giustizia sociale per tutto il popolo italiano.
La quale cosa significa lavoro garantito, salario equo, casa
decorosa: significa la possibilità di evolversi e di migliorarsi
incessante¬ mente: significa che gli operai, i lavoratori debbono
entrare sempre piú intimamente a conoscere il processo produttivo e
a partecipare alia sua necessária disciplina. La fusione di tutte
le energie economiche e spirituali delia Patria doveva awenire in maniera
definitiva con la promulgazione delia legge dei 5 febbraio 1934, che crea
su di un piano orgânico le Corporazioni. Insediando i
Consigli delle Corporazioni, il Capo ne poneva in rilievo il carattere
rivoluzionano, perchè il suo compito è quello di determinare negli
istituti, nelle leggi e nei costumi, le trasformazioni politiche e
sociali che sono necessarie alia vita di un popolo. In
quell’occasione il Capo si domandava: « occorre ripetere ancora una volta
che le Corporazioni non sono fine a se stesse ma strumenti di determinati
scopi? Ormai questo è un dato comune. « Quali sono gli scopi?
« Airinterno una organizzazione che raccorci con gradua- lità ed
inflessibilità le distanze tra le possibilità massime e quelle minime o
nulle delia vita. È ciò che io chiamo una piú alta giustizia sociale. In
questo secolo non si può ammettere la inevitabilità delia miséria
materiale, si può accettare sol- tanto la triste fatalità di quella
fisiológica. Non può durare l’assurdo delle carestie artificiosamente
provocate. Esse denun- ciano la clamorosa deficienza dei sistema. II secolo
scorso 36 proclamo Tuguaglian^a
dei cittadini davanti alia legge — e fu conquista di portata formidabile
— il secolo fascista mantiene, an2;i consolida, questo principio, ma ve
ne aggiunge un altro, non meno fondamentale: Teguaglianza degli uomini
dinan^i al lavoro, inteso come dovere e come diritto, come gioia
crea- trice che deve dilatare e nobilitare Tesisten^a, non
mortificaria o deprimerla. « Di fronte alhesterno la
corpora^ione ha lo scopo di aumen- tare senza sosta la poten^a globale
delia na^ione per i fini delia sua espansione nel mondo »♦
Col io novembre delbanno XII la grande macchina creata dal genio
dei Duce doveva mettersi in moto. II Capo ammoniva che non bisogna
attendersi immediati miracolL Anzi i miracoli non bisogna attenderli
affatto, perchè il miracolo non appar- tiene alPeconomia. La
legge attribuisce alie Corporadoni funzioni normative in matéria
economica. Inoltre esse sono chiamate a dar pareri (compito consultivo)
su tutte le questioni che interessano il ramo di attività per cui sono
costituite, tutte le volte sia richie- sto da organi competenti, nonchè a
esercitare la concilia^ione delle controversie collettive di
lavoro. L'attività delle Corpora^ioni è incominciata neiranno
XIII e molte di esse hanno già lavorato con successo. Le
ventidue corporazioni istituite dal Capo dei Governo sono elencate qui di
seguito e per ciascuna riportiamo la compo- sizione numérica delle
categorie economiche. Si ricorda che nelle Corporazioni vi è sempre
rappresen- tato il Partito, il quale porta in seno a questo nuovo
organismo la continuità dello spirito rivolu^ionario e la voce delia
massa dei consumatori. 37
PRIMO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con decreto dei Capo
dei Governo dei 29 maggio 1934-XII) 1* - CORPORAZIONE DEI CEREALI
i> Produzione dei cereali ♦ * * ♦ * ♦ 7 datori di lavoro e 7
lavoratori Industria delia trebbiatura ♦ ♦ . * 1 » » » 1 »
Industria molitoria, risiera, dolciaria e delle paste » » » 3
» Panificazione ♦ ♦ ..* 1 » » » 1 » Commercio dei
cereali e degli altri prodotti sopra indica ti ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3
» Cooperative di consumo ♦ * • * « 1 rappresentante
Tecnici agricoli ..♦ 1 » Artigianato * ♦.♦ ♦ ♦ ♦ 1 » 2.
- CORPORAZIONE DELLA ORTO-FLORO-FRUTTICOLTURA Orto-floro-frutticoltura
♦♦♦♦♦♦ 6 datori di lavoro e 6 lavoratori Industria delle conserve
aümentari vegetali ♦*♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 » » » 2 » Industria dei
derivati agrumari e delle essenze . ♦ * * ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 » Commercio
dei prodotti orto-floro- frutticoli e loro derivati ♦ ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3
» Tecnici agricoli 1 rappresentante Chimici ♦ ♦ * ♦ ♦.♦
i » Cooperative di esportatori orto-floro- frutticoli * ^ ♦
♦♦♦*♦♦. ♦ i » 3. - CORPORAZIONE VITIVINICOLA
Viticoltura ♦ * ♦ ♦..♦♦♦♦ * 6 datori di lavoro e 6 lavoratori
Industrie enologiche (vini, aceto, liquori) ♦ ♦♦♦♦♦♦.♦♦♦ 2 » » » 2
» 1) Ogni Corporazione ha tre rappresentanti dei Partito.
38 Industrie delia birra ed affrni ♦ * ♦ 3
datori di lavoro e 3 lavoratori Produzione delPalcool di
seconda categoria » » » 1 » Commercio dei prodotti
sopra eien- cati ♦ ♦.. * ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3 »
Tecniciagricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante Chimici ....i
» Cantine sociali ♦ ♦♦♦*♦♦♦♦ 1 . » 4- - CORPORAZIONE
OLEARIA Coltura delPolivo e di altre piante da olio
♦.♦♦♦♦♦♦♦**♦♦ 5 datori di lavoro e 5 lavoratori Industria delia
spremitura e delia rafíinazione delPolio di oliva ♦ ♦ 2 » » » 2 »
Industria delia spremitura e delia raffinasione delPolio di semi ♦
♦ 1 » » » 1 » Industria delPolio al solfuro ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »
Commercio dei prodotti oleari ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 » Tecnici
agricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i
» 5. - CORPORAZIONE DELLE BIETOLE E DELLO ZUCCHERO
Bieticoltura ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 2 datori di lavoro e 2 lavoratori
Industria dello zucchero.1 » » » 1 » Industria delPalcool di
prima cate¬ goria ♦ » » )> i » Commercio dei prodotti
sopra indi- cati » » » i » Tecnici agricoli ♦ ♦♦♦♦*♦♦♦
1 rappresentante Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i » 39
6 * - CORPORAZIONE DELLA
ZOOTECNIA E DELLA PESCA Praticoltura e allevamento dei
be- stiame e delia selvaggina . * * ♦ Industria delia pesca
marittima e di acque interne e delia lavorazione dei pesce * * ♦ *
* * * * * * * Industria dei latte per consumo diretto
**♦♦**♦*♦*** Industria dei derivati dei latte * * ♦ Industria delle
carni insaccate e delle conserve aümentari animali * ♦ * Commercio
dei bestiame * * ♦ ♦ Commercio dei latte e dei derivati * Tecnici
agricoli ***♦♦.*.* Mediei veterinari *♦♦♦♦*♦* Latterie
sociali.* * ♦ Cooperative di pescatori* ***** 8 datori
di lavoro e 8 lavoratori 2 2 » 1 » »
» 2 » » » 1 2 2 » » » 2
1 » » » I 2 » » » 2 i rappresentante
i )> i » i » »
D )) 7 * - CORPORAZIONE DEL LEGNO
Produzione dei legno, industria fore- stale e prima lavorazione dei
legno Fabbricazione dei mobiíio e di oggetti vari di
arredamento domestico * ♦ Produzione degli infissi e dei pavi-
menti ♦******♦**.♦ Produzione dei sughero ***** Lavorazioni varie
******** Commercio dei prodotti sopraelen- cati *************
Tecnici agricoli e forestali * * * * Artisti *************
Artigianato * * * *. 2 datori di lavoro agricolo e 2
lavoratori agricoli 2 datori di lavoro industriale e 2 lavoratori
industriali 2 datori di lavoro e 2 lavoratori i )> »
» i » 1 » » » i » 2 » » » 2 » 3 » » » 3
» i rappresentante i » i »
40 8 * - CORPORAZIONE DEI PRODOTTI TESSILI
Industria dei cotone ******* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori
Produzione delia lana ****** 1 » » » 1 » Industria delia
lana* .*♦♦*♦♦* 2 » » » 2 » Industria dei seme-bachi ***** 1 » » » 1
» Gelsi-bachicoltura *♦*.***♦ 1 » » » 1 » Industria
delia trattura e delia torci- tura delia seta ********* 1 datore di
lavoro e 1 lavoratore Industria dei rayon ♦*♦♦♦♦* 2 » » » 2 »
Industria delia tessitura delia seta e dei rayon **♦*♦♦♦♦♦♦* 2 » »
» 2 » Coltivazione dei lino e delia canapa 2 » » » 2 »
Industria dei lino e delia canapa * * 1 » » » 1 » Industria
delia juta * ******* 1 » » »' 1 » Industria delia tintoria e delia
stampa dei tessuti. ***** 2 » » » 2 » Industrie tessili
varie * * * * * * * 2 » » » 2 » Commercio dei cotone, delia
lana, delia seta, dei rayon e degli altri prodotti tessili;
commercio al dettaglio dei prodotti stessi * * * 3 » » » 3 »
Tecnici agricoli ♦♦*♦*.*** 1 rappresentante Chimici
♦♦**♦♦*♦**** i » Periti industriali ********* 1 » Artisti
*♦♦*♦***♦♦♦** i » Artigiani *♦♦♦***.**** 1 » Essiccatoi
cooperativi ******* 1 » 41 ir
SECONDO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con
Decreto dei Capo dei Governo dei 9 giugno 1934-XII) 9. -
CORPORAZIONE DELLA METALLURGIA E DELLA MECCANICA Industria
siderúrgica ♦ ♦♦♦♦♦* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Altre
industrie metallurgiche ♦ ♦ * 2 » » » 2 » Industria delia
costruzione di mezzi di trasporto (automobili, moto- cicli,
aeroplani, materiale ferro- tranviario, costruzioni navali) ♦ . 5 »
» » 5 » Industria delia costruzione delle macchine ed
apparecchi per la radio e per la generazione, tra- sformazione e
utilizzazione dell f e- nergia elet trica ♦ 2 » » » 2 »
Industria delia costruzione di mac¬ chine ed apparecchi per uso
indu- striale e agricolo ♦♦♦.♦♦♦* 3 » » » 3 » Industria
delle costruzioni e lavo- razioni metal liche, fonderie e
impianti » » » 4 » Industria delia costruzione di stru-
menti ottici e di misura e delia meccanica di precisione e di armi
2 » » » 2 » Industria dei prodotti di gomma per uso
industriale ♦ ♦ * * ♦ * * ♦ 1 » » » 1 » Industria dei cavi e
cordoni isolanti 1 » » » 1 » Oraíi e argentieri » » » 1 »
Commercio dei prodotti sopra indi- cati ♦♦♦♦*♦♦,♦**.♦5 » » »
5 » Ingegneri ♦ ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante Artigianato
♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 » Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »
42 lo* - CORPORAZIONE DELLA CHIMICA
Industrie degli acidi inorganici, degli alcali, dei cloro, dei gas
compressi e degli altri prodotti chimici inorganici ♦ ♦♦♦♦♦♦ 3
datori di lavoro e 3 lavoratori Industria dei prodotti chimici
per Tagricoltura * ♦ * * * ♦ * * * * 3 » » » 3 » Industria
degli acidi organici e dei prodotti chimici organici ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3
» Industria degli esplosivi ♦ ♦ 1 » - » » 1 » Industria
dei fosforo e dei fiammiferi 1 » » » 1 » Industria dei materiali
plastici ♦ **!»»» 1 » Industria dei coloranti sintetici e dei
prodotti sensibili per fotografie * 2 » » » 2 » Industrie dei
colori mineraH, delle vernici, delle creme e dei lucidi per
calzature e pellami ♦ * * * * 2 » » » 2 » Industria saponiera e dei
detersivi in genere, industria stearica e delia glicerina
♦**♦♦♦♦ ♦ * * ♦ 2 » » » 2 » Industria degli estratti concianti * 1
» » » x » Industria conciaria 1 » » » 1 » Industria
degli olii essenziali e sinte¬ tici e delle profumerie . * ♦ * ♦ 2 » » »
2 » Industria degli olii minerali *.4*2» » » 2 »
Industria delia distillazione dei car- bone e dei catrame;
industria delle emulsioni bituminose ♦ ♦ ♦ * ♦ * 1 » » » 1 »
Industrie farmaceutiche ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 » Commercio dei
prodotti delle indu¬ strie sopra indicate * ♦ ♦ * * ♦ ♦ 4 » » » 4 »
Chimici * ♦ * * * • ♦ ♦ ♦ ♦ * * i rappresentante Farmacisti
*♦♦***♦♦♦♦♦ 1 » Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »
43 ii. - CORPORAZIONE
DELL'ABBXGLIAMENTO Industria deirabbigliamento (con- fezioni
d*abiti, biancheria, ecc.) * Industria delia pellicceria * * * *
Industria dei cappello ****** Industria delle calzature e di altri
oggetti di pelle per uso personale* Industria dei guanti *******
Produzione di oggetti vari di gomma per uso di abbigliamento . * *
* Magliíici e calzifici ******** Produzione di pizzi, ricami,
nastri, tessuti elastici e passamanerie * * Industria dei bottoni
******* Produsioni varie per Tabbigliamento Ombrellifici
*********** Commercio dei prodotti delle indu¬ strie sopra indicate
******* Artigianato *. ***** Artisti
************* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori 1 » »
» i » 2 » » » 2 , » 2 » » » I » ))
)) 2 » I » 1 » » )> 2 » »
» 1 » 2 » 2 » )) )) I » »
» I » » )) I » » » 2 » I
» I » I » 4 » » » 4 » i
rappresentante i » 12* - CORPORAZIONE DELLA CARTA E
DELLA STAMPA Industria delia carta ******* Cartotecnica
********** Industrie poligrafiche ed affini * * * Industrie
editoriali.* * Industrie editoriali giornalistiche .
Commercio dei prodotti delle indu¬ strie sopra elencate
****** Artisti (autori e scrittori, musicisti, belle arti,
giornalisti) ****** Artigianato *********** 2 datori di
lavoro e 2 lavoratori 1 » » » i » 2 » » )> 2 »
2 » » » 2 » 2 » » » 2 » di cui uno
giornalista 2 » » » 2 » 4 rappresentanti i
» 44
13* - CORPORAZIONE DELLE COSTRUZIONI EDILI Industrie delle
costruzioni (costru¬ zioni edilizie e opere pubbliche) ♦ Industria
dei laterizi ♦.♦♦♦♦♦ Industria dei manufatti di cemento* Industria
dei cementi, delia calce e dei gesso ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦. Industria dei
materiali refrattari ♦ Commercio dei materiali da costru- zione
************ Proprietà edilizia ♦ ♦♦♦♦.♦♦ Ingegneri ♦
Architetti ♦ ♦♦♦♦♦♦ . Geometri ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦♦ Periti
industriali edili ♦ *.♦♦♦ Artigianato ♦ Cooperative edili
♦♦♦♦♦♦♦.„ 4 datori di lavoro e 4
lavoratori i » )> » ■i
» i )> » » i »
i » » » i » i
» » » i » 2 » » )) 2
» I » M » i y>
I rappresentante I »
I I » I
» I » 14* -
CORPORAZIONE DELL'ACQUA, DEL GAS E DELLA ELETTRICITÀ Industria
degli acquedotti * * * * 3 datori di lavoro, dei quali un
rappresentante delle aziende mu- nicipali e 3 lavoratori, dei
quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende
municipalú Industria dei gas ♦♦♦♦♦♦•♦ 3 datori di lavoro, dei quali
un rappresentante delle aziende mu- nicipali, e 3 lavoratori
dei quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende
municipalú Industrie elettriche.4 datori di lavoro, dei quali un
rap¬ presentante delle aziende munici- palizzate e 4
lavoratori dei quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende
municipalizzate» Ingegneri 1 rappresentante Consorzi e
cooperative ♦*♦♦♦♦! » 45
15 * - CORPORAZIONE DELLE INDUSTRIE
ESTRATTIVE Industria dei mínerali metaílici * . 2 datori di lavoro
e 2 lavoratori Industria dello zolfo e delle piriti * 2 » » » 2
» Industria dei combustibili fossili * * 1 » » » 1 »
Industria delle cave (marmo, granito, pietre ed affini) *♦♦♦♦♦♦♦ 2
» » » 2 » Lavora^ione dei marmo e delia pietra 1 » » » 1 »
Commercio dei prodotti delle indu¬ strie sopraelencate * 2 » » » 2
» Ingegneri minerari ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante Periti
industriali minerari . ♦ * * 1 » Artigianato 1 » 16* -
CORPORAZIONE DEL VETRO E DELLA CERAMICA Industrie delle ceramiche
artistiche, porcellane, terraglie forti, semi- forti, e
dolci, grès, abrasivi . • ♦ 4 datori di lavoro e 4 lavoratori
Industrie delle bottiglie * * * . * * 1 » » » 1 » Industria
dei vetro bianco * ♦ * , 1 » » » 1 » Industria delle lastre ♦*,■*..*
1 » » » 1 » Industria degli specchi e cristalli ♦ * 1 » » » 1
» Industria dei vetro scientifico (com- preso quello di
ottica) * ♦ * «. * * 1 » » » 1 » Industria dei vetro artistico e
con- terie ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦***♦ 1 » » » 1 » Industria delle lampade
elettriche ♦ 1 » » » 1 » Commercio dei prodotti delle indu¬
strie elencate ♦♦*♦♦♦*,, 2 » » » 2 » Artigianato ♦ 2
rappresentanti Cooperative 1 » Artisti ♦ i »
46 TERZO GRUPPO Dl CORPORAZIONI
(Istituite con Decreto dei Capo dei Governo dei 23 giugno 1934-XII)
17. - CORPORAZIONE DELLE PROFESSIONI E DELLE ARTI
Sezione dei Professionisti legali: Awocati e Procuratori
****** 3 rappresentanti (due per gli awocati e uno per i procuratori)
Dottori in economia ******* 1 rappresentante Notai ************* i
» Patrocinatori legali ******** 1 » Periti commerciali
♦ ♦***♦♦* 1 » Ragionieri ***** .* 1 » Sezione delle
professioni sanitarie: Mediei ************* 3 rappresentanti
Farmacisti *********** 1 » Veterinari *********** 1 »
Xnfermiere diplomate ******* 1 » Levatrici ************ 1
» Sezione delle professioni tecniche: Ingegneri
************ 2 rappresentanti Architetti ************ 2 »
Tecnici agricoli ********* 3 » (uno per i dot¬ tori in
agraria e uno per i periti agrari) Geometri * * * *.* * * 1
rappresentante Periti industriali ********* 1 » Chimici
************ i » Sezione delle arti: Autori e
scrittori ********* 2 rappresentanti Belle arti * . *.* * 2 »
Architetti *.♦*•♦****♦♦ 1 » 47
Giornalisti ♦♦♦♦♦*♦♦♦♦*
Musicisti.. Istituti privati di educazione e istru-
Zione ♦♦♦44»* + ***** Insegnanti privati * .. Attività
industriali ed artigiane di arte applicata 4444***44
Commercio delParte antica e mo¬ derna .. i
rappresentante i » i » i » i
datore di lavoro e 1 lavoratore delPindustria; 2 artigiani i
datore di lavoro e 1 lavoratore i8* - CORPORAZIONE DELLA PREVIDENZA
E DEL CREDITO Sezione delle Banche: II Governatore
delia Banca dTtalia* II Presidente delPAssociazione tra le Società
Italiane per azioni* II Presidente dellTstituto di ricostruzione
industriale* II Presidente dellTstituto mobiüare italiano*
Istituti di credito ordinário ♦ ♦ * ♦ 2 rappresentanti
Banche di provincia .. 1 » Istituti finanziari ♦ *. 1 »
Banchieri privati ♦ * ♦ ♦ * * ♦ , * 1 » Agenti di cambio
44*4444*1 » Ditte commissionarie di borsa e
cambiavalute 4444.44** 1 » Dirigenti di aziende bancarie * *
* 1 » Dipendenti delle aziende bancarie * 7 »
Dipendenti da agenti di cambio * * 1 » Sezione degli
Istituti di diritto pubblico: I membri di diritto delia Sezione
delle Banche Casse di Risparmio ordinarie» * ♦ * 4 rappresentanti
Istituti di credito di diritto pubblico soggetti alia vigilanza dei
Ministero delle Finanze ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦ ♦ ♦ 2 » 48
Istituti speciali di credito agrario * i
rappresentante Monti di Pietà ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti dei quali
uno per i Monti di Pietà di I a cat* ed uno per quelli di 2 a
cat* Istituti di credito di diritto pubblico 3 rappresentanti
Banche popolari cooperative ♦ ♦ * ♦ 1 rappresentante Casse rurali ♦
1 » Dipendenti da Banche popolari e da Casse rurali
*♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti Sezione deile assicurazioni:
II Presidente deiristituto Nazionale delle Assicurazioni, II
Presidente dellTstituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro gli
Infortuni* II Presidente deiristituto Nazionale Fascista delia
Previdenza Sociale, Imprese private autorizzate alPeser- cizio
delle assicurazioni ♦ * ♦ ♦ * 2 rappresentanti Dirigenti delle
imprese di assicura- 210116 ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ X )>
Dipendenti delle imprese di assicu- razione * ♦ ♦ * *.3
» Agenzie di assicurazione ♦ ♦♦,♦! » Dipendenti da
agenzie di assicura¬ zione *** + *•»*. + + , + + i )>
Dipendenti da istituti di assicura- zione di diritto pubblico ♦ ♦ ♦
♦ x » Mutue di assicurazione ♦ » 19, -
CORPORAZIONE DELLE COMUNICAZIONI INTERNE Sezione delle
ferrovie, delle tramvie e delia navigazione interna: Ferrovie e
tramvie extra-urbane * 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Tramvie
urbane.. ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 » Funivie, funicolari, ascensori e íilovie
2 » » » 2 » Navigazione interna 2 » » » 2 » 4 ~ 4
49 Sezione dei trasporti
automobilistici; Autoservizi di linea ♦ ♦♦♦*♦* 2
datori di lavoro e 2 lavoratori Servizi di noleggio
.♦♦♦♦*♦♦ i » » » i » Servizio taxistico ♦
♦♦♦♦♦♦♦ i » » » i » Servizio camionistico
♦. i » » » i » Sezione degli ausiliari dei
traffico: Spedizionieri ♦ 2 datori di lavoro e
2 lavoratori Attività portuali ♦ ♦♦.♦♦♦♦♦ i
» » » i » Trasporti ippici ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦ Attività
complementari dei traffico i » » » i )>
su rotaia e su strada *♦♦♦*♦ 2 » » » 2 »
Sezione delle comunicazioni telefoniche, radiotelefoniche e
cablo- grafiche: Comunicazioni telefoniche,
radiote- lavoratori lefoniche e cablografiche ♦ ♦ ♦
♦ 2 datori di lavoro e 2 20. - CORPORAZIONE DEL MARE E
DELL’ARIA Marina da passeggeri ♦ 4 datori di lavoro e
4 lavoratori Marina da carico ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦ 3
» » » 3 » Marina velica i » » » i
» Trasporti aerei 2 , » » » 2 »
Cooperative ♦ i rappresentante 2 i. -
CORPORAZIONE DELLO SPETTACOLO Imprese di gestione dei teatri e
dei cinematografi . ♦.. . 2 datori di lavoro e 2 lavoratori
Teatri gestiti da enti pubblici, im¬ prese liriche (artisti di
canto, artisti di prosa, concertisti, orchestrali, registi e
scenotecnici) e di operette, enti di concerti, capocomici, radio-
trasmissioni 5 * yy )} 5 » 50
Industrie affini (scenografia, case di costumi e di attr
ezzi teatrali, edi- zioni fotomeccaniche).i datore di lavoro e i
lavoratore Imprese di produzione cinemato¬ gráfica
*♦♦•♦♦*♦**** I )) )) » J) X » Case di noleggio, di films . .... i »
» » » j » Imprese di spettacoli sportivi * * * i » » » » x »
Editori ♦ .♦♦♦*♦♦♦**** 2 rappresentanti Musicisti ♦ * * * * *
*. 3 » Autori dei teatro drammatico e dei cinematógrafo ♦
♦♦.♦♦ ♦ ♦ ♦ 2 rappresentanti II Presidente delia Società Italiana
Autori ed Editori ♦ lí Presidente delPIstituto Nasionale L* U, C.
E. II Presidente delPO* N. D« 22. - CORPORAZIONE
Alberghi e pensioni ♦ * * * * * . „ Uffici ed agensie di
viaggi. Esercizi pubblici in genere (risto- ranti, caffè,
bar) ♦ * * * * * * * Attività artigiane connesse con 1 'ospi-
talità *♦♦♦*,****.,„ Stabilimenti idroclimatici e termali Case
private di cura ******* Mediei ♦♦♦♦♦*****,,, DELL/OSPITAUTÀ
2 datori di lavoro e 2 lavoratori 1 » » » i » 2 » » » 2
» I » » » I » I » » » I » I » » » X »
i rappresentante II
vigente ordinamento strutturale delle organizzazioni sinda- cali è il
frutto di una graduale evoluzione. Recentemente è stato
rivedutoispirandosiacriteri dimaggiore semplicità. Anche le de-
nominazioni sono State cambiate con una piü precisa indica- Zione degli
esercenti 1'attività che l’organizzazione rappresenta. La struttura
organizzativa delle associazioni di vario grado si presenta nel seguente
modo: Associazioni nazionali giuridicamente
riconosciute Confed. Federaz. Sindac.
| Totale i - Confederazione Fascista agricoltori
I 4 — 5 2 -
Confederazione Fascista industriali I 45
— 46 3 - Confederazione Fascista commer-
cianti • I 37 - s?
4 - Confederazione Fascista delle aziende dei credito e
deirassicurazione * * 4 I 13 —
14 4 99 — 103
i - Confederazione Fascista dei lavoratori deiragricoltura ♦
♦♦♦♦♦♦♦•♦ i 4 — 5 2
- Confederazione Fascista dei lavoratori deirindustria * * ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦
* ♦ i 20 9 30 3 -
Confederazione Fascista dei lavoratori dei commercio ♦♦♦♦♦♦•*♦♦
i 5 — 6 4 -
Confederazione Fascista dei lavoratori dei credito e deirassicurazione ♦
* * i 4 — 5
4 33 9 46 Confederazione
Fascista deiprofessionisti e artisti ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦* X
22 1028 1051 53
política finanziaria e monetaria U Italia, uscita stremata da una
guerra costosissima, entrò in una grave crisi economica e sociale, che ne
esauri ancor piü le sue capacità economiche e quindi ridusse enormemente
le entrate di bilancio, mentre le spese subivano un continuo
aumento* Ma in pochissimi anni il Governo fascista riedificava su
nuove salde basi la finança, eliminando ogni disavanzo* II piano
delia restaura^ione concepito e voluto fermamente dal Duce si basa sopra
queste colonne fondamentali che costi- tuiscono il saldo edifício delia
finança fascista: X o Pareggio dei bilancio; 2 o
Risanamento delia circolazione monetaria; 3 o Regola^ione dei
debiti di guerra; 4 o Sistema^ione dei debito interno;
5 o Sistemasione delFasienda ferroviária; 6 o Abolidone dei
corso formoso e ritorno alhoro* L'esercizio finan^iario 1921-22,
ultimo delFantico regime, segnava un disavanso di circa 16 miliardi di
lire; il successivo 10 riduceva a soli 3 miliardi e Feserci^io
finansiario seguente, 11 primo interamente gestito dal Fascismo
(1923-24), vedeva scendere il disavamjo a solo 418 milioni di lire* Praticamente
era il pareggio* Con Fanno finan^iario 1924-25 comincia la
magnifica serie degli anni con bilanci attivi che termina soltanto
nel 3:930-31 a causa delia contrazione delle entrate, dovuta alia
crisi e alia nuova situa^ione che si Veniva creando nella econo¬ mia
mondiale* A dare, in breve sintesi, un quadro abbastansja completo
dei bilancio dei nostro Paese dopo il 1913-14, possono giovare i
dati raccolti nella tabella sottoriportata: 53
ENTRATE E SPESE EFFETTIVE RISULTANTI DAI
RENDICONTI CONSUNTIVI (in milioni di lire correnti)
Esercizio finanziario Entrate effettive Spcse
effettive Avanzi 0 disavanzi I913-I4
2.524 2.688 _ 164
1914-15 2.560 5-395 —
2.835 1915-16 3-734 10.625
— 6.891 I916-I7 5-345
17-595 — 12.250 1917-18
7-533 25-299 — 17.766
1918-19 9.676 32.452 —
22.776 I919-3O 15-207 23.093
— 7.886 1930-21 I8.83O
36.229 — 17.409 1921-22
19.701 35.461 — 15.760
1922-23 i 8.803 21.832 —
3.029 1923-24 20.582 21.000
— 418 1924-25 2O.44O
20.023 + 417 1925-26
21.043 20.575 + 468
1926-27 2I.45O 21.014 +
436 1927-28 20.072 19-575
+ 497 1928-29 30.201
19.646 + 555 1929-30
19.838 19.668 4- 170
193O-3I 20.387 20.891 —
503 1931-32 19.324 23.191
— 3.867 1932 33 i8.2I7
21.766 — 3-549 Ciò che colpisce è il
fatto che appena il Regime fascista ha preso le redini dello Stato le cose
sono mutate profonda- mente. 54
L/ordine neiramministraçione, la giustizia degli accerta- menti,
il rígido controllo delle spese, la lotta sistemática contro il triste
costume dell'evasione tributaria, hanno compiuto il prodígio. II primo
atino di avanço si ha nel 1924-25, di 417 milioni. Soltanto
successivamente, quando la crisi mondiale sconVolse definitivamente
1'organismo economico di tutti i paesi civili, apparve il disavanço, che
il Governo fascista ha afffontato con severe misure di economia.
Ma per meglio comprendere la struttura finançiaria dei nostro
bilancio, e per dare una nozione intorno all'ammontare delle principali
voei di entrata, è bene riportare per 1'undicennio 1922-33, i dati relativi
alie imposte dirette, alie imposte sullo scambio delia riccheçça e sui
consumi, ai monopoli di Stato e al lotto: tali dati consentono di
cogliere le varia- çioni subite da queste singole Voei di entrata, nel
periodo delia ricostruçione e delia depressione economica mondiale.
LE IMPOSTE (in milioni di lire) Anni
Imposte dirette Imposte sullo scambio
delia ricchezza Imposte indiretfe sui consumi
Monopoli di Stato Lotto
1922-23 4.604 2.289 3.965
2.II2 372 1923-24 5.616
2.8o8 3.976 2.312 402
1924-25 5-569 3-239 4.485
2.276 429 X 925-26 5-956
3.718 5.340 2.351 475 1926-27
6.186 3-792 5.263 2.581
481 1927-28 5-595 3.152
5.082 2.740 527 1928-29 1
5.308 3.321 5.781 í 2.797
525 1929-30 5.192 3.I68
5-321 2.939 554 1930-31
5.004 3.674 5-593 3.088
526 193I-32 4.897 3.726
5.074 3.023 515 1932-33
4.644 i 3.582 4.644
2.989 483 \ 55
Sempre neH'ordine delia política financiaria il Regime ha
proweduto ad unificare gli istituti di emissione. In omaggio al
fondamentale principio delia unità storica e política dei Paese,
contrario ad ogni residuo regionale, il Governo concentrò la facoltà di
emissione nella sola Banca d'Italia, togliendola al Banco di Napoli e al
Banco di Sicilia, che insieme alia prima ancora godevano di questo
particolare privilegio. A questa disposicione legislativa
segui 1 'altra che attribuiva alia Banca d’Italia le funcioni di
vigilanca su tutte le aciende bancarie che raccolgono depositi, In tal
modo anche l’esercicio dei credito veniva direttamente sorvegliato.
È poi noto che le banche di deposito si sono dedicate anche al
financiamento di imprese industriali, compromettendo la loro liquidità e
legando strettamente le loro vicende economiche a quelle delle aciende
financiarie. La crisi economica e il cataclisma financiario dei
1931, con la caduta delia sterlina, aVevano aggravata la delicata
situacione di quegli Istituti. II Governo fascista diede loro
Tantica liquidità acquistando in blocco il portafoglio titoli: cioè tutte
le acioni delle aciende dagli stessi financiate. Queste
banche, che si diedero a volte anche ad una ingiusti- ficabile speculacione,
furono salvate dallo Stato, il quale prov- vide ad istituire due grandi
istituti financiari, prowisti di adeguati mecci e specialiccati nelle
operacioni a medio e a lungo termine: 1 'Istituto Mobiliare Italiano
(I.M. I.) e 1 'Isti- tuto per la Ricostrucione Industriale (I. R.
L). Questi due enti di diritto pubblico hanno facoltà di
emettere obbligacioni, ammesse di diritto alie quotacioni di borsa. In
matéria fiscale i due istituti godono di trattamento di favore.
56 La portata di questi prowedimenti, emanati alio
scopo di stimolare e sorreggere Tattività economica, può però
essere valutata nella sua vera ampiecca soltanto quando essa venga
considerata in armonia a tutte le altre prowidence che il Governo
fascista ha adottato nel campo delia política crediticia, in relacione
specialmente al poderoso programma di financia¬ mento e di credito per le
opere di pubblica utilità e per quelle specifiche di miglioramento
fondiario e agrario* Un settore nel quale Tacione dello Stato si esplica
in pieno è quello monetário* Ovunque la moneta è emessa
direttamente dallo Stato oppure da istituti bancari ai quali lo Stato ha
concesso tale facoltà* Quindi lo Stato in sostanca è arbitro quasi
assoluto nel campo monetário; da esso dipende Femissione, che deve
esser contenuta entro i limiti implicitamente stabiliti dalle
necessità economiche e financiarie di ciascun paese*
Strettamente congiunta con la política monetaria è, per owie
ragioni, quella dei credito* Basta pensare al fatto che lo Stato in
maniera diretta o indiretta determina le variacioni dei saggio dello
sconto, per comprendere quale enorme importanca abbia il suo
intervento sia nello stimolare gli affári, sia nel frenarli*
Estremamente delicata è Tacione dello Stato in questa diffi- cile
matéria; essa non influisce soltanto sulla attività produt- tiva, ma può
provocare sperequacioni nel campo distributivo e quindi favorire alcune
categorie sociali col sacrifício di altre* II Governo fascista anche in
questo settore delFeconomia, come nel piü complesso quadro delia vita
economica nacio- nale, ha armoniccato e coordinato i particolari
interessi con una política ispirata ai generali interessi dei Paese* Per
questo la sua política monetaria ha mirato a resistere in ogni istante
57 alie pressioni delia
speculazione per proteggere, difendere, tutelare il grande esercito dei
risparmiatori, che costituisce il presidio sicuro delia potensa economica
delia Nasione* La recente storia monetaria dei Fascismo sta a
documentare la tenacia dei propositi e delle direttive seguite*
Quando il Fascismo conquisto il potere la situasione mone¬ taria
dei nostro Paese era assai difficile* La nostra lira negli anni delia
guerra e deirimmediato dopoguerra aveva súbito una forte svalutasione come
dimostra il corso delPoro espresso in lire correnti: Valore
delia lira carta in lire (oro) attuali = gr. 0,07919113 di oro fino
Rapporto tra lira prebellica e lira attuale 3,6661135
Anni Corso delToro Anni Corso
delToro 1909-1914 100, 9 1925
484,2 1915 120, 5 1926
496,3 1916 127,4 1927
380,3 1917 148, 2 1928
366, 9 1918 143,9 1929
368, 4 1919 192,3 1930
368,3 1930 400,0 1931
370, i 1921 454,5 1932
378,7 1922 408,2 1933
371,2 1923 416,7 1934
378, i 1924 434,8 Negli anni
1921 e 1922 la lira italiana era in balia delia spe- culazione, che la
faceva oscillare nella maniera piü disordinata; Tinstabilità dei cambio
si manifestava anche sul potere di acquisto delia moneta; i prezai delle
merci subivano continue variazioni e il costo delia vita ne risentiva le
conseguense* 58 Dopo rawento dei
Governo fascista le forti oscillasioni monetarie dei período precedente
erano quasi scomparse anche per effetto delia immediata distensione
psicológica e delia mano possente che reggeva il timone dello Stato, come
dimo- strano i dati seguenti: Andamento dei corso dei
dollaro: 4° trimestre 1932 = 22 I o » 1923 = 20,6
2° » 1923 = 20,9 3 o » 1923 = 23 4 o » 1923 =
22,8 I o » 1924 = 23,2 2 o » 1924 = 22,7 3
o » 1924 = 22,9 4 o » 1924 = 23,1 II Governo aveva
iniziato, súbito dopo il 1922, un'energica política di risanamento
finansàario: pareggio dei bilancio e rifor- ma tributaria che eliminava
il caleidoscopio dei dopoguerra per riportare le fonti principali delia
finança ai tributi fondamentali* Ciononostante nel primo semestre
dei 1925 la speculazione internazionale prese di mira la lira italiana e
iniziò durante Testate quella grande offensiva — a sfondo antifascista —
che durò fino alia estate delPanno successivo: fu nelPestate dei 1926 che
la quo- ta^ione dei dollaro sali a 31,60 e quella delia sterlina a
153,68. II Duce, compresa la grande importanza política ed
econó¬ mica che pote va avere Tulteriore svaluta^ione, pronuncio a
Pesaro il 18 agosto delPanno IV un memorabile discorso nel quale affermò
in maniera solenne e decisiva la strenua volontà dei Governo fascista di
difendere la lira: fu il discorso dei Duce che stroncò in maniera
definitiva la speculazione al ribasso che era stata organissata dal
capitalismo interna^ionale. 59
L/effetto psicologico fu immenso* Quello político ed econo- mico fu
ancora maggiore: alia fine dello stesso anno, deiranno 1936, il dollaro
scese a 22 lire e la sterlina a 108: un anno dopo il discorso di Pesaro
il dollaro era quotato poco piú di 18 lire e la sterlina 88*
II Governo fascista aveva vinto* Anche in questo campo, nel quale
le forse interna^ionali si erano scatenate nella maniera piú insidiosa, P
acione decisiva e ferma dei Duce aveva avuto il soprawento*
II Capo aveva detto: « Non infliggerò mai a questo popolo
meraviglioso d'Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre
come un santo, Ponta morale e la catástrofe economica dei fallimento
delia lira* II Regime fascista resisterà con tutte le sue for^e ai
tentativi di jugulazione delle forse finan^iarie awerse, deciso a
stroncarle quando siano individuate alPin- terno* II Regime fascista è disposto
dal suo Capo alPultimo suo gregário, ad imporsi tutti i sacrifici
necessari; ma la nostra lira che rappresenta il simbolo delia Na^ione, il
segno delia nostra ricche^a, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri
sfor^i, dei nostri sacrifici, dei nostro sangue, va difesa e sarà difesa
»* E cosi come aveva promesso fu* Nel secondo semestre
delPanno 1927 la situazione monetaria risulta completamente cambiata e il
Governo fascista si prepara a compiere la profonda riforma monetaria,
effettuata alia fine dei 1927, con la stabiliz^a^ione delia lira al
valore di cambio che essa aveva raggiunto dopo la strenua lotta
combattuta* La lira venne cosi stabilh;2;ata alia cosidetta « quota
novanta »♦ Fedele al suo programma il Governo affrontò i rischi e i
sacrifici che imponeVa la stabiliz^a^ione a quota 90, pur di recare
vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato e alia grande
massa dei lavoratori che almeno in un primo tempo si sarebbe certamente
aWantaggiata dal minor costo 60 delia
vita. Rifiutò la stabilizzazione a quota 120; questa si presen- tava piü
facile e comoda, sia per il tesoro, sia per radattamento al nuovo metro
monetário deireconomia dei Paese, ma avrebbe colpito duramente i
risparmiatori e i laVoratori: cioè la Nazione. La stabilizzazione
fu quindi decisa sulla base di 19 lire per dollaro che equivalevano a
circa 90 per la sterlina, con una rivalutazione, rispetto alia media dei
1924, che raggiungeva quasi il 20 % dei valore. E fu mantenuta con tenacia
impensata ed impensabile. Tanto è vero che cadde la sterlina —
awenimento di portata economica enorme — trascinando in breve volgere
di tempo la moneta di tutti i Paesi finanziariamente vassalli
dellTn- ghilterra; cadde il dollaro: non cadde la lira italiana
nonostante i furiosi attacchi delia speculazione d’oltre Alpe e d'oltre
oceano. È Veramente unico nella storia monetaria dei Paesi
civili questo fatto: mentre in tutto il mondo aweniva il tracollo
monetário, lTtalia fascista, in grazia delia sua economia solida e
armonica e delia sua meravigliosa unità politica, sapeva resistere contro
ogni assalto. II 2 ottobre 1931, súbito dopo la caduta delia
sterlina, il Gran Consiglio dei Fascismo fece una solenne dichiarazione
nella quale, mentre prendeva atto delia continuità delia poli¬ tica
monetaria dei Governo e delle direttive date per mantenerla immutata
anche nella eccezionale situazione internazionale, riaffermava che la
stabilità delia valuta era necessária e conforme ai reali interessi
economici delia Nazione. II Gran Consiglio ricordava che la
stabilità delia valuta, basata sulhequilibrio delia bilancia dei
pagamenti e garantita dalla awenuta deflazione delia circolazione, dalle
precosti- tuite riserve e dalhadeguamento dei prezzi delle merci e
dei servizi al livello delia nostra moneta, evitava nuovi dannosi
perturbamenti nei rapporti di distribuzione che avrebbero gravato sul
popolo italiano laVoratore e risparmiatore. 61
Al nuovo valore monetário furono adeguati salari e
prezzi, attraverso un f a^ione oculata, decisa e precisa che ha
costituito — in periodo di cosi awersa congiuntura economica — il
superbo vaglio delia for^a unitaria dei Regime e delia salde^a ed
efficacia delle organi^a^ioni sindacali e corporative* In questo
campo Topera svolta dal Partito fascista è stata meravigliosa,
ineguagliabile: il popolo italiano si è comportato in maniera magnifica,
sacrificando — secondo le norme dei vivere fascista — particolari interessi
di categoria per raggiun- gere i piú alti fini na^ionalh La política
economica dei Regime è riuscita a contemperare vantaggi e danni con un
cosi alto senso di giusti^ia, che soltanto un periodo di alta
tensione ideale con una massa permeata dalla cosciensa corporativa
poteva consentire di raggiungere* POLÍTICA commerciale
Gli economisti liberali hanno esaltato la funcione dei commer- cio
interna^ionale come una delle maggiori conquiste civilh Nessuno può
disconoscere che le grandi correnti di traffico hanno distribuito su
tutta la superfície dei globo i prodotti dei Paesi piú diversi
contribuendo ad elevare il tenore di vita dei popoli e portando a quelli
quasi primitivi il frutto delia civiltà, Ma nelPesaltasione non è mancata
la solita costru^ione astratta e dogmatica che il tempo va
inesorabilmente dissol¬ vendo con le dure lezioni delia realtà.
Per dare una precisa idea delhimportan^a dei commercio
internasionale e delia funcione che- esso esercita nelFeconomia dei
nostro Paese è opportuno esaminare il complessivo valore delle
importa^ioni e delle esportasioni, formanti la cosidetta bilancia dei
commercio interna^ionale (bilancia commerciale) ♦ A nn
i Valore (in migliaia di lire) Importazione
Esportazione Differenza 1913
3.645.639 2.511.639 I.I34.OOO
1914 2.923-348 2.210.404
712.944 1926 25.878.857
18.664.520 7 . 214-337 1927
20.374.800 15.633.986 4.740.814
1928 22 . 313 .II 3 14.998.982
7.314.I3I 1929 2i.664.760 15 .
235.977 6.428.783 1930 17.346.624
12.119.l8l 5 . 227.443 I93I
n.643.059 IO.209.503 1.433.556
1932 8.267.562 6.811.913
1.455.649 1933 7.431.792
5.99O.553 1.441.239 I dati sopra ricordati
dimostrano che il volume delle impor- ta^ioni e delle esportasioni si è
anda to notevolmente contraendo dopo il 1926* La differen^a
tra il valore delle merci importate e quello delle merci esportate supera
i 7 miliardi di lire, tanto nelhanno 1926 quanto nel 1928* Dopo il 1930 e
precisamente nel triennio 1931-33 esso si stabili^sa intorno a un
miliardo e 400 milioni di lire» La passività delia bilancia
commerciale non avrebbe una grande importan^a qualora la cosidetta
bilancia dei pagamenti, chiamata anche bilancia dei dare e delPavere
internazionale, potesse ancora contare sulle cospicue rimesse degli
emigranti, sulForo dei forestieri e sui noli marittimi» Purtroppo
però, date le continue restri^ioni che si sono avute nei rapporti
internazionali, e dato che quelle partite non hanno carattere di stabilità,
il debito commerciale va attentamente osservato, poichè altrimenti per
colmarlo, in difetto di quelle partite compensative alie quali
accennavamo (rimesse degli emigranti, noli, ecc»), non esiste che il
trasferimento di oro» Per dare un quadro preciso dei nostro
commercio con Pestero, riportiamo una serie di dati riguardanti
Timporta^ione e 1'espor- tazione per le principali categorie di beni
oggetto di scambio internazionale» 63
STATISTICA DEL COMMERCIO Dl
IMPORTAZIONE ED ESPORTAZIONE Esporiazione Valore
(Lire) Catcgoric 1930 | 1931
1932 1933 | 1934 Milioni |
Milioni | Milioni Milioni |
Milioni Animali vivi - carni, brodi, mi- nestre e uova
- latte e pro- dotti dei caseificio - prodotti delia pesca *
662 766 402 394 253
Coloniali e loro succedanei, zuc- cheri e prodotti zuccherati
* 78 65 57 41
32 Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati
alimentari 505 376 376
408 281 Ortaggi e frutta ♦ 1563
1313 IO91 IOO7 879
Bevande ♦ *♦♦♦♦♦•♦♦♦* 234 225
127 138 156 Sali e tabacchi.
70 70 50 52 50
Semi e frutti oleosi e loro residui - olii e grassi animali e
vege- tali e cere - olii mineral i, di resina e di catrame, gomme
e resine - saponi e candele * . ♦ 536 385
252 178 12© Canapa, lino, juta e
altri vegetali íilamentosi, compreso il co- tone - lana, crino e
peli - seta e fibre artificiali - vesti¬ menta, biancheria e altri
og- getti cuciti 4805 3559 2282
1984 1760 Minerali metallici, ceneri e sco-
rie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe - altri me- talli
comuni e loro leghe - lavori diversi di metalli co¬ muni ♦ ..
241 679 152 190 210
64
ÈÊmÊMÈÊÈÈmm Valore (Lire) Categorie
1930 | 1931 | 1932 1933 1 1934 Milioni J Milioni
| Milioni Milioni | Milioni Macchine e apparecchi -
uten- sili e strumenti per arti e me- stieri e per 1'agricoltura
- strumenti scientifici e orologi - strumenti musicali * * *
* Armi e munizioni ♦ *♦..♦ Veicoli * * ♦ ♦ ..
Pietre, terre e minerali non me- tallici - laterizi e materiale
ce- mentizio - prodotti delle indu¬ strie ceramiche- vetri e
cristalli Amianto, grafite e mica * ♦ ♦ ♦ Legni e sughero ~ carta,
cartoni e prodotti delle arti grafiche ♦ Paglia ed altre materie da
intrec- cio - materie da intaglio e da intarsio ♦ ... *
♦ Pelli e pellicce ♦ ♦*♦♦♦♦♦ Prodotti chimici inorganici,
orga- nici e concimi - generi medici- nali e prodotti farmaceutici
- generi per tinta e per concia - gomma elas* e guttaperca
Pietre preziose, argento, platino e lavori di metalli preziosi -
oro e monete d'oro e d'argento Oggetti di moda, calzature ed
effetti d'uso personale non compresi in altre categorie - mercerie,
balocchi e spazsole Materie vegetali non comprese in altre
categorie.* * Materie animali non comprese in altre
categorie. Prodotti diversi ******* 362 328 210
44 12 29 567 280 281 386 313 251 14
5 5 185 135 124 45 33 29 305 166 157
444 323 277 222 79 125 365 256 190
100 64 58 765 80 40 31 5-4
65
Importazione Valore (Lire)
Categorie 1930 1931 1932
1933 1934 Milioni Milioni
Milioni Milioni Milioni Animali vivi
- carni, brodi, mi- nestre e uova - latte e prodotti dei caseificio
- prodotti delia pesca* ******♦♦♦. 1364
1026 656 466 486
Coloniali e loro succedanei, zuc- j cheri e prodotti zuccherati * *
' 433 316 249 230
202 Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati
alimentari ****** 2093 X264 848
3II 324 Ortaggi e frutta ********
58 69 57 46 55
Bevande * * * *. . ♦ 27 24 12
16 13 Sali e tabacchi ********
IOI 49 75 44 43
Semi e frutti oleosi e loro residui - olíi e grassi animali e
vege- tali e cere - olii minerali, di resina e di catrame, gomme
e resine - saponi e candele * ♦ 1736 1466
925 785 764 Canapa, lino, juta e
altri yege- tali filamentosi, compreso il co~ tone - lana, crino e
peli - seta e fibre artificiali, vestimenta, biancheria e altri
oggetti cu- citi *.♦..♦ . 3337 1971
1672 1771 1667 Minerali metallici,
ceneri e sco- rie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe -
altri me- talii comuni e loro leghe - lavori diversi di metalli
co- muni * . .* ♦ 1498 897 586
627 678 Macchine e apparecchi - utensili e
strumenti per arti e mestieri e per ragricoltura - strumenti
scientifici e orologi - stru¬ menti musicali ******* 1236
802 1 557 532 556
66 Valore (Lire)
Categorie 1930 1931 | 1932
| 1933 | 1934 Milioni |
Milioni J Milioni | Milioni j Milioni
Armi e munisioni.* * 16 17 13
3 6 Veicoli , * * * *.- 190
82 84 84 86 Pietre, terre
e minerali non me- tallici - laterisi e materiale ce- mentizio -
prodotti delle indu¬ strie ceramiche - vetri e cristalli
1713 1336 891 911
1085 Amianto, grafite e mica * * . * 33
28 l8 15 22 Legni e sughero
- carta, cartoni e prodotti delle arti grafiche . 1134
789 541 519 543 Pagíia ed
altre materie da intrec- cio - materie da intaglio e da intarsio
********,, 69 45 26 25
29 Pelli e pellicce.* * * 646
436 297 326 319 Prodotti
chimici inorganici, orga- nici e concimi - generi medici- nali e
prodotti farmaceutici - generi per tinta e per concia - gomma
elast* e guttaperca 791 491 362
379 415 Pietre preziose, argento, platino e
lavori di metalli preziosi - oro e monete d'oro e d # argento
568 608 225 1479
215 Oggetti di moda, calzature ed ef- fetti d'uso
personale non com- presi in altre categorie - mer- cerie, balocchi
e spazsole* . ♦ 127 9 i 84
73 61 Materie vegetali non comprese in
altre categorie ****** 145 107 121
81 98 Materie animali non comprese in altre
categorie ******* 21 14 12 9
n Prodotti diversi ******** 97 1
1 63 1 37 44
57 È opportuno esaminare con
attenzione le voei piü impor- tanti deir importazione e delFesportazione
di merci* Un primo rilievo di fondamentale importanza riguarda
il frumento* Mentre nel decennio prebellico 1
importazione era di 13 mi- lioni di quintali circa, dal 1919 al 1927 ha
oscillato dai 21 ai 27 milioni di quintali* II prodigioso risultato delia
battaglia dei grano si è manifestato in pieno nel 1934, quando
l'impor- tazione netta di grano raggiunge un milione e mezzo circa
di quintali* Pressochè costante si è mantenuta invece la
importazione dei granturco, la quale nelPultimo sessennio, se si fa
astra- 2;ione dal 1 1933, ha oscillato da 6 a 8 milioni di quintali
annui* Le importazioni di carbon fossile, di ferro e di legno,
hanno segnato specialmente nel periodo 1925-30 un grande^ incre¬
mento, nei confronti dei periodo prebellico* NelTultimo biennio sono
diminuite notevolmente* II migliorato tenore di vita delia
popolazione italiana e il conseguente aumento dei consumo delle carni, ha
determinato un incremento nella importazione dei bestiame vivo e
delia carne, rispetto al periodo prebellico* h* importazione
di cotone è ferma sulle posizioni prebelliche* II grande sviluppo che ha
avuto 1* industria automobilistica e Timpiego sempre crescente dei motore
a scoppio nell industria e nei trasporti è stata la causa dei
decuplicarsi deli importa¬ zione di benzina* Anche la
importazione di lana ha segnato fortissimi aumenti* Cosi pure quella dei
semi oleosi* Questi sono i caratteri fondamentali che presenta il
com- mercio di importazione nel nostro Paese* La nostra
esportazione si può caratterizzare distinguendo i prodotti secondo la
forma di attività che li produce* Forti 68
contrazioni segnano le nostre esportazioni di latticini e di canapa* Alte
si mantengono le nostre esportazioni ortofrut- ticole*
L'esportazione dei tessuti di cotone si può considerare
stazionaria* Forte incremento segna invece Tesportazione di tessuti e
filati di lana e dei manufatti di seta e di rayon* II Fascismo, per
sottrarre il Paese dalla dipendenza estera, specie per certi consumi
fondamentali, per tener viva ed effi- ciente la corrente esportatrice e
anche per conquistare nuovi mercati onde poter trovare sbocchi adeguati
alia crescente produzione agricola e industriale, ha svolto una
complessa attività economica e politica, ha durato uno sforzo tenace
nono- stante i mille ostacoli non sempre giustificati che si
ponevano sul suo cammino* E ciò è veramente meraviglioso
quando si pensi che tali posizioni sono State mantenute, malgrado
Fimperversare di una crisi che ha sconvolto la economia di tutti i Paesi
civiln Per avere una nozione precisa intorno alia natura ed alia
direzione delle nostre correnti commerciali con Festero biso- gna esaminare
la provenienza delle nostre importazioni e la destinazione delle
esportazioni, Sopratutto — nella crescente anemia dei traffici, causata
dalle misure di autarchia economica che hanno instaurato tutti i Paesi,
dai contingenti ai divieti ed alie limitazioni valutarie — è necessário
guardare ai singoli saldi delia bilancia commerciale, per agire
adeguatamente nel sistema delle compensazioni o degli scambi bilanciati,
che il Governo fascista ha effettuato, La nostra bilancia
commerciale è notevolmente passiva con la Jugoslávia e la Romania nel
Bacino Danubiano, con la Ger- mania nelF Europa Centrale, con gli Stati
Uniti nelle Americhe, con Tlndia Britannica in Asia* Ma anche la Rússia,
il Brasile, il Canadá, la Tunisia, il Belgio, il Lussemburgo e F
África 69 ■
Meridionale britannica hanno una bilancia commerciale per noi
sfavorevole* Le nostre esportazioni hanno superato le importazioni
nel commercio con l'Egitto, con la Grécia, la Turchia, la Polonia e
la Cecoslovacchia; a noi molto favorevole è stata la bilancia commerciale
con la Svizzera, con la Francia e nel 1933 con 1 'Argentina*
L' Italia importa bovini dalla Jugoslávia, dairUngheria e dalla
Romania; carni fresche e congelate dali'África Meridio¬ nale britannica,
dali'Argentina, dal Brasile e dalFUruguay* Pollame specialmente dalla
Jugoslávia, uova dalla Jugoslávia, Polonia e Turchia* II
frumento viene specialmente dagli Stati Uniti, dall'Au- stralia, dalla
Rússia, dall'Argentina e dal Canadá; il granturco dalla Romania e dalPArgentina*
II cotone è acquistato specialmente dagli Stati Uniti e in secondo
luogo dali'índia Britannica e dall'Egitto* II ferro proviene dalla
Francia e dalFUnione Belga-Lussemburghese; il carbone dalla Gran Bretagna
e dalla Germania, dalla Polonia e dalla Rússia; la benzina dalla Rússia,
dalla Pérsia, dalla Romania e dagli Stati Uniti* La lana
dall'Australia, dall'Argentina e dalPAfrica Meri¬ dionale
Britannica* II legno dalla Jugoslávia, dall'Australia, dalla Rússia
e dagli Stati Uniti* L'osserVazione dei fatti dimostra che
con V Impero britannico nel suo complesso abbiamo una bilancia nettamente
sfavo- revole* D'altro lato la politica doganale iniziata dal detto
impero — dopo la conferenza di Ottava — tende a contenere 1 'importazione
straniera ad un limite minimo* Cosi pure awiene per molti altri Paesi con
i quali abbiamo relazioni commerciali* Cosi dicasi per gli Stati Uniti
che hanno chiuso 70 le porte alia nostra
emigrazione ed hanno innalzato barriere doganali elevatissime.
La stessa osservazione delia realtà pone spontaneamente le seguenti
domande: è proprio indispensabile acquistare le merci di cui noi abbiamo
bisogno dai Paesi che si chiudono ermeticamente airesportazione dei
nostri prodotti? Per miglio- rare la nostra bilancia commerciale non è
possibile agire sopra queste correnti dei traffico onde renderle a noi
piú favorevoli? Anche in questo campo, e specialmente in questo
campo, il tramonto dei liberismo economico si è già manifestato
sotto forme e aspetti inequivocabili. Le lezioni che ci ha dato la
storia economica di questi ultimi anni, sono al riguardo sug- gestive e
definitive. La fine dei liberismo economico interno è seguita
inesorabilmente da quello estero. Pochi Paesi, forse nessun Paese,
può rinchiudersi in un piú o meno beato isolamento e svolgere tutte le
sue attività nello âmbito dei propri confini. L' Italia poi che non è
stata certa¬ mente favorita dalla natura come lo sono stati altri
Paesi, può forse meno di quelli chiudersi in un’autarchia
economica. Necessita quindi esportare prodotti agricoli e industriali
propri per potere prowedere specialmente le materie indispensabili
di cui il nostro suolo manca. Da ciò la política delle
compensazioni, la quale si armonizza perfettamente coi postulati dello
Stato corporativo. Uno Stato nel quale la produzione è disciplinata e
controllata, nel quale 1 ’iniziativa privata non è libera di svolgersi
come vuole e dove vuole, deve anche regolare le correnti dei traffico, discipli¬
nando anche il commercio internazionale. II Capo, infatti, ha piú
volte affermato che la politica eco¬ nomica estera non può ancora
svolgersi sulla falsariga di sistemi piú o meno liberistici, eredttati da
un mondo superato. Un'economia corporativa in fatto di scambi
internazionali non 7i può rimanere
schiava delia clausola delia Nazione piú favorita, ultimo feticcio
liberale, riaffermata in teoria in ogni consesso economico
internazionale, per essere súbito dopo negata in pratica, attraverso una
serie di limitazioni che la svuotano di ogni contenuto reale o Tannullano
addirittura. Questa figlia legittima dei liberismo non tutti i
Paesi Thanno applicata nella sua forma piú liberale (illimitata,
incondizio- nata, reciproca). Ha avuto i colpi maggiori non tanto
dalPinnal- zarsi delle barriere doganali, quanto dai divieti di
importa- zione e dai contingentamenti. Le intese preferenziali,
come quella di Ottava, le limitazioni al commercio delle divise,
gli accordi di compensazione, le hanno recato durissimi colpi* I Paesi
che Vennero meno per primi al libero scambio sono stati proprio quelli
che ne avevano meno la ragione, perche favoriti dalla natura, ricchi di
materie prime e di capitali: quelli stessi che Pavevano allevato e
Pavevano teorizzato, anche perchè si adattava egregiamente ai loro
particolari interessi* D'altra parte, a proposito delia concezione
liberistica nella organiz^azione degli scambi internazionali, deve essere
ben tenuto presente che lo sviluppo industriale va profondamente
mutando le tradizionali correnti di traffico* La distinzione tra
Paesi agricoli e industriali va perdendo gran parte dei motivi
sostanziali che la giustificano* Ogni Paese tende a rendersi piú
indipendente anche per ragioni di sicu- rezza* La scoperta scientifica ed
il progresso técnico spostano continuamente i termini dei complesso
problema: materie prime ritenute un tempo insostituibili, oggi si
sostituiscono; monopoli naturali per certi prodotti, cadono di fronte ad
impensate produzioni sintetiche* La scienza, col suo inces¬ sante
progresso, ha contribuito a rendere economicamente possibili processi
produttivi in Paesi in cui pochi anni or sono era follia sperarlh
72 Si assiste veramente ad una profonda rivoluzione
técnica, economica e sociale. Dato il tradizionale
attaccamento alia clausola delia Nazione piú favorita, il sistema degli
scambi bilanciati o scambi con- trattati o scambi compensati, come si
dice oggi, non ha trovato in principio favore. È stato osservato che
questo sistema non si poteva attuare, perchè il commercio con 1'estero
non può chiudersi con un pareggio aritmético, in quanto nei
traffici internazionali non si possono sopprimere le compensazioni
indirette; è stato ripetuto che esso avrebbe complicato 1 organiz-
zazione dei traffici e resa necessária una mastodontica burocrazia; che
in certi casi sarebbe stato inapplicabile. Tali critiche erano
specialmente il frutto di una profonda incomprensione degli scopi e delle
finalità cui mirava il sistema degli scambi bilanciati; nessuno aveva mai
pensato che questo potesse essere un sistema eterno; nè che mirasse al
pareggio aritmético: si trattava soltanto di un accorgimento di
politica economica di carattere contingente, che però poteva recare
notevoli benefici al nostro Paese, data la situazione economica specifica
in cui si trova. È evidente che il sistema delle compensazioni non
supera il problema dei prezzi: questo rimane, cosi come il Duce
10 ha posto e nei limiti dei negoziati fra Paesi che abbiano
11 reciproco bisogno di esportare. Si può quindi concludere
che, specialmente nelbattuale momento economico, la cui durata è di
difficile previsione, acquistano grande importanza le compensazioni degli
scambi, le quali, basandosi sulla nostra posizione di acquirenti di
materie prime, consentano il maggior possibile collocamento ai nostri
prodotti. 73 IL COMMERCIO
Nel passato esistevano soltanto dei commercianti: oggi esiste il
commercio italiano, perchè il Regime, attraverso la organi£2;a2;ione, ha
dato una personalità unitaria ed organica anche a questa forma
insostituibile di attività economica* II Duce ha detto che la
funcione dei commercio è quella di portare rapidamente e rasionalmente le
merci al consumatore: questo è il suo compito essensiale* II
commercio al minuto costituisce gran parte delia vita dei centri urbani*
II commercio alhingrosso, che comprende anche il commercio di
esportasione, dà lavoro a migliaia di per- sone e costituisce una delle
espressioni piú alte delia vita civile* È stato osservato che nel
commercio la técnica diventa vita* In tal senso il commercio è lotta:
lotta che comincia nella piccola bottega familiare e si estende al grande
magassino, che si esplica nella borsa, nella banca e può dare le armi
per formidabili conquiste* Se Tagricoltura e T industria si
risolvono nella produzione di nuovi beni economici e cioè nella
trasfor- mazione delia matéria, il commercio opera trasformazioni
che awengono nello spazio, perchè le merci sono recate dai centri
di produ^ione ai centri di consumo* L/Italia fascista che non
ignora nessun settore deirattività economica, che fa tesoro delle grandi
tradizioni patrie, che ha il culto dei titoli di nobiltà conquistati dal
nostro popolo nelle guerre e nelle ar ti, neir industria e nel commercio,
che non dimentica la gloria di Venezia e quella di Gênova, come di
Pisa e di Amalíi, non poteva non dedicare anche a questa forma di
attività tutte le cure, contemperandole con le prowi- denze portate alie
altre branche di attività economica dei regime* L/Italia ha bisogno di
espandersi, e quindi deve conqui- stare anche attraverso i pacifici
commerci le grandi vie dei 74 #?/ ^7\sA
continenti e degli oceani; cosi i commercianti possono espliça^ o 1
una magnifica opera di penetracione che porti con le mèrçc^' /
scambiate il nome e la potenca d'Italia nei piú lontani Paesap^ oÇ Vy Le
force commerciali d' Italia si sono già addimostrate alPal- ^ tec£a dei
compito, anche perchè il Governo fascista ha saputo liberare il commercio
da quei preconcetti ostili che tanto lo hanno demoraliczato e awilito*
Risanare, dare nuova vita alie correnti mercantili, ridare nuova
consideracione alia fun¬ cione dei commerciante che non è egoistica ed
esosa ma è, come quella degli altri produttori, elemento
indispensabile delia organiczacione economica* Di solito
quando si discorre di commercio alhingrosso ci si riferisce alie correnti
internacionali* Lo dimostra il fatto che le statistiche ufficiali di
quasi tutti i Paesi comprendono sotto il titolo ricordato le cifre
relative alhesportacione e alhim- portacione* Quei dati dimenticano
completamente le importan- tissime correnti che si muovono alh interno
dei singoli Paesi per alimentarne i mercati* II Duce,
parlando ai commercianti il 26 ottobre delhanno X, a Milano, affermò che
la funcione dei commercio è insosti- tuibile, rappresentando essa un
fattore storico* Questa affer- macione vale tanto per il commercio
alhingrosso come per quello al minuto* II grossista è infatti un efficace
collaboratore e un precioso consigliere dei produttore* Esso è in grado
di valutare la capacità di consumo dei singoli mercati rispetto
alie diverse merci; esso meglio di ogni altro può stabilire le attrecsature
che occorrono per distribuire le merci al piccolo consumo* In questo
senso la sana attività economica svolta dal grande commerciante è quanto
mai benefica, sia perchè esso possiede una competenca specifica ed
integrale dei mer- cato di quella data merce in un dato luogo, sia perchè
esso 75 adempie alia insopprimibile
funcione di intermediário ed è quindi elemento fondamentale delbeconomia
nacionale. Nei riguardi delFeconomia corporativa il commercio
alio ingrosso può facilitare il raggiungimento rápido ed economico
di particolari forme di disciplina delia producione. II funcio¬ namento
dei magaccini ai fini delia conservacione dei prodotti, specie di quelli
di facile deperibilità, l'organiccacione dei proce- dimenti tecnici per
il rápido riassorbimento delle giacence invendute o invendibili e per il
racionale rinnovamento delle partite di scorta, possono essere affrontati
con successo dai commercianti all' ingrosso organiccati
corporativamente. In tal modo il grande commercio adempie
perfettamente ad un'alta funcione corporativa. Ma il sistema
attraverso il quale si effettua la distribucione delle merci comprende
centinaia di migliaia di piccole aciende. È per opera dei bottegai che i
prodotti deiragricoltura e delia industria giungono sino alie piu remote
valli montane, ai piü discosti casolari. L' importanca e T
influenca che il commercio al minuto può esercitare sulla vita sociale
giustifica la vigilanca a cui esso è sog- getto, i controlli che su di
esso si esercitano e la disciplina che ad esso si impone; appunto per
questa sua funcione di vivificare ogni piu remota contrada, di consentire
che ogni prodotto sia accessibile in ogni luogo al piú modesto
consumatore, il com¬ mercio al minuto appare meritevole di particolare
consideracione. Le aciende di commercio al minuto ammontano a
circa 550.000 con 1.500.000 persone addette, delle quali il 60 % è
formato da proprietari, dirigenti e dai loro famigliari, e il 40 % da
veri e propri dipendenti. La maggioranca quindi è formata da
imprese a carattere famigliare, neiresercicio delle quali le donne
partecipano in proporcioni noteVolissime. 76
Una nozione piú precisa intorno alia natura degli esercúi commerciali
e alia loro importanza si può avere dalla tabella sotto riportata:
ESERCIZI COMMERCIALI SECONDO IL NUMERO DEGLI ADDETTI
(cifre per ioo esercizi di ogni categoria) Cat ego fie
i addetto Da 3 a 5 addetti Da 6
a 10 addetti Okre ii addetti
Commercio in grosso: 1 Animali vivi
♦'. 6l, 4 33,5 3 , 1 2, 0
Generi alimentari ♦ . * . 49,2 42,0
5,4 3,4 Filati, tessuti, ecc. 18, 6
47 , 0 18,3 16, i Commercio al minuto
: Metalli, macchine, ecc* * * 43,8
47 , i 5,6 3,5 Generi alimentari . *
* * 60,5 38,8 o,6 0, i
Filati, tessuti, ecc. 59.4 38,2
1,8 0, 6 Mobili, vetreríe, ecc* * * *
52.9 42,0 3,6 1, 6
Oggetti d f arte. 57.5 39,4 2,2
o, 9 Prodotti chimici . 58,8
38,3 1,9 1,0 Misto * . . *.
64, i 33,6 i ,3 1, 0 Nel
nostro Paese il numero dei negozi al minuto non sembra proporzionato ai
bisogni delia distribuzione dei prodottn II rapporto fra la popolazione
servita e il numero dei negozi è leggermente inferiore a quello che si
riscontra in altri Paesi* Mentre in Italia il numero dei negozi è di uno
ogni 75 abitanti, nella Svizzera 11 rapporto sale ad 80, nell*
Inghilterra risulta di 77, negli Stati Uniti d'America di 79, nella
Germania di 78* Attraverso questa rete di distribuzione al
consumatore, nella quale troVano la loro fonte di attività e quindi i
loro mezzi di vita quasi 4 milioni di abitanti, passa il consumo
nazionale e grandissima parte dei denaro necessário alia
produzione* 77 Se è incontestabile
la utilíssima funcione esercitata da questi piccoli commercianti è da
ritenere che il loro numero sia supe- nore a quello che tecnicamente
sarebbe necessário ed economi¬ camente utile per la distribuzione dei
prodotti* In molti medi e piccoli centri urbani si sono andati
moltiplicando in maniera eccessiva questi piccoli esercizi; Timprenditore
pretende di trarre i mtzzi di vita per Tintera famiglia con un
modestíssimo capitale e servendo uno sparuto numero di clienti* Questo
orien- tamento che si è accentuato in maniera particolare nel
periodo postbellico e durante V inflasione, favorito anche
dall'esodo rurale che allora awenne in maniera intensa, è stato
stigmatis- Zito dal Governo fascista \ il quale intende ridurre al necessário
il costo di ogni servisio e sopprimere gli organismi superflui* Con lo
scopo di ridurre il costo delia distribusione dei beni dalla produ^ione
al consumo e di adattare il piú sollecitamente possibile i prezzi al
dettaglio al livello di quelli alhingrosso — evi¬ tando le conseguenze
delia cosidetta vischiosità, cara agli adora- tori dei «laisse* faire,
laisse* passer » — Tordinamento cor¬ porativo dello Stato fascista ha
agito e agisce incessantemente* Come pure compito importantíssimo
dell'a£ione corpora¬ tiva in fatto di moralizsa^ione dei commercio e di
tutela dei consumatore è la difesa dalle adulterazioni e dalle
frodi* L'economialiberale può anche attendere che il consumatore o
il tempo facciano da loro giusti^ia dei prodotti non genuini:
1'eco- nomia corporativa no* Non solo, ma nella lotta economica fra
pro¬ dotti genuini e surrogati, fra produ^ioni genuine e
sofistica^ioni, fedele al suo principio deve ispirare Ta^ione all*
interesse pre- valente col quale coincide quello delia collettività
nasjionale* Nel discorso pronunciato dal Duce in Campidoglio,
il 33 marso XIV, alhAssemblea delle Corpora^ioni, sono stati
tracciati gli sviluppi delFeconomia fascista* I
«L/assedio economico — Egli ha detto — ha sollevato una serie
numerosa di problemi, che tutti si riassumono in questa proposi^ione: r
autonomia política, cioè la possibilità di una política estera
indipendente, non si può piü concepire sen^a una correlativa capacità di
autonomia economica* Ecco la lecione che nessuno di noi dimenticherà!
« Coloro i quali pensano che finito Fassedio si ritornerà alia
situasione dei 17 novembre, shngannano* II 18 novembre 1935 è ormai una
data che segna V inicio di una nuova fase delia storia italiana* II 18
novembre reca in sè qualche cosa di defi¬ nitivo, vorrei dire di
irreparabile* La nuova fase delia storia italiana sarà dominata da questo
postulato: realÍ2£are nel piú breve termine possibile il massimo
possibile di autonomia nella vita economica delia Na^ione »♦
E passando alFanalisi il Capo ha dato il panorama futuro
delFeconomia italiana, che poggerà sopra questi caposaldi* Nessuna
innova^ione sostansiale nelFeconomia agrícola, che rimane a base privata,
disciplinata e aiutata dallo Stato e armoni%2:ata, attraverso le
Corpora^ioni, colle altre attività economiche nacionali* Nei
riguardi dei commercio estero ha ribadito la sua fisio¬ nomia di funcione
diretta o indiretta dello Stato con carattere duraturo e non contingente;
mentre il commercio interno rimane affidato alFiniziativa individuale o
di associa^ioni, come pure la media e la piccola industria*
II credito è già porta to, con recenti prowedimenti, sotto il
controllo dello Stato* E cosi pure, sen^a precipita^ioni ma con decisione
fascista, lo sarà la grande industria, la quale assu- merà un carattere
speciale, nelForbita dello Stato, con gestione diretta, o indiretta,
ovvero con un efficiente controllo* 79
ÍIL
VAGRICOLTura italianà E LA POLÍTICA RURALE DEL REGIME
6-4
CARATTERI DELL'AGRICOLTURA ITALIANA L ITALIA ha una superfície
territoriale di 310.107 kmq., costituita per 4 / 3 da montagna e collina
e sol tanto per 1 j s da pianura, Su questa limitata superfície,
in data 21 aprile 1931-XI, viveva una popolazione di oltre 41 milioni di
abitanti, con una densità media di 133 persone per ktnq.; oggi siamo
oltre 43 milioni (140 per kmq,). La popolazione dedita
all'agricoltura si aggira sui 20 mi¬ lioni di individui raccolti in 4
milioni di famiglie rurali circa, aventi una media di 5 componenti.
È noto che le condizioni di fertilità dei suolo italiano non sono
le piú felici. Si è ricordato come esso sia prevalentemente montuoso e
collinoso: la pianura si estende soltanto a 6.446.238 ettari. Ma parte di
questa pianura è formata da terreni che si trovano in difficili
condizioni per la produzione agrícola, data la péssima distribuzione
delle piogge che li rende eccessiva- mente aridi per potervi esercitare
una ricca agricoltura: ricor- diamo in particolare il Tavoliere di Puglia
e i Campidani di Cagliari e di Oristano in Sardegna.
Spessissimo poi la pianura era malarica per il disordine idraulico
conseguente al regime torrentizio dei fiumi e al disboscamento montano.
Nonostante queste infelici condizioni naturali il popolo ita¬ liano
è stato costretto ad adibire alie coltivazioni quasi tutta la superfície,
per la forte densità delia popolazione su un terri¬ tório naturalmente
povero, a limitato e localizzato sviluppo industriale, in assenza di
colonie redditizie. Tanto che solo 1’8 % delia superfície territoriale è
improduttiva: il resto è a coltura e la massima percentuale di
utilizzazione si ha nei terreni di collina. 83
Anche laddove ammiriamo un'agricoltura
particolarmente intensiva, come nella pianura padana, questa è il
risultato di ingenti opere di miglioramento compiute attraverso i
secoli, che con 1’acqua o contro Tacqua, mediante 1’irrigazione, il
prosciugamento o la colmata, hanno formato una nuova natura.
Altrettanto dicasi delia meravigliosa sistemazione colunai e
deiritalia centrale, meridionale e insulare, che costituisce una
costruzione dei lavoro dei contadino italiano, che spesso ha portato a
spalle la terra che doveva accogliere nel suo grembo e alimentare la
pianta. Ma per meglio comprendere la natura e la portata dei
pro- blemi di politica agraria affrontati dal Governo fascista è
opportuno approfondire ulteriormente le condizioni di am¬ biente nelle
quali essa si esplica. RIPARTIZIONE AGRARIA DEL TERRITÓRIO
Ripartizioni geografiche Seminativi
Coliure I e g no s e specializzate
Terreni saldi I) Superfície
improduttiva Superfície territoriale
Italia settentrionale 4-577 421
6.310 1.563 12.871 Italia centrale *
. 2.834 229 2-443 325
5.831 Italia meridionale ♦ 3.260
1.068 2.619 382 7.329
Italia insulare ♦ * 2.164 514
2.080 222 4.980 Regno* • .
12.835 2.232 13.452 2.492
31.OII x) Prati e pascoli permanenti, boschi e castagneti,
incolti produttivi. 84 La
superfície agraria forestale misura 28*519*000 ettari dei quali oltre 15
milioni sono costituiti dai terreni agrari propriamente detti* Di questi,
12*835*000 sono rappresentati da seminativi semplici e arborati e
2*232*000 da culture legnose specializzate* I prati e i
pascoli permanenti figurano soltanto con circa 6 milioni di ettari* I
boschi compresi i castagneti, si estendono per 5*561*000 ettari* Gli
incolti produttivi, frequenti special- mente nella dorsale appenninica,
raggiungono 1*700*000 ettari* Nel complesso quindi i seminativi
dominano le altre qualità di coltura con il 45 % delia superfície agraria
e forestale* Ad essi seguono i prati e i pascoli permanenti con il
21/7 %, i boschi con il 7,8 %♦ In questo ambiente si allevano
7 milioni di bovini, 10 milioni di ovini, 3*300*000 suini, 1*900*000
caprini* I cavalli raggiun¬ gono quasi il milione, gli asini, i muli e i
bardotti raggiungono circa 1*400*000* Si allevano anche circa 15*000
bufali* II popolo italiano è un popolo in mareia* Un secolo
fa entro gli stessi confini dei Regno vivevano circa 21 milioni di
abitanti; oggi abbiamo superato i 43* Nelhultimo de- cennio la
popolarione ha avuto un incremento di circa tre milioni e me^o* Lo Stato
fascista, consapevole dei problemi che una cosi alta densità delia
popolarione viene a determi- nare, si è decisamente orientato verso una
política rurale* E ciò perchè la popolarione rurale possiede nel piú alto
grado la virtü dei risparmio e la tenacia nei propositi, la probità
di vita e il senso delia continuità, Tamore per la terra e per il lavoro:
qualità che invece si attenuano sempre piú nelle popo- larioni delle
grandi città, dove si cerca di vivere la vita « co- moda », dove si
disfrenano gli egoismi piú acerbi, dove il senso delia solidarietà umana
sostanriale e non solo apparente, ha súbito i colpi piú duri*
85 w-
Bisogna ruralizzare 1 'Italia anche se occorrono railiardi e mezzo
secolo, ha affermato il Capo. Poichè la ruralità non solo assicura lo
sviluppo demográfico, che costituisce una delle maggiori espressioni
delia potenza di un popolo (i rurali sono i piú prolifici), ma assicura
anche la sanità fisica e morale delia razza, custodisce i grandi ideali
delia vita, si compendia nella famiglia, sente tutta la bellezza dei
lavoro creativo, stimola la virtú dei risparmio. Perchè la mèta
agognata da ogni lavoratore è quella di raggiungere il possesso
terriero, trasformandosi da bracciante in colono, da colono in
piccolo affittuario o in piccolo proprietário/per attaccarsi alia sua
terra che ama e che ha desiderata come aspirazione massima.
Perciò il Regime nella sua política di ruralizzazione tende a
fissare il contadino alia terra, combattendo il bracciantato anonimo e
quasi nômade e stimolando la diffusione delle forme di colonia e di
compartecipazione, nonchè incitando, come vedremo, 1'estendersi delia
piccola proprietà. «L/anima delia nostra razza, che ha storicamente
vissuto il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ha
tratto mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ben
sa come sull'agricoltura sia costruito 1'intero edifício delia pro-
sperità sociale ». Cosi il Duce si esprimeva in un discorso
pronunciato alia 7 a assemblea dell’Istituto internazionale di
agricoltura il 2 maggio 1924. II Capo awertiva che altre attività
produttive possono essere piú impressionanti nella grandiosità
localiz- zata delle loro manifestazioni, piú facili apportatrici di
gua- dagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poichè,
infine, tutto potrebbe immaginarsi ritolto albumanità delle sue superbe
espressioni di forza e di conquista, ma non mai, finchè la razza umana
esista, non mai 1’arte di trarre dalla terra madre quanto è necessário a
sostenere la vita. 86 È pensando
alie virtü rurali dei popolo italiano che il Duce, al primo congresso di
agricoltura coloniale di Tripoli, affer- mava che in Italia sta sorgendo
una nuova generaçione, la generaçione modellata dal Fascismo: poche
parole e molti fatti* La tenacia, la perseverança, il método, tutte le
virtü alie quali Pitaliano sembrava negato dovranno diventare
domani, e sono già in parte, virtü fondamentali dei carattere
italiano* Per questi motivi fondamentali il Fascismo ha dedicato
le sue piú solerti cure alio sviluppo delPagricoltura* II
Capo in moltissime occasioni ebbe ad esprimere in maniera inequivocabile
la sua fede negli sviluppi delPagri- coltura italiana, base delia economia,
baluardo contro Tur- banesimo* Paralleíamente alia politica
agrícola, il Fascismo ha svilup- pato la politica forestale e montana, di
quelle montagne « che salvaguardano la nostra piú grande pianura e
costituiscono la spina dorsale delia Penisola: la politica dei Regime è
diretta a sostenere la popolaçione delia montagna ai fini pacifici e
a quelli militari »♦ « Tra il mare e le montagne, si stendono
valli e piani: la terra nostra, bellissima, ma angusta, trenta milioni di
ettari per 42 milioni di uomini* Un imperativo assoluto si pone:
bisogna dare la massima fecondità ad ogni çolla di terreno* II Fascismo
rivendica in pieno il suo carattere contadino* Di qui la politica rurale
dei Regime nei suoi diversi aspetti: il credito agrario, la bonifica
integrale, la elevaçione politica e morale delle genti dei campi e dei
villaggi* Solo con il Fascismo i contadini sono entrati di pieno diritto
nella storia delia Patria* Volgete gli occhi sulPAgro Romano e avrete la
testimoniança delia profonda trasformaçione agraria in via di esecuçione
»♦ 87 Con questo inimitabile
stile il Duce definiva, airAssemblea Quinquennale dei Regime, il io marzo
deiranno VII, i motivi fondamentali che spiegano perchè il Regime attui
una polí¬ tica rurale* La nuova política agraria inizia in
pieno la sua attività neiranno 1925. II Duce, negli anni
precedenti diede la sua prodigiosa atti¬ vità a un lavoro di ordinamento,
di revisione e di sistema- zione, perchè Egli, anzichè precipitarsi sulla
macchina statale per frantumarla come ha fatto la rivolmâone russa, ha
voluto « armoniszare il vecchio col nuovo; cio che di sacro e di
forte sta nel passato, cio che di sacro e di forte ci reca, nel suo
inesauribile grembo, 1'awenire »♦ In tutta Tazione política dei
Regime, ma in particolare in quella rurale, giganteggia il nome di
Arnaldo Mussolini, grande anima e grande mente, strappata alia Nazione da
una tragédia che solo possono comprendere appieno coloro — come ha
scritto il Duce — che sono « continuati »♦ La ricostru^ione
forestale d'Italia fu un suo preciso fine; fondò e presiedette il
Comitato forestale italiano, organo pro- pulsore delia rinascita
silvana* Due grandi cimenti contraddistinguono la parte
centrale delia política rurale dei Regime: la battaglia dei
grano, la bonifica integrale* Entrambe pensate, volute,
guidate dal Duce* Çominciamo dalla prima* 88
LA BATTAGLIA DEL GRANO latino,
non è soltanto Capo e con II Duce, puríssimo genio dottiero,
ma anche Poeta: Amate il pane cuore delia casa profumo
delia mensa gioia dei focolari Rispettate il pane
sudore delia fronte orgoglio dei lavoro poema di sacrifício
Onorate il pane gloria dei campi fragranza delia terra
festa delia vita Non sciupate il pane ricchezza delia
Patria il piú soave dono di Dio il piú santo prêmio alia
fatica umana. Rileggendo queste parole di saggez^a e di amore,
nelle quali si trasfonde con un religioso senso delia vita il rispetto
per le cose eterne donateci da Dio, non si può non provare una
profonda commozione, Esse esprimono Panima con la quale fu
dichiarata la bat- taglia dei grano; non si tratta di raggiungere
finalità soltanto economiche, ma di appagare un bisogno pátrio che
supera il fatto economico per divenire integrale fatto político,
II Capo a Palato Chigi, il 4 luglio delPanno III, inse- diando il
Comitato permanente dei grano, affermava che Pannuncio delia battaglia
dei grano aveva avuto una ripercus- sione profonda in tutto il Paese,
Segno certo che rispondeva ad una necessità universalmente sentita, Egli
ricordava le conseguenze finanziarie dello scarso raccolto delPanno
1924, le quali ammonivano severamente a fare tutto il possibile per
conquistare Pindipendenza per il fondamentale alimento dei popolo
italiano* 89 II Capo stesso
fissava le direttive delfasione: I o non è strettamente necessário
aumentare la super¬ fície coltivata a grano in Italia* Non bisogna
togliere il terreno alie altre colture che possono essere piú redditizie
e che co- munque sono necessarie al complesso deireconomia
nazionale* È da evitare quindi ogni aumento delia superfície coltivata
a grano* A parere unanime la cifra di ettari raggiunta con le
semine dei 1924 può bastare; 2 o è necessário invece aumentare il
rendimento annuo di grano per ettaro* L/aumento medio anche modesto
dà risultati globali notevolissimi* Posti questi capisaldi,
il Comitato permanente doveva affrontare: a) il problema
selettivo dei semi; b) il problema dei concimi e in genere dei
perfezionamenti tecnici; c) il problema dei prezai*
Per reali2£are tutte le possibilita di miglioramento delle nostre
colture granarie bisognava arrivare alie grandi masse rurali, veramente
silen^iose e operanti, al grosso cioè delfeser- cito disseminato nelle
campagne italiane* II popolo italiano era perfettamente convinto
delia san- tità di questa battaglia e delia possibilità di vincerla;
Egli sentiva che si lottava per la vera libertà cioè per la libe-
razione delia Nasione dalla maggiore servitü economica straniera*
Ventisei giorni dopo il Duce parlando ai capi delle orga-
niç2;a2;ioni agricole, pronunciava parole fatidiche che oggi sono
scolpite nel cuore di ogni agricoltore d'Italia: « Battaglia dei grano
significa liberare il popolo italiano dalla schiavitü dei pane straniero*
La battaglia delia palude significa libe¬ rare la salute di milioni
d^taliani dalle insidie letali delia malaria e delia
miséria* II Governo fascista ha ridato al popolo italiano le essenziali
libertà che erano compromesse o perdute: quella di lavorare, quella di
possedere, quella di circolare, quella di onorare pubblicamente Dio,
quella di esaltare la vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di
aver la coscien^a di se stessi e dei proprio destino, quella di
sentirsi un popolo forte non già un semplice satellite delia
cupidigia e delia demagogia altrui* «Voi, agricoltori
d'Italia, che sapete per la dura espe- riensa dei vostro lavoro come le
leggí delbuniverso siano inflessibili, voi siete i piú indicati ad
intendere questo mio discorso* « Recate a tutti i piú lontani
casolari, a tutti i vostri camerati disseminati per i campi delia nostra
terra adorabile, il mio saluto e dite loro che, se la mia tenace volontà
sarà sorretta dalla loro collaborazione, Tagricoltura italiana verrà
incontro ad un'epoca di grande splendore »♦ E cosi, infatti,
è stato* La battaglia dei grano è stata Tindice piú eloquente
delbin- dirÍ2;2;o delia politica agraria dei Regime* Con la
battaglia dei grano si è voluto poten^iare tutta 1 'agri- coltura
italiana, sospingerla a reali^are il massimo delia produ- zione
ottenibile in tutti i settori* Sia nel campo viticolo come in quello
ortofrutticolo, nelbolivicoltura come nel campo delle colture
industriali, sono State prese una serie di prowidenze intese ad ottenere
il miglioramento delle coltivazioni ed il collocamento dei
prodotti* Attraverso Topera vigile e continua delblstituto
Na2;ionale per TEsportazione nuovi sbocchi sono stati aperti al
commercio estero delia frutta, degli agrumi, degli ortaggi; sono
stati attentamente studiati i centri esteri di consumo; è stato
disci- plinato Tafflusso dei prodotti ortofrutticoli; sono State
imposte 9x agli esportatori norme
rigide per garantire la qualità dei pro- dotti venduti. Nè
Topera di difesa deiragricoltura poteva estraniarsi dalla tutela dei
rurale di fronte airinsidia delia speculazione. Uorgãnizzazione
degli ammassi granari, intesi a sottrarre Tagricoltore alia vendita
formata dei frumento nel periodo dei raccolto, ha disciplinato il
mercato, costituito una riserva, evitato che ai contadini, come frutto
deíla loro fatica, fosse riservato il piú basso prezzo raggiunto súbito
dopo la trebbia- tura. II favore sempre crescente che tale istitusione ha
incon- trato presso gli agricoltori sta a dimostrare la sua
efficacia e la radicata fiducia che essi hanno in questa come in tutte
le altre prowidensje dei Regime. Se nel vasto quadro delia
politica economica fascista la battaglia dei grano costituisce un
episodio, esso è però tal¬ mente grandioso e suggestivo, acquista tanta
importanza spiri- tuale ed economica, da prestarsi magnificamente per
dare unhdea dei clima nel quale il popolo italiano ha lavorato in
questi ultimi anni* Nel quadriennio 1931-1924, prima cioè che il
Duce chia- masse gli agricoltori a raccolta per ini^iare la battaglia,
la produzione granaria oscillava intorno ai 50 milioni di quintali
con un rendimento per ettaro di qL 10,9, cioè poco superiore alia media
di qh 10,5 segnata nel quinquennio prebellico 1909-13. II
raccolto na^ionale era assolutamente inadeguato al con¬ sumo. Questo era
fortemente aumentato per la migliorata alimentasàone dei popolo italiano,
il quale aveva sostituito il frumento al granturco, alie castagne ed agli
altri alimenti che, specie nelle zone di montagna, erano usati
largamente. Si doveva quindi ricorrere in misura crescente ai grani
stra- nieri: Timportazione media che nel decennio 1905-1914 era
92 di 13 milioni, era salita alia cifra
di 26 milioni di quintali nel quadriennio 1921 -1924*
Considera2;ioni meramente economiche si univano a quelle di
carattere spirituale* E i risultati non si fecero attendere*
Mentre la media produzione dei quadriennio bellico fu di qL 9,99
per ettaro, eguale a quella dei quadriennio prebellico, la media
produ^ione dei primo quinquennio delia battaglia dei grano fu di qL 12,5
cioè di 2 quintali superiore a quella bellica e di 2,5 superiore a quella
dei primo quadriennio postbellico* Sono oltre 10 inilioni di
quintali di aumento assicurati alia produ^ione frumentaria nasionale, pur
con anni, come il 1927 e il 1930, le cui condizioni climatiche furono
assai sfavorevolL La media produzione dei secondo quinquennio
delia bat¬ taglia fu di qL 14,65 per ettàro* II progresso si
è verificato in ogni parte dei Paese: nelLItalia settentrionale come in
quella meridionale e insulare; nelle zone di collina come in quelle di
pianura* Se dalle cifre medie passiamo a considerare le punte
piú elevate, colpiscono le produ^ioni altissime che si sono rag-
giunte, non in ristrette particelle di pochi metri quadrati, ma su ettari
di terreno in pieno campo; produzioni che una volta sembrava follia
sperare, e che sono State ottenute per virtú di una técnica moderna che
solo la battaglia dei grano poteva stimolare* Le punte di qL
40 che un tempo sembravano insupera- bili sono salite a qL 74 nel 1932, a
82 per ettaro nel 1933* I metodi tecnici di coltivazione si diffondono:
la schiera dei concorrenti alia vittoria dei grano è passata da poche
centi- naia a migliaia* 93
Le produ^ioni medie hanno segnato un continuo aumento come
dimostrano i dati seguenti in quintali per ettaro di super¬ fície
coltivata a grano: Anno Quintali
Anno Quintali 1915 9,2
1926 12, 2 I916 IO, 2
1927 10, 7 1917 8,9
1928 12, 5 1918 II, 4
1929 14, 8 1919 10,8
I93O 11,9 I92O 8, 4 1931
13,8 1921 11, 0 1932
15,3 1922 9 , 5 1933 16,
0 1923 13 , i 1934 12, 8
1924 IO, I 1935 15,3 1925
13,9 Le medie di ql* 15,3 nel 1932, di ql* 16,0 nel
1933 e di 15,3 nel 1935, sono di un'eloquen£a suggestiva* Si
hanno fondatissimi motivi per ritenere che Tattuale media nazionale di
14-15 quintali per ettaro possa essere supe- rata nel prossimo awenire,
anche se i capricci dei clima potranno provocare qualche regresso
occasionale* Oggi Tltalia è in grado di poter produrre tutto il
pane che occorre per i suoi figli: nel 1933 il raccolto è stato di 8r
milioni di quintali, nel 1934, annata particolarmente awersa per
fat- tori climatici eccedonali, la produzione è riuscita a mante-
nersi al livello di 63 milioni di quintali con una media di 12,8 ad
ettaro* II raccolto dei 1935, di 77 milioni di quintali, dimostra che la
produ^ione si è ormai stabili^ata intorno a cifre le quali possono
oscillare solo nel campo di varia^ione segnato dalle influente insopprimibili
delle vicende stágionalú 94
r A n n o Produzione totale in milíoni di
quintali 1931 ****************** 66, 52
1932 .* ♦. 75,37 1933 * * * . .* .
81, IO 1934 . ***** 63, 43 1935
.*. 77 , 14 La battaglia dei grano, prima che un insieme
di prowe- dimenti economici e tecnici per Tincremento delia
produzione granaria, è stata un grido di fede e un segno di
volontà* Quando il Duce con il suo intuito infallibile, la
proclamò, compi anche in questa contingenza un grande atto rivoluzio-
nario, técnico ed economico* Técnico, perchè reagi contro un #
opinione diffusissima, che cioè lTtalia non avrebbe mai potuto produrre
tutto il grano occorrente alia sua popolazione* Economico, perchè
reagi contro la passiva rassegnazione di una nostra immodificabile
insufficienza granaria e distrusse quel mito liberista per cui si
riteneva preferibile che lTtalia tendesse alia produzione di frutta ed
ortaggi da scambiare col frumento, anzichè si per¬ desse dietro
allTllusione deli'indipendenza granaria* 11 successo si deve
anzitutto a quella grande forza che si chiama volontà umana, che ha
armato la técnica e che il Duce ha trasfuso nello spirito di tutti gli
italiani e nelFazione alacre dei popolo rurale* 95
LA BONIFICA
INTEGRALE II Capo, il 28 ottobre delhanno VI, inviando un
messaggio alie Camicie Nere di tutta Italia, ricordava: «in quest'ora
di esultanza e di propositi, tre fondamentali avvemmenti: la
riforma monetaria, la legge sul Gran Consiglio, la bonifica integrale.
Sono tre date fondamentali nella storia dei Regime che rendono
particolarmente significativo 1 ’anno VI. « La riforma monetaria ha
coronato la strenua difesa delia lira, la quale presidiata dalForo non
teme manovre o sorprese. La legge dei Gran Consiglio stabilisce la
stabilità e la durata dello Stato fascista. La bonifica integrale darà
terra e pane ai milioni di italiani che verranno ». .
II Capo ha voluto che Tagricoltura andasse al primo piano deireconomia
italiana perchè i popoli che abbandonano a terra sono condannati alia
decadenza; ed è mutile, Egli am- moniva, quando la terra è stata
abbandonata, dire che bisogna ritornarvi. La terra è una madre che
respinge inesorabilmente i figli che 1'hanno abbandonata.
Bonifica integrale significa graduale trasformazione de a terra a
forme di vita agricola piü intense e civili; significa processo di
adattamento delia terra, che si attua attraverso 1'immobilizzazione di
grandi capitali e con 1'esecuzione 1 grandi lavori. ’ In un
primo tempo per bonifica si intese semplicemente il prosciugamento di
paludi, per difendere le popolaziom dalla malaria. L’esiguità dei
risultati ottenuti con la semphce eliminazione delle acque
sovrabbondanti, non seguita od mte- grata dalla trasformazione
delhordinamento delia produzione agricola, convinse gli organi
responsabih circa l’insufficienza delia sola sistemazione idraulica delle
terre. S impose qum 1 1’integrazione delle opere idrauliche con altre
opere volte a 96 dotare di viabilità, di
fabbricati e di piantagioni legnose, le Zone redente, affinchè la
popola^ione che ivi già risiedeva o che vi sarebbe immigrata potesse
trovare adeguate condi^ioni di vita* Tale indirh&o fu anche dovuto al
fatto che Tespe- rien^a insegnava come la malaria fosse non soltanto
dovuta alia palude ma anche alia mancan^a di coltiva^ione* Fu messa
cosi in chiara eviden^a Fimportan^a enorme che ha la intensificadone
delle colture, per higiene dei territori prosciugati* Troppo
spesso prima dei Fascismo era accaduto che le costose opere di
prosciugamento e di canal꣣a2;ione compiute dallo Stato non fossero
seguite dal necessário completamento e dalla valori^^a^ione delle terre
da parte dei privati* L/ini~ Cativa di questi rimaneva torpida e si
estraniava quasi da quella statale mancando il necessário collegamento;
il quale, se deve essere provocato da una saggia legislasione, deve
essere pure frutto di una cosciente volontà capace di imporre,
occorrendo, la trasformasione agraria* Questa conce2;ione però non
potè affermarsi in maniera decisa e sicura se non dopo Favvento dei
Fascismo che pose il problema delia bonifica integrale tra quelli
fondamentali dello Stato, riconoscendone Timportan^a política e
sociale* II continuo incremento delia popola^ione che impone
il piü alto grado di intensità produttiva e le differen^e di
densità demográfica che si notano fra regione e regione, richiede-
vano una política rurale che potenziasse la produzione ed attenuasse i piu
stridenti squilibri demografici* II concetto di bonifica integrale
non si esaurisce quindi in un solo fatto técnico ed economico, ma ha
anche un valore demográfico altissimo; la bonifica va congiunta con una
polí¬ tica mirante a portare la vita nella terra redenta e a radicarvi
huomo rendendolo partecipe alia produsione* 7-4
97 Solo cosí si compie una grande
rivoluzione terriera e si attua una grande conquista sociale.
II Fascismo quindi non considera la bonifica una semplice opera di
prosciugamento di terre palustri, o anche un’opera atta a trasformare
terre mal coltivate o incolte, ma consi¬ dera la bonifica una iniziativa
assai piú complessa e lungi- mirante, intesa a creare nuove fonti di
lavoro e di ricchezza, nuovi aggregati civili, a restituire alia vita
rurale il suo fascino e la sua sanità, a porre un argine al dilegante
urbanesimo. Nel quadro delia bonifica integrale rientra, perciò, il
pro¬ blema importantíssimo delia casa rurale, che il Duce per primo
ha visto e súbito imposta to. II Capo in occasione delia
premiazione dei concorso nazio- nale dei grano, il 14 ottobre delbanno
VI, affermava che la bonifica integrale dei território nazionale è
un'iniziativa il cui compimento basterà da solo a rendere gloriosa, nei
secoli, la Rivoluzione delle Camicie Nere. Questa iniziativa
è 1 ’indice di un orientamento dei Regime fascista che il Duce ha
espresso in questa forma: il tempo delia política prevalentemente urbana
è passato: ora è il tempo di dedicare i miliardi alie campagne, se si
vogliono evitare quei fenomeni di crisi economica e di decadenza
demográfica che già angosciano paurosamente altri popoli. Per
raggiungere queste finalità il Governo fascista ha prov- veduto a
riordinare, perfezionare, completare, la legislazione sulla
bonifica. Sono stati distinti i terreni compresi nei comprensori
di bonifica propriamente detti, nei quali bisogna procedere ad una
radicale trasformazione delbordinamento delia produ- zione agraria, dai
terreni che richiedono soltanto migliora- menti fondiari, onde
perfezionare 1 'attuale ordinamento. Mentre per Tesecuzione dei
miglioramenti fondiari da compiersi sui 98
terreni che non sono compresi nei comprensori di bonifica,
lo Stato concede contributi per stimolare 1 'iniziativa; nei com¬
prensori di bonifica lo Stato esercita pienamente la sua attività
pubblica. È esso che fissa i caratteri fondamentali dei nuovo
ordina- mento produttivo da instaurare nei terreni bonificati: è esso
che sostiene interamente o in gran parte la spesa per Tesecuzione
di quelle opere di carattere pubblico, che sono indispensabili per creare
le condizioni ambientali adatte ad accogliere le nuove forme di
agricoltura che si vogliono introdurre. In questi terreni di
bonifica i proprietari sono tenuti, per espressa norma di legge, ad
eseguire tutte quelle opere di carattere privato atte a far si che la
bonifica compiuta si svolga nel senso che lo Stato ha stabilito. I
privati possono giovarsi dell’aiuto finanziario statale, sia richiedendo
contri¬ buti per 1'esecuzione delle opere o concorsi governativi
per il pagamento degli interessi sui mutui contratti per compierle.
La legge fondamentale delia bonifica è la legge Mussolini dei 1928.
L'applicazione di essa ha esteso i territori di bonifica ad oltre 4
milioni di ettari, cosi distribuiti per compartimento:
SUPERFÍCIE DEI COMPRENSORI DI BONIFICA Piemonte . ♦ ♦
. ha. 73.476 Lazio ♦ . . . . ha. 219.338 Liguria
. ♦ . ♦ » 60.300 Abruszo e Molise »
51.188 Lombardia ♦ ♦ . » 206.539
Campania ♦ . ♦ » 331.490 Tre
Venezie . ♦ » 808.053 Puglia ♦ . . . .
» 778.208 Emilia... . ♦ . . » 889.741
Lucania * ♦ ♦ . » 1 23 -573 Toscana ♦
♦ • ♦ » 457.660 Calabria .... »
329.417 Marche . . . ♦ » 217.431
Sicilia. » 129.653 Umbria ♦ ♦
. ♦ » I.IIO Sardegna .... »
166.815 Regno ha. 4.736.983 99
Anche V irriga^ione è entrata nel domínio delia
bonifica* Essa costituisce un formidabile tntzzo per aumentare la
capa- cità produttiva dei terreni che, specie nel nostro Paese,
soffrono per Peccessiva siccità* Le piü grandi reali^azioni
dei Regime nel campo delia bonifica sono segnate dalla redensione
delPAgro Pontino* Dove una volta regnava lo spettro delia perniciosa oggi
sorridono al sole laziale tre gemme: Littoria, Sabaudia e Pontinia*
Altre seguiranno ad attestare la mareia trionfale delPEra fascista in cui
«si rinnovano gli Istituti, si redime la terra, si fondano le città
»♦ A fianco delle prowiden^e per la battaglia dei grano e per
la bonifica integrale, numerosissime sono le altre prese per tutte le
svariate branche agricole in tredici anni di Regime* Particolari
provvedimenti negli anni di awersa congiun- tura e per stimolare Popera
miglioratrice, furono presi in matéria di credito agrario e per
sowensioni agli agricoltori dissestati* ioo
IV. INDUSTRIA E
ARTIGIANATO L'
INDUSTRIA L UTALIA sino al 1860 è stata un Paese quasi
esclusiva- f mente rurale* Anche nella Valle Padana, nella
prima metà dei secolo scorso, le industrie raramente presero largo
sviluppo e mai riuscirono a superare per importanza Tagricoltura che
assunse invece, specie nella zona irrigua, un carattere spiccatamente
industriale* Soltanto alia fine dei secolo scorso, specie nelFAlta
Lom- bardia, le industrie acquistarono notevole importanza; tale
sviluppo si intensifico nel primo decennio di questo secolo* L* industria
tessile si affermò per prima battendo progres¬ sivamente Tartigianato e i
numerosi telai domestici* Tra il 1880 e il 1890, sorsero i primi grandi
stabilimenti di filatura; quindi le prime installazioni di alti forni a
cok e di forni Martin per V industria siderúrgica, cui seguirono le
industrie meccaniche* NelPultimo decennio dei secolo scorso si
svilupparono anche numerose medie industrie che costituiscono la parte
piú solida delia industria italiana: fabbriche di vetri, di ceramiche,
con- cerie, fabbriche per la carta e per produzioni alimentari*
Nello stesso tempo hanno vita le prime industrie delia gomma, si
diffondono nuove fabbriche per la tessitura dei lino, delia seta e delia
canapa* AlPalba dei secolo XX comincia lo sviluppo delh
industria idroelettrica, che doveva raggiungere un alto grado di
potenza nel periodo fascista, e cominciano ad affermarsi cospicue
industrie chimiche* II decennio che precede la conflagrazione europea
vede sorgere i primi grandi zuccherifici e vede molti- plicarsi le
fabbriche di cemento per adeguarsi al crescente bisogno delhedilizia*
Nello stesso periodo la industria che si era localiz^ata nelle provinde
settentrionali, comincia ad estendersi anche nelh Italia centrale e
meridionale* 103 Nel trentennio
anteriore alia guerra, perciò, Y Italia si tra- sforma da Paese quasi
esclusivamente agricolo, in Paese nel quale, pur restando Tagricoltura la
base economica, esiste già un complesso di attività industriali che
soddisfano in gran parte ai bisogni interni e si accingono
alhesportazione* Durante il periodo bellico Tattività industriale
si è molti- plicata, per sostenere lo sforzo immane a cui era soggetto
il Paese; però Y industria crebbe in maniera disordinata, accen-
tuando i vizi di disarmonia che già esistevano* L' immediato
dopoguerra che va dal 1919 al 1922, caratte- ri^ato da un periodo di
crescente disintegradone delia com- pagine economica dei Paese, non
poteva certamente migliorare la situazione* Anche P industria italiana —
come ogni altra attività — ha largamente beneficiato dei nuovo clima
político, nonchè dei nuovi ordinamenti creati dal Fascismo* In questa
nuova atmosfera psicológica, política ed economica, Tindustria
italiana si lanciò con fede ed audacia verso nuove conquiste*
L/autorità dello Stato non solo dava le garan^ie indispensabili, ma
prowedeva a creare quel complesso di condi^ioni favorevoli per la ripresa
economica, che da tempo mancavano e che sono necessarie per aiutare,
coordinare e completare Fattività privata* Neir industria, importan^a
capitale ha avuto il nuovo ordine sindacale corporativo, con la creazione
di organi adatti a risol- Vere in sede di collabora^ione i contrasti
inevitabili tra capi¬ tale e lavoro* Numerosi sono i
prowedimenti presi dal Governo fascista per difendere ed aiutare lo
sviluppo industriale* I prowedimenti investono tanti settori
delPattività indu¬ striale italiana* Citiamo ad esempio le
prowiden^e per Y industria ^olfifera duramente colpita dalla concorrenza
americana; quelle per T industria marmifera, che ha pure larghi riflessi
sociali* 104 Con
particolare riguardo airagricoltura e alie necessità bel- liche, di
speciali prowidenze hanno goduto le industrie dei prodotti atotati,
fondate sulle superbe inventioni dei nostri tecnici, che hanno consentito
di produrre in Paese, utilit- £ando Patoto delParia, i nitrati necessari
airagricoltura e alie industrie di guerra, liberandoci dalla servitü
straniera* IP industria delia seta naturale un giorno
fiorentissima, nonostante la crescente concorrenza delia fibra
artificiale, è stata ripetutamente sorretta, direttamente e
indirettamente attraverso i premi alia bachicoltura* Di
speciali previdente dei Governo fascista ha anche goduto la giovane
industria cinematográfica* II tracollo dei prezei che continuo con
un crescendo pauroso e che mise moltissime industrie in condizioni di
estrema diffi- coltà, consigliò il Governo ad applicare una disciplina
siste¬ mática nella produzione, capace di ridurre la disordinata
con¬ correnza che recava anche pregiudizio al complesso delia
economia nazionale* Con disposizioni legislative dei dicembre 1931 il
Ministro delle Corporazioni fu autorizcato a costituire consorzi
obbligatori fra gli esercenti V industria siderúrgica* Successivamente
con legge dei giugno 1932, furono stabilite le norme generali per la
costituzione ed il funcionamento dei consorzi tra esercenti uno stesso
ramo di attività, e con la legge dei gennaio 1933 si diede al Governo il
potere eccezionale di sottoporre ad autoriz^azione i nuovi impianti
industriali e gli ampliamenti di impianti preesistenti* In
tal modo la nuova realtà corporativa cominciava ad esplicare in pieno la
sua delicata funcione anche nel campo deir industria* Cosicchè non
soltanto fu evitato il pericolo di lasciare costituire nelP interno dei
Paese formidabili monopoli di carattere supercapitalistico, ma venne
indiriz^ata la produ- tione industriale verso queirarmonica costituzione
a carattere 105 nazicnale che sollanto
lo Stato può veramente effettuare. II concetto privato di azierda
industriale, viene permeato da un concetto nuovo, il corporativo, nel
quale Pelemento pubblidsta, se non acquista prevalenza assoluta,
costituisce certamente la finalità. Larga applicazione ha
avuto la ancidetta legge dei 1933: il Ministero delle Corporacioni
esamina periodicamente le domande presentate e prowede o meno alia loro
approvazione compiendo un lavoro salutare per Tequilibrio delP
industria nadonale. Nel campo delia navigadone Topera dei
Governo, in armonia alio spirito legislativo or ora ricordato, è stata
intesa a promuo- vere e ad agevolare concentracioni e fusioni, evitando
cosi Taggravarsi di alcune situadoni di disagio che si erano venute
determinando con la crisi dei noli. Le società Citra e Florio sono
State fuse nella Tirrenia; La S* Marco, P Anônima Industrie Marittime, la
Puglia, la Costiera, la Zaratina e Nautica, si sono fuse
nelPAdriatica. Questa, con il suo blocco di 48.000 tonnellate, esercita
il traffico nelhAdriatico e nelPEgeo, mentre la Tirrenia, con le
sue 128.000 tonnellate, effettua i suoi servici nel Tirreno e per le
Colonie. La Marittima e la Sitmar si sono fuse nel Lloyd
Triestino costituendo un blocco di 210.000 tonnellate destinato ai
servici dei Mediterrâneo Orientale, dei Mar Nero, delP índia e
dello Estremo Oriente. II Lloyd Sabaudo e la Navigadone
Generale Italiana si sono fuse nelPItalia, che è la piú potente adenda
marittima italiana, formata da un blocco di 360.000 tonnellate adibita ai
servici delle Americhe, delP África e delPAustralia. Già
discorrendo delia politica financiaria avemmo occasione di ricordare
lTstituto per la Ricostrucione Industriale (I. R. L) 106
creato dal Governo fascista nel gennaio dei 1932,
dopo avere dato vi ta, nel novembre dei 1931, airistituto Mobiliare
Italiano (I. M* L)* Entrambi questi Istituti hanno avuto una
influenza notevolissima suir industria italiana» L* I* M* I*
ha lo scopo di accordare prestiti ad imprese pri- vate italiane e di
assumere eventualmente partecipazioni azio- nali* Gli impegni non possono
in ogni caso estendersi ad un período superiore ai 10 anni*
L* L R* L comprende una sezione che si occupa delle sov- venzioni e
dei crediti alP industria, e una seconda che ha il compito di liquidare
alcune imprese in passato gestite dalPIsti- tuto di liquidazione*
II Governo fascista con la sua política industriale ha dato ancora
una volta la dimostrazione dei suo equilíbrio, delia sua saggezza e di
una grande tempestività ed energia» Esso non solo non è caduto nel
consueto errore di paralizzare Tinizia- tiva privata, ma ne ha potenziato
invece e favorito lo sviluppo in armonia con quella disciplina e con
quello spirito di mutua comprensione e di collaborazione che sanciscono i
basilari principii delia Carta dei Lavoro» Una visione
sintética e nello stesso tempo precisa delia struttura industriale di cui
è dotato il nostro Paese si può avere dal censimento industriale e
commerciale compiuto il 15 ottobre 1927* Da esso appare
chiaramente che in Italia predominano le piccole aziende con un modesto
numero di addetti; su 732*109 aziende ben 692*313 hanno meno di n
addetti* In queste piccole aziende trovano occupazione 1*510*304 persone,
cioè piü di un terzo di tutti gli addetti alie industrie censite,
che ammontano a 4*005*790* L/esame analítico fatto in base alie
classi di industrie, dimostra che il numero maggiore di addetti
107 è impiegato nelle industrie tessili le quali, nel
nostro Paese, si sono sviluppate in maniera imponente e sono
raggruppate in un numero relativamente piccolo di stabilimenti.
In ordine d' importansa, secondo il numero delle persone impiegate,
segue V industria dei trasporti e delle comunica- sioni, cui attendono
poco piü di mezzo milione di persone (518,983). Le industrie
meccaniche e quelle dei vestiário raggruppano un numero di addetti
pressochè uguale: rispettivamente 478.896 e 491.793. Esse differiscono
per il numero degli esercizi che risulta di 80.705 per le industrie
meccaniche e di 108.470 per quelle dei vestiário. Le
industrie alimentari ed affini assorbono il lavoro di circa 340,000
addetti; un numero di poco minore ne occupa Tindu- stria delle
costru^ioni; 286.115 persone, distribuite in 103.015 adende, si dedicano
alh industria dei legno. È opportuno rilevare che le a^iende con un
numero di addetti superiore al migliaio sono frequenti specialmente nel
gruppo delle industrie tessili (71) e meccaniche (46), seguono
quelle siderurgiche e metallurgiche (24) e, infine, quelle dei
trasporti e delle comunica^ioni (23), 108
...-i In complesso Sino
a 10 addetti Esercizi Addetti
Esercizi Addetti . Industrie connesse con
Ta- gricoltura ♦ ♦♦♦♦♦♦ IO.419 45.842
9.699 - \ 20.219 Pesca 13.578
43.051 13.2H 35.907 Miniere e cave ♦
♦ ♦ ♦ ♦ 5-124 98.778 3.842
12.606 Industria dei legno ed affinL
103.015 286.II5 100.367 2I2.2 o
8 Industrie alimentari ed afíini 81.973
343.081 78.835 201.6l6 Industria
delle pelli, cuoi, ecc. .♦♦♦♦♦♦♦♦ 7-950
53*373 7.142 16.020 Industria delia
carta ♦ . . 2.267 45.749 1-539
5-525 Industrie polígrafiche • ♦ 8.002
57.508 6.894 19.701 Industrie
siderurgiche e me- tallurgiche 2.102
122.519 1-259 5.097 Industrie
meccaniche * * ♦ 80.705 478.896
76.560 I7O.746 Lavorazione dei minerali,
esclusi i metalli ♦ ♦ ♦ * 17.401 171.922 14.452
44.824 Industria delle costrusioni. 38.537
332.562 32.925 88.648 Industrie tessili
♦ ♦ ♦ * 10.408 642.887 6.24O
16.824 Industria dei vestiário, ecc*
191.274 491.973 m 00
t> 00 M 352.978
Servizi igienici, sanitari,ecc* 38.286
95-497 37.804 75-839 Industrie
chimiche * ♦ . ♦ 5.154 99-475 3 927
12.971 Distribusione di forza mo- trice, luce, ecc* * *
* * 5.910 60.463 4-923
I4.27O Trasporti e comunicazioni* 108.470
518.983 IO3.477 2OO.854 Combinadoni
di industrie di diverse classi ♦ ♦ ♦ ♦ | 1-534
17.116 1.363 3-451 Totale ♦ * ♦
732.109 4.005.790 692.313
i.510.304
L'industria mineraria, esplicantesi specialmente nel settore
dei ferro, dei piombo e dello zinco, delia pirite e dei combusti- bili
fossili, ha segnato un forte incremento nel periodo che corre dal 1925
airinisio delia crisi economica mondiale* Mentre nel 1921 e anche nel
biennio 1923-24 la produ- sione di minerali di ferro oscillò intorno a
300*000 tonnellate, negli anni seguenti ebbe forti incrementi tanto che
nel 1930 supero nettamente le 700*000* Anche i minerali di piombo e
zinco, che nel 1922 erano prodotti in una quantità di poco superiore a
120*000 tonnellate, nel sessennio 1925-30 raggiun- sero una produzione
media di oltre 250*000* I combustibili fossili, nel rigoglioso periodo
delheconomia fascista, supera- rono la produ^ione di un milione di
tonnellate e nel 1929 raggiunsero la cospicua cifra di 1*400*000*
La produzione di piriti di ferro, che nel periodo pre-bellico
raggiunse faticosamente le 300*000 tonnellate annue, nel sessennio
1925-30 raggiunse una produzione media di oltre 600*000 e nel 1930 supero
le 700*000* I prodotti delhindustria metallurgica hanno segnato
graduali aumenti nel periodo fascista. I dati sottoriportati,
riferentisi alia ghisa di alto forno, al ferro e alhacciaio, lo
dimostrano chiaramente; Anni Ghisa cTalto forno
Ferro e acciaio 1 Anni Ghisa d'a!to forno Ferro e
acciaio in migliaia di tonnellate jn migliaia di
tonnellate 489 1721
È rilevante il
fatto che nel biennio 1938-29 si sia superata la produzione di oltre due
milioni di tonnellate di ferro e di acciaio e che la ghisa d'alto forno
neiranno 1929 abbia raggiunto la produzione di 670*000 tonnellate*
La produzione di piombo è salita, da circa 12*000 tonnellate
prodotte nel 1921, a una produzione media di 20*000 e nel 1932 ha
raggiunto la cospicua cifra di 31*470 tonnellate* Anche la produzione di
mercúrio, che nel 1921 superava appena le 1000 tonnellate, nel triennio
1927-29 è quasi raddoppiata* Forte incremento ha pure avuto la
produzione di zolfo grezzo, la quale mentre nel triennio precedente
Tawento dei Fascismo si era mantenuta assai inferiore alie 300*000
tonnel¬ late, nel triennio 1931-33, nonostante le difficoltà create
dalla crisi, supero la media produzione di 350*000 tonnellate, come
dimostrano i dati seguenti: A n n i Z 0 1 f 0
in migliaia di tonnellate x 92 X ***************** 274
1926 ***************** 271 1927
***************** 306 1931 ********.* * * *
354 1932 * * *.***** 350 Speciale
importanza hanno i prodotti chimici, i quali, specie nel campo dei
concimi, hanno ricevuto, per Timpulso dato dal Fascismo airagricoltura,
un insperato incremento* Tra questi va ricordato il perfosfato che,
mentre nel período prebellico era prodotto in una misura poco superiore
alie 900*000 tonnellate, nel 1925 ha superato il milione e mezzo,
di tonnellate* Importantissima è stata pure la produzione di
concimi azotati, segnatamente delia
calciocianamide e dei nitrato di soda, ottenuti con processo sintético
valendosi delbazoto del- 1 'aria. In virtú di ciò 1 'agricoltura italiana
si può dire oggi com¬ pletamente emancipata dalhimportazione straniera di
azotati. La produzione di solfato di rame ha pure segnato un
note- vole aumento. Nel triennio 1926-28 essa ha superato sensibil-
mente le 100.000 tonnellate, mentre nel periodo prebellico raggiunse
faticosamente le 50.000. II Governo fascista non mancò di stimolare
e aiutare 1 ’atti- vità di quelle industrie che potevano dare matéria
prima per attivare il commercio di esportazione. A tale scopo, come
già abbiamo ricordato, esso aiutò in varie maniere 1’industria
serica, la quale riusci a raggiungere e a superare, durante i primi otto
anni dei Governo fascista, la produzione media di oltre 5000 tonnellate
di seta greggia. Mentre nel biennio 1921- 1922 essa risultò di sole 3700,
nell’anno 1924 e nel 1928 la seta greggia venne prodotta nella misura di
quasi 5600, cifra appena raggiunta nel 1909 e superata nel 1906-1907,
quando 1’industria delia seta attingeva i vertici dei suo
splendore. In molti altri campi 1 'attività industriale italiana si
è espli- cata con raro vigore; cosi è avvenuto nel campo elettrico e
dei gas; ma essa ha raggiunto speciale importanza specialmente nel
campo dello zucchero e anche nella produzione delhalcool.
Anni Zucchero J Álcool in migliaia di
quintali .. 3056 372 1922 .
... 2703 443 1923 . ♦♦♦*♦*♦♦ 3190
444 1924 . 3822 506 1930
. ♦♦♦♦♦♦•♦♦ 3877 489 1931
•♦♦♦♦♦♦*♦♦♦♦♦♦♦ 3414 420 112
L I 2
milioni di quintali di zucchero prodotti nel 1921 sono stati superati
negli anni seguenti; la produzione di questa importantíssima derrata ha
segnato, attraverso inevitabili oscillazioni, una netta tendenza
alPaumento. La produzione dei gas-luce è andata crescendo con
ritmo costante: dai 291 milioni di metri cubi prodotti nel 1922 si
sono quasi toccati i 2000 milioni nel 1932. Particolare attenzione
merita 1 'impulso dato dal Governo fascista alia produzione delbenergia
elettrica, di cui già si tenne discorso. Perfezionando ed ampliando i
vecchi impianti, costruendone di nuovi e creando bacini artificiali di
grande capacità, il consumo è passato da meno di 5.000 milioni di
kwh. dei 1922, a 8.450 milioni di kwh. nel 1932 e a circa 10 miliardi di
kilowatt-ora nel 1933. Ovunque si cerca di sosti- tuire il carbone di
importazione con energia elettrica prodotta in Paese: un esempio luminoso
è offerto dal Governo fascista con Tintensa elettrificazione delle
ferrovie. Fra le industrie tessili ha specialmente importanza
quella dei rayon, che si è sviluppata in modo veramente rigoglioso
specialmente negli anni delhera fascista, come attestano i dati che
seguono: Anni Rayon in milioni di
kg. 1924 ♦ ♦ ♦ ♦ *... xo, 45 1928 . ♦ .
..*. 26 , 00 1929 . 44.44,4 32 , 34
1930 . 4 4 4 4 . 30 , 14 1931 4 4 4 4 4 4 4 . 4 4
4 4 4 34, 59 1932 444 . 32 , 07
1933 . 37,15 113 8-4
I cantieri navali hanno pure svolto un’ attività
che è carat- terizzata da un continuo aumento sino al 1926, anno in
cui sono State varate navi per 250.000 tonnellate di stazza lorda. In
seguito, a motivo delia crisi, si è avuta nella produzione navale una
sensibile riduzione che va anche vista come effetto delia forte
contrazione dei commercio interna- zionale. Nonostante gli
awenimenti di carattere eccezionale ai quali abbiamo assistito in questi
ultimi anni e che hanno sconvolta 1’ economia dei mondo, 1' industria
italiana non soltanto ha resistito validamente sulle posizioni
conquistate, ma è riuscita, specie in alcuni settori, a conseguire
notevoli progressi. L'indice delia produzione industriale
italiana, posto uguale a xoo 1’anno 1922, preso come anno di base, in
tutti gli anni successivi non ha mai segnato le depressioni registrate
per altri Paesi, bensi un incremento sensibilíssimo anche negli anni
di crisi. INDICI DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE
L'ARTIGIANATO
L/incateante fenomeno deirurbanesimo e la decrescente natalità si sono
manifestati in maniera piü acuta laddove piú intensa è Torgani^azione di
tipo industriale, cioè laddove le donne sono impiegate nelle fabbriche e
nelle manifatture, dove il mondo capitalistico domina con le sue tragiche
contrad- di^ioni, che soltanto la conce^ione fascista ha saputo
affron- tare con un piano concreto ed umano* L/artigianato,
invece, ha un carattere squisitamente rurale* L/elogio deiritalia
agrícola è implicitamente Telogio delle folie artigiane* Per
tutto ciò il Fascismo, se riconosce nelhaítività industriale un mezzo
formidabile di conquista e di poten^a, se riconosce nella fabbrica e
nelPofficina unhndispensabile elemento di vita per una na^ione civile,
spiritualmente esalta la funcione del- Tartigianato, il quale ha risolto,
nello stretto âmbito delia sua bottega, i conflitti dei capitalismo*
L/artigiano, come il piccolo proprietário coltivatore diretto, lavora con
gioia; il suo lavoro non è mosso soltanto da egoistiche esigenze
eco- nomiche, ma anche dal desiderio di compiere un'opera delia
quale nel suo intimo sente tutta la bellezsa* Come il piccolo
proprietário agogna al possesso terriero e una volta raggiuntolo cerca
ognora di consolidarlo, prodigandosi in opere di miglio- ramento,
investendo nella terra tutti i suoi risparmi, cosi Tartigiano, dopo che
si è proweduto dei mezzi indispensabili per il suo lavoro, impiega tutte
le for ze produttive delia sua famiglia per potenziare sempre piú la sua
piccola asienda e faria assurgere magari a piccola industria*
II carattere particolare delPartigianato, che si ripercuote nelle
caratteristiche psicologiche di coloro che lo esercitano, ha fatto si che
esso fosse guardato dal Fascismo con particolare 115
simpatia e comprensione* II nostro Paese poi, che
vanta gloriose tradizioni nel campo dell'artigianato e possiede un
núcleo formidabile di piccole e medie botteghe artigiane, sente in
maniera particolare Íl bisogno di poteriare e sviluppare questa forma di
attività economica, solidíssima fonte di sta- bilità sociale*
Per queste ragioni il problema artigiano non è e non puo essere un
problema esclusivamente economico* Gli obbiettivi dei Regime in
matéria di política artigiana sono volti a migliorare tecnicamente e
artisticamente i prodotti di questa benemerita categoria, per poter
superare la concor¬ rera straniera e conquistare i mercati*
Dal punto di vista economico il Governo fascista, attraverso le
cooperative di mestiere e bancarie, ha anticipato denaro e assistito nei
piü diversi modi questi piccoli imprenditori* Ha cercato inoltre di
applicare una rigorosa selecione dei prodotti, indíviduando i centri di
produzione caratteristici, coltivando attraverso le mostre la conoscera
di queste attività e il tradi- zionale buon gusto dei nostro popolo, per
stimolare i singoli e compiere una efficace opera di selesione*
Le categorie professionali rappresentate dalla Federa^ione fascista
autonoma degli artigiani d*Italia, la quale sí e prodigata per valorirare
sempre piü questa folia di piccoli produttori sapienti e tenaci, sono
numerosissime* L'arte dei legno comprende sensa limitazione di
numero intagliatori, laccatori, scultori in legno, lucidatori, doratori
e stipettai* Qualora le imprese non impieghino piü di cinque
dipendenti anche gli ebanisti e corniciai, mobilieri e tornitori sono
raccolti nella Federazione artigiana, la quale comprende anche
carpentieri e falegnami, imballatori e sediai, quando essi siano
impiegati in attività che non occupano piü di tre dipendenti*
n6 La ricordata Federasione
rappresenta anche i fornitori di oggetti d'arte, i battiferro, i ramai e
calderai, gli sbalzatori di metalli, gli arrotini e i modellatorh
Le attività artigiane, varie e multiformi, diverse per le materie
lavorate e per i prodotti ottenuti, dominano completamente Farte dei
tessuto e dei ricamo, Tarte delTorafo, delTargentiere e delTorologiaio*
Speciale importanza hanno anche nel campo delia ceramica artistica, la
quale ha raggiunto, specialmente in alcune zo ne dei nostro Paese, un
incontestabile splendore e vanta antichissime tradizionh Ricordiamo le
industrie cera- miche umbre, faentine e quelle pesaresi, per citare
soltanto le principaln L'arte dei cuoio e delia cak^tura
raccoglie un grande numero di doratori e di sellai, di pirografi e
bulinatori, di sbalzatori e stampatori, calzolai ed astucciai, che nel
complesso raggiungono un numero considerevole di addetti, i quali portano
il tributo precioso di un lavoro paciente alia produzione
nazionale* Anche i valigiai e i cinghiai, guantai e pellettieri, pur
trovando di solito il loro impiego in aziende cospicue, vengono però ad
accrescere il numero di questa benemerita categoria di modesti e solidi
produttori* L'arte delia tessitura e dei ricamo, alia quale si
dedicano con grande perimia le mogli e le figlie dei nostri salariati,
sia nel campo dei merletto e delia trina, sia in quello delia
filatura e tessitura a mano di stoffe e tappeti, raggiunge
mTimportanza che, specialmente in alcuni centri delTItalia
settentrionale e delle isole, non può essere trascurata* Tra
gli artigiani vanno contati anche gli acquafortisti, xilografi e xenografi,
nonchè i litografi e i rilegatori di librh Nei modesti centri il
carattere artigiano si può riscontrare anche nelle piccole tipografie
come nei fabbricanti di timbri in legno e metallo e di oggetti e modelli
di carta e cartone* Affine a questa attività è quella delia
fotografia che nel grandís¬ simo numero dei casi e per la quasi totalità
delia produzione è in mano di valenti artigiani. La
lavorazione dei marmo e delia pietra è specialmente opera di artigiani. Mosaicisti,
alabastrai e sbozzatori di pietre, luci- datori di marmi e sagomatori,
costituiscono un gruppo notevole di lavoratori che, insieme agli addetti
all’arte dei restauro, formano un gruppo importante delia Federazione
artigiana. A questa categoria appartengono anche i parrucchieri,
gli addetti all’arte deil’arredamento e dei giardino, quelli
impiegati nelFarte dei giocattolo e delia pirotécnica, i vulcanizzatori
e gli ombrellai. Particolare posizione acquista poi quel
gruppo di artigiani che si dedicano alie attività miste proprie delia
vita rurale, i quali, diffusinei piú remoti angoli delle nostre
campagne, portano con la loro genialità di costruttori e con la loro
pazienza di fini esperti riparatori, un contributo che non può essere
tra- scurato, Ricordiamo tra questi i falegnami, gli ebanisti, i
mec- canici, i fabbri, ecc. Ma sarebbe troppo lungo dare una com¬
pleta nozione delle svariate funzioni esercitate dagli artigiani, i quali
costituiscono una massa imponente, che fornisce un lavoro sapiente e prezioso
ed esercita una funzione insostitui- bile nella nostra economia.
118 V. LA POLÍTICA dei lavori
pubblici
GENERALITÀ A FIANÇO dei poderoso programma di
bonifica sta un piü esteso programma di lavori pubblici, inteso a dar
lavoro al- Tesuberante mano d'opera e creare un complesso di opere
civili, di cui ritalia meridionale e insulare specialmente
difettavano* Con questo intendimento furono creati i Proweditorati
alie opere per il Mezsogiorno e le Isole e TA^ienda Autonoma Statale
delia Strada. L'opera svolta dal Governo fascista in questi ultimi
dodici anni è stata veramente imponente* Nel primo decennio
fascista (1922-32) le amministrazioni sopra ricordate hanno presi impe-
gni di spesa per circa 37 miliardi di lire, dei quali ben 17 miliardi e
mezzo sono stati effettivamente pagati. II programma di lavori
pubblici compiuti ha già avuto, e avrà ancor piü neirawenire, una
notevolissima influen^a sul benessere dei Paese; non solo ha
intensificato gli scambi, ha favorito i traffici e ha arrecato immensi
vantaggi airagricol- tura e albindustria, ma ha anche elevato il tenore
di vita e ha contribuito a stabilissare le correnti migratorie.
Si tratta di un'enorme quantità di capitale investito nel suolo
pátrio, di immense quantità di lavoro, che an^ichè andare disperse sono
State utilmente impiegate in opere di alto Valore civile ed economico.
Per questo la política dei lavori pubblici è stata anche un mtzzo
efficacissimo per arginare e combat- tere la dilagante disoccupasione.
Nei lavori compiuti dagli ufiici tecnici dipendenti dal Ministero dei
Lavori Pubblici, dalPAzienda Autonoma Statale delia Strada e dal
Sottosegre- tariato per la Bonifica, neiranno 1926 si sono impiegati 21,8
milioni di giornate-operaio, 26,7 milioni nel 1927, 27,3 milioni nel
1928* L'anno 1929 porta un sensibile aumento di lavori e di giornate
operaie impiegate, le quali toccano i 33,5 milioni: queste
raggiungono 41 milioni nel 1930, 39,3 milioni nel 1931, per superare i 42
milioni nel 1932* Queste cifre però non danno una completa idea
delia massa di lavoro posto in atto dal Governo fascista, perchè se
nei cantieri delle imprese appaltatrici di pubbliche costrutioni si
ebbe un formidabile aumento nel numero delle maestrante impiegate, un
incremento sensibile si ebbe altresinelle cave, nelle officine, nelle
fornaci, nelle fabbriche che forniscono alie prime materiale da
costrutione e mezzi d'opera* Anche nelle imprese di trasporti Tindice di
attività segnò un fortíssimo aumento* Da un punto di vista político
va poi posto in particolare rilievo lo sforto compiuto dal Regime per
dotare le città e le campagne dei Meridionale e delle Isole di tutti quei
serviti pubblici di cui mancavano e che, consentendo forme di vita
migliore, sono di stimolo per Televatione morale e materiale delle
popolationi* La messa in valore di estesi territori agricoli dei
Mettogiorno, cioè di un território con particolarissime caratteristiche
demo- grafiche, richiese la regolatione delle correnti dei
lavoratori onde incitare, aiutare, assistere quel proletariato agricolo
che desiderava radicarsi alia terra e formare colonie stabili*
Per questo il Duce sin dal 1925 creò presso il Ministero dei Lavori
Pubblici il Comitato permanente per le migrationi interne, che poi volle
alia sua diretta dipendenta presso la Presidenta dei Consiglio*
LA VIABILITÀ ORDINARIA Con legge dei maggio 1928 è stata
affidata alFAtienda Autô¬ noma Statale delia Strada la rete delle strade
di grande comuni- catione, chiamata anche rete delle strade
statali* 122
II Duce ha voluto creare un organo autonomo, agile, prepa- rato a
compiere rimmensa mole di lavoro che era richiesta per una adeguata
sistemazione dei nostro patrimônio stradale* Egli, che ha sempre avuto un
concetto romano delia strada, ha dedicato ad essa le piú sollecite cure e
ha fornito capitali ingenti per il duraturo assetto ed il miglioramento
delia rete stradale. Le 136 arterie che formano la rete, il
cui sviluppo comples- sivo è di 20.622 chilometri, nelhestate dei 1928 si
trovavano in condizioni non certo felici: soltanto 463 chilometri di
strada erano pavimentati in maniera tale da non richiedere alcun
ulteriore lavoro per la loro sistemazione* Rimaneva cioè la quasi
totalità da rivedere e da sistemare* Alia fine di ottobre delhanno
X erano stati sistemati 8562 chilometri, dei quali 7910 con trattamenti
superficiali e 652 con pavimentazioni permanenti e semi permanenti*
Erano inoltre in corso altre pavimentazioni su oltre 1000
chilometri* II resto delia rete è stato però oggetto di opere
straordinarie e di manutenzioni talmente accurate che attualmente tutte
le strade si trovano in ottime condizioni* II Governo fascista
nel campo delia viabilità ordinaria non si è limitato a mantenere o
pavimentare le strade esistenti* Intensa è stata pure Tattività svolta
per completare la rete di grande comunicazione e per arricchire quella
delle strade pro- vinciali e specialmente delle strade comunali, che, in
alcuni compartimenti dei nostro Paese, era inadeguata ai bisogni
dei traffico e specialmente ai crescenti bisogni delPagricoltura*
Particolare menzione va fatta delle autostrade, di cui nel decennio che
va dal 1922 al 1932 furono costruite 436 chilo¬ metri, segnando in questo
modernissimo campo delle comuni- cazioni un primato, che ancor oggi ci è
invidiato dai maggiori Stati d'Europa* 123
La rete delle strade di grande comunicazione è stata aumen-
tata di ben 525 chilometri di nuova costruzione: ricordiamo il
completamento delia grande artéria litoranea tirrenica; la costruzione
dei tronchi delia litoranea ionica situati nelle provinde di Taranto e
Matera; il completamento delia lito¬ ranea adriatica con i tre tronchi
situati tra S. Salvo in província di Chieti e Serracapriola in província
di Foggia; i nuovi tronchi costruiti nelle provincie di Salerno, Potenza
e Cosenza, per tacere di altri importanti tronchi costruiti specialmente
nel Meridionale. Se le nuove strade statali si sono rivelate
di notevole portata, di grandíssima utilità si sono dimostrate le strade
costruite dalle Provincie e specialmente quelle volute dai Comuni.
Bisogna ricordare che nel decennio fascista sono stati costruiti
1143 chilometri di strade provinciali e 3844 chilo¬ metri di strade
comunali. Nelle Calabrie, nella Lucania, negli Abruzzi e in Sicilia, si è
dato grande impulso alia viabilità rurale e a quella che ha servito ad
allacciare i comuni isolati alia strade di grande comunicazione.
Anche neiristria sono State compiute opere cospicue: circa 20
milioni sono stati dedicati alie costruzioni stradali. Non va poi
dimenticata la costruzione di strade turistiche che servono anche per la
comunicazione fra importanti compar- timenti (citiamo ad esempio la
Gardesana occidentale e orientale) e quella di importantissime autostrade
quali la Roma-Ostia, la Napoli-Pompei, la Firenze-Viareggio, la
Padova-Venezia e quelle irradiantesi da Milano per Torino, i laghi e
Brescia. Non si può terminare questa breve e incompleta
rassegna delle opere stradali compiute dal Fascismo, senza
ricordare il ponte che congiunge Venezia con la terraferma, largo
20 metri, lungo 4 chilometri, costruito in meno di due anni con la
spesa di 80 milioni. 124 LE
FERROVIE La rete ferroviária ereditata dai passati regimi, se per
molti aspetti si presentava in felici condizioni, richiedeva però una
opera attiva di integrazione e di completamento onde rendere ancor piú
effi- cace il servizio che essa poteva prestare aireconomia dei
Paese* Negli ultimi 12 anni la rete ferroviária italiana è stata
miglio- rata e potenziata: rettiíiche e raddoppi di binário; ricambi e
rin- forzi di armamento; ampliamento e ricostruzione delle stazioni,
dei magazzini e dei servizi; rinnovamento dei materiale rotabile*
L'esercizio delle ferrovie è stato poi riordinato in maniera rapida ed
energica; è stato ristabilito un alto senso di disciplina nel perso- nale
ferroviário, dei quale ne è stato aumentato anche il rendimento*
Particolare importanza ha assunto poi la elettrificazione, estesa ad
importantissimi tronchi ferroviari e che si estenderá ulteriormente per
liberare sempre piú la Nazione dal grave onere delia importazione dei
carbon fossile* Nel campo delle nuove costruzioni ferroviarie
bisogna ricordare la direttissima Roma-Napoli, a doppio binário,
che ha rawicinato notevolmente questa città alia capitale; la
Cuneo-Ventimiglia, la Sacile-Pinzano, e specialmente la direttissima Bologna-Firenze,
a doppio binário, con una galle- ria scavata, per oltre 18 chilometri,
nelle infide argille appenni- niche, superando difficoltà tecniche
giudicate insormontabili e nella cui costruzione perdettero la vita
decine di operai* Nel complesso sono State aperte airesercizio
nuove linee ferro¬ viarie dello Stato e deirindustriaprivata per circa
3000 chilometri* Si può affermare che con Topera di completamento dei
tron¬ chi compiuta dal Regime, e con la elettrificazione delle
princi- pali linee — di cui recentissima è la Bologna-Roma-Napoli —
la rete ferroviária di cui oggi dispone Tltalia è perfettamente adeguata
ai bisogni delia sua economia* 125 LE OPERE
MARITTIME « II mare era negletto. II Regime vi ha risospinto gli
ita¬ liani. La marina mercantile decadeva: il Regime 1 -ha risolle-
vata. Durante questi anni sono scesi nel mare colossi potenti. I porti si
erano impoveriti: il Regime li ha attre^ati e vi ha creato le zone
franche. II lavoro vi era discontinuo per via degli scioperi: oggi la disciplina
delle maestran^e è perfeita. Al mare, fonte di salute e di vita, il
Regime manda ogni anno centinaia di migliaia di figli dei popolo. La
passione degli Italiani per il mare rifiorisce. Vi riconosce un elemento
delia poten^a na^ionale »♦ Cosi il Duce parlava alhassemblea
quinquennale dei Regime. Le opere compiute documentano con
quale tenacia il Governo abbia realiz^ato le basi per un*intensa politica
mari- nara. Nel 1922 le condizioni degli scali marittimi
italiani erano insufficienti. II Regime ha voluto prowedere
rapidamente ad ampliare e sistemare quelli piü importanti, onde
favorire e richiamare il traffico internasionale, sen^a altresi
trascurare i porti minori. Nel decennio 1922-1932 sono stati
costruiti 28 chilometri di opere di difesa, ripartite in 82 porti; la
superfície dei bacini è stata aumentata di 680 ettari. La calate si sono
accresciute di 36 chilometri e la superfície dei terrapieni di 295
ettari. Dalle corrosioni dei mare sono stati difesi circa 17
chilo¬ metri di coste. II Consorcio per il porto di Gênova ha
completato il bacino Vittorio Emanuele III, ha ultimato il i° lotto dei
bacino Mus- solini, ha costruito un nuovo bacino di carenaggio largo m.
32, lungo m. 260. II porto di Napoli è stato arricchito
di un nuovo bacino; mentre è stato sistemato il porto vecchio* A Livorno
è stato costruito un nuovo porto interno; a Cagliari un mo lo lungo
m* 1655; a Catania le nuove opere eseguite hanno aumentate le calate di
m* 550; a Bari, in seguito alia importan^a che hanno assunto i traffici
con TOriente europeo, fu proweduto ad un grandíssimo lavoro di
ampliamento* Grandiosi lavori sono stati dedicati al porto di Marghera e
alio scalo delia stazione marit- tima di Venezia* Sono State rinnovate
molte opere d'arte nel porto di Trieste* II lavoro compiuto è
immenso* Oggi il nostro Paese gode di scali marittimi perfettamente
adeguati alie necessità dei traffici ed è anche pronto ad accogliere ogni
futuro incremento nel commercio interna^ionale* LE ACQUE
PUBBLICHE La regolari^a^ione dei corsi d*acqua è Topera pubblica
per eccellensa che, in Italia, acquista unhmportan^a di primissimo
ordine, data la sua particolare configurasione oro-idrografica* Durante
il decennio, per i lavori di sistema^ione delia Valle dei Po sono stati
impiegati oltre 400 milioni di lire, che hanno permesso di migliorare
notevolmente la difesa idraulica di i milione e 250 mila ettari di uno
dei territori piú densamente popolati e ricchi dei nostro Paese*
II Magistrato alie acque di Venezia si è pure prodigato in un
complesso di attività tra le quali prendono particolare evidem;a i lavori
di sistemazione dei bacino delbAdige* Negli altri bacini dei Regno
sono stati costruiti circa 4000 chilometri di argini completati da 775
chilometri di pennelli e difese frontali* 127
Nel settore delia navigazione interna, per quanto il nostro Paese
non presenti condizioni favorevoli per la costituzione di una vera e
própria rete di vie navigabili, il Governo ha voluto rendere piú efficace
quella esistente nella valle padana e nei grandi laghi. La via d'acqua
Milano-Venezia, le ferraresi, la litoranea veneta sono State oggetto
d’importanti lavori. Anche il canale da Pisa a Livomo e il tronco inferiore
dei Tevere sono stati notevolmente migliorati. Nel campo
delia utilizzazione delle acque pubbliche, il Governo ha promosso
energicamente la costruzione di grandi bacini idroelettrici, da servire
eventualmente anche all' irri- gazione. In tal modo 1 'Italia ha cercato
di rimediare alia naturale povertà di carbon fossile, sovvenendo ai
bisogni dei trasporti e delle industrie. Nel primo decennio
fascista la potenza degli impianti idroe¬ lettrici è stata portata da 1,5
milioni di kw. ad oltre 4 milioni; la produzione di energia è salita da 4
a 10 miliardi di kw-ora. L'Italia settentrionale concorre alia
produzione idroelettrica con oltre 3 milioni di kw. di potenza installata
negli impianti; esigua è la produzione delPItalia centrale (711.000 kw.)
e Meridionale (208.000 kw.); quasi trascurabile quella delle isole
(76.000 kw.). L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi nel nostro
sistema alpino e appenninico i serbatoi idraulici che oggi
raggiungono il numero di 168, con una capacità di invaso complessiva di
quasi 1300 milioni di metri cubi. Alcuni di questi servono anche
per 1 'irrigazione. Tra il centinaio di serbatoi costruiti durante
gli ultimi dodici anmi ricordiamo quello deljMoncenisio, dei Lago di
Avio- grande (Varese), di Ceresole Reale (Aosta), di Montesluga
(Sondrio), di Suviano (Bologna), di Trepido (Cosenza), di Santa Chiara
d'Ula (Cagliari), dell’Alto Belice (Palermo). 128
ACQUEDOTTI « Da quíndici secoli Ravenna attendeva Tacqua*
Si sono ricordati in questi giorni i nomi venerati, ma lontani,
degli imperatori romanL Passavano i secoli, si susseguivano le
gene- razioni, cambiavano i governi, le signorie, le dominazioni,
la realtà era sempre lontana dal sogno* Solo il Fascismo poteva fare
questo, poichè il Fascismo è, sopratutto al presente, il verbo volere
»♦ Cosi il Duce si pronunciava il i° agosto delEanno EX inau¬
gurando Tacquedotto di Ravenna, consacrato alia memória dei cadutu
Anche in questo campo di civiltà, di difesa delia razza e dei
popolo, di assistensa agli umili, il Regime si è prodigato, aiutando gli
enti locali con mutui di favore e concorrendo airesecuzione delle opere
stesse con contributi direttú Oltre airacquedotto di Ravenna, or
ora ricordato, van men- zionati: il grande acquedotto dei Monferrato che
dà acqua a 81 comuni; Tacquedotto Schievenin che serve 20 comuni
delFalto agro trevigiano; Tacquedotto Istriano che approwi- giona tutta
la província; Tacquedotto Franciosetti per la città di Torino; quello per
la Vai d'Orcia e la Vai di Chiana, di cui beneficiano 11 comuni; quello
di Grosseto; gli acquedotti delia Lucania, ecc* Sviluppo
notevolissimo ha avuto, nelEultimo decennio, 1'acquedotto pugliese*
II Fascismo afffontò decisamente il proseguimento di quel colossale
acquedotto con la costruzione dei grande sifone lec- cese, delle
diramazioni dei foggiano e di altri 1000 chilometri di condotte esterne e
interne agli abitati: fu cosi fornita Tacqua ad una popola^ione
complessiva di circa un milione di abitanti* 9-4
129 La metà delia spesa totale sostenuta dallo Stato
italiano per compiere questa opera, che documenta il grado di civiltà
di un popolo, è stata erogata dal Governo fascista. Al
complesso di opere ricordate, miranti a dare acqua pura alie popolazioni
delle città italiane e dei comuni rurali, va aggiunta anche la
costruzione di numerose fognature in oltre 300 centri urbani dei
Paese* La breve rassegna che abbiamo fatto sarebbe assai
incom¬ pleta se non venissero ricordate altre numerose opere civili ed
igieniche compiute dal regime: ospedali, tubercolosari, cimiteri,
lavatoi, costruiti a centinaia, specialmente nell Italia Meri- dionale e
nelle Isole, dove maggiormente difettavano* La Sardegna, che era stata
particolarmente trascurata dai goverm precedenti, è stata oggetto di un f
intensa attività in questo campo di opere che riguardano il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali delia vita* U
EDILIZIA II Governo fascista, accanto alie nuove opere pubbliche
miranti a dare nuovo impulso alia vita economica dei Paese, ha promosso
una serie di opere per risanare, ampliare, abbellire, le grandi città
seguendo i dettami delia moderna urbanistica* In moltissime città
italiane sono stati sVentrati vecchi quar- tieri, creati nuovi rioni,
migliorato il rifornimento idrico e lo smaltimento dei rifiuti* I macelli
sono stati moderni^ti, cen- tinaia di mercati pubblici sono stati
rinnovati o costruiti di nuovo* I servizi di illuminazione sono stati
migliorati; lo svi- luppo dei servizio telefônico costituisce un'altra
fondamentale conquista* Parchi e giardini, viali alberati e ville, sono
stati aperti al popolo che lavora* Anche in questo
campo per motivi di giustizia distributiva 1 'Italia Meridionale ha avuto
le maggiori prowidenze. Ma è stato specialmente nella Capitale che
la sistemazione urbanística ha assunto uno sviluppo dawero imponente.
La costruzione delle vie deli' Impero e dei Trionfi, la
sistemazione delle adiacenze dei Campidoglio e dei Fori Imperiali, ed il
compimento delle numerose opere per dare nuovo assetto alia viabilità
cittadina e per fornire al popolo stadi e giardini, sono opere veramente
degne delia Roma Imperiale. A queste Va aggiunta la costruzione dei
nuovi palazzi dei Ministero dei Lavor i Pubblici, delia Giustizia,
delFEducazione Nazionale, delia Marina e delle Corporazioni, delia città
universi¬ tária e di numerosi altri edifici pubblici necessari per la
vita delia Capitale, centro propulsore di tutte le attività delia
Nazione. Anche nelle varie provincie 1 'edilizia dello Stato ha
avuto singolare sviluppo: ricordiamo i 69 nuovi edifici costruiti
per i corpi armati delia Polizia e delia R. Guardia di Finanza, i
24 nuovi palazzi delle Poste e Telegrafi, i 15 edifici carcerari, i 7
grandiosi gruppi di costruzioni universitarie e altri ancora. Nel
complesso si tratta di costruzioni per un volume di oltre 7 milioni di
mc. Un particolare posto spetta alia edilizia scolastica.
Nel 1922 il nostro Paese aveva un numero di scuole insuffi- ciente;
inoltre parte di queste si trovavano in condizioni sta- tiche e di
manutenzione dei tutto inadeguate alie esigenze piú elementari delia
popolazione scolastica. È quindi naturale che il Re gim e, che ha sempre
avuto a cuore 1’awenire delia razza e la preparazione spirituale e fisica
delia gioventú, abbia cer- cato con tutti i mezzi a sua disposizione di
dare il piú grande impulso a questo genere di edilizia. II
Ministero dei Lavori Pubblici, la cui competenza oggi si estende a tutti
gli edifici scolastici d’Italia, ha costruito oltre 131
ii*ooo aule* I Comuni si sono pure prodigati in questa opera che
soddisfa ad uno dei primordiali bisogni delia vita civile, sistemando
vecchi edifici e prowedendo al risanamento ed alia ricostruzione di
quelli che erano igienicamente inabitabiln L # Italia Meridionale
anche in questo campo ha goduto di particolari benefici* Nel
settore delle case popolari il Regime ha stanziato ioo milioni a favore
di quei comuni e di quegli istituti autonomi che prendono Tiniziativa per
la loro costruzione* II Regime ha pure proweduto a creare Tlstituto
Nazionale per le case degli Impiegati dello Stato (L N* C* L S*), a
emanare particolari prowidenze per la costruzione di alloggi da destinare
ai muti- lati e agli invalidi di guerra* Col concorso finanziario
dello Stato sono stati edificati, a cura dei comuni, di istituti
speciali e di cooperative, oltre seimila edifici con cinquantamila
appar- tamenti, dei quali 28*000 di tipo economico e 22*000 di tipo
popolare* II Governo dando grande impulso alie nuove
costruzioni non ha dimenticato la ricostruzione dei paesi devastati
dalla guerra e dai terremoti* Oggi si può dire che ogni
traccia delle devastazioni compiute durante la conflagrazione europea sia
scomparsa; il Regime ha assolto in tal modo il debito di riconoscenza e
di affetto contratto verso quei compartimenti che furono teatro dei
tremendo conflitto, al quale segui la vittoria che il Fascismo solo ha
saputo valorizzare* La Calabria e la Sicilia, che purtroppo sono
annoverate fra i paesi piú colpiti dal terremoto, si sono giovate in modo
par- ticolare delle sollecite cure dei Governo, il quale autorizzò
la spesa di oltre 500 milioni per la costruzione di case di abita-
zione nei paesi distrutti dal terremoto dei 1908* Nella sola città di
Messina vennero edificati circa 1000 alloggi di tipo popola- rissimo e
numerose case economiche popolari con circa 4600 132
appartamenti* Nella città di Reggio Calabria circa iooo alloggi;
nella província oltre 5000* Gradatamente sorsero interi rioni di
nuove case economiche e popolari: furono preparati rationali piani
regolatori; si edifi- carono chiese, si initiò Fedilitia pubblica»
Dopo il 1925, dopo cioè il trionfale viaggio che il Capo dei Governo
compi in Sicilia, Topera di ricostrutione fu notevol- mente
intensificata; oggi Messina e Reggio si possono con- siderare tra le piü
moderne città dei nostro Paese* Anche i territori delia Marsica,
che si distendono nei din- torni di Avettano, colpiti duramente dal
terremoto dei 1915, furono oggetto di sforzi tecnici e finantiari
cospicui da parte dei Governo fascista* Infatti quando il
Fascismo raggiunse il potere, la situatione delia Marsica era quanto mai
desolante; oggi Avetzano è com¬ pletamente ricostruita e i centri colpiti
hanno ormai rimarginate le loro dolorose ferite* La fermetta
dei Governo Fascista e la rationalità dei suoi sistemi di ricostrutione
dei paesi terremotati si dimostrò in occasione dei disastro dei Vulture
ed anche in quello delle Marche» Nelle tristi contingente che colpirono
queste belle provincie d'Italia, il Governo forni un^ssistenta pronta,
ade- guata, ispirata ad alto senso di umanità» Esso, però, antichè
cedere alie invocationi chiedenti il rápido apprestamento di baracche,
che avrebbe portato a ripetere gli errori tecnici e finantiari in cui si
cadde in tempi passati, prowide con rara energia a dirigere Topera di
assistenta ai disastrati, mentre squadre di operai cominciavano ad
innaltare le case in mura- tura per i sentatetto» Anche in
questo settore delia vita nationale Topera dei Regime è stata
intensissima e tra le piü proficue: il Duce ha dato anche a questo
aspetto delia vita italiana un nuovo Volto alia Patria.Lorenzo Fioramonti. Fioramonti.
Keywords: l’economia di Aristotele, economia fascisdta, Sciacca, Evola, diritto
economico, stato fascista, economia fascista, corporativismo, ugo spirito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fioramonte:
l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Fiore – implicatura musicale – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Celico).
Filosofo. Grice: “If you are thinking that Fiore is the source for the
Cistercians, you are wrong – actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasn’t
one! Pretty much like St. John’s!” -- da Floris, Italian philosopher, the
founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice,
“St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest of his life to
meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber
concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium
decem chordarum. Da Floris illustrates
the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops
in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history
as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively.
History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The
age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace,
ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized
church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves
as already belonging to this final era of spirituality and interpreted
Joachim’s prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary
ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran
Council. Gioacchino da Fiore Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search «… E lucemi dallato, il calavrese abate Giovacchino di
spirito profetico dotato» (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv.
140-141) Gioacchino da Fiore Joachim of Flora.jpg. Filosofo. NascitaCelico,
1130 MortePietrafitta, 30 marzo 1202 BeatificazioneNuncupato Santuario
principaleAbbazia Florense Manuale Gioacchino da Fiore (Celico, 1130 circa –
Pietrafitta) è stato un abate, teologo e scrittore italiano. È venerato come
beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c'è mai
stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica.
Le condizioni economiche della famiglia di Gioacchino erano agiate; il
padre Mauro, infatti, era tabulario o notaio. In passato si era ritenuto che la
famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo
di Gioacchino nei confronti dell'Ebraismo. Gioacchino nacque a Celico; la
sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge attualmente la chiesa
dell'Assunta, edificata sicuramente prima del 1421 sul perimetro della casa
natale dell'abate Gioacchino. Ricevette le prime nozioni di educazione
scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare,
sempre a Cosenza, presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di
contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di
Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la corte
normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della
zecca, poi con i notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di
Palermo, arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano,
si allontanò definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un
viaggio in Terrasanta. Gli inizi Forse nel corso di questo viaggio maturò
un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre
Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei
pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo
compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto
ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di
aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (cioè
"il Signore Dio nostro") Visse per circa un anno presso
l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontanò per andare a predicare
dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del
torrente Surdo, vicino a Rende. Poiché al tempo la predicazione di un
laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove
il vescovo locale lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro
si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco
che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a
frutto le sue doti. Tornò a predicare nuovamente a Rende, con l'abito di
sacerdote. Poco tempo dopo vestì l'abito monastico, entrando nel monastero di
Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato
Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense. Elezione ad abate
Secondo le fonti più accreditate, nel 1177 Giovanni Bonasso venne eletto abate
di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò, scappando dapprima nel monastero della
Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri. Gioacchino non
ambiva a diventare abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini più
potenti di quel tempo, riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad
accettare la carica di abate di quel monastero, all'epoca poverissimo. A
Corazzo l'abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La
Genealogia, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate Nicola.
Teologo e scrittore In qualità di abate compì un viaggio all'abbazia di Casamari.
Durante questo periodo incontrò il papa Lucio III, che gli concesse la licentia
scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, iniziò già a
Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e
il nuovo testamento e l'Esposizione dell'Apocalisse. In quello stesso periodo
Gioacchino interpretò innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte
del defunto cardinale Matteo d'Angers. Da qui scaturì l'incoraggiamento del
pontefice Lucio III a scrivere le sue opere. Nel 1186-1187 si recò a
Verona, dove incontrò il papa Urbano III. Al ritorno si ritirò a Pietralata, una
località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di
Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre
distante dall'abbazia e pertanto fecero una petizione per risolvere la
questione presso la Curia romana. A seguito di ciò, nel 1188 ottenne
l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa
Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a
scrivere. Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata,
presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata
Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo fu Raniero da
Ponza, che in seguito fu legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa
Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la
moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino; pertanto nell'autunno
del 1188 Gioacchino salì in Sila alla ricerca di un territorio che si potesse
abitare. Dopo varie perlustrazioni, si fermò nel luogo oggi denominato Jure
Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di
distanza dalla perlustrazione, abbandonò Pietralata e si trasferì con i suoi
discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata è un luogo avvolto nel
mistero e ancora oggi non identificato con sufficienti certezze. Dopo sei
mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono morì e gli subentrò sul trono
normanno Tancredi, già conte di Lecce. Furono proprio i funzionari di Tancredi
a contestare a Gioacchino l'insediamento in Sila, per cui l'abate dovette
recarsi a Palermo (primavera 1191) per discutere con il nuovo re. Dopo un
complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose all'abate di
trasferirsi presso l'abbazia della Matina «allora in stato di grave declino»
(proposta rifiutata in maniera decisa da Gioacchino), gli fu concesso di
restare in Sila[3], nel luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento
posto nelle adiacenze, aggiungendo 300 pecore e 30 some di grano per il
sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire
il protomonastero di Fiore Vetere. Nel 1194, dopo la morte di Tancredi,
subentrò nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concesse
a Gioacchino un vasto tenimento in Sila e privilegi sovrani su tutta la
Calabria. La Congregazione florense Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e Florensi. In questo periodo,
dopo il diploma concesso da Enrico VI, Gioacchino fondò i monasteri di
Bonoligno e Tassitano e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del
patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma
ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della Congregazione florense e
dei suoi istituti il 25 agosto del 1196. I florensi continuarono a
colonizzare il territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato
secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e
di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che
condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume
Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno
e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero
dei tre fanciulli, ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai
florensi l'occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi
immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in
costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di costruzione dell'insediamento non
si fermò, fintanto che l'abate rimase in vita. Gioacchino morì il 30
marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta[4] e fu seppellito nel monastero florense
di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell'abbazia di San
Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in
costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continuò l'opera
ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine
florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese,
ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria,
Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane
terre di Inghilterra, Galles e Irlanda. I grandi benefattori dell'abate
Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine
florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena
ricordare: Signore di Oliveti: diede a Gioacchino la possibilità di
vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il
Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui.
Enrico VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti
privilegi imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento
Montemarco con la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III:
riconobbe la Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza
d'Altavilla: ratificò a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti
Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della
Calabria: concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo).
Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia:
concesse a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo
Crati). Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e
Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa
di San Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea,
Gattegrima e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di
Fiumefreddo: concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le
sue dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto
Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco della fine del sec. XVI, cattedrale
di Santa Severina I seguaci di Gioacchino, subito dopo la sua morte, raccolsero
la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua
intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo
probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV,
che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in
un libello accreditato ingiustamente a Gioacchino da Fiore. Tuttavia la seconda
Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiarò anche:
"Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in
cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare
e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato
tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio
della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e
sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di
tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà
di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2). Dante Alighieri, nella Divina
Commedia, inserisce Gioacchino da Fiore nel paradiso (canto XII, versi
139-141), tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni
dottori della Chiesa, accanto ai santi Bonaventura da Bagnoregio, Rabano Mauro
e Tommaso d'Aquino. Da ciò si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110
anni circa dopo la morte dell'abate calabrese. Un secondo tentativo
d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro del monastero
florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la
documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite l'abate
Gioacchino, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte. È risaputo che
i cistercensi venerarono come beato l'abate Gioacchino, elaborandone perfino
l'antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto quando i florensi
furono fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I
gesuiti bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso
l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festività celebrative. Il
vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all'Inquisizione i monaci
cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una
lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate Gioacchino. Tale denuncia
causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie.
All'approssimarsi dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25
giugno 2001 l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l'iter per la
canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della
Causa è stato nominato il don Enzo Gabrieli. Opere Dialogi de
prescientia Dei Gioacchino, esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la
sua originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali
sono: Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim
Psalterium decem chordarum A queste vanno aggiunte: Adversus Iudaeos-
edizione Adversus Iudeos, Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto
storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei -
edizione De articulis fidei, Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia
del Senato, 1936. URL consultato il 30 aprile 2015. De prophetia ignota De
Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum -
edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la
storia dell'Italia medievale. Antiquitates 4, Roma, Istituto storico italiano
per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia
super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus
Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli)
Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in
Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium
Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor
evangelia, Fonti per la storia d'Italia 67, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus
in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre
conosciuti: Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam
Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e
Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri
manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore
Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei Santi,
Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza
escatologica medievale, in quanto è il primo a rompere il "tabù
agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma
netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo
imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le
persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E.
Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della
storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da
Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem,
secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali
intellectu", dimostrando così la sua straordinaria originalità
interpretativa delle Sacre Scritture. Gioacchino da Fiore tra le tante
ebbe tre interessanti e originali intuizioni. Ha cercato e provato che
esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il
primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente
legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come modello
"binario della teologia della storia", data la piena proporzionalità
da lui riscontrata, intuisce la possibilità di "proiettare con fiducia il
corso della storia cristiana oltre l'età apostolica sino al presente, e da qui
verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema di concordanza tra
i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle Scritture, ritiene di
poter scrutare nel futuro, assicurando che i due Testamenti assicuravano le
medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare l'Apocalisse, l'ultimo
libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo modo di dire la
continuità dell'intera storia della chiesa, passata, presente e futura.
Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete
ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifuggì dal
rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte
dalla Scrittura. Da questo concetto binario, Gioacchino elabora un
"modello ternario", connesso strettamente alla santissima Trinità,
dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi
teologico-iconografica delle lettere "ALFA" e "OMEGA".
Dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo
sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Età della Storia terrena",
sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il
Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci
anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da
Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa
sulle tre epoche fondamentali: Età del Padre: corrispondente alle narrazioni
dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda
(784-746); Età del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di
Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260; Età dello Spirito Santo:
estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del "millennio
sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanità attraverso una vita
vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia.
In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica,
prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo
materiale.[6] L'età dello Spirito ricomprende le età precedenti in un regno
dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo rigenerato dallo
svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il ricongiungimento
di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale illuminazione di
Antico e Nuovo Testamento. Con tale teorema Gioacchino estende il tempo
della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. Gioacchino
elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre
alberi, quello sviluppato nell'età del Padre, quello sviluppato nell'età del
Figlio e quello che si svilupperà nell'età dello Spirito Santo. Gioacchino
crede di vivere nella fase finale di una sesta età, cui ne seguirà una settima
e ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino
al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata.
Nell'età dello Spirito l'etica non ha più il carattere punitivo e rigido
dell'età del Padre: il disvelamento è una progressiva apertura verso un Dio
benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico
Testamento, che è giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura severo-vendicativo
e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la salvezza dell'uomo
mostrandosi come Amore e Verità, allo Spirito che completa questa dimensione
rivelata. L'inesorabilità della storia, secondo Gioacchino, è data da un
ossessionante computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di
tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di
"linea del tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio
Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della
salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si
chiede quanto è lunga questa linea del tempo e a quale punto di questa linea
egli si trova, quindi da qui sviluppa una serie di calcoli e combinazioni
teologiche del tutto originali. Robert E. Lerner sostiene che "Nella sua
visione, ciò poteva essere conseguito soltanto con lo studio il più
approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante nuove
strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce messaggi
predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti segreti."
Tutta la sua attività ha finito per qualificarlo come un ambizioso pensatore
cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi, allusioni e predizioni.
Il filosofo Giovanni Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui Gioacchino da
Fiore parla di Età dello Spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo
spiritualis monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti
superiori - in seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa
alternativa[7]. Nel suo Monasterium delinea una struttura sociale,
ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro
collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base
alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative,
persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute,
studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza
una riforma radicale e una ristrutturazione che mette in crisi l'organizzazione
della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere nel concilio
Lateranense del 1215: per l'affermazione di un disvelamento progressivo di Dio
in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unità delle Tre Persone divine,
per la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col
cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo
agli uomini di godere di un'età di perfezione. Monasterium All'interno
dei suoi ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi Gioacchino da Fiore
elabora anche uno schema di vita religiosa per il tempo futuro, quello dello
Spirito, riassunto nella tavola XII del Liber Figurarum. Esso descrive una
congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento denominato Monasterium,
formata da persone con diversa spiritualità, raggruppate sapientemente in sette
oratori[1]: Oratorio della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme:
in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato
alla vita contemplativa Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai
deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo
studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita
attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del
santo patriarca Abramo: per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium
potevano quindi partecipare laici coniugati e non, clero secolare e
conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate
che presiede l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per
ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella
comunità. L'insediamento religioso è strutturato a modello di nuova Gerusalemme
terrena con schema somigliante alla Gerusalemme dei cieli. Il Monasterium
gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e sociali che rispettati
saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita eterna. Il passaggio da un
oratorio ad un altro si conquista glorificando il Padre eterno, ognuno per le
proprie possibilità e a seconda del grado spirituale concesso ad ogni singolo
individuo da Dio. Il progresso spirituale non è precluso a nessuno, per cui
tutti possono aspirare ad accedere al Paradiso. Il modello proposto dal
Monasterium rappresentò una rivoluzione per due aspetti: esso affranca
ampi strati della società sia dalla feudalità ecclesiastica sia da quella
"baronale"; esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel
Monasterium perfino i laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa
e della società civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche
all'interno della chiesa del XIII secolo. Diffusione del pensiero
gioachimita Concilio Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa
teologia della storia generò tensioni, specialmente nella scuola teologica di
Parigi, storicamente a lui avversa. Nel 1215, il Concilio Lateranense IV
dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo di un'opera sulla Trinità
falsamente attribuita a Gioacchino. Da questo equivoco se ne generarono altri,
fintantoché lo stesso Papa Innocenzo III con bolla del 2 dicembre 1216 informa
il vescovo di Lucca di non infamare l'abate Gioacchino, giacché l'Abate è
considerato dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum
reputamus). Con parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la
Bolla del 5 dicembre 1220 con cui dà mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca
Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse rivolte al loro
fondatore. Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero
di Gioacchino da Fiore è stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere
due gruppi di studiosi: i gioachiniani e gioachimiti, che hanno
rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o
gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso
aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i più grandi
sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne
seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscitò interesse anche presso
alcuni monaci cistercensi tra i quali: Luca Campano: il primo dei seguaci
eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della
Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una “vita” di
Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con Gioacchino,
come “socio”, a Pietralata e a Fiore, tra il 1188 e il 1195; egli fu poi
nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in Francia meridionale e
Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di Gioacchino da Fiore, spargendo
in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo XIII.
l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e guidò la
Congregazione Florense, finché non fu eletto arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe
il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte tutte le
opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi della
penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di Gioacchino da Fiore sono
giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli
scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di
copiatura e duplicazione. La teologia di Gioacchino grazie a questi tre uomini
si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e
italiani in vario modo. Tra questi: Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni
da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua
volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al
Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli
altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino: Salimbene de Adam da
Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma
la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo
gruppo milanese Andrea Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni
Olivi (1248-1298), che influenzò Giovanni di Rupescissa (Jean de Rochetaillade)
(1300/1310-1366) e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi, Ministro
generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di Dante,
era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il pesarese
Angelo Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i
seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e Jacopone
da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco d'Appignano
(Francesco della Marchia) (1285-90- dopo il 1344), l'inglese Guglielmo di
Ockham, il francese Jean de Jandun (Giovanni di Janduno) (ca.1280-1328),
Marsilio da Padova, Bernard Délicieux, Gentile da Foligno, priore generale
degli agostiniani nel 1332. Michele Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di
Rienzo, il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola
di Buldesdorf (?- 1446), Girolamo Savonarola (1452-1498) Certo quest'elenco è
solo una piccola parte di un numero molto più folto di uomini colti che sono
stati influenzati dalla sua teologia. Nonostante molti francescani
spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti
tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase
viva, sia nella prima fase sia nei periodi successivi. La prova più eclatante è
la presenza di Gioacchino nell'arte medievale: Nell'apparato scultoreo e
figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee
vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, Canto XII,
la struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni
americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la
struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella
Sistina, secondo lo studio di H. W. Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica
contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori
individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita.
Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi
cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal
gioachimismo abbiamo[8]: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a
<<una nuova Pentecoste», contrapponendo lo «spirito» del Concilio alla
sua «lettera» e nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale»;
la <<Chiesa dei poveri>> del cardinale Giacomo Lercaro e del suo
teologo don Giuseppe Dossetti, la corrente intellettuale dominante nel
cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX; Ignazio Silone su papa
Celestino V, «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di
gioachimismo»; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de
Certeau e del protestante Jürgen Moltmann, ispirate dalle concezioni
escatologiche di Ernst Bloch. Barack Obama fece del pensiero di Gioacchino da
Fiore, un punto di riferimento: il presidente degli Stati Uniti d'America Barack
Obama, nella stesura della sua tesi di laurea, lo citò a più riprese durante la
sua campagna elettorale per le presidenziali[9], che definisce come
"maestro della civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo
più giusto", usato non come citazione generica ma con specifico
riferimento al moto "change we can", <<per indicare la
necessità di un cambiamento radicale della storia.[...], citando il
portabandiera di una società più giusta, e pensando all'apertura di un'epoca
straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli
uomini>> Centro Internazionale Studi Gioachimiti Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi
Gioachimiti. Il Centro Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica
delle opere scritte da Gioacchino da Fiore, conservate in diversi codici
manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera attraverso un
Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale Internazionale e
promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi a tema, relativo
a Gioacchino dal Fiore e al Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista
Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo.
Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte Nel
2001 l'arcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il
processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le
Attività Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni dell'VIII
centenario della morte dell'Abate Gioacchino da Fiore per promuovere la
conoscenza di Gioacchino e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo
Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Università degli Studi di
Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro
Internazionale Studi Gioachimiti. Il comitato che ha agito, ha promosso tre
congressi: il primo itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando
per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a
Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso
l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti, l'Atlante delle Fondazioni
Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai
Vaticini, conservati presso la biblioteca del duomo di Monreale.
Gioacchino da Fiore e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano in
Calabria Editor il testo Luca Parisoli Note ^ Gustavo Valente
"Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama
Sud ^ Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli,
Rubbettino, 2006. ^ Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a
Canale di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino
da Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister,
Riletture. Su Gioacchino da Fiore non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it,
Filmato audio Giovanni Giraldi, Giovanni Giraldi: dialogo con De Lubac su
Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterità spirituale di
Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book,
Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a Gioacchino da
Fiore, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra
aveva irretito la modernità, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET
BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI GIOACCHINO DA FIORE-una finezza culturale
che vorrei capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia:
Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra),
Feltrinelli, Milano, Gioacchino da Fiore, Introduzione all'Apocalisse,
(prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella,
Roma, 1996. Gioacchino da Fiore, Commento ad una profezia ignota, (a cura di
Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1999. Gioacchino
da Fiore, Trattato sui quattro vangeli, (a cura Gian Luca Potestà, traduzione
di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Dialoghi sulla
prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca
Potestà), Viella, Roma, 2001. Gioacchino da Fiore, Il Salterio a dieci corde,
(a cura di Fabio Troncarelli), Viella, Roma, Gioacchino da Fiore, Sermoni, (a
cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma, 2007. Gioacchino da Fiore, I sette
sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo
Gatto), con un saggio di Andrea Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio
Maria Adorisio, La “leggenda” del santo di Fiore / Beati Ioachimi abbatis
miracula, Vechiarelli, Manziana, 1989. Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore:
i tempi, la vita, il messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia,
Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dicembre 1970; poi incluso nel
libro dello stesso autore Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, Carmelo
Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, con postfazione di Giorgio Ronconi,
Pellegrini, Cosenza, 1997. Carmelo Ciccia, La santità di Gioacchino da Fiore
(Par. XII), in Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante,
Pellegrini, Cosenza, Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori:
Gioacchino da Fiore..., Pellegrini, Cosenza, Luigi Costanzo, Il profeta
calabrese, Direzione della Nuova Antologia, Roma, Antonio Crocco, Gioacchino da
Fiore e il gioachimismo, Liguori, Napoli, Francesco D'Elia, Gioacchino da Fiore
un maestro della civiltà europea- antologia dei testi gioachimiti tradotti e
commentati-, Rubbettino, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja (a cura di),
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Mannelli, 2006. Valeria de Fraja, Oltre Cîteaux. Gioacchino da Fiore e l'ordine
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vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli, Henri de Lubac, La posterità
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brilla ancora, La Fama sanctitatis dell'Abate Gioacchino, Comet Editor Press,
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dell’archicenobio florense: strutture originarie e superfetazioni storiche, in
«Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Comunicazioni
al 5º Congresso Internazionale di Studi Gioachimiti – San Giovanni in Fiore-
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Edizioni Dedalo, Bari, Pasquale Lopetrone, La chiesa abbaziale florense di San
Giovanni in Fiore, Librare, Pasquale Lopetrone, La localizzazione del
protomonastero di Fiore. Cronaca dell’attività ricognitiva in «Florensia»,
Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Pasquale Lopetrone, Il
proto monastero florense di Fiore, origine, fondazione, vita, distruzione,
ritrovamento, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di
canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina,
Cosenza, Pasquale Lopetrone, La «Domus que dicitur mater omnium» - Genesi
architettonica del proto Tempio del Monasterium florense, in (a cura di) C. D.
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fondazione monastica di Gioacchino da Fiore, Rubettino, Soveria Mannelli, Pasquale
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dell’archicenobio florense di San Giovanni in Fiore- Cronologia, in «Abate
Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio
Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone,
Il modello della Chiesa Florense sangiovannese, in (a cura di) C. D. Fonseca, I
Luoghi di Gioacchino da Fiore- Atti del primo Convegno internazionale di
studio- Casamari, Fossanova, Carlopoli-Corazzo, Luzzi-Sambucina, Celico,
Pietrafitta- Canale, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Viella, Roma, Pasquale
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dell'abate Gioachino da Fiore, 2 voll. (in collaborazione con Marjorie E.
Reeves e Beatrice Hirsch-Reich), S.E.I., Torino, 1953 (1ª edizione 1940). Fabio
Troncarelli, Il ricordo del futuro-Gioacchino da Fiore e il gioachimismo
attraverso la storia, Adda Editore, 2006. Voci correlate Ordine Florense Abbazia
Florense Ernesto Buonaiuti Herbert Grundmann Leone Tondelli Antonio Piromalli
Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista Riforma spirituale medioevale. Treccani.it
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dell'Enciclopedia Italiana. Gioacchino da Fiore, su ALCUIN, Università di
Ratisbona. Modifica su Wikidata Opere di Gioacchino da Fiore / Gioacchino da
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Gioacchino da Fiore, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Modifica su
Wikidata (EN) Gioacchino da Fiore, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
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santiebeati.it.Centro Studi Gioachimiti, su centrostudigioachimiti.it. Lettera
dal Vaticano Neo-Gioacchimismo, su stereo-denken.de. Gioacchino e i “duo viri”.
Una profezia per immagini, su esplorazionicosentine.wordpress.com. I
TEMPI Il mezzogiorno d'Italia nel secolo xii . » i Le
condizioni politiche . » 3 Normanni . " 5
Bizantini. " 3 ° Musulmani. “ 44 Svevi ..;.
“ 5 2 I Pontefici. " 66 Le condizioni religiose .
» 75 Tradizioni bizantine. » 77 MonachiSmo benedettino
. » 9 1 Riforma cisterciense. “ 97 Gli Ebrei in
Calabria. » H 4 Parte Seconda : LA VITA La leggenda e
la storia. » 121 Le fonti canoniche. — Luca. - Giacomo Greco. -
La leggenda ufficiale. " I2 3 Accenni
autobiografici. — La vocazione monastica. - Il monachiSmo del tempo. - La
conversione pro¬ fetica . “ *35 I cronisti britannici. »
156 Le opere. — Da Casamari a san Giovanni in Fiore » 169
258 INDICE Parte Terza : IL MESSAGGIO La
profezia gioachimita . P a 8 - i8 7 11 Metodo. — La conoscenza
biblica. - L’interpreta- tazione allegorica. - Concordie e analogie
. L’escatologia gioachimita e la teologia economica. —
La Trinità nella storia. - Il passato, il presente,
l’avvenire. - L’avvento del terzo stato . » 2 °4 La Chiesa
carnale, la società spirituale. — La scom¬ parsa della Chiesa visibile. -
La suprema manife¬ stazione dello Spirito. - Chiesa di oggi e Chiesa
di , . . . » 220 domani. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI
AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI
Estratto dall' «Archivio Storico per le Province Napoletane >,
CXXV dell'intera collezione SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA
PATRIA NAPOLI 2007 IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI
AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI
Mais si l'on voit partout des métaphores que deviendront les
faits? Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet Una
delle più suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni della costruzione
della grandiosa chiesa esterna del monastero di S. Chiara a Napoli ed al
possibile modello della pianta è stata avanzata, nel 1995, da Caroline
Bruzelius 1 . Secondo questa tesi Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re
Roberto d'Angiò, avrebbe fondato la basilica ed il convento doppio di S.
Chiara per ospitarvi i «Francescani spirituali», vale a dire i frati
appartenenti ad una frangia rigorista e pauperista dell'Ordine
minoritico, avversata dal Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I
Francescani spirituali si richiamavano, in particolare, anche alle idee
del mistico cala- brese Gioacchino da Fiore (1135-1202), per sostenere la
necessità di una radicale riforma della Chiesa 2 . La basilica di Santa
Chiara, dunque, sarebbe stata «consacrata» intenzionalmente
all'ideale della povertà apostolica 3 , così che le idee degli Spirituali
avrebbero costituito, in sostanza, l'unica giustificazione del progetto e
la sola 1 C. Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and the
convent church ofS.ta Chiara in Naples, in «Memoirs of the American
Academy in Rome», 40, 1995, pp. 82ss.; E ad., Le pietre di Napoli.
L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343, Roma, Viella,
2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente inglese
dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin Italy, 1266-1343,
New Haven-London, Yale University Press, 2004, ove le ipotesi avanzate
nel 1995 ven- gono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate.
2 Si denominavano «spirituali» appunto perché viri spirituales, e cioè
eletti destinati a vivere il terzo stato della storia, quello dello
Spirito, così come teorizzato da Gioacchino da Fiore. 3
Bruzelius, Le pietre, eh., p. 151. 36 MARIO GAGLIONE
chiave di lettura dell'edificio. Esisterebbe, in particolare, un
pre- ciso rapporto tra la semplicissima pianta rettangolare della
basilica napoletana ed una delle figurae del Liber figurarum, una
raccolta di schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione delle teorie
storico- teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche
contempla- tive e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa
napoletana costituirebbe così, secondo tale tesi, una vera e propria
citazione della figura XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio
Emi- lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il coro
dei frati sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico
corrispon- dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito
Santo, nel- l'ambito della settima ed ultima Età della storia del mondo.
In questa stessa Età si sarebbe giunti a quella rigenerazione della
Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spiri-
tuali. L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio
riservato, sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel- la
ormai metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat-
terizzata dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale
visione della Pace. Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio
consenso 6 , ha susci- tato altresì rilievi e critiche soprattutto con
riguardo agli effettivi contenuti del filospiritualismo dei due sovrani
ed alla verosimi- glianza storica della pretesa celebrazione monumentale,
nella basi- 4 Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich,
Il Libro delle Figure del- l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953,
voi. II, tav. XVIIIa. 5 Bruzelius, Le pietre, cit., p. 165.
6 Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce, Architettura tra Roma, Napoli
e Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di Curia, Arte
di Corte, 1300-1377, a cura di A. Tornei, Torino, SEAT, 1996, pp.
110-111; R.G. Musto, Franciscan Joachimism, at the court ofNaples, 1309-1341:
a new appraisal, in «Archi- vimi Franciscanum Historicum», 90, 1997, pp.
419-422; C. Freigang, Kathedralen ah Mendikantenkirchen. Zur politischen
Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl L, Karl IL und Robert dem
Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in Italien,
Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S.
Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Città del Sole, 2003;
C. Bozzoni, Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in
«Palladio», n. s. 19, 2006, pp. 129-132. Analogamente a quanto si sarebbe
verificato per S. Chiara a Napoli, la simbologia gioachimita della Figura
delle Età del mondo avrebbe anche ispirato, direttamente o
indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della Calabria a
partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di
S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in «Arte Medievale», II, 2003,
p. 61, p. 69; A. Spanò, Insediamenti Francescani nella Calabria angioina.
Il paradigma Gerace, Soveria Mannelli, Città Calabria edizioni, 2006, pp.
80ss. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO
37 lica napoletana, della teoria della storia elaborata da
Gioacchino e sostenuta dagli Spirituali 7 . Comunque, altre
conferme della tesi della derivazione gioachi- mita della pianta della
chiesa francescana sono state individuate, più di recente, nell'ambito di
una importante e preziosa monografia dedicata all' attività di Giotto a
Napoli 8 . Nel saggio appena menzio- nato, seguendo la lettura proposta
dalla Bruzelius, si sostiene che, conformemente allo schema della Figura
XVIII del Liber, che viene definita «tavola di concordanza (Concordia)
fra i secoli e i tempi, con i tre stati e le otto età» 9 , Giotto e la
sua bottega, riferendosi al Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni
episodi della Vita di Cristo nelle cappelle della navata sinistra della
basilica. In quelle poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe
realizzato scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di
Adamo, Noè, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di
Giuseppe, di Mosè, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe
le navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o,
addirit- tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 . E
evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter- mini
appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale conferma
«esterna» della notizia, riferita da Giorgio Vasari, secondo la quale
Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze «dipinse in alcune capelle del
detto monasterio [di S. Chiara] molte Storie del- l'Antico Testamento e
Nuovo» 11 . Questa stessa notizia è stata in- 7 Per tali
critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due
fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in «Campania
sacra», 33, 2002, pp. 61-108; Id., Allusioni gioachimite nella basilica
angioina di Santa Chiara a Napoli?, in «Studi storici», 45, 2004, pp.
280-288; Id., La basilica ed il monastero doppio di S. Chiara a Napoli in
studi recenti, in «Archivio per la Storia delle Donne», 4, 2007, pp.
127-198. 8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa,
2006, pp. 125ss., il quale riprende anche osservazioni di Mattano, La
Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp.
HOss. 9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig.
64. 10 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 131-133, p.
151. 11 L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: «Dopo,
essendo Giotto ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo
duca di Calavria suo primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per
ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli, perciò che, avendo finito di
fabricare S. Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da
lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque, sentendosi da un re
tanto lodato e famoso chiamar [e], andò più che volentieri a servirlo, e
giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del
Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di
dette 38 MARIO GAGLIONE vece oggetto di ampio
dibattito, non essendo mancato infatti chi, sulla base di varie
considerazioni, ha circoscritto l'intervento di Giotto piuttosto al solo
coro delle Clarisse, escludendo che il Mae- stro abbia potuto operare
anche nelle cappelle della chiesa esterna di S. Chiara 12 . Infine,
sempre nell'ambito della citata monografia, si è sostenuto che la derivazione
della pianta della basilica dalla menzio- nata Figura risulterebbe più
che probabile, poiché lo stesso Liber Figurarum sarebbe stato ben
conosciuto alla corte angioina. Infatti, alcuni testimoni dell'opera e,
in particolare, i manoscritti Vaticano Latino 3822 e 4860, risulterebbero
di fattura meridionale proprio come il codice di Oxford, forse miniato
nello scriptorìum di S. Gio- vanni in Fiore. In particolare, le miniature
del ms. Vat. Lat. 4860 rinvierebbero «alla speciosa cultura umbro-cavalliniana
maturata a Napoli» da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo
Mae- stro delle Tempere Francescane, con datazione intorno al 1330 13 .
Ad ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera
an- che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si trovarono in
di- capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante,
come per avventura furono anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali
si è di sopra abastanza favellato; e se ben Dante in questo tempo era morto,
potevano averne avuto, come spesso avviene fra gl'amici, ragionamento».
L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: «Fu chiamato a Napoli dal re
Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata
da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento
si veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie
dell'Apocalisse, ordinategli, per quanto si dice, da Dante, fuoruscito
allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti», e cfr.
l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche Informatiche
per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa,
all'indirizzo <ht tp ://biblio . cribecu . sns . it/vas ari/consult
azione/V as ari/indice . html> (ultima con- sultazione: 30 novembre
2007). 12 Cfr. F. Aceto, Pittori e documenti della Napoli angioina:
aggiunte ed espun- zioni, in «Prospettiva», 67, 1992, pp. 53ss. Per
l'esame e la discussione delle diverse posizioni: Leone de Castris,
Giotto a Napoli, cit., pp. 85ss., che, riguardo agli altri dipinti
realizzati da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della
chiesa, alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in
corrispondenza della Croce della Deposizione affrescata dall'altra parte
del muro nel coro delle Clarisse, dovesse invece essere l'Apocalisse
ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande affresco era stato
probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale
che si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle
monache. Proprio sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio,
era affrescato appunto il" Compianto sul Cristo morto e le altre
storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una Resurrezione ed
un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para-
petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre
le pareti superiori, probabilmente, non erano dipinte, e cfr. Id., ivi,
pp. 129, 133, 151. 13 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p.
146, figg. 115-116. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO 39 verse occasioni ed ove, appunto, i diagrammi gioachimiti
erano certa- mente diffusi. E fin qui l'importante contributo
sulla presenza e sull'attività di Giotto a Napoli. Partendo
dall' asserita fattura meridionale dei citati codici Va- ticani Latini,
fattura che costituirebbe un indizio della possibile circolazione degli
stessi a Napoli e presso la corte angioina, occorre rilevare che
l'origine e la datazione di questi manoscritti è partico- larmente
controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860 è stato varia- mente datato tra
il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, e lo si è altresì ritenuto
«codice di ambiente benedettino-olivetano pa- dovano» opera di un
miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822 è stato invece datato
piuttosto concordemente alla fine del secolo XIII, mentre ne è dibattuta
l'area di produzione: Parigi o l'area francese^ l'area genericamente
italiana, o più specificamente sici- liana 14 . E necessario ricordare
poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non contiene la Figura delle «Sette età»,
dalla quale si pretende sia stata ricavata la pianta di S. Chiara e sia
derivato il soggetto degli affre- schi che sarebbero stati eseguiti da
Giotto nella chiesa esterna 15 . La stessa Figura manca poi anche nel ms.
Vat. Lat. 3822 16 . La suppo- 14 Quanto al ms. Vat. Lat.
4860, contenente estratti da opere diverse di Gioacchino, la datazione al
secolo XIII è stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch Reich, Reeves e
Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione alla
prima metà del secolo XIV, invece, è stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e
De Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di «codice di
ambiente bene- dettino-olivetano padovano» opera di un miniatore
bolognese. Quanto all'origine del ms. Vat. Lat. 3822, contenente
anch'esso opere varie di Gioacchino, Troncarelli propende per Parigi o
per l'area francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e Reeves propendono
genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa
Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la
teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, 2006, pp.
268-273. 15 Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un
abbozzo del dia- gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli
alberi delle generazioni discen- denti, del drago apocalittico, del
misterium ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della dispositio novi
ordinis, degli alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo,
dei cerchi trinitari, ed è accompagnato da cinque fogli vuoti che
avrebbero potuto accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi,
circostanza questa che conferma che l'opera non era stata portata a
termine, e rende improbabile l'eventuale suppo- sizione di un testo
incompleto perché privato, nel corso del tempo, di alcune delle tavole
originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 269-270.
16 II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi
delle genera- zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del
tetragrammaton e diverse versioni dei tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni
dei tempi, cit., pp. 272-273. 40 MARIO GAGLIONE
sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente meridionale non
può inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del Li- ber
alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del- l'opera
da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran- cia, si
tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun indizio
o prova. C'è in realtà da chiedersi se effettivamente la più volte
citata Figura XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti
«con- cordistici» che vi sono stati da ultimo individuati. Occorre
anzitutto premettere che per «concordia», nell'ambito delle opere e delle
teorie di Gioacchino, deve intendersi «la corri- spondenza simmetrica tra
gli avvenimenti narrati nell'Antico Testa- mento per il popolo di Israele
e quelli raccontati e prefigurati nel Nuovo Testamento... per il nuovo
Israele della Chiesa» 17 . La Figura in esame del Liber Figurarum
reca, al centro, il già citato diagramma rettangolare e, ai margini, un
testo fittamente manoscritto (cfr. fig. 1). Tale testo, la cui traduzione
può leggersi in appendice a questa nota, è tratto dal libro V della
Concordia Novi ac Veteris Testamenti, opera di Gioacchino da Fiore
tradita dal co- dice Urbinate Latino 8 della Biblioteca Apostolica
Vaticana. Più precisamente è riportato il passo posto tra la I e la II
distinctio, destinato ad essere illustrato da una Figura esplicativa che
manca nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in genere
identificata proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum 18 .
Orbene, il libro V della Concordia, dal quale è desunto il com-
17 Rainini, Disegni dei tempi, cit., p. 85. La più nota
definizione gioachimita della concordia è la seguente: «Concordiam
proprie dicimus similitudinem eque proportionis novi ac ueteris
testamenti, eque dico quo ad numerum non quo ad dignitatem; cum uidelicet
persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex parilitate quidam
mutuis se uultibus intuentur», e, cioè, «chiamiamo propriamente
«concordia» la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e Antico Testamento,
e dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto riguardo la
dignità: come se per una certa parità fossero rivolti l'uno di fronte
all'altro persona e persona, ordine e ordine, guerra e guerra», e cfr.
ancora Id., ivi, p. 20, p. 33, nota 91. 18 Tondelli, Reeves,
Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp. 84- 87, voi. II,
tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario
Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa (f.
132v): «in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad
catholicam fidem...», e, precedentemente, «secundum quod ostenditur in
presenti figura...». Quale tavola XVIII£ Tondelli, Reeves ed
Hirsch-Reich, pubblicano una variante semplificata, forse «non finita»,
della stessa Figura, tratta dal codice del Corpus Christi College di
Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f. 8v, il
diagramma ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del
IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO
41 KJ^^^^^^P^^^Uk:^^ Jr**®'
•■"■'•■' - *'■.■ Fig. 1 -
La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich).
42 MARIO GAGLIONE mento marginale alla nostra Figura,
tratta delle storie principali dell'Antico Testamento. Per esse viene
proposta una interpreta- zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale,
secondo Gioacchino, avrebbe consentito anche di preconizzare gli
avvenimenti storici futuri. In altre parole, il libro V «è un lungo
commentario sui libri storici del Vecchio Testamento» 19 , ed «il suo
contenuto è conside- revolmente diverso» 20 da quello degli altri Libri
della Concordia. Infatti, è piuttosto nei precedenti libri, dal I al IV,
che Gioacchino procede effettivamente ad esaminare o a rinvenire i punti
di «con- cordanza» tra le vicende ed i personaggi narrati nell'Antico e
nel Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello stesso
codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altresì
contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole III
e IV, da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con- cordia
Veteris Testamenti et Novi 21 . In particolare, in queste due ultime
tavole è tracciato un dettagliato raffronto tra i personaggi e gli
episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias, Abramo e
Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e Cristo e cosi
via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII è stata quindi
designata come tavola delle «Età del mondo» 22 , delle «Sette età del
mondo» 23 ovvero delle «Sette età» 24 . codice di Reggio
Emilia, e cfr. Rainini, Il «Liber Figurarum» nel manoscritto Oxford,
Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit.
19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse,
Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 76ss. 20 Cfr. E.R. Daniel,
Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac Veteris Testamenti,
Philadelphia, The American Philosophical Society, 1983, p. XXII, il
quale, appunto, osserva: «not only is Book Five longer than the first
four Books together, but its content is considerably different from
theirs». Le peculiarità del libro V rispetto ai precedenti sono precisate
dallo stesso Gioacchino: «etenim in hiis quatuor libris parum agitur
secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc est secundum concordiam
littere et littere, scilicet duorum testamentorum...oportet nos in hoc
quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus que occurrerint
spiritualiter agere ut ex multis testimoniis ostendamus laboriosos rerum
fines et post magnos agones et certamina pacem uictoribus impartiri»
(Concordia, V, 1). 21 Tagliapietra, Opere principali, cit., p. 102.
22 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I,
p. 84. 23 A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav. XVIII
(Biblioteca del Seminario di Reggio Emilia). Le «sette età» del mondo, in
L'Età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel
Gioachimismo medievale, Atti del II congresso internazionale di studi
gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi
Gioachimiti, 1986, p. 8. 24 Rainini, Il «Liber Figurarum», cit.,
loc. ult. cit. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO 43 La tavola XVIII del Liber ha infatti, principalmente, lo
scopo di illustrare la teoria escatologica della storia elaborata da
Gioac- chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed etates
in una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce
unitarietà alla storia stessa 25 . Rifacendosi dunque innegabilmente alla
divi- sione settenaria delle età della storia già teorizzata da
Sant'Ago- stino, Gioacchino colloca in modo originale la settima età,
quella cioè del raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e
della plenìtudo veritatis et libertatis, entro il corso storico,
aggiungendo poi una Octava aetas quale «stadio finale ed eterno della
storia umana». Perciò la figura XVIII del Liber è suddivisa in un
fregio inferiore, rappresentante i sette secula dell'Età del Padre, in
un fregio superiore, che illustra i sette tempora dell'Età del Figlio,
e infine in una parte centrale raffigurante le sette Età del mondo,
la settima delle quali, corrispondente al momento storico in cui
vi- veva Gioacchino {tempus praesens), sarebbe sfociata nel Tertius
sta- tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe fatto
seguito, appunto, Y Octava aetas 26 . Ma passiamo a leggere
le brevi iscrizioni che illustrano il dia- gramma rettangolare centrale
della Figura XVIII, riprodotta nella figura 1 posta a corredo di questa
stessa nota. Occorre precisare che il diagramma deve essere esaminato
trasversalmente, nel senso del lato maggiore del rettangolo, da sinistra
a destra e dal basso all'alto, mentre il testo tratto dalla Concordia e
trascritto ai margini risulta vergato in senso perpendicolare al
diagramma stesso. Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine,
nel fregio inferiore {secula): a) primum seculum, Adam genera
tiones X, secundum seculum, Noe generationes X, tertium seculum, Abraam
generationes X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum
seculum, Joiada generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes
X, septimum seculum, Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spi-
riti Sane ti, septima etas; b) initiatio primi stati, primum
status, secundum status, tertium status; 25
Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp.
4-87. 26 Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav,
XVIII, cit., pp. 8-10. 44 MARIO
GAGLIONE nel fregio centrale (etates): a) Adam,
Noe, Abraam, Davit, transmigratio Babilonie, lohannes Baptista, presens
tempus; b) all'interno della tromba: clarificatio Filii,
clarificatio Spiriti Sancii; e) Etas prima, etas secunda,
etas tercia, etas quarta, etas quinta, etas sexta, etas septima;
nel fregio superiore (tempora): a) initium Romanorum, Hysaia
propheta; b) initiatio secundi stati, primum tempus, Ozias
generationes X, secundum tempus, Zorobabel, tertium tempus, Christus
genera- tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum tempus,
generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tem- pus;
all'estremità destra del diagramma, dopo la linea divisoria: a)
etas octava, resurrectio mortuorum. Come può agevolmente notarsi,
nessuna delle iscrizioni men- ziona specificamente l'Antico o il Nuovo
Testamento; inoltre, per la maggior parte, i personaggi citati, e cioè
Adamo, Noè, Abramo, Booz, Ioiadà, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed
Isaia, rien- trano nell'Antico Testamento e risultano variamente
collocati lungo tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che
in alto. Solo Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo
Testa- mento. Tuttavia, mentre Cristo è indicato nel fregio superiore
della Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara,
corri- sponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando
l'altare maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, è segnato
nel fregio inferiore, dal lato cioè della navata destra della chiesa.
Gio- vanni Battista, infine, è indicato nel fregio centrale, nei pressi
della tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena ripor-
tate, così come il testo marginale della Concordia, non consentono di
affermare che la Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti
concordistici, ovvero che la stessa traduca graficamente concordanze tra
personaggi dei due Testamenti, che risultano infatti variamente
posizionati a destra, a sinistra ed al centro del diagramma. Non vi è,
dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere, almeno lette-
ralmente, né la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento nel
fregio superiore, né quella dei personaggi dell'Antico nel fregio
inferiore, così da poter «giustificare» la collocazione dei cicli pitto-
IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 45
rici giotteschi corrispondenti, rispettivamente, nella navata
sinistra e nella navata destra della basilica di S. Chiara.
Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita abbia
semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta del
soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle cappelle,
oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicché non ci si
dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII del
Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la Figura
stessa non avrebbe costituito né un programma decorativo, né un progetto
edilizio 27 . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di una tale effettiva
corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi avanzati in ordine alla sua
fondatezza storica 28 , rende ancor più fragile l'ipotesi della «matrice
gioachimita» della chiesa di S. Chiara a Napoli. Un collegamento tanto
evanescente con la Figura non consente infatti di dimostrare in maniera
convincente che la pianta ad aula rettangolare della chiesa napoletana,
invece di derivare dalle analoghe, diffusissime piante delle chiese degli
Ordini mendicanti, discenda proprio dal diagramma gioachimita. Risulta
inoltre eviden- temente impossibile dimostrare che i cicli pittorici
dell'Antico e del Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto
vasariano, nella stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi
cicli «tipolo- gici» inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di
S. Pietro in Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni
concordistiche gioachimite. Occorre invece chiedersi se, pur
abbandonando la discutibile ipotesi della valenza della Figura XVIII
quale modello o fonte di ispirazione, sia eventualmente sostenibile, in
altro modo, una «giu- stificazione» gioachimita della scelta del
programma decorativo di S. Chiara, incentrato, come si è detto, sulle
Storie dell'Antico e del 27 Leone de Castris, ad esempio,
osserva che Mattano, nel suo saggio La Basilica angioina di S. Chiara a
Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber alla pianta della
chiesa «al contrario» rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,
sicché Vociava etas non viene più a corrispondere al coro delle Clarisse, bensì
all'area del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura
è stata respinta dallo stesso Leone de Castris, perché presuppone non
«una ispirazione» ma «una volontà di corrispondenza piena fra la pianta
ed il diagramma» derivante da un improprio «uso del diagramma come
«progetto»». In altre parole, almeno per il programma architettonico, la
Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi-
razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de
Ca- stris, Giotto a Napoli, cit., pp. 159-160, nota 36. 28
Cfr. i saggi indicati alla precedente nota 7. 46
MARIO GAGLIONE Nuovo Testamento. Non di rado,
infatti, opere di scultura, di pit- tura e di architettura sono state
interpretate proprio facendo riferi- mento ad una possibile matrice
gioachimita. Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside
della basilica di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato
visiva- mente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e
della Concordia 2 *, mentre un prezioso codice miniato da una bottega
avi- gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito
dell'escatologi- smo e del «concordismo» gioachimita 30 . Influenze delle
opere di Gioacchino sono state rinvenute altresì nella pianta e nella
struttura della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a S. Giovanni
in Fiore 31 , nelle sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32
ad Assisi e negli affreschi della basilica di S. Francesco 33 nella
stessa città. 29 Questa tesi viene avanzata, per la
verità, in maniera piuttosto vaga da E.R. Daniel, Joachim of Fiore:
Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in the Middle
Ages, a cura di R. K. Emmerson-B. Me Ginn, Ithaca London, Cornell
University Press, 1992, pp. 72-88; per una lettura teologica ortodossa dei
mosaici in questione cfr. invece J. Barclay Lloyd, A new look at the
mosaics of San Clemente, in Omnia disce: Medieval studies in memory of
Léonard Boy le, O.P., a cura di AJ. Duggan, J. Greatrex, B. Bolton,
Ashgate, Aldershot, 2005, pp. llss. D'altra parte gli stessi mosaici
vengono correntemente datati intorno al 1118-1123 quando Gioac- chino non
era ancora nato o era giovanissimo. 30 Si tratta del codice 55. K.
2 (Rossi 17) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, e
cfr. C. Frugoni, F. Manzari, Immagini di San Francesco in uno Speculum
humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici Francescane,
2006. 31 Cfr. A. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e
Messaggio in Gioac- chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di
studi gioachimiti (19-23 settembre 1979), S. Giovanni in Fiore, Centro
Internazionale di Studi Gioachimiti, 1980, pp. 352ss., secondo il quale,
l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta peculiarità che
consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia
architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati
dalle tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non
manca poi di ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di
Leone Tondelli, secondo il quale la Figura XII ha piuttosto carattere
idealistico ed utopico, non risultando che in nessuno dei monasteri
florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith Pasztor
che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture
«urbanistiche» del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cìteaux.
Gioacchino da Fiore e l'Ordine florense, Roma, Viella, 2006.
32 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi,
Spello, Dimensione Grafica, 2003, soprattutto sulla base delle tavole
delle Praemissiones di Gioacchino, tradite dal codice 15 del monastero
benedettino di S. Pietro a Perugia, risalente alla fine del XIII secolo o
agli inizi del XIV. 33 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e Frate
Elia. Dalle sculture simboliche del IPOTESI «GIOACHIMITE»
SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 47 ad
Con particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco
si è affermato 34 che il programma iconografico prescelto per la
deco- razione pittorica della chiesa inferiore così come di quella
superiore, nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti,
illu- strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del
mondo e della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della
legge, della grazia e dello spirito teorizzate da Gioacchino da Fiore
e riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi, infatti,
identifica- rono nel proprio il nuovo Ordine monastico preannunciato
da Gioacchino, individuando in San Francesco Valter Christus, il
nuovo messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione
concordi- stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne così
comple- tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che «le
corrispon- denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e
intese non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento
è adempimento della promessa dell'Antico, ma è, a sua volta, pro-
messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di
Francesco» 35 . Tuttavia, la condanna, nel 1255, delYlntroductorius ad
Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che
rappresentava la più compiuta espressione delle teorie dei France- scani
spirituali, comportò l'interruzione dell'esecuzione del pro- gramma
iconografico assisiate, che avvenne forse già nel 1257. Tracce
significative di questo originario apparato decorativo sono state ad ogni
modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipolo- gico 36 delle tre bifore
del coro della basilica superiore, realizzate Duomo di
Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco, Spello,
Dimensione Grafica, 2007. 34 Da A. Cadei, Assisi, S.
Francesco: l'architettura e la prima fase della decora- zione, in Roma
anno 1300. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale
dell'Università di Roma «La Sapienza», a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma
di Bretschneider, 1983, pp. 154ss. 35 Cadei, Assisi, S.
Francesco, cit., p. 156, è, in particolare, il Maestro di S. Francesco,
negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il
parallelismo tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli
abiti ai piedi della croce, Cristo dall'alto della croce affida Maria a
Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione, Com- pianto, Apparizione di
Cristo in Emmaus) e le Storie di San Francesco {Francesco rinuncia ai
beni paterni, Innocenzo III sogna Francesco sorreggente la Chiesa di
Roma, Predica alle creature, Francesco riceve le stimmate da un serafino,
Morte di San Francesco e scoperta delle stimmate sul suo corpo).
36 Ad esempio, nella finestra I, designata anche come finestra VII, sono
raf- figurati episodi veterotestamentari quali prefigurazioni dei
corrispondenti episodi della Vita pubblica di Gesù, con i seguenti
parallelismi: Davide viene a conoscenza della morte di Saul, La disputa
con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior- 48
MARIO GAGLIONE entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi.
L'iconografia delle stesse, basata sulle corrispondenze tipologiche,
avrebbe un sèguito in due lancette del finestrone del transetto destro
che completano il ciclo dell'abside con le apparizioni post mortem di
Cristo e gli antitipi 01 veterotestamentari delle apparizioni angeliche.
Il complesso delle vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo
a costituire una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie
della vita di Cristo farebbero da perno tra gli antitipi
veterotestamentari e le Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San
Francesco e di San- t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del
transetto destro della chiesa sarebbero contrassegnati da una impronta
gioachimita. Tra questi, la triade delle teofanie consistenti nella
Maiestas, nelY Ascen- dano, Il battesimo di Gesù; Mosè e il
Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione del tempio, La cacciata
dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Gesù in
Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli
Apostoli; Il banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera
sul monte Oreb, L'Orazione nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il
bacio di Giuda e la cattura di Cristo. 37 L'interpretazione
tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che presentano un'impronta in
negativo o antitipo costituita da un'idea, una persona, o un avveni-
mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea, una persona, o un
avveni- mento nel Nuovo Testamento. Un esempio autorevole
d'interpretazione tipologica è offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12,
40): «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del
pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore
della terra», ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di Giona e
della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta-
zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thèmes
bibliques, éxégèse augustinienne , in Augustinus magister. Congrès
intemational augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, Paris, Etudes
Augustiniennes, 1955, voi. Ili, pp. 231-242; M. Simonetti, Lettura e/o
allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma,
Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale.
I quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca Book, 1986, voi. I, pp.
19-37; La termino- logia esegetica nell'antichità. Atti del primo
seminario di antichità cristiane, Bari, 25 ottobre 1984, Bari, EdiPuglia,
1987, nonché, più in generale, E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su
Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 176- 226;
P. Van Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale
tenuto presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, consultabile
all'indirizzo: <http://www.unigre.it/rhetorica%20biblica/studenti/TBC005/TIPOLOGIA_-
van%20Dael.doc> (ultima consultazione: 30 novembre 2007); H.L. Kessler,
Storie sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese
medievali tra TV e XII secolo, in L'arte medievale nel contesto
(300-1300): funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca Book, 2006, pp.
438ss. 38 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., pp. 155-156, secondo
il quale i medaglioni di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente
posti nel quadrilobo nella finestra VII della basilica superiore ai lati
del Cristo in gloria, proverrebbero dalle lancette della quadrifora III
posta nel transetto settentrionale della basilica superiore.
''j$'x&H -' IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI
DI GIOTTO 49 sione e nella
Trasfigurazione, poste nelle lunette di volta e nel tratto superiore
della vetrata centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi ordinis
pertinens ad tercium statum ad instar superne Jerusalem ed alla Rota in
medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV del Liber Figurarum. I
sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali sottili richiami e
reconditi significati ben difficilmente avrebbero potuto esser colti dal
comune visitatore, e che i principali fruitori sarebbero stati piuttosto
i soli Francescani spirituali 39 . Secondo questa opinione, in
conclusione, la sintesi ed il com- pletamento della teoria gioachimita
della storia, operata dai France- scani spirituali con l'individuazione
nell'Ordine minoritico del no- vus ordo monastico destinato alla guida
della società, avrebbe avuto, quale esito iconografico, proprio
l'affiancamento degli episodi della vita di San Francesco alle
tradizionali serie tipologiche vetero e neotestamentarie in una
prospettiva «rivoluzionaria». Tuttavia, accanto a queste serie
tipologiche che sarebbero state ispirate dalle teorie gioachimite e
spirituali, nella stessa basilica superiore assisiate furono eseguite
altre e ben più note scene vetero 40 e neotestamentarie 41 , poste ancora
una volta in collegamento con ventotto episodi della Vita di San Francesco
42 , benché in una pro- 39 Cadei, Assisi, S. Francesco,
cit., p. 159, ricorda infatti che, secondo lo Schòne, si sarebbe trattato
di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani spirituali e che
perciò era limitato al loro coro non accessibile al pubblico, circo-
stanza questa che ne favorì anche la successiva conservazione nonostante il
muta- mento del programma decorativo. 40 II ciclo dell'Antico
Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di sedici episodi e
comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore: Crea-
zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La
cacciata dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio
di Caino ed Abele, Caino uccide Abele proseguendo, nel registro
inferiore, con episodi della vita dei quattro patriarchi biblici Noè,
Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca, L'ingresso di Noè
e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli
angeli ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esaù davanti ad Isacco,
Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai
fratelli in Egitto. 41 II ciclo del Nuovo Testamento, collocato
sulla parete sud, si compone di sedici episodi e comincia con le Storie
dell'infanzia di Cristo nel registro superiore: Annunciazione,
Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al
tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio, Battesimo di Gesù. Nel registro
inferiore, invece, sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della
Passione di Cristo: Le nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La
cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a Pilato, La salita al
Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie donne
al sepolcro. 42 A partire dalla parete destra dal lato dell'altare:
San Francesco riceve l'omag- gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo
mantello al povero, Sogno del palazzo colmo 50 MARIO
GAGLIONE spettiva più moderata, ispirata questa volta alla Vita
ufficiale del Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura 43 .
Proprio Bo- naventura ed, in seguito, il probabile committente degli
affreschi, il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano
infatti oppo- sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro
sostenuta secondo la quale con l'avvento dell'Età dello Spirito si
sarebbe pervenuti ad uno scardinamento dell'ordine costituito già sulla
terra e nella sto- ria. L'Autore della Legenda, invece, ribaltò proprio
la prospettiva di un radicale mutamento «nella storia», sostenendo che i
tempi nuovi si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente
ultraterreno, privo quindi di pericolose ricadute politiche.
Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Te-
stamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S. Chiara,
non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria, dell'esistenza
anche di un ciclo della Vita di San Francesco che avrebbe potuto far
pensare ad una consapevole imitazione del mo- dello assisiate nella
versione spirituale o piuttosto in quella bona- venturiana. D'altra
parte, al tempo della esecuzione degli affreschi nella grande chiesa
napoletana erano trascorsi decenni dai movimen- tati inizi della
decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio palinsesto
iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto tra il
papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un lato, ed i
dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa di
armi, Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di
Innocenzo III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di
fuoco, Frate Leone vede il trono celeste destinato a San Francesco,
Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del fuoco, L'estasi di San
Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli
uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San
Francesco appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e
funerali, San Francesco appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino,
Il patrizio Girolamo si accerta delle stimmate, Le Clarisse di S. Damiano
piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco appare a Gregorio IX,
Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil- donna,
Liberazione di Pietro d'Alife. 43 Le posizioni di San Bonaventura
vennero riprese dal cardinale Matteo d'Acquasparta in tre suoi sermoni.
Il cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al 1289, fu probabilmente
l'ideatore del programma iconografico della navata della basilica
superiore e contrastò decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da
Casale. I tìtuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti
dalla Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze,
Passigli, 1996, pp. 56ss. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G.
Ruf, Francesco e Bonaventura. Un'interpretazione storico-salvifica degli
affreschi della navata nella chiesa superiore di San Francesco in Assisi
alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Edi- trice
Francescana, 1974, p. 39 e Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 158.
IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO
51 Giovanni XXII, ad una persecuzione
sistematica dei secondi, e, come si è visto, al prevalere di posizioni
moderate, circostanza que- sta che sembra deporre contro la possibilità
di citazioni iconografi- che eccessivamente «eversive» 44 .
Infine, l'assoluta impossibilità di ricostruire i contenuti ed i
soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz- zate
nella chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure di
accertare una eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella più
precisa ed articolata corrispondenza tra fatti, persone, figure e
adempimenti dei due Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co- munque
derivata proprio dalla diffusione delle teorie di Gioacchino tradotte poi
in immagini 45 . La spiegazione della scelta delle scene
dell'Antico e del Nuovo Testamento per la decorazione di S. Chiara, a
questo punto, può essere piuttosto individuata proprio nella volontà di
seguire il tra- dizionale filone tipologico, significativamente
rinvenibile nello stesso repertorio di Giotto. Il modello più
prestigioso di tale filone era costituito dalla serie degli affreschi
dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le pareti 44
Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del
monastero delle Clarisse, è posto l'affresco della Mensa del Signore,
attribuito al Maestro di Giovanni Barrile, e datato intorno al 1331-1332,
ovvero qualche tempo dopo il 1332, la cui particolare iconografia sarebbe
servita a celebrare i valori della povertà e dell'umiltà, testimoniando
così il particolare favore dei sovrani angioini per questi ideali
strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore «ufficializzato»
dal contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I pittori alla
corte angioina di Napoli (1266-1414), Roma, U. Bozzi, 1969, pp. 200ss.;
Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 106; pp. 146-149, e fig. 61.
Una lettura più articolata è stata recentemente suggerita da C. Frugoni,
Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi, Roma-Bari, Editori Laterza,
2006, pp. 125-126: nel nostro affresco, Cristo è posto su di una montagna
circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il pane alla
folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono
inginoc- chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa
Chiara, in orazione. Il dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di
Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo della moltiplicazione segue il
discorso del Cristo che si presenta alla folla come «il vero pane sceso
dal cielo». V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremità, co- stituisce
un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere
proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione
ufficiale della chiesa esterna all'Ostia santa, sicché, i frati riuniti
nel refettorio per il frugale pranzo garantito dalla carità di Dio, nel
consumare il cibo del corpo, non avrebbero dimenticato la necessità di
nutrirsi di quello dell'anima, ben più prezioso del pane. Gli eventuali,
ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati
essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici. 45 Cadei,
Assisi, S. Francesco, cit., p. 157. 52 MARIO GAGLIONE
della navata centrale erano infatti decorate con Storte dell'Antico
e del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa
Leone I (440-461), distrutte poi nel 1608, nel corso dei lavori di
costru- zione del nuovo S. Pietro, ma fortunatamente descritte da
Jacopo Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico Tasselli
da Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla
Ge- nesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre
sulla parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la
Passione di Cristo. Questi affreschi costituirono: «il prototipo fondamentale
per le successive decorazioni con scene vetero e neotestamentarie che da
Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte d'Europa... la prima e
più completa esposizione per immagini dei principali episodi biblici ed
evangelici a livello di pittura monumentale» 46 . Un folto gruppo di
affreschi tipologici derivò direttamente da quelli di S. Pietro, come nel
caso delle decorazioni musive dell'atrio della basi- lica abbaziale
cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono ulteriormente le
storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonché degli affreschi di S.
Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di Ceri, di S. Giovanni a
Porta Latina 47 , di S. Maria in Monte Domi- nico a Marcellina, di S.
Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di S. Tommaso nel duomo di
Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche 46 Cfr. A. Tomei,
La basilica dalla tarda antichità al secolo XV, in La basilica di San
Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, 1989, p. 67, nonché
H. Kessler, «Caput et speculum omnium ecclesiarum»: old St. Peter s and
church deco- ration in medieval Latium, in Italian church decoration of
the Middle Ages and early Renaissance: functions, forms and regional
traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna, Nuova Alfa, 1989, pp. 109-146.
47 II ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene,
mentre quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando
separatamente V Ul- tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da
tre o quattro pittori nella seconda metà del secolo XII. Nulla ha dunque
a che vedere con questi affreschi la presenza nella chiesa di quindici
fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma
(Biblioteca Nazionale di Torino, Cod. lat. A 381) risalente al 1320 circa, e da
alcune lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera,
I, Epistole, a cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo, 1980, p. XXXI, pp. lss., pp. 28ss. Più in generale, sostengono
un collegamento tra gli Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi
una vera e propria influenza del filospiritualismo di Sancia sulla
politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater than Emperor. Cola di
Rienzo (ca. 1313-1354) and the world of Fourteenth Century Rome, Ann
Arbor, The University of Michigan Press, 2002, pp. 108ss.; R.G. Musto,
Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age,
Berkeley, Los Angeles, New York, The University of California Press,
2003, pp. 12 lss., 165ss. IPOTESI «GIOACHIMITE»
SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 53 dei restauri
cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di Vescovio. Gli
stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica superiore di
Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si tratta
certamente di cicli piuttosto complessi: così a S. Pietro gli episodi
veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a Ceri
venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico fu
ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una notizia
offertaci da Beda il Venerabile (673 ca.-735) relativamente
all'importazione da Roma all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di tavole
dipinte di contenuto tipologico 50 . Dal dodicesimo secolo in poi i cicli
tipologici risultano sempre più elaborati, come dimostra la pala d'altare
di Klosterneuburg, costituita da placche di bronzo smaltato champlevè,
completata da Nicola de Verdun nel 1181 51 . 48 Su questo
ciclo cfr. S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il contatto
con i prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di
studi Parma 27 settembre-I ottobre 1997, a cura di A.C. Quintavalle,
Parma-Milano, Università di Parma-Mondadori Electa, 2002, pp.
615-630. 49 Cfr. S. Romano, La morte di Francesco: fonti
francescane e storia dell'Ordine nella basilica di S. Francesco d'Assisi,
in «Zeitschrift fur Kunstgeschichte», 61, 1998, pp. 3 43 ss., ed E ad.,
La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative,
Roma, Viella, 2001. 50 «Constituto ilio abbate Benedictus
monasterio beati Petri apostoli, consti- tuto et Ceolfrido monasterio
beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice de Brittannia
Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum donis
commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum sacrorum;
sed non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere ditatus. Nam et
tunc do- minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei genetricis,
quam in monasterio maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret, adtulit;
imagines quoque ad ornandum monasterium aecclesiamque beati Pauli
apostoli de concordia Veteris et Novi Te- stamenti summa ratione
conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo- laretur
portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima
super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse
exaitato, filium hominis in cruce exaltatum conparavit» e cfr. Beda, Vita
quinque sanctorum abbatum, I, 9, edizione elettronica nella Biblioteca
Augustana (Bibliotbeca latina, Latinitas medievalis) a cura di U. Harsch
(Fachhochschule Augsburg) basata su Ve- nerabilis Baedae Opera Historica,
edidit Carolus Plummer, Oxonii, E typographeo Clarendoniano, 1896, all'indirizzo:
<http://www.fh-augsburg.de/~Harsch/Chrono- logia/Lspost08/Bede/bed
quin.html> (ultima consultazione: 30 novembre 2007). 51 In alto
nella pala sono poste diverse scene veterotestamentarie accadute prima
della legge {ante legem), al centro sono le corrispondenti scene
neotestamen- tarie (sub gratia), ed in basso le corrispondenti scene
veterotestamentarie sotto la legge (sub lege). Ad esempio: le scene del
Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di Cristo e del «mare di bronzo»
del tempio vanno considerate in corrispondenza; così pure l'episodio di
Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo nel
sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e così via, cfr. H. Buschhausen,
The 54 MARIO GAGLIONE Vennero redatti, inoltre,
veri e proprio manuali proprio allo scopo di indicare al pittore o allo
scultore i collegamenti tipologici tra gli episodi testamentari. Tra
questi si ricorda il Victor in Car- mine 52 , opera di un anonimo monaco
cistercense inglese del XII secolo, il quale, pur essendo contrario alla
decorazione figurata delle chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno
le rappresentazioni ti- pologiche poiché potevano fungere da efficaci
libri laicorum. Ma, certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa
ordinaria di Walafrido Strabone (f849) completata da Niccolò di Lira (f
1349), vera e propria sintesi dell'esegesi tipologica dei Padri della
chiesa 53 . Orbene, proprio i temi tipologici rientravano
certamente anche nel repertorio di Giotto. Oltre alla discussa partecipazione
del Mae- stro all'esecuzione di alcuni episodi dell'Antico e del Nuovo
Testa- mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi 54 , sappiamo,
soprat- tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto eseguì Storie dei due
Testa- menti nella basilica di S. Pietro a Roma 55 , nella cappella
palatina del Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento
nella SS. Annunziata a Gaeta 57 . D'altro canto, la biografia dello
stesso Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art,
Theology and Politics, in «Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes», 37, 1974, pp. 1-32. 52 Victor in Carmine. Ein Handbuch
der Typo logie aus dem 12. Jahrhundert. Nach der Handschrift des Corpus
Chris ti College in Cambridge, Ms. 300, a cura di K. A. Wirth, Berlin,
Mann, 2006. 53 E. Male, Le origini del gotico. L'iconografia
medioevale e le sue fonti, Mi- lano, Jaca Book, 1986, pp. 15ss.; pp.
145ss. 54 L. Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in
Giotto. Bilancio critico di sessantanni di studi e ricerche, Firenze,
Giunti, 2000, pp. 33-54; B. Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini. La
questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco,
Milano, Skira, 2002; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the
upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and
considerations of method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a
cura di W. R. Cook, Leiden- Boston, Brill, 2005, pp. 113ss.
55 Scrive infatti Vasari: «il papa avendo vedute queste opere e
piacendogli la maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse
intorno intorno a San Pietro Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde
cominciando fece Giotto a fresco l'Angelo di sette braccia che è sopra
l'organo; e molte altre pitture, delle quali parte sono state da altri
restaurate a dì nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state
disfatte», e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in
La storia dei Giubilei, a cura di G. Fossi, Roma, BNL, 1997, voi. I, pp.
238-255. 56 Questi affreschi furono eseguiti tra il 1329 ed il
1332-1333 ed andarono purtroppo distrutti nel 1470, durante il regno di
Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp.
168ss. 57 Scrive Vasari: «partito Giotto da Napoli per andare a
Roma, si fermò a Gaeta, dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura
alcune storie del Testamento t ù„J. ]ìlttes:lJ£A^ !
IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 55 Giotto
lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo 58 . I suoi
committenti e protettori erano strettamente legati alla corte pontificia,
come quel fra Giovanni Mincio da Morrovalle, ministro generale
dell'Ordine minoritico, che lo chiamò ad Assisi o il cardi- nale Jacopo
Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma- niera
imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di prestare
danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon- tano da
scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizional- mente attribuita
la canzone Molti son que che lodan povertade, che contiene una vera e
propria invettiva contro la povertà, ritenuta istigatrice di delinquenza,
causa di sovversione sociale e di ipo- crisia 60 . Ritornando
a S. Chiara, in realtà, i frammenti di affresco a contenuto narrativo più
sicuramente riconducibili a Giotto ed alla sua bottega sono quelli
conservati nel coro o oratorio interno delle monache. Sulla parete che
divide appunto l'oratorio dalla chiesa esterna può osservarsi ciò che
resta di un Compianto sul Cristo depo- sto, che lascia ipotizzare, pur in
mancanza di più precise evidenze, che l'intera parete fosse affrescata
con scene della Vita di Cristo, forse principalmente episodi della
Passione, secondo quanto realiz- zato nei cori di altri monasteri delle
Clarisse. In particolare, nel coro di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61 ,
qualche tempo dopo la canonizza- Nuovo, oggi guaste dal
tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il ritratto
d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello», per la
citazione cfr. la precedente nota 11. 58 Lo ammette lo stesso
Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 151. 59 Cfr. F. Antal,
La pittura fiorentina e Usuo ambiente sociale nel Trecento e nel primo
Quattrocento, Torino, Einaudi, 1960, p. 232. Giotto affittava telai ai
tessitori meno abbienti realizzando profitti del 120%. Alcuni documenti
attestano il suo ruolo di garante di prestiti e, nel 1314, risulta
assistito da ben sei avvocati in atti contro debitori morosi o
insolventi. 60 Tra l'altro il componimento precisa: «Di quella
povertà ch'è contro a voglia/ Non è da dubitar ch'è tutta ria,/ Che di
peccar è via, / Facendo ispesso a giudici far fallo;/ E d'onor donne e
damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso usar
bugia/ E ciascun priva di onorato istallo». La canzone fu estratta dal codice
47 pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice 1717 riccardiano e
pubblicata da F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine
della lingua infino al secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti, 1846,
voi. II, pp. 5ss. 61 Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare.
Immagine e racconto in un appa- rato pittorico dottrinale di una comunità
femminile pauperista nel tardo medioevo, in II collegio Principe di
Piemonte e la chiesa di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M. Rak,
Roma, INPDAP, 1997, pp. 21-34, nonché S. Romano, Gli affreschi di San
Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklóster im Spàtmittelalter.
Die 56 MARIO GAGLIONE zione di Chiara avvenuta
nella cattedrale di quella città, ove fu conservata la relativa bolla
pontificia del 15 agosto del 1255, e, comunque, entro il 1263, vennero
appunto dipinte le Storie della Passione di Cristo. Questo notevole ciclo
si articola negli episodi dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e
lavanda dei piedi, Cattura e flagellazione di Cristo, Deposizione e
discesa al limbo, Noli me tangere e missione degli Apostoli, Giudizio universale,
che dovevano servire anzitutto come «strumento di memoria» nei momenti
più solenni della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto)
della pre- ghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa,
quelle stesse scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche
visivamente, la storia della redenzione fino alla morte ed alla
resurrezione del Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in
maniera reali- stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni
di medita- zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore,
inoltre, erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite
di San Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, già nella
Leggenda redatta da Tommaso da Celano (1255-1256). Perciò, gli
affreschi cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso
prome- moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle
«vite parallele» di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia
dalle osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le
letture edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non
occor- rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici
«completi» che comprendessero cioè anche le Storie dei due Santi francescani
62 . Kirchen der Klarissen una Dominikannerinnen im 13. una
14. Jahrhundert, Monaco, Michael Imhof, 2006, pp. 255ss. 62
II ciclo della Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis
prosegue, in realtà, con l'episodio della stimmatizzazione di San
Francesco, che riporta visi- vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono
rappresentati inginocchiati anche una badessa attorniata da monache ed un
frate accompagnato da frati, in veste di donatori oranti. Lo stesso ciclo
si conclude con un riquadro nel quale sono dipinti i Santi Aurelia,
Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle monache della basilica
di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale cappella di San
Giorgio, intorno al 1340 vennero eseguite, invece, oltre che le Storie
della Passione di Cristo, pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di
Resurrezione, Deposizione dalla croce, e Deposizione nel sepolcro, anche
quelle àzW Incarnazione con V Annunciazione , la Na- tività, e
l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklòster im Spàtmittelalter,
cit., pp. 247ss. A Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed
articolato ciclo della Passione affrescato, probabilmente dopo il 1323
sulle pareti del coro delle Clarisse della chiesa di S. Maria Donnaregina
vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine ed alle
Meditationes Vitae Còristi dello pseudo-Bonaventura ed articolato in
diciassette scene. In particolare, in tre registri di cinque scene ciascuno,
più due: IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO 57 Come si è cercato di dimostrare, il riferimento alla
esaminata Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la
scelta dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella
basilica di S. Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto
improbabile. Non molti anni or sono Richard Krautheimer, nei
Poscritti ad un suo aureo saggio di introduzione alla iconografia
architettonica 63 , 1) Ultima cena; 2) Comunione degli
Apostoli) 3) Cristo lava i piedi a San Pietro; 4) Orazione di Cristo
nell'orto; 5) Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia
l'orecchio a Malco; 6) Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a,
negazione di Pietro, derisione di Cristo che viene privato dei vestiti
per la prima volta, flagellazione di Cristo; 1) Cristo portato davanti a
Pilato per il primo giudizio e poi davanti ad Erode; 8) Secondo giudizio
di Cristo davanti a Pilato e nuova flagellazione; 9) Cristo privato delle
vesti e sua ascesa al Calvario, nuova spoliazione di Cristo ed innalzamento
sulla croce; 10) Crocifissione; 11) Deposizione dalla croce, lamentazione
sul corpo e sepoltura di Cristo; 12) Discesa al Limbo e resurrezione di
Cristo; 13) Le Marie al sepolcro, «Noli me tangere», apparizioni di
Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; 14) Apparizioni di Cristo
alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a
San Pietro; 15) Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte
Tabor, poi sul monte degli Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio
dell'Incredulità di San Tommaso; 16) Ascensione; 17) Pentecoste. Tali
scene avevano lo scopo di suscitare la compassione delle mona- che per le
ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria,
non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di
offrire, soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della
Comunione degli Apostoli e della Cena di Emmaus, l'occasione di una
contemplazione eucaristica che era loro preclusa dal vivo, durante
l'elevazione dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in proposito, A.S.
Hoch, The «Passion» cycle: images to contemplate and imitate amid
Clarissan «clausura», in: The church of Santa Maria Donna Regina: art,
iconography and patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis
Elliott, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 129-153. 63 Per la
traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an
«Iconography of Medieval Architecture» , comparso sul «Journal of Warburg and
Cour- tauld Institutes», 5, 1942, pp. 1-33, si veda R. Krautheimer,
Introduzione a un'i- conografia dell'architettura sacra medievale (1942),
in Id., Architettura sacra paleocri- stiana e medievale, Torino, Bollati
Boringhieri, 1993, pp. 98-150, in particolare alle pp. 144ss.,
comprendente i Poscritti del 1969 e 1987 (da p. 143). In questo saggio
Krautheimer propone le sue osservazioni sulla «copia parziale» architettonica
che caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo, dei più prestigiosi
edifici sacri non in termini di copia puntuale e corrispondente («copia
totale»), ma di copia rielaborata, e cfr. al riguardo anche G. Bandmann,
Early medieval architecture as bearer of mea- ning, con introduzione di
K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia University
press, 2005, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal-
terliche Architektur als Bedeutungstràger, Berlin 1951 e W. Schenkluhn,
Iconografia e iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale
nel contesto (300-1300): funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca
Book, 2006, pp. 62-63 e p. 67. Per alcuni rilievi critici sulla tesi
della «copia parziale», cfr., comunque, B. Brenk, Originalità e
innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E.
Castelnuovo e G. Sergi, Torino, Einaudi, 2002, voi. I, pp. 3-69.
58 MARIO GAGLIONE rilevava come spesso
l'interpretazione simbolica delle piante degli edifici medievali fosse
avvenuta post factum, e cioè dopo l'effettiva adozione delle forme decisa
per altre motivazioni. Molto frequente- mente, cioè, si è attribuito al
committente ed all'architetto ciò che nell'edificio aveva voluto vedere a
posteriori il teologo medievale, o, altrettanto spesso, solo l'interprete
moderno. Gli importanti studi iconologici di Aby Warburg e, in seguito,
di Erwin Panofsky e di Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente
anche a scoper- chiare «una specie di vaso di Pandora» dal quale sono poi
fuoriuscite interpretazioni simboliche a tutti i costi, «per amore o per
forza». Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed,
in ge- nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto
«è possibile» diventi «probabile», perché «la relazione ipotizzata abbia
un carattere di causalità ben definito, rilevabile da numerosi e dif-
ferenti indizi» 64 . Sembra invece che proprio la mancanza di
questi «numerosi e differenti indizi» non consenta di sostenere né
l'ispirazione gioachi- mita degli affreschi, né la pretesa matrice francescano-spirituale
della pianta della basilica di S. Chiara a Napoli. Mario
Gaglione 64 R. Krautheimer, Introduzione, cit., p.
146. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO APPENDICE 59
Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber
figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione
a cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit.,
voi. II, tav. XVIIIa. Come illustrato in questa
Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono trascorsi sei tempi ormai
conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le sue opere sotto la
legge ed i profeti, e nel settimo tempo si è riposato dalle opere del
primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni
Battista. Per tali motivi occorre attenersi a ciò che affermano i Santi
Dottori, in ordine al fatto che le due età, e cioè la sesta e la settima,
trascorrono insieme, sia perché, compiuti i sei tempi, le anime dei
giusti riposano in Cielo, sia perché al popolo di Dio è stato concesso un
tempo sabbatico durante il quale potesse riposare dalla servitù della
legge, una volta acquistata la libertà dello Spirito Santo, poiché dov'è
lo Spirito del Signore lì è la libertà. Questa definizione delle
sei età riguarda propriamente la persona del Padre poiché, evidentemente,
il Padre, per mostrarsi signore effettivo di tutta la terra, ha preteso
dai suoi sudditi l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com- piutisi questi
tempi, in seguito, nel settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che gli
hanno obbedito, l'affetto dell'amore e la libertà della grazia nello
Spirito Santo, perché lo stesso Spirito è amore, e dove c'è l'amore c'è
la libertà. Proprio per questo, infatti, l'Apostolo dice: «dove è lo Spirito
del Signore lì è la libertà». In conformità a tale generale
definizione, riguardo alle sei età del mondo occorre seguire quello che
affermano i Santi Dottori, e cioè che nel sesto giorno feriale è
rappresentata la sesta età del mondo, nel sabato è significata la settima
età, e nella domenica l'ottava età, e poiché il sesto giorno è destinato alla
fatica, il settimo è riservato al riposo. Quel sabato sarà dunque colmo
della gioia e della letizia di tutti gli eletti, e ciò sia perché
l'esercito dei santi martiri e degli altri giusti sarà riunito in Cielo e
regnerà con Cristo, sia perché al popolo di Dio verrà concessa quella
tregua sabbatica perché possa riposarsi dalla fatica della sofferenza che
ha sopportato nel corso dei sei tempi già quasi compiuti, e perchè
obbedisca al Signore nella libertà dello Spirito, poiché dov'è lo Spirito
del Signore lì è la libertà. Questa definizione delle sei età
viene comunemente riferita al Padre ed al Figlio, poiché Padre e Figlio
sono un unico Dio. Infatti, così come ciascuno dei due singolarmente
considerato è vero Dio, altresì considerati insieme essi non sono due dei
ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente
somiglianti al Padre ed altre al Figlio, così che essendo appunto uniti assieme
si manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente
con i loro nomi. Diversa è la persona del Padre come diversa è la persona
del Figlio, tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un
unico Dio. E poiché l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno
solo dei due ma da en- trambi, è chiaro che lo stesso Spirito sia in
comunione con il Padre ed il Figlio dai quali, appunto, procede
all'infinito. Questa definizione dei sei tempi o età concerne più
propriamente la 60 MARIO GAGLIONE persona del
Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer- sale
ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei
età. Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli
mostra nel suo Spirito abbondanza d'amore e piena libertà di grazia,
poiché il timore non è compatibile con la carità, e perché la perfetta
carità allontana il timore. In questa Figura viene quindi esposto un
grande mistero riguardante particolar- mente la fede cattolica. Tutte le
cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza. La vera sapienza
consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in particolare,
attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui
aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il
Signore nel Vangelo: «il Padre mio opera nello stesso modo nel quale
opero anch'io». Perciò è come se dicesse: mio Padre ha operato così che
attraverso le opere compiute a sua immagine nel primo stato del tempo,
potesse dimostrare di essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero
cose simili in questo secondo stato, così che né il Padre potrebbe agire
senza di me, né io stesso potrei operare senza il Padre, e ciò per
dimostrare di essere identico a mio Padre, poiché egli è Dio così come
sono io stesso Dio, ed Egli stesso è onnipotente così come io sono
onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono specificamente
alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar- dano la
persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite
le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due
persone. Ciascuno di loro è Dio ed al contempo entrambi sono un unico
Dio. E così anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perché
procede dal Padre ed in conformità a lui. Infatti non siete voi a parlare
ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Viene anche definito
Spirito del Figlio perché procede dal Figlio conformemente a lui, secondo
quanto si afferma: «Dio ha immesso nei nostri cuori lo Spirito del Figlio
che dice: Abba, Padre!». Ed altrettanto l'Apostolo dice dello Spirito
Santo: «dove è lo Spirito del Signore Ti è la libertà». La servitù riguarda
i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libertà invece
concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo
il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e riposo.
Bisogna considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati del primo
stato è stata concessa libertà e riposo nello Spirito Santo, e
considerare altresì fino a che punto il popolo dei fedeli abbia
sopportato la servitù ed il giogo della legge per servire il suo Signore
nella libertà dello Spirito, poiché, come dice l'Apostolo: «non avete
ricevuto lo Spirito della servitù ancora una volta nel timore, ma avete
ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale» per il quale possiamo dire:
«Abba, Padre!». Perciò, poiché lo Spirito Santo procede dal Padre ed a
questi spetta il sabato e la libertà, era necessario in conformità a ciò,
che la settima età iniziasse dal momento in cui Cristo è venuto nel
mondo, perché questa età è stata concessa come il sabato per il popolo di
Dio. E per tale ragione è stato inviato nello stesso tempo lo Spirito
Santo, perché iniziasse quella età. Allo stesso modo, dopo i sei tempi
faticosi di questo secondo stato che, in conformità a tale spiegazione, è
iniziato con Ozia, ovvero con Mosè, verrà conferita al popolo Cristiano
la libertà, non vi è dubbio, nello Spirito Santo, affinché si vedano
svelate le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili
solo come di riflesso. E così noi stessi procederemo di glorificazione in
glorifi- cazione, e dallo Spirito del Signore verrà concessa la pace,
nonché il sollievo wmasSÈ IPOTESI
«GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 61
dalla croce perché si possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni.
Ciò accadrà dopo i sei faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto
essere pertinenti piuttosto al Figlio, perché lo Spirito Santo dimostri
di procedere dal Figlio di Dio. Esso stesso lo definirò Spirito che
procede dal Padre, perchè solo uno e sempre lo stesso Spirito procede da
entrambi. Per questa ragione la glorificazione della settima età è stata
rimandata fino a questi tempi, poiché i tempi travagliati hanno impedito
il riposo del sabato che è stato concesso solo in parte e non
integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che sono
destinati alla fatica dei cristiani. È dunque per quanto annunziato dal
Padre e dal Figlio che crediamo che ognuno di loro sia vero Dio, e, cioè,
che il Padre non sia generato da alcuno come Dio ed altresì che il Figlio
derivi come Dio da Dio. Poiché, in realtà, il Padre ed il Figlio, dai
quali procede lo Spirito Santo, non sono simultaneamente due dei ma un
Dio solo, secondo quanto afferma il Figlio nel Vangelo dicendo: «Quando
verrà lo Spirito Santo che io invierò a voi dal Padre», occorrerà che si
concludano in altro modo le sette età, in maniera che vengano conteggiate
fino a Cristo cinque età, ed, inoltre, la sesta fino alla definitiva
incarcerazione di Satana, ed, ancora, la settima fino alla resurrezione
dei morti. Indice generale 1. Introduzione
1 2. Una breve storia del salterio a died corde 2 3. Il
Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a dieci corde" 4
4. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il
contesto storico eilPrologo 8 5. Il "Salterio a
dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il Libro Primo....l2 5.
Conclusione 20 Tavola Illustrativa 22 Bibliografia
23 IL SALTERIO A DIECI CORDE UN'IMMAGINE
MUSICALE NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA MEDIEVALE Martino
Mocchi 1. Introduzione La presente ricerca si
colloca all'interno del seminario tenutosi presso l'Universita di Pavia
nel secondo semestre del 2010 "Teologia e altri saperi nel
Medioevo" e vuole essere un contributo alia comprensione del
difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca. In particolare
verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde come esempio di
un punto di contatto tra le discipline. Quello die tradizionalmente e
considerato lo strumento biblico per eccellenza, viene infatti
"preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione teologica
medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e allegorica ne
arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una introduzione relativa
alia storia dello strumento in epoca biblica e medievale si considereranno
nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in cui l'autore recupera
l'immagme in un contesto prevalentemente teologico-morale, e si proporra
quindi una disamina del Primo libro del Salterio a dieci corde di
Gioacchino da Fiore, per mettere in luce la valenza mistico-escatologica
che qui viene attribuita alio strumento. Il filo conduttore della ricerca
consiste dunque nel rintracciare, nell'ambito di una riflessione che
nasce e si sviluppa aH'interno di un contesto dichiaratamente teologico,
ma che trae motivi e sostegno argomentativo dal riferimento all'immagine
di uno strumento musicale, delle possibili influenze, o in qualche modo
degli spostamenti di traiettoria, dovuti all'interazione tra le due
discipline. 2. Una breve storia del salterio a dieci
corde. L'interesse particolare per il salterio a dieci corde ha
origine nel testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento
come il piu adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere attribuita
alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale arte. Se i
risultati della moderna esegesi sembrano concordare nell'attribuire alia
figura di Davide un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento e
di consolidamento di una pratica musicale aH'interno della comunita
ebraica 1 , risulta ben piu problematica la collocazione definitiva dello
strumento in questione. La piu recente traduzione del Testo Sacro, in
diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione piuttosto generica
di "strumento a corda" dei termini di poco chiara comprensione
musicologica. Il libro della Genesi, particolarmente ricco di
riferimenti a pratiche e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo
strumento nel quale Davide eccelleva. Dalla narrazione si evincono delle
caratteristiche che potrebbero awicinare come tipologia di strumento il
kinnor e la lira greca chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la
pratica musicale di tale strumento prevede l'utilizzo di un plettro per
pizzicare le corde, il che sembra essere in contrasto con la traduzione
proposta nella versione dei Settanta: il termine psalterion rimanda
infatti etimologicamente al verbo psallein, che significa letteralmente
"pizzicare con le dita". Nel periodo dei Re la scena
musicale di Israele muta radicalmente: proprio sotto l'impulso di Davide
e di Salomone si sviluppa un'organizzazione e un'istituzionalizzazione
delle pratiche musicali all'interno della comunita. Nasce la figura del
musicista di professione, comincia a distinguersi in modo netto la musica
di corte dalla musica del Tempio, si costituisce una vera e propria
accademia come luogo dell'educazione musicale, e vengono inseriti,
accanto a quelli tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni
di questi, come per esempio il nevel, possono fornire delle utili
indicazioni a proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno
strumento a corda: nella versione dei Settanta il termine e reso
attraverso l'utilizzo di tre parole distinte, una delle quali e proprio
psalterion. La Una tale interpretazione prende le mosse
direttamente dal testo biblico, che in piu punti sembra concordare
nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di
"musico": cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, 17; 3, 33.
Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo di C.
Sachs, Storia degli strumenti musicali, tr. it. M. Papini, Mondadori,
Milano, 1996. Si vedano in particolare i capitoli V, VI, X.
trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in
tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre
diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento simile
all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che «psalterium lignum
illud concavum unde sonus redditur superius habet» 3 . Sembra quindi
possibile associare la struttura del nevel a quella dell'arpa verticale
angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella fenicia. La questione
e pero ulteriormente complicata da un altro termine che nel libro dei
Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e legato strettamente
alia problematica del salterio a dieci corde: il termine asor. Questa
parola letteralmente significa "dieci". L'esegesi ha piuttosto
uniformemente interpretato tale accostamento come il riferimento ad uno
strumento musicale con dieci corde. Piu recenti studi musicologici hanno
invece mostrato che il termine potrebbe essere piu correttamente inteso
non come attributo riferito a nevel, ma come sostantivo. Come tale
rimanderebbe quindi ad uno strumento autonomo, a riguardo del quale e
difficile formulare ipotesi. Potrebbe essere infatti proprio questo lo
strumento a dieci corde da cui ha preso spunto la traduzione greca, come
del resto non sembra possibile escludere la possibility che il salterio a
dieci corde sia stata una "invenzione" dei traduttori greci e
latini che non trova una corrispondenza immediata nelle pratiche musicali
ebraiche. La problematica relativa alia classificazione degli
strumenti a corda in epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta 4 .
Sicuramente e attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che
differivano pero tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la
forma, le dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il salterio
e senza dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare
ad uno strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale
del Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir,
che costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area
asiatica, la cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde
attraverso l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che
la prima rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al
salterio risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de
Compostela, e che Dalla lettera di San Gerolamo a Dardano.
La citazione si trova in C. Sachs, Storia degli strumenti musicali, cit.,
p. 127. Per una disamina della questione in epoca medievale, oltre
al gia citato testo di Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel
medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e Alberto Gallo, La polifonia nel
medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1991. in generale tali
rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300. Da queste
considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in cui maturano le
riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva uno strumento
chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione comincia ad avere una
certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda del medioevo. Bisogna
infine tenere presente sullo sfondo il difficile rapporto in epoca
medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali, che rimane un
tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna. Questo sembra
awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine dello strumento
trae origine da un contesto esegetico-teologico molto prima che
dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria. 3.
Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died corde".
Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde"
rappresenta un punto essenziale per la comprensione e la formazione
dell'immagine "teologica" dello strumento in questione. Le
attuali conoscenze del corpus agostiniano non permettono di individuare
con certezza ne la data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il
recupero deirimmagine del salterio si inquadra in questo caso all'interno
di un contesto propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di
delineare un percorso di crescita morale per il credente basato
sull'osservanza dei dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la
sua forza nel parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e
le dieci corde del salterio. Il punto di partenza consiste
nell'indicare la necessita di trovare un accordo con «l'avversario», che
viene identificato con la parola di Dio, dal momento che «comanda cose
contrarie a quelle che fai tu» 5 . In un certo senso, quindi,
l'avversario sarebbe meglio identificabile con la nostra disposizione
interiore, che ci allontana da un comportamento moralmente corretto in
senso cristiano. Seguire le disposizioni interiori risulta infatti molto
pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto da un lato si e spinti ad
assecondarle poiche procurano un piacere immediato, dall'altro proprio
tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e rappresenta quindi
una minaccia per la vita ultraterrena. Allora Agostino,
Tractatus de decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli,
Trattato sul salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio
testamento, Citta Nuova, Roma, 1979; p. 153. «perche
dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci porteranno alcun
vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro?» 6 . L'emergere di questo
tenia del canto ci permette di riferire lo stesso schema sopra rilevato
alia musica. Sembra delinearsi infatti una concezione ambivalente di tale
disciplina: da un lato, nel suo corretto uso, rappresenta uno strumento
di grande forza ed espressivita interiore, che puo permettere all'uomo di
innalzarsi verso la sfera divina. Dall'altro, se considerata nella sua
dimensione sensibile, puo essere la fonte di un «appagamento
dell'orecchio» che rappresenta un motivo di corruzione. Va notato che una
tale impostazione e riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in
primis nel De musica, ed e un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga
tradizione filosofica riconducibile come minimo a Platone 7 . La
problematica ha avuto una grande fortuna nella discussione della prima
patristica 8 in relazione alle modalita della pratica religiosa, e rimane
uno sfondo obbligato per la comprensione della musica cristiana in tutto
il Medioevo 9 . Su questo sfondo Agostino introduce il tema piu
propriamente morale, recuperando la figura del salterio:
«ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono
del salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi
cantero quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha
dieci comandamenti». 10 L'asprezza attribuita al suono dello
strumento non e evidentemente da ricondurre ad un ambito musicale, quanto
da intendere in senso figurato come metafora della difficolta del cammino
da compiere per ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del
recupero deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che
si instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a
questo tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi
molto diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime
tre 6 Ivi, p. 159. 7 Si veda il VII libro delle
Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio. 8 Un'analisi
piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia
concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria
Editrice Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106.
9 Si veda in particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica
cantata e musica strumentale, e il problema della musica vulgaris in
relazione alia musica liturgica. Una disamina di tali questioni si trova
nei testi gia citati di Giulio Cattin e Alberto Gallo. 10
Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159. corde,
che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che danno
disposizioni relative al comportamento verso i propri simili. Sebbene
l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la metafora
istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e portata
fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che corrisponde al
rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il «canto nuovo», che si
contrappone al vecchio proprio come l'uomo nuovo, che nasce a seguito
della venuta di Cristo, si contrappone all'uomo dell'Antico Testamento.
Il canto d'amore che nasce con Cristo prende il posto del timore, che
lega l'osservanza della legge alia paura della punizione divina. E 1
questo il nocciolo argomentativo del discorso, e il tema viene ribadito
in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma: «Cambiate il
comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate Dio. [...] Se lo fate
con amore, cantate il canto nuovo. Se lo fate con timore, ma lo fate,
portate si il salterio, ma ancora non cantate» n . Nel capitolo 13,
che rappresenta il culmine del discorso, l'argomentazione viene ribadita
attraverso l'utilizzo di una metafora che le conferisce una grande forza
persuasiva. L'osservanza dei comandamenti deve implicare
contemporaneamente un atto di ringraziamento a Dio per la grazia
concessa, e un atto di repulsione e di lotta interiore contro la passione
sensibile. Il credente, quindi, deve comportarsi da un lato come il
suonatore di cetra che innalza le sue lodi a Dio, dall'altro come il
gladiatore che uccide senza compassione le belve nell'arena. Il passo
merita di essere citato testualmente: «Negli spettacoli
dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi suona la cetra. Nello
spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le dieci corde e ucciderai le
dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi la prima corda, con
la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade la bestia della
superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale non pronunci
erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la bestia dell'errore
delle nefande eresie che hanno creduto falsamente. Tocchi la terza corda,
per cui qualunque cosa fai la fai per nella speranza del riposo futuro,
viene uccisa la bestia, piu crudele delle altre, dell'attaccamento a
questo mondo» 12 . Lo stesso discorso vale per i successivi sette
comandamenti, che enunciano i nostri doveri verso gli uomini, fino a
che 11 M, p. 165. 12 Ivi, p. 173.
«cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio
e in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le
dieci corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi
capitali. Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di
bestie. Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non
con timore» 13 . Il «canto nuovo», dunque, si puo innalzare
attraverso l'osservanza dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una
contrapposizione tra l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul
timore l'osservanza della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la
rivelazione di Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo
la propria condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del
canto: il canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile,
rappresenta la pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto
interiore, che innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo.
E' quindi significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino
voglia argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua
intrinseca ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica
diventa il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo:
anche un elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi
in una causa di corruzione per colui che non si comporta in
conformita alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e
il suo compimento all'interno di un contesto teologico-morale,
risulta certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a
questa metafora musicale. Negli ultimi capitoli del discorso
Agostino, seguendo uno schema piuttosto consolidato, traduce
l'argomentazione fino a questo punto esposta in un lessico
neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere sintetizzato nelle formule
evangeliche «ama il prossimo tuo come te stesso» 14 e «non fare agli
altri cio che non vuoi sia fatto a te» 15 . Conseguentemente, l'immagine
del canto interiore ed esteriore viene riformulata attraverso
l'espressione «siate cristiani, perche e troppo poco chiamarsi
cristiani». 16 E' importante notare come le riflessioni qui
proposte siano presenti, seppur in maniera meno sistematica, nei commenti
di Agostino ai Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i
dieci 13 Ivi, p. 175. 14 Mt 19, 19; Mc 12, 31;
Lc 10, 27. 15 Mt 7, 12; Lc 6, 31. 16 Agostino, Sul
salterio a dieci corde, cit., p. 187. comandamenti e le
dieci corde del salterio, nel commento al Salmo 143 il tema centrale del
canto nuovo che nasce attraverso la carita 17 . Questo particolare e di
una certa rilevanza per la nostra ricerca, dal momento che permette di
dare per scontata la conoscenza delle posizioni agostiniane da parte di
Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto implausibile infatti pensare che
l'abate cistercense non conoscesse il testo delle Enarrationes, mentre
non sarebbe altrettanto da dare per scontata la conoscenza del Discorso
fin qui considerato. Senza voler in questa sede risolvere un problema che
meriterebbe una piu approfondita indagine storiografica, si vuole
rilevare che la ripresa delle posizioni agostiniane da parte di
Gioacchino, in questo contesto argomentativo, si riferisce sicuramente ai
passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre sembra trascurare
alcuni elementi che pur assumono una importanza non secondaria nel
Discorso. 4. Il "Salterio a dieci corde" di
Gioacchino da Fiore: il contesto storico e il Prologo Lo
Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo di
Gioacchino da Fiore sul tema della trinita, ed e dunque da inquadrare
aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione teologica
del XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima risonanza, che
vide contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di Clairvaux, la
disputa fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di Pietro
Lombardo, tra gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera
suscitarono aspre 17 Si veda anche il commento al Salmo 91
dove compare il tema sintetizzabile nella massima «siate cristiani, non
ditevi cristiani». Un altro tema particolarmente ricorrente nelle
Enarrationes consiste nella differenza tra la cetra e il salterio.
Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente
disposizione della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo
spirito (il salterio, che ha la cassa disposta verso l'alto) e la carne
(la cetra, la cui cassa e invece orientata verso il basso). Il tema
compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150, 6-7.
Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo 70:
«c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il
salterio ha nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le
corde e fa da cassa di risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte
inferiore». Il riconoscimento di un particolare cosi macroscopico non
sembra certo necessitare il riferimento a giudizi "esperti". Si
potrebbe pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto personalmente
gli strumenti in questione. 8 critiche da parte
di diversi opposition 18 , tra i quali proprio Gioacchino da Fiore.
Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli argomenti
sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere condannata la
sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense, nel 1215. Il nocciolo della
disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine, che risulta
comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del XII
secolo. Gioacchino arriva a sostenere la «follia» di una tale
impostazione, teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e
corrispondenza tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua
ottica, l'unita inscindibile che caratterizza la trinita non puo
prevedere distinzioni di alcuna sorta: e piuttosto il carattere
relazionale che permette di garantire la fusione perfetta tra le tre
persone, e alio stesso tempo il loro riconoscimento singolare, come
dimostra chiaramente la figura del salterio. Distinguendo la sostanza
dalle persone della trinita, invece, Lombardo «e come se mettesse tre
dieci al posto delle tre persone, e un quarto dieci al posto della
sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma una quaternita» 19 . La
figura argomentativa che viene posta al centro della critica e quella
tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa radice: la sostanza,
secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle tre persone divine,
proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale pure tutti sono
generati. Per Gioacchino, al contrario, l'immagine a cui si dovrebbe fare
ricorso e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre aH'interno dei
rami stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come l'obiettivo
polemico principale sia proprio l'autore delle Sententiae, anche se e da
rilevare che il suo nome non viene mai citato esplicitamente. I nomi che
ricorrono in piu punti, invece, sono quelli degli eretici Sabellio e
Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il primo, la trinita ad una
sola persona 20 , mentre il secondo nel separare in modo inconciliabile
le tre persone, che vengono distinte per grado dimensionale: «come se al
Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio 18 Si ricorda
ad esempio Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande
influenza sul Papa Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi
piu puntuale del dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo
dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Roma Bari 2004,
cap. 3, pp. 36-41. 19 Gioacchino da Fiore, ll salterio a dieci
corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, Viella, Roma 2004, p.
173. 20 Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e
indivisibility di Dio, formato da una sola persona, l'ipostasi, e tre
nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri della sua
manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto
"modi" dell'apparire del Padre scelti in base al proprio
volere. Spirito Santo un numero piu piccolo». 21
La stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica
particolare, di cui e lo stesso Gioacchino ad informarci. Il Prologo
dell'opera, infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla
genesi di questo «opuscolo dedicato alio Spirito Santo» 22 , che
rappresenta la terza delle sue opere principali 23 . Il tenia principale
su cui si insiste in queste pagine e la spontaneita e l'immediatezza che
hanno caratterizzato l'elaborazione e la stesura di tale opera. Gli anni
in cui questo awiene sono quelli del soggiorno presso l'abazia di
Casamari: anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui Gioacchino,
«lontano dagli affari del mondo, o quasi», arriva a sentirsi addirittura
«un abitante della citta superiore, celeste di Dio» 24 . Si tratta degli
anni tra il 1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate
sono rivolti alia Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a
termine solo qualche tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di
quest'opera, infatti, che l'animo di Gioacchino viene scosso da una
inaspettata «esitazione nella fede della trinita» 25 , che impone una
riflessione su questo difficile argomento. Il lavoro sulla Concordia
viene quindi interrotto, nell'interesse di una problematica costitutiva
ed imprescindibile per qualsiasi riflessione teologica. La stessa
immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si ritrova nel
percorso che porta alia scoperta di una soluzione: «pregai [lo
Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro mistero della
Trinita. E dicendo questo incominciai a cantare i salmi. [...] Ed ecco
subito mi si presento all'animo l'immagine del salterio 21
Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 173. La tesi
fondamentale di Ario consiste nella negazione della consustanzialita tra
il Padre e il Figlio, a partire dall'idea che l'unita di Dio e
incompatibile con la pluralita delle persone divine. Il Figlio, quindi,
non ha la stessa natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la
conseguenza che l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono
essere considerati eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo
la disputa teologica del IV secolo, e si concluse con la condanna delle
tesi di Ario durante il Concilio di Nicea del 325. 22
Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 4. 23 Le
altre due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono
la Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui
notato che l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come
"terza" opera e sostenuta conformemente alle istruzioni date
dallo stesso Gioacchino. Tale affermazione non e riconducibile a ragioni
cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento tematico sui propri
scritti da parte dell'autore. 24 Gioacchino da Fiore, Il salterio a
dieci corde, cit., p. 4. 25 Ibidem. 10
a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e
comprensibile il mistero della trinita» 26 . Una vera e propria
illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un percorso che sembra
orientarsi ben piu sul versante mistico che su quelle-
speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto riveste un
ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima comunicazione con
la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un altro passo del
Prologo: «quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il
canto dei salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che
prima leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a
dischiudersi a me che cantavo i salmi in silenzio» 27 . Il
carattere mistico del canto, che puo innalzare lo spirito verso quei
misteri che risultano oscuri alia lettura razionale, emerge in queste
righe con estrema efficacia. Alio stesso tempo, pero, non si puo trascurare
l'elemento del «canto silenzioso», che sembra rimandare invece all'altro
versante della concezione platonico-agostiniana: la valenza corruttrice
dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi ricercato in un grado
tale di purezza da poter arrivare addirittura ad annullare se stesso.
L'indicazione di Gioacchino, in questo punto, non sembra volersi spingere
fino a questa paradossale conclusione, che pur e stata teorizzata da
diversi autori in epoca medievale. Il recupero dell'elemento musicale,
come si vedra, procede piuttosto in conformita all'impianto complessivo
dell'opera, finalizzato ad «esaltare le potenzialita figurali e le
implicazioni visive della Sacra pagina. L'idea e di attingere a un
repertorio di enti visibili per accedere ah"invisibile» 28 .
Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna ed esplica, in un
certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici qui proposti.
Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di partenza per un
percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine della
razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato
la coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno
del riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente
attingibile. Il "canto silenzioso" non sembra quindi poter arrivare
ad eliminare la musicalita del canto sensibile, quanto piuttosto si
caratterizza come la prova tangibile di un dissidio non ancora risolto,
26 Ibidem. 27 Ivi.p. 3. 28 G. L. Potesta,
II tempo dell'Apocalisse, cit., p. 37. 11
di un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica,
che dovra passare anche il confine del XII secolo prima di trovare
una soluzione. La struttura dell'opera permette una divisione
interna in due parti: la prima comprendente il libro primo, la seconda il
libro secondo e terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto
semantico, sia il periodo di stesura: e lo stesso Gioacchino ad
informarci del fatto che il secondo e il terzo libro «non li scrissi ne
in quel luogo ne in quell'epoca, ma dopo circa due anni» 29 . E 1
un'informazione non sorprendente alia luce del contenuto, che sembra
separato da una linea ben definita. La differenza consiste nel fatto che,
mentre nella prima parte il "salterio" rappresenta lo strumento
musicale fin qui considerato, e la sua ripresa e relativa alia disputa
sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella seconda parte per
indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale viene costruita
una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul numero 150, che
corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima parte si
contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e
spontaneita della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu
pensata, piu costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero
del testo sacro. Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia
produzione escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si
potrebbe pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma questi
libri sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un
decennio di riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una
sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la
prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della
nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo.
5. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore:
il Libro Primo Il Primo libro del Salterio a dieci corde
parte dall'immagine dello strumento musicale per indagare la «ricchezza
dei misteri» in essa contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina,
per cui «niente puo esservi di sterile o vano» 30 . Il riferimento e,
ovviamente, in primo luogo al testo biblico, e in particolare alia figura
di Davide, autore dei Salmi, 29 Gioacchino da Fiore, Il
salterio a dieci corde, cit., p. 4. 30 Ivi, p. 6.
12 di cui vengono citati alcuni passi che rimandano
all'utilizzo del salterio nelle pratiche liturgiche ebraiche 31 . La
struttura del libro risulta divisa in sette capitoli, o
"distinzioni", in cui progressivamente vengono introdotti nuovi
elementi per una comprensione che passa dal piano della semplice descrizione
alio svelamento della prospettiva escatologica contenuta nella forma
dello strumento. La prima distinzione introduce la figura del
salterio, che viene descritto come uno strumento «bello di forma,
aggraziato per il suono, soave per la modulazione» 32 . Le
caratteristiche che compaiono in questo passo sono notevolmente diverse
da quelle che si sono viste prevalere nella descrizione agostiniana, in
cui «aspro e il suono dello strumento di Dio» 33 . Il riferimento e il
confronto con gli elementi contenuti nelle Enarrationes appare del resto
evidente fin dalle prime righe del capitolo: Gioacchino riprende, seppur
in maniera estremamente sintetica, la distinzione tra il salterio e la
cetra nella loro differente funzione spirituale, il paragone tra le dieci
corde e i dieci comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le
successive sette. E in seguito compare il tema dell 1 «uomo nuovo che e
stato creato a immagine di Dio» 34 , che nasce dal "canto
nuovo" del salterio. Se e facile dunque riconoscere sullo sfondo la
presenza e la conoscenza delle tesi agostiniane, risulta altrettanto
semplice vedere come Gioacchino proceda, ben presto, verso l'elaborazione
di un percorso autonomo, che per alcune implicazioni e addirittura
contrastante con le posizioni dell'ipponense 35 . 31
Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il giocondo
salterio e la cetra"; Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono della
tromba, lodatelo col salterio e la cetra". 32 Gioacchino da
Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 7. 33 Agostino, Sul
salterio a dieci corde, cit., p. 159. 34 Ef. 4, 24. 35
La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e Gioacchino
esula dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare,
almeno in termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la
discussione. Potesta indica proprio nel «confronto a distanza con
l'inquietante ombra di Agostino un motivo per capire il laborioso ed
esitante procedere della ricerca teologica di Gioacchino» (G. L. Potesta,
Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del dibattito
consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare l'Apocalisse in
chiave millenaristica. Questo rappresenta un grande scoglio per lo
sviluppo complessivo della ricerca dell'abate calabrese, interessato, in
primo luogo, proprio ad un'interpretazione della storia a partire
dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In particolare, la chiave di
volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione dei versetti del
capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e imminente
l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di
incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui
la 13 Il punto di partenza di questo percorso
consiste nell 1 inter pretare in primo luogo il salterio secondo la sua
forma esterna, senza fare riferimento alia natura delle corde, che invece
rappresenta il principale motivo di interesse della ripresa agostiniana.
La forma triangolare rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile
dell'unita trinitaria: ad ogni vertice puo infatti essere associato il
nome di una delle tre persone, come si puo vedere dalla figura 1
riportata in Appendice. Si puo quindi immediatamente notare come ogni
persona sia costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come
il vertice non puo essere individuato se non come punto di incontro delle
rette che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla
figura si caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario,
in cui ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma
alio stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo
complicato rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility
di comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e
pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due.
«ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di
relazione a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare
il singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione
nel concetto di sostanza». 36 Sullo sfondo del riferimento
polemico alle tesi di Pietro Lombardo, risulta evidente come sia dunque
la categoria di relazione ad indirizzare e guidare la mente
neiravvicinamento ad un mistero che per sua essenza rimane inarrivabile
per le nostre facolta razionali. Di fronte a questa presa di coscienza
non e piu concesso cercare di spingersi oltre, quanto piuttosto e da
accettare la massima di Bernardo secondo cui «voler investigare cio e
orgoglio, crederlo e pieta» 37 . Non resta dunque che un atto di fede di
fronte ad un tale mistero, che per sua natura rimane «ineffabile» 38 .
L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella
prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell'
Expositio. L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto
marginale, nel complesso del pensiero di Gioacchino, e viene qui
richiamato solo per favorire la comprensione della particolarita dell'approccio
gioachimita nei confronti dello strumento del salterio. Un tale
confronto, del resto, potrebbe fornire qualche interessante indicazione
per una comprensione piu generale del problema. 36 Gioacchino da
Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 17. 37 Ivi, p. 20.
38 Ibidem. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita del
mistero trinitario rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina
curiosamente la riflessione di Gioacchino ad un'area di indagine che ha
avuto grande fortuna nell'eta moderna, 14
riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra le
arti e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua
non corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva
impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente altro.
Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta
razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora
una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di contatto
con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui esprimere la
propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste pagine, cessa
di essere interpretato esclusivamente come una forma geometrica per cominciare
ad essere considerato secondo la sua disposizione originaria di strumento
musicale. Ai vertici si puo quindi collocare il termine
"Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la perfezione del
canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si puo inscrivere
il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo
dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta
l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il
canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto.
L'ultimo passo compiuto da Gioacchino in questa prima distinzione
consiste nel mettere in relazione proprio questi due elementi geometrici
che contraddistinguono la forma del salterio: il triangolo e il cerchio.
Questa caratteristica permette di rimarcare la sfuggente natura del
mistero trinitario: nei vertici del triangolo sono infatti distinguibili
le persone divine, e d' altro canto il cerchio simboleggia la loro intima
connessione che forma un'unita inscindibile. La metafora puo essere
estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe nell'elemento circolare
che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il suono, lo strumento
compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione e
ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di
Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di
Dio, il suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo
passo biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera
dell'alfabeto greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un
triangolo e in un cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli
sforzi di Gioacchino in questa prima distinzione: la perfezione del
salterio, attraverso cui si incarna in una forma compiuta il mistero
trinitario, eleva ad una proprio nell'ambito della
riflessione filosofico-musicale: si veda in particolare Vladimir
Jankelevitch, La musica e Vineffabile, 1961. Sebbene non si possa
attribuire a Gioacchino, evidentemente, alcuna intenzionalita nell'utilizzo
di questo termine, il confronto tra le prospettive potrebbe portare ad
interessanti conclusioni. 15 prospettiva che
permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di Dio nella pienezza
dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a fermarsi, e
proprio in quel punto deve cominciare il canto. Nella seconda
distinzione Gioacchino insiste sull'elemento relazionale come chiave
interpretativa e risolutiva del mistero della trinita. Ricorrendo ancora una
volta aH'immagine del salterio, la prospettiva e delineata attraverso
l'osservazione per cui i tre vertici non possono essere considerati
elementi autonomi, ma relazionali, prodotti dall'unione di due rette
secanti. Rette che rappresentano proprio l'unione di ogni vertice con gli
altri due, in modo che nessun punto potrebbe esistere se non in
riferimento agli altri. Lo spazio che pertiene ad ogni persona, non e
pero da intendersi come il singolo punto isolato, ma come l'angolo avente
il suo vertice in quel punto, che come tale e rappresentato dall'area che
sta in mezzo ai lati dell'angolo stesso. Si puo notare, quindi, che lo
spazio di ogni persona coincide con l'intera area del triangolo. Anzi,
ogni area si costituisce in quanto tale, cioe come porzione delimitata di
spazio, proprio attraverso la relazione con le altre due, che le
impediscono di estendersi all'mfinito. La terza distinzione
contiene una discussione prettamente teologica sugli attributi delle tre
persone divine, e riguarda in modo meno diretto il tema della nostra
ricerca. Si vuole solo osservare come anche questa prospettiva permetta a
Gioacchino di insistere sul concetto di relazione come elemento centrale
per una corretta interpretazione del problema: la potenza, la sapienza e
la carita, caratteristiche che vengono tradizionalmente attribuite al
Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non sono da concepire come
elementi distinti e separabili tra loro, dal momento che «tutta la
trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e perfetta sapienza, tutta
la trinita e perfetto amore» 39 . Conseguentemente «non sono maggiori o
hanno di piu le tre persone, di quello che ha ciascuna, e non ha meno
una, di quello che hanno le tre insieme» 40 .
Nella quarta distinzione si introduce un nuovo elemento
nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il
vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma da
un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene generato
il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che procede da entrambi.
L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti piuttosto originali,
strutturandosi sulla base di un parallelismo ricercato tra
39 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 31.
40 Ibidem. 16 l'argomento teologico
e la nostra modalita di scrittura. Il procedere della scrittura cristiana
da sinistra verso destra starebbe infatti a conferma del fatto che la
creazione ha inizio col Padre, che genera in primo luogo il Figlio (lato
e vertice sinistro), la cui unione produce lo Spirito Santo (inteso come
vertice destro). Al contrario, stando alle Scritture, in epoca ebraica
Cristo e stato concepito attraverso il corpo di Maria «per opera dello
Spirito Santo» 41 . Questo fatto e testimoniato dal procedere della
scrittura ebraica da destra verso sinistra. Gioacchino, del resto, si
rende conto che gli elementi introdotti in queste pagine potrebbero
indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone divine, il che
sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi, spingere la lettura
interpretativa ancora piu in la, osservando che il segmento superiore e
tale dal momento che in origine non e soltanto il Padre, ma l'intera
trinita, poiche «presso Dio non c'e mutamento, ne l'ombra della
vicissitudine» 42 . La forma trapezoidale del salterio indica quindi che,
fin dal principio, erano presenti le tre figure della trinita: e questo
l'argomento della quinta distinzione. Il confronto tra la
particolare considerazione del salterio che viene fatta nella quarta e
nella sesta distinzione, permette di mettere in luce ancora una volta la
peculiarity della riflessione di Gioacchino che, basandosi sul recupero
di un'immagine "musicale", oscilla tra le due sponde della
rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica rappresentata dal
canto. Il termine "Onnipotente" che compariva nel vertice del
Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio torna a
essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra invocazione
a Dio. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della ragione, che si
trova a dover contemplare l'incommensurabile perfezione dell'eterna
esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale, inteso da un lato come
strumento di comprensione mistica del mistero divino, dall'altro come
ringraziamento per la grazia concessa. Su questo sfondo Gioacchino
riprende il filo della riflessione teorica: l'affermazione dell'eterna
esistenza della trinita lascia aperto il problema relativo al suo
manifestarsi all'interno del tempo umano: perche Dio, essendo trino fin
dal principio, non si e da subito rivelato all'uomo nella sua essenza piu
autentica? La domanda introduce all'interno di una prospettiva
escatologica, che Gioacchino argomenta attraverso una riflessione sul
percorso di maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso
aspettare che 41 Mt 1,18; Lc 1,26-38; Gv 1,6. 42
Gcl,17. 17 l'uomo fosse in grado di
comprendere la sua rivelazione: per questo a quel «popolo ancora rozzo»
43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si mostro solo come Padre,
perche la sua natura trina sarebbe stata fraintesa in senso politeista.
In seguito solo a qualche spirito particolarmente elevato, come quello
dei profeti, e stato dato di comprendere il mistero, come dimostra Isaia
che in piu punti si rivolge "apertamente" al Figlio: «Signore,
chi crede al nostro udito, e il braccio di Dio a chi e stato rivelato? E
salira come un virgulto davanti a lui e come una radice dalla terra
assetata» 44 . Solo con l'avanzare della maturazione dell'uomo, cioe con
il popolo cristiano, «piu vecchio nell'eta» 45 , Dio si e potuto mostrare
nella sua reale essenza. A questo schema apparentemente binario, che si
struttura in riferimento alia contrapposizione Antico-Nuovo Testamento,
Gioacchino fa seguire un'interpretazione ternaria del tempo della storia
dell'uomo, che viene suddiviso in riferimento alle figure della trinita
46 . L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in
cui all'epoca del timore e a quella dell'amore, che
tradizionalmente corrispondono al tempo della Legge e quello inaugurato
con la venuta di Cristo, Gioacchino fa seguire una terza epoca, che sta
per cominciare, sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio questa epoca
rappresenta il culmine del disegno divino: come la prima fu quella del
Padre, e la seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del Figlio
insieme, cosi la terza sara l'epoca della trinita nella sua unita
perfetta, in cui saranno presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio
e lo Spirito. Di fronte aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il
trionfo dei giusti, l'intento e quello di ammonire «coloro che abitano in
mezzo a Babilonia, a fuggire da essa» 47 . Il richiamo al secondo libro
permette di notare 43 Gioacchino da Fiore, II salterio a
died corde, cit., p. 46. 44 Is 53,1. 45 Gioacchino da
Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 47. 46 La compresenza di
questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato fin da
subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si
e infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione
dell'abate, che da un lato poteva essere letto come ortodosso (in
relazione al modello binario), dall'altro eterodosso (ponendo l'accento
su quello ternario). La storiografia successiva ha a lungo sottovalutato
il problema. Alcuni studiosi hanno provato ad interpretare il modello
binario in relazione alia prospettiva storica e quello ternario a quella
mistica. Si noti che la questione costituisce un altro elemento di forte
distanza tra il pensiero di Gioacchino e quello di Agostino. Per una piu
curata riflessione sul tema si veda ancora: G. L. Potesta, Il tempo
dell'Apocalisse, cit. 47 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died
corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al versetto di Ap. 18, 4.
18 come anche in questo contesto il limite della
comprensione razionale, che si deve arrestare di fronte alia grandezza
del disegno divino, rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove
assolutamente centrale e l'elemento musicale: «a noi ormai deve bastare
di avere in questo modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di
dover cantare e salmodiare» 48 . Tornando alia sesta distinzione,
Gioacchino procede facendo corrispondere alia tripartizione della storia
tre tipologie di figure umane, distinte tra loro in riferimento alia
propria mansione principale. Al livello piu basso si collocano i laici,
di cui e proprio il lavoro manuale, poi i chierici, che hanno come
compito lo studio e l'insegnamento, e infine i monaci che si
caratterizzano per il canto di lode e la salmodia. E 1 da notare come il
percorso che si delinea attraverso queste tre figure non rappresenta solo
il riconoscimento di una differenziazione sociale tra gli uomini, ma e
anche l'indicazione per una crescita individuale che innalza l'animo
verso Dio. Questi tre stadi sono resi da Gioacchino attraverso una
similitudine: «nello stato di timore baciamo i piedi, in quello di
apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo la bocca». E dunque
«e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio la perseveranza nel bacio
della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio della sua bocca» 49 .
L'elemento della bocca viene in questo contesto recuperato, sulla scia di
un'esegesi molto diffusa, per intendere il mezzo attraverso cui si
dispiega nel mondo la creazione e prende forma il Verbo. Questo rimando
ideale al bacio della bocca sembra quindi voler ribadire come sia proprio
l'elemento sonoro a mettere in comunicazione l'uomo e Dio: da un lato
come canto della salmodia, mansione propria dell'uomo spiritualmente piu
elevato, dall'altro come espressione della potenza creatrice di
Dio. Solo nella settima distinzione Gioacchino prende in considerazione
direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo
48 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 171.
Si vuole osservare che la lettura qui proposta, che insiste sull'elemento
musicale, permette di attribuire al terzo libro una valenza forse
maggiore rispetto a quella che sembra generalmente assumere. Se
l'elemento musicale della salmodia, che contraddistingue la terza epoca,
e l'elemento che permette di oltrepassare le facolta della ragione, dal
momento che l'avvento della pienezza divina sembra escludere la possibility
di una comprensione razionale, le pagine finali, dal momento che
istruiscono sulle modalita del canto, possono essere interpretate non
solo come un «semplicissimo libro che si limita a fornire indicazioni per
la recita dei salmi» (K.-V. Selge, Prefazione, 2006), ma come un
ammonimento di Gioacchino sul modo di comportarsi per tutti coloro che
vivranno il tempo dello Spirito. 49 Gioacchino da Fiore, II salterio
a dieci corde, cit., p. 53. 19 caso possiamo
distinguere un impiego musicale dell'immagine da uno piu propriamente
teologico. Il primo approccio si basa sull'interpretazione delle corde
come elemento produttore di suono. Da qui si osserva che le corde sono
fissate indissolubilmente, alle loro estremita, ai lati che simboleggiano
il Figlio e lo Spirito, mentre la loro vibrazione si propaga verso il
vertice del Padre. Questo a intendere che il nostro canto deve essere
innalzato verso quest'ultimo a partire dal messaggio della rivelazione
contenuto nel Vangelo. D'altra parte, il suono e reso udibile e prende
corpo attraverso la cassa armonica rappresentata dal cerchio, a
sottolineare ancora una volta 1' indissolubility dell'essere trinitario.
L'interpretazione piu propriamente teologica delle corde e da collocare
nel contesto escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il
loro numero e la loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia
degli eletti nella citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio,
piu la corda e breve, dal momento che sono meno coloro che riescono ad
arrivarci. Alio stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota,
in modo che «la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella
santa e celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso
l'unita non lascia nascere il livore» 50 . Forse in questa richiamo del
suono acuto delle corde piu vicine a Dio come espressione della
difficolta insita nel percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento
di ripresa delle argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile
soltanto a rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante
sembra invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il
tema dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel
canto awicina il nostro animo alia sfera divina. «Dio fece questo perche
le corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino
con la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale
tutti, gioiosi, hanno la loro dimora». 51 5.
Conclusione Per tracciare un bilancio della ricerca condotta,
bisogna affermare, in primo luogo, che non emerge dai testi considerati
una tesi "forte" che possa sintetizzare una presa di posizione
chiara. Certamente, nel 50 Ivi, p. 59. 51 Ivi,
p. 60. 20 complesso, le indicazioni piu
interessanti emergono dal testo di Gioacchino, in cui si nota che una
lettura dell'opera orientata in senso un po 1 piu "musicale",
potrebbe rappresentare una prospettiva attraverso cui reinterpretare
alcuni passi e metterne in luce alcune sfumature. La ricerca, in
definitiva, si pone quindi come un primo passo che schiude degli
orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata in molte
direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che l'analisi dei
testi considerati si inserisce nella complessa problematica del rapporto
tra Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito teologico e
filosofico, ben prima che in quello musicale, i propri motivi
argomentativi. In quest'ottica, il confronto tra le due prospettive
musicali legate aH'immagine del salterio, proprio perche maturato
inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico e morale,
permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una
riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da
allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale nel
pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di
Agostino. Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via
teorica potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata
delle pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo.
Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito
qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente
affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde.
21 Tavola Illustrativa Prima
distinzione: %. i n s .2
Seconda distinzione: Quarta distinzione:
/attraverso GesuCristo nell'unita dello Spirito \ fig.
4 Sesta distinzione: /attraverso
GesuCristo nell'unita dello Spirito \ fig. 5 22
Bibliografia AGOSTINO, Tractatus de decern chordis
[tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato sul salterio
a died corde; in Agostino, Discorsi sul vecchio testamento, Citta
Nuova, Roma 1979]. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T.
Mariucci, V. Tarulli, Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera
Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta Nuova, Roma 1979]. CATTIN, G.,
La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1979. GALLO, A., La
polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1991. GIOACCHINO DA FIORE,
Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F. Troncarelli, K. V.
Selge, II salterio a died corde, Viella, Roma 2004]. POTESTA, G. L., Il
tempo dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Roma
Bari 2004. SACHS, C, The history of musical instruments, W. W. Norton
& Company, 1940 [tr. it. di M. Papini, Storia degli strumenti
musicali, Mondadori, Milano 1996]. SEQUERI, P., Musica e
mistica, Libreria Editrice Vaticana, Citta del Vaticano 2005.Gioacchino
da Fiore. Fiore. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Fiore: implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760692114/in/dateposted-public/
Fiormonte Domenico – filosofo.
Grce e Fiorentino
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Filosofo. Grice: “I like
Fiorentino; for one, he influenced Gentile – Fiorentino managed to write two
important tracts: a systematic ‘manuale’, of ‘elementi di filosofia’ with a
section on semantics, communication, and language – his view of the latitudinal
history of philosophy – and a ‘storia della filosofia,’ again seen as a manual,
literally handbook! Both very clear and to the right audience!” Figlio di Gennaro,
chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno
Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e
venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia
filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti.
Trascorre il suo tempo libero nel caffè letterario "Cherry Plum",
luogo d'élite che attira gli filosofi. Iniziò a farsi conoscere tra i coetanei
di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasferì a
Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente
divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione.
All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila
soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida,
Fiorentino gli si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando:
«Viva l'annessione, vogliamo l'annessione!» Dopo l'Unità d'Italia, venne
nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di
intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione.
Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna. Da Spoleto
presto passa a Maddaloni, dove approfondì sempre più i suoi studi. Pubblica Il
“panteismo” di Bruno. Rivedeva molto di sé nel carattere e nel martirio
di Bruno. La stessa affinità che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti,
grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era
stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana,
contemporaneamente si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto
filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse “La filosofia romana”; Pomponazzi;
e “Scritti varii”. Seguì l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si
trasferì a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica “Elementi di filosofia” e il Manuale
di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato.
Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblicò
"Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano,
Napoli). Altre opere: “Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S.
Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalità dell'anima e Del libero
arbitrio di S. Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo d’Aosta, Messina, Sul
panteismo di Giordano Bruno” (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca”
(Firenze); “Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del
secolo XVI” (Firenze); “Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel
Risorgimento [Rinascimento] italiano” (Firenze); “La filosofia contemporanea in
Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); “Elementi
di filosofia, Napoli); “Della vita e opere di Grazia, Napoli); “Manuale di
storia della filosofia, Napoli); “Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento,
Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo
ed., Roma, G. Galati, Interpretazione dell'opera, in «Archivio storico della
filosofia italiana», G. Oldrini, “La cultura filosofica napoletana
dell'Ottocento” (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo
italiano, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Treccani
Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Il contributo italiano alla sFilosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Formazione del linguaggio. Il linguaggio e la
prerogativa umana. Tra tutti gli animali l’uomo solo parla: e poiché l’uomo
solo è forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a, è naturale che tra cotesti
due fatti |uU£li^tJtp si) cercato di trovare un nesso necessario. Ammessa
questa mutua connessione, la domanda che naturalmente ne deriva, è questa. L’uomo
parla perchè ragiona? o, al rovescio, ragiona perchè parla? Teoria K
tradizionalistica sull’origine del linguaggio e sua critica. Le due opposte
sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de’ tradizionalisti non
solo ha ammesso la necessità della parola per pensare, ma, com’era inevitabile,
ha riconosciuto necessaria la rivelazione divina per la origine del linguaggio
umano. Il corollario e perfettamente logico. Se l’uomo non può inventar nulla
senza pensare; e se, per pensare, c’è (i) [Principale rappresentante moderno
del tradizionalismo è il francese visconte Luigi de Bonald). Jrr*“ ilwlWuii) 6
JL^XÒru) di mestieri la parola, il linguaggio non poteva più derivare
dall’uomo; e quindi a lui doveva essere stato rivelato da Dio. Una difficoltà
molto ovvia non è stata però tenuta in conto. Come si fa a capire il
linguaggio, se non è opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nell’animo
nostro il pensiero associatovi? Perchè il cavallo, il cane, benché odano il
suono delle parole, non ne comprendono il significato! Gioberti, che rinfresca
il tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero p
rimitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli
tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per Gioberti, non è il fattore
delle idee, ma l’istrumento indispensabile, perchè esse siano ripensate. Poiché
però le idee nell’intuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere
la rivelazione per l’origine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte
astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poiché l’intuito
delle idee è sempre presente, e poiché il suono del linguaggio colpisce il
bambino fin dal suo primo nascere, perchè questi noi comprende subito, nò
subito parla? Dati i due co-efficienti, l’intuito dell’idea e il suono esterno
della parola, l’intelligenza dovrebbe immantinenti balzar fuora; ed intanto non
è così, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d’ intendere il valore del
linguaggio. A (oM^Y^O l*< Tt.cC)) Teoria r azionale y. Lasciando dunque la
mistica spiegazione di una rivelazione divina, la quale s’impiglierebbe in
altre difficoltà, a spiegare, p. es., come Iddio, puro spirito, possa
sensibilmente parlare, veniamo alla spiegazione umana. Linguaggio e universali.
L’uomo parla soltanto q uando è capace di idee generali. Perciò noi abbiamo
a<mr>v fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio,
che n 7 è la conseguenza. Come l’individuo è chiuso in sè ed irrelativo, così
JL^ la sensazione, che vi corrisponde, è muta. Il linguaggio è comuni
chevolezza tra spirito e spirito, e ciò che v? ha T di comune tra loro è, e non
può essere altro, che l’universale. 1***^*» (s) I nomi. L’universale ha però
diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione
comune a più individui percepit i. In questo si fonda l’imposizione dei nomi, che
si desume sempre da quella proprietà che più ha colpito l’immaginazione di un
mainili <U*^fvTcj. popolo. Così, p. es., guardando il mare, imo può {
rimanere più scosso dalla sua mobilità, un altro dalla nr ] sua ampiezza, un
altro dal suo colore; e da ciascuna di queste proprietà può imporgli un nome
diverso. Le altre note rimangono in seconda linea. Fermarsi sopra di una nota,
a preferenza di un’altra, dipende poi dal diverso genio del popolo che si crea
il linguaggio. Perciò non senza ragione la filologia moderna s’ingegna
d’indovinare le concezioni nascenti devòlversi popoli dalle radici delle parole
primitive. Il con questo metodo, riscontrando talune parole sanscrite, greche e
latine, che si trovano le stesse, appresso tre rami di una sola razza, dimostra
a che grado di civiltà essi fossero pervenuti prima di sparpagliarsi per varie
ragioni. Comune, p. es., è la parola che significa il umo. Dunque, prima di
dividersi, questi popoli avevano appreso ad estrarre il succo dalle uve. (A^tVvJ
— Vc^fi IktcrrtsblC? <&Jt*/fl'n'tT tZjÉXjjrtmu Z Ain. f"r2rH^-££
RaA^ L ^ia^AA*-**** t^x<^ 7 r •<!T- J e /e altre parti del discorso.
L’imposizione de’ nomi costituisce però la materia greggia di una lingua; e
corrisponde appunto alla virtù rappresentativa dello spirito. L’attività dello
spirito stesso è *signi-ficata* dal verbo, che è perciò l’elemento organico, e
dalla cui più perfetta determinazione dipende la perfezione maggiore di una
lingua. Le altre particelle, — preposizioni, congiunzioni, avverbi, — esprimono
l’elemento formale e categorico del pensiero. Esprimono astrattamente le
relazioni di cui sono capaci tanto gli oggetti, quanto l’attività medesima del
nostro pensiero. [ >*<0 non x 3) Radici e flessioni. Nel nome e nel verbo
si distingue la rappresentazione originaria da quelle determinazioni che dip
oi, nel processo del linguaggio, le si sogliono aggiungere; c’è quindi in
entrambi la radice e la flessione. Quando la lingua è sul nascere, il nome ed
il verbo sono e spressi da un mono-sillabo, che rinchiude, come in un germe, la
rappresentazione primitiva di una cosa o di un’azione. Quando poi si comincia a
distinguere meglio le determinazioni che scampagnano.* o la cosa o Fazione,
allora le varie modificazioni della 1 radice primitiva esprimono i numeri, i
generi, i casi, le persone, il tempo; e tali flessioni si dicono declinazioni -
1 —: ^ —. — V i i...., coniugazioni, secondo che modificano il nome o il 7
verbo. Di questi due elementi fondamentali del nostro linguaggio, il verbo va
congiunto con la categoria di tempo, il nome no. La ragione di tal divario è
questa, che., il verbo esprime l’azione, la quale senza il tempo non si
potrebbe classificare con precisione; laddove il porne, esprimendo il soggetto
o l’oggetto de l’azione, stessa, *signi-fica* qualcosa di iienjnuignte, e si
circoscrive piuttosto con le relazioni spaziali. Nelle lingue più ricche,
difatti, tra i casi, che esprimono le diverse modificazioni de’nomi, si suole
trovare quello che i grammatici chiamano locative, e indica il luogo dove la
cosa si trova. Quanto più numerose e sottili sono le flessioni che fissano le
varie sfumature dell’azione, tanto più ricca e più precisa è una lingua; quanto
più fine sono le gradazioni dell’azione, che lo spirito può cogliere, e
rivelare nel linguaggio; tanto è maggiore l’attitudine artistica e scientifica.
Dove, invece, si arriva appena a significare 1’azione in una forma rozza, e
quasi direi all’ingrosso, quivi manca il genio artistico e la speculazione. La
perfezione dell’organismo sintattico rivela la potenza creatrice ed inventiva
di un popolo. La lingua greca mostra l’eccellenza di quella coltissima nazione:
e criterio di quella eccellenza è la compiuta forma del verbo, che in quella
lingua basta ad esprimere ogni più delicata e fuggevol forma del pensiero. Le
particelle. Condizione primissima del filosofare è una lingua la quale jgossa
astrarre, e fissare le relazioni in sfe, ed indipendentemente dai proprii
termini. Quindi le particelle, che diciamo preposizioni, congiunzioni ed
avverbii, e che sono come le giunture del linguaggio, diventano un aiuto
potentissimo, anzi un istrumento indispensabile della speculazione. Per esse
noi pensiamo le relazioni di tempo e di spazio, di causa e di effetto, di mezzo
e di fine, e simili, non solo in quanto si trovano, dirò così, incorporate coi
termini fra cui tramezzano; ma le pensiamo sci o lte da ogni rappresentazione e
come concetti puri. Il dove, il quando, il di, il da, il per, esprimono il
luogo, il tempo, la proprietà, la provenienza, il mezzo, come categorie a se,
che noi applichiamo ai nomi ed ai verbi, producendo così l’organismo del *period*.
L’abbondanza di tali particelle è parimenti indizio della perfezione di una
lingua. pajth'cfiiU'- i) C’ è dunque nella lingua tre gradi. C’è la ra
ppresentazione della cosa o dell’azione, espressa dalla nuda radice. C’è la
rappresentazione determinata per mezzo de’ concetti puri, espressa dalla flessione;
e ci sono infine i concetti puri, in s&J astratti da ogni rappresentazione,
e sono le particelle invariabili. 4. Sviluppo delle lingue.I linguaggi barbari
e rozzi (si arrestano alle prime, alle radici mono-sillabiche, alle semplici
rappresentazioni; o, tutto al più, riescono a con-glutinarle insieme. Le lingue
sviluppate hanno flessioni; hanno cioè nomi e verbi perfettamente determinati;
e Analmente hanno un ricco corredo di part i cell e^signiflcabrici delle
relazioni universali. Delle particelle, di cui parliamo, due lingue hanno forse
maggior copia, la greca fra le antiche, la tedesca fra le moderne; onde Xmo viene
la loro maggiore attitudine a *sig-nificare* i concetti speculativi. Gli
elementi delle lingue secondo M, Miiller. In conformità alle osservazioni da
noi riferite finora, giova allegare l’autorità di Max ]\IiUl er J ), il quale,
dopo sottili indagini, conclude, che tutte le lingue, senza eccezione di sorta,
passate pel crogiuolo della grammatical comparata, sono risultate composte di
due elementi (Max Miiller, Letture sulla scienza del linguaggio, e Nuove
letture, trad. in ital. da Nerucci]. costitutivi; di radici *attributive*,
" cioè, e radici *dimostrative*. Le radici attributive servono a *sig-nificare*
una meidesima qualità primitiva, che si attribuisce ad un qualche essere. Le
radici dimostrative, invece, servono ad esprimere una determinazione meramente
formale. Lq j flessioni, consistenti nelle declinazioni de’ nomi, e nelle
coniugazioni de’ verbi, nascono dalla unione organica delle due differenti
specie di radici in una sola parola. Di modo che, anche filologicamente,
apparirebbe manifesta la distinzione originaria di un *elemento attributivo* e
di un *elemento dimostrativo* nella lingua; che corrisponderebbero al contenuto
(o materia) il primo, ed alla *forma* del pensiero il secondo. La compenetrazione
di questi due elementi primitivi non è uguale in tutte le famiglie delle lingue
che si parlano. è perfetta, e perciò a mala pena discernibile nelle lingue
ariane; è imperfetta, e perciò più facilmente riconoscibile, nelle lingue
semitiche. Apprendimento delle lingue. — Altra è la funzione, che si richiede a
formare la lingua; altra è quella dello impararla, formata che sia; benché le
due funzioni abbiano, e debbano avere, alcunché di comune. Prevale rimmaginazione
produttiva nella formazione primitiva dei linguaggi; prevale la ri-produttiva
nella loro apprensione. Il bambino che nasce in una società progredita non deve
far altro, che assimilarsi il linguaggio materno così coin 7 è stato
tramandato. Egli impiega in questo lavoro assimilativo i primi cinque anni
della sua fanciullezza, durante il qual tempo impara più, come diceva Gian
Paolo), che non in altrettanti anni eli accademia. La sua mente vergine e
robusta si arricchisce ben presto di quel tesoro tradizionale, eh’ ei si appropria
e fa suo, riponendolo nella fresca e tenace memoria. L’apprendimento delle
lingue, già si facile in questa prima età, si va poi di mano in mano rendendo
malagevole, perchè la memoria con gli anni si affievolisce, e diviene men
facile a ricevere, e men fedele nel ritenere. ly [Gian Paolo Riehter, grande
scrittore umorista, tedesco]. Wikipedia Ricerca Marco Porcio Catone
politico, generale e scrittore romano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri personaggi con lo stesso nome, vedi
Marco Porcio Catone (disambigua). Marco Porcio Catone Project Rome logo
Clear.png Censore della Repubblica romana Marco Porcio Caton Major.jpg
Particolare del Patrizio Torlonia, busto identificato con Catone il Censore
Nome originaleMarcus Porcius Cato Nascita234 a.C. ca. Tusculum Morte 149 a.C. Roma ConiugeLicinia
Salonia FigliMarco Porcio Catone Liciniano Marco Porcio Catone Saloniano
GensPorcia PadreMarco Porcio Questura204 a.C. Edilità199 a.C. Pretura198 a.C.
Consolato195 a.C. Censura184 a.C. (LA) «Ceterum censeo Carthaginem esse
delendam.» (IT) «Per il resto ritengo che Cartagine debba essere
distrutta.» (Porcio Catone) Marco Porcio Catone (in latino: Marcus
Porcius Cato; nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum, 234 a.C. circa –
Roma, 149 a.C.) è stato un politico, generale e scrittore romano, chiamato
anche Catone il Censore (Cato Censor), Catone il Sapiente (Cato Sapiens),
Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il Vecchio per aver superato di molto
l'età media massima di vita allora a Roma o Catone il Maggiore(Cato Maior) per
distinguerlo dal pronipote Catone l'Uticense. BiografiaModifica Ritratto Modifica
Plutarco, autore delle Vite parallele, dà questo ritratto di Catone:
«[…] Quanto al suo aspetto, aveva capelli rossastri e occhi azzurri, come
ci rivela l'autore di questo poco benevolo epigramma: “Rosso, mordace,
occhiazzurro, Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade.”[1]»
«Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a qualunque uso, era
tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale -
saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari.[1]» Origini
familiariModifica De re rustica, 1794 Nacque nel 234 a. C. a Tusculum, da
un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche servizio
militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più importanti
cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini,
perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente
quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione
di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore
(204), edile (199), pretore(198) e console nel 195 percorrendo tutte le tappe
del cursus honorum assieme al suo vecchio protettore; nel 184 divenne infine
censore. Marco Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens
Porcia. Ebbe due mogli: la prima fu Licinia, una aristocratica della Gens
Licinia, da cui ebbe come figlio Marco Porcio Catone Liciniano; la seconda, è
Salonia, figlia di un suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di
Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando il Censore
aveva 80 anni. Carriera politica Modifica
«I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni
pubblici nelle ricchezze e negli onori» (Marco Porcio Catone, citato in
Aulo Gellio, Notti attiche, XI, 18, 18) Durante i suoi primi anni di carriera
si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra
punica per contenere il lusso e le spese esagerate da parte delle donne. Nel
204 a.C.prestò servizio in Africa, come questore con Scipione l'Africano ma lo
abbandonò dopo un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in
Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità pubblica,
e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente, guadagnando di conseguenza la
fama di trionfatore (194). Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di tribuno
militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Antioco
III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella battaglia delle
Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria dei romani, che
segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Nel 189 a.C. condusse un
processo sia contro Scipione l'Africano sia contro il fratello Scipione
l'Asiatico, accusandoli di aver concesso dei favori personali al re di Siria
Antioco III e di aver dissipato il tesoro dello Stato. Il caso degli Scipioni
consiste in uno dei più grandi scandali della Repubblica Romana, considerando
che, soprattutto Scipione L'Africano, era considerato l'eroe della Seconda
Guerra Punica. Opera pubblicaModifica La sua reputazione di soldato era
quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo stato a
casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche pubbliche e dei
generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente coinvolto nel processo
per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico), fu tuttavia lo spirito
che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione l'Africano, che si rifiutò
di rispondere all'accusa, affermando solo: "Romani, questo è il giorno in
cui io sconfissi Annibale", venendo assolto per acclamazione, trovò
necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella sua villa a Liternum. L'ostilità
di Porcio Catone risaliva alla campagna d'Africa quando discusse con Scipione
per l'eccessiva distribuzione del bottino tra le truppe, e la vita sfarzosa e
stravagante che quest'ultimo conduceva. CensoreModifica Al secondo
tentativo, nel 184, egli fu eletto censore ed esercitò questa carica per
quattro anni così bene che gli venne assegnato il soprannome di Censore (anche
per il suo carattere severo, per il suo austero moralismo e per l'asprezza
delle critiche rivolte da lui contro ogni indizio di corruzione delle antiche
virtù romane). Contro l'ellenismoModifica Catone si oppose inoltre
all'ellenizzazione, ossia il diffondersi della cultura ellenistica, che egli
riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero romano,
sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo individuo. Fu
nell'esercizio della carica di censore che questa sua determinazione fu più
duramente esibita e ovviamente il motivo dal quale gli derivò il suo celebre
soprannome. Revisionò con inflessibile severità la lista dei senatori e degli
equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva indegni, sia per quanto
riguarda la moralità, che per la mancanza dei requisiti economici previsti.
L'espulsione di Lucio Quinzio Flaminino per ingiustificata crudeltà, fu un
esempio della sua rigida giustizia. Contro il lussoModifica La sua lotta
contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli abiti e gli
ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani schiavi comprati
come concubini o favoriti domestici (leggi sumptuariae). Nel 181 a.C. appoggiò
la lex Orchia(secondo altri egli prima si oppose alla sua introduzione, e
successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un limite al numero
di ospiti in un ricevimento, e nel 169 a.C. la lex Voconia, uno dei
provvedimenti che miravano a impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza
nelle mani delle donne. Con le donne di casa, mogli, figlie o schiave, fu assai
severo, fino a sfiorare talvolta la tirannia; una delle cause di dissenso con
gli Scipioni, era proprio la libertà e il lusso che questi concedevano alle
loro donne. Nei confronti delle donne in realtà Catone appare quasi un
nemico, penalizzandole in ogni modo: ne limitò il lusso degli abiti e dei
gioielli, si oppose al possesso da parte della donna di denaro e ricchezza,
sempre in difesa dei valori morali della Repubblica. Contro i
BaccanaliModifica Fu assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più
conservatori, dalla diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli
attribuì all'influenza negativa dei costumi greci; perciò sollecitò con
veemenza l'espulsione dei filosofi greci (Carneade, Diogene lo Stoico e
Critolao), che erano giunti come ambasciatori da Atene, sulla base della
pericolosa influenza delle idee diffuse da costoro. Contro i medici Modifica Catone provava ripugnanza per i
medici, che erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo
storico, e dei suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante se il Senato non
avesse niente di più importante da discutere del fatto che qualche greco
dovesse morire a Roma o nella sua terra. Era quasi ottantenne quando, secondo
quanto dicono le fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura
greca; anche se, dopo aver esaminato i suoi scritti, è verosimile ritenere che
possa aver avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua
vita. Contro CartagineModifica Il suo ultimo impegno pubblico fu di
spronare i suoi compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di
Cartagine. Nel 157 a.C. fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare
tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare e i
commissari ritornarono a casa. Ma Porcio Catone fu colpito dalle prove della
prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincerlo che la sicurezza di Roma
dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine. Da quel momento egli continuò
a ripetere in Senato: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse.» ("Per il
resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta."). È noto che egli
ripeteva ciò alla conclusione di ogni suo discorso. Altre attività Modifica Riguardo alle altre questioni
egli fece riparare gli acquedotti di Roma, pulire le fognature, impedì a soggetti
privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale, ordinò la
demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la prima
basilica nel Foro vicino alla Curia (Livio, "Historiae", 39.44;
Plutarco, "Marcus Cato", 19). Aumentò inoltre la somma dovuta allo
stato dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo
diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.
MorteModifica Dalla data della sua carica di censore (184 a.C.) alla sua morte,
avvenuta nel 149 a.C. sotto il consolato di Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio
Censorino[2], Porcio Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma
continuò a distinguersi in Senato come tenace oppositore ad ogni nuova
influenza. Solo dopo la sua morte si iniziò la spedizione contro
Cartagine (149 a.C.), che lui aveva voluto. La visione della
societàModifica Per Porcio Catone la vita individuale era un continuo
auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei molti. Egli riteneva
il singolo pater come il principio della famiglia, e la famiglia come il
principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione del suo tempo egli
realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la medesima applicazione
dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre severo, un inflessibile
e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca differenza, nel modo in cui
trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo orgoglio soltanto lo indusse a
prestare una più calorosa attenzione verso i figli. RiconoscimentiModifica
Per i romani stessi ci fu poco nella sua condotta che sembrasse necessario
censurare; fu sempre rispettato e considerato come un esempio tradizionale
degli antichi e più genuini costumi romani. Nel notevole passo (XXXIX, 40) in
cui Livio descrive il carattere di Porcio Catone, non c'è alcuna parola di
biasimo per la rigida disciplina della sua condotta domestica. Opera
letterariaModifica Porcio Catone è tra le principali personalità della
letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu
autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva
difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti
dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio
Marco, i Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si
conserva per intero soltanto il Liber de agri cultura, in cui esamina,
soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età
imperiale.[3] Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche
in un Carmen de moribus di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi
frammenti. Fin dalla giovinezza si dedicò all'attività oratoria:
pronunciò in tutta la sua vita oltre centocinquanta orazioni,[4] ma sono attualmente
conservati frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni
diverse.[5] Si distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi
pronunciati in senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes
iudiciales, discorsi giudiziari di accusa o difesa. Fu inoltre autore
nella vecchiaia della prima opera storiografica in lingua latina, le Origines,
il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II
secolo a.C. Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si
conservano scarsi frammenti.[6] Catone individua nel culmine del percorso
educativo la formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore,
esperto nel dire), espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo
romano.[7] L'opera letteraria di Porcio Catone, in particolare quella
storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone,[8]che definì il censore primo
grande oratore romano, e il più degno d'essere letto. Nella prima età
imperiale, nonostante l'ideologia di Porcio Catone coincidesse in buona parte
con la politica restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di
Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi delle
tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu oggetto di grandi
attenzioni, seppure a carattere esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e
Cornelio Frontone ne tramandarono molti frammenti, e l'imperatore Adriano
dichiarò di preferire Porcio Catone anche allo stesso Cicerone.[9] A partire
dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse
la conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di
proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e denominate
Disticha Catonis e Monosticha Catonis, ma composte probabilmente nel III secolo
d.C.[9] NoteModifica ^ a b Plutarco, Vita di Marco Catone, 1. ^ Velleio
Patercolo, Historiæ Romanæ ad M. Vinicium libri duo, I,13. ^ Antonio Saltini,
Storia delle scienze agrarie, vol. I, Dalle civiltà mediterranee al
Rinascimento europeo, 3ª ediz., Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, pp. 41-50. ^
Cicerone, Brutus, 65. ^ G. Pontiggia - M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia
e testi, Milano, Principato, 1996-98, vol. I, p. 159. ^ Pontiggia - Grandi, p.
164. ^ U. Avalle - M. Maranzana, Pedagogia, vol. I, Dall'età antica al
Medioevo, Torino, Paravia, 2010, p. ? ^ Brutus, 63-69. ^ a b Pontiggia -
Grandi, p. 165. Edizioni Modifica
Scriptores rei rusticae, Venetiis, apud Nicolaum Ienson, 1472 [Contiene i De re
rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio] (editio
princeps). De agri cultura liber, Recognovit Henricus Keil, Lipsiae, in aedibus
B.G. Teubneri, 1895. De agri cultura, ad fidem Florentini codicis deperditi
edidit Antonius Mazzarino, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1962. Marci Porci
Catonis Oratio pro Rhodiensibus. Catone, l'Oriente Greco e gli Imprenditori
Romani. Introduzione, Edizione Critica dei Frammenti, Traduzione Ital. e
Commento, a cura di Gualtiero Calboli, Bologna 1978. Traduzioni italiane Modifica
Catone, De re rustica, con note, [Traduzione di Giuseppe Compagnoni], Tomo
I-III, Venezia, nella stamperia Palese, 1792-1794 («Rustici latini
volgarizzati»). Catone, Dell'agricoltura, Versione di Alessandro Donati,
Milano, Notari, 1929. Liber de agricoltura, Roma, Ramo editoriale degli
agricoltori, 1964. L'agricoltura, a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli,
Milano, A. Mondadori, 2000. Opere, a cura di Paolo Cugusi e Maria Teresa
Sblendorio Cugusi, 2 voll., Torino, UTET, 2001. BibliografiaModifica (Per la
bibliografia specifica sul De agri cultura e sulle Origines si rimanda alle
rispettive voci) L. Alfonsi, Catone il censore e l'umanesimo romano,
Napoli, Macchiaroli, 1954 (estr.). A.E. Astin, Cato the Censor, Oxford,
Clarendon press, 1978. C.C. Burckhardt, Cato der Censor, Basel, Reinhardt,
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Sulla biografia di Catone maggiore sino al consolato e le sue fonti, Mantova,
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Orazioni del periodo consolare e degli anni posteriori fino alla censura,
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Marmorale, Cato maior, Catania, G. Crisafulli, 1944 (II ed. Bari, Laterza,
1949). C. Ricci, Catone nell'opposizione alla cultura greca e ai grecheggianti.
Nota, Palermo, D. Lao e S. De Luca, 1895. E. Sciarrino, Cato the Censor and the
beginnings of Latin prose. From poetic translation to elite transcription,
Columbus, Ohio State University Press, 2011. Fonti antiche Cicerone, Cato maior
de senectute Cornelio Nepote, Vita M. Porcii Catonis Tito Livio, Ab Urbe
condita, XXXIX, 40 Plutarco, Vita Catonis maioris Voci correlateModifica Marco
Porcio Catone Uticense, bisnipote Altri progetti Modifica Collabora a Wikisource
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o altri file su Marco Porcio Catone Collegamenti esterniModifica Catóne, Marco
Porcio, detto il Censore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Plinio Fraccaro, CATONE, Marco
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Modifica su Wikidata Catone, Marco Porcio detto il Censore, in Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Catóne,
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Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( ES ) Marco Porcio Catone, in
Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Modifica su
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Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi. Modifica su Wikidata ( LA
, IT ) Biblioteca degli scrittori latini con traduzione e note: M. Porcii
Catonis quae supersunt opera, Venetiis excudit Joseph Antonelli, 1846. ( LA
, FR ) Les agronomes latins, Caton, Varron, Columelle, Palladius,
avec la traduction en français, M. Nisard (a cura di), Paris, Firmin Didot
Fréres, 1856, pagg. 1 sgg. Historicorum Romanorum Reliquiae, Hermannus Peter (a
cura di), vol. 1, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae, 1914², pagg. 55-97. M.
Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Henri Jordan (a cura di),
Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1860. Controllo di autorità VIAF ( EN ) 99852885 ·
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v Capitolo I. Sentimento e appetito .... 1 1. Principio
dello spirito pratico. — 2. L’azione riflessa. — 3. L’ appetito. —
4. La sensazione e il sentimento. — B. La duplicità della tendenza
appetitiva. — 6. Divario tra azione riflessa ed appetito. — 7. L’appetito
fonda- mentale. 0 Capitolo IL Piacere e dolore
..... 9 1. Causa del piacere e del dolore. — 2. Il sentimento
prin- cipio d’azione. — 3. Tanto il piacere quanto il dolore sono
stati positivi. — 4. La condizione del piacere. — B. Funzione
biologica del sentimento. — 6. Differenza tra sensazione e sentimento. —
7. Intensità o tono del pia- cere o del dolore. — 8. Osservazioni di
Aristotele sulla natura del piacere. Capitolo III. Desiderio
e istinto .... 19 1. Il desiderio. — 2. L’istinto. — 3. Origine
dell’istinto: dottrina dello Spencer e sua critica. — 4. Carattere
del- l’ operare istintivo. Capitolo IV. Affetti e passioni
.... 2(1 l. L’affetto. — 2. La passione. — 3. Differenze tra
l’af- fetto e la passione. — 4. Le passioni in rapporto alla vita
movale. — 6. Classificazione delle sensazioni. 1 -
248 - l>»g. Capitolo V. Temperamento e carattere ...
35 1. Teoria antica dei temperamenti. — 2. Classificazione
dei temperamenti fatta dal Kant. — 3. Altra classificazione dei
temperamenti. — 4. Uguaglianza originaria o diffe- renza irriducibile
delle nature individuali. Temperamento e carattere. Capitolo
VI. Carattere morale e virtù ... 42 1. Carattere. — 2. Carattere
inorale. — 8. Giudizio valu- tativo o pratico. — 4. Motivi naturali e
motivi etici. — 6. La scienza e la virtù. — 6. Concetto della
virtù. Capitolo VII. Il fine dell’uomo .... 51 1. Il
fine della vita umana secondo Aristotele. — 2. La eudemonia aristotelica.
3. Il fine della vita secondo Kant. — 4. Conclusione.
Capitolo Vili. Il sentimento morale ... 56 1. Concetto del
senso morale. — 2. Origine del senso morale. Capitolo IX. La
volontà 61 -1. Distinzione della volontà dalle attività pratiche
inferiori. — 2. Definizione della volontà. — 3. Ragion pratica,
fini, mezzi. — 4. Rapporto della volontà con l’appetito. — 6.
La spontaneità dello spirito nella volontà e la psico- logia empirica
inglese. Capitolo X. Motivi e libero arbitrio ... 73 1.
La quistione della libertà del volere. — 2. Critica del concetto del
libero arbitrio. — 8. La necessità del fine. 4. Causalità etica,
educabilità e responsabilità. — 6. Critica del determinismo
meccanico di Herbert. Capitolo XI. Fatalismo e determinismo ...
85 1. Concetto del fato. — 2. Il concetto della Provvidenza e
il domma della grazia. — 3. Critica del fatalismo. — 4. Il
determinismo. - 249 — p«g- Capitolo
XII. Motivi generali o determinismo sociale 9fi 1. I motivi generali. —
2. La statistica. — 3. Statistica e libertà. — 4. Osservazione del
Drobiscli. Capitolo XIH. Legge morale ..... 102 1.
Origine della legge morale. — 2. Dottrina teologica e sua critica. — 3.
La dottrina kantiana. — 4. Dottrina aristotelica. Capitolo
XIV. Edonismo e utilitarismo . . . Ili 1. Classificazione dei
sistemi morali. — 2. Cenno storico dell’edonismo e dell’utilitarismo. —
3. L’utilitarismo se- condo il Mill. — 4. Critica della morale del Mill.
— 6. Critica dell’edonismo ; Smitli e Schopenhauer. L'amore. —
6. Riepilogo. Capitolo XV. (Continuazione). Imperativo
catego- rico e idee modello ...... 122 1. Teoria kantiana
dell’imperativo categorico. — 2. Teoria herbartiana delle idee modello. —
3. Critica del forma- lismo kantiano ed herbartiano. Capitolo
XVI. Le virtù singole .... 130 1. Classificazione aristotelica
delle virtù. — 2. La liberalità e la magnanimità. Capitolo
XVII. La giustizia 138 1. La giustizia nell’etica aristotelica. —
2. Giustizia com- mutativa e giustizia distributiva. Capitolo
XVIII. Organismi etici. — Origine della famiglia ........ 143
1. Primo nucleo sociale: la famiglia. — 2. Carattere etico della
famiglia umana. L’amore. — 3. La generazione e il valore etico della
prole. — 4. Il sentimento e il dovere. — 5. Gli elementi della
famiglia e la definizione del ma- trimonio. — 250 -
l'»g- Capitolo XtX. Organismo etico della famiglia .
151 1. La famiglia come organismo etico. — 2. La relazione
tra i coniugi. — 3. Dottrina kantiana del matrimonio. — 4. Dottrina
di Platone e di Aristotele. — 5. Coiteli ia- sione circa la relazione
coniugale. — 6. Relazione tra genitori e figli. — 7. La proprietà e
l’eredità. — 8. Dis- soluzione della famiglia e divorzio.
Capitolo XX. Processo storico della famiglia. . 1G4 1. Età
barbarica. — 2. La famiglia antica. — 3. La schia- vitù e la clientela. —
4. Stabilità della famiglia ed ele- mento religioso delle istituzioni
domestiche. — 5. Indi- pendenza del valore etico della famiglia dalla
religione. Capitolo XXI. Continuazione . . . . .175 1.
Riepilogo. — 2. Gli elementi etici della famiglia romana: a) la patria
potestà; b) l’eredità; e) l’adozione; </) le clientele; fi) riepilogo
e osservazioni. Capitolo XXII. La società civile .... 182
1. Prima limitazione etica del diritto di proprietà. — 2. Ori- gine
della società civile. — 3. Concetto della società ci- vile. — 4.
Contratto. — 5. Valore etico del contratto. — fi. La giustizia nella
società civile. — 7. La libertà civile. — 8. La città. — 9. Passaggio
dalla famiglia alla società civile. — IO. Idealità della società
civile. Capitolo XXIII. Genesi dello Stato . . . 190 1.
Gradi della coscienza civile descritti da Cicerone. — 2. La patria
e la città. — 8. La nazione e lo Stato. — 4. Paragone tra famiglia,
società civile e Stato. — 5. So- stanzialità dello Stato.
Capitolo XXIV. Diverse opinioni su l’origine dello Stato .........
199 1. Idea greca dello Stato. — 2. Dottrina dell’origine di-
vina dello Stato. — 3. Dottrine della origine umana — 251 -
dello Stato: a) Lo Stato derivato dalla forza ; b) lo Stato
derivato dall’istinto; c) lo Stato derivato dal contratto sociale; d) lo
Stato derivato da un’imperativo; e.) lo Stato derivato da un' idea
modello. Capitolo XXV. Organismo dello Stato . . . ‘20S
1. Rapporto fra lo Stato e i cittadini. — 2. La statolatria antica.
— 3. L'individualismo moderno. — 4. Stato po- litico e stato giuridico. —
5. La legge. — 6. Il governo. — 7. La magistratura. — 8. Il fine
dello Stato. — 9. Il diritto punitivo. — 10. Le relazioni esterne dello
Stato, e la guerra. — II. La virtù politica. — 12. Organismo dei
poteri dello Stato. Capitolo XXVI. Lo Stato in <|uanto contiene
altri organismi ........ 228 1. Relazione tra lo Stato
e la famiglia. — 2. Stato e Co- mune. — 3. Stato e associazioni private.
— 4. Stato e Chiesa. I Capitolo XXVII. Relazioni tra Stato e
Stato . . 237 1. Lo Stato e la coscienza comune del genere umano.
— 2. Il commercio. — 3. Ravvicinamento progressivo tra i vari
popoli. — 4. I rapporti internazionali e la paco per- petua. — 5.
L’arbitrato internazionale. — G. La diplo- mazia. — 7. La stampa, il fine
dell’Unianitù e Ih storia. Invitato a curare una nuova edizione
degli Ele- menti di Filosofia di Francesco Fiorentino, accettai
volentieri l’ onorevole invito per due ragioni : una, che può parere
tutta personale : che cioè questo li- bro m’ è caro , perchè è il primo
libro di filosofia che io ho letto ; e i dubbii , suscitati in me da a
lettura di esso, segnano nella mia vita il primo sve- aliarmi consapevole
alla ricerca filosofica. a -, ohe cosi mi si prestava recessione di
soddisfare im antico desiderio mio e di molti Colleglli valorosi,
di rimettere in luce la prima edizione di questi Elementi, - divenuta
assai rara e quasi introvabile (1) , giudi- cata da noi di gran, lunga
superiore alla seconda; „ a quella cioè che è divulgata e ormai quasi
sola nota , per le tante ristampe stereotipe fattene dal signor
Domenico Morano et dal suo figliuolo Um- berto, fino alla 23. a edizione
(ossia alla 21 a ristampa della seconda edizione) pubblicata nel
1901. Ho detto che la prima ragione può parere mera- mente
personale; ma tale, in fondo, non è . gia.cc la mia esperienza m’è stata
sempre indizio evidente d' un pregio intrinseco e sostanziale del libro ,
pur nella 2 a edizione: un prègio che agli occhi miei ha reso
sempre preferibile questo del Fiorentino , con (1) Napoli ,
Domenico Morano ; di pp- Ut) ^ ’ divisa in 2 parti : la I di 33; la
II di 25. I VI i suoi difetti, a
tutti gli altri manuali scolastici di filosofia, che, prima o dopo di
esso, sono stati pub- blicati in Italia, pur pregevoli quale per uno e
quale per un altro rispetto. Questo m’è sembrato che fosse atto , a
differenza degli altri , se studiato come va un testo di filosofia, a
muovere l’intelligenza e a far sentire il bisogno di una elaborazione di
concetti ulteriore, di una più salda logica, di una più chiara e
più alta coscienza; che è poi il fine a cui può e deve mirare quella
prima istituzione filosofica che viene impartita ne’ licei. Ci sono testi
più ordinati,' più lindi , più semplici , più facili , più ricchi ,
e magari più moderni . Ma alla prova,— prova fatta, pur troppo da
molti insegnanti subita da migliaia e migliaia di giovani, — questi testi
riescono o dannosi, o, per lo meno, inutili. Parte, infatti, per la
ricchezza del contenuto (povera ricchezza !) in cui hanno voluto
condensare, e quasi comprimere, a forza di oscuri riassunti , quelle che
sono giudicate le principali dottrine intorno a ciascuna materia, parendo
ai com- pilatori che sarebbe l acuna deplorevole nella cultura
liceale la mancanza di cotali notizie, sono riusciti zibaldoni indigesti
e indigeribili , che nello spirito) dei giovani non hanno prodotto se non
quello chel potevano produrre; nausea e disgusto, non soltanto
verso quei libri e quegli autori, ma verso la stessa filosofia, di cui
non si dava loro a conoscere altri* più degni rappresentanti. Parte ,
compilati con la preoccupazione dell’ ordine , della chiarezza ,
della semplicità , con la falsa convinzione che quello si ami a
imparare, che non costi nessuna fatica; tra- lasciando ogni discussione ,
evitando ogni concetto unjpo’ alto, che sia, o paia, in contrasto col
senso comune; togliendo, insomma, alla filosofia niente-
meno che la sua propria natura , hanno amman- nite quello ohe potevano
ammannire : una non-filo- sofia; dando cosi a studiare quello che non
avrebbe fatto certo nè bene nè male; ma che perciò, forse, era
inutile studiare. Altro che soave licor negli orli del vaso : nè anche
goccia di succhi amari ! , L’esperimento d’un libro di questo
genere ce l’ho apch’io sulla coscienza; e ne fo questa pubblica con-
fessione nella speranza di sgravarmene in qualche modo. Anch’io commisi
un anno,— un anno solo,— l’errore di adottare un testo di psicologia
facile fa- cile , appunto perchè facile facile , chè non aveva
altro pregio. E il risultato che ne ebbi fu questo : che gli alunni capirono
sempre bene, senza mia fa- tica. e conferirono sempre meglio, senza loro
fatica; ma, infine, con mia vergogna non piccola, mi accorsi che’
sapevano tutto, e pur non sapevano niente. Il libro di testo per
l’insegnamento filosofico non è detto che debba essere facile , nè
moderno , nè completo. La facilito , certo , è gran bella dote di
un libro ; ma quando questo libro - si vuol leggere in viaggio , per
scacciar la noia, o a letto, per pi- gliar sonno. La modern ità, è un
altro pregio tutt’ al- tro che trascurabile; ma quando non ci stia a
sca- pito della verità e dell’efficacia. La completezza,— che è ciò
che più si desidera da taluni insegnanti nel manuale del Fiorentino,^ una
preoccupazione senza fondamento : sia'perchè non ci può essere mai
se non una completezza relativa; e al libro del Fio- rentino, così com’è
disegnato, non manca nulla per potersi dire completo ; sia perchè, nel
nostro caso, li libro è d estinato a una propedeu tica, filosofica,
e dev’essere strumento di cultura, pungolo dell'ina telligenza, e
quasi direi , pietra di paragone della riflessione speculativa. E in ciò
la quantità delle . cognizioni da comunicare non ci ha proprio nulla
I da vedere. Giacché, se si vuole che l’ insegnamene filosofico nei
licei produca buoni frutti, bisogna che noi insegnanti ce lo chiaviamo
bene nel sommo della testa : non importa niente che gli alunni
abbiano questa o quella cognizione, e sia modernissima quan-
to si voglia; sì importa, che imparino a pensare ; ma a pensare per
davvero, riflettendo sul pensiero, e sforzandosi di farne un sistema
logicamente coe- rente. E questo è l’effetto che li ottiene
dal. libro del Fiorentino ; del quale non sfuggono neppure a me i
punti non ben saldi , che non son pochi , nelle dottrine : ma che è il
solo libro scolastico nostro, scritto con un unico spirit o, co n uno
sfor zo costante j-) di organizzare la Serie delle dottrine , quali
che siano; discutendo sempre, e lasciando intravvedere cosi
una luce lontana , maggiore di quella che vi splende per entro ; il solo
libro 1 , per continuare a parlare con tutta franchezza, che qbitu i a.
pensai /( Meglio però vi abitua nella prima edizione,' da me ora
riprodotta; segnatamente nella parte che, ìiguaida la Psicologia. Non è
questo il luogo da i n- dagare i motivi che indussero il Fiorentino
a rimu- tare nella seconda edizione, fatta intorno al 1880 , quasi
tutti i primi undici capitoli del libro : nè di indicare a uno a uno i
mutamenti dottrinali che y’in- trodusse. Certo è che per tali
modificazioni il libro venne profondamente trasformato:
l’idealista cedette all empirismo che saliva in auge; il kantiano
stimò IX che la psicologia genetica, come allora la
chiama- vano in Germania, potesse p dovesse rendere ragio- ne delT
a priori ; che Darwin potesse compiere e correggere Kant. « L’a priori
kantiano, — giunse a scrivere, — è una semplice fermata, che -si
traduce in queste parole : in noi c'è un’ attività 'già preformata
a compiere certe funzioni , senza di cui la sperienza non si farebbe . La
filosofìa moderna accetta la tesi kantiana, e domanda: come si è
preformata ? E cerca di trovare la risposta in due fattori: rassp
cjazjpne e la ; la prima che accumula , la seconda che
trasmette. Per loro mezzo, Va priori dell’ indi- viduo sarebbe ciò eh’ è
a posteriori per la specie » (p. 31 n.). Proprio quello che si.
dimostrava assur- do nel c&p. Ili della l. a edizione (IV della
presente)! Il libro, insomma, fu, diciamolo pure, guastato
dal- Tautore stesso. E non soltanto dal lato della dottrina.
Perchè, tormentato in questi primi capitoli fonda- mentali, e qua e là,
in tutti i punti più importanti, nello sforzo di rammodernarsi e
transigere, quasi, con le più recenti dottrine, esso perdette lajr esch
ez- za del primo getto, la stringatezza e solidità della primitiva
costruzione, raniijaa, onde era stata origi- nariamente concepito.
Rabberciato alla meglio , si arruffò, e divenne* aspro e difficile, di
quella diffi- coltà che non è allettativa dell’ingegno,- ma durezza
invincibile e disperante. Perchè ciò che è logica-, mente ragionato ,
sebbene astruso , attrae e ferma 10 spirito, e lo costringe a
pensare per assaporare 11 gusto forte che dà la vittoria sulle
difficoltà; ma ciò , che non fu organicamente pensato, stanca ed
opprime, ed allontana da sè. Pure il manuale del Fiorentino, cosi
guastato, s ; è ■-* K X
V continuato a ristampare ogni anno, e a studiar© n e }
licei del Mezzogiórno, pel buono che sempre conte- neva , per la serietà
onde appariva scritto. Oggi che torna nelle sembianze primitive dovrebbe
in- contrare miglior fortuna. La Psicologia , com’è in questa
rinnovata edizione , è un' esposizione vera- mente lucida, benché
elementare, dei gradi princi- pali dell’attività costruttiva dello
spirito teoretico; e, quando non avesse altro merito, questo solo
do- vrebbe bastare a farlo sostituire a quei compendi! di
psicologia empirica e descrittiva , che ora cor- rono per le nostre
scuole. Giacché, come vedranno da sé i signori Colleghi, la
Psicologia del Fiorentini è ijutt’ altra cosa da, queirempirica
descrizione e classificazione dei fatti di coscienza , che tiene
ordinariamente il campo dell’insegnamento liceale. Quella descrizione e
'Clas- sificazione c'è pure ; ma in piccola proporzione e in
seconda linea, laddove la trattazione mira alla com- prensione filosofica
dell' attività dello spirito nella sua progressiva produzione del mondo
teoretico, del mondo della scienza. Ora, che giovi più. richiamare
l’attenzione dei giovani su quest'attività, anzi che sulla minuta e
grossolanamente sistematica conoscen- za dei fenomeni psichici, non credo
che alcuno, a ben rifletterci , vorrà mettere in dubbio. Siffatta cono-
scenza gioverà sempre ben poco, se pur mai gioverà: e la sua utilità non
potrà essere altra dall’ utilità propria di ogni speciale contenuto
mentale. Invece è risaputo e convenuto,— é già s’è detto, — che
fine , della cultura del liceo non è d i ri empire, m a di for - 1 ma.
re il e.er-vello. Come essenz ialmente formativa ed ‘ in sommo grado
educatrice è appunto la coscienza, -t—. t quale può
aversi a principio, e quale con l’aiuto di questo libro può ottenersi, —
della posizione dello spi- rito umano nel mondo, doye non è spettatore,
ma attore e creatore — almeno del suo mondo. Questa bqscienza è
elemento necessario della cultura vera; ed è gran ventura per la
scuola media italiana pos- sedere questo libro atto a promuoverla.
— Ma il Fiorentino non accenna questo. Ma il Fiorentino non parla
di, quest’altro, che pur si ri- chiede dagli alunni della l. a classe
liceale. Non si richiede, veramente, nè questo, nè que-
st’altro. I programmi liceali, gli ultimi che si siano prescritti dal
Ministero, non parlano se non diElementi di Psicologia, lasciando alla
coscienza scientifica de- gl’insegnanti d’intendere la Psicologia secondo
i pro- prii convincimenti . e di darli q uindi il conte nuto
corrispettivo. D’altra parteè: proprio possibile, dato l’orario presente
deH’insegnamento filosofico, fare studiare come si conviene, in un solo
anno, a gio- vinetti appena giunti dal ginnasio, una trattazione di
Psicologia più estesa di questa del Fiorentino (che, si badi, sorpassa
nella presente edizione di 40 pa- gine quella dell’edizione precedente)
? Che, se dall’annunziata riforma della scuola media il
nostro insegnamento, — com’è giustamente nei voti di parecchi insegnanti
, — verrà concentrato, con orario maggiore, negli ultimi due anni del
liceo (ca- ni’ era, quando questo libro fu scritto), allora 1’ e-
stensione delle due parti principali , in cui il libro è diviso,
risponderà puntualmente al programma dei due anni. Coteste
due parti, per comodo delle scuole in cui se ne volesse adottare una sola,
s’è pensato di pub- XII blicarle questa volta in due
volumetti separati. Nel primo dei quali per motivi didattici ho creduto
op. portuno dividere la Psicologia dalla Logica. Vero è che anche
nella parte n si torna poi a trattare di Psicologia. Ma è questione di
parole, ove s'in- tenda col Fiorentino per Psicologia quella parte
d ella Filo sofia de llo spirit o che studiaTe forme feno- menologiche
del sapere. Per gli stessi motivi didattici ho spezzato nella
stampa il, discorso tutto seguito dall’autore, che, scrivendo, non
prendeva mai flato : e si vantava di non esser uso a scrivere con le
seste e rileggere quello che avesse una; volta scritto. E ho diviso
ogni capitolo in tanti paragrafi oon speciali titoli, quanti sono i
singoli argomenti speciali che vi sono toccati ; come, sempre per gli
stessi motivi, ho messo in corsivo termini tecnici, definizioni ed
esempii. Altre modificazioni non ho introdotte, salvo lievi
mutatnenti nei titoli dei capitoli, dove, non mi sem- bravano esattamente
corrispondenti al contenuto di questi ; e qua e là ho corretto alcuni
pochi errori di fatto, incorsi nel libro per disavvertenza, e che
l’autore, avvertito, avrebbe corretti da sè. Della forma non mi son
permesso mutar altro che, in ra- rissimi casi, alcuna espressione non
abbastanza chia- ra ; come ho tolto via, poiché si tratta di libro
sco- lastico, q ualche arcaismo , che potesse parere affet- tato, e
certe ripetizioni fastidiose di parole, a cui l'autore, quasi per vezzo,
non badava. Note non ho voluto apporne se non di rado, e sem-
pre tra parentesi quadre, a chiarimento di espres- sioni oscure. Ma ne ho
voluto mettere sempre, bre- vissime, ai nomi dei filosofi citati dal
Fiorentino, per 1 — XIII —
indicarne la patria, l’epoca e le opere più celebri o più notevoli.
Potrà forse parere che ciò sia troppo poco per alcuni, e troppo, e
superfluo per altri. Ma la pratica della scuola e degli esami mi ha
indotto a fare come ho fatto. Note lunghe non sarebbero state lette,
o avrebbero distratto; oltre che sareb- bero entrate in particolari
storici fuor di luogo. Questi brevissimi cenni potranno bastare a non
far parere un Cameade ogni filosofo che Fautore ri- corda, e a
rendere forse impossibili casi simili a quello che m'accadde nell’esame
di un candidato esterno di licenza liceale-; che mi dava Kant per
con- temporaneo di Aristotile. E siamo giusti: vedendo sempre
appaiati Aristotile e Kant, come fare a so- spettare che l'uno era morto
da venti secoli quando nacque l’altro ? Avvertirò infine che,
riproducendo l’edizione del 1877 , ho creduto tuttavia di riferire dalla
edi- zione posteriore il capitolo sulle Sensazioni in parti-
colare, che nella prima mancava ; perchè contiene notizie elementari, che
è bene non sieno ignorate. E avvertirò pure che, eccetto differenze di
poco conto, notate ai loro luoghi, nella Logica e nell’E- tica, le
due edizioni coincidono. Solo fu tolto nella seconda un capitolo sul
Piacere e il dolore (2° della parte II), che da me, s’intende, è
riprodotto. La dottrina dell’Anima in
Aristotile. Il periodo filosofico che
ho in animo di traiteggiaro si
travaglia pressoché tulio intorno alla
ricerca dell’ani- ma ; muovendo dai principi!
aristotelici, e contenendosi il più delle
volte nel modesto ufficio del commentare.
Il perchè, volendo io risalire alle
origini di quella contro- versia, ho
divisato farmi dalla dottrina aristotelica,
e dopo averla guardata in sè, considerarla
negli sviluppa- mene che partorirono i due
commenti, greco ed arabo. In
Aristotile medesimo quella dottrina non si
può diligentemente esaminare , se non riferendola
alle altre rimanenti, onde si compone
il sistema tutloquanto. Ci. e se in
cotesti riferimenti la scienza sempre si
amplia e si allarga, nel caso nostro
il farlo è una necessità derivata dall’
indole medesima della speculazione aristotelica ,
la quale ci si palesa consentanea con
se stessa fin nelle ultime conseguenze
di un primo sbaglio. Nelle menti
volgari si un errore e si una verità
possono essere inseriti, come^una specie di
episodio, nella struttura del siste- ma ;
ma gl’ ingegni veramente speculativi si
guardano di cascare in questo fallo,
tanto almeno, quanto a loro basta la
vista di guardarsene. . •
J3jc|ti|<|£Lby Coogl 72' PIETRO
POMPONAZZI. La dottrina dell’ anima, e più
particolarmente poi quella dell’anima
intellettiva, presso Aristotile, implica quelle
medesime difficoltà che s’ incontrano sin
dai primi passi del sistema. Nel
Saggio storico su la filosofia greca
io toccai di queste difficoltà, e mi
studiai di chiarirne al possibile il
vero nodo e la vera sorgente. Lo
Zeller non ha guari nella sua
Filosofìa dei Greci ne faceva una
distesa rassegna, e di nodo in nodo
mostrava come tutte si aggruppassero nella
posizione di Aristotile verso Pla- tone.
Qui non mi è consentito altro che
sfiorare tutte quelle difficoltà, e mostrare
come riappaiano nella dot- trina, della
quale ora discorriamo. Si vedranno nella
psicologia come nella metafisica gli stessi
problemi , e poi le stesse soluzioni , o meglio
il difetto di una vera soluzione. (
Platone aveva detto: l’universale, o l’idea, è
quanto v’ ha di vero e di sostanziale
nelle cose ; la materia, per i contrario, è
una mera negazione, un non-ente. L'idea
rimane sopra la moltitudine e la varietà
dei fenomeni, una , identica , permanente. Le
cose mutano , ella no ; le cose muoiono,
ella dura eterna. Tra le idee ed i
sen- sibili corre dunque un dissidio infinito,
a colmare il quale Platone non sa
trovare efficace rimedio ; onde il sistema
platonico rimane con una scissura profonda
ed irreparabile. Aristotile venuto dopo, e
fermo di porvi riparo, delle affermazioni
del suo maestro parte ritenne, parte
rifiutò. Parve anche a lui che l’ idea
sola fosse la verità delle cose; ma
perciò medesimo, a suo avviso, ella non
può stare nè sopra nè fuori di esse ,
ed anzi implicata in una materia di
cui ella è la forma. All’ idea sopra
le cose di Platone, Aristotile sostituì V
idea nelle cose , o la forma. Il
partito, a cui si appigliò lo Stagirita
pare a prima giunta il solo spediente
acconcio a ricongiungere ]_bv Gooffli
73 capito/lo primo. quei due
mondi che Platone aveva lasciato staccati
non solo, ma opposti. La materia e la
forma, collegate in- sieme nell’unità
deU’individuo, rappresentano l'armonia di quei
due conlrarii che Platone non aveva
saputo riu- nire. Ed intanto in Aristotile
quel congiungimento noi| è tanto saldo, che
quei due contrarii mal collegati non
si rivoltino soventi l' un contro l’altro,
e non si mettano in aperta rottura. Ognuno
di essi si tiene in grado di
primeg- giare su l’altro, e fonda le sue
pretese sopra esplicite dichiarazioni di
Aristotile a suo favore; le quali,
bilancian- dosi in modo che nessuno di
loro penda, tengono l’animo sospeso ed
irresoluto. Da una parte T universale non
può stare più da sè, e cotesta
indipendenza è accordata soltanto all’individuo,
dove pare che consista la vera
sostanza ; dall’ altra l’ universale solo è
conoscibile, esso solo è la verità. Cosi
la realtà e Fa’^erTIir si trovano spartite
quando non dovrebbero essere. La realtà
si l appartiene all’individuo; la verità
all’universale. Pla- tone era stato conseguente
nel riporre nell’ idea e la sostanza e
la verità delle cose; Aristotile, invece,
on- deggia, e quasi vorrebbe gratificarsi l’uno e
l’altro, accordando all’ individuo la
realtà ed all’ universale la verità,
con un sistema di compensi che qui
non appro- dano. Questa contraddizione è notata
molto profonda- mente dal Zeller , che la
sostiene contro le osservazioni del Biese,
ed è manifesta a chiunque sappia di Aristo-
tile la dottrina della cognizione, e quella
delle cate- gorie.1 Questa prima
contraddizione ne partorisce parec- chie altre. E
primieramente, se la scienza non è atta
a 1 « Er sagt oline jene Bescbrinkung
: dati Wissen geli e nur taf ’a Allgemeine ,
und ebeaso unbedingt : nur das Eiozelwesen
tei eia Sabstan- tielles. • Die Philoi.
der Griechen , vou Zeller, Zweite Tbeil,
Zweìte Au- flage , pog. 252.
Digitized by Google 74 PIETRO
POMPONAZZI. cogliere se noe la forma
delle cose , e questa oon ne costituisce l’
intera sostanza , ne conseguita eh* eHa
sarà imperfetta e che non corrisponde alla
..realtà delle cose conosciute, le quali
si trovano specchiate in lei soltanto a
metà. Che se la materia è un elemento
indi- spensabile a fornire la sussistenza
dell’individuo, non può venire esclusa
dalla cognizione, come se fosse un
accidente, o anzi un ostacolo. Ciò era
ben detto secondo i principii platonici , ma
non secondo quelli di Aristo- tile. Intanto
la materia è dichiarala inconoscibile,' es- sendo
priva di ogni determinatezza. Inoltre
1’ inconoscibilità della materia nuoce alla
conoscibilità delie forme, perchè queste,
salvo la prima e purissima forma , sono
tutte implicate nella materia non solo,
ma s’ ingradano in modo, che la
inferiore sìa • deve considerare come potenza , e
perciò come mate- ria, per rispetto all'
altra che le sta sopra. *
Aristotile difatti ha posto tal
relazione tra la mate- ria e la forma,
qual’ è quella che corre tra la potenza e
l’ atto ; onde la materia per lui è
la potenza della forma , come la forma è l’
atto della materia. Ora se- condo questa
determinazione tutte le forme, tranne una
sola, la massima, possono dirsi materia, e
cosi l’ inconoscibilità della materia si
riverserà eziandio so- pra le forme. La
massima forma poi, Dio, in mentre che
dovrebbe essere la più pura , e perciò la
più lontana dalla individualità, è ella
stessa un individuo. Ora l’ in- dividualità
divina contraddice con la teorica fonda-
mentale, secondo cui ogni individuo dev’
essere il sinolo di una materia e di
una forma, non potendosi 1 à «?’
«Xtj «yva>»To; xa8’ ocutijv. Metapk.,
VII, IO. 1 « Ein and dasselbe Diog
kana tich desihalb io dar einen
Beziehong «It Stoff, io der Andern
ala Form, in jener ala Mogli chea,
in diesar ala Wirkliches verhalteo. • Zeller,
op. cit., loe. oit. , pag. 245. • -
itized by Google CAPITOLO PRIMO.
75 etere un individuo dove non
abbia luogo punto di ma- teria. In
fine non si può scorgere dove
propriamente Aristotile ponga U sostrato della
individualità : non nella forma che, stando
alla teorica della cognizione, dovrebbe
essere l’universale; non nella materia, la
quale è in- determinatissima, e che tanto
acquista di determinatezza, quanto la forma
ve ne impronta. Tale per sommi
capi è il capitale difetto dell’ ari-
stotelismo ; difetto che dalla relazione mal
definita di universale e di individuale , di
materia e di forma , si diffonde in tutte
le altre teoriche, e le guasta in si-
mil guisa, producendo un' incertezza ed
un viluppo ir- resolubile. Non è dunque da
maravigliare se quel si- stema diede occasione
a tante controversie di interpreti, perchè
esso si acconciava ai più opposti
avviamenti.* Tutta la filosofia nel medio
evo e nella rinascenza si diede a risolvere
quei problemi in opposte sentenze, credendo
sempre di ormare i passi di Aristotile ; nè
, per vero dire, mancavano fondamenti a
questo conflitto di opinioni. Se non
che ogni diversa età ha mutalo
aspetto alla ricerca, pur conservandone
integro il fondo. Così la scolastica
nei primi secoli considerò la relaziono
tra universale ed individuo come la
più rilevante ; di poi, tra Tomisti e
Scotteti, prevalse la questione del- l’
individualità , e chi la ripose nella materia ,
chi nella forma. Da ultimo nella rinascenza
si cercò nell’ anima e nelle sue
facoltà quella partizione e quella incertezza, e
si domandò quale fosse il legame che
stringe l’ intel- letto con le rimanenti
facoltà. Le tre questioni degli universali
, della individua- lità e dell’ intelletto sono
diversi aspetti di una stessa ricerca ; e
tult' e tre mettono capo in Aristotile , e
si connettono insieme, e si spiegano 1'
una con l'altra nel loro storico
sviluppamento, secondochò parmi di ve-
Digitized by Google 76 PIETRO
POMPÒNAZZI. dere , e secondochè m’ ingegnerò di
provare nel pro- cesso di questo libro.
Lasciando stare per ora le teorici#
che sono aliene dal mio tema , e
restringendomi a quella che più da presso
vi si riferisce , dico che Aristotile ha
risguardato il corpo e l’ anima sotto l’
annodamento medesimo di materia e di forma.
Basta leggere il primo capitolo del
secondo dei libri dell’ anima per chiarirsene
pienamente. Il corpo fa le veci di
materia o di soggetto , 1’ anima per contrario
non può essere sostanza se non come
forma di un corpo naturale che ha
la vita in potenza. 1 E per corpi che
abbiano la vita in potenza Aristotile
in- tende quelli che si dicono organici.
Quindi proviene la sua celebre definizione
dell’ anima , la quale fu ripetuta in
tutto il medio evo, ed in tutto
il periodo del rinasci- mento, nè ancora se
n’ è potuto escogitare una migliore. L’
anima, ei dice, è l’ entelechia prima di
un corpo na- turale che ha la vita
in potenza ; e bisogna intendere per tale
un corpo organico.* Ora, benché
l’entelechia avesse, nel linguaggio aristotelico,
una determinatezza maggiore della forma,
nondimeno l’anima è pur sem- pre la forma
del corpo , e ad esso annodata con legami
non disleghevoli. 3 Perciò ad Aristotile
pare oziosa la ricerca se il corpo e
1’ anima siano una sola e medesima cosa ,
nel modo stesso che riesce vano il
voler sapere la differenza che passa
tra il suggello e la cera su cui s’
impronta. Impe- rocché se l’ entelechia si
dice propriamente in quanto v 1 4
Vedi, De Anima, lib. II, cap. I, £
4. s Sto boxili è®Tiv évreXt^sia n
rzpàrn ata/xt ctoj fvotxoZ dwà/zsi txoxro;
. róiaÙTO Si, a xv ri òpyavixóv. De Anima ,
lib. II, cip. I, § 8, 6. Nell’
ediz. del Treodelembarg. ’ ori /ztv
oo! oix giTiv |vx»ì xwptsrÀ toG
sw/xares. De Anima , lib. II, cap. 4,
§ 12. CAPITOLO PRIMO. , 77 è forza
motrice e tinaie, essa è però, come osserva
lo Zeller, sempre tutt’ uno con la
forma.1 Il concetto che ha dunque
Aristotile dell’anima, è quello di forma , o
di entelechia inseparabile dal corpo. E si
badi, che egli non vuol restringere in'
nessun modo questa sua definizione
fondamentale, la quale è comune a tutte le
anime, come la definizione della figura
io geometria è applicabile a tutte le
figure in particolare. Ben si distinguono
parecchie specie di anime, i cui gradi
Aristotile determina cosi: nutrizione,
sensibilità, locomozione, intelligenza, ordinate in
modo che il grado superiore presupponga
l’inferiore e non possa stare senza di
esso ; però tutte coleste specie di
anime debbono convenire nella definizione
comune. Lo stesso Barili, de Saint’Hilaire
riconosce questa necessità.* Stando a
queste deduzioni, la dottrina di Aristotile
procede fin qui sicura e senza esitazioni.
Dove ci è moto prodotto per intrinseca
energia, ci è vita; dove ci è vita,
ci è corpo ed anima, cosa mossa e
causa motrice. Il corpo è la potenza e
la materia ; l’ anima è 1’ entele- chia e
la forma. E come nella metafisica l’
individuo risulta dalla materia e dalla forma ,
cosi nel caso spe- ciale degl’ individui
animati, o degli animali, il loro compiuto
concetto consta di corpo organico e di
anima. Ma tutta questa armonia viene
rotta da una dubita- zione che Aristotile
propone senza risolvere. * • Das gleiche
Wesen wird aber aoch «eia Eodzweck «ein ,
wie ja Qberbaapt die Form voo der
bewegenden und der Endursacbe nicbt
verscbie- deo ist. Solerti non die
Form ala bewrgende Kraft wirkt, nennt
aie Aristote- le* Entelechie, ami somit
definit i er die Seele ala die Entelechie
uod naber ala die erste Entelechie
cines nalQrlichen Kòrpers, welcher die
Fahigkeit bat, za leben. » — Zeller, Zw.
Tbeil , pag. 571. 1 « La definition qu’il a
donoée lui-méme au cb. l«r de ce
livre doit donc ponvoir s’appliqoer
ipécialement à chaqoe espìce d’ime qu’il a
distia- gatte. » Ptychologit d’Ariilole, Paria,
1846, pag. 181. * Digitized by
Google 78 PIETRO POUPONAZZI.
Arrivato all’intelligenza, egli tentenna, e si perita
di applicare a lei le determinazioni
precedenti dell’anima, benché avesse prima
detto che quella comune defini- zione fosse
applicabile a tutti i gradi differenti di
vita. L’ intelligenza pare a lui un altro
genere di anima, e per- ciò separabile
nello stesso modo che l’ eterno si
separa dal perituro. 1 Questa scappata di
Aristotile può riuscire inaspettata a quelli
soltanto i quali non hanno seguito il
pensiero aristotelico in tutto il suo
svolgimento. Chi però ha posto mente
alla irresolutezza di Aristotile nel- l’accordo
proposto tra l’universale e l’individuo, ed
ha visto continuare questa perplessità
nella concezione della materia e della
forma, nel legame tra Dio ed il 1
mondo, e nella teorica della cognizione, si
accorge anzi che Aristotile non poteva
fare altrimenti. Nell’ anima i stessa ci è
qualche cosa che tiene più della
materia, e qualcosallro che fa le
veci di forma ; il senso e le fa-
coltà inferiori che sembrano un patire, e l’
intelletto clic sembra attivo verso di
loro. Anzi nell’ intelletto me- desimo
Aristotile discopre questa duplicità, la
quale co- me era rimasa irreconciliata e
contrastante nelle prime categorie dell’
essere, così rimane qui negli ultimi
svi- I appara enti dello spirilo. Ciò
che v’ ha di peculiare nell’ anima
umana è l’in- \ lelletto; perciò noi ci
fermeremo un poco più nel mo- ’
strare in che modo Aristotile ne
avesse esposto la na- ! tura. L’ intelletto
primieramente apparisce legato con le l
altre facoltà non solo per la
intuizione generale del si- stema aristotelico,
che fa ricomprendere ogni forma in- feriore
nella superiore, ma per l’esercizio
medesimo della sua attività, che non potrebbe
recarsi in atto senza Digitized by
Google CAPITOLO PRIMO. 79 il
sussidio delle facoltà precedenti. Le cose
estese sono ricevute nell’anima mediante le
sensazioni, le quali \ sono perciò
forme delle cose sensibili. Dopo questa
prima maniera di forme, che richiede
la presenza della mate- ria, ve n’ha
un’ altra la quale si assomiglia alla
sen- sazione, se non che non ha
bisogno della materia presente. Da
ultimo l’ intelletto, eh’ è forma delle
forme, esercita verso le sensazioni ed i
fantasmi la medesima azione che i fantasmi
hanno esercitato su le sensazioni, e le
sensazioni su le cose sensibili. Cotalchè
come la sensa- zione non può aversi senza
la materia, nè la immagine fantastica
senza la sensazione , così 1’ atto della
intelli- genza non è possibile senza il
fantasma. L’ intelletto in questa prima
posizione apparisce dunque legato indis-
solubilmente con tutto il sistema delle
facoltà del- l’anima.1 Nè per la
sola operazione l’ intelligenza apparisce legata
con l’ organismo corporeo, ma per la
sua intrin- seca natura. Difatti ella, come
intelligenza, non è altro che ciò per
cui l’anima ragiona, e non è nessuna cosa
in atto prima di pensare : ella è
soltanto in potenza. * Che se
riannodiamo questa teorica dell’ intelletto
con l’ altra dell’ anima , si scorgerà , che
come l’ anima era legata col corpo
organico, così l’ intelletto è legato con l’
anima ; perciò qui Aristotile la chiama
intelligenza dell’ anima (r»ì; voC«)- Ed
in ultimo risultamento avremo il corpo
organico come subbietto o materia del- l’
anima, e questa come subbietto dell’
intelligenza. 1 Vedi tutto il cap. 8
del lib. Ili dell’Anima, dove ì degno
di spe- ciale nota questo luogo: x ed Sii
roóro omtc jit) Atrèavépigva; puj&év *» oùdé
?uvior ór*» rs Se capri, oèvexyxvj
»(»* yxVTaspta ri àsoipstv. * ùsre
fj-nS’ aùroù stvat pùnv /sride/tta» àXX’ n
t*vt»ì», ori ^u»aró» ò «pa xaXaóptsvoi rn (
»®ó; (Xsyoi Si voó» w dtetvostroci
xeni oivei r, 'l'UX’t) où&t*
èsTiv svspyda tmv ovroiv tepìv vosi».
Lib. Ili, cap. H, 2 5. De
Anima. Digitized by Google 80
PIETRO POMPONAZZI. Altre asserzioni
dello stesso Aristotile accennano però alla
sentenza opposta. Già abbiamo visto come
per lui l’intelligenza sia un altro
genere di anima, e se- parabile, in mentre
che le anime dei gradi inferiori sono
legate con gli organi. A questa
testimonianza, che sta contro alle cose
precedenti, se ne aggiunge un’altra
ugualmente esplicita, dove si sostiene che
il Noo venga dal di fuori, e che
solo sia divino. 1 Si possono distrug- gere
la riflessione, l’amore, l’odio, il
ricordarsi, per- chè siffatte modificazioni
appartengono al soggetto in cui alberga l’
intelligenza e che la possiede ; ma l’
intelli- genza medesima è qualcosa di più divino
, è qualcosa d’ impassibile. * Che se
dopo tutte queste dichiarazioni, che riguar-
dano il principio intellettivo nell’ uomo ,
ricorriamo col pensiero all’ intelligenza suprema
, come vien descritta nella metafisica, e
segnatamente nel libro dodicesimo, la
difficoltà da noi proposta si farà
più evidente. Prima si dimostra come
non ci siano altre sostanze che
quelle che risultano da una materia e
da una forma; poi di forma in
forma si arriva ad una suprema, la
quale non è punto implicata nella materia , e che
perciò si svelle dal sistema mondano, e
non vi rimane legata se non per
un filo debolissimo , com’ è la relazione
di mosso e di movente. Quella forma
suprema, che doveva acco- gliere in sè
tutte le forme inferiori, non è potente
nem- manco di pensarle. L’ intelligenza
divina rimane staccata dal mondo , se non
fosse per il bisogno di ricorrere ad
un motore ultimo, ed immobile. Tale
rimane nel si- stema delle facoltà umane l’
intelligenza : è lo stesso di- fetto che si
riproduce in ciascuna parte. 1 AeiTtirai
«?* róv voi!» /ióvov OùpaOev eiwisuvai
xai 0eTov ecvat uo'vov. De gener.
anim., lib. II, ctp. 5. Vedi De
Anima, lib. I, cap. 4, § 14. Digitized
by Google CAPITOLO PRIMO. 81
Il Rénan si è accorto della discrepanza
della dottrina su l’ intelletto nel
congegno del sistema aristotelico , e la
dichiara un frammento di scuole più
antiche, di Anas- sagora specialmente, che viene
citato dallo stesso Aristo- tile nel terzo
libro dell’Anima, e nell’ottavo della Fi- sica.'
Ma colesta spiegazione, oltre all’ essere
poco degna di Aristotile, il quale
non ne avrebbe saputo misurare tutta
l’importanza, contrasta col disegno generale
del sistema. Saldata che avrete questa
screpolatura, come fa- rete poi per tante
altre che rimarranno scommesse ed ir-
remediabili? Poniamo ancora che il legame
tra Dio ed il mondo si rimeni a
questa medesima dottrina, e che tutto il
duodecimo libro della Metafisica sia un
episodio, benché un po’ troppo lunghetto;
si risalderà meglio la rottura tra la
materia e la forma ? Si spiegherà meglio
la teorica della cognizione, sviluppata
negli analitici ? E se cotesta magagna s’
insinua in tutte le particolari trat-
tazioni, come si fa a dichiararla un
frammento slegato, ed a cacciarla via dal
sistema ? Altro, a parer nostro, è il dire
che il più spedilo e più logico
avviamento di Ari- stotile sarebbe stato di
continuare nella risoluta opposi- zione verso
il suo maestro, ed altro il negare
eh’ egli in questa polemica non sia
proceduto incerto, parte rifiu- tando e parte
ritenendo: incauto cercatore, anche lui, di
conciliazioni impossibili. c Della prima e
più spiccata contraddizione nel co- struire
Findividuo di materia e di forma ho
discorso di sopra; toccherò ora della dottrina
della cognizione. La scienza secondo
il processo aristotelico piglia le mosse
dalla sensazione, e procede, sempre più
svilup- pandosi, per molti gradi, i quali
sono variamente de- scritti, ma che si
possono però ridurre, conforme al- 1 •
Il est évideot que toute cette
tliéorie da voù( est eropruntée 4 Anaxagore.
» — Jverrhoès, etc., psp. 96, F.
Fiorbntiko. « 82 PIETRO
POMPONÀ.ZZI. l’esposizione del Barili, de
Sant’ Hilaire, ai seguenti; sen- sazione
cioè, pensiero nella forma volgare , ed in
quanto sottoslà alle impressioni sensibili;
scienza (ìttLotìiw) , é intelletto (vo»{), il
quale è in relazione cop gl’inteUigibili.
Riguardo alla sensazione non s’ incontra
difficoltà : essa è la forma delle
cose sensibili, che viene accolta dall’ anima
sensitiva. Nel sollevarsi poi dalla
sensazione alla scienza Aristotile ammette
moltè sfumature, die talvolta si
confondono, ma che giova descrivere, per
far vedere quanto sottile osservatore egli
fosse, e come per lui tutto il
processo del pensiero non fosse altro
che un continuo disvilupparsi dalle forme
più materiali per ri- vestirne altre più
generali e più pure. Il grado
immediato alla sensazione è per lui la
Séga che lo stesso Saint-Hilaire traduce
per percezione, e po- trebbe pure dirsi
opinione. Sopra cotesla percezione, o
opinione che dir si voglia, pone la
fantasia (pxvmaia.) , la quale può dirsi
un grado di sviluppamene maggiore,
staccandosi già dall’ oggetto sentito , più
che non faces- sero i due gradi precedenti,
i quali ne richiedevano sempre l’ immediata
presenza. La fantasia medesima si
riferisce al fantasma (pàv touhx) ed
all’ inamagine (Uwv) ; imperocché essendo
la fantasia una specie di tramezzo
fra la sensazione e la scienza, col
fantasma si accosta più all’ intelletto ,
con l’ immagine invece si accosta più
all’ obbielto. La scienza e l’ opinione
possono accoppiarsi in certo qual modo,
ed il loro miscuglio dà la
riflessione ( <j>pó- vjiJts). La scienza,
1’ opinione e la riflessione Sega , ppóvmatj) ,
sono da Aristotile comprese sotto un
.termine comune uttò^cs, il quale è
deputato a signifi- care l’ attività spontanea
dell’ anima, doyecchè la Stóvota discorre
da un oggetto in un altro. 1 1
Per la determinazione di tatti cotesti
gradi del pensiero, vedi Barth. de
CAPITOLO PRIMO. 83 Tali sono i
primi sviluppameli della scienza; ma
ipoichè ella consiste nel dimostrare , e nel
far vedere le -cose nelle loro
cagioni, perciò è necessario che si fermi
in principi assoluti ed indimostrabili. Il
voOs è l’ intelletto di questi primi principi,
i quali sono i termini della di- mostrazione.
Se la sensazione ( afo^ots) dunque è il
primo inizio della scienza , l’ intelletto (vo0«)
n’è l’ul- timo risultato. 1 Chi ha
tenuto d’ occhio tutto il processo della
cogni- zione, com’ è descritto da Aristotile,
si sarà accorto che -conforme a questa
dottrina il vovg non può fermarsi se
non nei principi più remoli dalla
materia, e più univer sali. Essendo l’apice
di ogni astrazione, esso dev’essere al
polo opposto della sensazione, che si
trova congiunta ■con la materia
immediatamente. Ed intanto il punto di
fermata sono i termini, ossia è la
sostanza. Ora la so- stanza, nonché sia
1* universalissimo essere, è invece individuale ;
dunque il processo della scienza, dopo
aver percorso tutte le forme di
separazione dalla materia, ri- casca nella
sostanza, la quale è dalla materia
insepara- bile. L’ essere e la sostanza sono
spesso confusi da Ari- stotile, eh’ è quanto
dire la più astratta delle forme,
l’essere, vi si scambia con la forma
attuosa legata con la materia. * La
sostanza è per lui una volta il
neccssa- Saint-Hilaire , Logique d'Arùtote, tom.
II, Deuxìème l’artie, section XI®, -di.
9®. * Ecco come il Trendcleraburg
prova questo ufficio proprio del veù;
■aristotelico. « Noè; in primis et ultimis
scienti» priucipiis rersatur. Ita Analyt.,
post. I, 27, Xiyu yàp *sùv ù.pyn'1
éKcuni/in»- Elh. Nicom. VI, 6. 7st
fTSToct voùv siva* TÙv xpyrZv. Quteuaui
sit xp%rj (neque euim omnis ed noJv
rediòit) accuratius defiuitur Elh. JVtc.,
Vi, 9, ò pit -/«.p voós ri» opwv
u'J oóx sor* /óyo;. i. e. quorum
sulla est demoustratio conclusione «ffecta. «
Àristot., De Aniti. Commentario, pag. 494.
1 « L’idée de Cétre et l’idée de substauce
se coufoudeot souvent aiosi pour Aristote.»
Bar ih. Saiot-Iliiaire, ioc. cit. , cb.
40®. Digitized by Google 84 '
PIETRO POMPONAZZI. rio e 1’ universale,
un’ altra volta il puro accidente ;
un» volta forma, un’ altra volta
sinolo di materia e di forma/ Il
Noo aristotelico adunque una volta si ferma
ai principi (àp^wv), un’altra volta ai
termini (ópwv), i quali non sono
altro che la sostanza. Nè in quest’
una soltanto si restringono le incertezze
di quella dottrina. Il Noo allora
veramente si conchiude e si assolve, quando
si posa in se stesso. L’andare di
pensiero in pen- siero implica un processo
all’ infinito , dal quale Aristo- lile si mostra
sempre alieno. Sforzato adunque dalla
stessa dialettica egli immedesima in questo
atto supremo l’ intelletto e l’ intelligibile, ed
in cotesta medesimezza dell’ intelletto con
se stesso è riposta la sua vera asso-
lutezza. * Se ci fosse qualcosa di esterno,
alla quale lo spirito dovesse stare
sospeso, egli sarebbe da meno di lei.
E fin qui tutto si accorda a maraviglia
con la natura dello spirito, che non
può prendere in prestito d’ al- tronde la
sua compiutezza, nè posare altrove che
in se stesso ; ma in che modo
si potrà conciliare cotesta af- fermazione
con l’ altra che fa travagliare il
Noo intorno ai primi principi? Ed
ecco una nuova irresolutezza, una nuova
contraddizione : lo spirito che una volta
si 1 Ecco come il medesimo Sant-Hilaire
riassumo da parecchi luoghi della
Metafilica la teorica di Aristotile, dove
la sostanza apparisco una volta neces-
saria, un’ altra volta come reale, cioè
come individuale. Non trattando qui di
proposito questa teorica mi astengo dal
citaro io stesso i luoghi del testo. •
La Science, douée de ces deux
caractéres, du général et du nécessaire,
«'applique donc surtout è ce qui est
en soi , è lasubstance, bien plutùt qu’anx
autres catégorie», qui ne sont
que^d’accident. La substance, l’étre ■ éel
(oùsia) est su faste de la Science:
et c’esl elle spécialement qne le phi-
lusophe doit étudier. De plus, c’est à
une seule et ménte Science de recher-
« ber et les principe» généraux de l’étre ,
de la substance , et Ics principe» généraux
de la démonstration, et du syllogisme
qui la coostitne. • Loc. cit., eh.
»e. * a Si absolutum id est, quod
ad nihil nisi ad seipsum rifertur, acqui
tur sane mentem , siquidem absoluta est,
seipsam cogitare. » Tren- «bltmburg , op. cit.,
pag. 497. CAPITOLO PRIMO. 85
ferma nei principi universali e nella
sostanza ; un’ altra volta che si
conchiude in se medesimo. Certamente quest’
ultima conclusione è più accettevole, e più
consen- tanea alla nozione deirintellelto
espressa precedentemen- te; ma ciò non
toglie il fare incerto ed anche
contraddit- torio del sistema. Se l’ intelletto
non è, se non quando pensa in
atto ; esso non può compirsi, se non
nell’ atto suo proprio. Se gl’
intelligibili non si differenziano dal- l’
atto medesimo che li pensa, come si
può dire, che l’ intelletto si fermi
nei primi principi, i quali in tal
modo dovrebbero avere un’ esistenza indipendente?
Forse ad ovviare a questi ed a tutti
gli altri incon- ■venienti finóra discorsi,
Aristotile ricorse allo sparii- j mento
del Noo in due, per potere più
facilmente altri- j buirgli le più
conlradittorie determinazioni. Il quinto
capitolo del terzo dei libri su l’
anima ospone la partizione dell’ intelletto
in attivo e passivo. \ Come nella
natura ci è la materia, eh’ è lutto in
potenza, \ e poi la causa che la
rechi in atto ; così bisogna che co-
teste differenze si trovino pure nell’anima.
In lei adun- que vi è un intelletto,
che può tutto divenire, ed mi altro
che può tutto fare. 1 E come l’agente
prevale sul paziente, cosi l’ intelletto,
che tutto fa, è fornito delle migliori
prerogative; è separato, eh’ è quanto dire non
dipendente da nessun organo, è impassibile, e
non ha mistura di sorta; perciò è
immortale ed eterno. Per contrario l’ intelletto
, che tutto diviene, è capace di patire, e
perciò è perituro, e senza l’ aiuto dell’
intel- letto attivo non può nulla pensare.
Il Noo attivo così descritto
apparisce essere quanto nell’ uomo v’ha
di divino ; anzi, come osserva il
Zeller, esso non si differenzia punto
dallo stesso Dio. E di ciò 1 /.ai
!<mv S pìv Totovro* vsus tw Tra/Ta
ycvss&at, S Sì' r» irà/Toc iisiitv. De
Anim., lib. Ili, 5. Digitized by
Google PIETRO POMPONAZZI. potrà
capacitarsi chiunque si faccia a riscontrare
la dob- trina del Noo attivo con
l’altr del Dio aristotelico,, come si
trova nel dodicesimo libro della
Metafisica. Se non chè il Noo attivo,
da alcuni tolto per lo stesso Dio,,
non si può considerare se non come
qualcosa dell’anima. Aristotile medesimo, se
da una parte lo chiama il divine
nell’ uomo ; 1 dall’ altra ci ricorda
eh’ esso ò un altro ge- nere di anima. 1
Intanto è impossibile concepire due es- senze
divine, una nell’anima umana, l’altra
separata; e questa contraddizione, prodotta dalla
solita dubbietà. di Aristotile, rimane
anch’ essa irresolubile. 3 Gl’ interpreti
di Aristotile, e non gliene mancarono’
neppure quando fioriva ancora la greca
filosofia, comin- ciarono percip a dissentire sul
Noo attivo, secondochè ci attesta Temistio.
Chi voleva farne la facoltà che co- glie
i supremi principi con una semplice
comprensione, e senza bisogno di discorrere,
come pare avesse intesa Temistio medesimo
(nè era certamente senza fonda- mento
cotesta interpretazione): chi per contrario
dal dover essere sempre in atto
argomentò che non po- tesse essere altri,
salvochè Dio; ed anche a cotesto com-
mento dava nerbo la descrizione sovresposta
di Aristotile. Se non che, obbiettava
lo stesso Temistio, Aristotile parla dell’
intelletto attivo e del passivo come di
diffe- renze (rà; Scxp cpas) dell’ anima ;
ed il porlo in Dio ri- 1 el
Oeiov è vaù? ir pòi t ài av9/Jwirov.
Et. ffie., X, 7. 8 7t»o; irti 59v.
Jìe An im., lib. Il, cgp. 3, § 9.
3 « Die ihatige Vernunft ist mit
Eincm Wort nicht atlein dea Guttli-
che im Menschen, sondern aie ist der
Sacbe noch von dei» gottlirhen Geiste
selbat nicht veracliieden. ...... Andererseits
liess sich aber freilich der ansserweltliche
gòttliebe Geist nicht wohl ala die
den Kinzclncn in" oli ricado nnd
mittelst der Zengnnge in aie iibcrgehcndo
Vernunft , ale ein Theil der menschlichen
Sede bezeichnen. Aber eine Liisung dieaea
Widersprucbs so- ebeà wir bei Aristatclca
vergeblieh. • Zeller, Phil der Grieche n,
Zw. Theil, pag, 440-441. Diaitized
CAPITOLO PRIMO. 87 pugnerebbe a
questo esplicito testo. Il Trendelerobnrg
nota tutte le precedenti dubbietà, nè
sa risolversi egli medesimo a miglior
partito, che a questo, di confes- sare cioè
una certa cognazione tra il Noo
attivo e Dio, senza però spiegare come
avvenga nella nostra mente questa
partecipazione del divino. * Ben si accorge
che Aristotile nella teorica del Noo
attivo rompe la preclara serie delle
umane facoltà, e del loro progressivo svi-'
luppo, introducendovi qualcosa di nuovo e
di estrin- seco, ma non riporta questa
rottura ad una più estesa, che noi
vedemmo fin da principio avvenuta dentro'
la costituzione originaria dell* individuo.
Al dotto critico di Berlino non Sfuggirono
però i testi ripugnanti, e la ragionevolezza
delle interpretazioni contraddittorie, ben- ché
egli non si fosse sforzato , come di
poi ha fatto il Zeller, di risalire
alla prima scaturigine di quelle con-
traddizioni divenute necessarie. Chi disse : I’
intelletto attivo è Dio, e Chi lo negò,
non ebbe certo difetto di testi per
convalidare la sua chiosa. 11 Brentano
non ha guari pubblicava un libro per
provare che il Noo è una facoltà
dell' anima, ma senza far caso delle
espressioni che si possono trarre iti
opposto senso. Così, a mò d'esempio, nel
libro della generazione degli animali ò
detto che l’ intelletto venga da fuori,
ed egli interpreta doversi intenderà non
del solo intelletto , ma di- tutta l’anima
intellettiva.* Che non abbia veduto
manifesta 1 Dopo riferite le parole
di Aristotile, che queste differenze di
attivo o - di passivo si trovino pare
nell’anima, soggiunge. « Qua) serba aperte
de humano agere mimo. « D’altra parte. «
Divina mena nibil esse potest , nisi
agens intcllectus , a qno veritas rerum manat
Sed quomodo liut, ut Immani mens
divine particeps sit, dietimi est nusquam.
s Com- meni. Ariti, de Anima, pag.
492, 493. 1 • Vor der Hmd sei
nnr bemnrkt, dass nnter dem vou; der
Svpy.Sev in den Fòla* eingeht , nidi t , wie
Manche meinen , der voù; 7ro‘V)Tt/o; at-
leta , sonderò die ganze ibujnj vortrtxv zn
versteben ist.» Die Ptychologie * 88
PIETRO POMPONA.ZZI. l’ oscillazione di
Aristotile dopo le profonde osservazioni
del Zeller, che pure ha letto, a me
sembra cosa stra- nissima ; ma ognuno, a
vedere, si vale degli occhi suoi e
non degli altrui. Eppure a lui è saltato
negli occhi il doppio valore del Noo
aristotelico; se non che, invece di
spiegare la causa di questa duplicità,
ei riconosce una sola significazione come
propria della, dottrina ari- stotelica,
l’altra come una certa metafora, di
cui Ari- stotile si fosse valso ; lui
che dalle metafore era alienis- simo. Come,
dice il Brentano, noi diciamo sano
tanto chi ha la sanità , quanto le
cose che conferiscono a pro- curarla, cosi
Aristotile ha potuto chiamare Noo tanto
il subbielto, che ha in sè il
pensiero, come il desiderio spirituale, che
n’ è un corollario, e Dio che n’ è il
prin- cipio creatore. 1 Cosi nella lingua
tedesca, ei soggiunge, Geruch vuol dire
ugualmente ed il senso che coglie gli
odori, e l’odore come qualità dei corpi. E
lutto questo va bene ; ma Aristotile
piglia il Noo tutte e due le volte in
significato proprio e serio; tanto nel
terzo libro dell’Anima, dove ne parla
come di differenza dell’ anima umana, come
nel dodicesimo libro della Metafisica, dove
lo descrive come primo motore immobile
nella relazione che ha con lutto l’
universo. E le descrizioni rinvergano cosi bene ,
che paia sempre lo stesso Noo che
si descri- ve : tanto il primo motore
della metafisica rassomiglia al Noo attivo
dei libri dell’anima! Da qui l’oscillazione
del sistema aristotelico, che nessuna
interpretazione, o distinzione al mondo
varrà a far cessare. * ‘ < des
Ar ilio tele*, intbetondere teine Lehre
vom vojj noi n ti xeg vou D*
Frani Brentano, Maini, 1807. 1 a So
knnnte aucb Aristoteles nicht bloss das,
was die Gedanksn io sich bat, sonderà
aucb das, was Folgc dea Deokes iat,
wie dea geistige Begebren , aber auch das ,
was ala Princip die Gedanken bervorbringt ,
ala #>9Ù; bczeichoen. — Brentano, op.
cit., pag. 171-172. CAPITOLO PRIMO.
89 Una nuova difficoltà ci si affaccia
nel conciliare le due differenze che
Aristotile introduce nel Noo, perchè il
passivo è detto corruttibile, e legato con
la memoria, col desiderio, con tutte
le altre facoltà inferiori ; e l’at- tivo,
per contrario, immisto, separabile, e perciò
im- mortale : ed intanto il primo ed
il secondo appartengono del pari all’
intelligenza, che n’ è il genere comune.
Ari- stotile nel distinguere il Noo in
passivo ed in attivo ha voluto
occorrere a due condizioni, imposte entrambe
dal suo sistema. Prima ha voluto
legare, il meglio che si poteva, l’
intelletto con le facoltà rimanenti ;
perciò ha dovuto introdurre in esso i
fantasmi per intendere, i desideri per
volere; e gli uni e gli altri si
fondano su la sensibilità, e perciò su
la materia, su la possibilità del
corpo. Dipoi ha voluto far dell’
intelletto la facollà che pone la
scienza, che coglie l’universale puro, sce-
verato da ogni qualsiasi possibilità, e che
perciò non avesse nessuna mistura di
potenza, o di materia, e fosse puro atto.
Da qui la distinzione di due
intelletti ; uno che attinge ancora alle
sorgenti della materia, l’altro che non
vi comunica punto. Perciò vedemmo che l’
in- telletto puro non può patire, e
consiste tutto nell’ atto; mentre chel’
intelletto passivo patisce, ed in certo
senso si dee dire che abbia della
materia, perchè ogni potenza è materia,
considerata per rispetto all’ atto. Hegel
ha cercato di conciliare questa
contraddizione, che si possa cioè dare
un intelletto che partecipi alla materia,
di- cendo che la possibilità nell’
intelletto non abbia nessuna materia,
perchè, nel pensare, la possibilità è ella
mede- sima un essere per sè. 1 Però
conciliazione siffatta tien 1 « Die
Moj>lichkeit eelbst ist abcr liier nicht
Materie; dar Versta mi hat nOinlicti
keine Mitene, scinderti die Moglickeit
geliort zu seiner Substanz eelbst. Denn
das Denken ist vielmrhr dieses , nicbt an
sicli za sein ; and. v egeti seiner
Reiobeit ist seme Wirklickeit nielli das
Fùrcinandersein , scine Digitized by Googte
90 PIETBO P0MP0NAZ7I. più
del sistema proprio dell’ Hegel, che di
quello di Aristotile. Quindi proviene
ancora l’ incertezza di determinare in che
consista veramente l’ intelletto passivo. Il
Tren- delemburg ha opinato eh’ esso
sia costituito da tutte le facoltà
raccolte quasi in un nodo, e considerate
come condizioni del pensare. Il quale
può aver pigliato il nome di passivo
sia perchè vien recato a perfezione dall’
intelletto attivo, sia perchè viene
occupato dalle cose esterne. 1 Tale
interpretazione però va incontro a questo
inconveniente, di rendere inutile la distinzione
che Ari- stotile aveva fatto tra sentire;
immaginare e pensare. Se il pensare non è
altro che il sentire e l’ immaginare
annodati insieme, perchè distinguerli da
quello? Non bisogna dimenticare mai che
dell’intelletto in generale Aristotile fece
un altro genere di anima. Pare
adunque che nello sviluppo della
intelligenza , medesima bisogna trovare quei
gradi che appartengono al Noo passivo , e
gli altri che sono propri del Noo
attivo. Già di questo ultimo noi
vedemmo che Aristotile avesse posto la
fun- zione peculiare talvolta nei primi
principi, tal’ altra nel ripiegarsi sopra
di sè. I gradi precedenti della scienza,
che del resto appartengono certo alla
intelligenza, biso- gna che si attribuiscano
aH’intelletto passivo. Tale è la ne- cessaria
conclusione a cui si perviene a guardare
nel lutt’ assieme la dottrina aristotelica,
e cosi vedo che ha interpretato pure
il Zelier, che nelle cose di
Aristotile Mogliclikeit «ber selbst cin
Fursichsein. » Hegel , GeschicMe der Philoi ..
tom. II, pag. 540—54 1 . 1 a Qua? a
sensu inde ad imagiuationem mentera anteccssorunt
, ad rea parcipiendas menti necessaria, sed
ad intelligendas non suflìciunt. Orno es iilas ,
qua? p r eccedimi , facultates in nnum quasi
nodum colleetas , □natenus ad rea
cogitaodas postula nlur, vouv TtuSriTixo v
dietas esse in- nicamus. > Trendclembnrg,
De Anima, Comment., pag. 493.
CAPITOLO PRIMO. 9f vede molto
addentro, ed ha grande autorità. L’
intelletto passivo per lui consiste in
quei gradi intermedi che stanno tra
il sollevarsi delle forze rappresentative
ed il pensiero compiuto che quieta in
sè stesso ; in quel pro- cesso riflessivo e
discorsivo che Aristotile stesso con- trassegna
con la parola ScuvousOca. 1 Guardando
ora tutta insieme la dottrina del Noo
aristotelico, essa ci presenta questa
contraddizione, di essere cioè considerato
come l’ ultimo sviluppo dell' at- tività
pensante nell’ uomo, e di essere
presupposto fuori dell’uomo, perfetto, compiuto
in sè, separato. È per questa ragione
che il Noo passivo ci vien mostrato
come processo, come discorso, ed il
Noo attivo come intui- zione ; e che il
primo è tenuto in minor conto del se-
condo. Affinchè la posizione aristotelica fosse
riuscita precisa e diritta, ei si sarebbe
dovuto disfare di quel- l’universale separato,
ed ambiguo, e tener fermo nel ri- guardare
lo spirito come processo rigoroso ed
ordinato. Ma per fare ciò, non
bisognava modificare soltanto la dottrina
dell’ intelletto , sì veramente mutare 1’
anda- damento generale del sistema ; cosa
che forse non era da pretendere in
quei tempi. Il concetto dello spirito
come sviluppo è risultato della filosofia
moderna. Un valoroso storiografo tedesco,
il prof. Carlo Pranll, non ha
dubitato di presentarci come genuino
sistema di Aristotile quello che per
noi è piuttosto un desiderio. Nò al
dotto critico manca ingegno o copia di
testi ; ma il suo fare sa troppo
di moderno, e perciò di- viene subito
sospetto. L’intelletto, il Noo
aristotelico, è per lui una im- mediata
unità nella duplicità della Giostra
essenza, e da un lato coglie l’uno
trascendente, il divino, dall’altro i 1
Zellcr, op.cit., pag. 441. Digitized
by Google f D2 PIETRO
POMPONAZH. molli, l’ individuo ; o in altri
termini è l’unità originaria del senso e
della ragione , il principio e la fine, l’
alfa e l’ omega.1 In un luogo dei
morali nicomachei si dice che il
senso è Noo ; e su tal dichiarazione il
critico tedesco rifà da capo tutta la
teorica di Aristotile. Dove gli altri
avevan visto un altro genere di
anima, egli scorge un’originaria medesimezza;
dove gli altri avevan tro- vato incertezze,
egli sicuramente afferma che il Noo
aristotelico è sviluppo, che muovendo dalle
impressioni sensibili arriva sino all’
universale. L’intelletto, dice il Franti ,
secondo il modo di ve- dere aristotelico,
non è una passiva intuizione, ma un*
attività che nel progresso del suo
sviluppo va dalla potenza all’atto. È un
accrescimento dentro sè stesso, Zuwachs in
sich selb&lhinein, come dice il critico
te- desco traducendo l’ iniSoais ì<?>’
tàuro di Aristotile. Che se l’ intelletto
si dice potenza , esso è una potenza tale
•che si distingue da tutte le altre
non solo perchè com- prende gli opposti,
ma ancora perchè si fonda sopra un
precedente attuale. La continuità dello
spirito in questo processo si pare a ciò,
che i primi pensieri si distinguono appena
dalle sensibili impressioni ; talché il
sapere non è qualcosa apparecchiato d’avanzo,
ma nasce la prima volta come * «
Der voi; ist fur dia Stale , vvas dea
Ange fur den Korper i«t , rr ist die
anraittelbare Einheit in der Duplicil&t
nnseres VVescn , deno er < rfasst
einerseits das trascendente Eioe , Gòttlicbe , and andrerseits
ist er cs atich , welcher das Einzelne ,
Viete ergreift , ja es wird io diesem
Sion , d. li. von einem wabrhaften
Antropologismns aus , selbst die
Sinneswabrnehraung aiisdriiklicli voi; gena noi;
und,indem so der voi; der geistige
Sion fQr dia beiderseitigen Crtheile ist ,
sowohl fOr jene , welche ein Ewìges und
Crsprùn- fjliebes aussprerben, als aocb
ffir jene , welche anf das Gcbiet des
Verglii- glicheo sich beziehen , a» kann er
mit Rccbt der Anfaog und das Eode ,
das vahre A und Q, des Apndeiktischeo
genannt wcrdon. » Getchichle der Logik. ’
Erster Band, pag. 106-407. Dii
by Google CAPITOLO PRIMO. 93
, tale. 1 Quando il Noo si solleva , sopra
tutte le opposi- zioni, al supremo Uno,
ivi pensa sè stesso, ed il pen- siero
ed il pensato s’ identificano : in tale
attività egli mostra la sua eternità.*
•> Tal’ è per sommi capi la
teorica del Noo aristote- lico secondo il
Prantl : prima, attività originaria , unità del
senso e della ragione ; poi sviluppo sino
al pensare, sviluppo tale che tra le
impressioni sensibili ed i primi gradi del
pensiero v’ è appena differenza ; infine
processa intimo, ed indipendente dalla
materia, fino ad attingere il pensiero
di sè stesso, e con questo l'eternità.
Questa esposizione toglie ogni dubbietà
ed irreso- lutezza dal sistema aristotelico, e
lo fa rigorosamente logico, però, a quel
che mi pare, a scapito della genui- nità.
Quella unità originaria sa troppo di
moderno, e quella eternità conseguita dal
nostro spirito nel colmo del suo
sviluppo è un’ intuizione moderna del pari.
Ciò che mi sembra schiettamente
aristotelico è il concetta dello sviluppo
applicato all’ attività dello spirilo ; ma
il pensare puro rimane pur sempre
staccato dalla serie preclara come diceva
il Trendelemburg. Ammettendo difatti la
spiegazione del Prantl, il Dio aristotelico
spa- risce, perchè il Noo è perfetto e compiuto
nello spirito umano; ed il Dio di
Aristotile, se bisogna a qualcosa, è per
cotesta ultima finalità. Il Prantl
tocca dell’ intelletto per arrivare al
comin- ciamento della Logica. Per lui l’
intelletto si compie nel concetto, cioè
nel cogliere l’universale, il quale non
è 1 Prantl, op. cit., loc. cit.,
pag. 412. * • Und indetti dar voù;
in dem Denkcn dieses bòchsten Einen
aicb se'btt deukt , erreicbt er das Ziel
and das Zweck seiner Actnaliiat : er
denkt das Angich and deukt kiebei
steli selbst in einer Tbeilnabme an
dem Geda- chten, ao dass Denken und
Gedacbtes ideatiseli siod ; in solcber
TbStigkeit erweister arine Ewigkeit. » Pag.
115, loc. cit. $4 PIETRO
POMPONAZZI. altro che l’ atto medesimo
dell’ intendere ; talmente che la logica s’
inizia là dove la psicologia finisce. L’
unilà immediata del Noo è il principio
della psicologia; l'unità immediata del concetto
è il cominciamento della logica.1 Il Prantl
fa una dotta e profonda investigazione
delie ca- tegorie aristoteliche, delle quali
mi rincresce non poter qui discorrere,
tanto più che nel Saggio sulla
filosofia greca io mi trovai,
inconsapevolmente, d’accordo col professore
tedesco nei risultati di quella ricerca.
Qui però non voglio omettere di dire
come il Prantl si accorge che lo
sviluppo dello spirito si riannoda colla
dottrina delle categorie, dove, oltre alle
determinazioni estrinseche •della sostanza,
bisogna ammettere un processo genetico -ed
intimo.1 Ma cotesto processo per il
quale la sostanza -si genera, rimane
nel sistema aristotelico ciò che direb-
besi una semplice esigenza. Perchè la
sostanza diventi •questa o quest’ altra
essenza, non apparisce ; e cosi non
apparisce neppure nello sviluppo dello
spirito la necessità del passaggio da
una forma all’ altra ; perciò neppure
la necessità del Noo, che, per tal
causa, può dirsi nell’ in - sieme
del sistema introdotto da fuora. Il Prantl
ha un bel chiamare il Noo unità
immediata, Ansich ; tutte coteste vedute
sono più profonde come scienza che
vere come storia. L’intelletto separato, il
motore immobile della me- 1 • Dass
aber Aristotele* eine Selbstentwicklung der Denktliàtigkeit
voo ciucili erstcr Stadium aa bis tu
einem letztea wesentlicli erreicbbsreu Zieie
«nerkennt, sahea wir gleicbfalls scbon
obeu.... ; und so ist ihiu aucb die
tìrsprùogliche Conception der Begriffe aio
erstcs Lumittelbares. • Pag. 216. 1 Voglio
riferire questa osservazione del Praotl eoo
le parole eoa cui I’ ha compendiata
un mio giovane amico in una bella
tesi di laurea: a Cosi intorno all’
individuo si raggnippano amendue i processi , nel
processo gene 4ico, o nel ytvsoàai vltOÒiì
l’individualità, la sostanza funziona da
predi, ceto, ed il suo soggetto è la
materia indeterminata; uel processo categorica
funziona da soggetto, e regge e sostiene tutte
le determinazioni categoriche. » Delle
varie interpretazioni dell' idea platonica e
della categoria aristo- telica, Tesi per
laurea di Felice Tocco. *C -«V-
Digitized by Gt CAPITOLO PRIMO.
95 tafisica, resiste ad ogni
più benevola interpretazione. Certo se
Aristotile avesse volato e potuto essere conseguente,
avrebbe pensato come lo fa pensare il
Prantl. Passando ora dall’ intelletto
alla libertà noi troviamo nella dottrina
aristotelica le tracce della prima indeter-
minatezza. 11 Brandis ha detto che la
libertà secondo Ari- stotile consiste nella
facoltà che ha lo spirito di
svilupparsi da sè e mediante se stesso
secondo la misura della sua originaria
disposizione. Ma, domanda con molla ragio-
nevolezza il Zeller, a qual parte dell’anima debbe
ap- partenere questo sviluppo ? alla ragione
no, perchè im- mobile ed inalterabile;
all’anima sensitiva ed appetitiva nemmanco,
perchè non sono capaci' di svilupparsi
con libertà, non potendo trovarsi libertà
se non dov’è la ragione. Rimarrebbe
l’intelletto passivo, al quale, sia detto
una volta per sempre, si ricorre
d’ordinario quando si scorge l’impossibilità
di dare uno scioglimento risoluto ; ma
esso stesso oscillando tra la ragione e la
sensibilità, avrebbe bisogno, al pari della
volontà, di uno schiarimento per vedere
in che modo si possa dare * una
facoltà che partecipi di due altre
cosi opposte, come sono il senso e la
ragione.1 Aristotile stesso accortosi della
specie di altalena che fanno la
ragione pratica ed il desi- derio, li
rassomiglia a due palle che si rimandano
da uno all’ altro.1 Un filosofo francese,
il Waddington, ta- glia come Alessandro il
nodo, invece di scioglierlo, di- cendo il
principio, la causa dell’atto volitivo
esser l’Io; degli altri atti essere
soltanto partecipe, ma qui il caso
esser diverso, e sentirsi assoluto e sovrano
padrone.* Ma appunto di questo Io noi
cerchiamo invano in Ari- 1 Zeller ,
op cit. , loc. cit., psg. 461. 1 Aristotile
, De anim., lib. IH, csp. 41, $3.
8 La Piicologia di Ariiloliie, esposta
da Carlo Waddiogton e Toltala in italiano
dalla marchesa Marianna Floreozi Waddington ,
pag. 284. Digìtized by Google
96 PIETRO POMPONAZZI. stotile, e
vogliamo scoprire (love si annida, se nella
ra- gione, o nella sensibilità, perchè la
volontà non è facoltà originaria, come non
è l’ intelletto passivo, nè l’ intelletto
pratico. La vera personalità dello spirito
è da cercare dunque o nella sensibilità, o
nella ragione, almeno se- condo i dati
della psicologia aristotelica. La scuola
ecclettica di Francia ha ripetuto sempre
che la volontà è l’ Io, essendoché la
ragione è impersonale ed i fatti sensibili
traggono origine dal mondo esteriore. Con
questa intuizione peculiare del loro
sistema, ei si fanno ad interpretare
Aristotile. Se non che la volontà per
il filosofo greco non è una facoltà
originaria , quanto meno perciò può essere
la intera personalità dello spi- rito! La
volontà è una specie di risultante prodotta
dal connubio della ragione col desiderio.
Le quali due facoltà essendo si
opposte, rimane assai difficile il definire
in quale di esse stia la libera
determinazione di se stessa. 1 Quando
Aristotile appaia la ragione speculativa
con le facoltà rappresentative, e ne fa l’
intelletto passivo ; ovvero quando accoppia
la ragione pratica col desiderio, e ne
fa la libera volontà, rimane sempre
incerto quale dei due elementi debba
prevalere: se la parte sensitiva ed
appetitiva debba trarre dalla sua la
ragione, ed in- trodurre in lei la
mutabilità ed il patire; ovvero se la
ragione, signoreggiando il senso e l’ appetito ,
debba far questi partecipi della propria
impassibilità ed eternità. Nella vera
conciliazione di cotesti due opposti
termini sarebbe stala riposta la persona
umana, se in Aristotilo il loro
accoppiamento non fosse rimasto un
accostamento esterno, e, come dicono i
Tedeschi, un Zusmrmensetzung~ 1 « Der
Wille musa demnach cioè ans Vernnnft
and Bugiarde snsam- mengetetzte Thatigheil
saio. Aber auf welcber Scita io
dieser Verbiudong da& eigentliche Wesen
dea Willens, die Krafta der freieu
Selbslbestimmung liegt , ist sclmer za
sagea. • Zeller, op. cit. , peg. 460.
CAPITOLO PRIMO. 97 Esclusa la
volontà, dove si deve dire che
alberghi la persona umana? Talvolta pare
che Aristotile la faccia consistere nella
propria ragione di ciascuno; ma la
ra- gione è un puro universale, incapace di
mutazioni e di patimenti, eterna ed
impassibile; ed invece la persona è il
subbielto proprio, e la causa intrinseca
dei suoi mutamenti. Tal’ altra volta pare
che Aristotile attribuisca la personalità
all’anima, in quanto senziente ed appeti-
tiva; ma, oltre che questa, come osserva
il Zelter, è incapace di produrre
movimenti da sè, secondochè so- stiene Io
stesso Aristotile, viene esplicitamente esclu- '
sa, dicendo che non nell’ anima, ma
nell’ uomo in quanto consta di corpo
e di anima, dee riporsi il subietlo
dei movimenti sensibili. Il corpo intanto
non è cagione del moto, perchè esso
verso l’anima è come la potenza verso l’
atto. Ecco in quali difficoltà ci
siamo imbattuti nel cercare dove consista
la personalità umana secondo i principi di
Aristotile. Le quali difficoltà, a parer
mio, procedono dal non aver Aristotile
fatto vedere per qual modo 1’
universale si determini, per intrinseca
energia e per dialettica necessità, nel
particolare, e diventi in- dividuo; e per qual
modo poi T individuo, rifacendo nel
processo conoscitivo il cammino inverso del
processo genetico, si sollevi dalle
determinazioni particolari ed accidentali all’
universale ed all’ assoluto. Non è già
che siffatto processo non sia stato
intraveduto dall’ acume di Aristotile, ma
non è stato spiegato con sufficiente chiarezza ,
perchè le sue dottrine s’ informassero
tutte secondo quel processo. Il Franti
accennando al processo genetico, come intimo,
e diverso dal processo catego- rico, e trovandone
le tracce nella Metafisica di Aristo- tile,
ed in altre sue opere, ha mostrato
come la deter- minazione dell’ universale
nel particolare, il concretarsi della forma
in una materia sia il primo postulato
di F. Fiomntiiso. 7 Digitized
by Google 98 PIETRO POMPONAZZI.
Aristotile. E spiegando dipoi come il
Noo, per assur- gere alla condizione
assoluta di pensiero, ha dovuto essere
fin da principio unità originaria,
individuo ed z universale, senso e ragione,
affinchè fosse possibile tutto lo sviluppo
intrinseco dello spirito, ha posto in
evidenza il secondo postulato, non meno
del primo in- dispensabile. I due postulati
che la critica del Prantl richiede
nel sistema aristotelico, nella metafisica
il primo, nella psicologia il secondo,
sono però, lo ripetiamo, appena intraveduti
da Aristotile, e non pienamente de- dotti. Forse
il concetto di sviluppo nello spirito è
molto più evidente che non il
processo genetico nella sostan- za; ma ciò
non toglie tutte le irresolutezze, ed
anche le contraddizioni, che noi abbiamo
fatto notare, giovan- doci degli studi del
Zeller, il quale ha collocato il si-
stema di Aristotile nella sua vera luce,
tanto per ri- spetto a Platone, come nel
suo intrinseco organamento. Dalle cose
premesse apparisce chiaramente quel che
debba dirsi della immortalità dell' anima
secondo Ari- stotile. Per lui tutto ciò
che si altera è soggetto alla morte;
onde le facoltà sensitive, le appetitive,
le rap- presentative, e perfino l’ intelletto
passivo finiscono con l’ organismo corporeo,
da cui dipendono, e con cui sono
indissolubilmente legati. Solo superstite è per
Aristotile l’ intelletto attivo, il quale,
se fosse provato che fosse da solo
la persona umana, basterebbe ad assicurare
l' immortalità. Ma l' intelletto attivo è il
solo elemento universale, una specie della
ragione impersonale della scuola eccletlica, e
perciò la sua durata non ha nulla
che fare con la durata dell’
individuo e della persona. Questo intelletto
attivo superstite, slegato che sarà dal
corpo, non avrà nè sensazioni, nè
fantasmi, nè memo- ria, nè desideri; e
perciò neppure volontà, nè intelletto
passivo; talché non potrà avere più
coscienza, nè per- Digitized by
Google CAPITOLO PRIMO. 99
sonalità che sodo inseparabili da tutte quelle
determi- nazioni. Che se si pon mente,
come il Noo attivo per pensare avesse
bisogno del passivo, noi potremo dire,
che Aristotile non poteva, secondo i
suoiprincipii, far sopravvivere l’ intelletto
attivo alla morte dell’ intelletto passivo, e
se, non ostante la forza della
logica, lo ha fatto, ciò ne dà
nuova riprova , che per lui non era ben
fermo il vero concetto del Noo, e che
una volta Io po- neva come termine
supremo dello sviluppo psichico, un’altra
volta ne lo stralciava, attribuendogli una
esi- stenza separata, impassibile ed immortale.
Aristotile non è pervenuto sino all’
autogenesi dello spirito', perchè non si
può creare quel che si suppone esterno
non solo, ma sproporzionalo alle facoltà
umane. L’ infinito per lui ora consisteva
nel concetto dello spi- rito, ed ora
in qualche cosa di esterno. Tolta l’
ipostasi dell’ universale che aveva ammesso
Platone per ciascuna ! cosa, ei la
ritenne per rispetto a Dio, perciò il
processo dello sviluppamento rimase dimezzato,
imbottendosi in un termine esteriore che
gliene impediva il prosegui- mento. Non ci
è un’ idea preformata della natura , per- :
ciò la natura può svilupparsi per
virtù intrinseca ; ma ; ci è l’ idea
di Dio sussistente d’avanzo, perciò lo
spi- rito non può farsi: egli già è
fatto, e non gli rimane se non d’
insinuarsi nel mondo e di svegliarvi il
pen- i siero. Questa mi pare la
posizione dell’ aristotelismo: ; Aristotile
rimase platonico per metà. Il prof.
Augusto Conti è ricorso a cause esteriori
ed accidentali per trovare una spiegazione
del sistema aristo- telico, e perchè l’egregio
professore di Pisa è il primo ai
nostri tempi che siasi dato a scrivere
una storia della filo- sofìa in Italia,
mette il conto di dare un saggio
del suo modo di criticare i sistemi.
Aristotile è passato dall’idea- lismo platonico
alla scienza delle cose reali : perchè?
Ecco "'Otgitized by Google
•too PIETRO POMPONAZZI. la risposta
del Conti: « dacché la civiltà greca,
uscendo da’ propri confini, si distendeva nell’
Asia con l’armi, era naturale che
alle idealità interiori, tutte di raccogli-
mento, succedesse la scienza delle cose
reali. » Ma tutto colesto, dico io,
non ci ha nulla che fare. Prima
di ogni cosa non è certo che
Aristotile abbia pensato il suo si- stema
proprio al lempo che i Greci passarono
in Asia ; ma, poniamo che sì,
qual relazione ci è fra una spedi- zione a
mano armata con una polemica su le
idee? Il prof. Conti discorre dei
vizi, pei quali i Greci vennero
specialmente in mala voce, ed eccoti
scoverta la causa, perchè la loro
filosofia « non giunse mai al puro
concetlo di creazione, pernio della
scienza. » An- che qui la causa mi pare
troppo lontana dall’ effetto, e non
veggo in che modo la corruzione dei
costumi greci potesse appannare il loro
intelletto. Forse non concepi- rono tante
cose vere e belle con tutte quelle
passioni? Forse, ai tempi in cui
fioriva 1’ accademia platonica, a Firenze
non dominavano vizi somiglianti? Dagli
scrit- tori di quel secolo parmi scorgere
che quelle brutture fossero molto in
voga, e intanto giunsero al puro con- cetto
della creazione non solo, ma concepirono
perfetta- mente tutti i dommi cattolici, e li
disposarono alla filo- sofia. Il
prof. Conti inclina troppo a far la
critica filoso- fica con la nascita e l’
educazione cristiana, con le rette inclinazioni
del cuore, con il candore dei
costumi; ma tutto ciò se prova a
favore del suo animo bennato, non dà
pari fondamento ad apprezzarne l’acume
critico* La scienza non si giudica
con la fede di buona condotta del
curato. Ma lasciando queste osservazioni
generali, che ap- partengono al suo
criterio storico, voglio notare che nella
teorica dell’ intelletto di Aristotile,
egli ha frantesi lIÀQOglc CAPITOLO
PRIMO. ÌM la mente dello Slagirita.
Di lui, difatti, dice il Conti che «
distinse l’ intelletto agente che fa
intelligibili le cose, dal possibile che
le concepisce. » 1 Aristotile invece chiama
intelletto possibile quello che tutto
diventa, agente quello die tutto fa , come
si può vedere nel testo medesimo dei
libri dell’Anima che ho di sopra
allegato. L’ atto con cui l’ intelletto
concepisce gli intelligibili, e gli intelligi-
bili medesimi sono tutt’ uno. Non ci sono già
le cose in- telligibili distinte dal
concetto; onde se Aristotile avesse posto
veramente questa differenza tra i due
intelletti, si sarebbe contraddetto. E che
il prof. Conti abbia travisato la
dottrina aristotelica, si pare da ciò , che
l’ intelletto possibile per Aristotile precede l’
agente, come la potenza precede l’ alto;
mentre pel professor Conti av- viene il
contrario, forse perchè non ha attinto
questa distinzione dalla sorgente aristotelica,
ma da qualche espositore che 1* avea
compreso male. Il peggio poi si è
che il professore di Pisa ha l’ aria
di non sospettare «eppure l’importanza di
questo problema, non meno che di
parecchi altri rilevantissimi, contento a
sfiorarli leggermente, quando non li
trasanda del tutto. Francesco Fiorentino. Fiorentino. Keywords:
idealismo, l’idea di natura in Talesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore,
filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Fiorentino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689818509/in/photolist-2mKDQcp-2mPBcdN-2mKCnei-2mKDA5r-2mPLygi-2mKj9Vm-2mJqjKS-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mGnP2f-2mKw3hq-DvhhWW-DhRHD2-CcQom5-BpZQLP-BpUj3L-CizXhT-Bm2xGQ-Cix5XZ-CdAEaL-CfWKjF-CdDizG-Bq3qnZ-obW75K-oa5425-oa52o5-2mQuZ9p-o9gw6u-nhHPhH-nhRBAG-nfDpKm-nhfmz6-njgyUp-nhFqkp-nj9RAK-nfppU1-nfCuEo-nhqgt7-nfCCMe-nje4Xa-njaa4a-nhsppz-nfCL9Q-nhFDy8-nhc3FN-njanDk-nfCYM5-nhFvTt-nhs4nv-nfCRmU
Grice e Fioretti – pro-ginnasmi – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Mercatale). Filosofo. – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking;
he says Plato should never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and
he is right; in my long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write
a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore di
“Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia
raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli
scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità
e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze
e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori
classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata.
Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più
contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del
conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto fuggì,
e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che
recita: Resurrexit, non est hic.
Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò
completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di
Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di
nessuno, ad eccezione di Dio".
Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico
critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio,
pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E
stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente
franco. Al suo pseudonimo era solito
aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la
mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità
dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa
accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si
concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e
politici impegnati. Lasciò come ela sua
biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo
Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella
Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande
erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i
più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e
Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca,
Tiraboschi. Luca, Scheda Biografica su
Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria
d'Italia: Il Seicento. Gian Vittorio
Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini”
(Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij...,
Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia;
Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della
eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,
storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani,
I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B.
Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana,
Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto
Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il
Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni,
Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della
letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine
Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso,
Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton
Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella
cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, 8,
Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano, Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Benedetto
Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro. Mascolinità assieme
di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui
Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi,
comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è
costruita socialmente e culturalmente,[1] anche se alcuni comportamenti
considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente
influenzati.[1][2][3][4] Fino a che punto la mascolinità sia influenzata
biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito.[2][3][4] Il genere
maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile,[5][6]
poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche
maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di
mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture
e periodi storici.[7] Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e
socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità,
forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività.[8][9][10][11] Il
machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso
associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.[12] Il
suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.[13] Uno dei sinonimi
maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche
significa uomo. Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed
il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti
storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme[14];
la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un
ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite
dell'effeminato per gli standard moderni[15]. Le norme tradizionali
maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant
intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di
femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso
dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato,
l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e
l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto
maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di
genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti
appartenere di diritto al genere maschile[17]. Lo studio accademico della
mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli
anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della
mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti[18].
Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di
mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per
l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di
costruzione sociale del genere[19]. Natura ed educazioneModifica
Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della
mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo.
La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto
di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio
spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.
La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo
delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale
specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma
Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina
chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta l'ormone
antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione. Vi è
ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà
corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura
sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano
maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile
biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto
fondamentale della mascolinità[21]. Altri invece suggeriscono che, mentre
la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però
ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola
fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti
sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo
spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene
considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a
radersi[22]. Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo. Esempio di maschio
poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la
maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di
arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo
anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i
tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica,
cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e
che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del
genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della
legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e
la subordinazione delle donne"[24]. Il Dr. Joseph Pleck sostiene che
una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella
dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e
non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la
dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità,
distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo
per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però
anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di
mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio
stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione
dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche
sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed
istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.
CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti
di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere
applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla
mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi
femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali
appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha
in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla
promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli
uomini per femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi e giovani uomini
presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi
alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i
media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti
maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa,
soprattutto nella pubblicità[27]. Scholar Peter Jackson scrive che le
forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di
oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai
controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi,
attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità
obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte
maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del
lavoro produttivo e riproduttivo "[28]. Il lavoro meccanico in
fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in
crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi
decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi
nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda
crisi[29][30]. La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche
conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini
sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso
d'appartenenza[31]. Altri vedono il mercato del lavoro in costante
evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e
la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un
numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla
pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza
fisica[32]. Tendenze contemporaneeModifica L'operaio edile, esempio
moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti
relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità
maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto
che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo
definitivo. Secondo un documento presentato all'American Psychological
Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle
donne nella società, si è recentemente verificato un aumento
nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la
loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un
corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari"[33].
Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di
moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di
fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano
eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma
corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico
del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia
riversa)[34][35][36]. Terminologia Modifica
I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono
soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di
mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità[37].
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Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather
Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti
esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla
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uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading
meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional
intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile.
Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King
Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard
Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte
mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future
Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Controllo di autoritàThesaurus
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(topic) Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che
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CORRELATE Effeminatezza termine Michael Messner (sociologo) sociologo
statunitense Privilegio maschile privilegio sociale degli individui
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Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais
ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio,
ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi
--. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica.
Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool
Library.
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Grice e Fisischella
– il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice:
“I love Fisichella; for one, he was a nobleman; for another, he died during
Messina’s earthquake – leaving unfinished quite a few essays – he philosophised
on both ‘nature’ and ‘convention,’ and the rationalist basis of his theory of
contract is Griceian in nature, even if he fills it with charming Roman
detail!” Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore
di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a
Messina. Morì vittima del terremoto di Messina. Altre opere: “Roma e il Mondo”
(Eugenio Coco); “Pena temporaria, pena perpetua”; “Il concetto d’ “obbligazione
naturale””; “Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII”
(Carmelo de Stefano); “Matrimonio, questione di stato – la legge di
matrimonio”. Fu nominato "bibliotecario onorario" Federico De
Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte
pagine del suo romanzo I Viceré. Whoever
has glanced through the pages of any text-book on Mercantile Law will
hardly deny that Contract is the handmaid if not actually the child
of Trade. Merchants and bankers must have what soldiers and farmers
seldom need, the means of making and enforcing various agreements
with ease and certainty. Thus, turning to the special case before
us, we should expect to find that when Rome was in her infancy and when
her free inhabitants busied themselves chiefly with tillage and
with petty warfare, their rules of sale, loan, suretyship, were few and
clumsy. Villages do not contain lawyers, and even in towns hucksters
do not employ them. 'Poverty of Contract was in fact a striking
feature of the early Roman Law, and can be readily understood in the
light of the rule just stated. The explanation given by Sir Henry
Maine is doubtless true, but does not seem altogether adequate. He
points out' that the Roman house- hold consisted of many families under
the rule of a ' Ancient Law, p. 312. B. E. 1
Digitized by Microsoft® 2 INTRODUCTION.
paternal autocrat, so that few freemen had what we should call
legal capacity, and consequently there arose few occasions for Contract.
This may indeed account for the non-existence of Agency, but not
for that of all other contractual forms. For if the households had been
trading instead of farming corporations, they must necessarily have been
more richly provided in this respect. The fact that their commerce
was trivial, if it existed at all, alone accounts completely for the
insignificance of Con- tract in their early Law. The origin
of Contract as a feature of social life was therefore simultaneous with
the birth of Trade and requires no further explanation. It is with
the origin and history of its individual forms that the following
pages have to deal. As Roman civilization progresses we find Commerce
extending and Contract growing steadily to be more complex and more
flexible. Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of
agreement which sufficed for the requirements of a semi-barbarous
people have been almost wholly transformed into the elaborate
system of Contract preserved for us in the fragments of the Antonine
jurists. Digitized by Microsoft® CHAPTER
I. THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS. At the most
remote period concerning which statements of reasonable accuracy can be
made, and which for convenience we may call the Regal Period, we
can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The
promise could be enforced either (1) by the person interested, or
(2) by the gods, or (3) by the community. When however we speak of
enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a con- ception unknown to primitive Law. The only kind
of enforcement then possible was to make punish- ment the alternative of
performance. I. Self-help, the most obvious method of re-
dress in a societj' just emerging from barbarism, was doubtless the most
ancient protection to promises, since we find it to have been not only
the mode by which the anger of the individual was expressed, but
also one of the authorised means employed by the gods or the community to
signify their displeasure. This rough form of justice fell within the
domain of Law in the sense that the law allowed it, and even
1 2 Digitized by Microsoft® 4 THE EEGAL
PERIOD : EARLY AGREEMENTS. encouraged men to punish the delinquent,
whenever religion or custom had been violated. But as people grew
more civilized and the nation larger, sdf-help must have proved a
difficult and therefore inade- quate remedy. Accordingly its scope was by
degrees narrowed, and at last with the introduction of surer
methods it became wholly obsolete. II. Eeligious Law, as
administered by the priests, the representatives of the gods, was
another powerful agency for the support of promises. A violation of
Fides, the sacred bond formed between the parties to an agreement, was an
act of impiety which laid a burden on the conscience of the delin-
quent and may even have entailed religious disabili- ties. Fides was of
the essence of every compact, but there were certain cases in which its
violation was punished with exceptional severity. If an agreement
had been solemnly made in the presence of the gods, its breach was
punishable as an act of gross sacrilege. III. The third
agency for the protection of promises was legal in our sense of the word.
It consisted of penalties imposed upon bad faith by the laws of the
nation, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the
delinquent belonged. What the sanction was in each case we are left
to conjecture. It may have been public disgrace, or exclusion from the
guild, or the paying of a fine. And as some promises might be
strength- ened by an appeal to the gods, so might others by an
invocation of the people as witnesses. Agreements then might be of
three kinds corre- Digitized by Microsoft® EARLY
PACTA. 5 spending to the three kinds of sanction. They might
consist of (1) an entirely formless compact, (2) a solemn appeal to the
gods, or (3) a solemn appeal to the people. I. A formless
compact is called pactum in the language of the twelve Tables. It was
merely a distinct understanding between parties who trusted to each
other's word, and in the infancy of Law it must have been the kind of
agreement most generally used in the ordinary business of life.
Such agreements are doubtless the oldest of all, since it is almost
impossible to conceive of a time when men did not barter acts and
promises as freely as they bartered goods and without the
accompani- ment of any ceremony. Compacts of this sort were
protected by the universal respect for Fides, and their violation may
perhaps have been visited with penalties by the guild or by the gens. But
intensely religious as the early Romans were, there must have been
cases in which conscience was too weak a barrier against fraud, and
slight penalties were ineffectual. Fear of the gods had to be
reinforced by the fear of man, and self-help was the remedy which
naturally suggested itself. In the twelve Tables pactum appears in a
negative shape, as a compact by performing which retaliation or a
law-suit could be avoided ^ If this compact was broken the offended party
pursued his remedy. Similarly where a positive pactum was violated,
the injured person must have had the option of chastising 1
Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20. Digitized by Microsoft®
6 THE BEGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS. the delinquent.
His revenge might take the form of personal violence, seizure of the
other's goods, or the retention of a pawn already in his possession.
He could choose his own mode of punishment, but if his adversary proved
too strong for him, he doubtless had to go unavenged ; whereas if the
broken agree- ment belonged to either of the other classes, the
injured party had the whole support of the priesthood or the community at
his back, and thus was certain of obtaining satisfaction. It is
therefore plain that though formless agreements contained the germ of
Contract, they could not have produced a true law of Contract, because
by their very nature they lacked binding force. Their sanction
depended on the caprice of individuals, whereas the essence of Contract
is that the breach of an agreement is punishable in a particular
way. A further element was needed, and this was supplied by the
invocation of higher powers. II. At what period the fashion was
introduced of confirming promises by an appeal to the gods it would
be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such appeals
was alone con- sidered, and their form was of no importance. But
under the influence of custom or of the priest- hood, they assumed by
degrees a formal character, and it is thus that we find them in our
earliest authorities. Since Eeligion and Law were both at
first the monopoly of the priestly order, and since the religious
forms of promise have their counterpart in the customs of Greece and
other primitive peoples, Digitized by Microsoft®
PUBLIC AGREEMENTS. 7 whereas the secular forms are peculiarly
RomanS the religious forms are evidently the older, and formal
contract has therefore had a religious origin. Fides being a divine
thing, the most natural means of confirming a promise was to place it
under divine protection. This could be accomplished in two ways, by
iusiurandum or by sponsio, each of which was a solemn declaration placing
the promise or agreement under the guardianship of the gods. Each
of these forms has a curious history, and as they are the earliest
specimens of true Contract, we may discuss them in the next
chapter. III. Another method, and one peculiar to the Romans,
which naturally suggested itself for the protection of agreements, was to
perform the whole transaction in view of the people. Publicity
ensured the fairness of the agreement, and placed its ex- istence
beyond dispute. If the transaction was essentially a public matter, such
as the official sale of public lauds, or the giving out of public
contracts, no formality seems ever to have been required, so that
even a formless agreement was in that case binding. The same validity could
be secured for private contracts by having them publicly witnessed,
and, the nexuTn was but one application of this principle. In
testamentary Law it seems probable that the public will in comitiis
calatis was also formless, whereas in private the testator could
only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens " testimonium, mihi perhibetote." Thus
the two elements which turned a bare 1 See p. 22. Digitized
by Microsoft® 8 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.
agreement into a contract were religion and publicity. The naked
agreements (pacta) need not concern us, since, their validity as
contracts never received complete recognition. But it will be the object
of the following pages to show how agreements grew into contracts
by being invested with a religious or public dignity, and to trace the
subsequent process by which this outward clothing was slowly cast
ofif. Formalism was the only means by which Contract could have
risen to an established position, but when that position was fully
attained we shall find Contract discarding forms and returning to the
state of bare agreement from which it had sprung.
Digitized by Microsoft® CHAPTER II. CONTRACTS
OF THE EEGAL PERIOD. Art. 1. IvsiVRANDVM is derived by some
from louisiurandum^, which merely indicates that Jupiter was the god by
whom men generally swore. To make an oath was to call upon some god
to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he
swerved from it. This appears from the wording of the oath inLivy^ where
Scipio says: "Si sciens /alio, turn me, luppiter optime maxime,
domum familiam remque meam pessimo leto afficias," and from
the oath upon the luppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus,
where a man throws down a flint and says : " Si sciens folio, turn
me Dispiter saliia urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem." A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. Cicero remarks^ that the oath
was proved by the language of the XII Tables to have been in former times
the most binding form of promise ; and since an oath was still morally
binding 1 Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53. 3 Off.
III. 31. 111. Digitized by Microsoft® 10
CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. in the time of Cicero, though it had
then no legal force, the point of his remark must be that in
earlier times the oath was legally binding also. From Dionysius we know
that the altar of Hercules (called Ara Maxima) was a place at which
solemn compacts (a-vvOrJKai) were often made', while Plautus and
Cicero inform us that such compacts were solemnized by grasping the altar
and taking an oath''- It would seem probable that the gods were
consulted by the taking of auspices before an oath was made. Cicero says
that even in private affairs the ancients used to take no step
without asking the advice of the gods*; and we may safely
conjecture that whenever a god was called upon to witness a solemn
proniise, he was first enquired of, so that he might have the option of
refusing his assent by giving unfavourable auspices. The terms of
the oath were known as concepta uerba, at least in the later Republic,
and like the other forms of the period they were strictly construed*.
Periuriwm did not mean then, as now, false swearing. It meant the
breach of an oath', the commission of any act at variance with the uerba
concepta'^. There is some dispute as to what were the exact
consequences of such a breach. Voigt' thinks that it merely entailed
excommunication from religious rites, but Danz^ is clearly right in
maintaining that its consequences in early times were far more serious
; 1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49. Cic. Flace. 36. 90.
3 Biv. 1. 16. 28. " Seru. ad Aen. 12. 13. " i.e.
sciens fallere, Plin. Paneg.d'i. Seneca, Ben. iii. 37. 4. 8 Off. III. 29.
108. ' lus Nat. in. 229. 8 j{g„i. ^(j_ „_ g 149 Digitized by
Microsoft® EFFECTS OF IVSIVSAJSfDVM. 11 they
amounted in fact to complete outlawry. Cicero says that the sacratae
leges of the ancients confirmed the validity of oaths. Now a sacrata
lex was one which declared the transgressor to be sacer (i.e. a
victim devoted) to some particular god^ and sacer in the so-called laws
of Seruius Tullius^ and in the XII Tables' was the epithet of
condem- nation applied to the undutiful child and the unrighteous
patron. So likewise it seems highly probable that the breaker of an oath
became sacer, and that his punishment, as Cicero hints'*, was
usually death. The formula of an oath given by Polybius" is more
comprehensive than that given by Paulus Diaconus^ for in it the swearer
prays that, if he should transgress, he may forfeit not only the
religious but also the civil rights of his countrymen. This shows that
the oath-breaker was an utter outcast; in fact, as the gods could
not always execute vengeance in person, what they did was to
withdraw their protection from the offender and leave him to the
punishment of his fellow-men'. The drawbacks to this method of contract
were the same as those of the old English Law, which made hanging
the penalty for a slight theft ; the penalty was likely to be out of all
proportion to the injury inflicted by a breach of the promise. So
awful indeed was it, that no promise of an ordinary kind could well
be given in such a dangerous form, and consequently the oath was not
available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230,
s.u. plorare. » Seru. ad Aen. 6. 609. ^ Leg. ii. 9. 22. ^ ni.
25. 5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.
Digitized by Microsoft® 12 CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. common affairs of daily life. The use of the oath
therefore disappeared with the rise of other forms of binding agreement,
the severity of whose remedies was proportionate to the rights which had
been violated; while at the same time the breaking of an oath came
to be considered as a moral, instead of a legal, offence, and by the end
of the Republic entailed nothing more serious than disgrace
(dedecus). In one instance only did the legal force of the oath
survive. As late as the days of Justinian, the services due to patrons by
their freedmen were still promised under oath'. But the penalty for
the neglect of those services had changed with the development of
the law. At and before the time of the XII Tables, the freedman who
neglected his patron, like the patron who injured his freedman'',
no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing for his life, as we are
told by Dionysius'. But in classical times the heavy religious penalty
had disappeared, and the iurisiurandi ohligatio was en- forced by a
special praetorian action, the actio operarum*. By the time of Ulpian the
effects of the iurata operarum promissio seem indeed to have been
identical with those of the operarum stipu- lation, though the forms of
the two were still quite distinct. We may then summarise as follows
our knowledge as to this primitive mode of contract : The
form was a verbal declaration on the part of the promisor, couched in a
solemn and carefully 1 38 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n,
iq. * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10.
Digitized by Microsoft® THE EARLY SP0N8I0. 13
worded^ formula (concepta uerba), wherein he called upon the gods
(testari deosY, to behold his good faith and to punish him for a breach
of it. The sanction was the withdrawal of divine protection,
so that the delinquent was exposed to death at the hand of any man who
chose to slay him. The mode of release, if any, does not
appear. In classical times it was the acceptilatio^, but this was
clearly anomalous and resulted from the similar juristic treatment of
operae promissae and operae iuratae. Art. 2. Sponsio. Though
the point is contested by high authority, yet it scarcely admits of a
doubt that there existed from very early times another form, known
as spon^io, by which agreements could be made under religious sanction.
This method, as Danz has pointed out, was originally connected with
the preceding one. It was derived from the stern and solemn compact made
under an oath to the gods. But Danz goes too far when he identifies
the two, and states that sponsio was but another name for the sworn
promise^. The stages through which the sponsio seems to have passed tell
a different story. The word is closely connected with (Tirovhrj,
a-rrevSeiv, and hence originally meant a pouring out of wine'*, quite
distinct from the con- vivial Xot^T) or lihatio^, so that " libation
" is not its proper equivalent. The other derivation given by
1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. ^ Plaut. Rud. 5. 2. 52. 5 46 Dig. 4.
13. '' Danz, Sacr. Schutz, p. 105. 5 Featus-p. 329 s.u. spondere. ^
Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o. Digitized by
Microsoft® 14 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.
Varro' and Verrius^ from spons, the will, whence according to
Girtanner' spmsio must have meant a declaration of the will, savours
somewhat too strongly of classical etymology. I. This pouring
out of wine, as Leist* has ■ shown, was in the Homeric age a constant
accom- paniment to the conclusion of a sworn compact of alliance
(opKia iriaTo) between friendly nations. The sacrificial wine seems originally
to have added force to the oath by symbolising the blood which
would be spilt if the gods were insulted by a breach of that oath. In
this then its original form sponsio was nothing more than an accessory
piece of cere- monial. II. The second stage was brought about
by the omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as
the principal ceremony in making less important agreements of a private
nature. In the Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is
customary at betrothals ^ and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connec- tion with which we find sponsio and
sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride °, were
very like those of other Aryan communities'. We may therefore clearly
infer that at Rome also there was a time when the pouring out of wine was
a part of the marriage-contract; and thus our derivation of the
word receives independent confirmation. III. In the third and last
stage sponsio meant ^ L. L. VI. 7. 69. ° Festus, s. u. spotidere. '
Stip. p. 84. •* Greco-It. B. G. § 60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p.
443. » Gell. IV. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. ' Leist, loc.
cit. Digitized by Microsoft®
PECULIARITIES OF SPONSIO. 15 nothing more than a particular form
of promise, and it is easy to see how this came about. At first the
verbal promise took its name from the ceremony of wine-pouring which gave
to it binding force ; but in course of time this ceremony was left out as
taken for granted, and then the promise alone, provided words of
style were correctly used, still retained its old uses and its old name.
Sponsio from being a ceremonial act became a form of words. Such
was the final stage of its development. The importance
attached to the use of the words spondesne ?, spondeo in preference to
all others' thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally
meant " Do you promise by the sacrifice of wine ? " "I do
so promise," just as we say, "I give you my oath,"
when we do not dream of actually taking one. Another peculiarity of
sponsio, noticed though not explained by Gaius^, was the fact that it
could be used in one exceptional case to make a binding agreement
between Romans and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gains
expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a
sacrifice of pure wine ((nrovBal aKprjToi) was one of the early
formalities of an international compact (opKia iria-Ta), it was natural
that the word spo'ndeo should survive on such occasions, even after the
oath and the wine- pouring had long since vanished. Sponsio
being then a religious act and subse- quently a religious formula, its
sanctity was doubtless protected by the pontiffs with suitable penalties.
What these penalties were we cannot hope to know, 1 Gai. HI. 93. ^ m.
94. Digitized by Microsoft® 16 CONTRACTS OF THE
REGAL PERIOD. though clearly they were the forerunners of the
penal sponsio tertiae partis of the later procedure. Varro^ informs us
that, besides being used at be- trothals the sponsio was employed in
money (pecunia) transactions. If pecunia includes more than money
we may well suppose that cattle and other forms of property, which could
be designated by number and not by weight, were capable of being promised
in this manner. Indeed it is by no means unlikely^ that nesBum was
at one time the proper form for a loan of money by weight, while sponsio
was the proper form for a loan of coined money (pecunia numerata).
The making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the actio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the origin
and early history of the sponsio is so different from the views
taken by many excellent authorities that we must examine their theories
in order to see why they appear untenable. One great class of
commentators have held that the sponsio is not a primitive institu-
tion, but was introduced at a date subsequeat to the XII Tables. The
adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so
early a period, of a form of contract so convenient and flexible as
the sponsio, and they also attach great weight to the fact that no
mention of sponsio occurs in our fragments of the XII Tables. While it
would doubtless be an anachronism to ascribe to the early 1 L. L.
VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42. Digitized by Microsoft®
THEORIES AS TO ORIGIN OF SP0N810. 17 sponsio the
actionability and breadth of scope which it had in later times, still it
may very well have been sanctioned by religious law, in ways of
which nothing can be known unless the pontifical Com- mentaries of
Papirius' should some day be discovered. As to the silence of the XII
Tables on this subject, we are told by Pomponius that they were
intended to define and reform the law rather than to serve as a
comprehensive code". Therefore they may well have passed over a
subject like sponsio which was already regulated by the priesthood.
Or, if they did mention it, their provisions on the subject may
have been lost, like the provisions as to iusiurandmn, which we know of
only through a casual remark of Cicero's '>- The early
date here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved by any
such negative evidence. Let us see how the case stands with regard
to the question of origin. (a) The theory best known in England,
owing to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a
simplified form of nexum, in which the ceremonial had fallen away and the
nuncupatio had alone been left^. This explanation is now so utterly
obsolete that it is not worth refuting, especially since Mr
Hunter's exhaustive criticism^ One fact which in itself is utterly fatal
to such a theory is that the nuncupatio was an assertion requiring no
reply". 1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4.
3 Off. m. 31. 111. * Maine, Anc. Law, p. 326. 5 Hunter,
Bovian Law, p. 385. " Gai. ii. 24. B. E. 2
Digitized by Microsoft® 18 CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. whereas the essential thing about the sponsio was a
question coupled with an answer. (6) Voigt follows Girtanner in
maintaining that spondere signified originally " to declare- one's will,"
and he vaguely ascribes the use of sponsiones in the making of agreements
to an ancient custom existing at Rome as well as in Latium'. He
agrees with the view here expressed that the sponsio was known
prior to the XII Tables, but thinks that before the XII Tables it was
neither a contract (which is strictly true if by contract we mean
an agreement enforceable by action), nor an act in the law, and
that its use as a contract began in the fourth century as a result of Latin
influenced In another place' he expresses the opinion that its
introduction as a contract was due to legislation, and most probably to
the Lex Silia. The objections to ■ this view are (1) that the etymology
is probably wrong, and (2) that the inference drawn as to the original
meaning of spondere involves us in serious diflSculties. An expression of
the will can be made by a formless declaration as well as by a formal
one. And if a formless agreement be a sponsio, as it must be if
sponsio means any declaration of the will, how are we to explain the
formal importance attaching to the use of the particular words ''
spon- desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious
nature of the sponsio, which I have endeavoured to establish, and (4) it
forgets that sponsio, being part of the marriage ceremonial, one of the
first subjects 1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43. 3 lus
Nat. §§ 33-4. Digitized by Microsoft®
THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO. 19 to be regulated by the
laws of Romulus \ is most probably one of the oldest Roman
institutions. Again (5), as Esmarch has observed^ the legislative
origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We only know that the
Lex Silia introduced an improved procedure for matters which were already
actionable, and had a new formal contract been created by such a
definite act we should almost certainly have been informed of this by the
classical writers. (c) Danz also derives sponsio from spans,
the vvill; but he takes spondere to mean sua sponte iurare, and thinks
that the original sponsio was exactly the same as iusiurandum, i.e.
nothing more than an oath of a particular kind^. His chief argu-
ment for this view is to be found in Paulus Diaconus, who gives
consponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus meant more
than to give a synonym ? in which case it by no means follows that
spondere = iurare. For such a statement as that we have absolutely no
authority. Moreover, as we saw above, iusiurandum was a one-sided declaration
on the part of the promisor only. How then could the sponsio,
consisting as it did of question and answer, have sprung from such a
source ? especially since the iusiurandum, though no longer armed
with a legal sanction, was still used as late as the days of Plautus
alongside of the sponsio and in complete contrast to it ? {d)
Girtanner, in his reply to the "Sacrale Schutz" of Danz^,
maintains that sponsio had nothing 1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u.
R. W. ii. 516. ^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4
ft. 2—2 Digitized by Microsoft® 20
CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. to do with an oath, but was a simple
declaration of the individual will, and that stipulatio had its
origin in the respect paid to Fides. This view however is even less
supported by evideiice than that of Danz'. Arguing again from analogy
Girtanner thinks that, as the Roman people regulated its affairs by
expressing its will publicly in the Comitia, so we may conjecture that
individuals could validly express their will in private affairs, in other
words could make a binding sponsio. But this, as well as being a
wrong analogy, is a misapprehension of a leading principle of early Law.
For, as we have seen, no agreement resting simply upon the will of
the parties (i.e. pactwn) was valid without some outward stamp being
affixed to it, in the shape of approval expressed by the gods or by the
people. In the language of the more modem law, we may say that such
approval, tacit or explicit, religious or secular, was the original
caiisa ciuilis which dis- tinguished contractus from pactiones. Now a
popular vote in the Comitia bore the stamp of public approval as
plainly as did the nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was
clearly not endorsed by the people ; therefore the endorsement
which it needed in order to become a contractus iuris ciuilis must have
been of a religious nature, and that such was the case appears plainly if
we admit that sponsio originated in a religious cere- monial such
as I have described. To recapitulate the view here given, we
mav conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291. Digitized by
Microsoft® GROWTH OP SPONSION 21 of the Roman
and Latin peoples, which grew into its later form through three stages,
(a) It was originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact
of alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it
became a sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not jtnade
under oath such as betrothals. Just as iusiurandum for many
purposes was sufficient without the pouring out of wine, so for
other purposes sponsio came to be sufficient without the oath, (c) Lastly
it became a verbal formula, expressed in language implying the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justi- nian, Its form was a
question put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "
" Spondeo." " Centum dari spondes ? " "
Spondeo." Throughout its history this was a form which Roman
citizens alone could use, in which fact we clearly see religious exclusiveness
and a further proof of religious origin. Why they used question and
answer rather than plain statement is a minor point the origin of
which no theory has yet accounted for. The most plausible conjecture
seems to be that the recapitulation by the promisee was intended to
secure the complete understanding by the promisor of the exact nature of
his promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the Digitized by Microsoft®
22 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. pontifical law we cannot
tell what that sanction was. Having now examined the ways in
which an agreement could be made binding under religious sanction,
let us see how binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum, and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan
civilizations'. Art. 3. NEXVM. There is no more disputed sub-
ject in the whole history of Roman Law than the origin and development of
this one contract. Yet the facts are simple, and though we cannot be sure
that every detail is accurate, we have enough information to see
clearly what the transaction was like as a whole. We know that it was a
negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other
commodity measured by weight in the presence of witnesses^; that the
commodity so weighed was a loan' ; and that default in the repayment of a
loan thus made exposed the borrower to bondage* and savage
punishment at the hands of the lender. We know also that it existed as a
loan before the XII Tables, for it is mentioned in them as
something quite different from mancipivjn^. To assert, as Bech-
mann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I.
Civ. !•" Abt. pp. 435-443. 2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro,
L. L. 7. 105. " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L. § 22.
Digitized by Microsoft® THEORIES AS TO ORIGIN OF
NEXVM. 23 well as loan " mancipiuvique " must therefore
be an interpolation into the text of the XII Tables S is an
arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of nexum and of
mancipium shows that they were distinct conceptions. Mancipium implies
the transfer of manus, ownership ; nexum implies the making of a
bond {cf. nectere, to bind), the precise equivalent of obligatio in the
later law. It is true that both nexum and mancipium required the use of
copper and scales, to measure in one case the price, in the other
the amount of the loan. But this coincidence by no means proves that the
two transactions were identical. A modem deed is used both for leases
and for conveyances of real property, yet that would be a strange
argument to prove that a lease and a conveyance were originally the same
thing. Here however we are met by a difficulty. If, as some hold
" and as I have tried to prove, we must regard mancipium as an
institution of prehistoric times distinct from the purely contractual
nexum, how are we to explain the fact that nexum is used by Cicero'
and by other classical writers' as equi- valent to mancipium, or as a
general term signifying omne quod per aes et libram geritur, whether a
loan, a will, or a conveyance ? Now first we must notice the fact
that nexum had at any rate not always been synonymous with mancipium, for
if it had been so, there could have been no doubt in the minds of
1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n. 3 ad Fam.
7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Farad. 5. 1. 35.; pro Mur. 2.
* Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua Aelius in Festus, s.u.
nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105. Digitized by
Microsoft® 24 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.
Scaeuola and Varro that a res nexa was the same thing as a res
mandpata. This Scaeuola and Varro both deny, and we must remember that
Mucins Scaeuola was the Papinian of his day. ManiUus* on the other
hand, struck perhaps by the likeness in form of the obsolete nexum to
other still existing iwgotia per aes et Ubram, seems to have made
nexum into a generic term for this whole class of trans- actions.
In this he was followed by Gallus Aelius'. The new and wider meaning,
given by them to that which was a technical term at the period of
the XII Tables, apparently became general in literature, partly for
the very reason that nexum no longer had an actual existence, partly
because neon liberatio, the old release of nexum, had been adopted
by custom as the proper form of release in matters which had
nothing to do with the original nexum, namely in the release of
judgment-debts and of legacies per damnationem^. One pecuUarity
men- tioned by Gains in the release of such legacies seems
altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of the
genus nexum. Gains says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res mancijri included land and cattle.
Therefore if mandpivm were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mandpi,
but this, as Gaius shows, was not the case. The view that nexum was
the parent gestum per 1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s.
u. nexum. s Gai. III. 173-5. Digitized by
Microsoft® NBXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM. 25 aes
et libram, and that mancipium was the name given later to one particular
form of nexum, is worth examining at some length, because it is
widely accepted S and because it fundamentally affects our opinion
concerning the early history of an important contract. Bechmann^ thinks it
more reasonable to suppose that nexum narrowed from a general to a
specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum should
have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram
geritur^ when it was still a living mode of contract, and the technical
meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual form no
longer existed. What seems far more likely is that nexum had a
technical meaning until it ceased to be practised subsequently to the Lex
Poetilia, and that its loose meaning was introduced in the later
Republic, partly to denote the binding force of any contract*,
partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram'^. Even in Cicero we find the word nexum used chiefly with a view to
elegance of style" in places where mandpatio would have been a
clumsy word and where' there could be no doubt as to the real meaning.
But when Cicero is writing history, he uses nexum in its old technical
sense and actually tells us that it had become obsolete'. 1
See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 lb. p. 131.
" Varro, I. c. — Pestus, s.u. nexum. ■» Cf. ''nexu uenditi " in
Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cio. de Or. iii. 40. 159. 6
Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28. ' As in pro Mur. 2;
Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1.
Digitized by Microsoft® 26 CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. Rejecting then as untenable the notion that neseum
denoted a variety of transactions, let us see how it originated. The most
obvious way of lending com or copper or any <other ponderable
commodity, was to weigh it out to the borrower, who would naturally at
the same time specify by word of mouth the terms on which he
accepted the loan. In order to make the transaction binding, an
obvious precaution would be to call in witnesses, or if the transaction
took place, as it most likely would, in the market-place, the mere
publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may believe,
that a nexum was originally made. It was a formless agreement necessarily
accompanied by the act of weighing and made under public super-
vision. It dealt only with commodities which could be measured with the
scales and weights, and did not recognize the distinction between res mancipi
and res nee mancipi, — a strong argument that neoeum and mancipium were,
as above said, totally distinct affairs. Its sanction lay in the acts
of violence which the creditor might see fit to commit against the
debtor, if payment was not performed according to the terms of his
agreement. Personal violence was regulated by the XII Tables, in
the rules of manus iniectio, but before that time it is safe to
conjecture that any form of retaliation against the person or property of
the debtor was freely allowed. The fixing of the number of
witnesses at five', which we find also in mancipium, is the only
modification of nexum that we know of prior to ' Gai. III. 174.
Digitized by Microsoft® FUNCTION OF NEXAL WITNESSES.
27 the XII Tables. Bekker^ suggests that this change was one
of the reforms of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by
representing the five classes of the Servian census, personified the
whole people. This is a mere conjecture, but a very plausible one.
For we are told by Dionysius^ that Seruius made fifty enactments on the
subject of Contract and Crime, and in another passage of the same
author', we find an analogous case of a law which forbade the
exposure of a child except with the approval of five ■ witnesses. But
here a question has been raised as to what the witnesses did. The correct
answer, I believe, is that given by Bechmann*, who maintains that
the witnesses approved the transaction as a whole, and vouched for its
being properly and fairly performed. Huschke, on the other hand, claims
that the function of the witnesses was to superintend the weighing
of the copper, and that before the intro- duction of coined money some
such public supervision was necessary in order to convert the raw copper
into a lawful medium of exchange^. This view is part of Huschke's theory,
that neosum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act
per- formed under public authority, and (2) it was the recognised
mode of measuring out copper money by weight. The first part
of Huschke's theory may be accepted without reserve, but the second part
seems quite untenable. We have no evidence to show that neooum was
confined to loans of money or of 1 Akt. I. 22 ff. 2 jy_ IS -J jj.
15. * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff. Digitized by
Microsoft® 28 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.
copper. Indeed we gather from a passage of Cicero that far, corn,
may have been the earliest object of neooum', while Gains states that
anything measurable by weight could be dealt with by nexi solutio'.
No inference in favour of Huschke's theory can be drawn from the
name negotium per aes et lihram, for this phrase obviously dates from the
more recent times when the ceremony had only a formal signifi-
cance, and when the aes {rauduscidum) was merely struck against the
scales. If then we reject the second part of Huschke's theory, and admit,
as , we certainly should, that nescum could deal with any
ponderable commodity, it is evident that his whole view as to the
function of the witnesses must collapse also. The very notion of turning
copper from merchandise into legal tender is far too subtle to have
ever occurred to the minds of the early Romans. As Bechmann* rightly
remarks, the original object of the State in making coin was not to
create an authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight
and fineness of the medium most generally used. The view of Huschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neivum radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities^ but which has few if any
supporters among modern jurists. This view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as 1
Cio. de Leg. Agr. ii. 30. 83. ^ in. 175. » Xauf, i. p. 87. * See Sell,
Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in Danz, BSm. RG. ii.
25. Digitized by Microsoft® NEXVM A LOAN
BY WEIGHT. 29 a freeman who gives himself into slavery for a
debt which he owes\ The inference drawn from this remark was that
the debtor's body, not the creditor's money, was the object of nexvm, and
that a debtor who sold himself by mancipium as a pledge for the
repayment of a loan was said to make a newum'K Such a theory does not
however harmonize with the facts. The evidence is entirely opposed to it,
for Varro's statement, as will be seen later on, admits of quite
another meaning. Neither nexum nor Tnan- cipium is ever found practised
by a man upon his own person. Nor could nexum have applied to a
debtor's person, for the idea of treating a debtor like a res mmicipi or
like a thing quod pundere numero C07istat, is absurd. Again, if neccu/m =
mancipium, the conveyance of the debtor's body as a pledge must
have taken effect as soon as the money was lent, therefore (1) by thus
becoming nexus he must have been in mancipio long before a default could
occur, which is too strange to be believed, and (2) being in
mancipio he must have been capita deminutus^, which Quintilian expressly
states that no nexal debtor ever was*. Clearly then mancipium was under
no cir- cumstances a factor in nexum,. Thus it would seem
that the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other
goods measurable by weight, is the one beset with fewest
difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later
law were called res fungihiles. 1 Varro, L. L. vii. 105 and see
page 52. 2 nexum inire, Liu. vii. 19. 5. " Paul.
Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311. Digitized by
Microsoft® 30 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. The
borrower was not required to return the very same thing, but an equal
quantity of the same kind of thing. And this explains why neancm, the
first genuine contract of the Eoman Law, should have received such
ample protection. A tool or a beast of burden could be lent with but
little risk, for either could be easily identified ; but the loan of corn
or of metal would have been attended with very great risk, had not
the law been careful to ensure the publicity of every such transaction.
lusiurandum or sponsio might no doubt have been used for making
loans, but they both lacked the great advantage of accurate measurement,
which necmm owed to its public character. It was the presence of
witnesses which raised neocum from a formless loan into a contract of
loan. This general sketch of the original neooum is all that
can be given with certainty. The details of the picture cannot be filled
in, unless we draw upon our imagination. We do not know what verbal
agreement passed between the borrower and the lender, though it is fairly
certain that payment of interest on the loan might be made a part of
the contract. We cannot even be quite sure whether the scale-holder
(libripens) was an official, as some have suggested, or a mere
assistants Our description of the contract may then be
briefly recapitulated as follows: The form consisted of the
weighing out and delivery to the borrower of goods measurable by
weight, in the presence of witnesses, (five in number, ' See page
52. Digitized by Microsoft® EARLY FORM OF
NEXVM. 31 probably since the time of Seruius Tullius), whose
attendance ensured the proper performance of the ceremony. The ownership
of the particular goods passed to the borrower, who was merely bound
to return an equal quantity of the same kind of goods, but the
terms of each contract were approximately fixed by a verbal agreement
uttered at the time. The sanction consisted of the violent
measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there .seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (neooi solutio) was a ceremony pre-
cisely similar to that of the neocum itself, the amount of the loan being
weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses '.
Art. 4. We have now examined three methods by which a binding
promise could be made in the earliest period of the Roman Law. The
next question which confronts us is whether there existed at that
time any other method. The other forms of contract, besides those already
described, which are found existing at the period of the XII Tables,
were fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio. Did any
of these have their origin before this time ? Fiducia is doubtful, and
lex mancipi, as we shall see, owed its existence to an important
provision 1 Gai. III. 174. Digitized by Microsoft®
32 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. of that code. As to
the origin of uadimonium, we cannot fee certain, but judging from a
passage in Gellius* we are almost forced to the conclusion that
uadimonium also was a creation of the XII Tables. Gellius speaks of
" uades et subuades et XX V asses et taliones...omnisque ilia XII
Tabularum antiquitas." We know that twenty-five asses was the
fine imposed by the XII Tables for cutting down another man's tree,
therefore it would seem from the context that uades had also been introduced
by that code. The point cannot be settled, but since the XII Tables
were at any rate the first enactments on the subject of which anything is
known, we may discuss uadimonium in treating of the next period.
The only contract of which the remote antiquity is beyond dispute is the
dotis dictio. Art. 0. DOTIS DICTIO. Dionysius^ informs us
that in the earliest times a dowry was given with daughters on their
marriage, and that if the father could not afford this expense his
clients were bound to contribute. Hence it is clear not only that
dos existed from very early times, but that custom even in remote
antiquity had fenced it about with strict rules. From Ulpian' we know
that dos could be bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or
dotis datio. The promissio was a promise by stipu- lation, and the datio
was the transfer by mancipation or tradition of the property constituting
the dowry ; so that these two are easy to understand. But dotis
dictio is an obscure subject. It is diflBcult to know whence it acquired
its binding force as a contract, 1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi.
1. Digitized by Microsoft® THEORIES AS TO
DOTIS DICTIO. 33 since in form it was unlike all other
contracts with which we are acquainted. Its antiquity is evidenced not
only by this peculiarity of form, but also by a passage in the Theodosian
Code which speaks of dotis dictio as conforming with the ancient
law'. An illustration occurs in Terence^ where the father says,
"Dos, Pamphile, est decern talenta," and Pamphilus, the future
son-in-law, replies, " Accipio " ; but we need not conclude
that the transaction was always formal, for the above Code°, in
permitting the use of any form, seems rather to be restating the old law
than making a new enactment. A further peculiarity, stated by
Ulpian* and by Gaius^ was that dotis dictio could be validly used
only by the bride, by her father or cognates on the father's side, or by
a debtor of the bride acting with her authority. Dictio is a significant
word, for Ulpian'' distinguishes between dictum and promis- sum,
the former, he says, being a mere statement, the latter a binding
promise. This distinction should doubtless be applied in the present
case, since dotis dictio and dotis promissio were clearly different.
The following theories seem to be erroneous : (a) Von Meykow' holds that
dictio was adopted as a form of promise instead of sponsio for this
family affair of dos, in order not to hurt the feelings of the
biide and of her kinsmen by appearing to question their bona fides. That
theory would be a plausible explanation, if dictio could ever have meant
a 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ■' 3. 13. 4. *
Reg. VI. 2. ^ Epit. ii. 9. 3. « 21 Dig. 1. 19. ' Diet. d. Rom.
Brautg. p. 5 ff. B. E. 3 Digitized by Microsoft®
34 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. promise, but from
what Ulpian says, this can hardly be admitted. (6) Bechmann^
again, connects dotis dictio with the ceremony otsponsio at the betrothal
of a daughter. The dos, he thinks, was promised by a sponsio made
at the betrothal, so that the peculiar form known as dotis dictio was
originally nothing more than the specification of a dowry already
promised. The dotis dictio would therefore have been at first a
mere pactum adiectam, which was made actionable in later times,
while still preserving its ancient form. The objection to this theory is
that it lacks evidence : indeed the only passage (that of Terence) in
which dotis dictio is presented to us with a context goes to show
that this contract was in no way connected with the act of
betrothal. (c) Another explanation is given by Czylharz^ i.e.
that dotis dictio was a formal contract. His view is based on the scholia
attached to the passage of Terence, which say of the bridegroom's
answer : " ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset."
Czylharz therefore looks upon the contract as an inverted stipulation.
The offer of a promise was made by the promisor, and when accepted by the
promisee became a contract. Though such a process is quite in harmony
with modern notions of Contract, it would have been a complete anomaly at
Rome. And we cannot believe that, if acceptance by the promisee had
been a necessary part of the dotis dictio, we should not have been so informed
by Gaius, when he has been so careful to impress 1 ESm. Dotalrecht.
2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G. vn. 243. Digitized by
Microsoft® THEORY OF DANZ. 35 upon US that the
dotis dictio could be made nulla interrogatione praecedente. Thus the view
of Czylharz besides being in itself improbable is almost entirely
unsupported by evidence. Even the scholiast on Terence need not
necessarily mean that " accipio " was an indispensable part of
the trans- action. He may merely have meant that the bride- groom
at this juncture could decline the proffered dos if he chose, and this
interpretation is borne out by lulianus" and Marcellus^ who give
formulae of dotis dictio without any words of acceptance. A
satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz'.
He looks upon dos as having been due from the father or male
ascendants of the bride as an officium, pietatis*, and quotes passages
from the classical writers in which they speak of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing'. The source of the
obligation lay in this relationship to the bride, not in any binding
effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation
might be actionable its amount had to be fixed, and this was just
what the dictio accomplished. It was an acknowledgment of the debt which
custom had decreed that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos was precisely analogous to the debt
of service which a freedman owed as an officium to bis patron, and which
he acknowledged by the iurata operarum promissio. The dos and the
operae were both officia pietatis, but 1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig.
3. 59. ' Rom. BG. 1. 163. ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2.
63 ; Cic. Quint. 31. 98. .3—2 Digitized by
Microsoft® 36 CONTEACTS OF THE REGAL PERIOD. it
became customary to specify their nature and their quantity. In the one
case this was done by an oath, in the other by a simple declaration, and
in both cases the law gave an action to protect these anomalous
forms of agreement. What kind of action could be brought on a dotis
dictio is not known. Voigt^ states it to have been an actio dictae
dotis, for which he even gives the formula, but formula and action are
alike purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was
action- able since it constituted a valid contract. How or when
this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz'
theory, and one not mentioned by him, is that it explains the capacity
of the three classes of persons by whom alone dotis dictio could be
performed. (1) The father and male ascendants of the bride were bound to
provide a dos under penalty of ignominia^ ; (2) the bride, if sui
iuris, was bound to contribute to the support of her husband's household
for exactly the same reason'; and (3) a debtor of the bride was bound to
carry out her orders with respect to her assets in his posses-
sion, and supposing her whole fortune to have con- sisted of a debt due
to her, it is evident that a dotis dictio by the debtor was the only way
in which this fortune could be settled as a dos at all. Thus the
hypothesis that the dos was a debt morally due from the father of the
bride, or from the bride herself, whenever a marriage took place,
completely explains the curious limitation with 1 XII Taf. II. §
123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio. Top. i. 23. Digitized by
Microsoft® FORM OF DOTIS DICTIO. 37 regard to
the parties who could perform dotis dictio. The nature of the transaction
may then be summarized as follows : Its form was an oral
declaration on the part of (1) the bride's father or male cognates, (2)
of the bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting
forth the nature and amount of the property which he or she meant to
bestow as dowry, and spoken in the presence of the bridegroom. Land as
well as moveables could be settled in this manner'. No particular
formula was necessary. The bridegroom might, if he liked, express himself
satisfied with the dos so specified ; but his acceptance does not
seem to have been an essential feature of the proceeding. Most
probably he did not have to speak at all. Its sanction does not
appear, though we may be sure that there was some action to compel
perform- ance of the promise. This action, whatever it may have
been, could of course be brought by the bride's husband against the maker
of the dotis dictio. Perhaps in the earliest times the sanction was
a purely religious one. Art. 6. Now that we have seen the
various ways in which a binding contract could be made in the
earliest period of Eoman history, we may con- sider briefly the general
characteristics of that primi- tive contractual system. The first
striking point is that all the contracts hitherto mentioned are
unilateral : the promisor alone was bound, and he was not entitled, in
virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the
promisee. 1 Gai. Ep. 3. 9. Digitized by Microsoft®
38 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. The second point is that
the consent of the parties was not sufficient to bind them. Over and
above that consent the agreement between them was required to bear
the stamp of popular or divine approval. Even in dotis dictio, as we have
just seen, a simple declaration uttered by the promisor was
invested with the force of a contract merely because the substance of
that declaration was a transfer of property approved and required by
public opinion. Thirdly we notice that the intention of the con-
tracting parties was verbally expressed, but that the language employed
was not originally of any impor- tance (except in the one case of
sponsio), provided the intention was clearly conveyed. We must
therefore modify the statement so commonly made that the earliest
known contracts were couched in a particular form of words. For how did
each of these particular forms originate and acquire the shape in
which we afterwards find it ? By having long been used to express
agreements which were binding though their language was informal, and by
having thus gradually obtained a technical significance. Conse-
quently the formal stage was not the earliest stage of Contract. The most
primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but
an agree- ment clothed with the approval of Church or State.
Digitized by Microsoft® CHAPTER III.
THE TWELVE TABLES. Art. 1. The causes leading to the
enactment of the great Reform Bill known as the XII Tables were
chiefly social, and the indefinite state of the law was the grievance
which called most loudly for a remedy. Contracts and conveyances were
but little respected, the powers of the nexal creditor were sorely
abused, and legal procedure in general was most uncertain. Yet more than all
else the law of torts and crimes needed radical reform : so that
though we possess but few actual fragments of the XII Tables we have
enough to tell us that very little space was devoted to reforms in the
law of Contract. This fact ought not to surprise us, knowing as we
do that commerce was still in a very backward state. We hear
nothing of any provision in the XII Tables with respect to sponsio, but
we know from Cicero that iusiurandwn was recognised and enforced'.
Botis dictio was not mentioned, so far as we can discover. A new form,
the lex mancipi, 1 Off. HI, 31. 111.. Digitized by
Microsoft® 40 THE TWELVE TABLES. was created by
one provision of this code, though its creation was not apparently
intended by the Decemvirs, but was rather the result of juristic
interpretation. Vadimoniitm,, a contract which we have not yet examined,
was either created or considerably modified by the XII Tables, and
con- stituted the earliest form of suretyship. As the hard
condition of nexal debtors was one of the evils which led most directly
to the secession of the plebs and to the consequent enactment of
the new code, we should naturally expect to find laws passed for
their protection. Accordingly it is with nexum that the contractual
clauses of the XII Tables are principally concerned. Art. 2.
NEXVM. I. The first provision as to this contract was embodied in the
famous words which Festus has transmitted to us: CVM nexym
FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT ITA ivs ESTO^ This
was equivalent to saying that the language used by the party making a
nexum was to be strictly followed in determining what his rights
and liabilities should be. The fact that such a declaratory law was
needed discloses two features of the primitive nexum. We can see
(1) that the act of weighing, not the words which accompanied that act,
was the essence of the original transaction, so that the scales must have
been used actually, and not symbolically as they were in later days
: (2) that the terms of a nexal loan must often have been disobeyed; if,
for instance, ' Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia.
Digitized by Microsoft® CHANGES IN NEXVM.
41 the debtor had agreed to pay at the end of one year, it
might happen that a harsh creditor would enforce payment at the end of
six months. This shows that the people were not feared as witnesses
to the same extent as were the gods who presided over msiurandum and
sponsio. The fact of the loan was proved beyond question by the witnesses
present, but there was evidently no sacred virtue in the words which went
with the loan, and these were not therefore binding simply because spoken
in the people's hearing. This defect was what the XII Tables aimed
at correcting. They thenceforth placed the verbal terms of nexum on as
strong a footing as the words of sponsio. Conditions as to the
amount of interest payable, the date of maturity of the loan, the
security to be given by the debtor, could all now be inserted in the
verbal nuncupatio. And still more important was the fact that the
sum or amount of the loan itself could be verbally announced at the
ceremony, so that if the debtor said " I hereby receive and am bound
to repay fifty asses," this speech was as binding upon him as
if the fifty asses had been actually weighed out to him in copper. As
long as the money or corn was really weighed in the scales, nexum
continued to be a natural and material method of loan ; but when by
the introduction of coined money it became possible to count instead of
weighing a given quantity of copper, then nexum tended to become an
artificial and symbolical operation. The reason obviously is that
counting is far more simple than weighing. Thus when a loan of 100 asses
was being made. Digitized by Microsoft® 42 THE
TWELVE TABLES. it became customary to name this sum in the
nuncupatio without weighing it at all. The scales and witnesses appeared
as before, but the scales were not used. The borrower, instead of taking
100 asses out of the scale-pan, simply struck it with a piece of
copper so as to conform with the outward semblance of the transaction.
Though the weighing had been dispensed with, yet by this rule of
the XII Tables he was as much bound in the sum of 100 asses as
though they had actually been weighed out to him. Hence the important
efifect of the clause which I have quoted. Given a proper coinage
that clause transformed the loan of money into a datio imaginana and the
release of such a loan into an imaginana solutio. The outward form
of neacum remained the same, but the actual process was greatly
simplified. This change was doubtless not intended when the rule was made
by the Decemvirs. It was the result of a more or less unconscious
and probably gradual development. The genuine weighing and the fictitious
weighing doubtless existed side by side. But it seems fairly
certain that the introduction of coined money was another of the
Decemviral reforms', and if so, we may assume that nexum changed from a
ceremony perfoi-med with the scales into one performed with copper
and scales (negotium per aes et libram) not long after the Decemviral
legislation. II. Another important provision relating to
nescum modified the harsh remedy hitherto appUed by the creditor against
the delinquent debtor. 1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175.
Digitized by Microsoft® RESTRICTIONS ON POWER OF
CREDITOR. 43 The words of the XII Tables have been fortu-
nately preserved by Gellius', and run as follows: AERIS CONFESSI
REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO
ESTO. IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO EO IN IVRE
VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE
AVT SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO. NI SVO VIVIT QVI
EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS
DATO. There are two knotty points in the above passage. (1)
What is the exact distinction between ac- knowledged money debts {aes
confessum) and judg- ments obtained by regular process of Law (res
iure iudicatae) ? (2) To what class of delinquents did the
punishment apply ? (1) It can hardly be doubted^ that aes
con- fessuTn included a debt contracted by nexum, as well as any
other kind of debt the existence of which was not denied by the debtor.
For example, a debt incurred by formless agreement or by sponsio
would be an instance of aes confessum, provided the debtor admitted his
liability. But in nexum this liability had already been admitted solemnly
and before witnesses; to deny the existence of a nexal debt was
impossible. Therefore aes confes- sum seems to be a term quite applicable
to a debt contracted by nexum. The words aeris nexi were probably
not used in the context because aeris confessi had a wider meaning, and
this law 1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note.
Digitized by Microsoft® 44 THE TWELVE TABLES.
was apparently intended to cover much more than the one case of
nexal indebtedness. The other class of debts here described as
res iure iudicatae are no donbt judgment-debts. Where damages had
been judicially awarded to one of the parties to an action, some means
had to be provided of compelling payment from the other party. The
executive in those early times was too weak to enforce its decisions, and
self-help, as we have seen, was the usual resource of aggrieved persons.
The only way in which the law could assist judgment creditors was
by declaring what extent of retalia- tion they might lawfully take. And
this brings us to the second question : (2) In what cases was
the above mentioned manus iniectio to be exercised ? Voigt^ remarks
that the XII Tables never mention manus iniectio as being a means of
punishing default in a case of nexum. He then proceeds to state that the
remedy for nexum was an actio pecuniae nuncupatae. Not only is this
statement purely fanciful, as there is no mention of actio pecimiae
nuncupatae in any of our authorities, but Voigt has surely ignored
the evidence before him. Admitting, as we must, that nexum is
included among the cases named at the beginning of the above clause, we
can scarcely avoid the further conclusion long ago reached by
Huschke that the rest of the clause, with its 30 days of grace, manus
iniectio, ductio in ius, and all the consequences of disregarding the
iudicatum, is a description of the punishment to which a breach of
1 XII Taf, I. 169. Digitized by Microsoft®
JUDICIAL RECOGNITION OF NEXVM. 45 nexum might lead, as well
as of that annexed to the other kinds of aes confessum and to res iure
iudi- catae. The whole clause is one continuous state- ment, and to
hold that the latter part of it, beginning at Ni IVDICATVM FACIT,
provides a penalty solely for the case of judgment-debts, seems a
very strained and unnatural interpretation. Why ex- plain iudicatum
as referring only to judgment indebtedness ? Just before it in the text
we find the direction IN ivs DVCITO, so that a nexal debtor after manus
iniectio evidently had to be brought into court. The precaution was
probably a new restraint upon the violence of creditors, in order
that the justice of their claims and the propriety of manus iniectio
might be judicially determined. But if a judge had to pronounce upon the
validity of such proceedings, surely his decree might be de-
scribed by the term iudicatum, as found in the above passage. It is no
answer to say that the nature of aes confessum precludes the possibility
of a judicial decision, and that therefore iudicatum can only refer
to a res iure iudicata, that is, a judgment-debt. For in spite of this
alleged dis- tinction we find here that debtors of aes confessum
and judgment-debtors were treated in exactly the same way. Each of them
was at first seized by his creditor and brought into court. Now why
should this have been necessary in the case of a iudicatus more
than in that of a nexus 1 For a judgment- debt seems to need judicial
recognition just as little as a nexal debt. And yet we find that ductio
in ius was prescribed in both cases. The only Digitized by
Microsoft® 46 THE TWELVE TABLES. rational way of
explaining the difficulty, seems to he to take iudicatum in the sense not
of a judgment-debt but of a judicial decree, and to translate the
passage as follows: "Let the creditor bring the debtor into court.
Unless the debtor obeys the decree of the court or finds meanwhile
a champion of his cause^ in the court, let the creditor lead him off into
private custody, and fetter him" etc. etc. Thus the ductio in ius,
the iudicatum, the domum ductio, and the directions as to the right
kind of fetters and the proper quantity of food, must all have applied
equally to aes con- fessum (including nexum) and to res iure
iudicatae. This view is confirmed by the passage in which Livy '^
describes the abolition of the severe penalties of nexum,. The bill by
which this was done or- dained, so Livy tells us, " nequis, nisi qui
noxam meruisset, donee poenam lueret, in convpedibus aut in neruo
teneretur . . .ita nexi soluti, cautumque in pos- teru/m ne
necterentur." This law, the Lex Poetilia, was evidently passed for
the relief of nexi, and relief was given by abolishing the use of
compedes et neruum. Now as this was the very description of fetters
given by the XII Tables in our text, it seems certain that the language
of the Lex Poetilia referred to this clause of the Decemviral Code.
Hence it follows that the punishment provided by this code was nexum,
which is the view already deduced from the words of the XII Tables
them- selves. The contrary interpretation, which is there- 1
PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28. Digitized by
Microsoft® FURTHER RESTRICTIONS. 47 fore
probably erroneous, has strong supporters in Muirhead^ and Voigt^
But even though a iudicatum was thus necessary in order to permit
the nexal creditor to lead off his debtor into custody, we may agree with
Muirhead that the preliminary manus iniectio was within the power
of the nexal creditor without any judicial proceed- ings. The nexum being
a public transaction, a debt thereby contracted was so notorious as to
justify summary procedure. Before the XII Tables, when self-help
was subject to no regulations that we can discover, this summary
procedure could be carried to all lengths in the way of severity
and cruelty. But when the XII Tables had interposed the ductio in
ius for the protection of nexal debtors, no other precaution against
injustice was needful, and a preliminary trial before the manus
iniectio would have been so superfluous that we cannot believe it
to have ever been required. The elaborate provisions for the
punishment of debtors did not end with the text which has come down
to us and which has been quoted above. The substance, though not the
actual wording, of the remainder of the law has fortunately been
preserved by Gellius'. As far as our text goes, the proceedings consist
of (1) manus iniectio, the arrest or seizure of the debtor by the
creditor; (2) ductio in ius, the bringing of the debtor into court,
that is, before the praetor or consid ; (3) iudi- catum, a decree of the
praetor recognising the creditor's claim as just and the proceedings
as ' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52.
Digitized by Microsoft® 48 THE TWELVE TABLES.
properly taken. At this stage a uindex may step in on the debtor's
behalf. What was the exact nature of his intervention we cannot know, but
from Festus' definition he seems to have been a friend of the
debtor, who denied the justice of his arrest and stood up in his defence.
By the XII Tables he had to be of the same class as the debtor whom
he defended^ and if his assertions proved to be false he was liable
to a heavy fine^. If on the other hand his defence was satisfactory to
the Court, further proceedings were doubtless stayed. But if no
satis- faction was given either by the uindex or by the debtor,
then (4) the creditor was entitled to lead home his debtor in bondage, though
not in slavery, and to bind him with cords or with shackles of not
less than 15 lbs. weight. Meanwhile the law as- sumed that the debtor
would prefer to live upon his own resources. This shows that a nexal
debtor was not always a bankrupt, and that it must often have been
the will and not the power to pay which was wanting in his case. As there
existed in those days no means of attaching a man's property, the
only alternative was to attach his person. If however the debtor
was really a ruined man and could not afford to support himself, the law
bade the creditor to feed him on the barest diet by giving him a
pound of corn a day, or more at the creditor's option. Here
our textual information leaves off and we have to depend on
Gellius' account. He says^ that this stage of domum duetto and
uinctio lasted sixty days, and that during that period a com-
' Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex. ' xx. 1. 46.
Digitized by Microsoft® THEORIES AS TO NEXAL PENALTY.
49 promise might be arranged which would stay further
proceedings. Meanwhile (5) on three successive nundinae, or market-days,
the debtor had to be brought into the comitiuni before the praetor,
and there the amount of his debt was publicly pro- claimed. This
was a second precaution intended to protect the debtor by giving thorough
publicity to the whole affair. At last (6) on the third market-
day, and at the expiration of the sixty days, the full measure of
punishment was meted out to the un- fortunate delinquent: he was addictus^
by the praetor to his creditor, and thus passed from temporary
detention into permanent slavery. The extreme penalty is said by
Gellius to have been either death or foreign slavery, and the words
in which the former was enacted are given by him as follows: Tertiis
nvndinis partis secanto. Si PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO.
The meaning of these words has been much disputed, for ever
since the beginning of the century many attempts have been made to soften
their literal sense. We should a priori translate them thus :
" On the third market-day let the creditors cut up and divide the
debtor's body. If any should cut more or less than his proper share, let
him not suffer on that account." That this is how the ancients
understood the passage, we know from the testimony of Gellius,
Quintilian^ and Tertullian^ But Gellius and Dio Cassius, though they had
no doubts as to the meaning of the law, both say that 1 Gell.
XX. 1. 51. ^ Inst. or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4. B. E. 4
Digitized by Microsoft® 50 THE TWELVE TABLES.
this barbarous practice of cutting a debtor in pieces was never
carried out, so far as they knew, even in ancient times'. The law was
therefore practically a dead letter. Some commentators, whose views
are ably summed up by Muirhead'', make the most of this admission,
and hold that the interpretation of "partis secanto" should be
entirely different. They regard the division of the debtor's body
between the creditors as too shocking a practice to have ever existed at
Rome, and they take Secare to refer (as in the later phrase bonorwm
sectio) to a sale and division of the debtor's property. In the
event of his property being insuflScient to cover the debt, the debtor
would then, as Gellius informs us, be sold into slavery
"beyond the Tiber." The objections to this theory have
been well pointed out by Niebuhr^. Not only is it opposed to all the
ancient authorities, who knew at least the traditional meaning of the XII
Tables as handed down to them through many generations, but it also
conflicts with a well recognised principle of early Law. That principle
was that the goods of a debtor were not responsible for his debts.
His person might be made to suffer, but his property could not be
touched. As we have seen, it was by no means unusual for a nexal debtor
to support himself while in bondage. This can only be ex- plained
on the supposition that neither his property nor his earnings were
attachable by the creditor. It is this exemption of property which
accounts for ' > Gell. XX. 1. 52. Dio Cass, fragm. 17. 8.
2 R. Law, p. 208—9. ^ B. G. i. 630. Digitized by
Microsoft® EXTREME PENALTY WAS DEATH. 51 the
severity of the nexal penalties. Now a sale and partition of the debtor's
goods would have been quite inconsistent with the whole system of
personal execution so plainly set before us in the rest of the law,
whereas the killing of the debtor was but a fitting climax to his cruel
fate. The inhumanity of the proceeding is not likely to have been
perceived by men who tolerated such barbarities as the lex talionis
and the killing of a son by his paterfamilias. When our classical
authorities express their astonishment at the cruelty of the law, we must
remember that they lived in a gentler age, in which the powers even
of the paterfamilias were much curtailed ; and when they confess that
they never knew of an instance in which the law was literally executed,
we may discount their testimony by recollecting that the nexal
penalties of the XII Tables were abolished centuries before they
wrote. Comparative jurisprudence furnishes another argument
in favour of accepting the literal sense of the phrase "partis
secanto." Kohler^ has collected from different quarters various
instances of customs which closely correspond with this harsh
treatment of the Roman debtor. Unless therefore we dis- regard
analogy, probability, and the whole of the classical evidence, we must
clearly take the words literally and understand that the creditor
could choose between selling his debtor into slavery "beyond
the Tiber," or putting him to death. In the latter case, if there
were more than one ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp.
4—2 Digitized by Microsoft® 52 THE TWELVE
TABLES. creditor, they might cut up the body and each carry
off a piece. III. There is a third clause of the XII Tables
in which neim/m. is mentioned, but it does not alter the form of the
contract. As far as we can make out, it simply declares that certain
persons mys- teriously described as forcti et sanates shall have an
equal right to the advantages of neaymn\ IV. Lastly there is a
clause of the XII Tables intended to secure truthful testimony, that
most essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes-
TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI- ATVR IMPROBVS
INTESTABILISQVE ESTO. That is, whoever had been testis or libripens
at the perform- ance of a nexum or mancipiwm was bound to give his
testimony as to the fact of the transaction or as to its terms under
penalty of permanent disqualification. This passage goes to show
what we also gather from other authorities ^ that the libripens was
a mere witness and not as some have supposed a public official. The
phrase "qui libripens fuerit" would imply that any citizen
might fill the position ; and since we find that the libripens was
treated like any other witness it seems clear that he could not have been
a public personage. We are now able to understand the meaning
of Varro's remark : " liber qui suas operas in seruitutem pro
pecwnia quam debet dat dum solueret nexus uocatur." This merely
means that a man who had contracted a neooum, if unable to repay
the ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364. 2 Gai.
II. 107 ; Ulp. Eeg. xx. 7. Digitized by Microsoft®
RESULTS OF LEGISLATION. 53 loan and therefore subject
to an addictio, was obliged to serve like a slave, and retained the
epithet of nexus till the debt was paid. On the whole then the
legislation of the XII Tables produced two results: (1) By
increasing the importance of the verbal part of the ceremony it increased
the flexibility of the contract, and eventually changed it from a
real into a symbolical transaction. The culminating point of the
change was reached when the money constituting the loan was not weighed
out, but merely named in the nuncupatio, while the borrower struck
the scale-pan with a piece of copper. (2) By fixing certain limits
to the violence of the creditor it softened the hardships endured
by the nexal debtor. Though the extreme penalty of death was
finally permitted, yet this could not be inflicted till the debtor had
had many opportunities and ample time to clear himself The
formula of neooum having now acquired great importance, its wording was
doubtless soon reduced to a definite shape running somewhat as
follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere aeneaque libra dedi, eas
tu 7nihi...post annum... cum semissario foenore. . .dare damnas esto."
This is the formula adopted by Huschke^ and modified by Rudorff.
The words "damnas esto" appear to be wrongly rejected by Voigt,
who disregards the analogy of the solutio though that seems our safest
guide. The formula of nsad solutio is given by Gaius^ as
follows, though Karlowa's reading differs consider- 1 Nexum, p. 49, etc.
^ iii. 174. Digitized by Microsoft® 54 THE
TWELVE TABLES. ably from that of Huschke: "Quod ego tihi
tot mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te soluo ' liberoque
hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram primam postremximque expendo
secunduTn legem pvh- licam." Art. 3. The XII Tables did
not, as far as we know, contain any clauses affecting sponsio or
dotis dictio. The existence of those forms at such an early period
has to be inferred from other sources, and we have seen that there is
reason to assert their great antiquity, which the silence of the
XII Tables cannot disprove. lusiurandum is known to have been approved by
the XII Tables', but to what extent we cannot tell. We may
therefore at once proceed to examine one of the most impor- tant
innovations of the decemviral Code, namely the contract which despite its
ambiguous name is known as the lex mancipi. Art. 4. Lex
mancipi. This form, as its name indicates, was a covenant annexed to
the transaction known as mandpiMm (later as mMnd- patio). Let us
see first what mancipium was. Ulpian^ says that it was the mode of
transferring property in res mancipi. Gains describes its use
shortly as a fictitious sale', "imaginaria uenditio," and
states that it could only be performed between Roman citizens, and
applied only to res mancipi*. He describes the ceremony thus : — The
parties meet in the presence of five witnesses and of a person
(called libripens), who holds a pair of scales. The 1 Cic. Off.
III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3. 8 I. 113. ■> I.
119-20. Digitized by Microsoft® ORIGIN OF
THE LEX MANCIPI. 55 object of the transfer Gaius supposes to be
a slave. The alienor remains passive, but the alienee, grasping the
slave, solemnly declares aloud that he owns him by right of purchase ;
then he strikes the scales with a piece of copper, and hands the
piece to the alienor as a symbol of the price paid. Such is our meagre
evidence as to the nature of mandpium. On this slender foundation of
fact a vast amount of controversial theory has been heaped up. One
certainty alone can be deduced from the evidence, that Tnancipium was not
origi- nally a general mode of conveyance, as Gaius and XJlpian
found it in their day, but that it began by being a genuine sale for
cash, in which the price paid by the alienee was weighed in the scales
and handed over to the alienor. The nuncupatio, or declaration made
by the alienee, was merely explana- tory of his right of ownership, while
the grasping of the object by the alienee and the acceptance of the
price by the alienor were no doubt originally the essential elements in
the transfer. The words spoken by the alienee probably had at first no more
binding effect than the words of the borrower in nexum. We may be
sure that in such a state of the law disputes would often arise as to the
terms of the sale. And it was probably to prevent such disputes that
the XII Tables made their famous rule: CVM NExyM FAOIET
MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA IVS ESTO. The extraordinary
emphasis (not nuncu- passit but lingua mmcupassit) which is here laid
on the verbal part of the ceremony is very striking. Bechmann
rightly argues that it would be wrong to Digitized by
Microsoft® 56 THE TWELVE TABLES. take this rule
as referring only to the leges mandpi, but it would seem that it was to
the language as ' distinct from the acts used in the ceremony that
the XII Tables meant to give force and validity. The legal results which
followed from seizing the object of sale in the presence of witnesses,
and from weighing out the price to the seller, had long since been
thoroughly well recognised. What the XII Tables now introduced was the
recog- nition of the oral statement which accompanied those outward
acts. We can hardly accept the sense which Bechmann has given to these
words^. He notes the contrast between words and acts which is
implied in the phrase lingua nuncupassit, but he thinks that the object
of the rule was to reconcile the language of the transaction with its
real nature. His view is based on the assumption that even before
the XII Tables mancipium had changed from a genuine into a fictitious
sale. In other words he assumes that while the alienee professed to
buy the object with money weighed in the scales, he really weighed
no money, but simply handed to the alienor a piece of copper, "quasi
pretii loco." In fact the imaginaria uenditio of classical times
was, according to Bechmann^, already in vogue. The purpose of the
XII Tables was therefore to confirm this change, by declaring that the
words and not the acts of the parties should henceforth have legal
effect. It was as if this law said : " Pay no attention to the acts
of the alienee, but listen to his oral statement. He merely delivers a
piece of copper, 1 Kauf, I. p. 197. ■■' lb. p. 167.
Digitized by Microsoft® CHANGES IN MANCIPIUM. 57
but do not imagine that this is the whole price due. In his
declaration, the alienee states that the price is such and such. Let that
be considered the real price of the object, and let the outward ceremony
be regarded as a mere fiction." All this appears to be a very
far-fetched interpretation of lingua nuTwupassit, and the assumption on
which Bechmann has based it seems unwarranted, for two reasons :
(1) We do not know that mancipium had already turned into an
imaginaria uenditio. There is not one shred of evidence to prove that
such a change had occurred before the XII Tables. So far indeed
from preceding the XII Tables, the change would seem to have been
directly caused by them. Until coin was introduced the weighing of
the purchase-money was clearly necessary. If, as there is good
reason to believe, coinage was first instituted by the Decemvirs^, the
actual weighing must have continued till their time. If on the other hand
we suppose that coined money was a much older institution
(Cornelius Nepos de uir. ill. 7. 8. attri- butes its invention to Seruius
Tullius), so that the actual weighing had long been dispensed with,
man- cipium could still not have been an imaginaria uenditio,
because (2) We can imagine no way in which a sale on credit
could have been practised before the XII Tables. How could a vendor have
permitted his property to be conveyed to a purchaser for a nominal
and fictitious price, when the nuncupatio was as yet devoid of legal
force ? After the uti lingua nuncu- ' See above, p. 42. Digitized
by Microsoft® 58 THE TWELVE TABLES. passit of
the XII Tables the nuncupatio doubtless specified the exact amount of the
purchase-money, and this the alienor might lawfully claim. Moreover
before the Decemviral reforms mancipium would have transferred full
ownership to the purchaser, and the seller might have clamoured in vain
for his money, unless he had previously taken security by means of
vxidvmoniwm or sponsio. For since a well known provision of the XII
Tables' was that no property should pass in things sold till the
purchase- money was either paid or secured, we are bound to infer
that before this the very reverse was the case/ and that property did
pass even when the price had not been paid. Such having been the early
law, how can we hold, as Bechmann does^, that the cash payment of
the purchase-money was frequently not required, though the forms of
weighing etc. were carried out in the original manner ? He urges'
that credit, not cash, must often have been employed, because we
caimot reasonably suppose that cash payment was possible in every case.
But the force of this argument is weakened by the fact that
mancipation was only practised to a limited extent. Tradition was the
most ordinary mode of transfer employed in every-day life. And in a solemn
affair such as mancipium, where five witnesses and a scale-holder
had to be summoned before anything could be done, it cannot have been a
great hardship for the purchaser to be obliged to bring his
purchase- money and weigh it on the spot. Instead of credit
purchases having been usual before the XII Tables, 1 2 Inst. 1. 41. , 2
j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8. Digitized by
Microsoft® STATUTOPY OEIGIN OP LEX MANCIPI. 59
it seems likely that the XII Tables virtually intro- duced them. For
by enacting that no property should pass until the price was paid or
secured to the vendor, the Decemvirs made it possible for the
conveyance and the payment of the price to be separately performed.
Mancipium was thus made to resemble in one respect a modern deed. The
vendor who has executed a deed, before receiving the
purchase-money, has a vendor's lien upon the property for the amount of
the price still owing to him ; and similarly the mancipio dans who had
not received the full price, retained his ownership of the property
until that full price was paid to him, or security given for its
payment. We may therefore reject Bechmann's idea that the
words lingua nuncupassit referred principally to the fixing of price in
the nuncupatio. They simply gave legal force to the solemn oral
state- ment made in the course of mancipium. On the one hand they
bound the seller to abide by the price named, and to deliver the object
of sale in the condition specified by the buyer. On the other hand
they compelled the buyer to pay the full price stated in the nuncupatio,
and to carry out all such terms of the sale as were therein
expressed. In short, every lex mancipi embodied in the 7iun-
cupatio became henceforth a binding contract. It is natural to
inquire next what kind of agreement might constitute a lex mancipi.
The nwncupatio placed by Gaius^ in the mouth of the
purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex iure I 1.
119. Digitized by Microsoft® 60 THE TWELVE
TABLES. Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc
aere aeneaqiie libra." To this might no doubt be annexed various
qualifications, and these were the leges in question. Voigt' indeed
considers that these leges might contain every conceivable pro-
vision, but Bechmann seems to come nearer to the truth in stating that no
provision conflicting with the original conception of mancipiwm as a sale
for cash could be inserted in the nuncupatio. For instance,
Papinian states that no suspensive con- dition could be introduced into
the formula of mancipiwm^. The reason of this obviously was that
suspensive conditions are inconsistent with the notion of a cash sale.
The purchaser could not take the object as his own and then qualify
this proceeding by a condition rendering the ownership doubtful, A
resolutive condition was also out of the question, for when the mancipium
had transferred the ownership and the price was paid, it would have
been absurd to say that the occurrence of some future event would rescind
the sale. The transfer was in theory instantaneous, so that future
events could not affect it. The following then are a few
cases in which the lex mancipi could or could not be properly used:
(a) The creation of an usufruct by reservation could be thus made',
and the formula is given to us by Paulus : " Emtus mihi esto pretio
dedvxito usu- frtijctu*." (b) Property could thereby be
warranted free 1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329. 3
Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. 50. Digitized by Microsoft®
USES OF LEX MANCIPI. 61 from all servitudes by the
addition to the nuncupatio of the words "uti optimus matvimiisque
sit^." The means by which the vendor was punished if the
property failed to reach this standard of excellence will be presently
examined. (c) The contents and description of landed property
might be inserted in the nuncupatio, and if they were so inserted the
vendor was bound to furnish as much as was agreed upon. Failing
this, the deceived purchaser, so Paulus tells us^ could bring
against the vendor an actio de modo agri, which entailed damages in
duplum. (d) The accessories of the thing sold, destined to be
passed by the same conveyance, would also doubtless be mentioned.
(e) We might naturally have supposed that the quality of slaves or
of cattle could have been described just as well as the content of an
estate. Cicero says : " cum ex XII Tabulis satis erat ea
praestari quue essent lingua nuncupata^," as though descriptions of all
kinds might be given in the nuncupatio. Nevertheless Bechmann* has
shown that such was not the case, inasmuch as we find no traces of
any action grounded upon a false description of quality. The only actions
which we find to protect mancipium are the actio auctoritatis and
the actio de modo agri. There is no authority for supposing, as
Voigt does^ that the actio de modo agri was not a technical but a loose
term used by Paulus. According to Voigt, there was an action
1 18 Dig. 1. 59. ^ Sent. i. 19. 1. ^ Off. iii. 16. 65. «
Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. 120. Digitized by
Microsoft® 62 THE TWELVE TABLES. (the name of
which has perished) to enforce all the terms of a nuncupatio of whatever
kind. The so- called actio de modo agri would then have been only a
variety of this general action. This theory is inadmissible: for in
making his solemn list of the actiones in dztpZwm ^Paulus would hardly
have used the clumsy phrase actio de modo agri, if there had been a
comprehensive term including that very thing. Consequently, the
description of slaves or cattle in the nuncwpatio does not seem to
have been in practice allowed. The greater protection thus afforded
to a purchaser of land than to one of other res mancipi may probably be
explained by the fact that land was not and could not be con- veyed
inter praesentes, whereas oxen or slaves could be brought to the scene of
the mancipiwrn and their purchaser could see exactly what he was
buying. (/) Provisions as to credit and payment by instalment
might also be embodied as leges in the nwncupatio. This has been denied
by Bechmann", Keller', and Ihering', but their reasons seem far
from convincing. We may indeed fully admit their view for the
period prior to the XII Tables, since there was then no coinage, and
mancipium was an absolute conveyance of ownership. But when coinage
had been introduced, when mancipium was capable of transferring
dominium only after payment of the price, and when the oral part of
mancipium had received legal validity from the XII Tables, the
whole situation was changed. 1 Sent. I. 19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3
Imt. 33. •> Geist d. R. R., ii. 530.
Digitized by Microsoft® ORIGIN OF CREDIT IN MANCIPIUM.
63 If it be said that credit is inconsistent with the notion
of mancipium as an unconditional cash transac- tion, we may reply that
this exceptional lex was clearly authorised by the XII Tables, since its
use is implied in the legislative change above mentioned'. If it be
urged that no action can be found to enforce any such lex, the obvious
answer is that no action was needed, inasmuch as the ownership did not
vest in the vendee till the vendor's claims were satisfied, and
therefore if the vendee never paid at all the vendor's simple remedy was
to recover his property by a rei uindicatio. Nor is there much force in
the argument that clauses providing for credit would have been out
of place in the nuncupatio because inconsistent with the formula "
Hanc rem meam esse aio, mihique emta esto." On the one hand it
is probably a mistake to suppose that this fixed form was always
used, for the expression uti lingua nuncupassit seems clearly to imply
that the oral part of mancipium and nexum was to be framed so as
best to express the intentions of the parties, and the same conclusion
may be drawn from the comparison of the formulae of mancipatio given in
Gains I On the other hand, admitting that " hanc rem meam esse
aio, etc." was a necessary part of the nuncupatio, it must have been
used in mancipations made on credit, which by the XII Tables could not
convey immediate ownership, and the existence of which in classical
times no one denies. We are forced then to conclude either that
"hanc rem meam esse aio" was not the phrase used at a sale on
credit, or else 1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '■' i. 119 and ii.
104. Digitized by Microsoft® 64 THE TWELVE
TABLES. that it became so far a stereotyped form of words
that it could be used not only in its literal sense but also as applying
to credit transactions which the Decemviral Code so clearly contemplated.
It is indeed inconceivable that if the price was, as every one
admits, specified in the mmcupatio, the terms of payment should not have
been specified also. It is worth while to notice how the
legal conception of mandpium was indirectly altered by the XII
Tables. That very important clause which prevented the transfer of
ownership in things sold, until a full equivalent was furnished by the
vendee^, had the effect of separating the two elements of which
mancipimn consisted. Delivery of the wares and receipt of the price had
at first been simul- taneous ; they now could be effected singly.
Thus mancipium became a mere conveyance, and after a while, as was
natural, the notion of sale almost completely disappeared, so that
mancipium came to be what it was in Gains' system, the universal
mode of alienating res mancipi. The lex mancipi, as we have
now considered it, was an integral part of the formula of
viancipium which the vendee or alienee solemnly uttered. Gains and
Ulpian give us no hint that the vendor or alienor played any part beyond
receiving the price fi:om the other party. But was this really so ?
Could the vendee have known how to word his formula if the vendor had remained
altogether silent ? We have therefore to enquire next (1) what
share the vendor took in framing the 1 2 Inst. 1. 41.
Digitized by Microsoft® THE vendor's dicta. 65
leges mancipi, and (2) how the lex mancipi was enforced against
him. 1. The part played by the vendor is denoted in many
passages of the Digest^ by the word dicere. In others the word
praedicere^ or commemo- rare^ expresses the same idea, and we find that
the vendor sometimes made a written and sealed decla- ration^. The
object of such dicta was to describe the property about to be sold^ and
they necessarily preceded the mancipium, or actual conveyance. They
were thus no part of the mancipatory ceremonial and were quite distinct
from the nuncupatio uttered by the vendee, which explains their not being
mentioned by Gaius in his account of mancipatio^. It is to such
dicta that Cicero doubtless alludes', when he says that by the XII Tables
the vendor was bound to furnish only "quae essent lingua
nimcupata" but that in course of time " a iureconsultis etiam
reticen- tiae poena est constituta." The reticentia here
mentioned was evidently not that of the vendee, but was a concealment by
the vendor of some defect in the object which he wished to sell, and
hence this passage is useful as showing the contrast between
nuncupatio and dictu/m. The former might repeat the statements contained
in the latter, thus turning them into true leges mancipi, and this
ex- plains the fact that lex mancipi (or in the Digest lex
uenditionis^), is sometimes used in the secondary 1 e.g. 21 Big. 1.
33, and 18 Dig. 1. 59. 2 19 Dig. 1. 21. fr. 1. » 19 Dig. 1. 41. *
19 Dig. 1. 13. fr. 6. 5 19 Dig. 1. 6. fr. 4. « i. 119. =■
Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6. B. E. 5, Digitized
by Microsoft® 6,6 THE TWELVE TABLES. sense of
the vendor's dictum, as well as with the primary meaning of the vendee's
nwncupatio. The leges embodied in the nuncupatio were thus binding
on the vendor, whereas his dictum was at first of no legal importance.
But in course of time the dicta Came also to be regulated, and though
their terms were not formal and were never required to be identical
with those of the nwncupatio, yet it was essential that the vendor in
making them should not conceal any serious defects in the property.
The dictum itself produced no obligation ; that could only be
created by incorporating the dictum, into the nun- cupatio. The only
function of dictum seems to have been to exempt the vendor from
responsibility and from all suspicion of fraud. This is well
illustrated by a case to which Cicero' refers, where Gratidianus
the vendor had failed to mention, " nominatim dicere in lege mancipi
" (here used in the secondary sense), some defect in a house which
he was selling, and Cicero remarks that in his opinion Gratidianus
was bound to make up to the vendee any loss occasioned by his
silence. Bechmann^ questions whether the action brought against
Gratidianus was the ocii'o eniti or the actio auotoritatis. But from the
way in which Cicero speaks, it seems almost certain that he had
been trying to bring a new breach of bona fides under the operation of
the actio emti, and had not been pleading in a case of actio
auctoritatis, which would scarcely have been open to such freedom of
inter- pretation. We cannot therefore agree with Bech- mann that
dicta not embodied in the nv/ncupatio 1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p.
257. Digitized by Microsoft® NVNCVPATIO
AND DIOTIO DISTINGUISHED. 67 could be treated as nuncupata and made
the ground for an actio auctoritatis, though we know that in later
times they could be enforced by the actio emti. The distinction between
the formal nuncupata and the informal dicta was never lost sight of, so
far as we can discover from any of our authorities, nor is dictum
ever said to have been actionable until long after the actio emti was
introduced. The matters contained in the dicta of the vendor were
descrip- tions : (i) of fixtures or of property passing with an estate',
(ii) of servitudes to which an estate was subject^, (iii) of servitudes
enjoyed by the estate^. It is noticeable that these are all mere
statements of fact and that they exactly agree with the definition
given by Ulpian*, who expressly excludes from dictum the idea of a
binding promise. Thus the distinction between nuncujpatio and dictio may
be briefly sum- marized as follows : Nwmupatio belonged only
to mancipium,, whereas dictio might appear in sales of res nee mancipi as
well as in mancipatory sales ^. Nuncupatio was a solemn and
binding formula; dictio was formless and, until the introduction of
the actio emti, not binding. Nuncupatio, as we have seen, did
not touch upon the quality of the thing sold, whereas dictio might
give, and eventually was bound to give, full information on this
point. We must notice in conclusion what Bechmann 1 19
Big. 1. 26. = 21 Big. 2. 69. fr. 5. 3 Cio. Or. I. 39. 179. * 21
Big. 1. 19. « 19 Big. 1. 6. 5—2 Digitized
by Microsoft® 68 THE TWELVE TABLES. has pointed
out\ that lex, besides meaning a condi- tion embodied in a sale or
mancipation, signified also a general statement of the terms of a sale
or hire. This sense occurs in Varro", Vitruvius', Cicero*
&c., and should be borne in mind, in order to avoid confusion and to
understand such passages correctly. 2. The methods by which the
true leges nuneit- patae could be enforced were two : (a)
Actio de modo agri. Of this we only know that it aimed at recovering
double damages from the vendor who had inserted in the nuncupatio false
state- ments as to the acreage of the land conveyed^ (6)
Actio auctoritatis (so called by modern civil- ians'). This was an action
to enforce auctoritas, an obligation created by the XII Tables', whereby
the vendor who had executed a mancipatory conveyance was bound to
support the vendee against all persons evicting him or claiming a
paramount title. Auctor apparently means one who supplies the want of
legal power in another, and thereby assists him to maintain his
rights. It is so used in tutela, of the guardian who gives auctoritas to
the legal acts of his ward. In the present case, auctor means one who
makes good another man's claim of title by defending it; and this
explains why the obligation of auctoritas varied in duration according to
the nature of the thing sold. Thus if the thing was a moveable
(e.g. an ox) the auctoritas of the vendor lasted only one year,
since the usucapio of the vendee made it un- 1 Eauf, I. p. 265. 2
£. ^ vi. 74. » i. 1. 10. « Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav.
Stift. E. A. in. 190. s Lenel, Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19.
54. Digitized by Microsoft® SOURCE OF
AV0T0RITA8. 69 necessary after that time. But if the thing sold
was land, usucapio could not, by the XII Tables, take place in less
than two years, and the avctoritas was prolonged accordingly ^ The
penalty for an un- successful assertion of auctoritas was a sum
equal to twice the price paid^. This shows that at the date of the
XII Tables, as we have seen, mancipium was still a genuine sale and
involved the payment of the full cash price. The same conclusion
may be drawn from Paulus' express statement that unless the
purchase money had been received no auctoritas was incurred. This last
rule was a logical sequence of the enactment that no property vested
until payment was fully made, since it was impossible that the
vendee should need the protection of an auctor before he had himself
acquired title. The question has been much debated whether
this liability of a vendor to defend his purchaser's title arose ipso
iure out of the mancipation, or whether it was the product of a special
agreement. The latter view is held by Karlowa^, and Ihering*, but
the weight of evidence against it seems to be overwhelming^
(a) Paulus* expressly states that warranty of title was given in
sales of res nee maiicipi by the stipulatio duplae, but existed ipso iure
in sales by mancipation. (6) Varro' says that if a slave is not
conveyed 1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3.
3 L. A. 75. * Geist des R. R. m. 540. 5 See Girard, in N. E.
H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180. 6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R. ii.
10. 5. Digitized by Microsoft® 70 THE TWELVE
TABLES. by mancipation, his purchaser's title should be
protected by means of a. stipulatio smvplae uel duplae, thus implying
that in cases of mancipation such a step was unnecessary. (c)
In recommending forms for contracts of sale, Varro advises the use of the
stipulatio in sales of res nee mancipi'^, but gives no such advice
and mentions no stipulatory warranty in the case of res
mancipi. (d) We find that there were two ways in which the
vendor could escape the liability of aitctoritas; either (i) he could
refuse to mancipate^, or (ii) he could have a merely nominal price
inserted in the nuncupatio (the real price being a matter of
private understanding between him and the vendee), so that the
penalty for failing to appear as auctor would be a negligible quantity.
This we actually find in a man- cipatio HS nummo uno, of which an
inscription has preserved the terms' where the object in mentioning
so small a sum must have been to minimise the poena dupli in case the
purchaser M'as evicted. Both these expedients to avoid liability are
absolutely fatal to the theory of a special nwncupdtio as the
source of auctoritas. In short from all this evidence we must conclude
that after the enactment of the XII Tables mandpium contained an
implied warranty of the vendee's title. The origin of the
heavy penalty for failing to uphold successfully a purchaser's title has
also been much debated. Bechmann'' attributes its severity to
1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3. S7. »
Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121. Digitized by
Microsoft® ORIGIN OF PENALTY IN AYCTOBITAS. 71 a
desire to punish the vendor who had suffered his vendee to say "hanc
rem meam esse aio," when he knew that such was not the case. But
this would have been to punish the vendor for reticentia, which was
not done till much later times, as we know from Cicero; and moreover as
we cannot be sure that the phrase " hanc rem meam esse aio "
was invariably used in mancipium^, this view of Bechmann's comes
too near to the theory of the nuncupative origin of auctoritas, not to
mention the fact that it fails to explain why the penalty was duphmi
instead of sim- plum. The best theory is probably that of Ihering-,
who sees in the poena dupli a form of the penalty for furtum nee
manifestum. It may be true, as Girard has pointed out', that the actio
auctoritatis was not an actio furti in every respect. The sale of
land to which the seller has no good title lacks the great characteristic
of furtum, that of being com- mitted inuito domino, since the real owner
of the land may often be entirely ignorant of the transaction.
Still it is plaia that the conscious keeping and selling of what one
knows to be another man's property is a kind of theft ; and, in that primitive
condition of the law, it may have been thought unnecessary to
impose different penalties on the hona fide vendor whose trespass was
unconscious, and on the vendor who was intentionally fraudulent. This
poena dupli can hardly be explained as a poena infttiationis, for
if such, would not Paulus have been sure to mention it among his
other instances of the latter penalty* ? i See above, p. 63. ^
Geist des R. R. in. 229. ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. i.
19. 1. Digitized by Microsoft® 72 THE TAVELVE
TABLES. Auctoritas had to be supplied by the vendor whenever
any third person, within the statutory period of one or two years,
attacked the ownership of the vendee by a m uindicatio, or by a
uindioatio libertatis causa if the thing sold was a slave, or by
any other assertion of paramount title. Bechmann seems to be right in
holding that the warranty of title also extended to all real servitudes
enjoyed by the property, and to any other accessiones which had
been incorporated in the nwncwpatio. To attack the vendee's claim in that
respect was to attack a part of the res mancipata. Hence actio
avctori- tatis was the remedy mentioned above' in connection with
the true leges mancipi, and we may hold with Bechmann and Girard"
that the actio auctoritatis and the actio de modo agri were the only
available methods of punishment for the non-fulfilment of a lex
mancipi. How the vendor was brought into court as aioctor is
a question not easy to answer. But in Cicero ° we find an action
described as being in auctorem praesentem, and apparently opening
with the formula : " Quando in iure te conspicio, quaero anne
fias auctor." The opening words do not lead us to suppose that the
vendor had been summoned, but rather that he had casually come into
court. This formula was probably uttered by the judge*, in every
case of eviction, before the inauguration of the actio avxytoritatis, in
order to give the defendant an oppor- tunity of answering and so of
avoiding the charge. ' See above p. 61. ^ loc. cit. p. 203.
3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26. < Lenel, Ed. Perp. p, 427.
Digitized by Microsoft® FUNCTION OF THE AVOTOR.
73 If no answer was made to this question, the vendor was
held to have defaulted, and the vendee might properly proceed to bring
his actio auctori- tatis for punitive damages. But supposing that
the ■aiictor duly appeared to defend his vendee, what were his
duties ? It is not probable that he took the place of the vendee as
defendant, because the word auctor does not seem to imply this, and
because the vendor having conveyed away all his rights had no
longer any interest in the property. The most probable solution seems to
be that which regards the auctor simply as an indispensable witness.
In the XII Tables we know^ what severe penalties were laid upon a
witness who did not appear, as well as upon one who bore false testimony.
Now an atictor who appeared but failed to prove his case was
clearly a false witness, while one who failed to appear was an absconding
witness. This was pro- bably an additional reason for the severe
punishment inflicted on the auctor by the XII Tables. Thus
"the ingenious supposition of Voigt'', that the vendor cannot
possibly have incurred so heavy a penalty by mere silent acquiescence in
the nuncupatio of the vendee, and must therefore have made a
nuncupatio of his own in which he repeated the words used by the
vendee, seems to be purely gratuitous as well as wholly unsupported by
evidence. The last question to be considered is this: did
•auctoritas apply solely to the warranty of things alienated
by mancipium, or did it also apply to things alienated by in iure
cessio ? An answer in 1 See above p. 52. » XII Taf. ii. 120.
Digitized by Microsoft® 74 THE TWELVE TABLES.
the broader sense is given by Huschke^ who cites Gaius^ as proving
that mancipatio and in iure cessio had identical effects. But this is at
best a loose statement of Gaius', and cannot prevail against the
stronger evidence which goes to prove that auctoritas was a feature
peculiar to mancipmm^ Bekker' points out that in iure cessio cannot
have produced the obligation of auctoritas, because the in iure
cedcTis took no part in the proceedings beyond making default, and could
not therefore have made deceptive representations rendering him in any
way responsible. In iure cessio must then have been from its very
nature a conveyance without war- ranty, and Paulus confirms this
inference by stating* that the three requisites of auctoritas were (i)
man- cipatio, (ii) payment of the price, (iii) delivery of the
res. We may then sum up the foregoing remarks by defining lex
mancipi and auctoritas as follows : Lex mancipi in its primary meaning,
was a clause forming part of the mmcupatio spoken by the vendee in
the course of mancipiimi, and constituting a binding contract. It might
embody descriptions of quantity, specifications of servitudes
whether active or passive, conditions as to payment, and any other
provisions not conflicting with the original conception of mancipium as a
cash sale. In its secondary meaning, which we must care-
fully distinguish, it referred to the dicta made by the vendor.
' Nexum, p. 9. ^ li. 22. s Akt. I. p. 33, note 10. * Sent.
ii. 17. 1-3. Digitized by Microsoft®
THEORIES AS TO FIDVOIA. 75 Thirdly, we even find it applied
to the terms of sale as a whole, including nuncupatio, dicta, and
any other private agreement between the parties respecting the
sale. The two means of enforcing leos mancipi in the first
sense were actio de modo agri and actio auc- toritatis.
Auctoritas was an implied warranty of title intro- duced by the XII
Tables into every mancipatory con- veyance, subject to the condition
precedent that the vendee must have received the goods and paid the
price. If the vendee was evicted, his proper remedy was the actio
auctoritatis (most probably an instance of legis actio Sacramento'^), the
object of which was to recover punitive damages of double the amount
of the price paid, and which could be brought against the vendor
within two years, if the object sold was an immoveable, and within one
year, if a moveable. Since the lew mancipi is often credited
with a still wider function, we are next brought to consider the
agreement known as fidticia. Art. 5. FIDVCIA. This agreement is
thought by many scholars to have been a species of lex mancipi, and
consequently a creation of the XII Tables. Among those who thus regard
fiducia as an agree- ment contained in the nuncupatio are Huschke^,
Voigt', Eudorfif* and Moyle'. The first writer of any weight who disputed
the correctness of this view 1 Girard, I.e. p. 207. ^ Nexum, pp.
76, 117. s XII Taf. II. 477. * Z. fur EG. xi. 52. 5
App. 2 to his ed. of the Inst. Digitized by Microsoft®
76 THE ITVEtVE TABLES. was Ihering^, and he has now been
followed by Bek- ker", Bechmami', and Degenkolb*. The view held
by these writers would seem to be the only tenable one. They assert
that fiducia never was a part of manci- pium, but was simply an ancillary
agreement tacked on to mancipium and couched in no specific form.
The arguments againsb the former theory are : (1) That fiducia
might exist in cases of in iure cessio as well as in cases of mancipium.
Now in iure cessio gave no opportunity for the introduction of
nuncupative contract. How then could a nuncu- patio containing a fiducia
have been introduced among the formalities of the uindicatio ?
(2) We know that the actio fiduciae was bonae fidei, and ionae
fidei actions were of comparatively late introduction ; how then is this
fact to be reconciled with the theory which derives fiducia from
the nuncupatio of the XII Tables ? Voigt" states that the actio
fidiuiiae was but one form of the ordinary action on a lex mxmcipi (it
must be remembered that he regards every lex mancipi as having been
actionable), but he gives no explanation of the surprising fact that
fiducia alone of all the species of lex mancipi should have been provided
with an actio bonae fidei. (3) If we admit, as we have done',
that the only actions based upon mancipium are the actio
auxitoritatis and the actio de modo agri, how can the actio fiduciae be
classed with either ? 1 Geist des R. R. ii. p. S56. = Akt. i.
124. 3 Kauf, i. p. 287. « Z. fur RG. ix. p. 171. "
XII Taf. II. p. 475. « supra, p. 68. Digitized by
Microsoft® THE FWVOIAE INSTBVMBNTVM. 77 (4) The
strongest piece of evidence which we possess in favour of Ihering's
theory has appeared since he wrote. It consists of a bronze tablet
in- scribed with the terms of a pactum fiduciae^ which
Degenkolb" has carefully criticised and which seems to be conclusive
in favour of our view. It contains, not a copy of the words used in
mancipation, but a report of the substance of a fiduciary
transaction. The mancipation is said to have taken place first,
fidi fiduciae causa, and then the terms of the fiducia are said to have
been arranged in a pactum conuen- tum between the parties, Titius and
Baianus. It is evident from the language of the tablet that this
fiduciary compact was independent of the mancipatio and informally
expressed, so that any attempt, such as those made by Huschke and
Rudorff, to reconstruct the formula of fiducia, and to fit such a formula
into the nuncupatio of mancipium, is necessarily futile. Voigt' has
even taken pains to give us the language used in the arbitrimn by which,
according to him, fiducia was enforced. This bold restoration is a
good instance of Voigt's method of supplementing history, but it
cannot be said materially to advance our knowledge. We are
nowhere told that fiducia could not be applied to cases of traditio, and
a priori there is no reason why this should not have been the case.
Yet all our instances of its use connect it solely with mancipatio or in
iure cessio*, and all the 1 Printed in C. I. L. No. 5042 and Bruns,
Font. p. 251. 2 Z. filr EG. IX. pp. 117—179. '' XII Taf. ii. p.
480. * Isid. Orig. v. 25. 23 ; Gai. ii. 59 ; Boeth. ad Gic. Top.
iv. 10, 41. Digitized by Microsoft® 78
THE TWELVE TABLES. modem authorities, except Muther', are agreed
in thus limiting its scope. If indeed we could extend fiducia to
cases of traditio, it would be very hard to see why there should not have
been a contractibs fiduciae as well as a contraxitus cotnmodati, depositi
or pignoris. We know from Gains' that fiducia was often practised
with exactly the same purpose as pignut or depositum, and we may reasonably
infer that it was the presence of mancipaiio or in iure cessio
which caused the transaction to be described, not as pigrms or depositum,
but as fiducia. If we admit that fiducia was never connected with
traditio, we can readily see why it never became a distinct contract.
Bechmann' points out that in iure cessio or mancipatio was naturally
regarded as the prin- cipal feature in such transactions as
adoptions, emancipations, coemtiones, etc. The solemn transfer of
ownership was in all these cases so prominent, that fiducia was always
regarded as a mere pactum adiectum. If then we cannot admit
fiducia to any higher rank than that of a formless pactum, it follows
that the actio fiduciae, being borme fidei, and therefore most unlikely
to have existed at the period of the XII Tables, must have originated
many years later than fidvMa itself, which as a modification of
mancipatio probably dated from remote antiquity; This may serve as an
excuse for discussing ^tfcia in this place, although the XII Tables do not
actually mention it. But it must have existed soon after that
legislation, since it was the only mode of accom- 1 Sequestration,
p. 337. " ii. 60. s Kauf, i. p. 293. Digitized by
Microsoft® ARGUMENT FROM VSVBECEPTIO. 79
plishing the emancipation of a filiusfamilias as based upon the XII
Tables. The theory that fiducia originated long before the
actio fiduciae is corroborated by the account which Gaius gives' of the
peculiar form of usucapio called usureceptio. This was the method by which
the former owner of property which had been man- cipated or ceded by him
subject to a fiducia could recover his ownership by one year's
uninterrupted possession. It diflfered from ordinary usucapio only
in the fact that the trespass was deliberate, and that immoveable as well
as moveable things could be thus reacquired in one year instead of in
two. This peculiarity as to the time involved may perhaps be
explained by supposing that the objects of fiducia were originally
persons and therefore res mobiles, or else consisted of whole estates
which, like hereditates, would rank in the interpretation of the XII
Tables as ceterae res. Now ii fiducia had been incorporated, as
some think, in the formula oi mancipium, and had been actionable by means
of an actio fiduciae based on the lex mancipi, could not the owner have
recovered the value of his property by bringing this action,
instead of having been forced to abide the tedious and doubtful
result of a whole year's possession ? The fact noted by Gaius that where
no money was paid no usureceptio was necessary, simply follows from the
well-known rule that an in iure cedens as well as a mancipio dans
did not lose his dominium until the price had been fully paid to him.
We may therefore conclude that man- cipatio fiduciae causa resembled in
its effect any 1 II. 59-60. Digitized by
Microsoft® 80 THE TWELVE TABLES. other
mancipatio. If this be the case, then fduda, as we have already said,
must for many years have been an informal and non-actionable pactum,
sup- ported by fides and by nothing else. Bechmann holds that' the
object of the fiduciary mancipation was expressed in the nuncupatio by
the insertion of the words fidi fiduciae causa, but this is a minor
point which it is impossible to determine with certainty.
Fiducia then may be briefly described as a formless pactum,
adiectwm, annexed to Tmrndpatio or in iure cessio, but not originally
enforceable by action, and therefore having no claim at this early date
to be considered as a contract. Art. 6. VADIMONIVM is a
contract which we know to have been mentioned and perhaps intro-
duced by the XII Tables^. Gellius, however, speaks of the ancient uades'
as having completely passed away in his time, so that in the opinion of
Karlowa* we can scarcely hope to discover the original form of the
institution. The most thorough inquiry into the question is that made by
Voigt', who has treated the authorities and sources with the minutest
care, but whose conclusions do not always seem to be well
founded. Let us first examine the essence of the trans-
action, a point as to which there is no doubt. Vas meant a surety, and
uadimonium the contract by which the surety bound himself. Thus uadem
1 Kauf, I. p. 294. " Gell. xvi. 10. 8. » ibid. * L.A. p.
324. ^ Phil. Hist. Abhandl. der k. S. Ges. d. Wiss. viii.
299. Digitized by Microsoft® NATURE OF
VADIMOS'irM. 81 poscere^ meant to require a surety, vadem dare
to provide a surety, uadem accipere to take a man as surety for
another man^, and uadari either to give surety or to be a surety*. From
the point of view of the principal (uadimonium dans) uadimonium
sistere meant to appear in due course ^ uadimonium deserere, to make default,
while uadivionium differre meant to postpone the obligation which the ims
had undertaken. The penalty for nonperformance was the payment
(depen^io) by the uas of the sum pro- mised by his principal, who however
was bound to repay him**. There might be more than one uas, and
Voigt is probably right in stating that the svbuas was a surety for the
performance of the obligation by the original uas''. There
were two kinds of luidimonium, (i) that which secured the performance of
some contract'; (ii) that which secured the appearance of the party
in court, =bail'. Under the first of these heads Voigt places the
satisdatio secundum mancipium which is found in the Baetic Fiduciae
Instrumentumi as well as in Cicero", but whether or not this satis-
datio was given in the form of a uadimonium must remain undetermined ;
though, if it had been so given, we might perhaps have expected Cicero
to use the technical phrase. 1 Cio. Rep. II. 36. 61; Var. L.
L. vi. 8. 74. ' Cio. Fin. ii. 24. 79. ^ Cic. Brut. i. 18. 3.
" Prise. Gram. i. 820. ^ Cic. Quint. 8. 29. 6 Cic. ad
Brut. i. 18. 3. ; Plaut. Bud. 3. 4. 72. ' I. c. p. 307. ^ Varro, L.
L. vi. 7. 71. » Cio. Off. IV. 10. 45. " ad Att. v. 1. 2.
B. E. 6 Digitized by Microsoft® 82 "
THE TWELVE TABLES. Next comes the question, in what form was
uadimonium origiQally made ? The verbal nature of the primitive
contract seems to be proved by the passages that Voigt quotes^
while he also completely denrolishes the old view which regarded
uadimonium as having always been a kind of stipulation, and points out
Varro's^ ex- press statement that uas and sponsor were not the same
thing. On the other hand it is plain that uadimonium had come by Cicero's
time to denote a mere variety of the stipulation, a fact which may
be gathered from his language' and that of Varro*, as well as from the
frequent use of promittere in passages describiag the contract. The later
aspect of uadimonium, need not however detain us, and we may occupy
ourselves solely with its primitive form. (a) Leist seems to
think that both uadi- monium and praediatura were binding, like the
spon^sio, in virtue of a sacred " word-pledge," or in other
words that " Vas sum" " Praes swm'' had a formal value
analogous to that of " Spondeo." This view he bases on the
etymology of vms, praes and their cognates in the Aryan languages, but an
ex- amination of Pott^ Curtius' and Dernburg' serves to show how
entirely obscure that etymology is. If we cannot be sure whether uas is derived
from fari, 1 Gic. ad Qu. fr. ii. 15. 3. ; Ovid, Am. i. 12. 23 :
uadimmia garrula; etc. a L. L. VI. 7. 71. 3 Q„int. 7. 29. *
loc. cit. 6 Etymol. Forsch. iv. p. 612. « Civ. Stud. iv. 188.
' Pfdr. I. 27.. Digitized by Microsoft®
PRIMITIVE FOEM OF VADIMONIVM. 83 to speak, uadere, to go, or
from an Indo-Germanic root meaning to bind, it is clearly impossible
to build any theory on so iasecure a foundation. More- over,
whatever the true etymology of uas may ultimately be proved to be, we can
find in the above derivations no suggestion of a binding religious
significance such as we discover in sponsio. (b) Voigt boldly
assumes a knowledge of the ancient ceremony, and assigns- to the
iwtdimonium connected with the sale of a farm the following formula
: " Ilium fundum qua de re agitur tihi habere recte licere, haec sic
recte fieri, et si ita faMum non erit, turn x aeris tihi dare
promitto." This is not only purely imaginary, like many of Voigt 's
recon- structed formulae, but the unilateral form in which it is
expressed has no justification from historical sources. The scope of
promittis? promitto in a stipulation is well established, but how can
pro- mitto in an unilateral declaration have had any binding effect
? Voigt justifies his view by a com- parison with dotis dictio and iurata
operarum pro- missio'^, but in both of these there was, as we have
seen, a binding power behind the verbal declaration. The word promitto
alone could never have produced the desired effect, unless we admit the
principle laid down by Voigt^ that an unilateral promise was suffi-
cient to create a binding obligation, which is merely to beg the
question. If indeed we take promittere in its ordinary sense, we cannot
doubt that uadimonium in Cicero's time was contracted by sponsio or
stipu- 1 loc. cit. p. 315. ' lusNat. in. 178. 6—2
Digitized by Microsoft® 84 THE TWELVE TABLES.
latio, but on the other hand it is equally certain that the ancient
uadimonium, whatever it was, disappeared soon after the Lex
Aebutia. The old form known to the Decemvirs cannot then be
stated with the absolute certainty which Voigt seems to assume, but we
may hazard one theory as to its nature which appears not im-
probable, or at least far less so than that of an unilateral promissio.
Gains' tells us that there were several ways of making uadimonia, and
that one of them was the ancient method of iusiurandwm. That this
was an exceptional method is proved by our rarely finding it in use^ and
its adoption is almost inconceivable, except in the earliest times
when the oath was fairly common as a mode of contract. We may be sure
that the old uadimonium was embodied in some particular form of words,
else it is hard to imagine how the penalty could have been specified.
But if so, and if we exclude sponsio, as we are bound to do, what form of
words could have had such binding force as an oath ? The rarity of
this oath in Gellius' time may have induced him to state that it had
quite disappeared', while Gaius may have mentioned it in order to make
his list of vadimonia complete. Further, on examining the
remedies for a breach of iitsiurandum*, we find that self-help was
resorted to, just as it was in cases of neooum. And when self-help
began to be restrained by law, the natural ' IV. 185. 2 e.g.
2 Dig. 8. 16. 3 See above p. 32. « See above p. 11.
Digitized by Microsoft® POSSIBLE USE OF IV8IVRANDVU.
85 substitute would have been manus iniectio. Now there is
good reason to believe that the early iwbdimonium was enforced by the
legis actio per maniis iniectionem'^, and as Karlowa rightly says^,
we cannot imagine such a severe penalty to have been entailed by an
ordinary sponsio. lusiurandum, on the contrary, may easily have had this
peculiarity, since it is the only form of verbal contract which we
know to have been protected by means of self- help. Again,
nanus iniectio seems to have been employed not only by the principal
against the uas, but also by the uas against the principal. When Gaius
states that sponsores were authorized by a Lex Puhlilia to proceed
by manus iniectio against a principal on whose behalf they had spent
money (depensum), he seems to show that facts and circumstances
were sometimes recognized as a source of legal obligation. But we are
bound to reject this ex- planation, since no obligation ex re was
recognized until much later in the Roman jurisprudence. It is far
more likely that, as Muirhead suggests^, the Lex Puhlilia merely extended
to sponsores the remedy already available to nodes; so that sponsio
became armed with the manus iniectio simply on the analogy of its older
brother uadimonium. The theory here put forward as to the early form
of uadim.oniu/ni must remain a pure conjecture in the absence of
positive evidence; but its connection with iusiurandum is at least a
possibility. 1 Karlowa, L. A. p. 325 : Voigt, XII Taf. ii.
495. 2 L. A. p. 324. 3 R. L. p. 166. Digitized by
Microsoft® 86 THE TWELVE TABLES. This vexed
question may then be summed up as follows : (i) In the legal
system of the XII Tables uadimonium was a contract of suretyship,
possibly entered into by iusiurandwm, and probably entailing manus
iniectio, (a) if the surety (uas) failed to fulfil his obligation, or (b)
if the principal (uadimonium dans) failed to refund to his surety any
money expended on his behalf (ii) In later times uadimonium
was clothed in the ordinary sponsio and its old form had completely
disappeared. Art. 7. There are a few other fragmentary
provisions in the XII Tables, which relate to contracts and require a
brief notice. I. Paulus^ speaks of an actio in duplimi as
given by the XII Tables ex causa depositi. This cannot have had any
connection with the actio depositi of the Institutes and Digest, for the
latter was an invention of the Praetor {honoraria), and therefore
could not have appeared till towards the end of the Kepublic, while its
usual penalty was simplum, not duplum. Voigt explains^ this action
of the XII Tables as an instance of actio fduciae based upon a fiducia
cvrni amico. But we cannot admit that fiducia at such an early period
was actionable at all', and still less can we base on Voigt's
assumption the further theory that every breach of fiducia must have had
a penalty of du- plum annexed to it. The conjecture made by 1
Sent. II. 12. n. ^ XII. Taf. ii. 4. 79. ' See above, page 78.
Digitized by Microsoft® ACTIO EX CAV8A
DEPOSIT!. 87 Ubbelohde' that the actio ex causa depositi of
the XII Tables was an actio de perfidia seems still more rash than
that of Voigt, and has deservedly met with but little favour.
There are two points to be noted in this state- ment of Paulus
: (i) He states that the action was ex causa depositi: he
does not call it actio depositi. (ii) He does not say how the
depositum was made, but implies that it might be made by traditio
as well as by Tnancipatio, which also goes against Voigt 's theory.
It was an ancient rule^ that if a man used the property of another
in a manner of which that other did not approve, he was guilty of common
theft, and was punishable in duplum like any other fur nee
manifestus. It seems therefore quite reasonable to suppose that the XII
Tables mentioned this kind o{ furtumi as arising ex causa depositi. If
so, the penalty of duplum mentioned by Paulus is no mystery. It was
merely the ordinary penalty as- signed to furtum nee manifestum, and
depositum as a contract had nothing to do with it. Hence this actio
ex causa depositi does not properly belong to our subject at all.
II. Gaius° says that by the pignoris capio of, the XII Tables (a)
the vendor of an animal to be' used for sacrifice could recover its value
if the purchaser refused to pay the price, and (6) a man who had
let a beast of burden in order to raise money for a sacrifice could
recover the amount of 1 Gesch. der ben. R. G. p. 22. ^ gai. iii.
196. » iv. 28. Digitized by Microsoft® 88
THE TWELVE TABLES. the hire. Hardly anything is known of the
legis actio per pignoris capionem, but it was evidently some
proceeding in the nature of a distress, through which the injured party
could make good his claim by seizing the property of the delinquent.
The only points in which this passage of Gains is in- structive are
these. First, we are here shewn what were evidently exceptional instances
of the legal liability of a man's property, as distinguished from
his person, for his breaches of agreement. Secondly, we here have
conclusive proof that the consensual contracts of sale and hire were
unknown at the period of the XII Tables : these two special in-
stances in which the contracts were first recognised were both of a
religious nature, and the makers of the XII Tables do not seem to have
dreamt that other kinds of sale or hire needed the least protec-
tion. Thus for many years to come the most ordinary agreements of
every-day life, such as hire, sale or pledge, were completely formless,
depended solely on the honesty of the men who made them, and were
not therefore, properly speaking, contracts at all. The principle of the
old Roman law that neither consent nor conduct could create an
obliga- tion ex contractu, but that every contract must be clothed
in a solemn form, appears in the fullest force throughout the XII
Tables. Digitized by Microsoft® CHAPTER
IV. THE DEVELOPMENT OF CONTRACT. At the threshold of a
new period we may pause to review briefly the ground already covered, and
to observe the very different aspect of our future field of
inquiry. We find the legal system of the XII Tables to have
possessed five distinct forms of contract, iusiurandum (including
uadimonium ?), sponsio, dotis dictio, neooum, and leoc mancipi. But though
the list sounds imposing enough, these forms were still primitive
and subject to many serious limitations : (i) Roman citizens only
were capable of using them, and hence they were useless for purposes
of foreign trade. (ii) They all alike required the presence
of the contracting parties, and were therefore available only to
persons living in or near Rome. (iii) They all required the use of
certain formal words or acts, so that, if the prescribed formula or
action was not strictly performed, the intended contract was a nullity.
(iv) The remedies for a breach of contract, except in the case of
nexum and lex mancipi, were probably of the vaguest description, and may
have consisted only of self-help carried out under certain
pontifical regulations. Digitized by Microsoft®
90 THE DEVELOPMENT OF CONTRACT. A system with so many flaws
was plainly incapable of meeting the many needs which grew out of
immense conquests and rapidly extending trade. Accordingly by the end of
the Republic we find that the law of contract had wholly freed
itself from every one of these four defects : (i) Contracts
had been introduced in which aliens as well as Romans could take
part. (ii) Means had been devised for making con- tracts at a
distance. (iii) Forms had by degrees been relaxed or
abolished. (iv) Remedies had been introduced by which."
not only the old contracts but all the many new. ones were made
completely actionable. The question now before us is: how had this
wonderful development been achieved ? It is customary in histories
of Roman Law to subdivide the period from the XII Tables to the end
of the Republic into two epochs, the one before the Lex Aebutia, the
other subsequent to that law. The reason for this subdivision is that the
Lea: Aebutia is supposed to have abolished the legis actio
procedure and to have introduced the so-called formulary system, which
enabled the Praetors to create new forms of contract by
promulgating in their Edict new forms of action. Such a
division doubtless has the merit of giving interest and definiteness to
our history, but it has two great drawbacks : First, that we do not know
what the Lex Aebutia did or did not abolish ; and secondly, that
its date is impossible to determine. Digitized by
Microsoft® OBSCURITY OF LEX AEBVTIA. 91 As to
its provisions, the two passages in which the law is mentioned by Gains ^
and Gellius''' merely prove that the legis actio system of procedure
and various other ancient forms had become obsolete as a result of
the Lex Aebutia. But that these were not suddenly abolished is proved by
the well-known fact that Plautus and Cicero refer more often to the
procedure by legis actiones than they do to that per formulas. The most
plausible theory seems to be that which regards the Lex Aebutia as
having merely authorized the Praetors and Aediles to publish new
formulae ia their annual Edicts. But even this is nothing more than a
conjecture. The date of the Lex Aebutia (probably later than
A. V. C. 500) is also involved in obscurity, as is proved by the fact
that scarcely two writers agree upon the question". It
seems clear that a law about which so little is known is no proper
landmark. The plan here adopted will therefore be a different one.
We shall content ourselves with a detailed examination of each of
the kinds of contracts which we know to have existed at Rome between the
XII Tables and the beginning of the Empire, treating in a separate
section of each contract and its history down to the end of the period.
By this means we may avoid confusion and repetition, though the
period in hand, extending as it does over nearly five hundred years, is
perhaps inconveniently large to be thus treated as a whole. 1
IV. 30. ' XVI. 10. 8. ' A. V. c, 584 according to Poste and Moyle ;
513 aecording to Voigt ; 507 according to Muirhead ; etc.
Digitized by Microsoft® CHAPTER V. FORMAL
CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. Art. 1. Nexvm. The severity and
unpopu- larity of nexum did not prevent its continuance for at
least one hundred years after the modifications made in it by the XII
Tables. Its character remained unchanged, until at last the Roman
people could suffer it no longer. In A. v. c. 428' a certain nesous was
so badly treated by his credi- tor that a reform was loudly demanded. The
Lex Poetilia Papiria was the outcome of this agitation. Cicero',
Livy' and Varro* have each given a short account of the famous law, and
from these it may be gathered that its chief provisions were as
follows : (i) That fetters should ia future be used only upon
criminals. (ii) That all insolvent debtors in actual bondage
who could swear that they had done their best to meet the claims of their
creditors °, should be set free. 1 According to Liyy, but
Dionysius makes it 452. 2 Bep. II, 30. 40. 59. s viii. 28. * L. L.
vii. 5. 101. ' Next qui bonam copiam iurarent : cf. Lex lul. Mun.
113, Digitized by Microsoft® LEX POETILIA
PAPIRIA. 93 (iii) That no one should again be neccus for
borrowed money, i.e. that manus iniectio and the other ipso iure
consequences of nescum should henceforth cease. Varro is the
one writer who mentions the qualification that it was only nexi qui honam
copiam iurarent who were set free. But Cicero and Livy may well
have thought this an unnecessary detail, considering what an immense
improvement had been made by the statute in the condition of all
future borrowers. A clause of the Lex Coloniae luliae Genetiuae^ shows
that imprisonment for debt was still permitted, but that the effects of
ductio were much softened, the uinctio neruo ant compedibus and the
capital punishment being abolished along with the addictio. But diici
inhere was still within the power of the magistrate^, and Karlowa"
seems to be right in holding that this was not a new kind of ductio
originating subsequently to the Lecc Poetilia. The Praetor doubtless
always had the power to order that a iudicatus should be taken and kept
in bonds. But this was a very different thing from the utterly
abject fate of the nexus under the XII Tables. It was only therefore the
special severities consequent upon nexum that can have been
abolished by the Lex Poetilia. Nexum itself was not abro- gated,
for the way in which later authors speak of it shows that there still
survived, if only in theory, a form bearing that name and creating an
obligation. But as soon as its summary remedies were taken 1
cap. 61; Bruna, Font. p. 119. 2 Lex Bubr. cap. 21 ; Bruns, Font. p.
98. ^ L. A. p. 165. Digitized by Microsoft®
94 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. away, neocum
became less popular as a mode of contract and gave way to the more simple
obligatio uerbis. Another reason for its being disused, wlien it no
longer had the advantage of entailing capital punishment, was that the
introduction and wide- spread use of coinage made the use of scales
unnecessary. Stipulatio, which required no acces- sories and no
witnesses, was now the easiest mode of contracting a money loan. We shall
see in the next section that it came to have still further points
of superiority, and thus it was certain to supersede newum, when neoswii
ceased to have special terrors for the delinquent debtor. The
solutio per aes et libram which we find in Gaius, as a survival of
solutio nesd, was not the release of nexii/m, but the similar release
used for discharging a legacy per darrmationem or a judgment debt.
Its continued existence is no proof that neam/rn survived along with it,
for in later days it had nothing to do with the release of borrowed
money. But though nexum proper certainly died out before the Empire, we
have seen' how the meaning of the word became more vague and com-
prehensive. By the end of the Republic we find neocum used to describe
essentially different trans- actions, and simply denoting any negotiwm
per aes et libram. Art. 2. Sponsio and stipvlatio. The origin
and early history of sponsio have already been considered.
There is no authority for Bekker's opinion that sponsio was
enforceable before the XII Tables by the legis 1 See above p.
24. Digitized by Microsoft® THREE USES OF
SPOHiSIO. 95 actio Sacramento^, nor do we know that it gave rise
to any action, but notwithstanding this fact we have seen good reason for
concluding that it existed at Rome from the earliest times. As we found
that its origin was religious, and as the XII Tables do not mention
it, we may regard the remedies for a breach of sponsio as having been
regulated by pontifical law, down to the time when condictiones
were introduced. In the law of this last period sponsio appears in three
capacities : (1) As a general form of contract adapted to
every conceivable kind of transaction. (2) As a form much used in
the law of pro- cedure. (3) As a mode of contracting
suretyship. Its binding force was the same in all these three
adaptations, but its history was in each case different. Thus sponsio was
used as a general form of contract down to the time of Justinian, though
it had then long since disappeared as a form of suretyship. And
there were statutes affecting the sponsio of surety- ship which had
nothing to do with the sponsio of contract or of procedure. It will
therefore be con- venient to treat, under three distinct heads, of
the three uses to which sponsio became adapted, remem- bering
always that in form, though not in all its remedies, it was one and the
same institution. I. Sponsio as a general form of contract.
We have seen that the form of sponsio consisted of a question put
by the promisee and answered by the promisor, each of whom had to use
the 1 AU.i. p. 147. Digitized by
Microsoft® 96 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. word
spondere. For example : Qu. : " Sponden ticam gnatam filio uxorem
meo ? " Ans. : " Spondeo^." Qu. : "Centum dari
spondes?" Ans.: " Spondeo^." This form was available only
to Roman citizens. But there subsequently came into existence a
kindred form called stipulatio, which could be used by aliens also,
and could be expressed in any terms whatsoever, provided the meaning was
made clear and the question and answer corresponded. The
connection between sponsio and stipulatio is the first question which
confronts us. There is no doubt that sponsio was the older form of the
two, because (i) it alone required the use of the formal word
spondere, (ii) it was strictly iuris ciuilis, where- as stipulatio was
iuris gentium^, and (iii) it had to be expressed in the present tense
(e.g. dari spondes?) whereas stipulatio admitted of the future tense
(e.g. dabis ? fades ?), which Ihering^ has shown to be a sign of
later date. Since the rise of the tits gentivm, was certainly subsequent
to the XII Tables, we are justified in ascribing to the stipulatio a
comparatively late origin, though the precise date cannot be fixed
with certainty. Though stipulatio was a younger and a simpli-
fied form, yet it is always treated by the classical jurists as
practically identical with sponsio. Both were verbal contracts ex
interrogatione et responsione, and their rules were so similar that it
would have been waste of time and useless repetition to discuss
them separately. 1 Varro, L. L. vi. 7. 70. ^ Qaius in. 92.
3 Gaius loc. cit. * Geist d. B. B. ii. 634. Digitized
by Microsoft® ORIGIN OF 8TIPVLATI0. 97 The
derivation of stipulatio has been variously given. Isidorus^ derived it
from stipula, a straw ; Paulus Diaconus^ and Varro" from stips, a
coin; and the jurist Paulus*, followed by the Institutes, from
stipulus, firm. The latter derivation is doubt- less the correct one^ but
it does not help us much. What we wish to know is the process by which
a certain form of words came to be binding, so that it was
distinctively termed stipulatio, the firm trans- action. Now if we
conclude, as Voigt does', that the stipulatio and the sponsio were both
imported from Latium, their marked difference with respect to name,
age and form must remain a mystery. Whereas we may solve, or rather
avoid, this diffi- culty by acknowledging that sponsio was the
parent of stipulatio, and that the latter was but a further stage
in the simplification of sponsio which had been steadily going on since
the earliest times. We have already reviewed the three stages through
which sponsio seems to have passed. Stipulatio in all probability
represents a fourth and wider stage of development. The binding force of
a promise by question and answer, apart from any religious form, at
last came to be realized after centuries of use', and as soon as the
promise became more conspicuous than the formal use of a sacred
word, the word spondere was naturally dropped, and with 1
Orig. 5. 24. - s. u. Stipem. 3 L. L. VI. 7. 69-72. * Sent. v. 7.
1. ^ See Ihering, Geist ii. § 46, note 747, who compares the
German Stab, Stift, bestatigen, bestiindig. 6 lus Nat. II. 238. ''
Ihering, Geist ii. p. 585. B. E. 7 Digitized by
Microsoft® 98 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
it fell away the once descriptive name sponsio, to make way for
that of stipulatio, now a more correct term for the transaction.
Thenceforward, as a matter of course, stipulatio became the generic name,
while sponsio was used to denote only the special form spon- desne?
spondeo. The precise date of the final change is a matter of
guess-work. But as stipulatio was the form avail- able to aliens^ it was
probably the influx of strangers which made the Romans perceive that
their old word spondere, only available to Roman citizens, was
inconvenient and superfluous. Unless contracts with aliens had become
fairly common, the need of the untrammelled stipulatio would hardly have
been felt. Therefore it seems no rash conjecture to suppose that
the stipulatio was flrst used between Romans and aliens, and first
introduced about A.V.C. 512*, the date generally assigned to the creation
of the new Praetor qui inter peregrinos ius dicebat. As to
the form of the stipulatio : (a) Ihering* and Christiansen* have
expressed the opinion that originally the promisor did not merely
say spondeo, faciam, daho, etc., as in most of the known instances, but
repeated word for word all the terms of the promise as expressed in the
question put by the promisee. This view is based upon the passages
in Gaius^ and the Digest*, which lay great stress upon the minute
correspondence necessary between the question and the answer in a
vaHd ' Gai. III. 93. 2 Liu ^^j-^ ^ix. » Geist II. 582.
* Inst, des B. B. p. 308. •^ in. 92. « 45 Dig. 1. 1.
Digitized by Microsoft® VARIOUS STIPULATORY FORMULAE.
99 stipulation. It is hard to see how such a rule could have
arisen unless there had been some danger of a mistake in the promisor's
reply, and if this reply had been confined to the one word spondeo,
promitto, or faciani, a mistake would hardly have been possible. Hence
this view seems highly pro- bable. (b) Voigt"^ has given
the following account of the origin of the various formulae.
(i) The form spondesne ? spondeo is the oldest of all, and dates
back into very early times ^ which is probably quite correct. But in a
more recent work' this view expressed in "lus Naturale" is
unfor- tunately abandoned, and Voigt regards sponsio as a Latin
innovation dating from the fourth century of the City. This seems surely
to place the birth of sponsio far too late in Roman history.
(ii) The looser form dabisne ? dabo is found in Plautus*, and was
no doubt, as Voigt says^ a product of the ius gentium and first
introduced for the benefit of aliens. (iii) Lastly, the
origin of the forms promittis ? promitto, and fades? faciam^, is placed
by Voigt not earlier than the beguming of the Empire. But his
reasons for so doing seem most inadequate. If the form dabisne? dabo
occurs in Plautus, the form fades? fadam, which is essentially the same,
can hardly be attributed to a later period. And since 1 Ius
Nat. IV. 422 ft. 2 See Liu. iii. 24. 5, A.v.c. 295, and iii. 56. 4,
A.v.c. 305. 3 Bom. RG. i. p. 43. ■• Pseud. 1. 1. 112, A.v.c.
663. 5 /. N. IV. 424. « Of. Gaius, in. 92. 116. 7—2
Digitized by Microsoft® 100 FORMAL CONTRACTS OF
THE LATER REPUBLIC. prondttam is used by Cicero as a synonym
for spondea/m}, and fidepromittere was an expression used in
stipulations, as Voigt admits, two centuries before the end of the
Republic'-', it seems rash to affirm that promittere, the shortened
phrase, was not used in stipulations until the time of the Empire.
We may therefore attribute both of these forms to republican times.
(c) The admissibility of condicio and dies as qualifications to a
stipulation must always have been recognized, since a promise deals
essentially with the future and requires to be defined. (d)
The insertion of a conventional penalty into the terms of the contract was
probably practised from the very first, whenever facere and not
dare was the purport of the promise, because the candictio certi
was older than the condictio incerti, and there- fore for many years an
unliquidated claim would have been non-actionable unless this precaution
had been taken. We have now seen that verbal contract by
ques- tion and answer, whether called sponsio or stipulatio,
existed long before it became actionable. When it finally became so is uncertain,
though we know what forms the action took. (a) Condictio
certae pecuniae. Gains' speaks of a Lex Silia as having
introduced the legis actio per condictionem for the recovery of
certa pecunia credita. This law is mentioned nowhere else, and its date
can only be approximately fixed. 1 Cic. pro Mur. 41. 90. ^ I. N.
iv. 424, note 77. -' IV. 19. Digitized by
Microsoft® ORIGIN OF PECTNIA CBEDITA. We know
from Cicero^ that pecwnia credita, a re" money loan, might in his
time originate in ways, by datio (mutuum), expensilatio, or
stipulatio. But we cannot infer from this that the Lex Silia made
all those three forms of loan actionable'', for mutuum and expensilatio,
as will presently be seen, were certainly of more modern origin than the
condictio certae pecuniae. It appears indeed that stipulatio was the
original method of creating pecunia credita^: consequently the Lex Silia
must have simply provided for the recovery of loans made by sponsio
or stipulatio. It is noticeable, moreover, that Gaius speaks as though by
this law money debts had merely been provided with a new action :
he does not imply that stiptdatio or sponsio was thereby introduced, as
Voigt'' and Muirhead' have ventured to infer. Their view is surely an
un- warrantable inference, for if the Lex Silia had created so new
and important a contract as stipu- latio, Gaius would hardly have
expressed so much surprise at the creation of a new form of action
to protect that contract. His language seems clearly to imply that
pecunia credita was already known, and was merely furnished by this law
with a new remedy. We may conclude then that pecunia credita must
have existed before the Lex Silia, and can only have been created by
stipulatio. Stipulatio ' Rose. Com. 5. 14. ^ Puohta, Imt. 162.
3 Cf. the dare, credere, expensum ferre of the Instrumentum
fiduciae in Bruns, p. 2-51, with the dare, gtipulari, and expensum ferre
of Rose. Com. 5. 13-14, and see Voigt, lus Nat. it. 402. * Ills
Nat. II. 243. ■' R. L. p. 230. Digitized by Microsoft®
102 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. cannot,
therefore, have been introduced by this law, though it probably was
thereby transferred from the religious to the secular code.
The age of the Lex Silia has been variously given', but there are
no trustworthy data, and any attempt to fix it must be somewhat
conjectural. The only thing we do know is that this law must have
been enacted a considerable time before the Lex Aquilia of A.V.C. 467,
for the latter law pun- ished" the adstipulator who had given a
fraudulent release, and as this release must have applied to the
stipulatio certae rei of the Lex Galpurnia', it is evident that the Lex
Aquilia must have been younger than the Lex Calpurnia, which, as we shall
see, was itself younger than the Lex Silia. We may perhaps
approximate even more closely to the date of the Lex Silia. Muirhead^ has
con- jectured with much plausibility that the introduction of the
condictio certae pecmviae was a result of the abolition of the nexal
penalties, or in other words that the Lex Silia followed soon after the
Lex Poetilia of A.v.c. 428. There are several strong points in
favour of this hypothesis : (i) It explains Gaius' difiiculty as to
the reason why condictio was introduced. For when the terrors of
nexum were abolished, it was natural to substitute some penalty of a
milder description and not to let defaulting debtors go entirely
unpunished. Now 1 A.V.C. 311 to 329, according to Voigt, I. N. iv.
401. " Gai. III. 215. ' Of. quanti ea res est in Gai.
loc. cit. with 13 Dig. 3. 4. * R. L. p. 230. Digitized
by Microsoft® PROBABLE OBJECT OF LEX SILIA. 103
this is just what the condictio certae pecuniae, with its sponsio
poenalis tertiae partis, presumably accomplished, for like neocum it
dealt only with pecunia. (ii) This hypothesis helps us also
to understand why the condictio certae pecuniae should have been
introduced before the cmidictio certae rei, thus making a stipulation of
certa pecunia actionable, while a stipulation of res certa had not this
protec- tion. As we found above', the introduction of coin must
have made the stipulatio certae pecuniae a very convenient substitute for
nexiom. It was therefore natural to give a remedy to this stipidatio and
so to make it take the place of nexum as a binding contract of loan
; while certa res, never having had and therefore not immediately
requiriag a remedy, was not protected by condictio until several
years later. (iii) We can also see why the condictio
ceiiae pecuniae should have been the only condictio fur- nished
with so severe a penalty as the sponsio poenalis. It was because money
loans had been jealously guarded in the days of nexum, and it was
therefore thought proper to protect the money loan by stipulation far
more carefully than the promise of a res certa. All these
seem strong points in confirmation of Muirhead's hypothesis. By
connecting stipulatio and condictio with the downfall of nexum and of
its manus iniectio, we not only get a plausible date for the Lex
Silia, but what is far more important, we 1 p. 94.
Digitized by Microsoft® 104 FORMAL CONTRACTS OF THE
LATER REPUBLIC. obtain a satisfactory explanation of the curious
fact that, while stipulationes were made actionable, they were not
all made so at once. The forms of condictio under the legis actio
system are not known, but under the formulary system, this
condictio had the following formula: Si paret N^ N'egidium A" Agerio
HS X dare oportere, iudesc, iV™ Negidium A" Agerio X condemna. s. n.
p. a} Its peculiar sponsio will be given in another place. (b)
Condictio triticaria or certae rei. The Lex Calpurnia, which must
have preceded the Leoo Aquilia^ and must therefore have been
enacted earlier than A.v.C. 467, extended the legis actio per
condictionem to stipulations of triticum, corn, {condictio triticaria) ;
and this, being soon interpreted by the jurists as including every debt
of res certa, gave rise to the condictio certae rei. This new kind
of condictio omitted, for the reason above '-stated, the sponsio and
restipulatio tertiae partis, in place of which the defendant merely
promised to the plaintiff a numnvus wnus which was never exacted or
paid*. Therefore, as the severer law invariably precedes the
milder, we might be sure that the Lex Silia with its heavy penalty was
older than the Lex Calpurnia with its nominal fine*, even if Gains had
not clearly led us to this conclusion by the order in which he mentions
the two laws'. The formula ran thus : Si paret N'^ Negidiwm
A" Agerio tritici optimi X modios dare oportere, qvtanti
1 Gai. IV. 41. Lenel, Ed. Perp. 187. ^ See above, p. 102. »
p. 103. * Voigt, I. N. III. 792. ' Keller, Civilp. 20. « Gains, iv.
19. Digitized by Microsoft® DEVELOPMENT
OF OONDICTIO. 105 ea res est, tantam pecuniam, index, iV™ Negidium
A" Agerio condemna. s. n. p. a. (c) Condictio
incerti. The above condictio triticaria, or certae rei, was
in course of time extended by the interpretation of the jurists or by the
Praetor's Edict to res incertae, and gave rise to a condictio incerti,
which was the proper action on a stipulation involving facere or
praestare or some other object of indefinite value. The thing promised
might be defined as quanti in- terest, or quanti ea lis aestimata erit
etc.', and it is plain how much this comprehensive mode of ex-
pression must have increased the adaptability and general usefulness of
the stipulation. In this way, for instance, the cautio damni infecti and
the stipu- lations of warranty were doubtless always expressed. The
nature of this condictio may perhaps be best understood from its formula,
which was as follows : Quod A^ Agerius de N" Negidio incertum
stipulatus est, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"
Agerio dare facere oportere, eius iudex, N™ Negidium A" Agerio
condemna. s. n. p. aJ' This was so far an advance upon the condictio
certae rei that, the condemnatio here left the damages entirely to the
discretion of the judge; but it was still a stricti iuris action, in
which no equitable pleas were ad- mitted on the part of the
defendant. {d) Actio ex stipulatu. We have seen that the
condictiones certae pecuniae and certae rei were due to legislation, and
the con- dictio incerti to juristic interpretation: it remains 1
Voigt, RG. I. pp. 601-2. 2 (jai. iv. 131, 136. Digitized by
Microsoft® 106 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
to inquire what was the origin of the actio ex stiffulatu, i.e. the
honae fidei action on a stipulation for incertwm dare or for certwm
facere^, which completed this series of legal remedies. Its ap-
pearance was an event of great importance to the subsequent history of
Contract, since it applied ex- clusively to stipulations containing a
honae fidei clausula, and it was by means of this action alone that
such stipulations were enforced I Voigt's ex- planation of its origin is
that the actio ex stipulatu was devised as the proper remedy for
fidepromissio and for the cautio rei uxoriae introduced in A.V.C.
523'. But it is very doubtful if the date can be fixed with such
exactness. There is nothing to show that the actio ex stipulatu did not
exist earlier than those particular forms of stipulation ; and if
it had been, as Voigt thinks, the original action on a
fideproTnissio, it would probably have been known as actio ex
fidepromisso or by some such descriptive name. The
introduction of the doli clausula is the most important event in the
whole history of the stipulatio, yet the exact moment at which this took
place is hard, if not impossible, to fix. Girard* attributes its
invention to C. Aquilius Gallus. But if this had been the case, Cicero^
would hardly have overlooked the fact. On the other hand Voigt, who rightly
identifies the actio ex stipulatu with the action on a 1
Bethmann-Hollweg, C. P. p. 267. 2 44 Dig. 4. 4. fr. 15-16.
3 I. N. IV. 407. Gellius iv. 1, 2. * N. Rev. Hist, de Droit,
xiii. 93. ^ Off. in. 14. 60. Digitized by Microsoft®
THEORIES AS TO ACTIO EX STIPVLATV. 107 doli clausula,
and regards the two as inseparable, places the introduction of doli
clausula earlier than the time of Cicero, because that writer mentions
the actio ex stipulatu among the " indicia in quibus ad- ditur
' ex fide bona^.' " The introduction of the first clausida doli was,
according to Voigt", made by the words fides, in fidepromissio, and
"quod melius aequius sit" in the cautio rei uxoriae^. This
conjecture is unsupported by evidence ; for though we know that
cautio rei ihxoriae* and fidepromissio^ were both actionable by the actio
ex stipulatu, and therefore must have contained doli clausulae, we have
no right to assume that they were the first of their kind. We
cannot, moreover, follow Voigt in supposing the actio ex stipidatu to
have been expressly invented for fidepromissio and cautio rei uxoriae. We
have to presuppose the existence of a condictio incerti before the
doli clausula could become actionable, since a claim of damages for dolus
was necessarily an in- certum; and there is no reason why the actio
ex stipulatu should not have been developed from the condictio
incerti by mere interpretation. Its essential connection with the
stipulatio containing the clausula doli may readily be admitted, but we
cannot be certain what were the first stipulations containing
clausulae of the kind. The doli clausidae are well summarized by
Voigt '^ as follows : 1 I. N. IV. 413. 2 I. N. IV. 407.
3 Boeth. ad Top. 17. 66. " 23 Dig. 4. 26. s 45 Dig. 1.
122. « I. N. iv. 411. Digitized by Microsoft®
108 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. (i) " Quod
melius aequius erit," as in " cautio rei uxoriae."
(ii) " Fide," in fidepromissio. (iii) " Si
quid dolo in ea re factum sit^." (iv) "DoluTn Tnalum,
huic rei abesse afuturuinque esse spondesne^ ?" (v)
" Gui rei si dolus malus non abest, non abfuerit, quanti ea res est
tantam pecuniam, dari spondes^ ? " The date of each of
these forms is, however, impossible to determine. The cases of contracts
by stipulation in which doli clausulae are found have been
collected by Voigt*, but need not be enumerated here. The
effect of the clausula was to convert the action on the stipulation
containing it from a stricti iuris action into a bonaefidei action, in
which equitable defences might be entertained by the judge. This
ex- pansion was effected by introducing the words " dare facer
e oportere ex fide bona " in the intentio of the action. If "ex
fide bona " had not appeared in the formula of an actio ex
stipulatu, the action would simply have been a condictio incerti. It
seems there- fore reasonable to suppose that the actio ex stipulatu
was nothing more than a development of the condictio incerti, and that
the words ex fide bona, perhaps suggested by the actio emti, were
inserted to suit the liberal language of the stipulation. In
praetorian stipulations the doli clausula was 1 4 Dig. 8.
31. ^ 46 Dig. 7. 19, 50 Dig. 16. 69. 3 46 Dig. 1. 38. fr. 13.
" I. N. iv. 416 ff. Digitized by Microsoft®
EXCEPTIO DOLI UNCONNECTED WITH OLA VSVLA. 109 an usual
part of the fonnula; e.g. in cautio legis Falcidiae^, stipulatio
iudicatum soltii', stipulatio ratam rem haberi^, etc. But in conventional
stipulations it was purely a matter of choice whether the doli
clausula should be inserted or not. We must not fancy that the
actio de dolo and the exceptio doli, which Cicero attributes to his
colleague C. Aquilius Gallus', had anything in com- mon with the actio ex
stipulatu based upon a clausula doli^. The former remedies were a
pro- tection against fraud where no agreement of a contrary kind
had been made", whereas the action on a stipulation containing the
clausula doli was available only when dolus maltts had been
specially excluded by agreement. Hence it follows that where the
stipulation had omitted the clausula doli there can have been no remedy
for dolus until the great reform introduced by Aquilius Gallus.
As soon as stipulations of all kinds had thus become actionable,
and had probably passed out of the hands of the Pontiffs into the far
more popular jurisdiction of the Praetor, the law of contract
received an extraordinary stimulus, and we find the stipulation producing
entirely new varieties of obli- gation, though its form in each kind of
contract re- mained of course substantially the same. Here are some
of the purposes for which stipulatio was em- 1 35 Big. 3. 1. = 46
Big. 1. 33. » 46 Big. 8. 22. fr. 7. ' Off. in. 14. 60.
Nat. B. in. 30. 74. » Voigt, I. N. 3. 319. ' See the
case of Canius, in Cio. Off', in. 14. 58-60. Digitized by
Microsoft® 110 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
ployed, apart from its uses in procedure and surety- ship.
(1) It produced a special form of agency by means of adstipulatio^.
The promisee who wished a claim of his to be satisfied at some far-off
period, when he might himself be dead, had only to get a friend to
join with him in receiving the stipulatory promise. This friend could
then at any time prosecute the claim with as good right as the
principal stipulator, and the law recognised him as agent for the latter.
Even a slave could in this way stipulate on behalf of his master*.
(2) In consequence of its universal adaptability, the stipulation
gave rise to nmiatio. The reducing to a simple verbal obligation of some
debt or obligation based upon different grounds (e.g. upon a sale,
legacy, etc.) was accomplished by stipulatio, and known as expromissio
debiti proprii. (3) It created a rudimentary assignability of
obligations by virtue of delegatio, another form of nouatio. In the one
case, the debtor was changed, and the creditor was authorised by the
former debtor to stipulate from the new debtor the amount of the
former debt : in the other case {expromissio debiti alieni) the creditor
was changed, and the new creditor stipulated from the debtor the amount
owed by him to the former creditor. (4) It also created the
notion of correal obli- gation, by which two or more promisors in a
stipulation made themselves jointly responsible for the whole debt, and
so gave additional security to 1 Gai. III. 117. = .? Inst. 17.
1. Digitized by Microsoft® FKUITS OF
8TIPVLATI0. Ill the promisee. The effects of this will be seen in
a later section. (5) It served to embody in a convenient
shape any special condition annexed to a separate contract — e.g. a
promise to pay the price agreed upon in a sale', and the stipulationes simplae
et duplae annexed to sales of res nee mancipi^. Thus an enforceable
contractus adiectus could be made on the analogy of a pactum
adiectum. (6) It clothed in an actionable form so many
different kinds of agreements that it would be impossible to exhaust the
list. For instance, agree- ments as to interest^ wagers, the promise of
a dowry^, the making of a compromise^ the creation of an usufruct,
could all be thrown into stipulations either single or reciprocal, and
thus turned into binding obligations. (7) Most of the events
in the history of this immense development of stipulatio are impossible
to fix at any given period, though the attempt to do so has been
often made. Yet the invention of one famous stipulation can be exactly
dated, from its bearing the name of Cicero's colleague, C. Aquilius
Gallus, and having therefore been invented by him in the year of his
Praetorship^. This Aquilian formula, which operated as a general release
of all obligations, and which the Institutes' give us in full, is
an excellent instance of the usefulness of the stipulation, and it also
clearly shows what long and 1 Cato, R. R. 146. ^ Varro, R. R. ii.
3. ' Plant. Most. 3. 1. 101. * See p. 32. « Plant.
Bacch. 4. 8. 76. « A.v.c. 688. ' 3 Inst. 29. 2. Digitized by
Microsoft® 112 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
elaborate forms this contract sometimes assumed in later times, so
that all kinds of terms, de- scriptions or warranties might without
difficulty be incorporated in a single comprehensive formula. It
was probably this increasing length of stipu- lations which caused them
to be put in writing, and induced lawyers to publish formulae in
which they should be expressed. Both of these results had already
taken place in the time of Cicero. He not only speaks of written
stipulations, but also describes the composition of stipulatory formulae
as one of the chief literary occupations of a leading lawyer'. We
know from a constitution of the Emperor Leo, which changed the law in this
respect, that the written stipulations of the Republic and early
Empire were merely put into writing for the sake of evidence". The
writing in itself constituted no contract, and raised no presumption in
favour of the existence of a contract; but the written stipu- lation
had to conform with all the rules of the ordinary spoken stipulation,
since it was nothing but a spoken stipulation recorded in writing.
The legislative changes of the period were mostly devoted to
modifications in the stipulations of suretyship. But in a few cases the
ordinary stipu- lation was itself affected. (i) By the Lex
Titia of A.v.c. 416—426° stipu- lations for the payment of money lost at
gambling were declared void. (ii) Various laws against usury
were enacted, 1 de leg. i. 4. 14. 2 3 Inst. 15. 1. '
Voigt in Phil. Hist. Ber. der S. G. der W. xiii. 257.
Digitized by Microsoft® SPONSIO IN PROCEDURE.
113 all of which affected the stipulation, since that was the
mode in which fenus was usually contracted. (ui) The Lex Cinaia de
mwieribus of A. v. c. 550, the object of which was to restrain lavish
gifts to pleaders and public men, naturally limited all stipu-
lations between parties within range of the prohibi- tion, and in the
corresponding condictio gave rise to the exceptio legis Ginciae, which
probably ran thus : ...si in ea re nihil contra legem Ginciam
factum sit... (iv) The Praetor C. Aquilius Gallus, as
above mentioned^, instituted in his Edict the exceptio doli mali,
and thereby nullified stipulations which, how- ever perfect ia form, had
been procured by fraud. This exceptio was of course inapplicable to cases
in which the stipulation contained a clausula doli. II.
Sponsio in the law of Procedure. The original function of the
processual sponsio seems to have been that of helping to decide the
question at issue by expressing it in the form of a wager. As a common
feature of practice, sponsio made its appearance in many other different
connec- tions, and sometimes developed into the more modern
stipulatio. We find it employed : (i) As a means of obtaining a
decision by a wager, in which the contention of either party was
succinctly stated and so submitted to the judge. This was known as
sponsio praeitodicialis. (ii) As a means of fixing a penalty, as
well as of obtaining a decision, in (a) the condictio certae
1 p. 109. B. E. 8 Digitized by Microsoft®
114 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. pecuniae
or (6) the interdicts, in which case it was known as sponsio poenalis.
(iii) As a mode of giving security ; for instance in the
uindicatio, where we find the stipulatio pro praede litis et
uindiciarum. Bekker's classification^ does not exactly
correspond with this one. He divides processual sponsiones into (A)
sponsiones made in the course of a trial, (a) as to the chief
question, (6) as to conditions and incidental matters, and
(B) sponsiones made apart from a trial, (a) with a view to some
future trial, (b) with no such view. The objection to
this classification seems to be that the whole of class (B) were not
properly pro- cessual sponsiones at all. 1. Sponsio
praeiudicialis' was a promise to pay a fixed sum, made by the plaintiff
to the defendant, and conditioned upon the plaintiff's defeat. It was
accompanied by a similar promise (restipulatio) on the part of the
defendant, conditioned upon his defeat. These mutual sponsiones were in
fact nothing more than a bet on the result of the action. They
generally involved a merely nominal sum, and were perhaps first
introduced in the actio per sponsionem in rem, as a means of settling the
question of ownership without employing the larger and more costly
sacramentum of five hundred asses'. The date of their origin is impossible
to fix, but the custom of making such sponsiones and having them decided
by a judge 1 Akt. I. 257. 2 Gai. iv. 94. 165. 3 Baron,
p. 403. Digitized by Microsoft® SPONSIO
PRAEIVDIGIALIS. 115 seems to have been one of great antiquity,
and must have existed long before the sponsio became armed with any
condictio. The very notion of a bet submitted to a judge as a means of
deciding rights of property seems, as Sir Henry Maine has said ',
to savour of the primitive time when the judge was simply a man of wisdom
called in to arbitrate between two disputants. Moreover, it is hard
to imagine that the actio per sponsionem in rem could have been
introduced in any but the most ancient times, when in Cicero's age there
were the rei uindicatio sacramento and the far simpler m uin-
dicatio per formulam petitoriam to accomplish the same objects There is
therefore every probability that the actio per sponsionem was at least as
old as the legis actio sacramento. According to Voigt* the procedure
per sponsionem was the original form also of the actio Publiciana
introduced in A.v.C. 519. In Cicero's time it was still a favorite method
of pro- cedure for all sorts of litigation^. (a) In questions
as to property the plaintiff might choose whether he preferred to bring
an actio per formfublam, petitoriam, or one per sponsionem^. If he
chose the latter course, the defendant was compelled sponsions se
defenders. (b) In really trivial praeiitdicia the question
was stated in the formula and sent straight to the i^tdex without any
condemnation, but the procedure 1 E.H. of I. 259. 2
KeUer, C. P. § 28. ^ j. j^. ly. 506. " e.g. Caec. 8. 5 Lex
Ruhr. e. 21, 22; Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gaius, iv. 91. ^ Gai. IV.
44. 8—2 Digitized by Microsoft®
116 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. in this case was
not necessarily based upon a sponsio praeiudicialis and might be a simple
preliminary inquiry ordered by the Praetor. The sponsio
praeiudidalis thus worked in a peculiarly roundabout way; its penalty was
nomi- nal and not therefore its real object, and it brought about a
decision on the main question by treat- ing that question as a thing of
secondary im- portance. 2. Sponsio poenalis (a) in the
condictio, was pecu- liar to the legis actio per condictionem introduced
by the Lex Silia. It was accompanied by a restipulatio, so that
either party to the action promised to the other a penalty of one-third '
in the event of losing his case. Eudorff" reconstructs the formula
of this sponsio as follows : Si pecuniam certam creditam qua de re
agitur mihi debes, earn pecuniam cum tertia parte amplius dare spondes?
But this seems in- correct, since from Cicero's language' we gather
that the sponsio was for the tertia pars only; the sum in dispute plus
one-third is never mentioned. The formula then was probably as follows:
Si pecuniam certam creditam qua de agitur mihi debes, dus pecuniae
tertiam partem dare spondes ? Hence Rudorff* seems also wrong in stating
that the con- demnatio of the formula in the corresponding
condictio must have involved the principal sum plus one-third.
Voigt ^ more correctly holds that the condemnatio can only have involved
the summa sponsionis. We can 1 Cic. Base. Com. 5. 14. 2 Ed. Perp.
p. 103. '' " legititnae partis sponsio facta est." Rose.
Com. 4. 10. * Rom. RG. II. 142. ^ j_ j^ m 741^
Digitized by Microsoft® SPON^SIO POENALIS. 117
see that, as Gains '■ implies, this sponsio was just as much
praeiudicialis as that of the actio per sponsio- nem, giving as it did a
ground for the decision of the main question ; but it was also distinctly
poenalis, be- cause the sum which it involved was worth having and
worth extorting from the unsuccessful party, and therefore the condemnatio
was carried out in the usual manner. The principal sum in dispute
was then no doubt quietly paid, since the decision as to the sponsio
tertiae partis had also settled to whom the disputed sum belonged.
(b) In the private interdicts (possessoria and restitutoria) if the
party to whom the interdict was addressed chose to dispute it, he might
do so by challenging the plaintiff to make a sponsio and
restipulatio, the rights of which should be deter- mined by
recuperatores. This sponsio differed from the former (1) by being purely
poenalis and having no trace of praeiudicium for its object ; (2) by
being in factwm concepta ^. The origin of these two uses of
sponsio cannot be dated, in the case of (a) because we do not know
the date of the Lex Silia, and in the case of (6) because we do not
know when the possessory interdict was first granted by the Praetor. But
it is fairly certain that the sponsio poenalis of the interdict was
more modern than the sponsio poenalis of the condictio, partly
because it had no sort of connection with a praeiudicium, which seems to
have been the original object of the processual sponsio, and partly
because it was in factum concepta. 1 IV. 93, 94. 2 Gai. iv.
166; Cic. Caec, 8. 23. Digitized by Microsoft®
118 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. 3. Another
purpose for which the sponsio was adopted in procedure was to give bond
against pos- sible losses. It thus furnished a substitute for the
old form of obligation contracted by the praes in real actions. The stipulatio
pro praede litis et uindi- ciarum, accompanied by sureties ', was given
by the plaintiff who wished to bring an actio per sponsionem in
rem, or who disputed an interdict, and the amount promised in the
stipulation was double the value of the property in dispute.
Another contract of the same kind was the stipulatio ivdicatum
solui ', by which the plaintiff in an actio per formulam petitoriam
obtained a promise from the defendant that he would pay up the value
of the property in dispute and of its fructus, in the event of being
defeated in the action. Voigt gives imaginary formulae for these
two stipulations", but in reality we do not know much about
them. Stipulations of this kind were not peculiar to the law of
procedure. They were simply varieties of the cautio, a very common method
of securing future rights, and they had their counter- part in the
cautio damni infecti, cautio Muciatm, cautio legis Falcidiae and all the
praetorian stipula- tions. The origin of the cautiones in general
cannot however be dated : we know merely that they must have been
invented subsequently to the introduction of the condictio.
III. Sponsio as a means of Suretyship. The introduction of
the new idea of correal obli- 1 Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gai. iv.
91-94. 2 46 Dig. 7. 20 ; Gai. rr. 89. ' Im Nat. in. 588 and
820. Digitized by Microsoft® SPOJfSIO IN
SURETYSHIP. 119 gation which resulted from the use of the
stipulation, naturally led to the use of the stipulation as a mode
of suretyship. For if three sponsores promised the same sum to the same
stipulator, the latter obviously had three times as good security as if
he had put his question to one sponsor instead of to three.
1. The consequence was that sponsor soon acquired the special
meaning of a co-promisor or surety, and this change probably took place
soon after the sponsio became actionable by the Lex Silia. But if
the surety -sponsor had had no recourse against the principal-spojisor
whose debt he had been com- pelled to satisfj"^, his case would have
been hard indeed. To provide against this hardship, the Lex Publilia
' of A. V. c. 427 enacted : (a) That the surety-spo?iso?'
might make use of an actio depensi against the principal debtor for
the amount spent on his behalf (6) That the mode of procedure in
this actio depensi should be the legis actio per manus iniec-
tionem, and that the penalty should be duplum^. (c) That the
principal debtor should however have six months' grace for the repayment
of his surety, but (d) That a surety who paid a gambling-debt
on behalf of his principal should forfeit his right of
action. This law is alluded to by Plautus, and was clearly
prior to the introduction of fidepromissio. 1 Voigt in Phil. Hist.
Ber. der k. s. Ges. d. Wiss. xlii. p. 259. 2 Gai. IV. 22.
171. Digitized by Microsoft® 120 FORMAL
CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. In later times the surety had in
the actio mandati a further remedy against the principal sponsor.
2. About the beginning of the fifth century, as new forms of
stipulatio grew up alongside of the old sponsio, another sort of
suretyship was introduced under the name oi fidepromissio. It was so
called because the sureties entered into a stipulation con- taining
the words : "Jide tua promittis ? fide mea pro- mitto." The new
form was no doubt devised for the benefit of foreigners and marked the
further growth of ius gentium. It seems to have been treated as
exactly equivalent to sponsio, for sponsio as well as fidepromissio could
only be used to secure a verbal obligation \ Since it is coupled with
sponsio in the Lex Apideia, and since the heirs of sponsores and
fidepromissores were both alike free from the obliga- tion of their
predecessors ^ it is fairly certain that the actio depensi and inanus
iniectio of the Leoo Publilia must have been extended to
fidepromissio by interpretation '. The fidepromissor also had the
remedy of the actio mandati, but this was of later origin.
The Lex Apuleia de sponsoribus et fide promis- soribus of A.v.C.
525 ^ applying to both Italy and the provinces, gave to any sponsor or
fidepromissor who had paid more than his aliquot share of the
principal debt a right to bring the severe actio depensi against each of
his co-promisors to recover the amount overpaid. This law, giving as it
did protection to the sponsor against his co-sponsor, was '
Gai. III. 119 ; iv. 137. 2 Gai. in. 120. ' Gai. III. 127. "
Voigt, I. N. iv. 424. Digitized by Microsoft®
FIDEPROMISSIO. 121 the natural complement to the Lex Puhlilia
which had already secured him against the principal debtor.
The object of the next law, Lex Furia de sponso- ribus et
fidepromissoribus of A.V.c. 536 \ is rather obscure, but it seems to have
re-enacted the Lex Apuleia with reference to Italy only, and
probably provided the spmisor with a more thorough mode of redress.
What this mode was the language of Gains ^ does not make plain ; but
Moyle is no doubt wrong in asserting ' that it was the actio pro socio,
unmis- takably of much later origin. Its only clearly new enactment
was that sponsores or fidepromissores in Italy, whose guarantee was for
an unlimited period, should be liable for two years only. This
limited liability Voigt thinks was perhaps borrowed from the rules
applying to the uas. Lastly, the Lex Cicereia (Studemund) of
uncertain date, but which must have been passed before A.V.c. 620,
since it ignored fideiussio, gave further protection to sureties by
enacting : (<x) That any creditor who secured his debt by
taking sponsores or fidepromissores must announce the amount of the debt
and the number of the sureties before they gave their adpromissio.
(b) If he failed to do this, any surety might within 30 days
institute a praeiudicium to inquire into his conduct ; and if the judge
declared that the required announcement had not been made, all the
sureties were freed from their liability*. This law 1 L. Furius
Philue was Praetor in that year. Voigt, I. N. iv. 424. 2 ni. 122. 2
Inst. p. 411, note. * Gai. iii. 123. Digitized by
Microsoft® 122 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
was subsequently, we know, extended by interpreta- tion to
fideiussores. 3. A third form of suretyship was at last de-
vised, by which obligations other than verbal ones could be similarly
secured. This was done by a stipulation containing the words "fide
tua ivbes ? fide mea ivheo" and it was hence known as
fideiussio. It must have been iuvented about the beginning of the
sixth century, and was doubtless needed, as Voigt suggests^, in order to
provide a form of suretyship for the newly invented real and consensual
con- tracts ". Its chief points of difference from the other
two forms were that (a) it applied to all kinds of contractual
obligations ; (6) the heir of the fideiussor was bound by the same
obligation as his predecessor ; and (c) the provisions of the foregoing
legislation as to sponsio and fidepromissio did not as a rule apply
to fideiussio. The only point of resemblance was that the fideiussor,
like the sponsor and fidepro- missor, had the actio mandati^ against his
principal, whereas the sponsor and probably the fidepromissor had
the actio depensi of the Lex Puhlilia in addition to the more modem remedy.
The Lex Cornelia mentioned by Gains * as affect- ing all sureties
alike, whether sponsores, fidepromis- sores or fideiussores, has been
shown by Voigt ' to be a part of the Lex Cornelia swmtuaria of A.V.C.
673. Two sections of this act provided : (i) That no surety
should validly become re- 1 I. N. IV. 425. 2 Gai. ni. 119.
» Gai. m. 127. » in. 124. ° Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges.
der Wiss. xlii. p. 280. Digitized by Microsoft®
BXPMNSILA TIO. 123 sponsible for more than two million
sesterces > on behalf of the same person in any given year.
Except in the case of dos^, whatever liability was contracted over
and above that amount was void. (ii) That no suretyship of any sort
should be valid when given for a gambling debt I In thus
tabulating all the laws on this subject, we must not omit to mention the
rule applying to all forms of suretyship alike, that if the surety
had guaranteed a lesser sum than the principal debt, his guarantee
held good, but if a larger sum or a differ- ent thing, the guarantee
became void. In conclusion, it is very remarkable how largely
the law of suretyship was developed by means of legislation. The reason
was, that while sufficient means existed for enforcing the mutual
obligations of debtor and creditor, there were no rules to regulate
the relations of debtor and surety, or of sureties among one another. The
old uadimonium was ap- parently inadequate, while the newer
uadimonium, as we saw, was but a form of stipulatio, and the ordinary
condictio would clearly have been inapplic- able to cases of this kind.
Hence it became neces- sary that legislation should intervene.
Art. 3. EXPENSILATIO. So many irreconcilable statements have been
made as to the nature of this peculiarly Roman contract" that no one
can hope to describe it with perfect accuracy. Confident 1
20,000 according to Dauz, B. BG. ii. 83. 2 Gai. m. 124-5. ^ Voigt,
Bom. BO. i. 616. * See a full summary of the various opinions in
Danz, B. BG. II. pp. 43-60. Digitized by
Microsoft® 124 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.
assertions on the subject serve only to show our real ignorance,
and ignorant we must be, owing to the vagueness of the evidence. Yet it
is only as to the form of the contract that much controversy has
prevailed. Its operation and its history are tolerably certain.
Form: Our ignorance respecting the mode in which the contract was
made is partly due to the fact that tabulae, which meant account-books
in general, meant also a chirograph, or a written stipulation, or an
ordinary note-book'. We can never be quite sure in what sense a technical
term of such ambiguity is used in any given passage. Everyone
agrees that the entry of a debt in the creditor's account-book imposed a
correspbnding obligation upon the debtor, and the theory that debts
were entered for this purpose in separate documents has been exploded
ever since Savigny''' refuted it. But the question so difficult to
answer is this : what sort of account-book was the codex in which
these binding entries were made ? We gather from Cicero's speech for
Roscius the actor that there were in his day at least two principal books
in general use, (1) aduersaria ', and (2) codex or tabulae rationwm.
The former was a day-book, in which the details of every-day business
were jotted down, while the latter was a carefully kept ledger,
containing a summary of the household receipts and expenditure, copied
at regular intervals from the aduersaria. These two 1 See
Wunderlich, Liu. oblig. p. 19. s Verm. Schrif. i. 211 ff.
' Also called ephemeris. Prop. iii. 23. 20. Digitized
by Microsoft® THEORIES OF BOOK-KEEPING. 125
books were also used by bankers (argentarii) ; and in their codew
or ledger were entered their accounts- current with their different
customers '. Similarly in the codex of the householder there were
probably separate accounts, on separate folios, under such heads as
ratio praedii, ratio locitlorum, &c.^ There was sometimes used a book
known as (3) kalendanum, in which the interest on loans was computed
and entered ', the making of loans at interest being hence called
kalendarium exercere. (a) Some writers are of opinion that
these book -debts were entered by the creditor in the main codex,
and that this codex was a mere cash-book. In that case, unless the debt
was a loan actually paid in cash, it must have been entered on both
sides of the account, debtor as well as creditor, otherwise the book
would not have balanced. This twofold entry is said to have been called
transcriptio; and nomen transcripticium would accordingly have been
the name applied to an}' debt contracted in that manner. The weakness of
this theory lies in the clumsiness of the alleged twofold method of entry;
we can scarcely believe that an imaginary receipt would have been
credited in the account simply for the purpose of making both sides
balance. More- over it is unwise to assume, as these writers do in
support of their theory, that the Roman method of keeping accounts was an
easy matter and therefore needed but few books ; for in a large town
house, or on a large estate with bailiffs, tenants and slaves to
1 2 Big. 13. 10 and 2 Dig. 14. 47. - 33 Dig. 8. 23. 3 12 Dig.
1. 41 and 33 Dig. 8. 23. Digitized by Microsoft®
126 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. be
provided for, it seems far more likely that the accounts should have been
elaborate and the account- books numerous. (6) According to
Voigt, book-debts (nomina) were entered in a (4) codex accepti et
expensi kept for the express purpose. Whether such a fourth book
existed, or whether the rationes accepti et eccpensi were kept as a
separate account in the main codex rationum, is a question which our
authorities hardly enable us to answer. This does not however seem very
important, and it is certainly impossible to tell in any given
passage whether the author is speaking of the main codex (2), or of
the codex accepti et expensi (4), which Voigt supposes to have been a
distinct book. His theory is plausible, for codex accepti et expensi
would be a very natural name for a book containing only expensa
lata and accepta lata. But we may fairly doubt the existence of this
fourth book, partly be- cause there is no passage which clearly
distinguishes it from the other account-books, and partly because
it is hard to see why the books of a Roman house- hold, though clearly
numerous, should have been thus needlessly multiplied. Why should not
'no- mina facere'-' have meant " to open an account" with
a man, and why could not such an account have been opened as well on a
folio of the prin- cipal ledger as on a folio of the imaginary
codex accepti et expensi ? Perhaps a banker may have found it worth
his while to keep, as Voigt supposes, a separate book for his loans and
book-debts, but we 1 Cic. 2 Verr. i. 36. 92 ; Seneca, Ben. in. 15.
Digitized by Microsoft® NATURE OF TRANSCRIPTIO.
127 cannot imagine that this would have been the common
practice of ordinary householders, when their codex would have done
equally well. Eaypensilatio was the name of the transaction,
while the entry itself was called nomen; and the term nomen
transcripticium, which has been ex- plained as the equivalent of nomen,
because the entry was transcribed from the aduersaria into the
codex, or because it was copied into both sides of the account, seems
rather to have denoted only a nomen of a novatory character'. That nomen
could produce an original obligation is proved by the cases of
Visel- lius Varro" and of Canius' in which there is no mention
of transcriptio. Further Gaius clearly im- pKes* that the nomen
transcripticium was but one instance of the use of expensilatio, and the
cases cited by him are purely novatory. Voigt therefore is probably
right in distinguishing the ordinary nomen which created an obligation,
from the nomen transcripticium, which novated an obligation already
existent. If so, the name transcripticium comes from the fact that
(a) a debt entered in one place as owed by Titius might be
transcribed into another part of the codex as owed by Negidius
(transcriptio a persona in per- sonam), or (h) a debt owed by
Negidius, on account of (e.g.) a sale, might be embodied in an
expensilatio and thus converted from a honae fidei into a stricti
iuris 1 See Gaius in. 128. ^ Val. Max. vni. 2. 2. ^
Cic. Off. III. 14. 59. * " ueluti nominibus transcripticiis
," in. 130. Digitized by Microsoft®
128 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. obligation by
being entered in the codex {transcriptio a re in personam).
Some passages are supposed to describe the entry of book-debts in
the books not only of the debtor and creditor, but of third persons also'
; but it is difficult to imagine that any man would have entered in
the midst of his own accounts a record of transactions which did
not actually concern him. Here again we may believe that the ambiguity of
the word tabulue has led the commentators astray. What they have
taken for the account-books of a third party may have meant simply his
memorandum or note-book. Salpius^ has endeavoured to explain away
the difficulty by asserting that these tabulae of third parties
really mean in every instance the tabulae of either debtor or creditor.
But the passages do not seem to be capable of bearing such an
interpretation, and it appears far more likely that the word
tabulae has caused all the difficulty. To summarise then this
view of the Literal Contract, we may believe it to have been made
by an entry written by the creditor on a separate folio of the
codex (2) or chief household ledger, and that its form was very probably
that given by Voigt' as follows : "HS X a Numerio
Negidio promissa tfcc. expen- sa Numerio Negidio fero in diem " ;
whereupon the debtor might, if he liked, make this corresponding
entry in his codex: "HS X Aulo Agerio promissa Jkc, Aulo Agerio
refero in diem,." 1 E.g. Cio. Att. IV. 18; Rose. Com. i.l; de
Or. ii. 69. 280. 2 Novation, p. 95. 3 Bam. BG. i. 64.
Digitized by Microsoft® FOKM OF ENTRY. 129
In cases of novation, the form would be as follows :
Creditor: "HS X a Lucio Titio dehita expensa Numerio Negidio
fero in diem" (transcriptio apersona in personam), or else :
"HS X a Numerio Negidio ex emti causa dehita expensa Numerio Negidio
fero in diem," {transcriptio a re in personam). As in the
previous case, the debtor might make similar entries in his codex.
Having thus opened an account, which could only be done with the
authorisation of the debtor, the creditor would naturally enter on the
same page such items as payment of interest on the debt, payment of
the principal on account, &c. According to Voigt, the entries showing
repayment of the principal would be made in the following form :
"HS X a Numerio Negidio dehita accepta Numerio Negidio fero."
Such an entry constituted a valid release and went by the name of
acceptilatio. Voigt' thinks that the acceptilatio, as here given, was
made first by the debtor, and that the creditor followed him with a
corresponding accepti relatio. But the word acceptum seems rather to
imply that the release was looked upon from the creditor's point of view.
It is therefore more likely to have been the creditor who took the
initiative in entering the acceptilatio, just as he did in enteiing the
expensilatio, while the debtor perhaps followed him with an accepti
relatio. We know from Cicero^ that expensilatio could be used
to create an original obligation, while Gaius tells us that it was much
used for making an assign- ment or a novation. Where however a loan made
in 1 ib. p. 65. 2 Off. III. 14. 58-60. B. E. 9
Digitized by Microsoft® 130 FORMAL CONTRACTS OF THE
LATER REPUBLIC. cash was entered in the creditor's book, the
contract was regarded as a case not of expensilatio but of mutuum,
and the entry was called nomen arcarium}. This name seems to have come
from the fact that the money was actually drawn from the area or
money-chest^; and in such case the entry on the creditor's books
constituted no fresh obligation, but served merely as evidence of the
mutuum,. History: The old theory of its origin, given by
Savigny and Sir Henry Maine, is that ecopensilaiio was a simplified form
of neacum. They argued that the word expensum pointed clearly to the
fiction of a money -loan made by weight. But they never succeeded
in explaining how it happened that the nexal loan should have produced a
contract so strangely difierent from itself. The newer
theory, which Voigt has ably set forth ^ is far more intelligible and
agrees with all the facts. Its merit lies in recognising
expensilatio as a device first used by bankers and merchants and
subsequently adopted by the rest of the com- munity. Nothing indeed could
be plainer than the commercial origin of expensilatio. Like the
negoti- able instrument of modem times it is a striking instance of
the extent to which Trade has moulded the Law of Contract. This
institution probably did not originate at Rome, but the Greek bankers
of Southern Italy may have adopted and used it centuries before we
hear of its existence. It seems to have been first iatroduced* by the
Greek argen- 1 Gaius in. 131. ••' Cic. Top. 3. 16. 3 Z.
N. II. 244 ft. * Voigt, mm. RG. i. 60. Digitized by
Microsoft® ORIGIN OF EXPENSILATIO. 131 torn or
tarpezitae (TpaTre^Tai), who came to Rome about A. V. c. 410 — 440, and
took the seven shops known as tabernae ueteres^ on the East side of
the Porum^ Their numbers were subsequently increased, when the
tabernae nouae were also occupied by them. Their business was extremely
varied and their system of book-keeping doubtless highly developed.
They made loans^, received deposits*, cashed cheques {perscriptionesY,
managed auctions', and exchanged foreign monies for a commission
(collybusy. They also used codices accepti et expensi, in which, as
we have seen, accounts-current were kept with their customers ^ We
learn from Livy' that by A. v. C. 5.59 the expensilatio thus introduced by
them had become a common transaction among private in- dividuals.
It cannot have been long before the conception of pecunia credita was
extended so as to cover book-debts as well as stipulations ; but we
do not know the exact date. From Cicero" however we learn that
pecunia expensa lata was a branch of pecunia credita within the scope of
the Lex Silia, and that the proper remedy for its enforcement was
the condictio certae pecuniae with its sponsio tertiae partis. As Voigt"
has well pointed out, the expensilatio presupposes the exis- tence
throughout the community of a high standard of good faith. It was
therefore ill adapted for ' Liu. XXVI. 27. 2 Liu. vii. 21.
3 Plaut. Cure. 5. 2. 20. * ib. 2. 3. 66. 5 ib. 3. 62-65. «
Cio. Caec. 6. 16. ? Cio. Att. XII. 6. 1. 8 2 Dig. 14. 47.
^ Liu. XXXV. 7. ^'' Rose. Com. 5. 14. 11 I. N. II. 420.
9—2 Digitized by Microsoft® 132 FORMAL
CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. general use among the Greeks,
whose bad faith was proverbial'. The fact that it was at Rome, and
at Rome only, that this contract received full legal recognition,
is proved by Gains' doubts" as to whether a peregrin could be bound
by a nomen transcripticiwn. By the end of the Republic eocpen-
silatio was at its height of favour, but it died out, except among
bankers, soon after the time of Gains, for in Justinian's day it was
unknown. Art. 4. Chirographvm and Stngrapha were forms of
written contract borrowed, as their name implies, from Greek custom, and
chiefly used by pere- grins, as Gaius informs us°. The distinction
between the two was purely formal, the one being signed by the
debtor (cAiro^rrop/i Mm), and the other being written out in duplicate,
signed by both parties, and kept by each of them (syngraphay. These
foreign instru- ments at first produced nothing more than a pactum
nudrmi, for wherever we find syngrapha mentioned in Plautus, it denotes a
mere agreement (pactum), the terms of which had been committed to
writing and which was certainly not actionable, while chiro-
graphum, never occurs in his plays. The Roman magistrates, finding these
instruments recognised by aliens, ventured at length to enforce debts ew
syn- grapha, and thus their legal validity was secured^ They had
received, some sort of recognition by the 1 Plaut. Asin. 1. 3.
47. ■" m. 133. s III. 134. * See Diet, thirteenth
cent, in Heimbach, Greditum p. 520, and Ascon. in Gic. Verr. i. 36.
s Cic. pro Rah. Post. 3. 6; Har. resp. 13. 29 ; Phil. ii. 37. 95 ;
ad Att. Yi. 1. 15 ; ii. v. 21. 10 ; ib. vi. 2. 7. Digitized
by Microsoft® CHIROGRAPHVM. 133 time of Cicero,
but when they were first enforced does not appear, though it was
certainly late in the history of the Republic. Gneist^ has advanced
the theory that in Cicero's time neither chirographum nor syngrapha
was a genuine literal contract, but only a document attesting the fact of
a loan, which could always be rebutted by evidence aliunde. This
theory is the more plausible because Gains himself does not seem certain
as to the binding nature of these documents^ An interesting
passage in Theophilus° is some- times said to give the form in which
litterarum obligatio proper, i.e. expensilatio, was contracted.
This view is certainly wrong, for the context shows that Theophilus meant
to describe a contract signed by the creditor and known as
chirographum. As a sample of how chirographa were made, the Latin
translation of this instrument may therefore be quoted : " Centum
aureos quos mihi ex caussa locationis dehes tu ex conuentione et
confessione lit- terarum tuanrni dabis?" And to this the
debtor wrote the following answer: "Ex conuentione deheo
litterarum nuearutn." This was evidently not a nomen transcripticium,
but a chirographum or syngrapha, since Gaius expressly states debere se
aut daturum se scribere to be the usual phraseology of such
instruments. Both parties also seem here to have been present, whereas
one of the chief advantages of expensilatio was that it enabled debts (by
expensi- latio) and assignments (by transcriptio) to be validly
made without requiring the presence of the parties 1 Form. Vertr.
p. 113. ' in. 134. » Paraphr. in. 21. Digitized by Microsoft®
134 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC. concerned.
Heimbach* is therefore wrong in taking the above passage as equivalent to
" Eacpensos tiM tuli ?" " Expensos mihi tulisti." The
transaction was evidently dififerent from expensilatio, and can
have been nothing else than a dhirographtim. Another specimen
chirographum preserved in the Digest^ shows that the promise or
acknowledgement was sometimes made in a letter from the debtor to
the creditor. > Cred. p. 330. 2 2 Dig. 14. 47.
Digitized by Microsoft® CHAPTER VI.
CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part I. Consensual
Contracts. Art. 1. Emtio Venditio. The forms of con- tract
hitherto examined have been distinguished from most of the contracts of
modern law in one or more of the following respects : (i)
They were confined to Roman citizens. (ii) They were
unilateral. (iii) They were capable of imposing obligations
only by virtue of some particular formality. (iv) They were
available only inter praesentes. The contract which we are now
about to consider was modem in all its aspects : (i) It was
open to aliens as well as to citizens. (ii) It was
bi-lateral. (iii) It rested only upon the consent of the
parties, required no formality, and could be re- solved like any modem
contract into a proposal by one party' which became a contract when
accepted by the other party. 1 Plant. Epid. 3. 4. 35.
Digitized by Microsoft® 136 CONTRACTS OF THE
IVS OENTIVM. (iv) It could be made at any distance, provided
the parties clearly understood one another's meaning. How then can
the formal contracts of the older law ever have produced such a modem
institution to all outward appearance as the consensual contract of
sale? The elements which make up the popular con- ception of
sale are usually fourfold ; they consist of: (1) The agreement by
which buyer and seller determine to exchange the wares of the latter
for the money of the former; (2) The transfer of the wares
from the seller to the buyer ; (3) The pajrment of the price
by the buyer to the seller ; (4) The representation, express
or implied, of the seller to the buyer, that his wares are as good
in point of quantity or quality as they are understood to be.
Mandpatio was at first a combination of the second and third elements
above-mentioned. It was a transfer of ownership followed by an
imme- diate payment of the price. Subsequently, as we saw, the
payment became separated from the trans- fer, so that mancipatio
represented only the second element. The fourth element, that of warranty,
existed to a certain extent in those sales in which the transfer of
property was made by moundpatio, and this fourth element we shall
consider further in a later section. But throughout the early history
of Rome the first element, indispensable wherever a sale of any
kind takes place, was completely un- Digitized by
Microsoft® ORIGIN OF ACTIO EMTI. 137 recognised
by the law. The reason is that the preliminary agreement between buyer
and seller was nothing more than a pactum, an agreement without
legal force because usually without form. The parties might always of
course embody their agreement of sale in a sponsio and restipulatio, but
in such a case all that the law would recognise would be the re-
ciprocal sponsiones, not the agreement itself Why, we may ask, was
recognition ever accorded to this preliminary pactum ? In other words,
what was the origin of emtio uenditio, which turned the pactum into
a contract ? Bekker's plausible theory' adopted by Muirhead"
is that contracts of sale were originally entered into by means of
reciprocal stipulations, and that the actio emti was but a modification
of the actio ex stipu- latu founded on those stipulations, while it
borrowed from the actio ex stipulatu its characteristic bonae fidei
clause. But how then did the notion of bona fides arise in the actio ex
stipulatu itself? Bekker seems to have put the cart before the horse,
and Mommsen" holds the far more reasonable view that the actio
emti was the original agency by which bona fides found its way into the
law of contract, in which case the actio ex stipulatu must have been
not the prototype but the copy of the actio emti. The origin
of the actio emti was indeed very curious, since it seems clearly to have
been suggested and moulded by the influence of public law. The
sales of public property, which used at first to be 1 Akt. I. 158.
^ Bom. Law, p. 334. 3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. 265.
Digitized by Microsoft® 138 CONTRACTS OF THE
IVS OENTIVM. carried out by the Consuls and afterwards by the
Quaestors', became increasingly frequent as the conquests of Rome were
multiplied, and as the supplies of booty, slaves and conquered lands
be- came more and more plentifiTl. The purchase by the State of
materials and military supplies was also of frequent occurrence, as the
wealth of Rome increased. Now these public emtiones and iiendi-
tiones constantly occurring between private citizens and the State were
founded upon agreements neces- sarily formless. The State could clearly
not make a iusiurandum or a sponsio, but the agreements to which
the State was a party (according to the fundamental principle laid down
at the beginning of this inquiry that the sanction of publicity was
as strong as that of religion) were no less binding than the formal
contracts of private law. A public breach of bona fides would have been
notorious and dis- graceful. Whenever therefore the State took part
in emtio uenditio, the agreement of sale was thereby invested with
peculiar solemnity ; and thus in course of time the pactum uenditionis
became so common as an inviolable contract that the actio emti uenditi
was created in order to extend the force of the public eTTitio
uenditio into the realm of private law. As soon as this action was
provided, emtio uenditio became a regular contract, which was
necessarily bilateral because performance of some sort was required
from both parties. An action could thus be brought either by the buyer
against a seller who refused to deliver (actio emti), or by the ^
MommseD, Z. der Sav. Stift. E. A. vi. p. 262. Digitized by
Microsoft® INFLUENCE OF PUBLIC SALES. 139 seller
against a buyer who failed to pay {actio uenditi). The
history of the words emere uendere is in- structive. We can see that at
first they were not strictly correlative. Vendere or uenumdare meant
to sell, not in the sense of agreeing upon a price, but in the
sense of transferring in return for moneys ; while eniere meant
originally to take or to receive, without reference to the notion of
buying''. But neither emere nor uendere was at first a technical
term. Emere subsequently got the specialized sense of purchasing for
money as distinct from permutare, to barter ^, but this particular shade
of meaning seems like the actio to have had a public origin. The
old technical expression for the purchase of goods at public sale
was emtio sub hasta or sub corona, while the object of the sales was to
get money for the treasury, and therefore the consideration was naturally
paid by purchasers in coin. These public uenditioiies thus led to
three results: 1. The agreement of sale came to the front as
the element of chief importance, and as a transac- tion possessing all
the validity of a contract. 2. The word emere came to denote the
act of, buying for money, as distinct from permutatio which meant
buying in kind. 3. The uenditio of public law resting wholly
upon consent, which was probably signified by a lifting up of the
hand in the act of bidding*, and being necessarily a transaction bonae
fidei, it follows that when emtio ^ Voigt, I. N. IV. 519. ^ Paul.
Diac. s. u. emere. 2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word
manceps. Digitized by Microsoft® 140
CONTRACTS OF THE lYS GENTIVM. uenditio was made actionable in
private law, consent was the only thing required to make the
contract perfectly binding, and that the rules applicable to it
were those, not of iiis strictwm, but of bona fides. The
complete recognition of emMo uenditio was only attained by degrees. The
first step in that direction seems to have been the granting of an
exceptio rei uenditae et traditae to a defendant challenged in the
possession of a thing which he had honestly obtained by purchase and delivery.
The second step was the introduction of the actio Puhli- ciana,
through which a plaintiff, deprived of the possession of a thing that had
been sold and de- livered to him (1) by the owner or (2) by one
whom he honestly believed to be the owner, might recover it by the
fiction of usucapio^. These remedies, the exceptio and the actio,
were necessary complements to one another. The former was a
defensive, the latter an offensive weapon, and they both served to
protect a bona fide purchaser who had by fair means obtained possession
of an object to which in strict law another might lay • claim. The
exceptio rei uenditae et traditae^ was founded upon an Edict worded
somewhat as follows : SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM
VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO ^ ; and in the formula of an
action by the seller to recover the thing sold this exceptio would have
been introduced thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius
1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ i_ 20. 3 Voigt, I. N. IV.
517. Digitized by Microsoft® ACTIO
PYBLIOIANA. 141 N" Negidio vendidit et tradidit Its effect was
to protect the bona fide purchaser even of a res mancipi
against the legal owner who attempted to set up his dominium ex iure
Quiritium. On the other hand the actio Publiciana in its alternative
form, was based on two Edicts worded somewhat as follows: (i)
SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA CAVSA A DOMINO ET NONDVM
VSVCAPTVM PETET, IVDICIVM DABO\ (ii) SI QVIS ID QVOD BONA
FIDE EMIT ET EI TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV- CAPTVM
PETET, IVDICIVM DABO I The precise wording of these Edicts is much
dis- puted, but the question of their correct emendation is too
large to be discussed here. The formula of an actio Publiciana based on
the second Edict is given by Gaius '" and ran as follows : Si quern
hominem A^ Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset,
turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri- tium esse
oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N™ Negidium
A" Agerio condemnato, s. n.p. a. The usefulness of these
actions as a protection to sale is apparent. They secured the buyer in
posses- sion of the object sold to him until usucapio had ripened
such possession into full dominium ; but they were useful only when his
possession had been interrupted and he wished to recover it. On the
other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro- 1 Voigt, I.
N. IV. 478. 2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36. ■• BONA FIDE
here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri. 2. 7. fr. 15.
Digitized by Microsoft® 142 CONTRACTS OF THE
IVS GENTIVM. tected him till the period of tisucapio agaiost
the former owner; but it was only usefal where his possession had
not been interrupted. The date of the actio Publidana and of this
exceptio are not to be fixed with absolute certainty; but it is
quite clear that neither of them had anything to do with a Praetor
Publicius mentioned by Cicero as having existed about A.v.c. 685'. Though
there is no mention of either actio or exceptio in the writers of
the Republican period, yet it is clear from some passages of Plautus^
that the tradition of res mancipi sold was in his time a transac-
tion protected by the law, and Voigt ^ has shrewdly argued that both actio
and exceptio must be older than the actio emti, because the latter aimed
at securing delivery (habere licere) which would have been of no
use had not delivery already been protected by legal remedies. Now the
Fasti Gapitolini report a Consul M. Publicius Malleolus of A. v. c. 5
22*, and the conjecture that he was the author of the actio Publi-
dana seems very plausible °. The exceptio rei uen- ditae et traditae was
probably somewhat older, for the defensive would naturally precede, not
follow, the offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's
opinion have been contemporary with the actio Publidana, because it does
not bear the name of exceptio Publidana, which it otherwise would
have borne ° This argument does not seem to me strong, 1 Cie.
Cluent. 45. 126. 2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2.
23. ' I. N. XV. 469. < = Praetor in a.v.c. 519.
" Voigt, I. N. IV. 505. 6 I. N. iv. 468.
Digitized by Microsoft® SALE ENFORCED BY EDICT.
143 since we know that the famous exceptio doli was not
called exceptio Aquiliana. But the point is not an important one. It is
enough to be able to say with approximate certainty that the exceptio rei
uenditae et traditae and the actiones Puhlicianae were intro- duced
by some Praetor about A.v.c. 520. Still the agreement of sale was
not yet enforce- able as such. In private affairs it remained what
it had been from the time of the XII Tables, a formless agreement
supported only by the mores of the com- munity, whereas in public affairs
it was still techni- cally a pactum as before, except that the
publicity of sales made by the Quaestors gave to their terms a
peculiarly binding force. The solemnity always attaching to transactions
done in the presence of the people was, as we have seen, at the root of
this respect paid to the public uenditio. At last the Praetor
of some year decided to make the emiio uenditio of private law the
ground of an action, and thus put it on a level with the public
uenditiones. We do not know the terms of the important Edict by which the
actio emti was introduced, but the formula of the action (ex
uendito) brought by the seller is partly given by Gains ^ and must
have been as follows : Quod Aulus Agerius mensam N" Negidio
uendidit, quidqvid paret oh earn rem iV™ Negidium A" Agerio dare
facere oportere ex fide bona'', eius, index, N™ Negidium A"
Agerio condemnato. s. n. p. a. The intentio here was exactly the
same as that of the actio ex stipulatu, and was probably its prototype,
both of them being equally 1 IV. 131. 2 cio. Off. III. 16. 66.
Digitized by Microsoft® 144 CONTRACTS OF THE
lYS GENTIVM. bonae fidei actions. The formula of the action
(ex emto) brought by the purchaser was worded in like fashion: Quod
A' Agerius de N" Negidio hominem quo de agitur emit, quidquid oh
earn rem N^ Negidium A" Agerio dare facer e oportet ex fide bona,
eiv^, index, t&C. (&C. The age of the a^tio
emti has been very hotly disputed, and the most knotty question has
been whether the action existed or not in the days of Plautus, who
died A.v.c. 570. The chief opponent of the affirmative theory has been
Bekker', but the arguments of Demelius", Costa', Voigt* and
Bech- mann' are so convincing that little doubt on the subject can
any longer be entertained. It appears absolutely certain that the actio
emti was a feature of the law as Plautus knew it. An elaborate proof
of this proposition has been so well given by Demelius and Costa
that it is not necessary to do more than sum up the evidence.
(i) The contract of emtio uenditio was discussed by Sex. Aelius
Paetus Catus (Cos. A.V.C. 556) pro- bably in his Tripertita, and by C.
Liuius Drusus (Cos. A.v.c. 642)«. (ii) The aedilician Edict,
which presupposed that emtio uenditio was actionable, is mentioned
by Plautus '. (iii) We find in Plautus many passages
which are only intelligible on the supposition that emtio '
AU. I. 146, note 38. ^ z.fiir SG. ii. 177. 3 Dir. Pnvato 365-73. *
I. N. iv. 542. 5 Kauf, I. pp. 511-526. « 19 Dig. 1. 38. 7
Capt. 4. 2. 43. Digitized by Microsoft®
INSTANCES IN PLAUTUS. 145 uenditio was actionable. For
instance in Mostel- laria^, where the son of Theuropides pretends
to have bought a house, and where the owner of the house is
represented as begging for a rescission of the sale, we cannot suppose,
as Bekker does''', that fides was the only thing which bound the
owner. Had it not been for the existence of the actio emti he could
not have been represented as trying to have the sale cancelled'.
Again, in Act 5, Scene 1, the slave Tranio ad- vises his master
Theuropides to call the owner into court and bring an action for the
mancipation of the house *, and this can be nothing else than a reference
to the actio ex emto. In the same play° it is also plain that hona fides
was a principle controlliiig the iudicium ex emto. Again in
Persa ' it is clear that Sagaristio, when selling the slave-girl, would
not have taken such pains to disclaim all warranty if he could not have
been compelled by the actio emti to make good the loss sustained by the
purchaser. To prevent this liability Sagaristio is careful to throw the
whole periculum on the buyer. Why should he have done so, had there
been no actio emti ? Again in Rudens the leno, who had taken
earnest-money for the sale of a slave girl and had then absconded with
her, would not have been so much afraid of meeting the buyer Plesidippus,
if he 1 3. 1. and 2. ^ de Empt. Vend. p. 16. 3 3. 2.
110. * 5. 1. 43. Cf. Gai. iv. 181. « 3. 1. 139. 8 4. 4.
114. and 4. 7. 5. B. E. 10 Digitized by
Microsoft® 146 CONTRACTS OF THE IVS 0ENTIVM. had
not feared the actio emti. And when the slave girl was finally abiudicata
from the leno *, Demelius and Costa are unquestionably right in regarding
this as a result of a iudicivmi ex emto. Bekker's opinion that it
was the result of a uindicatio in libertatem seems hardly to agree with
the fact that the leno is not represented as knowing of her free status
till two scenes later''. We might multiply instances, but the
evidence is so fully given by others that it is not worth repeating. The
general conclusion to be drawn from the above facts is that emtio
uenditio became actionable before A.v.c. 550; and, if our argument
be right, later than 520, the date of the actio Publiciana.
From Plautus we gather further that arrha or arrhabo, the pledge or
earnest money which Gaius mentions in this connection, was often given to
bind the bargain of sale as well as other bargains. From this it
has been argued that pure consensus must have been insufficient to make
the contract binding'; but, if that be so, why should the arrha have been
used in Gains' day, when we know that sale was purely consensual ?
In Rudens " it is clear that the arrhabo was not a necessary part of
the transaction, but a mere piece of evidence, so that arrhahonem
acceperat simply means uendiderat^. The use of arrhaho is mentioned
also in Mostellaria^ and Poenulus^. It was probably forfeited by the
purchaser in case the bargain fell through. ^ 5. 1. 1. 2 5.
3—8. ' Bekker, Heid. Krit. Jahrschrift, i. 444. ■* 2.
6. 70. « Brid. Prol. 45-6. 6 3. 1. 111—4. 4. 21. ' 5. 6. 22.
Digitized by Microsoft® WARRANTY IN SALE.
147 Having now seen how the actio emti uenditi originated and
what was its probable age, let us see what obligations were imposed by
the conclusion of the sale upon each of the parties to it :
(1) Upon the purchaser (emtor). His chief duty was reddere
pretium, to pay the price agreed upon', and if the price consisted
partly of things in kind, his duty was to deliver them " ; but
according to Voigt ' there was no obli- gation iipon him to do more than
deliver. A duty which the purchaser seems very early to have
acquired was that of compensating the seller for mora on his part
*. (2) Upon the vendor (tienditor-). His chief duty was
rem praestare ° (or rem habere licere), to give quiet possession to the
vendee ; but this did not include the obligation to convey dominium
ex iure Quiritium,". The actio emti, as we have now examined
it, enforced three things : (1) recognition of the con- sensual
agreement of sale, (2) delivery by the seller, (3) prompt payment by the
buyer. Thus it dealt with three of the elements involved in the
general conception of sale. The fourth element, that of warranty,
remains to be considered. We know that this fourth element was
covered by the actio emti in the time of Ulpian, but it does not
seem to have been so during the Eepublic. Both Muirhead' and Bechmann*
have involved the ' Varro, R. R. n. 2. 6. ^ Cato, R. R. 150.
3 /. N. in. 985. ^ 19 Dig. 1. 38 fr. 1. « 19 Dig. 1. 11.
" 19 Dig. 1. 30 ; 18 Dig. 1. 25. !■ R. Law, p. 285.. ^ Kauf.
i. 505. 10—2 Digitized by Microsoft®
148 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. subject in unnecessary
difficulty by confusing a honae fidei contract of sale with one in which
warranty was employed. They speak as though bona fides included
warranty, a proposition not necessarily tnie and of which we have no
proof. It appears, on the contrary, that the actio emti to enforce
warranty was of much later origin than the actio emti to enforce
consensual sale '. We have therefore to inquire how warranty was
originally given and how it was made good. The only kind of
warranty which we have hitherto encountered is that against eviction
implied in every mancipatio and enforced by the actio auctoritatis.
This method was but of limited scope, since it ap- plied only to res mancipi.
After the introduction of the condictio incerti, it became possible
to embody warranties in the form of a stipulation. This was accomplished
in one or more of the following ways : (1) The stipulatio
duplae specified the warranty given by the vendor, and provided in case
of a breach for liquidated damages in the shape of a poena dupli,
which was doubtless copied from the duplwm of the a^tio auctoritatis. The
best specimens of this stipu- lation are texts 1 and 2 of the
Transylvanian Tablets printed by Bruns ''-. It was apparently used in
those sales of res mancipi, which were consummated not by
mancipatio but by traditio '. Its superiority to the warranty afforded by
the actio auctoritatis was that it guaranteed quality as well as title,
which the actio 1 Girard, Slip, de Garantte, N. R. H. de D. vii. p.
545 note. ^ Font. p. 256. ^ Varro, B. R. ii. 10. 5.
Digitized by Microsoft® STIPULATIONS OF WARRANTY.
149 auctoritatis could not do. The Tablets indeed show that
the warranties against defects in this stipulation "were exceedingly
comprehensive, and that it defended against eviction not only the buyer,
but also those in privity with him (emtorem eumue ad quern ea res
per- tinebit). (2) We also find a stipulatio simplae, of
which the best instances are texts 3 and 4 of the Transyl- vanian
Tablets and which, according to Varro ^ might be used as an alternative
to the stipulatio duplae, if preferred by the two parties. Its aim in
securing the buyer against eviction and defects was precisely the
same as that of the former stipulation; its only difference being that
the damages were but half the former amount, i.e. were exactly measured
by the price of the thing sold. Girard and Voigt are probably wrong
in identifying this stipulation used for res mancipi with the next one,
which was apparently used only in sales of res nee man- cipi.
(3) Another stipulation of frequent occurrence was the stipulation
recte habere licere. This guaran- teed quiet possession so far as the
seller was con- cerned. Its scope was therefore not so wide as that
of the stipulatio siviplae or duplae. The vendor simply promised recte
habere licere, but specified no penalty in the event of his
non-performance, so that the action on the stipulation must have been
a condictio incerti, in which the damages were assessed by the
judge. The import of the word 'recte' was doubtless not the same as that
of ex fide bona ; but, 1 R. R. II. 2. 5. Digitized
by Microsoft® 150 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.
as Bechmann ^ has pointed out, it simply implied a waiver of
technical objections. (4) A stipulation as to quality alone is
men- tioned by Varro " as annexed to the sale of oxen and
other res mancipi. The vendor simply promised sanos praestari, so that in
this case also the remedy was condictio incerti for judicial
damages. (5) A satisdatio secundum mancipiimi is also
mentioned by Cicero' and in the Baetic Tablet ^ But its nature and form
are quite uncertain. Its name implies that it had some connection
with auctoritas, and the most likely theory seems to be that it was
a stipulation of suretyship, by which security was given for the auctor,
either to insure his appearance (and if so, it was a form of
uadimo- nium/') or to guarantee his payment of the poena dupli, in
the event of eviction (and if so, it was a form oifideiiissio ').
The three first of the above stipulations prove that even in the
early Empire (a.d. 160 is the sup- posed date of the Transylvanian Tablets)
actio emii was not yet an action for implied warranty. Ulpian's
language also indicates that the implication of war- ranty was a new
doctrine in his day '. Thus far we have seen that stipulations of
war- ranty were customary, and that by the stipulatio duplae or
simplae both title and quality were secured. The next step was to make
these stipu- 1 Kauf. I. p. 639. ^ ii. 5. 11. » ad Att.
V. 1. 2. * Bruns, Fcmtes, p. 251. " Varro, vi. 7. 54. ^ gge
Girard, loc. cit. p. 551. ' 21 Dig. 1. 31 fr. 20.
Digitized by Microsoft® LOGATIO OONDVGTIO. 151
lations compulsory, and this was first accomplished by the Aediles,
in their Edict regulating, among other things, sales in the open market.
Plautus mentions this Edict, and refers to the rule of red- hibitio
which it enforced \ The first positive mention of aedilician regulations
as to warranty occurs how- ever in Cicero ^ and from this it appears that
the Aediles first compelled a stipulatio duplae in the sale of
slaves. This innovation was doubtless intended to punish slave dealers,
who were, as Plautus shows, a low and dishonest class, by imposing upon
them the old penalty of duplum. The two aedilician actions which
could be brought, if the stipulatio duplae had not been given, were (1)
the actio redhibitoria, avail- able within two months, and by which the
vendor had to restore the duplum of the price"; (2) the actio
quanti emtoris intersit*, available within six months for simple damages.
Further than this, however, the law of the Republic did not
advance. It was not till the day of Trajan and Septimius Severus
that the stipulations of warranty were compulsory for other things than
slaves*, and we cannot therefore here trace the development of
warranty to its consummation. Art. 2. LocATio Condvctio. The word
locare has no technical equivalent in English, for it some- times
expresses the fact of hiring, sometimes that of being hired. It means
literally to place, to put out. 1 Capt. i. 2. 44 ; Bud. 2. 3. 42 ;
Most. 3. 2. 113. 2 Off. III. 17. 71. 3 21 Dig. 1. 45. «
21 Dig. 1. 28. 5 Girard, N. B. H. de D. viii. p. 425.
Digitized by Microsoft® 152 CONTRACTS OF THE IVS
GBNTIVM. As we say that a capitalist places his money, so the
Romans said of him pecunias locat\ The State was said opios locare when
it paid a contractor for doiag a job, while the gladiator who got paid
for fight- ing was said operas locare. This contract was con-
sensual and bi-lateral like emtio uenditio, and had a very similar origin.
It is easy indeed to see that for a long time there was no distinction
made between locatio and uenditio. The latter meant originally, as
we have seen, to transfer for a consideration, and thus included the hire
as well as the sale of an object. Festus accordingly says that the
locationes made by the Censors were originally called uendi- tiones
^ The confusion thus produced left its traces deeply imprinted in the
later law, for we find Gaius' remarks on locatio condiictio chiefly
devoted to a discussion of how in certain doubtful cases the line
should be drawn between that and emtio uen- ditio. Like emtio
uenditio, this contract was developed in connection with the
administration of public busi- ness. The public affairs in which contractual
relations necessarily arose were of four kinds ' : (1) Sales
of public property, such as land, slaves, etc., which devolved upon the
Quaestors. This class of transactions produced the contract of emtio
uen- ditio, as above explained. (2) Contracts for the hire of
public servants, generally known as apparitores. These were the
lictores and other attendants upon the different ' Most. 1. 3. 85.
^ Festus, s. u. uenditiones. " Mommsen, Z. der Sav. Stif. R.
A: vi. 262. Digitized by Microsoft®
VARIOUS FORMS OF HIRE. 153 magistrates, and were naturally
engaged by those whom they respectively served. This hiring gave
rise to the contract known as condiictio operarum, while the offer of
such services to the State con- stituted locatio operarum.
(3) Business agreements connected with public work, such as the
building of temples or bridges, the collection of revenue, etc. This
class was in charge of the Censors \ and developed the contract of
locatio operis, while the transaction viewed from the standpoint of the
contractor became known as conductio operis. (4) Agreements
for the supply of various kinds of necessaries for the service of the
State, such as beasts of burden, waggons, provisions, etc. This
hiring produced the contract known as conductio rei, while the
contractors who supplied such commodities were said rem locare.
Thus the first group of public transactions gave birth to the
contract of sale in private law, while the three last groups each became
the parent of one of the three forms of the contract of hire.
Just as uenditio seems to have been the original equivalent of
locatio, so must emtio have been the original term for what was
afterwards known as conductio. Conducere can originally have
applied only to the second class of agreements; it must have
denoted the collecting and bringing together of a body of apparitores.
Afterwards, when the notion of hiring became conspicuous, conducere
doubt- less lost its narrow meaning, and was extended to 1 Liu.
xMi. 3. Digitized by Microsoft® 154
CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. the pther two kinds of hire, as the
correlative to locare '- The wholly distinct origin of these
various kinds of locatio conductio, and the fact that they were
transacted by different magistrates, are sufficient reasons for the
curious distinction which the classical jurisprudence always drew between
locatio conductio r&i, operis and operarum. A trace of the old
word emere as equivalent to conducere always remained in the word
redemtor, meaning a contractor for public works. This term was never
applied to the apparitor, since it was he who took the initiative and
who was thence regarded as a locator operarwm. When the
conception of locatio conductio became separated from that of emtio
uenditio it is impossible to determine. But since the two transactions
appear in Plautus distinct as well as enforceable, and since the
contract of sale was only recognised shortly before Plautus' day, the conceptions
of sale and of hire pro- bably became quite distinct before either
transaction became actionable. We can trace in many passages of
Plautus the three forms locatio rei", locatio operis', locatio
operarum* ; and it can hardly be imagined that these contracts could have
been so common and so distinctly marked had they not been provided
with actions. Voigt ' however is of opinion that the three different
forms of locatio conductio became actionable at different periods.
Locatio conductio ' Mommsen, ib. p. 266. 2 Pseud. 4. 7.
90 ; Merc. 3. 2. 17. 3 Bacch. i. 3. 115 ; Persa, 1. 3. 80.
* Aul. 2. 4. 1 ; Merc. 3. 4. 78 ; Epid. 2. 3. 8. = I. N. IV. 596,
ff. Digitized by Microsoft® AGE OF THE
VARIOUS FORMS. 155 operis and operarwm he places earliest, and
admits that they were known as contracts by the middle of the sixth
century, which would bring them very nearly to the age of emtio uenditio
; but from Cato ^ he infers that locatio conductio rei was of later
origin and that it did not become actionable until the first half of the
seventh century. The earliest actual mention that we possess of locatio
conductio is by Quintus Mucins Scaeuola, author of 18 books on the
IxiS Giuile'', whom Cicero quotes^, though we cannot tell whether the
quotation refers to all kinds of locatio conductio or only to the
locatio conductio operis. Certain it is that in Cato ' locatio
conductio rei seems to be treated rather as emtio uenditio fructus rei.
It is also remarkable that lo- catio conductio rei is seldom mentioned in
Plautus ^ and so briefly that we can form no conclusion as to
whether it was or was not actionable; whereas on the contrary locatio
conductio operis and operarum appear very often and exhibit all the marks
of ' thoroughly developed contracts. For instance, the locatio
conductio operancni in Asinaria" contains a lex commissoria, and
that in Bacchides'' provides for a bond to be given by the locator
operarum binding him to release the person whose operae he had been
employing, as soon as the work was finished. Again in Miles Gloriosus^
the technical term improbare opus is used to express the rejection of
work badly carried out by a contractor. All this points to the
1 R. B. 149. 2 i.y.c. 661-672. •* Off. in. 17. 70. * R. R. 149,
150. 5 Cure. 4. 1. 3 ; Merc. 3. 2. 17. 6 1. 8. 76. ' 1. 1. 8. ? 4.
4. 37. Digitized by Microsoft® 156
CONTRACTS OF THE IV8 GENTIVM. existence of an action for locatio
conductio operarum and for locatio conductio operis at the time
when Plautus wrote'; hut Voigt seems right in concluding that
locatio conductio rei did not become actionable till a good deal
later. The origin of this action, as of the actio emti, was
in the Praetor's Edicts and in form it differed but little from the actio
emti uenditi. Like the latter it was bonae fidei^ and its form {ex
locato) must have been as follows : Quod A^ Agerius N" Negidio
operas locauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negi- dium A" Agerio
dare facere oportere ex fide bona, eius, iudex, N™ Negidium A"
Agerio condemnato. s. n. p. a. Like emtio uenditio it is also clear
that locatio conductio of all kinds could be made by mere
consensus, and that from the first it must have been a 6onae fidei
contract like its prototjrpe. The writings of Oato * are our chief
authority for the existence of the locatio conductio operis and
operarum in the second half of the seventh century, and for the manner in
which these locationes were contracted. It appears to have been customary
to draw up with care the terms (leges locationis) of such
contracts, and when these were committed to writing, as they doubtless
must have been, they exactly corresponded to the contracts made in
modem times between employers and contractors. Already in the
Kepublican period the jurists had ^ So Demelins, Z.filr RG. ii. 193
; Bechmann, Kauf. i. p. 526 j but Bekker denies it Z.fUr RG. iii.
442. ■•i .50 Dig. 16. 5. ^ Cic. N. D. iii. 30. 74 ; Off. a. 18.
64. * R. R. 141-5. Digitized by Microsoft®
FURTHER DISTINCTIONS. 157 begun to subdivide the
classes of contracts above mentioned. (1) They distinguished
between various sorts of locatio cmiductio rei. There was (a) rei locatio
frii- endae in which the use of the object was granted ^ (6) rei
locatio ut eadem reddatur in which the object itself had to be returned,
and (c) rei locatio ut eiusdein generis reddatur ''■ in which a thing of
the same kind might be returned. (2) The two kinds of locatio
condiictio operis were also most probably distinguished at an early
date into : (a) locatio rei faciendae in which a thing was given out to
be made (epyov), and (6) locatio operis faciendi^ in which a job was
given out to be done {aTTOTeXea/jia). (3) Locatio condvxtio
operarum alone does not seem to have been subdivided in any way.
The object of these distinctions was doubtless to define in each
case the rights and duties of the conductor. The technical expression for
the remu- neration in locatio conductio was m,erx*, and it was
always a sum of money, probably because it was originally paid out of the
aerarium and therefore could not conveniently have been given in
kind. The fact that in Plautus the word pretium was often used
instead of merx, shows that the distinction between locatio conductio and
emtio uenditio was still of recent origin when he wrote; but our
general conclusion must be that this contract was known ^
Gai. III. 145 ; Lex agraria, c. 25. 2 19 Dig. 2. 31 ; 34 Dig. 2.
34. 3 19 Dig. 2. 30 ; 50 Dig. 16. 5. * Varro, L. L. v. 36.
Digitized by Microsoft® 158 CONTRACTS OF THE
IVS GENTIVM. to him in some at least of its forms, and that
in all its branches it arrived at full maturity in the Republican
period. It is worth remembering that the Lex Rhodia de iactu,
the parent of the modern law of general average, was enforced by means of
this action. The owner sued the ship's magister ex locato, and the
magister forced other owners to contribute by suing them ex conducto\
This law was discussed in Re- publican times by Servius Sulpicius and
Ofilius". Art. 3. Before proceeding further with our
history of the ius gentmm contracts we must notice the important
innovation made by the Edict Pacta conuenta, the author of which was C.
Cassius Longi- nus, Praetor A.v.c. 627'. We have seen how the
pactum uenditionis and the pactwn locationis had been recognised and
transformed into regular con- tracts about seventy years before this
time. The present Edict gave legal recognition to pacta in general,
and thus rendered immense assistance in the development of formless
Contract. Its language was somewhat as follows^: PACTA
CONVENTA, QVAE NEC VI NEC DOLO MALO NEC AD- VEESVS LEGES PLEBISCITA
EDICTA MAGISTKATVVM FACTA ERVNT, SERVABO. The scope of the
Edict was, however, less broad than might at iirst be supposed. It might
well be understood to mean that all lawful agreements would
thenceforth be judicially enforceable. But as a matter of fact the test
of what should constitute » Camazza, Bir. Com. p. 172. ■' 14 Dig.
2. 2. fr. 3. 3 Voigt, Bom. EG. i. 591. ■• 2 Big. 14. 7. fr.
7. Digitized by Microsoft® EDICT PACTA
OONVENTA. 159 an enforceable pactum lay in the discretion of
the individual Praetor. He might or might not grant an action, according
as the particular agree- ment set up by the plaintiff did or did not
appear to him a valid one. This Edict was therefore nothing more
than an official announcement that the Praetor would, in proper cases,
give effect to pacta which had never before been the objects of
judicial cognizance. It needs no explanation to show what important
results such an Edict was sure to produce, even in the hands of the most
conservative Praetors; and accordingly we find that in the next century
new varieties of formless contract arose from the habitual
enforcement by the Praetor of corresponding pacta. The mode in
which tentative recognition was accorded to the new praetorian pacta was
the devising of an actio in factum^ to suit each new set of
circumstances. The formula of such an action simply set forth the
agreement, and directed the judge to assess damages if he should find it
to have been broken. This was doubtless the means by which
societas, mandatum, depositivm, commoda- tum, pignus, hypotheca,
receptum, constitutum — in short, all the contractual relations
originating in the last century of the Kepublic — were at first
protected and enforced. A curious historical parallel might be drawn
between these actiones in factum and our "actions on the case."
Not only are the terms almost synonymous, but the adaptability of
each class of actions to new circumstances was equally remarkable; and
the part played by the 1 2 Dig. 14. 7. fr. 2.
Digitized by Microsoft® 160 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.
latter class in the expansion of the English Law of Tort bears a
striking reseniblance to that played by the former in the development of
the Roman Law of Contract. We shall see specimens of the
actio in factum based upon the edict Pacta conuenta, when we come
to examine the various contracts of the later Re- public which all owed
their origin to the Praetor's Edict. Art. 4. Mandatvm. The
age of the actio man- dati is difficult to fix, but there are good
reasons for believing that it was the third bonae fidei action
devised by the Praetor, and that it is older than the actio pro socio.
Mandatv/m was an agreement whereby one person, at the request of
another, usually his friend', undertook the gratuitous per-
formance of something to the iaterest of that others In short, it was a
special agency in which the agent received no remuneration. Its
gratuitous character was essential, for where the agent was paid,
the transaction was regarded as a case of locatio conductio. We
know that the testamentum per aes et libram was virtually a mandatum to
the familiae emtor', and that fideicommissa, which began to be
important towards the end of the Republic, were nothing but
mandata*; it is plain too that as an informal trans- action mandatum,
must always have been practised long before it became recognised by the
Praetor. The earliest piece of direct evidence^ which we
1 Cie. Eosc. Am. 39. 112. == Gai. iii. 156. s Gai. II. 102. 4
Ulp. Frag. 25. 1-3. » Auot. ad Her. ii. 13. 19.
Digitized by Microsoft® MAJVDATVAf. 161
have as to the actio mandati is that it existed in A.V.C. 631 under
the Praetorship of S. lulius Caesar. It is probable that the action was
then of recent origin, and represented the first-fruits of the Edict
Pacta conuenta^, for Caesar treated it as non- hereditary, whereas the
Praetor Marcus Drusus soon afterwards granted an actio in h&redem
according to the rule of the later law'' From Plautus it
distinctly appears that Tnandatum was a well developed institution in his
day, but there is no evidence to prove that an actio mandati
already existed. The transaction is often mentioned', and must have
been necessary in the active commercial life which Plautus has
pourtrayed. In Trinummus*, for instance, we see a regular case of
mandatv/m generate. The phrase "mandare fidei et
fiduciae" here indicates that fides pure and simple was the
only support on which mandatum rested, and that there was no motive
beyond friendly feeling to compel the performance of the mandatum. On
the other hand the word infamia is thought to have had a technical
meaning, as an allusion to the fact that the actio mxvndati was fam,osa ^
; but this is surely a flimsy basis for Demelius' opinion that the
actio mandati was in existence as early as the middle of the sixth
century *. It seems much safer to regard this action as
1 Voigt, Rom. EG. i. 681. ^ 17 Dig. 1. 53. ' E.g. Bacch. 3.
3. 71-5 ; Gapt. 2. 2. 93 ; Asin. 1. 1. 107 ; Epid. 1. 2. 27, 31 ; Gist.
i. 2. 53. ■< 1. 2. 72-121. 5 Cic. pi-o S. Rose. 38.
Ill ; Gaec. 3. 7. « Z. fur EG. II. 198 ; Costa, Dir. Priv. p.
390. B. E. 11 Digitized by Microsoft®
162 CONTBACTS OF THE IVS GENTIVM. younger than those of emtio
iienditio and locatio conductio, and to trace its origin to the influence
of the Edict Pacta conuenta. The earliest form of relief granted to
the agent against his mandator was doubtless an actio in factwrn,, based
upon that Edict, and having a formula of this kind^ : Si
paret N™ Negidium A" Agerio, cv/ni is in potestate l!- Titii esset,
mandauisse ut pro se solioeret, et A™ Agerium emancipatum soluisse,
quanti ea res erit, tantam pecuniam index N^ Negidium A"
Agerio condemna. s. n. p. a. When at length the Praetor was
prepared to- recognise mandatum as a regular contract of the ius
duile, he placed it on an equal footing with the older bonae fidei
contracts by granting the actio mandati, with its far more flexible
formula in ius concepta. The actio mandati directa brought by the
principal against the agent had the following formula : Quod
A' Agerius N" Negidio rem curandam man- dauit, quidquid paret oh
earn rem N™ Negidium A" Agerio darefacerepraestare oportere ex fide
bona, eius, iudex, N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p.
a. In the actio contraria, by which the agent sued the
principal, the formula began as above, but the condemnatio was different,
thus: quidquid paret ob eam rem A™ Agerium N"
Negidio dare facere praestare oportere e. f. b. eius A™ Agerium
N" Negidio condemna. s. n. p. a. Or again, where the claims
and counter-claims were conflicting, the condemnatio might be made
still more indefinite, thus : 1 17 Dig. 1. 12. fr. 6.
Digitized by Microsoft® GROWTH OF ACTIO MANDATI.
163 quidquid paret oh earn rem alterum alteri dare
facere praestare oportere e. f. b. eius alterum alteri condemna. s. n. p.
a.' Unfortunately we do not know the language of the Edict by
which the actio mandati was instituted; but the fact that it was modelled
on the actions of sale and hire is one that nobody disputes.
There is no direct authority for assuming the existence of an actio
in factum in this case, as there is in the cases of commodatum and
depositum, where we have Gaius' express statement to that effects
But it is clear, from Gaius' allusion to "quaedam causae" and
from his use of "uelut," that double formulae existed in many
other actions. We may well accept Lenel's ingenious theory' that the
exist- ence of an actio contraria always indicates the existence of
formulae in ius and in factum conceptae, and the assumption here made is
therefore no rash conjecture. The conception of mandatum
changed somewhat before the end of the Republic. It meant at first
any charge general or special*. But by Cicero's time it had acquired the
narrow meaning, which it retained throughout the classical period, of a
par- ticular trust ^, while procuratio was used of a general trust
°, and its remedy was the actio negotiorum ges- torum ' Thus it
still remains for us to inquire to what 1 Lenel, Ed. Perp. p.
235. 2 Gai. IV. 47. ' Ed. Perp. p. 202. * Cato, R. R. 141-3.
= 17 Dig. 1. 48. 6 Cic. Top. 10. 42. ' Gai. in 3 Dig. 3. 46.
11—2 Digitized by Microsoft® 164 CONTRACTS
OF THE IVS GENTIVM. extent procuratio, i.e. general agency, was
practised, as distinguished from mandatv/m generate, i.e. special
agency with general instructions, and how general agents (procuratores)
were appointed. Now it is one of the most striking features of
the Boman Law that agency of this sort was unknown until almost the
end of the Republic. How and why so great a commercial people as the
Romans managed to do without agency, is a question that has
received many different answers. We may be sure that mandatum was
practised long before it ever became actionable, but if so, it was
practised informally and had no legal recognition. The cir-
cumstance which made it almost impossible for general agency to exist was
that the Romans held fast to the rigid rule : " id quod nostrum est
sine facto nostra ad ahum transferri nan potest \" Such a rule
evidently had its origin in the early period when contracts were strictly
formal, and when he alone who uttered the solemn words or who
touched the scales was capable of acquiring rights. In a formal
period the rule was natural enough; but the curious thing is that it
should not have been relaxed as soon as the real and consensual
contracts became important. This fact has sometimes been
accounted for on ethical grounds. It has been said that the keen
legal conscience of the Romans made them loth to depart from the
letter of the law by admitting that a man who entered into a contract
could possibly thereby acquire anjdihing for anybody else. But the
true > 50 Dig. 17. 11. Digitized by
Microsoft® RARITY OF AGENCY. 165 reason seems
rather to have been a practical one ^ — that the existence of an agency
of status precluded that of an agency of contract. Thus we know
that householders as a rule had sons or slaves who could receive
promises by stipulation, though they could not bind their paterfamilias
by a disadvantageous contract; and so to a limited extent agency
always existed within the Roman family. It is also obvious that, in
an age when men seldom went on long journeys, the necessity for an agent
or fully em- powered representative cannot have been seriously
felt. Plautus shows however that agency was not developed even in his
day, when travel had become comparatively common. In Trimimmus and
Mostel- laria, for instance, no prudent friend is charged with the
affairs of the absent father, and consequently the spendthrift son makes
away with his father's goods by lending or selling them as he pleases
\ We can however mark the various stages by which the Roman
Law approximated more and more closely to the idea of true agency.
1. The oldest class of general agents were the tutor es to whom
belonged the management (gestio) of a ward's or woman's affairs, and the
curatores of young men and of the insane. 2. The next oldest
kind of general agents were the cognitores, persons appointed to conduct
a par- ticular piece of litigation ", and not to be confounded
with the cognitores of praediatura *. They were ori- 1 Pemice,
Labeo, i. 489. " Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74. 3 2 Verr.
in. 60. 137 ; Gaee. 14. * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp.
45. Digitized by Microsoft® 166 CONTRACTS
OF THE IVS GENTIVM. ginally appointed only in cases of age or
illness ^ and their general authority was limited to the manage-
ment of the given suit. Gaius has shown us how they were able to conduct
an action by having their names inserted in the condemnatio ^ Whether
they existed or not under the legis actio procedure is uncertain ;
but they probably did, since we know that they were at first appointed in
a formal manner =- Subsequently the Edict extended their powers to
the informally appointed procuratores. The action by which these
agents were made responsible to their principals was after Labeo's time
the actio mandati*. During the Republic however and before his time
the jurists do not seem to have regarded the relation between cognitor
and principal as a case of mandatum, but simply gave an action corresponding
to each par- ticular case, as for instance an actio depositi if the
cognitor failed to restore a depositwn. 3. Procuratores were
persons who in Cicero's day" acted as the agents and representatives
of persons absent on public business ^ They often appear to have
been' the freedmen of their re- spective principals, and their functions
were doubt- less modelled on those of the curatores. The connection
between curatores and procuratores is seen in the Digest where pupilli
and absent in- dividuals are often coupled together', while the
' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86. 3 Gai. IV. 83.
■< 17 Dig. 1. 8. fr. 1. = Quint. 19. 60-62 ; -2 Verr. v. 7. 13 ;
Lix lui. Mm. 1. « Gaec. 57. • ' Cio. Or. 2. 249. 8 29
Dig. 7. 2. fr. 3 ; 47 Dig. 10. 17. fr. 11 ; 50 Dig. 17. 124.
Digitized by Microsoft® PROOVRATIO. 167
definitions of procurator show that his power was confined to
occasions on which his principal was absent \ and the word procuratio
itself indicates that it was copied from the curatio of furiosi ^ or
of prodigi. One passage of Gaius " seems to imply that
the procurator was not always carefully distinguished from the
negotioruTn gestor or voluntary agent, and Pernice interprets some
remarks of Cicero * as indi- cating the same fact. From this he infers
with much likelihood^ that the remedy against the procurator was
originally not the actio mandati but the actio negotiorum gestorum^. Even
in Labeo's time the actio mandati was probably not well established
in the case of procuratores, though it was so by the time of
Gains'. A procurator might conduct litigation for the absent
principal; but the acquisition of property through an agent was not
clearly established even in Cicero's time °, though the principal could
always bring an action for the profits of a contract made in his
name". 4. Negotiorum gestio was a relation not based
upon contract, but consisted m the voluntary in- tervention of a
self-appointed agent, who undertook to administer the affairs of some
absent or deceased friend. In the Institutes it is classed as a form
of 1 Paul. Diac. s.u. cognitor. ' Lex agr. c. 69. 3 IV.
84. ^ Top. 42 and 66. " 17 Dig. 1. 6. fr. 1. •> Labeo, I.
494. ' 4 Dig. 4. 25. fr. 1. 8 3 Dig. 3. 33. " Cic. Att. vi. 1.
4. i» 3 Dig. 3. 46. fr. 4. Digitized by
Microsoft® 168 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM,
quasi-contract, and it was always regarded as a relation closely
analogous to mandatum^. The mode of enforcing claims made by
the negotiorum gestor and his principal against one another was the
actio negotiormn gestorum, which might, like the actio mandati, be either
directa or contraria. It was based upon an Edict worded thus :
SI QVIS NEGOTIA ALTERIVS, SIVE QVIS NEGOTIA QVAE CVIVSQVE CVM IS MORITVR
FVERINT, GES- SERIT, IVDICIVM EO NOMINE DABOl We do not know
the date of this Edict, but it was certainly issued before the end of the
Republic, inasmuch as the action founded upon it was discussed by
Trebatius and Ofilius'. This action had a formula in ills concepta which
ran somewhat as follows : Quod N' Negidius negotia A^ Agerii
gessit, qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A"
Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona, tantam pecuniam index
JV'" Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.* 5.
Another means by which agency could prac- tically be brought about was
adstipulatio, as we saw above ". This was not a case of true agency,
for the adstipulator acquired the claim in his own name, and if he
sued upon it, he did so of course in his own right : yet he was treated
as agent for the other stipulator and made liable to the actio
mandati^. 6. Fideiussio was probably treated as a form of
special agency almost from the time of its invention, 1 3 Dig. 5.
18. fr. 2. 2 3 Big. 5. 3. » 17 Big. 1. 22. fr. 10. * Lenel, Ed.
Perp. p. 86. ° p. 110. » Gai. III. 111.
Digitized by Microsoft® SOOIETAS. 169
since we know that it possessed the remedy of the actio mandati as
early as the time of Quintus Mucius Scaeuola ^ Art. 5.
SociETAS. This was the common name given to several kinds of contract by
which two or more persons might combine together for a common
profitq,ble purpose to which they contributed the necessary means. These
contracts could be formed by mere consent of the parties, and except in
the case of societas uectigalis they were dissolved by the death of
any one member, so that even societas in perpetuum meant only an
association for so long as the parties should live '. Ulpian
distinguishes four kinds of societas": (1) omnium honorum, (2)
negotiationis alicuius, (3) rei unius, and (4) uectigalis.
The first of these has no counterpart in our modem law, but may be
described as a contractual tenancy in common. The second and third may
be treated under one head, as societates quaestuariae,
corresponding to modem contracts of partnership. The fourth may best be
regarded as the Roman equivalent of the modem corporation.
Except in the case of this fourth form, which was in most respects
unique, the remedy of a socius who had been defrauded, or who considered
that the agreement of partnership had been violated, or who wished
for an account or a dissolution, was either an actio in factum or the
more comprehensive actio pro socio ■*. 1 17 Dig. 1. 48.
" 17 Big. 2. 1. 3 17 Dig. 2. 5. * Cic. Rose. Com. 9.
Digitized by Microsoft® 170 CONTRACTS OV THE
IVS GENTIVM. Both these actions were of praetorian origin,
and the former was doubtless the experimental mode of relief which
prepared the way for the introduction of the latter. At first we may
fairly suppose the Praetor to have granted an actio in factwm
adapted to the particular case, with a formula worded some- what as
follows : 8i paret iV™ N™ cum A" A° pactum bonuentum^ fecisse de
societate ad rem certam emendam ideoque renuntiauisse societati ut solus
em^ret^, quanti ea res est tantam pecuniam, iudex, N'^ iV™ A"
A" condemna. s. n. p. a. When the pactum societatis had thus
been protected, and the juristic mind had grown accustomed to regard
societas in the light of a contract, the Praetor then doubtless announced
in his Edict that he would grant an actio pro socio to any
aggrieved member of a societas. In this way agreements of partnership
became fully recognised as contracts, and were provided with an actio in
iiis conoepta, the formula of which must have been thus
expressed': Quod A' Agerius cum N" Negidio sodetatem
coiit universoru/m quae ex quaestu veniunt, quidquid oh eam rem
N"^ Negidium A" Agerio (or alterum alteri) pro socio dare
facere praestare oportet ex fide bona, eius iudex N™ Negidium A"
Agerio (or alterum alteri) condemna. s. n. p. a. The
superiority of this honae fidei action to the former remedy, as a mode of
adjusting com- plicated disputes arising out of a partnership, is
too obvious to require explanation. The actio in 1 17 Dig. 2. 71.
"^ 17 Big. 2, 65. ir. 4. 3 Lenel, Ed. Perp. p. 237.
Digitized by Microsoft® AGE OF ACTIO PRO SOCIO.
l7l factum may still however have proved useful in certain
cases. Societas appears in Plautus with much less dis-
tinctness than either of the other three consensual contracts. Socius is
not used by him in a technical or commercial sense, but means only
companion ^ or co-owner^. The nearest approach to an allusion to
societas in its more recent form is to be found in Rudens^ where the
shares of socii are mentioned; but this is no reason for supposing that
Plautus knew of societal as a contract. The date of the actio pro
socio is impossible to fix, though Voigt^ has suggested that the Praetor
P. Kutilius Rufas must have been its author in the year 646 ^ Abso-
lute certainty on the subject is unattainable, because we cannot tell
whether this Rutilius originated or merely mentioned the edict, nor can
we positively identify him with the Praetor of a.v.c. 646. On these
points there is hopeless controversy", so that they must remain
unsettled. But what we can do with a certain measure of accuracy, is to
trace the process by which societal came to be regarded as a
contractual relation, and slowly grew in importance till it called for
the creation by the Praetor of a honae fidei action to protect it. This
action certainly existed about the end of the seventh century, for
it is mentioned in the Lex Julia Municipalis of 1 Bacch. 5. 1. 19 ;
Cist. 4. 2. 78. ' Bud. i. 3. 95. ' 1. 4. 20 and 2. 6. 67. *
lus N. IV. 603 note 204. 5 38 Dig. 2. 1. " See Husehke,
Z. fur Civ. wnd Proc. 14. 19 ; Schilling, Inst. §313. Digitized
by Microsoft® 172 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.
A.V.C. 709 ^ and was discussed by Quintus Mucius Scaeuola". A
closer approximation to the date of its "origin seems to be
impossible. 1. Societas omnium bonorum. The original
conception of societas seems not to have been that of a commercial
combination, but of a family. Not indeed that the term societas was
ever applied to the association of father, mother, children and cognates;
but they were practically regarded as a single body, each member of
which was bound by solemn ties to share the good or bad fortune
which befell the rest. The duty of avenging the death of a
blood-relation, the duty of providing a certain portion for children, as
enforced by the querela inofficiosi testamenti, the obsequia which
children owed to their parents, are illustrations of the principle. Now
this body, the family, could hold common property: and here is the point
at which the family touches the institution of partner- ship. The
technical term which expressed the tenancy in common of brothers in the
family pro- perty (hereditas), was consortivmi^, and the brother
co-tenants were called consortes. This institution of consortium was of
great antiquity, being even found in the Sutras*. It is compared by
Gellius' to the relation of societas, and arose from the descent or
devise of the patrimonial estate to several children who held it
undivided. Division might at any time be made among them by the actio
familiae 1 Bruns, Font. p. 107. ^ gaj. ni. 149 ; Cic. Off. in. 17.
70. » Cie. 2 Veir. ii. 3. 23 ; Paul. Diao. 72. "
Leist, Alt.-Ar. lus Gent. p. 414. ■> i. 9. 12. Digitized
by Microsoft® SOCIETAS OMNIVM BONORVM. 173
erciscundas \ but they might often prefer to continue the consortium,
either because the property was small, or because they wished to carry on
an es- tablished family business. If the latter course was adopted,
the tenancy in common became a partner- ship, embracing in its assets the
whole wealth of the partners ; and it is easy to see how this natural
part- nership, if found to be advantageous, would soon be copied by
voluntary associations of strangers. Thus socius, as we know from
Cicero*, was often used as a synonym of censors, and there can be no doubt
that consortium was the original pattern of the societas omnium
bonorum". That there were some differences between the rules of
consortium and those of societas does not affect the question. For
in- stance *, the gains of the consortes were not brought into the
common stock, but those ot socii were; while the death of a socius
dissolved the societas, but that of a consors did not ^ dissolve the
consortium. These points of difference and others " probably arose
from the juristic interpretation applied to societas, when it had
once become fairly recognised as a purely commercial contract. But
consortium and societas omnium bonorum have two points in common
which show that they must have been historically connected, (i) In
societas omnium, bonorum there was a complete and immediate transfer of
property from the indi- viduals to the societas'', whereas the
obligations of ■■ Paul. Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2.
3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in. 85. i 17
Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo i. p. 69. « See Pernice, Laieo i.
85-6. ' 17 Dig. 2. 1. Digitized by Microsoft®
174 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. each remained distinct and
were not shared by the others'. Now this is exactly what would have
happened in consortium : the property would have been common, but the
obligation of each consors would have remained peculiiar to himself, (ii)
The treatment of socii as brothers' is clearly also a reminiscence
of consortiv/m ; and this conception of fratemitas, being peculiar to the
societas omnium bonorum^, makes its connection with the old con-
sortium still more evident. The fraternal character of this
particular societas is responsible for the existence of a generous
rule which subsequently, under the Empire, became extended so as to
apply to the other kinds of societas^ The rule was that no defendant in
an actio pro socio should be condemned to make good any claim
beyond the actual extent of his means ^ This was known as the
beneficium competentiae ; and it gave rise to a qualified formula for the
actio pro socio, as follows : Quod A' Agerius cum N" Negidio
societatem omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"'
Negidium A° Agerio dare f. p. oportet ex f. b. dumtaxat in id quod i\r*
Negidius facere potest, quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius
index N™ Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a. 2.
Societas negotii uel rei alicuius. This second form of partnership
must have been the most common, since it was presumed to be in- tended
whenever the term societas was alone used '. 1 17 Dig. 2. 3. 2 17
Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63. * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16
and 22. « 17 Dig. 2. 7. Digitized by
Microsoft® THEORIES OF ACTIO PRO SOCIO. 175 It
has also been derived from consortium by Lastig\ His theory is that
consortes, or brothers, when they undertook a business in
partnership with one another^, often modified their relations by
agreement. The special agreement, he thinks, then became the conspicuous
feature of the partner- ship, and the relations thus established were
copied by associations not of consortes but of strangers. The
object of the theory is to explain the correal obligation of partners.
This correality did not how- ever exist at Rome^, except in the case of
banking partnerships, where we are told that it was a peculiar rule
made by custom*, so that Lastig's theory lacks point. A further
objection^ is that this theory does not explain, but is absolutely
inconsistent with, the exist- ence of the actio pro socio as an actio
famosa. The fraternal relations existing between consortes could
never have suggested such a remedy, for Cicero in his defence of
Quinctius lays great stress on the enormity of the brother's conduct in
having brought such a humiliatiag action against his client.
Another explanation of the actio pro socio is given by Leist".
He derives it from the actio so- cietatis given by the Praetor against
freedmen who refused to share their earnings with their patrons.
This societas of the patron must have been a one- sided privilege, like
his right to the freedman's 1 Z. filr ges. Handelsrecht. xxiv.
409-428. 2 As in 26 Dig. 7. 47. 6. 3 14 Dig. 3. 13. 2 ;
17 Dig. 2. 82. * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9, 5
As Perniee has pointed out, Labeo i. p. 94. 6 Soc. p. 32.
Digitized by Microsoft® 176 CONTRACTS OF THE
IVS GENTIVM. services' ; for the freedman could never have
brought an action against his patron, since he was not entitled to
any share in the patron's property. The actio societatis was therefore a
penal remedy available only to the patron, and consequently it cannot
pos- sibly have suggested the bilateral actio pro socio of
partners. Nor can the bonae fidei character of the actio pro socio be
explained if we assume such an origin. The most reasonable
view appears to be that which regards the actio pro socio as the outcome
of necessity. The Praetor saw partnerships springing up about him
in the busy life of Rome. He saw that the mutual relations of socii were
unregulated by law, as those of adpromissores had been before the
legislation described above in Chapter v. He found that an actio in
factum, based on the Edict Pax>ta conuenta, was but an imperfect
remedy; and as an addition to the Edict was then the simplest
method of correcting the law, it was most natural for him to institute an
actio pro socio, in which bona fides was made one of the chief
requisites simply because the mutual relations of socii had
hitherto been based upon fides \ 3. Societas uectigalium uel
pMicanorwm. This kind of societas was a corporation rather
than a partnership, and we have proof in Livy that such corporations
existed long before the other kinds of societas came to be recognised as
contracts. These 1 38 Dig. 2. 1. 2 Cie. Quint. 6. 26 ;
Q. Rose. 6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr. III. 58. 134.
Digitized by Microsoft® SOGIETAS AND COLLEGIVM.
177 societates acted as war-contractors^ collectors of taxes
^, and undertakers of public works'. In one passage in Livy * they
are called redemtores, and we find three societates during the second
Punic War in A.v.c. 539" supplying the State with arms, clothes and
com. It was perhaps the success of these societates publica- norwm"
which iatroduced the conception of com- mercial and voluntary
partnership. But still they were utterly unlike partnerships', so that
their his- tory must have been quite different from that of the
other societates. They were probably derived from the ancient sodalitates
or collegia^, which were per- petual associations, either religious (e.g.
augurium collegia), or administrative {quaestorum collegia), or for
mutual benefit, like the guilds of the Middle Ages (fabrorwm collegia).
This theory of their origia is based upon three points of strong
resem- blance which seem to justify us in establishing a close
connection between societas and collegium: (1) Both were regulated
by law", and were established only by State concessions or charters.
(2) Both had a perpetual corporate existence, and were not
dissolved by the death of any one member "- (3) Both
were probably of Greek origin. We > Liu. XXXIV. 6 in a.v.c. 559.
^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544). » Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2
Verr. i. 50. 150. • XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9.
" Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1. 8 Lex rep. of
a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro domo 20. 51 ; PUnc.
15. 36. 9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22. 1. "I
28 Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1. B. E.
12 Digitized by Microsoft® 178 CONTRACTS OF THE
IVS GENTIVM. are told that societates publiccmorum existed at
Athens', while Gaius^ derives from a law of Solon the rule applying to
all collegia, that they might make whatever bye-laws they pleased,
provided these did not conflict with the public law. These
three facts may well lead us to derive this particular form of societas
from the collegium. We know further that the jurists looked upon it as
quite different from the ordinary societas, and that it did not
have the actio pro socio as a remedy'- The president or head of the
societas was called manceps*, or magister if he dealt with third parties
', and the modes of suretyship which it used in its corporate
transactions were praedes and praedia', another mark perhaps of its
semi-public origin. 1 Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt, I. N.
ii. 401. 2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808. *
Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam.
10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64. ' Paul. Diac. s. u. magisterare
; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr. 11. 70. 169 ; ib. III. 71.
167. ' Lex Mai. c. 65. Digitized by Microsoft®
CHAPTER VII. CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part
II. Real Contracts. Art. 1. MvTWM. We have not yet
really dis- posed of all the consensual contracts, for we now come
to a class of obligations entered into without formality and by the mere
consent of the parties, but ia which that consent was signified in one
par- ticular way, i.e. by the delivery of the object in respect of
which the contract was made. The con- tracts of this class have therefore
been teirmed Eeal contracts, though they might with equal propriety
be called Consensual. The oldest of them all is mutumn, the
gratuitous loan of res fungibiles, and it stands apart from the other
contracts of its class in such a marked way, that its peculiarities can
only be understood from its history. It differed from the other so-called
real contracts, (i) ia having for its remedy the condictio, an actio
stricti iuris; (ii) in being the only one which conveyed ownership in
the objects lent, and did not require them to be returned in
specie. Both peculiarities requfre explanation. 12—2
Digitized by Microsoft® 180 CONTRACTS OF THE IVS
GENTIVM. The most important function of Contract in early-
times was the making of money loans, and for this the Romans had three
devices peculiarly their own, first Tiexum, then sponsio, and lastly
earpensilatio. But these were available only to Roman citizens, so
that the legal reforms constituting the so-called ius gentium naturally
included new methods of per- forming this particular transaction. One
such in- novation was the modification of sponsio, already
described, and the rise of stipulatio in its various forms : another was
the recognition of an agreement followed by a payment as constituting a
valid contract, which might be enforced by the condictio, like the
older sponsio and expensilatio. This latter innovation was the contract
known as mutuwm. It doubtless originated in custom, and was
crystallised in the Edict of some reforming Praetor. As its
object was money, or things analogous to money in having no individual
importance, such as com, seeds, &c., the object naturally did not
have to be returned in, specie by the borrower. Though the
bare agreement to repay was suffi- ciently binding as regards the
principal sum, the payment of interest on the loan could not be
pro- vided for by bare agreement, but had to be clothed in a
stipulation. This rule may have been due to the fact that mutuum was
originally a loan firom friend to friend ; but it rather seems to
indicate that bare consensus was at first somewhat reluctantly
tolerated. In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan,
generally made between friends^ and in sharp con- > Cure. 1. 1. 67 and
2. 3. 51 ; Paeud. 1. 3. 76. Digitized by Microsoft®
AGE OF MVTrVM. 181 trast to foenus, a loan with interest',
which was always entered into by stipulation. When mutuv/m is used
by Plautus to denote a loan on which interest is payable, we must
therefore understand that a special agreement to that effect had been
entered into by stipulation, since mutuum was essentially
gratuitous. From three passages " it is evident that
mutuum was recoverable by action in the time of Plautus* (circ. A.
V. c. 570), and it seems probable that Livy^ also uses it in a technical
sense ^ If then we place the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c.
513, and suppose, as Voigt does ', that mutuum being a iuris
gentium contract must have been subsequent to that law, we shall be led
to conclude that mutuum came into use about the second quarter of the
sixth century. This theory as to date is supported by the fact,
which Karsten points out', that mutuum would hardly have been possible
without a uniform legal tender, and that Rome did not appropriate to
herself the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We thus see
that the introduction of mutuum and that of emtio uenditio, i.e. of the
first real and the first consensual contract, took place at about the
same time. As regards its peculiar remedy we know that
money lent by mutuum was recoverable by a con- dictio certae pecujiiae,
with the usual sponsio and 1 Asin. 1. 3. 95. 2 Trin. 3.
2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16. 3 Cure. A.v.c. 560. ■^ xxxii.
2. 1. » Of A.v.c. 555. 6 I. N. IV. 614. ' Slip. p. 38.
Digitized by Microsoft® 182 CONTRACTS OF THK IVS
GENTIVM. restipulatio tertiae partis\ It seems, like
expensila- tio, to have received this stringent remedy by means of
juristic interpretation, which extended the meaning and the remedy of
pecimia certa credita so as to cover this new form of loan. Thus we find
credere often used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m *.
When this final extension had been made iu the meaning of pecunia
credita, we may reconstruct the Edict on that subject as follows °
: SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS CREDIDERIT
EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DE- DERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT
PROMISE- RITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here
referred to was the condictio certae pecuniae, the formula of which has
already been given*. We know that mutuvm, could be applied to
other fungible things besides money, such as wine, oil or seeds,
and in those cases the remedy must have been the condictio
triticaria'^. FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con-
tract very similar to mviuvm,, which we know to have existed in the
Republican period, since we find it mentioned by Seruius Sulpicius * and
entered into by Cato', was foeniis nauticum, a form of marine
insurance resembling bottomry^. It consisted of a money loan (pecunia traiecticia)
to be paid back by the borrower, — ^invariably the owner of a ship,
— 1 Cic. Rose. Com. 4. 13. 2 As in Pers. 1. 1. 37;
Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91. s Voigt, I. N. IV. 616. •* p. 104.
» 12 Dig. 1. 2. 8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch, Cat. Mai. 21.
' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff. Digitized by
Microsoft® FOENVS NAVTIGVM. 183 only in the
event of the ship's safe return from her voyage. A slave or freedman of
the lender apparently went with the ship to guard against fraud'; but there
was no hjrpothecation of the ship, as in a modem bottomry bond.
The contract resembled mutuum in being made without formality; but
its marked peculiarities were: (i) That it was confined to
loans of money, (ii) And to loans from insurers to ship-owners,
(iii) And because of the great risk it was not a gratuitous loan, but
always bore interest at a very high rate ^ It is, however, quite possible
that this interest was not originally allowed as a part of the
formless contract, but that it was customary, as Labeo states ', to
stipulate for a severe poena in case the loan was not returned. If that
be so, the stipu- l&tory poena spoken of by Seruius and Labeo
must have been the forerunner in the Republican period of the
onerous interest mentioned by Paulus'' as an inherent part of this
contract in his day. Art. 2. CoMMODATVM. The next three real
contracts are not mentioned by Gains, who appa- rently took his
classification fi-om Seruius Sulpicius, and it therefore seems certain
that in the time of Seruius and during the Republic they were not
re- garded as contracts, but as mere pacta praetoria.
Commodatum was the same transaction as mutuum applied to a
different object. In mutuum there was a gratuitous loan of money or other
res fungihilis, 1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1.
■' 22 Big. 2. 7. ' 22 Big. 2. 9. " 22 Big. 2. 7.
Digitized by Microsoft® 184 CONTRACTS OF THE IVS
GENTIVM. whereas in commodatum the gratuitous loan was one of
a res nonfungihilis ' Both were originally acts of friendship, as
their gratuitous nature implies. Plautus shows us that in his day
the loan of money was not distinguished from that of other objects, for
he uses commodare^ and iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as
well as in describing genuine cases of commodatum. We do not,
however, discover from Plautus that commo- datum, was actionable in his
time, as mmiuwrn clearly was. Vtendmn dare, we may note, is in his
plays a more usual term than commodare *. If it be asked why the
condictio was not extended to commodatum as it was to mutwu/m, the answer
is that the latter always gave rise to a liquidated debt, whereas in
a case of commodatum the damages had first to be judicially
ascertained, and for this purpose the con- dictio was manifestly not
available. The earliest mention of commodatum as an action-
able agreement occurs in the writings of Quintus Mucins Scaeuola (ob.
A.v.c. 672) quoted by Ulpian" and Gellius *. Cicero significantly
omits to mention it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex
lulia Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it'. The
peculiar rules of the agreement seem to have become fixed at an early
date. Quintus Mucins Scaeuola is said to have decided that culpa leuis
^ e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i.
94. 2 Asin. 3. 3. 135. « Persa, 1. 3. 37. * Aul. 1. 2.
18 ; Bvd. 3. 1. 9. » 13 Dig. 6. 5. « VI. 15. 2. ' Bruns, Font. p.
107. Digitized by Microsoft® AGE OF
COMMODATVM. 185 should be the measure of responsibility required
from the bailee (is cui commodatur), and to have established the
rule as to furtum usus, in cases where the res commodata was improperly
used. It seems therefore probable that the Praetor recognised commodatum
at first as a pactum praetoriwn, and granted for its protection an actio
in factum, with the following formula : Si paret A™ Agerium
N" Negidio rem qua de agitur commodasse (or utendam dedisse) eamque
A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam
N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. The
agreement between bailor and bailee pro- bably did not come to be
regarded as a regular contract until after the time of Cicero. We must
therefore place the introduction of the actio commo- dati at least as
late as A.v.c. 710, and by so doing we explain Cicero's silence. Whatever
conclusion we shall arrive at as to depositum must almost neces-
sarily be taken as applying to commodatum, also. They both had double
forms of action in the time of Gaius\ neither is mentioned by Cicero,
and Scaeuola evidently dealt with them both together. Hence their
simultaneous origin seems almost certain. The actio commodati is said to
have been instituted by a Praetor Pacuuius'', who, like Plau- tus,
used the words utendum dare instead of com- modare. The terms of his
Edict must therefore have been: 1 IV. 47. 2 13 Dig. 6.
1. Digitized by Microsoft® 186 CONTRACTS
OF THE IVS GENTIVM. QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO
IVDICIVM DABOl The author of this Edict was formerly supposed
by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo", the father of Labeo the
jurist ; but this statement has recently been withdrawn' on the ground
that this Pacuuius, having been a pupil of Seruius Sulpicius *,
could not have been Praetor as early as the time of Quintus Mucius. If
however the above theory as to the dates be correct, Voigt's former view
may be sound : Q. Mucius may have been speaking of the actionable
pactum, while Pacuuius may have been the author of the true contract. The
aMio com- modati directa had a formula as follows: Qiiod A' Agerius
N" Negidio rem q. d. a. commodauit (or utendam dedit) quidquid oh
earn rem M™ Negi- dium A" Agerio dare facere praestare oportet
ex fide bona, eius iudex N"^ Negidiwm A' Agerio con- demna. s.
n. p. a. It was doubtless in this form that the action on a commodatum
was unknown to Cicero. He must have been familiar only with the
actio in factvmi, and for that very reason he must have regarded
com/modatwm not as a contract, but as a pactum conuentum.
Art. 3. Depositvm. The most general word denoting the bestowal of a
trust by one person upon another was commendare', and Voigt has
shown' that corrvmendaiumh was the technical term 1 I. N. III. 969.
2 I. N. in. 969 note 149G. » B. HG. i. 622 note 25. * 1 Dig. 2. 2.
44. ' Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ;
Cio. Fin. III. 2. 9. « R. RG. i. App. 5. Digitized by
Microsoft® OBIGIN OF DEPOSITVM. 187 for a
particular kind of pactum. If the object of commendatio '■ was the
performance of some service, the relation was a case of mandatwm'^ : if
its object was the keeping of some article in safe custody, the
relation was described as depositvmi^. This case clearly shows how
arbitrary is the distinction drawn by the Roman jurists between Real
and Consensual Contract. Though starting, as we have seen, from the
same point, mandatum came to be classed as a consensual, and depositv/m
as a real contract. This was simply because the latter dealt, while
the former did not deal, with the possession of a definite res.
Depositum distinctly appears in Plautus* as an agreement by which
some object is placed in a man's custody and committed to his care,
though deponere is not the word generally used by Plautus to denote
the act of depositing. He prefers the phrase seruandimi dare,
corresponding to utendvmi dare, which we found to be his usual expression
for commodatum'. These very words, semandum dare, were also used by
Quintus Mucins Scaeuola in dis- cussiDg depositum ', but we cannot
ascertain from his language whether or not the actio depositi was
already known to him. He may merely have been discussing an actionable
pactum,. Nor can we infer from any passage of Plautus the existence
of depositum as a contract in his time. He seems 1 Cic. Fin. III.
20. 65. 2 Plant. Merc. 5. 1. 6. 3 16 Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. 2.
1. 22. * Bacch. 2. 3. 72. 6 Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ;
Bacch. 2. 8. 10. 8 Gell. VI. 15. 2. Digitized by
Microsoft® 188 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.
rather to represent it, as Cicero does ', in the light of a
friendly relation based simply on fides '^-j and in most of the Plautine
passages the transaction is that which was afterwards known as depositum
irregulare, i.e. the deposit of a package containing money either
at a banker's ', or with a friend * Some have thought that there
must have been an action in Plautus' time for the protection of
such important trusts °, but Demelius° points out that the actio
furti (to which Paulus alludes as actio ex catosa depositi) would have
afforded ample protection in most cases; and it would be extremely rash
to infer that either commodatum or d&positwm was actionable in
the sixth century of the City. At first sight it even looks as
though depositum, was not protected by any action in the days of
Cicero. The passages in which he mentions it' appear to treat the
restoration of the res deposita rather as a moral than a legal duty.
Similarly where he enumerates the bonae fidei actions', where he
mentions the persons qui bonam fidem praestare debent ', and where he
describes the indicia de fide mala'^', he entirely leaves out the actio
depositi and does not make the slightest allusion to depositum.
But all this is equally true of commodatum^. And since we have the
clearest evidence that com- modatum. was actionable in the time of
Quintus 1 2 Verr. it. 16. 36. ^ Merc. 2. 1. 14. 5 Cure.
2. 3. 66. * Bacch. 2. 3. 101. » Costa, Dir. Priv. p. 320. « Z. fur
RG. ii. 224. ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25.
95. 8 Off. III. 17. 70. 9 Top. 10. 42. " N. D. III. 30.
7. " Gai. iv. 47. Digitized by Microsoft®
LATENESS OF ACTIO DEPOSIT!. 189 Mucius ScaeuolaS we can
hardly avoid the con- viction that depositurn also was actionable in
his day by means of an actio in fojctvmi, whereas the actio
depositi was not introduced, as Voigt holds, till the beginning of the
eighth century==- This theory of development, already applied
to mandatum and societas, has the advantage, not only of explaining
why commodatwm and depositvmi were not numbered among hoTiae fidei
contractus, but also of accounting for the existence in Gains' day of
their double formulae which have puzzled so many jurists'. We may
then believe that depositurn was first made actionable between A.v.c. 650
and 670 as a pactum praetorium, and with the protection of an actio
in factum concepta as given by Gains: Si paret A™ Agerium apud N™
Negidiwm mensam argenteam deposuisse eamque dolo N^ Negidii A"
Agerio red- ditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam,
iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato. s. n. p. a. This
formula was doubtless the only one pro- vided for depositumi down to the
end of Cicero's career. But about A.v.c. 710^ juristic interpre-
tation began to regard commodatvmi and depositurn as genuine contracts
iuris ciuilis, and thereupon a second formula was iutroduced into the
Edict, with- out disturbing the earlier one, so that depositurn,
like commodatwm, was finally recognised as a contract. 1 13
Dig. 6. 5. " Earn. EG. i. 623. * See Muirhead's Gaim, p. 293
note. * 41 Dig. 2. 3. 18 ; 16 Dig. 31. 1. 46 ; Trebatius was trib.
pleb. A.V.C. 707. Digitized by Microsoft®
190 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. We know that the Praetor's
Edict by which this change was brought about ran somewhat thus :
QVOD NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE NEQVE NAVFRAGII
CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM, EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA
COMPREHENSAE SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD DOLO
MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM
IVDICIVM DABO'. The penalty of dwplwm shows that, where the
depositwn had been compelled by adverse cir- cumstances, a violation of
the contract was regarded as peculiarly disgraceful and treacherous. In
other cases, where the depositwn was made under ordinary
circumstances, the amount recovered was simplwm, and the new formula must
have been that given by Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N™
Negi- dium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur, quidquid oh
earn rem JSf™ Negidium A" Agerio dare facere oportet ex fide bona,
eius index N™ Negidiv/m A" Agerio condemnato. s. n. p. a.
Art. 4. PiGNVS. The giving and taking of a pledge appears in
Plautus as a means of securing a promise, but seems then to have belonged
to the class of friendly acts which the law did not con- descend to
enforce. In Gaptiui^ for instance, the slave who had been pledged is
demanded in a purely in- formal way, and in Rudens^ pignus is a mere
token given to prove that the giver is speaking the truth. Its
connection with arrhabo is very close. Each served to show that an
agreement was seriously 1 16 Dig. 3. 1. ••' IV. 47. »
5. 1. 18. • 2. 7. 23. Digitized by Microsoft®
^0270 PIGNERATICIA. 191 meant by the parties, or was a means
of securing credit as a substitute for money', and if the agree-
ment was broken, the pignus or arrhabo was doubtless kept as
compensation. This practice of giving pawns or pledges was probably of
great antiquity, but we hear nothing of it from legal sources, simply
because it was an institution founded on mores alone. It pro- bably
applied only to moveables and res nee mancipi\ for res mancipi could be
dealt with by a pactvmi fiduciae annexed to mancipatio. Gaius ' derives
the word from pugnuTn, because a pledge was handed over to the
pledgee ; but the correct derivation is doubtless from the same root as
pactum, pepigi, Pacht, Pfand*. Pignus must then have meant a thing
fixed or fastened, and so a security. And this derivation suits the word
in the phrase pignoris capio equally well, without leading us to suppose
that the custom of giving a pledge was in any way derived from the
pignoris capio of the legis actio system. We do not know when
pignus became a contract, though it certainly was so before the end of
the Republic. Long before being recognised as such it doubtless
enjoyed the protection of an actio in factum, with a formula as follows :
Si paret A^ Agerium N" Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam
pignori dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satis- factum
esse, aut per N™ Negidium stetisse quominus soluatur, eamque ratem q. d.
a. A" Agerio redditam rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^
In course 1 Bechmann, Kauf, ii. 416. ''■ 50 Big. 16. 238. '
ibid. * Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch.
ii. p. 49. ' Lenel, Ed. perp. p. 201. Digitized by
Microsoft® 192 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM, of
time the actio pigneraticia was introduced as an alternative remedy, and
Ubbelohde ' has argued that since its place in the edict was between
commodatum and depositum, the Praetor must have introduced the
actio pign&raiicia after the actio com/modati and before the actio
depositi ; which seems a very plausi- ble conjecture. We have no direct
evidence of the existence of an actio pigneraticia earlier than the
time of Alfenus Varus, a jurist of the later Re- public"''; it is
not mentioned by Cicero; in short everything points to the origin of the
contract of pigrms as corresponding in age to that of commo- datwm
and depositwm. The language of the Edict by which pignus was made a
contract has not survived, while the formula of its actio
pigneraticia resembled of course that of the actio depositi, and
need not therefore be given. Though pignus was doubtless a very
inadequate security from the point of view of the pledgor, since it
might at any time be alienated or destroyed, it is the only form which
appears to be common in Plautus, and of fiducia he shows us not a trace
'- Pignus seems to have been much used for making wagers, and pignore
certare was probably as common as sponsione certare ^ which we treated of
in a pre- vious article. The contracts of a kindred nature
which seem to have arisen even sooner than pignus will be discussed
in the next chapter. 1 6. der ben. Bealcont. p. 62. 2 13 jjjgr. 7.
30. 3 Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt. i. 253.
Digitized by Microsoft® CHAPTER VIII.
CONTRACTS NOT USUALLY CLASSIFIED AS SUCH. Art. 1. FiDVCiA. We
have examined in a former chapter the early origin of the pactwm
fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn conveyance, by which
the transferee of the object conveyed as security agreed to reconvey, as
soon as the debt was paid, or whenever a given condition should
arise. As a result of the Edict Pacta conuenta, and before Cicero's
time'', this pactum became en- forceable by the actio fiduciae.
This action was in factum, like the others of its class, and its
function was to award damages, but it could not otherwise compel the
actual recon- veyance of the object. Its formula must have been
worded as follows^ : Si paret A™ Ageriwm N" Negidio fwndum quo
de agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio dedisse,
eamque pecuniam solutam eoue nomine satis- f actum esse, aut per N™' Negidium
stetisse quominus solueretur, eumque fwndum redditum non esse,
nego- 1 Supra, p. 78. '^ Cie. Off. in. 15. 61. 3 Lenel,
Ed. Perp. p. 233. B. E. 13 Digitized by
Microsoft® 194 CONTEACTS NOT CLASSIFIED. tiumue
ita actum non esse ut inter honos T)ene agier oportet et sine fraudatione,
quanti ea res erit tantwm pecuniam index N™ Negidium A" Agerio
condemna. s. n. p. a. The peculiar clause "ut inter
honos bene agier oportet"'^ virtually made this a bonae fidei
action. That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never protected
by a formula in ius coTicepta, and hence was never regarded as a true
contract. Art. 2. Hypotheca. We have seen that there were two
ways in which a tangible security might be given: (i) the object might be
conveyed with a pactum fiduciae, providing that it should be recon-
veyed on the fulfilment of a certain condition, or else (ii) the mere
detention of the object might be granted on similar terms. In the former
case the pledge or its value could be recovered by the actio
fiduciae, in the latter by the actio pigne- raticia whose origin we have
just discussed. But neither fiducia nor pignus was a contract of
pledge pure and simple; each consisted of an agreement plus a
delivery of the object. The abstract conception of mortgage, i.e.
pledging by mere agreement, is a distinct advance upon both these
methods. The contract which embodied this form of pledge was known as
hypotheca ; and as its name indicates it was borrowed from the
Greeks, from whom the Romans also took the Lex Rhodia de iactu and
the foeitms nauticum. Precisely the same contract is found in the
speeches of Demos- 1 Cic. Top. 17. 66. Digitized
by Microsoft® ORIGIN OF HYPOTHECA. 195 thenes' under
the name of v-trodr)Kr\, which could he applied to moveables or
immoveables, and even to articles not yet in existence. The Romans
how- ever regarded hypotheca not as a contract but as a
pactum. It is quite certain that a legal conception so
refined as the pactum hypothecae could not have had a place in the
legal system of the XII Tables. There are passages in Festus" and
Dionysius" in which the words si quid pignoris and eveyypat^eiv have
been supposed to indicate the existence of some such practice at an
early period. But the evidence is much too vague to supply trustworthy
data, and we may confidently assert that mortgage was unknown to
the early law*. Accordingly, we find that hy- potheca was introduced and
made actionable by slow degrees. Its popular name was pignus oppo-
situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary pignut above
described. Its LQtroduction seems to have been one of the
many legal innovations produced by the large immi- gration of strangers
into Rome after the Second Punic War. These strangers must generally have
become tenants of Roman landlords, since the lack of ius commercii
prevented their buying lands or houses, and in order to secure his rent,
the only resource open to the landlord was to take the household
goods of these tenants as security. Such household goods {inuecta
illata) probably constituted in most cases the only wealth of the foreign
immigrant, conse- 1 Dernburg, Pfdr. i. p. 69. ^ s.u.
nancitor. " VI. 29. * Dernburg, Pfdr. i. 55. 13—2
Digitized by Microsoft® 196 CONTRACTS NOT
CLASSIFIED. quently the landlord could not remove them, and
the method of pignus was not available. The ex- pedient which suggested
itself was that the tenant should pledge his goods without removal, by
means of a simple agreement. The relation thus created was the
original form of hypotheca and was precisely analogous to that of a
modern chattel mortgage. As the idea was introduced by foreigners
', it was very natural that this agreement of pledge should have received
a foreign name. Another class to whom the new expedient was applied were
the free agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often
consisted of their tools and other agricultural stock^. The necessity of
making a pledge without removal is obvious in their case also.
I. It was for the protection of landlords that a Praetor Saluius
introduced the interdictum Salui- anum, which seems to have been the
first legal recognition that hypotheca received. Its date is not
known. Formerly the Praetor Saluius lulianus, author of the Edictum
perpetuum, was regarded as the inventor of this interdict, but his own
language in the Digest^ contradicts this supposition. The most
reasonable theory is that the interdict origi- nated before the Edict
Pacta conuenta (A.v.c. 627) at about the end of the sixth century.
The fact that Plautus knew hypotheca as a mere nudum pactum can
hardly be doubted*. It is true that he not only uses, as Terence does a
little later ', 1 Dernburg, Pfdr. i. 56. " 4 Big. 15. 3.
1. » 1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232. 5
Phorm. 4. 3. 56. Digitized by Microsoft®
INTERDIGTVM SALVIANVM. 197 the phrase pignori opponere ' to
denote the making of a pledge by mere agreement; but he also men-
tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems to use hypotheca as a
metaphor'^. The testimony to be gathered from these passages does not
however prove that hypotheca was actionable'. The contents of
the interdictum Saluianum can- not be given with certainty. We only know
two things about it : (1) that it was a remedy of limited scope,
being available only against the tenant or pledgor, but not against third
parties to whom he had transferred or sold or pledged the goods,
and (2) that the interdict was prohibitory and forbade the pledgor
to prevent the landlord from seizing the objects which had been
mortgaged. (1) This first proposition is distinctly stated by
a constitution of Gordian", but flatly contradicted by a passage in
the Digest *. The latter authority, however, seems open to strong
suspicion " and the fact that the actio Seruiana was presumably
intro- duced because the interdictum Saluianum was inadequate
further goes to prove the correctness of Gordian's constitution.
(2) We may be fairly certain that the interdict was prohibitory,
like the interdictum utrvbi, and not restitutory, as Huschke would have
it'; since the weight of authority is in favour of the former
1 Pseud. 1. 1. 85. * True. 2. 1. i. 3 Costa, Dir. priv. p.
264 ; Dernburg, Pfdr. i. p. 65. * 8 God. 9. 1. = 43 Dig. 33. 1.
" Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A, iii. 181. 7 Studien, p.
398. Digitized by Microsoft® 198
CONTRACTS NOT CLASSIFIED. view^ We may therefore accept KudorfiPs
restora- tion of its formula, which runs as follows*: Si is homo
quo de agitur est ex his rebus de quibus inter te et conductorem
(colonum, &c. &c.) conuenit, ut quae in eu/m fwndum quo de agitw
inducta illata ibi nata factaue essent ea pignori tibi pro mercede
eiusfimdi essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satis- f
actum, est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo- minus eum ducas
uim fieri ueto. II. The second remedy introduced to enforce
the formless agreement of mortgage was the actio Seruiana, which was far
more efficacious. Its author cannot have been Seruius Sulpicius Rufus,
the Mend of Cicero, because he never was Praetor Vrbanus, and the
action must have existed long before his time. The Praetor who devised it
was doubtless one of the many Seruii Sulpicii whose names constantly
appear in the fasti consulares, and its age is probably not much
less than that of the interdictum Saluianum. The action was certainly
younger than the interdict, and an improvement upon it, because the
jurists treated the law of mortgage under the head of inter- dict',
which indicates that this was the form of the original remedy. We may be
sure that the interdict is older than the Edict Pacta conuenta, for
otherwise it would not have been needed. And as soon as pa(Aa were
thus legally recognised, it is safe to say that a more perfect remedy for
hypotheca was sure ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13;
Keller, Re- cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed.
Perp. p. 394. ■ 2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp.
282. ' Dernburg, Pfdr. i. p. 61. Digitized by
Microsoft® ACTIO SERVIANA. 199 to be devised.
The probability is then that the actio Seruiana was one of the first
products of the Edict Pacta conuenta, partly because we know that
the interdict was an imperfect remedy, partly because hypotheca was
much in vogue at that early date. Thus we may gather from Plautus'
allusions that hypotheca was already in a well developed state
about A.v.c. 570. Cato the Censor^ also seems to have alluded to it, and
Caec. Statins {oh. A.v.c. 586), as cited by Festus", unquestionably
did so. The curious circumstance that Cicero should have mentioned
it only twice ^ may perhaps be accounted for by the fact that pignus in
its looser sense was always a synonym for hypotheca *, and as he
mentions it so seldom in its Greek form, we may suppose that the
term hypotheca was then only just coming into general use. We know that
pignus in the narrower sense was distinguished by Ulpian from hypotheca
as sharply as we distinguish a pawn from a mortgage ^, but the
earlier writers lead us to infer that the term pignus oppositum, or
simply pignus, was origi- nally the equivalent of hypotheca.
The effect of the actio Seruiana was probably a mere enlargement of
the scope of the interdictwm ■ Saluianum, giving the landlord a legal
hold upon the inuecta illata of his tenant even in the possession
of third parties. But since the right of thus pledging by agreement was
as yet recognised only as between the colonus or the house-tenant and his
landlord, 1 jj. i{. 146. ^ s.u. reluere. 3 Att. n. 17
and Fam. xiii. 56. ■* 20 Dig. 1. 5. » 13 Dig. 7. 9.
Digitized by Microsoft® 200 CONTRACTS NOT
CLASSIFIED. hypotheca was a transaction still confined to a
small class. III. A final improvement was effected,
perhaps shortly after the one just mentioned, when the Praetor
granted an action on. the analogy of the actio Seruiana, upon all
agreements of pledge of whatever description. From the creation of this
action, known as cuctio quasi Seruiana ^ or hypothecaria ", or
simply Seruiana^, dated the introduction of a law of mort- gage
applicable to objects of all kinds. The name hypothecaria, which we find
applied only to the last of these three remedies, implies either that
this was the only action available for all forms of hypotheca, or
else that the Greek term was not introduced until the contract had thus
become general. The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo-
thecaria was of course in factum concepta *, because the pactum
hypothecae never was treated as a con- tractus iuris ciuilis, though it
became in reality as binding as any contract. The words are
restored by Lenel° as follows, in an action by the mortgagee
against a third party : Si paret inter A™ Agerium et Ludum Titium,
conuenisse ut ea res qua de agitur A° Agerio pignori hypothecaeue esset
propter pecuniam debitam, eamque rem tunc cum conueniebat in bonis
D Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam neque eo nomine
satisfactum esse neque per A^ Agerium, stare quominus soluatur, nisi
eares A" Agerio arbitratu-tuo 1 4 Inst. 6. 7. 2 16 Dig. 1.
13. ' Bachofen, Pfdr. p. 28. * Ed. perp. p. 397 ; cf.
Dernburg, Pfdr. i. p. 78. ' ib. p. 81 ; cf. Budorfl, Ed. perp. 234.
Digitized by Microsoft® AQTIO HYPOTHEOARIA.
201 restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam index
N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a. No mortgage
can be of much practical use unless it empowers the creditor to sell the
thing pledged, so as to cover his loss. But it is evident that the
mere pledgee or mortgagee could have had no in- herent right to sell or
convey what did not belong to him. This was an advantage possessed by
fiduoia, since the property was fully conveyed and could therefore
be disposed of as soon as the condition was broken. The only way out of
the difficulty both in pignus and hypotheca was to make a condition
of sale part of the original agreement. This was un- necessary under
the Empire ^ when the power of sale came to be implied in every
hypotheca, but during the Republic the power had to be explicitly
re- served, or else the vendor was liable for conversion (furtumy.
Even Gains " speaks as though a pactum de uendendo was usual in his
time. Labeo describes a sale eoc pacta conuento^, but the usual name for
the clause of the agreement containing the power of sale was lex
ccmimissoria. When it became possible to insert such a clause is
uncertain, but Demburg seems right in maintaining that, as the lex
commis- soria was known to Labeo and to the far more ancient Greek
law, it must certainly have been customary at Rome long before the end of
the Republic. 1 13 Dig. 7. 4. 2 47 Dig. 2. 74 ;
Demburg, Pfdr. i. p. 91. ^ n. 64. * 20 Dig. 1. 35. = Pfdr. I.
p. 86 as against Baehofen, Pfdr. p. 157. Digitized by
Microsoft® 202 CONTRACTS NOT CLASSIFIED. The
custom of committing hypothecae to writing (tabulae), which is indicated by
Gaius', doubtless pre- vailed also in the Republican period, the object
of the writing being simply to facilitate proof When we
translate hypotheca by the English word mortgage, we must not forget that
the latter denotes technically a conveyance defeasible by con-
dition subsequent, closely resembling ^cZwcia, where- as the former
denoted the mere creation of a lien. On the other hand it is true
that our modem mortgage has lost its original resemblance to fidma,
and has now become almost identical with hypotheca. Art. 3.
Praediatvea. This was a peculiar form of suretyship which the Roman
jurists never treated as a contract, though it doubtless had a very
ancient origin. It was connected with the public emtiones and
locationes, and was the regular method by which contractors or
undertakers of public work gave bond to do their work properly.
The transaction resembled the giving of sponsores in private law.
The friends of the contractor who were willing to be his sureties
(praedes) appeared before the Praetor or other magistrate, and entered
into a verbal contract by which they bound them- selves with all that
they possessed. The magistrate, we are told, asked each surety "
Praesne es?" and the surety answered "Praes"\ This has
every appearance of having been a formal contract like sponsio, and
it is difficult to accept the view of Mommsen ^ who considers that the
publicity of the » 20 Dig. 1. 4 ; 22 Dig. 4. 4. 2 Paul.
Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema, p. 468. Digitized
by Microsoft® PRAEDIATVRA. 203 transaction leads
us to infer its formless character. If we follow him in assuming that
praedes and praedia were purely public institutions, how can we
explain the existence of the praedes litis et uindici- arum, who
certainly appeared in private suits ', and how can we understand those
passages in Plautus and Cicero which clearly refer to praedes and
praedia in private transactions ^ ? If then we deny to prae-
diatura an exclusively public character, we must class it with sponsio
and uadimonium as another formal mode of giving security. The
etymology which explains the word praes as being the adverbial form of
praesto is undoubtedly false '. Ihering and Goppert ■* suppose that it
comes from the same root as praedium, and means one who undertakes
a liability. But in the Lex agraria the spelling is praeuides instead of
praedes, and this indicates rather that the true derivation is from
prae and uas ', in the sense of " one who comes forth and binds
himself verbally "^ Pott' thinks that uas was the generic term for
surety, and that praes was a composite word meaning a surety who
makes good (praestare) what he undertakes. Where the derivation is
so uncertain no safe conclusion can be arrived at, and the origin of the
contract must, in this case as in that of the primitive vadimonium,
remain an enigma. ' Cf. aduersariw, Gai. iv. 16, 94. 2
Plaut. Men. 4. 2. 28 ; Cio. Att. xiii. 3. 1. 3 Eivier, Untersuch.
p. 29. * Z.fiir RG. iv. p. 26.^. ' Fas bomfari, or uas from a root
meaning " to bind." 8 Dernbur'g, P/dr. i. 27 ; Eivier,
Untersueh. p. 14. ' Etym. Forsch. iv. p. 417.
Digitized by Microsoft® 204 CONTRACTS NOT
CLASSIFIED. The obligation of the praes was enforced by com-
pulsory sale, the details of which we unfortunately do not know. The
expression praedes uendere^ shows approximately how the right was
enforced^, but it is uncertain whether this ^ meant to sell the
property of the surety, or merely to sell the claim of the State against
him K Besides the personal responsibility thus assumed by the
praes, there was another kind of security known as praedium^ which the
principal might be required to give. If the praedes furnished by
him were not sufficient, praediwm might be required as an additional
safeguard'; but we also find that praedes or praedia might be separately
given'. The form in which a bond of praedia had to be made
was a written acknowledgment in the Treasury (praediorum apud aerarium
subsignatio), and the only object capable of serving or being pledged as
a praedium was landed property owned by a Roman citizen, and
possessing all the qualities of a res mancipi^. Hence the seciirity of
praedia could not in many instances have been available, for the
whole of solwm prouinciale and the holdings of ager publicus in the
possession of occupatorii would of course have been excluded. The amount
of ' Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5. 2
Dernburg, Pfdr. i. p. 28. ' Cic. 2 Verr. i. 54. 142. * Goppert,
Z.filr EG. iv. p. 288. ' Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put.
parieti faciendo, Bruns, Font. p. 272, aes Malac. cap. 64. ' ae»
Malac. cap. 60. ' e.g. Lex Acilia repet. 61, 66, 67, and Festus
s.u. quadrantal, 8 Cic. Place. 32. 80. Digitized by
Microsoft® PRAEDIORVM SVBSIGNATIO. 205 praedia
which had to be given was entirely in the magistrate's discretion ^ and
to help him in his decision we find that there existed praediorum
cognitores^ who were probably persons appointed to assess the value of
praedia, and responsible to the State if their information was
wrong. As to the nature of the transaction effected by
praediorum subsignatio, there can be no doubt that the old theory held by
Savigny and others is incor- rect ', and that the State did not in virtue
of svbsig- natio become absolute owner of the praedia. Rivier and
Demburg * have demonstrated that the State merely acquired a lien, and
that praediorum sub- signatio was therefore a species of mortgage.
The classical sources fully support this view", and it is
certain that while the property was subject to this lien its owner still
had the right to sell it and to exercise other rights of ownership*. A
public sale (uenditio praediorum) followed closely no doubt upon
the default of the debtor, but did not neces- sarily accompany the sale
of the goods of the praedes^ (uenditio praedium). At Rome the former sale
was made by the praefecti aerario, and in the Lex Mala- citana the
duumvirs or decuriones are empowered to make it °. A peculiarity
of the sale of praedia was that the ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns,
Font. p. 84. 2 aes Malac. cap. 65. 3 Savigny Heid.
Jahrsch. 1809, p. 268 ; Walter, E. G. p. 587 ; Hugo, R. G. 449.
* Pfdr. 1. p. 33. ° Varro L. L. v. 40 ; Lex agraria, 74. 8 50
Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; Cie. 2 Verr. i. 55. 144. 8 cap. 64;
Bruns, Font. p. 146. Digitized by Microsoft®
206 CONTKACTS NOT CLASSIFIED. dominiwm residing in the owner
became instantly transferred to the praediaior or purchaser from
the State, without any act on the owner's part. The only advantage
reserved to the dispossessed owner was an exceptional right of recovering
his property from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious
usucapio S one of the few instances in which it was possible to exercise
usucapio otherwise than with a bona fide colour of title. In this case,
as the praedia were always land, the statutory period of two years
was necessary to complete the adverse possession. The lex
praediatoria mentioned in the aes Malacitanum" has been thought to
be a statute of unknown date; but it more probably denotes some
collection of traditional terms used in praediatura and analogous to a
lex uenditionis in a contract of sale °. The restoration of
"praediatoria " in Gains' is doubtful, and "censoria"
seems much to be pre- ferred. The operation of praediatura as
a general lien on all the property of the praes was probably re-
cognised in the Republican period, although Dem- burg° has doubts on this
point. Such a lien is found in the Lex Malacitana in the time of
Domitian, but this may have been an extension to the public
aerarium of the general hypotheca belonging to the Imperial Fiscus. At
any rate, there is no evidence that the lien did not exist in our period ;
and if it 1 Gai. II. 61. « cap. 64. 3 Boecking, Rom.
Priv. B. 294. * IV. 28. 5 Pfdr. X. p. 42.
Digitized by Microsoft® ACTIO QVOD irssv. 207
did, we can readily see that the security of praedia- tura was
superior to that of sponsio. It is perhaps natural that the subject
of praedes and praedia should be obscure, for the complicated
nature of the law of praediatura is attested by Cicero \ who states that
certain lawyers made it a special study. Art. 4. AcTiONES
ADiECTiciAE. Besides intro- ducing the actio mandati, the Praetor's edict
en- larged the scope of agency by instituting several other
important actions. These were the actiones quod iussu, exercitoria,
institoria, tributoria, de peculio and de in rem uerso. In all of them
alike the Prae- tor's object was to fasten responsibility on some
superior with whose consent, or on whose behalf, contracts had been made
by an inferior. They are known as actiones adiecticiae, because they
were considered as supplementing the ordinary actions which could
be brought against the inferior himself ^ As they made the principal
liable on the contracts of a subordinate, it is plain that they must
have been a most useful substitute for the complete law of agency
which the Romans always lacked. The fact that they all had formulae in
ius conceptae points to a late origin, but they all doubtless
origi- nated before the end of the Republic. (1) The actio
quod iussu was an action in which a son or slave, who had made a contract
at the bidding of his pater familias, was treated as a mere conduit
pipe, and by which the obligation was directly imposed on the pater
familias who had 1 Balb. 20. 45. = 14 Dig. 1. 5. fr. 1.
Digitized by Microsoft® 208 CONTRACTS NOT
CLASSIFIED. authorized it. Since Labeo mentioned the action
as though its practice was well developed in his day ', we may
fairly suppose that iussus was made action- able in Republican
times. The formula was as follows : Quod iussu N^
Negidii A" Agerius Gaio, cum is in potestate N'' Negidii esset,
togam uendidit qua de re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium
A° Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex iV™ Negidium
patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a. Here the express comniand of
the superior was the source of his obligation. (2) The actio
exercitoria was an action in which a ship owner or charterer {exercitor)
was held directly responsible for the contracts of the ship master "
(ma- gister nauis). Its formula probably ran as follows: Quod A^
Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis quam N' Negidius exercebat,
eius rei causa in quam L' Titius ibi praepositus fuit, incertum
stipulatus est qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium
A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N™' Negidium A"
Agerio condemna. s. n. p. a.- It was known to Ofilius in the eighth
century of the city*, and was very probably even older than his
day. The necessities of trade were obviously the source from
which this particular form of agency sprang, because in an age of great
commercial activity, when even bills of lading were not yet
introduced, it was expedient that the delivery of goods or the
1 15 Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. 1. 1. ' Baron, Abh. aus dem
B. C. P. ii. 181. * 14 Dig. 1. 1. fr. 9. Digitized by
Microsoft® ACTIO INSTITORIA. 209 making of
contracts by the master should be equi- valent to a direct transaction
with the ship owner himself. (3) The actio institoria no
doubt had a like commercial origin. This was an action by which the
person who employed a manager (institor) in a busiuess from which he drew
the profits, was made liable for the debts and contracts of the
manager. This action was known as early as the days of Seruius
Sulpicius^, and its formula closely resem- bled that of the actio
exerdtoria. The difference between these two and the actio quod iussu
con- sisted simply in the fact that the iiissus or autho- rization
was special in the one case, and general in the other two. In the
actiones exercitoria and insti- toria an implied general authority was
ascribed to the agent in virtue of his praepositio^, whereas in the
actio quod iussu the agent had only an express special authority. Thus
the magister nauis and the institor were genuine instances of general
agents ; and we find therefore, as we should have expected, that
the acts of the magister and institor only bound the master when
strictly within the scope of their authority'. This is an excellent
instance of the manner in which Mercantile Law has developed the
same rules in ancient as in modem times. (4) The actio tributoria
was that by which a master was compelled to pay over* to the
creditors of a son or slave trading with his consent whatever
1 14 Dig. 3. 5. fr. 1. 2 46 Dig. 3. 18 ; Oosta, Azioni ex. p.
40. ' 14 Dig. 1. 1. fr. 7. •* tribui, 14 Dig. 4. 5. 5.
B. E. 14 Digitized by Microsoft® 210
CONTRACTS NOT CLASSIFIED. profits he had received from the
business. The formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio
qui in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia
merce peculiari negotiaretur, -infiertum stipulatus est qua de re agitur,
quidquid ex ea merce et quod eo nomine receptum est ob earn rem iV™
Negidium .4." Agerio tribuere oportet, eius dumtaxat in id
quod minus^ dolo malo N^ Negidii A' Agerius tribuit, N'^ Negidium
A" Agerio condemna. s. n. p. a*. This action was mentioned by Labeo
' and was there- fore probably as old as the other actions of this
class. The knowledge and tacit approval of the superior were here
the source of his obligation. (5) The actiones de peculio and de in
rem uerso were proceedings by which the master was required to make
good any obligation contracted by his son or slave, to the extent of the
son's or slave's peculium, or of such gain as had accrued to himself {in
rem uersum) from the contract. Their peculiarity, as Gaius has told
us and as a recent writer conclu- sively shows*, was that they had one
formula with an alternative condemnatio, which may be recon-
structed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio cum is in potestate
JV* Negidii esset, incertmn stipula- tus est qua de re agitur, quidquid
ob earn rem Lucius Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona,
eius iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio quod
penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N* Negidii inde versv/m
est, condemna. s. n. p. a. This » 14 Dig. 7. 3. " Baron, I. c.
p. 176. ■< 14 Dig. 4. 7. * Baron, I. e. pp. 136-69 ;
cf. Lenel, Ed. perp. p. 225. Digitized by Microsoft®
GONSTJTVTVM. 211 formula might be so modified that the
actio de peculio and the actio de in rem uerso could be brought
either separately or together. These actions were known to Alfenus
Varus^, and it is safe to say that they were introduced some time before
the end of the Republic. The knowledge or consent of the superior
did not here have to be proved. The difference between the actio
tributoria and the actio de peculio was considerable. By the former
the master contributed his profits and then shared in the distribution as
an ordinary creditor. But by the latter he became a preferred creditor,
and deducted from his profits the whole amount owed to him by the
son or slave. The peculium in the latter case was in fact only the
balance remaining after the debts of the son to him had been
satisfied. Art. 5. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To- wards the
end of the Republic we find two kinds of formless contract by which a
debt could be created, and both of which seem to have sprung fi-om the
requirements of Roman commerce ■'. I. Gonstitutmn. The
chief characteristics of this contract may be gathered from the
constitution by which Justinian ftised together the actio recepticia and
the actio pecuniae constitutae\ as well as from allusions in the
Digest. It seems to have been a formless pro- mise of payment at a
particular date ; depending on the existence of a prior indebtedness to
which the 1 15 Dig. 3. 16. == Ihering, Geist iv. 218-220.
3 4 Cod. 18. 2. 14—2 Digitized by Microsoft®
212 CONTBACTS NOT CLASSIFIED. constitutwm became
accessory^; unconditional^; en- forced by an actio pecuniae constitutae
of Praetorian origin which was in some cases perpetua and in others
armalis ; and available to persons of all classes. Constitutwm is
discussed by Labeo ', and is men- tioned by Cicero^ in a way which makes
it certain that the actio pecuniae constitutae existed in his day.
The action originated in the Praetor's Edict", and it was thereby
provided with a penal sponsio similar to that of the condictio certae
pecuniae. This leads us to infer that pecwnia constituta was
treated by the Praetor as analogous to pecunia credita ; es-
pecially as Gains • states that pecwnia credita strictly meant only an
unconditional obligation to pay money, while we know from Justinian's
constitution that unless constitutvmi was unconditional no action
would lie. But why should the penal sponsio of the actio pecuniae
constitutae have been so much heavier than that of the condictio, namely
dimidiae instead of tertian partis ' ? The reason given by
Theophilus' is that constitutum, was generally entered into by a
debtor in order to gain time for the payment of a debt already due, and
that the Praetor instituted this severe action in order to discourage
insolvent debtors from this practice. Labeo on the contrary says *
that constitutvm, was made actionable in order to enforce the payment of
debts not yet due. Both ' li Dig. 5.1. fr. 5 ' God. l.c. »
13 Big. 5. 3. ■» Quint. 5. 18. ' 13 Dig. 5. 16. » in. 124.
' Gai. IT. 171. 8 Paraphr. iv. 6-8. 18 Dig. 5. 3.
Digitized by Microsoft® TWO FORMS OF ACTION.
213 Labeo and Theophilus are probably right ', but each takes
a one-sided view. The Praetor's aim presu- mably was to enforce the
payment of any debt, due or not due, which the debtor had made a
renewed promise to pay at a particular date. The breach of a
repeated promise (for constitutum always implied a previous promise or
indebtedness) was doubtless regarded by the Praetor as a singularly
flagrant breach of faith ; and hence he compelled the defen- dant
to join in a penal sponsio dimidiae partis. This actio per
sponsionem was not however the only remedy for a breach of constitutum.
The Digest shows that the usual form of redress was an actio in
factum ", which ' probably had a formula as follows : Si paret
Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X millia Kal. Ian. se soluturwn
constituisse, neque earn pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse
quo- minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur debitam
fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam, Nunierium Negidium Aulo
Agerio condemna ; and that this actio in factum, existed in Gaius'
time as an alternative remedy seems probable from his language in
iv. 171. It is not likely that the actio in factum arose simultaneously
with the other; and of the two Puchta* is almost certainly right in
assigning the earlier date to the actio per spon- sionem, because the
custom of sponsione prouocare suggests an ancient origin. This sponsio,
like that of the condictio, was praeiudicialis, but it also
contained a strongly penal element. Its penal character was »
Bruns, Z. f. EG. i. p. 56. » 13 Dig. 5. 16. 2. ' Bruns, loc. cit.
p. 59. * Inst. ii. 168. Digitized by Microsoft®
214 CONTRACTS NOT CLASSIFIED. no doubt the reason why the
action could not be brought against the heir of the constituens, and
why it was annalis. As Bruns has shown, the remedy after one year
was probably the actio in factum'^, by which the plain amount of the
constitutwm could alone be recovered. Gonstitutvmn could be
employed for the renewal of the promisor's own debt {const, debiti
proprii), as well as of another man's {const, debiti alieni), and
this distinction was early allowed". In the later law it could also
be used to reinforce and render actionable an obligatio naturalis. But
this feature probably did not exist at the origin of the
action", for the Praetor could only have had in mind pecunia
eredita, when he inflicted such a heavy penalty. The effect of
constitutwm was simply to reinforce the old obligation by supplying a
more stringent remedy. It never produced novation as stipulatio or
expensi- latio * would have done. //. Receptwm.
The agreement by which shipmasters, innkeepers and stablemen
{nautae, caupones, stabularii) under- took to take care of the goods or
property of their customers was known as receptwm, and was enforced
by means of an actio de recepto as rigorously as the duties of common
carriers are enforced by the Common Law". The Edict was expressed as
follows : navtae CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore
RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM DABO ; ' Bruns,
loc. cit. J). 68. " 13 Dig. 5. 2. ' Bruns, ib. p. 69. < 13
Dig. 5. 28. ' Camazza, Dir. Com. p. 106.
Digitized by Microsoft® THEORIES AS TO RECEPTVM.
215 and the remedy was an ordinary actio in factv/m,
authorising the judge to assess damages for the loss or non-production of
the goods. But the contract which more nearly concerns us is
receptum argentariorum, the nature of which has been a subject of much
controversy. This was a formless promise to pay on behalf of
another man, and we gather from Justinian ' that it was capable of creating
an original debt; capable of being made svb conditione or in diem, and
en- forced by an actio recepticia, which was perpetua; while
Theophilus tells us' that it was confined to bankers (argentarii).
Bruns" indeed supposes that receptum was a formal contract iuris
ciuilis, while according to Voigt* it was a species of expensilatio
devised by the argentarii. Lenel^ however has proved that receptum
argentariorum was introduced and regulated by the Praetor in the same part
of the Edict in which he treated of the recepta nautarum,
cauponarum and stabulariorum. This appears from the fact that in 13 Big.
5. 27 and 28, constituere has evidently been substituted by
Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian treated of constitutwm
in his 27th book on the Edict": but the passage quoted in the Digest
is from his 14th book on the Edict, in which we know ' that he
discussed the clause Nautae caupon^s sta- hularii. So also Pomponius, who
discussed recepta 1 4 Cod. 18. 2. 2 IV. 6-8. » Z. fur RG. i.
51 ft. * fiSm. EG. I. 65-8. ' Z. der Sav. Stift. ii. 62 S.
« 13 Dig. 5. 16. ' 4 Dig. 9. 1. Digitized by
Microsoft® 216 CONTBACTS NOT CLASSIFIED.
nautarvm, &c. in his 34th book^ and constitutum in his 8th*, is
described' as mentioning the latter in his 34th book. Gains also is
represented to have dealt with constitutum in the very same book* in
which he treated of recepta nautarum^. We must conclude,
either that all these writers introduced into their discussion of recepta
naviarum &c. the totally irrelevant subject of constitutum, or
that the subject thus introduced was not constitutum but receptum
argentariorum. If the latter conclusion ' is correct, as we may well
believe that it must be, it follows that receptum, argentariorum was,
like the other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and was
therefore not a contract iuris ciuilis. By analogy with the other recepta
we may further conclude that receptum argentariorum was formless, and hence
cannot have been a species of eoopensilatio. The remedy was of course an
actio in factum. Recipere is used by Cicero* in the sense of
under- taking a personal guarantee, but with no clearly technical
meaning. Justinian states that the ouctio recepticia was objectionable on
account of its "solem- nia uerba," and Lenel has explained this
to mean that the actio recepticia, being necessarily in factum like
those of the other recepta, had to contain the words "si paret
soluturwm recepisse. n^que soluisse quod solui recepit," of
which recipere was a technical term. This term, being misunderstood
by the Greeks, was translated in Justinian's time > 4 Dig. 9. 1
fr. 7 and 9. 3. ^ 13 Vig. 5. 5 fr. 5. » ib. 5. 27. * ib. 5. 28. = 4
Dig. 9. 2 and 5. « Phil. V. 18. 51. ; ad Fam. xiii. 17.
Digitized by Microsoft® A MERCANTILE DEVICE.
217 by constitmre. It is almost certain that the actio
recepticia was known before the end of the Republic, since Labeo evidently
' discussed it. The function of receptum probably was to
provide an international mode of assigning indebtedness, because
transcriptio a persona in persona/m was not available to peregrins'. The
existence of the debt between the creditor and the original debtor
was clearly not affected by the obligation of the argen- tarius who
had made a receptum; and from the passages above cited Lenel also infers
that receptum pro alio was the only known form which the contract
ever took. In short, it seems to have closely resem- bled the acceptance
of a modem bill of exchange", and it was doubtless made by the
argentarius on behalf of his clients or correspondents. 1 13
Dig. 5. 27. ' Lenel, Z. der Sav. Stift. n. 70. 3 Carnazza, Dir.
Com. p. 93. Digitized by Microsoft®
CONCLUSION. We have now traced the development of the
Roman Law of Contract from an early stage of Formalism, in which few
agreements were actionable, and those few provided with imperfect
remedies, to the almost complete maturity to which it had attained
by the end of the Republia Of all the contracts which we have
examined, nexum and uadimoniwn seem to be the only two that became
obsolete during this period, while the new contracts of Praetorian
origin, such as depositwm and constitutum, attained their full growth, as
we have seen ; so that the jurists of the Empire found little to do
besides the work of interpretation and amplification. The one
great improvement, and almost the only one, which the Law of Contract
underwent sub- sequently to our period, was the introduction of the
actiones praescriptis uerhis, by which the scope of Real Contract was
immensely enlarged. Li other respects, the Law of the
Republic has the credit of having generated that wonderful- system
of Contract which later ages have scarcely ever failed to copy, and which
lies at the root of so much of English Law. Francesco Fisichella. Fisischella.
Keywords: il duello, “del contratto” – giocco come contratto – wrestling as a
contract, fencing as a contract, contract bridge as a contract -- pena
temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale,
obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fisichella” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760247338/in/dateposted-public/
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