Grice ed Alvarotti – retorica – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Padova).
Filosofo. Nacque nell'antica
famiglia padovana Speroni degli Alvarotti nel palazzo di famiglia in contrà
Sant'Anna. Il padre Bernardino fu archiatra di Leone X, la madre Lucia era
esponente dei Contarini. Bambino prodigio negli studi, divenne professore di
semiotica a Padova a soli diciotto anni. Dopo pochi anni di insegnamento però
decise di approfondire gli studi a Bologna, da Pomponazzi. Alla morte di
Pompoazzi, ritornò a Padova dove insegnò per altri tre anni, fino al decesso
del padre; dopo di ciò dovette occuparsi attivamente della sua famiglia.
A questo periodo risale la composizione dei dialoghi che verranno pubblicati
dall'amico Barbaro con il titolo di Dialogi: sono il “Dialogo d'amore”, “ Della
dignità delle donne”; “Del tempo di partorire delle donne” e “Della cura
famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della Discordia”, seguiti
da quello “Delle lingue” e da “Della retorica” e infine quello “Delle laudi del
Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e quello Intitolato Panico e
Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di Speroni, nonostante siano
stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati riconosciuti, e hanno
avuto decine di ristampe nel corso del Cinquecento. A questo periodo
risale anche la composizione del “Dialogo della vita attiva e contemplativa”
che non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora sconosciuti.
Membro dell'Accademia degli Infiammati e amico di Tasso si occupò della
revisione della Gerusalemme liberata. Fu autore della Canace, pubblicata a
Venezia, tragedia che darà seguito a
un'accesa polemica tra l'autore e Giambattista Giraldi Cinzio. In seguito
intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a proposito dell'”Orlando
furioso” e del romanzo come genere letterario. Si trasferì a Roma dove divenne
amico di Caro. Tornato a Padova compose i “Discorsi Su Alighier”,
“Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo della istoria.” Fu fautore
di un classicismo ancor più estremo di quello del vicentino Trissino, cui
rimproverava di aver tratto dalla storia e non dalla mitologia il soggetto
della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e, naturalmente, nel pieno
rispetto delle unità aristoteliche, si ispirò alle Heroides ovidiane per la
Canace. Fu sepolto nella Cattedrale di Padova negli avelli degli
Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne in seguito eretto
un monumento ad opera di Girolamo Campagna. Sperone Speroni. OOpere
di M. Sperone Speroni-degli-Alvarotti tratte da' mss. originali, Marco
Forcellini, Venezia, Occhi, Sperone Speroni, in Trattatisti del Cinquecento,
Mario Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Francesco Cammarosano, La vita e le
opere di Sperone Speroni, Empoli, Tipografia R. Noccioli; Francesco Bruni,
Sperone Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in « Filologia e letteratura »,
Francesco Bruni, Sistemi critici e strutture narrative (Ricerche sulla cultura
fiorentina del Rinascimento), Napoli, Liguori,
Amelia Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre
e sui fratelli di Sperone Speroni degli Alvarotti, in « Atti e memorie
dell'Accademia di Padova », Padova, Tipografica G.B. Randi, Amelia Fano,
Sperone Speroni, Saggio sulla vita e sulle opere, I, La vita, Padova, Fratelli
Drucker, Piero Floriani, I gentiluomini letterati. Il dialogo culturale nel
primo Cinquecento, Napoli, Liguori; Adelin Charles Fiorato, Jean-Louis Fournel,
Il “camaleonte” e il “cuoco”. Sperone Speroni e la critica del romanzo, in «
Schifanoia », Stefano Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme
poetiche rinascimentali, Napoli, Vivarium,
Stefano Jossa, Verso il barocco. Sperone Speroni e Borromeo (tra
retorica e mistica), in « Aprosiana »,
Mario Pozzi, Le lettere familiari di Sperone Speroni, in « Giornale
storico della letteratura italiana » Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e
Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in M. Pozzi, Ai confini della letteratura.
Aspetti e momenti di storia della letteratura italiana, Alessandria, Edizioni
dell'Orso, Sperone Speroni, volume monografico di « Filologia veneta », Padova,
Editoriale Programma, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Camillo Guerrieri Crocetti,
Sperone Speroni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Sperone Speroni, su sapere, De
Agostini. Luca Piantoni, Sperone
Speroni, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Sperone Speroni, su
Liber Liber. Opere di Sperone Speroni, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di
Sperone Speroni, su LibriVox. Michele
Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli Alvarotti. Speroni
degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alvarotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691959454/in/photolist-2mUvToR-2mSEtHs-2mRcn9c-2mNzeEc-2mPtp3t-2mKQNCf-2mKbkhx-2mGnP2f
Grice ed Amaduzzi – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Savignano di Romagna). Filosofo. Grice:
“Oddly, I had an occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in my little thing
on Caesar crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes about the
academy of Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the English
Acadeemy! He notes that the warrior – against the Trojans, was Echademos – and
‘it is naturally that the first important Accademy was founded in Tuscany, --
since a Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to collect
references to ‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only ONE has a
‘rigid’ designation link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di Giovanni Bianchi
(Iano Planco), si trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua attività di
ricerca ed erudizione, sia pure tra numerose ristrettezze. Un assestamento nella
sua vita si registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo, come
rilevano i diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici autunnali
eruditi), le brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città eterna o
comunque entro lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario di
viaggio che mostra chiaramente la sua versatilità di interessi. Grazie
alla protezione del papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal
1769 fu professore di lettere greche presso La Sapienza, mentre dal insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era
anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da
Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale
curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti
trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano,
l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam. Per i suoi studi ottenne
ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale settecentesco,
entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con Pietro Metastasio,
Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo Tiraboschi, nonché
con Lazzaro Spallanzani. Fra le sue pubblicazioni spiccano anche
dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo di un
illuminismo moderato: infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata della
religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i quali fu
denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al filosofo
inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il cattolicesimo,
poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza dell'uomo.
Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla
ultradecennale corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa
nella discussione che portò al decreto di soppressione della Compagnia del
Gesù. Si occupa anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii
veteris Romae” -- e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito
s'inscrive l'ampia corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori.
Compose, inoltre, canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la
Stamperia del Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte. Fu tra gli
accademici dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo. Opere
principali: Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo
delle instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria
duo graece loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses
S. Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità
dell'Accademie, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata
della religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia,
Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai
torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum
archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De
veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B.
Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et
suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus
Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla
Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati,
Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti,
Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae
imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum
Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum),
Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano
et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum
Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);
Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de
Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud
G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de
propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae
finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma);
“Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum],
Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti
Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ.
Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de
Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano
ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio
Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del
centro: «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G.
Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e non)
su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi di
Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese. Note T. Scappaticci,Gli Odeporici di Amaduzzi, in
Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Cosenza G. Moroni, Dizionario di erudizione
storico-ecclesiastica, Venezia, Cfr.Metastasio,
Opere, V, Firenze, A. Cappelli, Del
carteggio inedito tra Ludovico Antonio Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi.
Studi archeologici, Tip. Perfilia, Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere
di Lazzaro Spallanzani all'abate Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta
stampate, Ditta tip. Conti, Faenza, L'espressione è di Antonio Piromalli. A. Piromalli, La letteratura calabrese, I, Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi,
Raccolta di antichita agrigentine alle quali si uniscono i disegni del tempio
di Teseo in Atene e di quello di Pesto il tutto espresso in 53. rami, Zempel,
Roma, A. Cappelli, V. Lancetti, Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi
finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi,
ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito, I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi,
Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei
Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario
Biografico degli Italiani, II, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e
la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III,
Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte
e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La
Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari,
Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti
clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A.
Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il
carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci,
Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini,
Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano:
Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della
Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Cristofano Amaduzzi,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Giovanni Cristofano
Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano
Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni
Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani
Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori
italiani del XVIII secoloLinguisti italianiPoeti italiani del XVIII
secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia. Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu
una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque
di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da
Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD
S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense
traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim,cujussintab ipso saeculi
XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò
tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa
buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese
gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare
ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene
lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e
sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio.
Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse
usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato
LONCIANI DI 1... procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma
lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli
piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato
Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa
città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello
del Bianchi si cessò dalla sua scuola, e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762.
Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire
come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se
nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò
gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano
Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più
splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere gliuominidotti,e,fattanerac
colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera conforti, e quel che più è,senza
pompa di fasto in mezzo ad una vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol
tialtri tacere,non passerò sotto silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani,
Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca
diYorch, einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato.
Che anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro
se ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto,
all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e
dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè
14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e
nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare
idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un
giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla
giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in
sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea
svolgereleoperedel Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di
somiglianti, sdegnoso di quell'ammasso informedi leggi,di prati 6
che, di consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la
verità e la giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di
studii pub blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite
degli imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso
avremo a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o
critico acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii
teologici,(perocchè a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego
ecclesiastico) ecome simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve
in questa scienza pure entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P.
Marcelli agosti niano; e tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s.
Agostino, che a difesa delle medesime ebbepiùvoltea
combattere.Siconobbepurediquel la parte di diritto, che io dirò sacro perché
riguar. da la canonizzazione dei Santi, e si esercitò in più cause, essendo
promotori dellaFede monsignor Forti prima, e monsignor Pisani dappoi. M a dove
più di forza intese fu nella cognizione de'sacri canoni, indispensabile a chi
voglia penetrare nelle ecolesiastiche antichità con sicurezza digiudizio.
Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei
canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva
formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto.
Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva
d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere
lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli, l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime
d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla
sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11
novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava
provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con
venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese
vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una
raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi 7 In questo mezzo
essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua
greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio
glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma il 25. giugno del 1769.
Il 10. febbrajo dell'anno seguente poi essendo passato di vi ta l'abbate
Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto,
della segreteria di Stato fu nominato a quell?uffizio inluogodel
defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode a,lui doyuta, qual è di aver
meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non averli com perati con viltà di
adulazione, o tristo mercimonio di corte. Anche,un altra lode si ebbe
l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro Jano Planco; peroc che si
adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice, e gli siaumentasse
l'onorario che aveva in patria, e quel che è più rimarchevole scampasse dal
1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co sadi rilievoassai,perchè
troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il privato risentimento dei
yo- 8 non si cessando mai dalle sue erudite occupazioni, ac-. cresceva ad
un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse a sostenere fin dai primi
anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie perpetue dei buoni
ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al dottor Giovanni Lami
scritta li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le nostremuse quella
tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che corrono. Pure non
ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che spero,non inter metto
lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon
teficeMassimo LorenzoGanganelli,tuttaRoma,che
benediluisiconosceva,seneallegro,e piùchemail'A
maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso= sotto
questopontificatocomincianoarisorgerelelettere=.E
perchèquellagranmentecheeraPapa Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e
gli uomini, che per quelli hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin
cipea questo sivolse,e cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva
speziale stima, e benevolenza. 1. tanti al bene del pubblico. Quanto
poi studiasse por gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice
lo danno a vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper
lomondo,chenon è permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra
glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo
dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la
cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la
morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:1780 il 27 9 salito, e la
grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera,loa parola del vero captivavasi cui egli
collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e, se egli vevano, avría
posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che non
volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il averloa
socio,enon non si onorasse commercio di let;non giornale che non si riputasse
tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i suoi 6.
febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di Cortona il 5.
jo del 1769., all'accademia del 1773, del 1771, alla Fulginea li 29. gennajo
aprile col nome diNestore.1 8. a quella dei Forti in Roma del 1774,e ne scrisse
a modo delle dodici ta ottobre col nome di Biante Didimeo
voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775; all'accademia dei Placidi di Re
del 1775; alla società georgica dei canati1'8. aprile 1779: all'acca Sollevati
di Montecchio il 31. ottobre demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto
diVerona il4. giugno del del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria
diFirenze 1782:alla società degliAffidatidi Pavia il bre del 1785.,
all'accademia di Dublino li del 1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla
reale di Scienze 21. novembre dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al
eLetteredi Mantova letterarjdi quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali
Pressocchè tutti gli articoli provegnenti da R o m a senza me d'autore del
Lami,le quali furonopoi continuate n o, che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle
Novel le Letterarie,sono cosa dell’Åmaduzzi. Ebbe anche mole dal Lastri di
Palermo,nell'Ef ta mano nelle notizie de’Letterati di novem e n
femeridi letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di
Firenze. Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti
uominidiqueltempo,fraiquali siami lecito nominare Lami, Bandini, Lastri,
Passeri, Olivieri,Mandelli, Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz
zi,Bianchi,PietroBorghesi,ePasqualeAmati suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi
aveva corrispondenza di lettere estesa più che mai, come si può vedere da mol
ti volumi che esistono manoscritti nella pubblica li brería di Savignano., Chi
potesse, dice ildottissimo Isidoro Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli
scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere e regalare al pubblico tutte le lettere
famigliari, che il nostro Cristofano ha nel corso della vita iscritte a tanti e
così dotti amici d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di
moltissimi volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha
vivendo rese pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi,
la quale ci presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi
fatti e singola ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel nostro
secolorapidamente succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi notizie del
giorno formaro no una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli ben conosceva
le corti, e i ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar modo i
principi, ei loro rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla ambisse, pure
aveva voce in corte,e ilPapa volentieri l'udiva,
eglifidavacosed'importanzaassai.Ma poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a
fato immaturo, la fortuna si volse contro l'Amaduzzi, il quale dovette sentirne
i colpi più avversi eduri a sostenere.Alcuni glidavano
tacciadimalfilosofo,altrialtrimentiil'mor devano.Ilmondo parteggiava avarie
fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi, perchè egli non istudiava ad alcuna,
anzi combattevale tutte per seguire la verità, Non mancavano forse le gare
degl'invidi, e di quegli che volevano fargli scontare a caro prezzo labenevos
lenza che aveva goduta di Papa Ganganelli. Nel 1790. usci un libello famoso
contro di lui senza data di luo. go, Aveva per titolo Lettera di un viaggiatore
istruito, ad un amico di Rama risguardante principalmente la ! 10
dottrina dell abbate Cristoforo Amaduzzi. Era quel libro una catena di
calunnie e d'infamie; non più che sedicipaginesistendeva,ma insedicipagine chiude
vaquantopuòlarabbiastemperareinmoltivolumi.Ven devasi inRoma,ma senza luogo
enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si stette e starà
sempreocculto:elomerita.L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse alle male arti
dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo rispondere e
scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono
Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le
stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI,
anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1)
infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità
all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col
trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole
che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al
fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte
cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di
filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti
non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro
gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella
nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da
Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie
superstizioni e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in
quello stesso che la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa
alla Religione.E apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è
guida e conforto degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce
dalla carità cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi
cui scompare ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il
suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere
sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente
di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello
che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella
sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta
inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia menteamicodinovità,elomandadelparicolPe
reira,colTamburini,colNatali,ecolZola.Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e
per bassissima vendetta, sitravede in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben
fe? a punirlo collo sprezzo dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del
1791. ottenne di essere giu bilato dalla cattedra di lingua greca nel
collegioUre bano, e il decreto n'è molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso
anno cadde malato, e giudicarono che egli avesse pericolosa ostruzione alla
milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare
rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe ranza di riaversi. Anima nobilissima come
era,accettò l'annunzio del pericolo suo con serenità di volto, e tranquillità,
e adoperò in quello stremo da quel filo sofo cristiano, che per tutta la vita
aveva mostrato. Sia qui debita lode ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi,
che luisoccorsero generosamente in ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da
sè di sostenere lunghe spese di malattia; non avendo mai voluto far denaro,anche
potendolo.Ne glimancarono buoni ami ci in quell'estremità,che ben n'aveva di
tali; sebbe ne egli fuor del mondo col cuore solo fidava in Dio, e però presi i
conforti della chiesa, dispose delle poche cose
sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età di soli 51. anni. Morendo
lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il meglio dell'eredità sua;
legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e pel carteggio. Fu pore țato
al sepolcro in abito clericale suo principale o r n a mento edecoro,come,egli
primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti, come siè detto, gli ordini
minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita di tantuomo.L'abbateOssuna
ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne inserì un bell'elogio nella
gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali eça clesiastici di
Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera
degliScrittoriitalianinefeceun bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto
nella reale accademia delle scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre
del 1793. dall'abate don Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere
dell'illustretrapassato; catalogo â cui rimetto i miei lettori, perchè penso
che di m e glio non si possa fare. Basti sapere che ilnumero delle opere
dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che inedite rimangono nella biblioteca
savignanese vanno oltre à cento venti, é ve ne ha alcuni di gran mole. Non
possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni 1 Amaduzzi si ebbe grandi
amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum Theodosiiju
nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice così = Ai
colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era in R o ma
occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure sitravagliava
dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte dello
stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che la
prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la medesima
più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno del
1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le
suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del
Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e
dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello
stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma
(Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina
fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in
confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il
Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel
medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to
dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini,
attaccando l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella
sua edizione] La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano
estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi inpari tempo;amendue vi ponevano
studio intorno per illustrarle;l' uno in sciente l'altro le pubblicava. Or che
male è qui? lo avviso che se i giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata
l'edizione faentina non si sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè
da alcun altro. M a il Zirardini punto dalle parole dei giornalisti d ' Y
verdon, e rinfocato dal Marini, che vedeva forse di
mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non era amico più che
d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma piùper le lettere
del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u b blica
biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed avventarsi contro
l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci fico
era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si fe'
innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto che
buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente l'Amaduzzi,
nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere la cosa, diè
le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove
avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere
conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc
silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas
Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas
faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii
Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab
ipso Ruggerio jampridem obti, nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum adnota
tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap 999 » 14 romana si
fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione faentina.
L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre si fece
un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta all'invidia
avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non tardòapubblica re sotto
il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92 99 jypáratu rem
perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam curandam susciperemus,
innotuisset, w cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam;
eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli
scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò
che francamente il Marini afferma nella sua im.
mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver
lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento
te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva
all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi
pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini
piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu
uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti
umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si
prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la
sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della
prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in
Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal
Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva
volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la
fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai
posteri le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno
a lui caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si
levava a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per
diversi luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e
molti ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute,
o fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversiitaliani,iquali,comecchèritraggano
assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo
delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e
l'amici xia che lo lego al Winckelman, al Bianconi, al Bottari; 16 'e ai
primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle
lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla
real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae
delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre
del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed
essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel'8. gennajo del
1782 con più largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè
il 24. luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli
volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa
tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando
ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella
chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i
principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una
'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò
pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione
scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di
Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo:
Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi. Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo puresarà
in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei trapassati, a
stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli
elogidiquantireseroillustrelapa tria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del
Barbaro, dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica-
miglia Amaduzziin Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF.
G. I.DI BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim
diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine
praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬
norummonumentaadaeternitatemcon- ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta,
vel male confi- ftentia oculis nofiris obverfiantur, intimo quodam doloie
percellimur, & aegre licet, indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum
conditionem agnofeimus. Ceterum is eft de animi
noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus, ut veluti tacite
ab eo profe&um intelligamus tum de- fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬
quirendorum, tum lolertiam, quam in lifdem vel reipfia con¬
fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬ dimus. Haec peragentes
videmur quodammodo inanimatis re¬
busnoftramtribuereimmortalitatem,qui&eafdempofteritati commendemus,&earumdempraefidiovelutinosipfosadtranf-
acftas remotiffimas aetates, ad quas pertinent, transferamus, atque I
II atque ita exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo, vel
compenfando nobis libentiffime blandiamur. Quae ergo veterum artes, &
profeffiones condiderunt, Signa, Pro- tomas, Hermas, Anaglypha, Sarcophagos,
Titulos, cetera- quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha,
quem Tuae aetatis perpauci, plures fequiorum tem¬
porumimitati,tumMulca,&Villasiifdemlucupletantesa litu,Iquallore, quin&
interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum cefolTet haec ipfa follicitudo,
nili typorum etiam accefliffet luccenturiata fedulitas. Quot enim diffracta
Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot vel avulfa, vel rurfus obruta,
atque etiam foede difrupta, quae ibidem exfiftebant,
monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt1Quarelae¬ tandum nobis elt, eo
pervenille humanae mentis acumen,
utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim inferre non
dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬
veritpraelidia,quibusdiuturniorihuiufmodimonumentorum confervationi
prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum col¬ lecta monumenta perierunt,
perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel typis aeneis contignata, vel
doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc autographorum deliderium nobis
reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob cauffam, neque etiam abfimili
ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci, &: Afdrubalis ex Matthaeia
gente Procerum, & lovii Marchionum tum in Hortis Caelimontanis, tum in
Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata fuerunt omnis generis
monumenta, nunc primum aereis formis infoulpta, nollris il¬ ludi ationibus
ditata, in unum collecta, rite dilpolita, ac tribus comprehenfa Voluminibus preli
beneficio in publicam lucem
emittuntur.Licetenim,utfuolocomonuimus,&deinceps etiam monebimus, multa
eorum a prioribus hilce domiciliis pro- III
profectainceleberrimumilludMufarumSacrarium,Mufeum nempe Clementinum Vaticanum,
conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura, tamen non omnia illuc fe
receperunt, multa quinimmoproculiamabiere,acmultaetiamindiesfatifcunt. Videt,
credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae
olimfuerittantamonumentorumcongeries,unooculiiftu
perluftretur,tumdomi,&foris,tumpraefenti,acfuturo tempore innotefcat.
Deliderandum quidem erat, Hortos, & Aedes Matthaeiorum tantis confpicuas
monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis, numquam cum iis
com¬ parandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬ modo
inferiores & haberentur, & effient •
II.Poftquamlitterarum,&veterumfcriptorum,rnonu- mentorumque ftudium
adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi, barbariem a Gothis,
Langobardis, ce- terifque feptentrionalibus populis inaufpicato invectam Italia
exfulare iulfierunt, homines conformare fe urbanitati, cultui, &
magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione facta coeperunt. Inter
cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus impenfius excreverat,
&.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata omnium iudicio
cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius, nihil amoenius,
nihil praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, &
aedificii decore, &: operum copia haberi poterat. Exftant nunc etiam Tibure
Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat, & ex
qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta prodierunt, ut
iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium- que
praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi
Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum
Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos
Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii
Crucii, inferius citandum - Omnium IV ager multis aliis privatorum
civium fecedibus longe clegan- tiffimis, inter quos omnium deliciarum genere
conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium
Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium, Quintilium Varum,
Marcum Lepidum, & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant.
Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2), quod fuerat antea Syllae, tum For¬ mianum,
Cumanum, Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu, & nemore
infigne, atque Academicis quaedionibus facrum, Pompeianum. Celebre &
Horatii diverforium in Sa¬ binis (?), Catulli extra Portam Valeriam ad ripam
Anienis (4), Senecae in via Nomentana 5), Martialis ibidem C6), & longo
laniculi ingo (V, aliorumque. III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates
opulentia, luxu, & litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt
amoenidima, quorum primum illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi.
inchoatum tandem perfecit Ioh. Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends
Eccleliae Epifcopus, cuius fata & Francifcus Marianius (s), &
Felicianus Buldus (9) late alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec
caruic praefentia IOSHPFII II. Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria
marmore infculpta haec Imp. Caef. lofepho. II Petro. Leopoldo. M. Etruriae.
Duci Archiducibus. Andriae. Germanis. Fratribus PP. FF. AA Hadrianae. Villae.
vedigia In. hoc. fundo, ac. vicinia, confpicua Huius. Villae. Dominus,
demondravit Iofephus. Eqiles. de. Fide Aulae. Caefareae. Confiliarius XIII.
Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro- lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de
Tafculano Ciceronis 3 nunc Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione
di Domenico de Sanctis tra oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio
Flacco; Roma pel Salomoni 1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne
d'Horaee par PAbbe Bertrand C.ap Martin-Chaupy; d Rome 1769. vol. III. (4)
Hendecafyll. XLII. (5) Epiff 104., & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib.
IV. Fpig. 64. (8) In Parergo de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de
Etruria Metropoli; Romae 1728. (9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del-
(2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti- laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬
ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri
Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa. Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium
Jocum fuiffe Tui- exaratis innuuntur: Nec V profequuntur. Tum
prodierunt, ac longe lateque inclaruerunt Horti Tiburtini, quos poft Card.
Bartholomaeum Quevam, qui aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis
exftruxit, permagnifico praetorio auxit, & antiquis ftatuis, picturis
regiaque prorfus fupelleftile locupletavit. Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem
translati funt, quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, &
iudicialifententia, eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii
Decano, donec purpura donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa
familia'inftauratum cft, novafque a legitimis dominis & additiones, &
reparationes poftea habuerunt(0. Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M.
Ant. Muretus, ac praedicarunt infuper Libertus Folietius (2), Ioh. Francifcus
Martius (s), Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W, Ferdinandus Ughellius 05),
Francifcus Scottius»), Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne
Riari, A quo primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct
flamina vitae Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus
praeclara Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci
praefes, tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari.
(0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios. Eftenfium. Principum Hortos.
iinmenfo. Card. Hippolyti Sumptu. praeruptae. rupis Afperrimis. cautibus In.
mollilTimi. clivi. penfiles Ambulationes. converfis Ac. terebrati. per. montis.
vifcera Duffcis. ex. Anniene. innumeris Fontibus. admirandos. ab. Aloyfio
nutius Magnificentiori. forma. conftru&i Et. venuftati. quam. vides
Reftituti Anno. Salutis. MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card. Ferrarien. ad Flavium
Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti Folieti Genuen. Romae
apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II. Thefaur. antiq. bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd.
Batav. 1704. (2) Hiflor. Tibure. Lib. V. num. 174. Thef.. Graev. Vol. III. pag.
4. (4) Antichitd di Tivoli di Antonino dei Re; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville
di Tivoli deferitte dall'Arc/prete Fa¬ bio Croce di detta Citta; ldilio divifo
in due rac- conti 5 nei quali fedelmente Ji narratio non meno le Ville, che
anticaraente v'ebbero, e frequenta- rono gl*Imperatori, Re con altri
infigniperfonag- Et.Alexandro.Cardinalibus
pi,ecelebrivirtuofi,raalamedefimadellaSere- Magna. fplendidi. cultus Acceflione.
nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II. Mutinae. Regii. &c. Ducis Vel.
abfentis. munificentia Fontes. ifli. temporis. iniuria. collabentes nijjima
Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad
Alpbonfum Ciacconium de Fontiff. Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de
Hippolyto Card. Eftenfi. (7) In Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631.
nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius (3), Ioh. Andreas
Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae publicavit Corona
Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum exemplo incenius
eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret,
quoslatedeferibemus,poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi
funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab
Alexandro Farnefio Card., Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium,
infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola, St praeclaris
Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii
picturis celebratiflimum b). Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu
Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente
Raphaele Sanctio, conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt
), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam
gentem, quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W
Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam
EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St
rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb). Quid vero memorem Hortos a
Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1)
Defcrizione topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae-
prarola &c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi.
Libro in 8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela-
zione iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca-
prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls,
& Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque
antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII.
eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie
Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma. In Ferrara nella Stamperia
Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra
va¬ rie Cbiefe, Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de
Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75-
utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama
vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII.
Cap. X. pag. 379-
baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd,
BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos? Ii namque a
Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o-
mnium oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque
illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim
adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in
Colle Hortulo- lum exfiflentes, a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, &
dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to, tum Magno Etruriae
Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, &
exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬
ficati. Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in
Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat
Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur,
quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas infuper referens, quas
& ipfius Palatium in Campo Martio
fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum
Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi
funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J, aliique
Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to
Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7.,,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7.,
161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI.
Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide. (3)
Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. &
feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli
vitas Barth. Platinae. Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit.
pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II.
Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud
Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬
ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi
Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium
(7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma,
loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52. fiveggono 3 pag. 29J. Vid.
fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag. 444. VIII
ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis Bentivoh Ferrarienfis,
quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut & lilvae lpeciem
praeberent, & labyrinthi b).Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-,
ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes, ante fe Tiberim,
SancTi Spiritus Fanum, & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana, fornaces
lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re-
fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert
ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera
monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue
emigrarunt b. NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini
Maximorum H). Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum
Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob
litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu-
ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum,
magniRaphaelis picturis, multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli
Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri
Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} &
BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154.
Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos
O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de. Dacia.
Triumphantis Captivorumq. Numidarum. Regum. Statuas Ex. Hortis. Caefiis Addito.
Aegyptiorum. Signorum. ornatu Porticuque. a. fundamentis. excitata Ad. augendam.
Capitolii. maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX "4) Vid. lulium
Iacobonium appendice ad Fon- umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid.
Fauftum Sabaeium Lib. 111. Epigram., 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6-
(6) Vid. Virum Cl. loh. Francilc. Lancellot-,m in vita Angeli Coloccii
praemilta operi, cui ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»'
IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in
Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini
Chifi per Blofum illadium. Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae
Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i
Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«
IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa
Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani ar- chiteftura, &
piHurae celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos
Vaticanos (0, quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim
conditus adnecleba- tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto
'ibidem delicio fane elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam
dedit, & perficiendam curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam
ad Tufculanum aedi¬ ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris
filius, quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard.
ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad
celebres Hortos Viminales, five Ex- quilinos, quos Sixtus V. condidit,
infignibufque ornavit ve¬
terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini dicti funt, quos
Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit, quofque dein
fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis O. Tum his
iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi- ciis
affines Horti Viminales Martii Frangipanii0), qui nunc
adStrotiamgentempertinent;atqueitafinisimponaturprae¬ cipuis, quae tulit
ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum
monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere
vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638.
(2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in
Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1.
(;) Carminum tib.II. pag.:8. Peretthm, fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim,
& Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine
deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos. (4) In inuro Hortor, prope
Bafilicam Tiberianam: Sub. praefidio. Deiparae I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus
Se. fuos. fuaque. conflituit Die. V. Aug. ann. Domini. MDCCVII (5) In fronte
Aedium: Sixto. V. Pont. Max Ob. collata In c‘. fe. beneficia Hortofque.
Viminales Au Flos Martius. Frangipanius Grati. animi. ergo b X quae
dein faeculo XVII. exftru&a funt. Tufculum quidem amoe¬ nitate loci multos
ad fe rapuit, & ad deliciarum feceffus ibi dem aedificandos invitavit.
Talis eft, quem Petrus Aldobran- dinius Clementis VIII. fratris filius regiis
prorfus impenfis, & apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu
nomen inditum est. Eidem etiam accepti referendi funt, qui in Quiri¬ nali colle
eius Aedibus iunguntur, & veterum nuptiarum pi¬ cturis, ex Titi thermis
addu&is, Horti potiftimum celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope
Portam Aureliam delicium fibi comparavit InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus,
eumlocum occupans, quemibi Horti Martialis olimobtinuerant (r). Quis vero pro
dignitate referat Hortos Pincianos fplendidiftimos, quos condidit Card. Scipio
Caffarellius in Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan-
tiorisantiquitatiscimeliis,tum&picturislocupletavit?Manillius, Montelaticus,
Leporeus, Brigentius, aliique C) latis fuperque eofdem celebrarunt. Nec iple
Paullus V. Burghe- (1) Infcriptlo ibi legitur: Petrus. Aldobrandinius
Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta. in. poteflatem. Sanftae. Sedis. Ferraria
Reipublicae. Cbriftianae. fallite. reflituta Villam. hanc Deducta. ex. Algido.
aqua. extruxit Vid. Villa Aldobrandina Ttefculana, & varii il¬ ($) Vid.
Epigr. LXIV. Lib. IV: Hinc Jeptem dominos videre montes, Et totam licet
aejlimare Romam. litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E-
pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647.
Tabulis XV., & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno
1604., ut docet Infcriptio, quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet
Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo
in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae
Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii. Romae 1716. fius. (4) Villa
Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico
Grignani 1650., in S. Villa Borgbefe fuori di PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano
nel di lei palazzo, e con le figttre delle Statue In. hoc. Colle. lani.
Bifrontis. memoria Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri
in8.DeorumConciliuminPinciisBurgbeftanis Suburbanum.hunc.fecefium Domo.
clauftro. flatuis. picturis Fonte. aviario. pomario. vinea Inftruftum. ornatum
Innocentius. Malvafia. Cam. Apo/t. Clericus Annonae. Praefe£tus. fibi. amicis
Animi. caufa. comparavit Anno.Sal. MDCCIIII
HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis
exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi-
Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen
profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii
1716. Romae 1716. 'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum
excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-,
&. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres &
antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus
locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte efi, quique Cardinalem
Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His neftantur Horti alii
Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens nobilillima de Co¬
mitibus, in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam
Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam
Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano
ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri,
& ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas? En Rufina Villa in
veitice Tufculi, ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut &
fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬
nusMelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani- culenlis Nobilia Villa,
cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit, nomen efi, quamque inter
Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum Vincendus Nobilius excita¬ vit
ri). Sed Ianiculenfem collem nulla magis confpicuum fecit, quam Pamphilia
Villa, cuius pi-oPpedum, delineationem, & praeftantiora monumenta typisaeneisper
Ioh. Bapt. Faldam inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens
Principi Ioh. Bapt. Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta
OJlienfis cofmograpbicis ta¬ bulis, & notis illuftrata > rujlicanis
legibus, officinarumque infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov.
Gngnanum 16jo.i,; 4. vid. Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2)
Vid.Tetium in Aedib. Barberin. p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio:
Villa. Nobilia Viator Hic. ubi. Aedes., ad. animos archi- Inter. amoena.
exhilarandos A. Vincentio. Nobilio. excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae.
de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu. Alfiatino. milliario. XIV Conceptae
Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae Emiffarium.exftruxifle. ne. fis.
nefcius Dixi. abi. felix. &. vale An. Sal. MDCXXXIX b2 XII
architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium Bono- nienfem pertineat (0.
Exquilinum vero collem tenet, atque ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones,
& sepulcri Nafonum Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea
Villa, quae extra Portam Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti
cultu conlpicua olim erat, nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua
iam ad alteram iuxta Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2). Dies me
de¬ ficeret, ficeterasminores Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam,
Urfiniam ad Arcus Neronianos, Gilliam via Portuenfi, Cafaliam in Caelimontio,
Gymnafiam in Aventino, Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria, Cinquiniam
viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare
memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat
extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis
memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere adire
confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi iam
degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum,
amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae
gentis Delicium extra Portam Aure¬
liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf-
feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis, quae Petrus
Sanctes Bartholius illuftravit W, & quo¬
(0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes }
vivaria, theatra > Card areolae3plantarum3viarumqueordinescumeiuf¬ dem
ahfoluta delineatione. Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur
haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid.Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol-
(2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur: cri degli antichi; &
opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma-
rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum XIII rum unum
eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him('), refertifiimum;
quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft
amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam, contra Coflagutiam Villam, novam
excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis,
Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis, quam
doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus, exoticis plantis,
pluribufque ex India, & America adveftis cimeliis abunde ditaverat, quae¬
que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc
acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis
monumentis ornatam, Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii
Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus. SecefTum quoque via Aurelia libi fecit
iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit hortos
topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia folo
fiimptu,Stfterilitate diftingueretur, quin potius ex ipfo luxu, &
oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia
fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab
Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R.
E.Cardinalis,quemmoxdirafatiforsperemit.Verumceteris fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen-
didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat
Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius, qui regio plane cultu,
Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca, Graeca, Sc Romana eiu- ditae
antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis
aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid.
EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni
Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga
(deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni
177^*PaS-34* plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus
Ioliannes Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae
Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae
Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus,
Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius
Bibliothecae curandae praepofitus (0. Cetera, quae ipfe intafta reliquit, eadem
plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes,
vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto
apparatui refpondent & picturae, quae au- btorem habent Antonium Raphaelem
Mengfium, cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime
acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, &
Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam
redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum, ti fplendiditTimum huius
Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3),
& Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae
Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem,
&: Romanorum Imp. electum, Romae degentem, anno cididcclxix. a. d. XIV.,
& V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam,
(0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c.
Torni II. Ro¬ ma 1767. in fol. (2) Ricerche fopra uti Apolline della Villa.j
dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772. Saggio di ojfervazioni fopra ttn
Bafforilisvo della Villa fuddetta (efprimente il voto di Bere¬ nice ) In Roma
1773. Ojfervaziom fopra un altro BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri-
mente Ercole domatore d’Echidna Scitica ). Dif- fertazione fopra uh fmgolar
combattimento efpreffo in Bajforiliem, efflente nelta Villa fuddetta, c cioe Ja
monomachia di Mennone con Achille). & prae- Filottete addolorato 3 altro
Bafforilievo tiella Vil¬ la JleJfa; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli Arcadi
per Velezio- ne della Sacra Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani. In Roma
1764.3 cui adne&itur Ta¬ bula aenea exprimens frontem Aedium } & Atrii
ornatiHimi. (4) Adunanza tenuta dagli Arcadi nella Villa
AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di Baviera Elettrice Vedova di
Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda Talea.• In Roma 1772.XV &praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi-
tam confpexerimus (0. VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬
bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos
noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus. Locum nunc
perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii
parte,quamAurelianusintraUrbemcomplexuseft(2),quae¬ que in Regione II.
Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus hunc locum
potiflimum tenuifle, cenfueruntBoiflardiusCj),MarlianiusW,&DonatiusD,fed
nullam,quaniterentur,rationemattulerunt.Quareincertus,
fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac
de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7). Proxima huic
Caelimontii parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab
Augufto inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W, &
Vignolius (?), innixi potiflimum veterum infcri-
ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in
Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream,
quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate,
quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos,
qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem po-
fitum: lofepho. II Pio. Felici. Augufto Quod. has. Aedes. praefentia. fua Maximus.
hofpes. impleverit Alexander. Card. Albanus M. P nato- ($) Lib. III. cap. XII.
(6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta 'vejligii 'veteris Ro¬
mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer. Vrbis Romae } TheJ\
Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9) lnfcript.felecl. pojl Differt, de
Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq. (10) In adnotationibus ad
Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3 & aquaeducti¬
busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬ (3) Topograpb. Vrb.
Romae Tom. I. pag. 34. dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud Gruter. pag. (4)
Topograpb. Vrb. Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag. $93. n. 2.3 & 3.
XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis, quaHorti
Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus, potiflimum
fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae, cuius ibidem divortia erant;
pars enim in An- toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae...
NTONIANA, magnis laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W;
pars in Palatium Caefarum tendebat, ut produnt veftigia aquaeductus interdum
occurrentia. His adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo
aqua ad Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s):
P. CORNEUVS. P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS. C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS
LX.S.C FACIVNDVM. CVRAVERVNT. IDEMQVE. PROBAVERVN.T Via, quae ad Clivum Scauri
per Curiam Hoftiliam ante Hor¬
tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam,
antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope
etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi) velClaudii,aPombaiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt,
quodnuncNicolaiCirciniani,vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis,
veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard.
Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius Ragionamento
fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95.
Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae
latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a
Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert
tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad
radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit,
bus haec legebantur: A^VA. CLAVDIA. ANTONIANA. NOVA VIRIAE. ALCESTE. ET. L.
VIR1I. ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de
Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq.
Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor-
richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 &
Paullo, eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta Cap. VI. §. I. pag.
59.3 & 60. (5) In inferiptione hoc loco detefta, quam re¬ fert lulius
lacobonius Append. ad Fonteium de prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬
ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus (*), ornatum, duplicique
columnarum ordine fu- ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam- numconfpicuifuntarcusNeronianiaquaeClaudiae,quibus
aquaipfaadPalatinumdeferebatur.ProximaetiameratCu¬ ria Hoftilia, a Tullo
Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius adhuc haberi
reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino lapide, quibus
fuperftat nunc turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos,
recentiores plures, praeeunte Flavio Blondio 0), Con- fenferunt; idque eo
magis, quod ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad
fcalas Aedium Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo
loco(T adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d), alii¬ que aedificium aliquod
Caefarum aetate excitatum in hilce
ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬ bile videatur pofl tot
faeculorum lapfum, poft tot Urbis exci¬ dia, atque poft tot imperii
viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum edacitatis,
& direptionum furoris vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_»
etiam dubitavit, quod aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam
fuifle Curiam; quin potius hinc coniedafie nonnullos
refert,exftitiflehoclocoCaftraPeregrinorum.Heicquidem fuifle aedes Sandorum
fratrum Iqhannis, & Paulli, in quorum honorem dicata eft proxima Bafilica,
ambigi non po- teft; quarum quidem veftigia haberi putat Philippus Rondi- nini-
(1) Ecclefiae militantis triumphi) five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib. I.
hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta-
(4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani
Rotundi Romae vifuntur depicia, a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae
1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt.
Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., &
II., Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II. pag.
93., & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I.,cap. XIV. pag.
87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag.
148- XVIII ninius CO in quibufdam arcubus, & ruderibus prope
laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis
noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium, arguere licet ex marmore reperto
eo loci, quod refert Fabret- tius (2), & in quo habetur fimulacrum Veftae, &
artis pilto- riae inffrumenta, modium, spicae, & mola verfatilis, cum hac
epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA.TROPH IME VII.
Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque dum recenfitis,
accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum pars effe
videantur. Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de Balilica SS.
lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur, cum de
his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior
Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica,quae&in
Domni- ca,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬ cata, quae ante
Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro apri caput
referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant a milite
in Caftris pe¬ regrinis degente. At Ficoronius (4) Cybeli potius dicatamu»
fufpicatur, quod aliud viderit anaglyphum, ab ipfo etiam vul¬ gatum b) 5 in
Mufeum Veronenfe profectum, ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea Cybele,
quamque Matrona velata, funis ope, cui adligata eft, extra aquas ad fe trahere
dextera manu nititur, hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS. Martyribus
lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94.
eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c.
Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra-
ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632.
Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di
Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII.pag.148.
MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE. VOTO. SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE D.D
Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur
acelebriMatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('), ut & praedium habuit in
Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem habes in antiqua pidtura ex
ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam eruta, quam Cl. Ioh. Botta-
rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae Domnicae no¬ men, & natale
Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d. VIII. Ianuarii; fed haec Virgo
Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra
differt.VualafridiStrabonisG)fententiam,aDomino,cuicul¬ tus in illa aede
redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬ dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi-
milesfententiashaudmorabimur.EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata,
& renovata fuit, cuius exftat ver¬
miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG);
quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae
nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum
I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle,
funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia, cuius
mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬
iis,editaaMabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.> porta Ajinaria, ftatim
fubditur Sancta Alaria Dominica.
AdfaeculumfaltemXI.pertinerevideturArchipresbyterRe- ncdillus Diaconus Sanctae
Alariae, quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea Tom. II. Tav. CXXX. pag.
17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex ethnica facra pag. 214. (6)
Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci. Santf. lanuar. pag. 4S3.
(3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1. Parif.1725. (4) De rebus
ecclejiajlic. Cap. VII. c2 XIX JiX cuius monumentum in Divi
Stephani in Monte fitum, & a Doniod) adductumheicfiltimus: HIC. REQVIESCIT.
CORPVS. DEVOTVS. XPI FAMVLVS. ARCH1PBR. BENEDICTAS. DIAC. SCI. MA RIF,. QA.
DOMICA. Q. OMS. Q. AD. HANC. BASILICA. IN GREDITIS. DIGNEMINI. ORARE. PRO. ME.
PECCATORE. AC. P. XPI. NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC. TVMVLO. VIOLARE.
AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM. VIOLARE: P: SVPSERIT: i A. PATRE. ET. FILIO. E.
SPS SCI. ANATHEMATE. IM. P.. P. DANATVS. EXISTAT Certe quidem, ut innumeris
exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI. ufus obtinuit has malas
precationes, a Chriftiana pietate, & manfuetudine alienas, & a fola
tempo¬ rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid
contra Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus
huius Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum
videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi-
diaconiWadduximusChartamanecdotamannidcccclxxxii.,
inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis,
& praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae appellatur
No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfaChartafervatur.
Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe; nec fane documenta, quae id
adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode in Chronico Ricardi
Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii. pertingit,quod¬ (0
Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic. Alemanni. que (5) D
iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle IJlituzioni Canonicbe
de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni Criflofano Arna- dtizzi
la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid. Hieron. Fabrium Ravenna
antiqua pag. 116., Mabillonium ile re Diplornat. Lib. II.
Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora-
RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII.,
aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter.
Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3
(4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768. XXi
queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, &
odo, quarum princeps Sundae Ala¬
riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud
Mabillonium (12), ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica, ubi debet ejje
Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A, ubi haec
habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus
ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali
Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum
certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬
num, non Archidiaconum obtinuiffe. Docet id Bulla Inno¬
centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card.
S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in
Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui
interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno
mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex, nili critices regulae obliderent,
Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum iudicarunt, &
iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet, Ecclefia ipfa titulus
dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas aut antiquitus, aut
recenter inveniemus. Quo tempore vero haec
effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi- mile tamen eft, id
accidifte, cum, translata Avenionem Apoftolica Sede, Romanae dignitates
mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt, & ipfa
Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium delata eft.
Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq. med. aevi Tom.
IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord. Roma». XII. n.
II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis
($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28. Epifc. SigninidieXVIII.Iuliiqum.24.
XXII EcclefiamalteramS.Thomae,StS.MichaelisArchangelide de Formis (de qua
mox dicemus ), innuit laudati Pontificis
Bullaannimccxvii.,quainterceteraspoffeffiones,quaseidem
confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla- riae in Donnica (0.
Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe, docent Litterae Apoftolicae
SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis & Canonicatibus Lateranenfis
Eccle- fiae, St S. Mariae in Via lata, St Parochia S. Mariae Navicellae
interdicitur. Honor, quo, Archidiaconali dignitate deleta,
Eccleliahaecdecidit,integratusquodammodovifuseft,cum Card.IohannesMcdiceusPontifex
Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim inftaurari illam iullit,
atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii opera ufus eft quoad Ar¬
chitectonicae artis concinnitatem, lulium vero Romanum, St Perinum Bonacurfium
Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento adhibuit. Tum eadem obtigit Card.
Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli, Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi-
ce-Cancellario, qui poftea fuit Clemens VII., licet & Eccle- fiam S.
Clementis, & alteram S. Laurentii in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem
Diaconia potitus eft poftea Iohannes Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis
filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft renunciatus, & cuius exftant tres
epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc famulatu (0, quem appri¬ me (0 Collect.
Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬ gliare } perche rifeda in la Cbiefa della
Navicella ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100.
aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev.
Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi
Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag.
505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto, a
cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che
capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26.
Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo
fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di
quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi
pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per
aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di
quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi
in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a
ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un
Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do
XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis
Ferdinandus Mediceus, marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima
dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae, denato Francifco eius fratre,
infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬
moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam
ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M., de quo nihil eft aliud, quod
moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum, qui Ecclefiae inferviret, facrumque face¬
retdiebusfeffis,PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl. Leo
Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia in
titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0);ac tandem Monachis Grae-
co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬
paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV.
conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S.
Thomae, & S. MichaelisinFormisdi-
dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬
diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G). Ecclefia haec fuit olim
Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬
bates, qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius
accenferetur. Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis
Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum, quam proinde, dum vixit, incolatu,
corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet
dolealtrecofe.Vedrete3cbeabbiaqualcbepo-
toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I.
pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile, cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis
3 & aquaedtM* DifTert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4)
Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium
Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie- XXIV licet
dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd),
qua Ordinem praedictum commendat, Ec-
claliameidemconcetfamfubApoltolicaeSedistutelalufcipit, privilegiis ornat,
facras aedes, ac bona quamplurima eidem
lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam, fcilicet aquae
Claudiae ductum, fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio,
crucibus, & aliis per¬
tinentiisfuis:montemcumformis,fi?aliisaedificiispojitum
interclaufiramClodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae, quod forma quadratum, &
magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit), fi? inter duas vias, unam
videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad Colifcum, fi? aliam, qua
itur ad SS. lobannem, fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc fupra fores hofpitalis,
five coenobii tigillum ex mutivo Or¬ dinis, quem diximus, Redemptionis
captivorum, & arcui marmoreo forium haec inferipta leguntur:
MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio EJrfinio
Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec Urbano VI.
iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae adnexa fuit,
ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris confirmata
eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0), Bonifacii IX. O,
& Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad hanc Ecclefiam
pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum, quem tenent nunc Horti
Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob-
iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii
fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii-ColleU. Bullar.
SacrofanU. Baftl.Vatie.&c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb.
Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J.
(4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y. XXV
&magnificentiflimumVirumCyriacumMatthaeium,Alexan¬ dri filium, Cyriaci
nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi.
Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit
Gregorium, poftea Innocentium II., deducere,
quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf fio G), Felici M. Nerino (3),
aliifque; non enim id ipfius vel vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬
mentum fiquidem faeculiXIII., quodcontinetSenatuscon-
fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex apographo Perufino edidit
Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam Vindobonenfetfi Apofiolicus
Nuntius me- ritifiimus G), gentis huius praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter
ceteros nobiles Romanos viros recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere
non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non
iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud
Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano
G). Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi:
Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit,
utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda
curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori
haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGenteMatthaeiainBibliothe¬ ria
alcultodellaR.ChiaradiRhnino&c.In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg.
(2)MemorieijlorichedellavitadiS.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J.
Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefajeconvento (3)
Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma
&c. In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not.
54. 71.;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche
appartenenti all'ijlo- xiihijloricamonumentainAppend.n.VIII.pag.
XXVf Tum inferne: CYRIACVS. MATTHAEIvs. HORTOS GENTILICIOS.CVLTV.AEDIFICIO
VETERVM.SIGNORVM.COPIA INLVSTRIORES. ET. AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D. LXXXI
CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS. CAELIMONTANOS A. IACOBO. MATTHAEIO. SOCERO. SVO
SIBI. POSTER ISQ__. SVIS. DONO. DATOS. MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS.
EXCVLTOS. SVAE. ET. AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille
praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam
epigraphe, quam affixit parieti Aedium ad meridiem, quae ita fe habet: CYRIACVS.
MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS. POMARIIS AVIARIIS.
NF.MOR1BVS OBELISCO.AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD. MAIOREM. POSTEROR
SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM.SIGNIS EXORNAVIT Huic etiam
infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0, quae forte
Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam
infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata,
Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett- &foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.
CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO. CAELIMONTANAE.
SALVBRIORIS. AMOENITATIS HORTOS. GENTILICIOS. SIBI. ET. SVIS. AEDIBVS. ET AQVIS.
IRRIGVIS. EXCOLVIT. FONTANIS. EXHILARAVIT QVAE. PRO. GRADVVM. CORONA. EX.
EPISTYLIIS. ALTE SVBSILIENTES. FLORVM. IN. CIRCIS. FLORVM LVDVNT.LVDICRA TVM.
ET. AREAM. ET. AREOLAS TOPIARIIS.SEPSIT.POMARIIS VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT
VETVSTEIS.MONVMEN TEIS.SIGNIS.DISPOSITIS ET.MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R
INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos nortros vel hilce
infcriptionibus ita iamamplos,excultos,elegantes,&locupletesdefcriptos
habes, ut vix nobis, quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen.
Aedes, quae in medio Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura
conditas fuilTe, quarum vertibulum porticu ornatur, columnis, lignis, ac
protomis infignita; quemadmodum aula, & cetera, quae fequuntur, cubicula
undique & lignis, & protomis, & columnis, & ana¬ glyphis, &
cippis, & aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore,miruminmodumpraecellunt.
Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro Pomonae, & Midae
Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi, Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer-
tim Simulacro colofleo M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii
Commodi, qui Antoninus alter, vel Hadrianus antea cenfebatur, quae dein in
Mufeum Clementinum Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur
d2 XXVII XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in
Aedibus adCircumFlaminium,caputalterumIovisSerapidisexba- falte, tum caput
Plotinae Traiani uxoris, & Signa Dianae,
&.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬
ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni cum utre iacentis, &
alterius a Satyri pede fpinam extrahen¬
tis,actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem,
quamCyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe, quam
exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS. VRSINIVS CYRIACO. MATTHAEIO
AMICITIAE.MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME. IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV
Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum, utraque parte
ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe
vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb). Aedium vero externus paries
meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris,
Octaviani Aug., Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu, Liviae Aug. Coniugis,
tum etiam Cereris, ac Bacchantum. In medio autem pariete tollitur (lemma
Matthaeiae gentis, pileo ornatum, cui haec subscribuntur: HIERONYMO.CARD
MATTHAEIO HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater,
cui iidem titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein
panditur, in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal
P. F. Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della
chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S.
Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr. XXIX Mufarum proflat,
& in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus
hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur, cum neque Hermapionis perlonam
geramus, qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit,
neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_.
provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit
fententia, ut putaret, fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre,
notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum
Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero
litteris, five notis X. a bafi
palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen
novem primae, quae in cufpide conlpicuaefuntnotaeadquatuorlingulalatera,omninocon¬
veniuntcumiis, quasexhibet Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,&
Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante
fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam
delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2), in cuius
bafe, tefte lacobo Ma- zochio G), haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius (+)
ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS PATER.PATRVM
TandempetentiCyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d.
III.IdusSeptembrisannimdlxxxii.concefluseftObelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius
(1) Art. erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2)
Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba-
XXX bafe infcripfit, quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori
tortaretur, Primum, quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS OBELIS
CVM. HVNC. A. POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN. HORTOS SVOS.CAELIMONTANOS
TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM. EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII
Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R CYRIACO.MATTHAEIo
OBELISCVM. HVNC. SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT. IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO.
PVBLICO ETIAM. ORNAMENTO AVGERETVR Huius Obelifci typum non dedimus, quod aere
incifus olim non fuerit, neque id nunc Librario luberet, neque nos etiam
apprime necertarium cenferemus. Si quis velit eumdem con-
fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2), ac
Bonaventuram, & Michaelem Overbe- keiosL). Ipfum etiam defcripferunt, ac
laudarunt Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II. Lib. II. Cap. VII.
Tab. CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts de Rome ancien- tie3
ou Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite' Romaine qui exijleut encore,
dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien Petijtonaire du Roy a Rome 3
& grave eu 12S. plancbes avec leur explication; fol. max. a Rome cbez
Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n. i.p. 47. Ca-
O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu Bonaventure
d'Overbeke &c., imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye cbez Pierre
Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi delPantica Ro¬ ma
3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit-
toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino. Iu Londra 1739. §.
JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.
XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius, qui fingulos etiam Romanos
Obelifcos enumerat 0), tum Ficoronius, Venutius, Titius, ceteriquc, qui Romanas
antiquitates, &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat nunc
caput coloflale Alexandii Magni, quod plateam hanc ornat parte meridio¬ nali,
quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura
eflfex pedum pariliorum, totum vero caput odio pedum, ut proinde
fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua, fi integra fuperelTet. Sane ca¬
put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬
rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet;
nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum
in Villa Lu- dovifiaefl'caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu-
flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu-
flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae
Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod
Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit,
ut prodit infcriptio, quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI.
MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM. INIVRIA. TEMPORVM NONNIHIL.CORRVPTVM.ANTIQ_VAE
FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS.AMATORIBVS SPECTAN DVM. PROPOSVIT
Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad quem pertineat, incertum
elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor, ijloricbe della chiefa, e
con¬ fino alia pag. 36$. ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3)Tom.II. ClafT.II.Tab.
VII.pag.9. pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148.
(2) Delie cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il
Diario dei P. Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon
pag. 3 1. XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus
ex for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra
repofiuit Romualdus Riccobaldius (0, qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem
etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie
deinceps, cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen,
praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque.
XI. Praeftat vero haec leviter attingere, ut ceteras Hortorum Matthaeiorum
partes perluftrando defcribamus. Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu
fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad
Portam Capenam, & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia rudera
intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine difpofitae
habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum, Martem,
Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum puero,
Gladiatorem, & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad
oppofitam partem area altera occurrit, inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem,
Heraclitum, Ariftotelem, Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum,
Anacreontem, Euripidem, Ari- flophanem, Hefiodum, Apollonium Tyanaeum,
Pofidonium, Apuleium, L. Iunium Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo
cenfetur. Quid iuvat conclavia, quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria,
aliaqueloculamenta fingillatim defcribere, eaque fignis, anaglyphis, aliifque
monumentis fere undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬
mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario
Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII
procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus
coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc,
& illinc difperfae co¬ lumnae, quarum pleraeque multi aedimandae funt,
quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria,
ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi. Innuemus
tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium
hoc didichon legi: HAVRI. OCVLIS. ET. NARE. LICET. TIBI. VIVA. VOLVPTAS SIC.
ALITVR. TANTVM. CARPERE. PARCE. MANV Plures funt in Hortos ingrefius; fed duo
infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in Do-
mnica;alterumveroadCuriamHodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa linea
infcriptum habeatur: HIER. MATTHAEIVS. DVX. IOVII. AN. IVBILAEI. MDCL XII.
Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, &
praedantia. Hinc nil mirum, d advena somnes infui admirationem rapuerint,
tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo-
nius (d, Richardius b), aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in fuis
hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter nodros
vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW, Ve-
(1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3) Dior.
Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph Addifon
EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears 1701. 3
1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique}
& critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169.
(6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli;
Roma 1725. Tom. II. pag. 274., e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma
antica; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di
Roma moderna Cap.VIII. pag-68. XXXIV VenutiusCO, Vafius W, &
Titius^); Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4), &
Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa, quae in illis adfervantur, nacta
funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus.
Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio,
& Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud
Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones, noftris
pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio,
Urlinio, Gruterio, Reineho, Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio,
Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita
paucis ab heincannisimmutataeltHortorumnoltrorumfacies,utqui
cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque undique collabentes,
dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon nullas marmoreas
Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam Alexander Matthaeius
Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati ani¬ mi caufla faepe
commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge, & nos quinetiam
fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum Capitolinum,
poftulante Bene- diftoXIV.PontificeMax.,marmorAebutianum,iamanobis adductum (D,
& antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto-
(0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬
nuovofinoalTannoprefente.InRoma1763.pag. ca, e tjlarica di Roma moderna, opera
pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma 1766. prejfio Carlo Bar- biellini Tom.
I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo divifo in otto fiazioni 3 0 giornaie per
ritrovare con facilitd tutte le an- tiche 3 e moderne magnificenze di Roma, di
Giu- feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle pitture, fcalture,
e ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dati'Abate
Filippo Titi da C.itta di Ca- fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e
475. (4) Carminum Tib. III. Epigr. 32. pag. 74. edit.
Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum: Komae fepultae hinc
intueri imaginem, Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis, & Orbis lumina,
& miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88. Sonetto. (6)
Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118. XXXV
flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria exftat in
titulo marmoreo, qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate maximum palTi
lunt detrimentum, cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem peperit erum¬
pens quotidie veterum monumentorum copia, & eorumdem alportationis
impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus, ac fapientilTimus
Pontifex Clemens XIV., quem
utpoteprimumlitterariaemeaefortunaeparentem,&publi¬
caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu, & laudum
praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad
Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V)
ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex
Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a
CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo, cui titulus: Indice delle antichita 3
cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi
Titii librum de Pi&uris, Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo
amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag.
167 (c) Fabrett. de Aquis, & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74.
n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres
Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes
in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac
ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas, vel addu6tas in Epiftola
noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi.
14S., & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3
& feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum
noftrorum. De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol.
Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10.
Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri-
ptionemM.luniiPudentishocipjoannoRomae deteffam adverfus anonymi convicia curae
pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii
res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬ Aebutianum merides Romanas eiufdem
anni 3 ubi de eadem In- Ex.Matthaeiorum.Villa
feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161. Habes etiam aliquas
Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano Marinio Tom. IX. 3 &
feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge veter. Infer. 3 qua
claufimus III. Volumina Marmora. omnia. antiqui. pedis Modulo. infculpta
Scriptorumq. teftimoniis. commendata Benedictus. XIV. P. O. M In. Mufeum.
Capitol. tranftulit Anno. Pontif. III Dono. Hieronymi. Ducis. Matthaei
Capponianum Non. ita. pridem. Via. Aurelia. reper Ex. Aedibus. Capponianis Dono.
Alexandri. Gregorii Marchion. Capponii Eiufdem. Mufei. Curatores. perpetui
Statilianum In. Ianiculo. alias. effofium Ex. Hortis. Vaticanis Colfutianum.
feu. Collotianum Ex. Marii. Delphini. Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121.
XXXVI Mofaici ferpentis emblema referente (0, & Carfagnanae fi-
gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae eiufdemfi¬ delitatisergaBeatumPetrum,&RomanamEcclefiam,pro¬
vide ditavit, novique cubiculi elegantifiime picti a temporum noftrorum Apelle,
Antonio Raphaele Mengfio, accefiione auxit, ut Papyris omnibus per Bibliothecam,
& fecretum Ta¬ bularium olim difperfis, in unum colleblis, aliifque
Vibloriae gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum
Vafculorum, quibus Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur, fupcllecfilem
mire amplificavit M; ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente
XIII. fplen- dide exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis,
Parifienfis, Taurinenfis, Palatinae, aliarumque lega¬
liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE), &
Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo
(1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il
ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per
Arcangelo Cafaletti. Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis
eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl'
1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum
Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule
Iofepho Garampio edito opere, cui
titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per
Niccolb, e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur.
(5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis
Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis
Differtatio. Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano
Perufino. Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere
Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu-
ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum
noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n.
31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae
Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772.
Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius
nummos; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de
huiufmodi Papyris. Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo
Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬
mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., &
praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem
noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3
velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii
Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII-
ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes, & recentiores Cbranologos,
auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli
Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento,
Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu-
fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis
Graecis nummis rarioribus maximi modulis
vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬ ditis Lucretiae, &
Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus Mufei Zarilliani (2),
veterum Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium aureis, argenteifque
nummis bene multis 0), Etrufci pueri in Tarquinienli agro eruti prae-
clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,&
SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG), inauribus (s),
vitris vetuftilTimis C9), ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime
locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis
Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad
excipiendumfigna, protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta excitaret.
Inlatum fuit quapropter in ipfum, ut primum licuit, Iovis Verofpiae gentis
marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino integrum, rarum- ]ara
noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi. 517*) & feqq.
Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis } nunc Gregorianii Coenobiiad
Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae noftrae partem 3 quae eft in
Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi. 745.3 & n. 49. coi. 772.3
& feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae adnotavimus Tom. II. ho¬ rum
Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2) Vid. Epiftolam noftram in
cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. & feq. (3) Vid. camdem ibid.
coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae. (4) Vid. articulum noftrum in cit.
Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem nostram ad Alphabetum
veterum Etruscorum pag. 29. Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini
de pueri Etrufci aeneo firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum
inlato Dijfertatio. Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos
adnotavimus hoc I. Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis
Francifci Carrarii Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot
argentea donavit 3 de quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40.
coi. 628. Ephem. Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem.
e- iufdem anni n. 1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3
& pag. 164. n. 1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann.
177^. n. 47. coi. 745. Adde pateras Carra- rianas, de quibus fuperius adnot. 4.
(7) Vid. ibidem. (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi.
772.3 8c feqq. (9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar-
naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n.
49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc XXXVIII rumque Ottaviani
Augufti (0, Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0),
lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis
Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4), Paridis Aedium Altempliarum
(j), Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum, Dilcobuli
laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae
gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8), aliaque Antinoum referens,
Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi
Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca- falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12),
hoc Tom. I. ad Tab. I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in
ColleEtionc ve¬ terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae
adnotavimus hoc Tom. 1. ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae
noftrae fragmentum in Ephcm. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231., quaeque ad¬
notavimus Tom. III. horum Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud
eumdem MafFeium ibid. Tab. CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus
Romana¬ Can- Vid. typum Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae. (S) Typum aeneum habes
apud lof. Roccum Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid.
Fpiftolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬
que adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42.
(9) Meminimus hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid.
Epiftolam noftram in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n.
47. coi. 742. rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬ OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam
ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio
Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207., Protomen porphyreticam Philip pi Imp.,
& duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide Epiftolae noflrae partem in
Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid. eius typum apud
Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163., cuius illuftrationem ha b_s \ ol. II.
Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab. CXXIV pag. 116.
(6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L CaP- VII. n. III.
pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque pa¬
latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de Rubeis.
(7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur, vide eumdem
Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra un’Ara
antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma. Iu Roma per Ar-
cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum Monument.
ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium
elegantilTimuin, quod fimul dono datum
cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini
Imp., de quo nos in iudicio, quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid. Roman.
anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto Epheme¬
rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit Tab.III.fub
n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans Marmor Pifanum
de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem feliam putat,
& rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae adnotavimus Tom. III.
ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87. XXXIX Candelabra
BarberiniaCO, Zeladianum C2>, aliaque ad Divae Agnetis extra Portam Nomentanam
adfervata OJ, Sarcophagus Veliternus quantivis pretii Sex. Varii Marcelli V),
Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, & altera Perufina V) ar¬ canis
ethnicorum fculpturis infignita, aliaque permulta, quae fciens praetereo,
quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge, lateque inclaruerunt. His omnibus
accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa, quorum pleraque fupe-
rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬ tis (7), &
ftantis (8), Fauni dormientis (9), & a Satyri pede (pinam extrahentis 0°),
armatae Amazonis (‘0, velatae.» Pudicitiae 02), OHaviani facrificands C'3),
Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo Hiftrionum (igil- (1)
Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 230.
Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius loc. cit. Vol. I. n.
30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag. 36., & alibi. Vid.
adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent, eiud. anni n. 45.
coi. 71 5., & feqq. Vid. Opuf- eulum, cui titulus: Difcorfo deW Abate
Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente XIV- b> ftfa *77*•
PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii Pifani Tom. III. art.
V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum Clementinum Vaticanum
adfportata, quintum fuo loco reli&um ed:. De his multi Romanarum anti¬
quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago s qui a pluribus
editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann. 1775. n. III.
pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771- n* 45h coi.
712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol. ClalT. X. ad¬
not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7.
la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae
Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M., ac fapien-
tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae,
e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur.
Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud
Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num
ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem.
Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus.
Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21.
(8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24., & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII.
coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag.
32. (11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202.,
8c apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2.
(12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6)
Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem.
Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77*
innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant
etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14)
Ibid. Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92., & apud Maf¬
feium Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po« XL la (0, ac
truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W; tum
Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W, & L. Veri(6); infuper
aenea capita Ne¬ ronis (7), & Treboniam Cg), lymplegma vel Ariae, &
Poeti, vel Portiae, & Bruti (9), St animalium collectioni accenfiti Aries
arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam
referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4),
natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia;
ac tandem Cippi, Urnae, & Infcriptio- nes bene multae, quas fuis locis
delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta, & praefertim Marci
Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s)
haud perfequi vacat, quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui
nos modo rapuerit admira¬ tionem. Quare li tantae rerum antiquarum fupcllectili
ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata,
marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili
C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 &
Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac
nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione.
(1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I. apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1.
(2) Nunc reftauratur 3 ut in integrum Signum evadat. Quare mirum videri non
debet apud nos defiderari. (3) Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4)
Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8. (5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag.
34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I. pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag.
32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I. pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum
in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi. 822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I.
pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab. LXIX. pag. 92., &
apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n. 2. pag. 49. Tab. IX.
n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14) Ibid. Claff.VII.
Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag. 73* f 16} Ibid.
Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II. Claff. III. Tab.
XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac-
liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam
noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq.,
ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo
affi£ta. XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis,
Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0, Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus,
quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae-
lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales
ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla, nae tu dixeris, erudite Ledor,
praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae
magnificentiae Genio templum parafTe, fibique aeternam afieruifle
incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum
aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu,
confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet,
tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus
iam tantum opus amplificandum regio plane animo, & magnifico fumptu
fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia, quae in lucem aufpi-
cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque
paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum
confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore, Hermae
Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud vulgaris,
tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii deliciae, ac
peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus, &. Graeciae
fapientum Her¬ mae, ipforum nominibus*, & lentendis infcripti, aliique ve¬
terum tum Poetarum, tum Philofophorum plane fimiles, quos Tiburtinus ager nuper
eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter hoc iplo anno detedus,
aliaque e Ca- ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae
ex Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69.
& ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas
Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60.
cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num.
thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam
adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.
xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof-
fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens
erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0,
& Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*), & Caii Caefaris.,
Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum
emortuales ti¬ tuli, & Auguftae domus nova indubia monumenta G). Huc
infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia, nempe
Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum, Diomedem
Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬
ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum, quae nimirum
inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet &
Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W, & altera Lavinatium Sabinae
Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum, & Picena Falarien-
fa Monumenta W, & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*), & alia
fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam Innocentianam,
tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero aeneorum
monumentorum Mufco perrara, atque felecta ci-
melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti
aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum
Eratonis fororis vul¬ tu V), Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris
ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66.
pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici
Ele&oris a confiliis, &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom. n.
LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2.
(S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos
adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po
(S) Vide Opufculum 3cui titulus:Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio
Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone.
Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio.
Part anter. legitur: BAdAETC. BAC1AE.QN. TITPANHC averfa vero parte: EPATft.
BACIAEI2C. T/TPA- NOT.AaEA3>H. XLIII po CO, Silani Syriae
Praefidis poft Quirinum, ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae
Chriftianae principium lumen afferret (2), Titi,& Domitiani cum peculiari
Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris, iuniorifque in Stecloris urbe
pcrcufla, cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit
tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira
congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus,
quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis
Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa-
diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬
quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius
gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem
Caeftium, qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui-
bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta,
&iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬
ta,PontificiaSedevacante.Multisinlcriptionibusornatas
fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4),RcinefioG), Seldenio G), &
Kirchmannio(?), qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci defignatione,
adducunt. Excitatis aedibus ur¬ banis, Tranftiberinas deferuiffe verofimile
eft. Certe quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint, quae ex
variis, iifque amplis, & elegantibus domibus coalefcit. De iis fingillatim
dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc
locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione
Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA; & averfa par¬ te
KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY. AM. (3) Venuti Roma
moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3
pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12., & pag. 86. n.4., 8c 5. (5)
Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105.,
&feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De
funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672.
f2 XLIV fcribendus venit, quem, fi Feftum, Liviique epitomato- rem
(') audiamus, exftruxit Flaminius Cenfor, qui etiam viam Flaminiam Roma
Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit, vel Flaminius alter
antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus
equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis
facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C),
ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4). Diu huius Circi reli¬ quiae
confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini III.
Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae
Mariae Domnae Roiae, &. S. Laurentii in Caltello aureo, quaeque data elt
Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita
deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia: Idem Cajiellum aureum
cum utilitatibus fuis, videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu
pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-.
Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus Criptarum;
Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, & regionis
Sanfti Angeli ufque in Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium
quoque dictus fuit Circus Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia
a rudioribus infimae latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc
Ecclefiae Sanfti Lau¬ rentii, quae in eius ambitu comprehendebatur, nomen in
ajidlo aureo, tum etiam in Palatinis, corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM
claifura adhaefit, ut inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s). Hoc etiam
adnotavit Iacobus Gri- mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S)
Liv. XXX. 38. Adnot. 5. ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis.
XLV maldiusO), qui agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis,
dicebatur, inquit, in Palatinis propter Circum (Flami¬
nium),quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬
nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum. De
Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide
FTancifcumM.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud Anaftafium Bibliothecarium
in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur; quemadmodum in Codice
Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII. Apoltolorum fpe-
ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur, ac alibi Palatium
Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare Templum noftrum S.
Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit Hadrianus I., &
coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to, & in Baganda dicto,
ibique Monachos ad pfallendum in
tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam noftrum putandum forte eft
Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in Bulla S. Leonis IX. (V,
licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in Pifcibus revocaverint,
ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum IX. Templa S.
Laurentio facra in Urbe recenferetO. Heic etiam fitum erat Templum S. Mariae
Domnae Rofae, cuius mentio fupra occurrit, & habetur infuper in Ordine Romano,
quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S. Catharinae de Funariis C)
dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente fcilicet VII. regnante,
exftitiffe etiamnum huius Circi formam, & veterum fedilium figna tradit,
atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri Cap. II. (2) Bella
Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII. pag. 20. (3) Sub n.
5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius faera pag. 364. (5)
Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot. (c). (7) Differt.
Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis antiquit. Vid.
infer, p. XLVIII. adn. 2. XLVI eius cavea erectum laudatum Templum
S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci commoditatem, & a-
reae longitudinem funes intorqueri confueverint. Eiufdem Circi formam faeculo
XVI. depictam, quam tamen multa ex
parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii,
aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas,
five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum. Huiufmodi quidem
apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio, fed aliis etiam
Circis. Numularium, nummorum fci-
licetpermutatorem,veleorumdemaeffimatorem,dcCirco FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW}
VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula
Flaminio. Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei-
nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos, & faTOTTCAas
olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem
faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices
officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V).
Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo Templum
S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio renovaret,
efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino lapide, ac
quadratae eximiae magnitudinis. Quare lutnmus Circus in he- micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon
longe a Capitolio, ac flectebatur ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius
autem ima pars, ubi Circi carceres habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib.
III. Cip. III. Tab. CLIX. pag. 27S. (2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de
Columna I/np. Antonini Pii. ($) Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm.
Infcript. antiq. CluIT. XI. n. 7^. C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230.
(6) Tom. III. ClaflT. X. Secl. VI. n. 11. pag. 119.3 & leq. XLVII
bantur, pertingebat ad Aedem S. Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium
Ducum Caefariniorum. Certe quidem Templum
ApollinisCO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬ xerunt, Circo Flaminio
adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod nunc tenet Aedes S. Nicolai,
& adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de Somafcha, docent ve- fligia
fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae columnae incendio corruptae, &
ex veteri marmorato concinne refe- dae, quorum lingula adhuc in Cavaedio
eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede altera Neptuno dicata, quae erat 'in
Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat Abafcantius Aug. Lib. (2), cum nullae
fint reliquiae praeter antiquae inlcriptio-
nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea fuiffie multa
tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim, Achillem,
Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae o- pera
praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt parietibus
Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d), & Pelei, & Thetidis nuptias
(s) exprimentia, quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac vicinia
erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis,
Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel
abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco
FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque
Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan-
vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3
opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2)
Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin-
£tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII.
3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam
ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom.
III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22.
(5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII.pag.61.3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc.
cit. (7) Loc. cit. XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana
ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬
des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere
debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0, atque etiam laudatus
Panvinius (2), paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi
partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e-
rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬ riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto-
re afferente, multa marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum
Circenfibus ludis infignitum, quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum
(s), exiftimamus. Nec il¬ ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus
parietibus affixos cerni quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque
diftinctos, quorum duo integri adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti
(fragmentis hinc inde fparfis) quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores
olim exftitifie exifti- mat CO Librode’CerchirComtnciavaqueflo
musMarganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ (il Flaminio ) dalla piazza de'
Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram, abbracciando tut-
tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via Capitolina 3 ripigliando
in tutto qtiel giro j/joltealtrecafe.Daqueflolatode'MattelilCir¬
copoebiannifonoeraingranparte inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della
cafa di Lo- dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in
qttel luogo 3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de'
putti 3 che fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia
trovaronfi altri travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava
/'aequa, la quale ora chiamap it fon¬ te di Calcaram, forfe per la calce, che
hi fi macerava. (z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fe¬ cundo murorum
Vrbis ambita, quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit, radicibus Capitolii
condita fuit, a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens,
ubi nunc efi Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que
ad novam viam Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo
vero fuit ab AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna
tin:loris ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver-
forumprivatasdomus.CuiusfundamentiseTibur¬
tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬
busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia
ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit. Adhuc vero exflat an¬
tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui
fons Calcariae a vicinis (quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬ citur.
Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus tefjellatum
fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio, ubi ait:
Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D-
PetriMargani3(snS.SalvatoreinPenjiliufque
adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi. (3) Tom. III.
CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87. XLIX mat Carolus
Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus, & Ludovici
Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae
formam, & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus
fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem
hanc, atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat,
reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam
domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0. Abundare enim aquae copia Circum opus
erat, fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi. Nec nifi
ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum
decurrit iuxta proximam, cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam. XIV. Iam monuimus
Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque
gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem
plagam, & plateam tefludinum, quod eae fontis crateri infculptae,
refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae, Gregorio XIII. Romano Pontifice,
in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur,quatuorvafibus,con-
chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a
Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv.
conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem
AedesaubloremhabentIacobumMatthaeium,quiproiifdem condendis architectonica
opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes diftingui voluit Thadaei
Zuccherii pibturis, qui¬ busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬
te erant, obdubta calce paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae
(1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap. pograpbiaLib.VII.pag.161.ater.edit.Venet.
III. pag. 87. 1588., & Andream Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV.
Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia 1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae
To- L tae iam fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva-
tis. Duo etiam interiora cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper
fuerunt. Ante Templum SS. Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes,
quas Iacobi Barotii a Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD.
NEPOS ut supra fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios
Paganicae Duces iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae
erant. Nec alia, quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub
Caefaris AuguftiO), & Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi-
ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur
etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A. Hifce Aedibus aliae
adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum
agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus )
aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae
Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma
attendamus, ut revera attendi de¬ bet (A, Bartholomaeo Amannatio, ut nonnullis
placet, vel Claudio Lippio, ut alii cenfent, formam aedificii praebente. Earum
interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin- guuntur. Has vero nunc
tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt, quemadmodum & Nigronios,
& Duratios, & Serbellonios dominos pro divertis temporibus eaedem an¬
tea agnoverant W. (0 Antiquar. Statuar. Vrbis Romae Libri IIT. Romae 1623. j
edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III. Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3)
Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie- ronymi Franzini Bibliopolae ad*
Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV. Ve- (4) Q uare h°c Joco
corre&a volumus} quae a Titio decepti temere diximus Tom. III. CIa(T. VIII.
Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid. Defcrizione delle pitture, fculture 3 e
arcbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo
Titi &c. pag. 86. fino a 90.5 tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot-
to LI XV. Verum non id nos nunc agimus, ut has veluti appendices
Aedium Matthaeiarum defcribamus; Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R
magnificentiores, & fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae,
& Mo- naflerii S. Catharinae de Funariis, quaeque Afdrubalem Mat- thaeium
Cyriaci fratrem auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens,
quae ita fe habet: ASDRVBAL.MATTHAEIVS.MARCHIO.IOVII VETERVM.SIGNIS.TAMQVAM.SPOLIIS
EX. ANTIQVITATE.OMNIVM.VICTRICE.DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS.
INCITAM EN TVM POSTERIS.RELIQVIT. ANNO.DOMINI.cioiacxvi Carolus Madernius
architectonicum opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus
Albanius, Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero
tabulae etiam exftant hinc inde difpofitae, quae Cafparis Caelii, Chriftophori
Roncallii, Iacobi Trigae, Caroli Sara- cenii, Hieronymi Mutianii, Michaelis
Angeli Morigii, Gui- donis Renii, Ioh. Francifci Barbierii, Petri Paulli
Gobbii, Petri Berettinii, Michaelis Angeli Bonarotii, Valentini Galli,
aliorumque opera praedicantur. Alt nulla res & celebriores,
&praeftantioresfecithasAedes,quamveterummonumen¬ torum undique difperforum
praeclara congeries. In cavae¬
dionamque,fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬ pha, cippi, aliaque
huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit. Cavaedium habet praefertim
Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis, tum Romanorum Impp. Iulii Cae-
faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha
fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum
Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita
tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne
magnificenze di Ro- §2 LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae
Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis, ac tritonibus ve-
btas, Bacchi, & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes,
quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat,
occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo
iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0, tum Bacchi, &
Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad
porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis
raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans
occurret, dein Fortu¬ na, tum Iuppiter Signis expreffi; hinc parietes ornatos
con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi, &
Philippi Impp., ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum
gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero
inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius, & fuo loco monuimus. lam ventum
ad periftylium, quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper aulae poftes
cerne viri incogniti Protomem, tum leor- fim Aefculapii Signum ad laevam, quod
medium habent co¬ lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum
aliae fimiles e regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif-
pofitae, totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum
iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere
infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam,
Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni
tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc
inde cetera praeclara Anaglypha, quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum
ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus
nothis exhiberemus. LIII
hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam,
pompam Iliacam, aliam Bachicam,Orpheumcantumulcentemanimantia,Meleagri, &
Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, &
lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli
nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene
multa, quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus
plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali,
quo cavaedium veluti bipartitum cernitur, adlervan-
tur.Aefculapii,&Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬
nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus
M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen-
tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora
cubiculaomnicarentantiquitatisornamento.
XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬
numenta&illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas liquidem
praeftantiora Anaglypha adducta a Sponio, Mont- fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio,
aliilque; multalque veteres Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas
in unum collegerunt, quolque fuperius cita¬ vimus, cum de Hortorum Caeliorum
monumentis fermonem haberemus. Nec tacuerunt exteri Scriptores, noltrique etiam
Topographi, praefertimque Ficoronius (0, Venutius 0>, Va- lius (s), &
Titius (4) coadtam heic tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper
erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬ ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬
tore haud carere. Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita
diRoma moderna Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna
Tom. II. pag. 358. (4) Loc. cit. pag. 86., e 461. nia- LIV
nianearum Aedium Tablinum (0, & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*), &
Antiquitates, ac ornamenta alia Aedium Barberi-
niarum(s),necqualemcumqueetiamdefideraveratdefcri- ptionem ipfum Strotianae
domus Mufeum U); quibus nunc baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa
venerandae vetuffatis cimelia. XVII. Aff utinam & Horti, & Aedes
Matthaeiorum, eifque adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem, &
editorem, qui eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium
nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem
exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora,
inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe
diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum
morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum
mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis, &
metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui,
tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &liusanni, ex quibus hanc
provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus,
& intermifimus, ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬
ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis
credat, quibus operis ardor, & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei
Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I., e Par. II. Taveh CLXV'11.
iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n
Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano, Nipote
d’lnmcenzo PP. XI. in fol.,70z, (Trafponati gran parte in Aranquez ). Hinc
prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c. Accejferunt
aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha, mouumentaque alia
plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao Galeottio) Tom.
II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum Rarberinum. Ro¬ mae 1656.
in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad Quirinalem. Romae typis Mafcardi
1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio veterum Pro- tomarum, & Signorum
ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei Mufeo Strozzi 3 di Gio. M. Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi.
LV fit maxime ia deliciis, quofque properatio ad finem tam¬ quam ex
naturae incitamento urgeat vel in ipfa rerum au-
fpicatione.Nonhinctamenexcufationempeterenobismens eft aut ofcitantiae, aut
negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum voluimus, ut diverforum
temporum, quibus noftrae per univerfum opus difleminatae aflertiones
refpondent,quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur• Quare Lebtorum noftrorum
humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus,quamtotiusnoftrioperistexturam,vel
profpectum, quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic
veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius
Patritius, &. Academicus Etrufcus Cortonenlis, Nicolai Marcelli Marchionis,
& Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬
rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis
Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem,acfuavitatemfpectatiliimipatruus,
Romanarum antiquitatum Praefes, ac Vir denique multis e-
ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus
fuerat, cum ecce mors ipfum peremit
a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬ luminis Tabularum, quae Statuas
comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum interim eft, ut onus in nos
conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae editionis Vejiigii veteris
Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae Appendicis (0; quae licet ab
imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc forent, cum tamen aliquod
approba¬ tionis fuffragium a doctis viris obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur
oculi in nos conficerentur, & digni, qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia
paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt. Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf-
que ab anno 1756., fed ut Opus omne abfolveret, & una ederet univerfum,
priorumVoluminum pu- blicationein retardavit, & noftrae editioni tempo- ris
principatum reliquit. LVI
operiscomplementumfuccederemus,infuperhaberemur. Qual'e ipiius apographum, quod
& emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum fuerat a Contuccio,
olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum Societatis Alumno,
mox vita functo, traditum nobis fuit, quod antequam iterum expendei emus,
umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis Caelimontanis, tum in
Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur, fingillatim invifendos, ac
pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate,
acfeiefecuiitateabfolveremus,quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia
immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum
Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum, eumdemque doctiflimum, atque ipflus
filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum, ob miram vetcus eruditionis
peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi
aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia, & fama magis inclarcfccntcm,
& PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet praefto effent,
quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda, difcuffis fententiis, 6t
omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane Venutius
ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis exprefla iam
apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice folliciti, &
fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬ gulas, & ope
ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque aliter exponenda
cenfuimus. Hinc fa¬ cium eft, ut multae Statuarum illuflrationes, quas i. Volu¬
men compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque noftras subrogandas
curaverimus. Hinc etiam faftum, ut ceteras live
infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua
Volumina compingi debebant, iam ipfe adle- LVII adleverat, eidem
etiam cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum
fuerit, fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, &
adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex
Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus, Graecum textum
adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia
in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem
infumpfimus diligentiam, ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina
aliqua per nos fieret.• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae
occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate. Ceterum
id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram
vultus, quae in autographo haberetur, formam redigerentur, ceteraque omnia fuis
prototypis apprime refponderent. Nec alia fane
poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus,
follicitudo nobis relinque¬ batur. XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus
fuerit, innuamus. Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati, quae
his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur,
inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus, facro
inhaereremus fyftemati. Quare
Numinaipfa,quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliama¬ iorum gentium, eademque
felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero minorum gentium,
eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-*
ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur. Hinc
Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus, Terreftres fecundae, Silveftres
tertiae, Semideos, h five LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae
demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin
Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde
ex temporum ratione Confules feptimam
Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava
occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi
erant, atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea
continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod
CVI. Tabulis conflat, difpoll-
tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in
Protomis, Hermis, Clypcis, & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus referendis
verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum Protoma- rum
Heroas, & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda; dein earumdem
Imperatores, & Auguftas repraefentantium Claflis tertia; ac tandem Imperatores
Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta. Sequitur Claflis
quinta, quae Capita incognita; fexta, quae Hermas, feu Terminos; septima, quae imagines
quadratis, & rotundis figuris inclufas; obtava, quae Anaglypha cum variis
homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona, quae figuras anagly¬
pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula, bales, truncos, &
candelabra; ac tandem duodecima, quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet.
Sed iam tertium Volumen procedit, quod Anaglypha, Sarco¬ phagos, Cippos, &
Infcriptiones compleblitur, ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo
Claflium etiam in hoc ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat
Deo¬ rum imagines; fecunda Fabulas ad Deos pertinentes; tertia Bacchanalia;
quarta Monumenta Aegyptiaca; quinta Mo- numen- LIX numenta Graeca
ante bellum Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana
hiftorica; odta- va ritus, mores, & artes veterum; nona Sarcophagos, &
Urnas fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones,
quaeinfuperordine,quemGruterius,ceteriqueinvexerunt, difpofitae a nobis lunt,
ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur. Eaedem GCCXXXII. plus
minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam fuerant. Neque nos
eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum deprehendimus,
proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas olim ibidem
exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat; ne in
hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros
potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci-
mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem
fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum,quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur,
rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri
poffet. XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An ve¬
rofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum
affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne
vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae
pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes, ac notae, quaeque fin- gulas
facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur.
Quapropter id nobis propofuimus, ne
inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus.
Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari,
& rerum eviden- LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel
ad incerta, vel ad cerebrofa. Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬
rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬ linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬
rarum acervum inducere, vel coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper
congefia vel vacillans opinio, vel levis coniectura, aut etiam audax paradoxum
litterarum incre¬ mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus
in rc quaque leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque
definire, remotiorum aetatum aenigmata
folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum feries oftentare, umbras pro
corporibus amplexari, carbones pro unionibus vendere (qui elt antiquariae
facultatis abutus longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, &
ultro delatae occupationis occalione, huiufmodi ftudio va¬ cavimus, haud fane
operae noltrae poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae, chronologiae, veterum
linguarum, ar¬ tium, ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur
& noftris notionibus, & famae quinetiam accelfionem fecii-
fe,tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬ que feracillimae,
incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific. Quare ab omni
ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel quae nullo
tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper abhorrere
nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni deficiente
exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte, & fere cum trepidatione
propofuimus. Rati infu¬ per ex monumentorum inter fe collatione, quae vel rerum
affinitate,velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent, veram plerumque
prodire pofle fignificationem, vel receptis fcriptorum fententiis maius etiam
polle robur accedere, LXI dere, id praefertim curavimus, ut quae
fimilia ia ceteris Mu- feis, & in iplis Antiquariorum libris exftant
monumenta, tamquam conflantis, & indubiae veritatis vadimonia propo¬ neremus.Nihilenimmagisvaletadiudiciumderealiqua
tum ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo
modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, &
eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope
fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis, & certitudinis, quam
gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit,
impares nos huiufmodi Audio fuifie, quod
aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem
veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus. Qui legis, feliciter vale.
INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur. CLASSIS I. Chiae continet
deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus, pag. 3.
Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V. Apollo
Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo, pag. (5.
Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas. pag. 8. Tab. X. Mars.
pag. ead. Tab. XI. Mercurius. pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag. 10. Tab. XIII. Bacchus
asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab. XV. Amor. pag. 12. Tab.
XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII. Amor canens. pag. 13. Tab.
XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15. Tab. XX. Minerva. pag. ead.
CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab. XXI. Cybele, pag. 17. Tab.
XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19. Tab. XXIV. Cybele, pag.
ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag. ead. Tab. XXVII. Ceres,
pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres. pag. 24.
Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania, pag. 26.
CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag. 27. Tab.
XXXIV. Faunus. pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI. Faunus, pag.
ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab. XXXIX.
Faunus. pag. ead. Tab. XL. Faunus, & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI- Silenus,
pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead. Tab.
XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37. Tab.
XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38. Tab.XLIX,Pomona,pag.39. Tab.
L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40. CLASSIS IV. Quae continet DEOS
INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab. L111. Hercules, pag. 42. Tab-LIV.
Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag. 44. Tab. LVI. Aefculapius» pag.
47. Tab. LVII. Aefculapius. pagt 49. Tab. LVIH. Hygia, pag. ead.
Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon. pag. 53. CLASSIS V. Quae continet
VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia. pag. 56» Tab. LXII. Pudicitia, pag. ead.
Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag, 59. Tab.LXV.Abundantia.pag.60.
CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET MINISTROS.
Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63.
Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans.
pag. 66. Tab. Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans. pag. 67.
CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab.
XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla. pag. 94.
Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab.
LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI. pag. 71. CLASSIS VIII.
Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex
Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97. Tab. LXXIV. C.
Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI.
Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77.
TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia.
pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius, pag
81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero. p.82.
TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83. Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq.
Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius. p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag.
85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag. 86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87.
Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89. Tab. XC. M. Aurelius Antoninus. pag. 90.
Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91. Tab. XCII- L. Aurelius Commodus. pag. 92.
Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab. CII Femina velata cum puero. p. ead. Tab.
CIII. Femina Rolata. pag. 109. CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES.
Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag. 111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen. pag. 11 2. Tab.
CV. Fig. 1., Sc 11. Amores quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., &
m. Somni, & Mortis Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag.
42. TAB. XLIII. pag. 45 Florentia. ibid. SebaRianus Blanchius. pag. 63. Franc.
Ant. Gorium. P?g- 79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi.
1. quos Etrufcis in ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant.
pag. 109. PALLIATA. referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant.
Franc. Gorium. ferre. cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao.
honorabant. STOLATA. Curatore: Fragmenta vestigiis veteris Romae -- A D O
N E A. Adonidis mmen apud Ouidiutn. AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS InporticihusOBauU.
Injiaurau ah Hadriano * AEDIS. IVNONIS. In porticihus OBauU* Aedes Palladis
inforo T^erua* AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide Templum*
Aedium Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris Aedihus* f
Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M.
AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud
Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9,ah Alexandro Seuero,
ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA.APOLLINIS
cumara. a r e a. VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA. POLL
VCIS |69 Traiani. ■ 40 CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47
AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io
Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM.
LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57
BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a.
coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid*
77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c
Capitolium. 20 40 CASTRA. MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69
CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA.
4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^ Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand*
CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid*
7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea
puhlica > priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni,
HORTI. PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico
Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena
CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E, Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus extra
Templutn Dicta Domitiani.* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful Seuero.
Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^ DOMVS.
CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium. "T.
E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis.
5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24.S,StephaniadTiherimolimMatuu
&4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI MONVMENTA. MARIANA Muri Vrhis
inflauratl al Arcadia CST* Honorio. N N A V A L E M Piummus Alexandri Seueri
cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O ilidl 85 39 Euripus in Circo
Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in porticilus. Eons Lolltanus.
Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS. Gyn<eceum • n
HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu \^uriamffojliliam corrupts 8 1
j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35 Orilejlra in Teatro» ^In
Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5 S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23
35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci Aprippto magnificentia 6
Per^ ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura amiqua infants •
Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm ante Claudiufn i P O
M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij cognominatus • I c h n o g r a
p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h - muli iocauit ihidi & I, 19 •
5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum duabus Jedtbus» i o PORTICVS *
OCTAVIAE. E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i Ionicaeiufque ornamentA • Porticus
Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17
SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45 cogmminau • Porticusjimplex.
Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F ortun* wirilis. 24 Matuu.
ibid. R E G lA. 53 Romuli templum injtauratum a Stipt* SiUtro i Rom*
^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65 ibid. a 5 ibid* $
SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata t Sepulcrurn
DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum PhitomeUfeu
Lufcini* • 61 SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19
SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs & Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3
(jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v.. StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in
nieflibulo*fact adium Staiud celkires in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe
adArcum SERAPAEVM • 69 Stattia Apollinis Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani.
Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI - THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad
Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i
Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus
Aqu* Marti*. Veflibula Regalia. Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5
VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi.
Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i filopatridi.
Alfabeto etrusco, alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum,
grandonico-malabaricum sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Amaduzzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692077665/in/photolist-2mUuQG8-2mKRpLn/
Grice ed Ambrogio – SEBASTIANE – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like the Italian
philosopher, Ambrogio – he was born, of course, in Germany! And he never wrote
in Italian! But the fact that he got all his inspiration not so much from God
but from Cicerone’s Liber II De Officiis, makes him an ineludible step in Lit.
Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the spelling “Ambrogio,” or if not “Aurelio
Ambrosius”To call him Ambrosisus is like calling me Gree.” Grice: “Not to be
confused with Ambrose and his orchestrasweet!”on altruism. known as Ambrose of
Milan. Roman church leader and theologian. While bishop of Milan, he not only
led the struggle against the Arian heresy and its political manifestations, but
offered new models for preaching, for Scriptural exegesis, and for hymnody. His
works also contributed to medieval Latin philosophy. Ambrose’s appropriation of
Neoplatonic doctrines was noteworthy in itself, and it worked powerfully on and
through Augustine. Ambrose’s commentary on the account of creation in Genesis,
his Hexaemeron, preserved for medieval readers many pieces of ancient natural
history and even some elements of physical explanation. Perhaps most
importantly, Ambrose engaged ancient philosophical ethics in the search for
moral lessons that marks his exegesis of Scripture; he also reworked Cicero’s
De officiis as a treatise on the virtues and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai
cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota
disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se
stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci.
Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel
sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile
ritratto del vescovo. Vescovo e Dottore della Chiesa
NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato
daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica
di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre
(cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e
gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato,
Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi,
Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della
Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg Incarichi
ricopertiVescovo di Milano Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato
presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a
Milano Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius),
meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto
339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una
delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come
santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in
particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori
della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio
I papa. Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di
nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a
san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374
fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne
conserva le spoglie. Incarichi pubblici e nomina a vescovo di
Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica
1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e
ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum
2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico
5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali
(ascetiche) 6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario
6.6Innografia 6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia
Gioventù Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo
Aurelio Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella
Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre
esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339
circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui
la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un
cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco). La famiglia di Ambrogio
risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso
soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che
«ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua
sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa
Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi. Destinato
alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua prematura morte
frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del
trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e
retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.
Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura
esercitati presso Sirmio (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia),
nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia
Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove
divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La
sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra
ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due
fazioni. Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il
delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino
racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la
designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si
sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì
quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un cattolico
come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico, sentendosi
impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all'epoca, egli
non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di
teologia. Paolino racconta che, al fine di dissuadere il popolo di
Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona
fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in
casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella
sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo
decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità dell'imperatore
Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che accettò
l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti,
e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo
nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e, il 7 dicembre 374, venne
ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della
morte: «Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine,
poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata. Ma non
valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami.» Nonostante,
come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle
insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo, Ambrogio
prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici
e teologici. Episcopato Ambrogio con le insegne episcopali Gli
impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374), adottò uno stile di vita
ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri
(eccetto il necessario per la sorella Marcellina). Uomo di grande carità,
tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei
cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant'Ambrogio non esitò a
spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di
prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli
rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell'oro.
Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. [...] I
sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell'oro ciò che
non si compra con l'oro» (De officiis, II, 28, 136-138) La sua sapienza
nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione
nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di fede manichea, che era venuto a
Milano per insegnare retorica. Ambrogio fece costruire varie basiliche,
di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo,
probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali
basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la
Basilica Apostolorum), alla basilica di San Simpliciano, detta Basilica
Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte opposta), alla basilica di
Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica
Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio
rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e alla
basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum). Il ritrovamento dei corpi
dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che ne
attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra
davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Nabore e Felice.
Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato
dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si
racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome
Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del
vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei
confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e
negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica. Ambrogio
fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel
culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e
ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico
canto. Politica ecclesiastica L'importanza della sede occupata da
Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale
attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di
politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui
combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu inoltre sostenitore
del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri vescovi (tra i quali
Palladio) che lo ritenevano pari a loro. Si mostrò in prima linea nella lotta
all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte
imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice Giustina, di fede
ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell'imperatore Graziano
che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e, con l'editto di
Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il momento di
massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli
ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte imperiale una
basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di Ambrogio fu energica
tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai fedeli cattolici,
"occupò" la basilica destinata agli ariani finché l'altra parte fu
costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio
introdusse l'usanza del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di
inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la
basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella
controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e
Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il
quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della
città. Fu infine forte avversario del paganesimo "ufficiale"
romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo
motivo si scontrò con il suo stesso cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco,
che chiedeva il ripristino dell'altare e della statua della dea Vittoria
rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano
nel 382. Rapporti con la corte imperiale Sant'Ambrogio rifiuta
l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel dipinto di Van Dyck. Molto
probabilmente questo episodio non avvenne mai: Ambrogio preferì non arrivare
allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo redarguì in privato. Il
potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in
particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino, possedeva una certa
autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato petrino non era
pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la posizione di
Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua
precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono
più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad avere stretti
rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana, e talvolta a
ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori. In
particolare, nonostante il convinto lealismo verso l'impero Romano e
l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti con le istituzioni
non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa
della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli
accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e
verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal
suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio. Essendo Ambrogio
precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del
Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le
vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco,
che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla
Curia romana Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel
settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei
vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi
ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.
Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che
un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico,
l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo,
accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese.
Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento, minacciando
di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a revocare le
misure. Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva ordinato un
massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del
presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state
assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di
una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò
diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il
pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via
epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica»
all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi
cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso
offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise
pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai
sacramenti. Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si
irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti
(noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica:
venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di
qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre
inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero
nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli,
l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano
equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio
I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla
conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò
ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una
lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase
per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio.
Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano. Alla sua morte, per
sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il
suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie,
rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e
cristallo posta nella cripta della basilica. Pensiero e opere
Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele,
simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata
all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso
semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che
quindi mantengono un tono simile al parlato. Per il suo stile dolce e
misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come
il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare. Esegesi Oltre
la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta
seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro
(in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama
ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo
o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad
affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione
(come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24). Secondo Gérard Nauroy,
«per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un
metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con
la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso
sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola
stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica
costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana: «Bevi dunque
tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi
bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora,
quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e
nelle energie dell'anima» (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le
opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio
evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni").
Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di
Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della
Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in questo
caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti
morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà
delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato
con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche
morale e spirituale. Morale e ascetismo Un altro gruppo significativo
consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De
officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla
vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli.
L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di
etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a
questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l'opera
ai suoi "figli" in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di
Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati
all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto nell'identificazione tra i
due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale
stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza dai piaceri e dalla
vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con
originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla
mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti
dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più
etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega
fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da
quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi
addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù
tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo:
la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione
verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si
aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino,
ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione
verso i poveri, gli schiavi, le donne. Altre cinque opere sono dedicate
alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De
virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio
esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della
tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e
chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza
tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità
è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita
coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il
fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che
non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna:
«Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per
sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché
la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo
Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e
i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la
famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63). Società e
politica Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel
confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i
valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato
all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione
repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole
esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si
dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia: «Che c'è di più
bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia
preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una
libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica
repubblica, quale conviene in uno stato libero.» (Esamerone, VIII, 15,
51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come
servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi
alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e
del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i
chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la
sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di
Tessalonica: «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul
morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la
dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri,
perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo
dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa
santa sul morso"!» (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al
dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di
non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una
possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e
clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire
il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione
imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori,
noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a
Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla
morale cristiana. Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale
era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione
economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della
tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth: «La terra è stata creata
come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi,
vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al
povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune,
che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.» (Naboth, 1,2; 12, 53)
Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo § Antigiudaismo
teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo
eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito ambrosiano,
le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la
conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel
cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare
l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva
riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le prerogative
della Chiesa nascente. Ad esempio, nell'Expositio Evangelii secundum
Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso
dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te, Gesù
Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio
critica aspramente l'incredulità della gente circostante: «Chi è colui
che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei
che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata
la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene:
era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo
lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era
uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come
opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il
Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del
demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la
folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i
demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta
il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice "Buttati!"
(Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino.» L'episodio di
Callinicum Le cronache storiche riportano un episodio che può essere
considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei.
Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l'attuale
al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla sinagoga e la bruciò. Il
governatore romano condannò l'accaduto e, per mantenere l'ordine pubblico,
dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo.
L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.
Ambrogio si oppose alla decisione dell'imperatore e gli scrisse una lettera
(Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l'ingiunzione di ricostruire
la sinagoga a spese del vescovo: «Il luogo che ospita l'incredulità giudaica
sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai
cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli
increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro
sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei cristiani -... Il
popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi...»
Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11):
«Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante,
l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il motivo della
religione?» Nell'epistola Ambrogio si attribuì la responsabilità
dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sì, sono
stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove
Cristo venga negato» Ambrogio si spinse ad affermare che quell'incendio
non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora dato l'ordine di
bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che bruciare le sinagoghe
era altresì un atto glorioso. Ambrogio non volle salire sull'altare
finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione
della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella
questione della religione l'unico foro competente da consultare doveva essere
la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale
e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l'indipendenza
della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo
Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono
sottostare. Mariologia Sebbene non si possa parlare di una mariologia
vera e propria (intesa come pensiero sistematico), sono numerosi nell'opera di
Ambrogio i riferimenti a Maria: spesso, quando si presenta l'occasione, egli si
rifà alla sua figura e al suo esempio. La sua venerazione per Maria nasce
soprattutto dal ruolo attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti
madre di Cristo, e dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono
chiamati a "generare" Cristo: «Vedi bene che Maria non aveva
dubitato, bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede.
«Beata tu che hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto:
infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne
comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il
Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la
carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano
Cristo» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio
difende strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero
di Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il
peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti"
della venuta di Cristo: «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore,
accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria:
se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva
essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»
(Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù
morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria
risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche
per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di
mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi. Milano e il rito
ambrosiano Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di
Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito
ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi
nella diocesi della città. Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno
parlò del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore,
bensì come "vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un
secondo "vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII
definì per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è
rimasto ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta
anche la stessa città. L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a
partire dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio
coniugata alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della
giustizia sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli
lontani, la denuncia degli errori nella vita civile e politica. L'operato
di Ambrogio lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli
introdusse nella Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie
orientali, in particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te
Deum laudamus, ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi.
Le riforme liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai
successori e costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto
all'uniformazione dei riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da
papa Gregorio I e dal Concilio di Trento. In dialetto milanese Ambrogio
viene chiamato sant Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi
pronunciati "sant'ambrœs"). Sant'Ambrogio affrescato da
Masolino, Battistero Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il
premio Ambrogino d'oro, che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente
chiamate le onorificenze conferite dal comune di Milano. Sant'Ambrogio e
il canto liturgico Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek
Con il termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa
Cattolica che fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare
durante la liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso
è caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in
versi, che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito. A differenza
di quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un
gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori
alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e
anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati
sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli
è sant'Agostino, che fu discepolo di Sant'Ambrogio. Essi sono:
Aeterne rerum conditor (cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De
natura et gratia 63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e
citato complessivamente ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui
regis Israel (cf. Sermo 372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica
in generale e di quella ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una
moltitudine di inni in stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare
dei criteri per indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da
Ambrogio. Nel 1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con
l'indole letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con
questi criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni: Splendor paternae
gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale)
Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax
Deus (per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus
creator omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della
verginità) Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans
Altissimus (per le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per
sant'Agnese) Hic est dies verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii
(per i santi Vittore, Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi
Gervasio e Protasio) Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo)
Apostolorum supparem (per san Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni
Evangelista) Aeterna Christi munera (per i santi martiri) Aeterne rerum
conditor (al canto del gallo) Gli autori dell'edizione delle opere poetiche di
Ambrogio in un volume stampato nel 1994, che ha portato a compimento l'Opera
Omnia, in latino e in italiano, del vescovo di Milano, hanno ridotto questo
numero certo a tredici canti, escludendo quelli per le ore minori, per i
martiri e della verginità. L'esclusione va ascritta alla metrica di questi testi.
Ambrogio aveva una predilezione per il numero otto. I suoi inni sono tutti di
otto strofe con versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la
risurrezione di Cristo, la novità cristiana e la vita eterna (octava dies,
l'ottavo giorno della settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del
Cristo). Per questi studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a
questa preferenza e quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono
attribuiti al vescovo milanese. Per questi storici inoltre non vi è
motivo di dubitare che l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che
per loro natura questi inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca
nota come Ambrogio possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue
opere rivelano, oltre a una perfetta conoscenza scolastica, anche una
particolare propensione musicale. Egli parla dell'arte musicale con cognizione
tecnica e non solo con estetica raffinatezza come il suo discepolo
Agostino. Leggende su Sant'Ambrogio Spoglie mortali di Ambrogio e
Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici, nella cripta della Basilica di
Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono numerose leggende
miracolistiche: Mentre Ambrogio infante dormiva nella sua culla posta
temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si posò
improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano ed
uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e
perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò,
avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un
grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che
non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe
uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un
"chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a
grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di
Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la
colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui
trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda
secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il
demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece
per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi,
il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare
vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si
possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per
l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe
apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un
cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio
capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello
Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata
a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone
bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii
Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De
paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De
bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga
saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et
ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos
Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu
fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu
Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem
libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio
virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche
(sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu
Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De
paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De
sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad
initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium
de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api,
rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui
è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel
lavoro, con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione.
Inoltre S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla
sensazione di libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si
alimenta di ciò che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro
che non si tira indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette
simbologie, e per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano,
S.Ambrogio è ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative
che vedono in S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore
eterno: "Voi pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i
tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi" Note lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446
Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in
Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio,
978-3-11-026860-7. Ambrogio,
Exorthatio virginitatis, 12, 82 Robert
Wilken, "The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University
Press: New Haven, 2003), 218. Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of
the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991), 407.
Paolino, Vita di Ambrogio, 6
Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su
adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo.
Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8
Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957 Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai
Vercellesi, 65 Ambrogio, De officiis, I,
1, 4 Giacomo Biffi, Relazione al Meeting
di Rimini, 29-08-1997 C. Pasini, I Padri
della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a
Milano, op. cit., 169-170 Graziano avrebbe voluto convocare un concilio
numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi,
affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso
di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B.
McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University
of California Press, 1994. 124–5.). Codex Theodosianus, 16.10.10 Codex Theodosianus, 16.7.4 Codex Theodosianus, 16.10.12.1 Guida della Basilica di S. Ambrogio: note
storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove
Edizioni Duomo, 198686. Gérard Nauroy,
L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et
la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della
Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano,
op. cit. Per un'ampia descrizione
dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa
del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J.
Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De
Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120;
Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa
Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione,
protezione, controllo, I, Jovene, Napoli,.James Hastings, Encyclopedia of
Religion and Ethics, Kessinger Publishing, 2003, pag. 374 Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale,
Odradek, Roma, 2008 Ambrogio, De
virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio,
Città Nuova, 1990 Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di
Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano
Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito anche
a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed. Rizzoli,
Milano, 1993, 88-17-84233-8, pag.
816 Per una narrazione della leggenda e
della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La vera
historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune salute
1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano, anno
MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria ottenuta
da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di Santo
Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al
March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro
Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in
Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144 Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita
di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano,
1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca
Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec.
IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio:
studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra
di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni,
Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita
di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di
Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996. 978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di
Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B.
1996. 88-215-3303-4 Luciano Vaccaro,
Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di Lugano,
Editrice La Scuola, Brescia 2003m, 5, 128, 202, 224, 225, 248, 259nota, 280,
286, 287, 442. Giorgio La Piana, Ambrogio in
Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo, Sant'Ambrogio e l'invenzione di
Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4. Raffaele Passarella, Ambrogio e
la medicina. Le parole e i concetti, LED Edizioni Universitarie, Milano 2009
978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle
origini e i primi sviluppi della fede a Milano., Busto Arsizio, Nomos Edizioni. 978-88-88145-46-4 Franco Cardini, 7 dicembre
374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano, Roma-Bari, 21-40.
Sant'Ambrogio, in San Carlo Borromeo, I Santi di Milano, Milano, 978-88-97618-03-4 Patrick Boucheron e
Stéphane Gioanni, La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una
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Sorbonne-École française de Rome,
(Histoire ancienne et médiévale, 133CEF, 503), 631 p., 978-2-7283-1131-6 Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam
Basileam, [Johann Froben], 1527. Sant
AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli edizioni (in collaborazione con
Circolo Filologico Milanese), Milano,
Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino di Ippona Basilica di
Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito ambrosiano Paolino di Milano
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su Sant'Ambrogio in occasione dell'udienza generale del 24 ottobre 2007
PredecessoreVescovo di MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San
Simpliciano SoresiniV D M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio
di Milano Antica Roma Antica Roma
Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Milano Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi
romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di
MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori
della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani
antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti della
Chiesa ortodossa. Acta Sancti Sebastiani Martyris [Incertus] -- San
Sebastiano -- Sebastiano -- Ad Virginem
Devotam -- Apologia Altera Prophetae David
-- Apologia Prophetae David Ad Theodosium
Augustum -- Commentarius In Cantica
Canticorum -- De Abraham Libri Duo -- De
Benedictionibus Patriarcharum -- De Bono
Mortis -- De Cain Et Abel Libri Duo -- De Concordia
Matthaei Et Lucae In Genealogia Christi -- De Dignitatate
Conditionis Humanae Libellus -- De Dignitate
Sacerdotali -- De Elia Et Jejunio Liber
Unus -- De Excessu Fratris Sui Satyri Libri
Duo -- De Excidio Urbis Hierosolymitanae Libri
Quinque -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri
Quinque -- De Fide Orthodoxa Contra
Arianos -- De Fuga Saeculi -- De Incarnationis Dominicae
Sacramento -- De Institutione Virginis Et Sanctae Mariae Virginitate
Perpetua -- De Interpellatione Job Et David Liber
Quatuor -- De Isaac Et Anima -- De Jocob Et Vita Beata
Libri Duo -- De Joseph Patriarca -- De Lapsu Virginis
Consecratae -- De Moribus Brachmanorum
[Incertus] -- De Mysteriis -- De Nabuthe Jezraelita
-- De Noe Et Arca -- De Noe Et Arca Liber Unus [Fragmentum]
-- De Obitu Theodosii Oratio -- De Obitu
Valentiniani Consolatio -- De Officiis Ministrorum Libri
Tres -- De Paradiso -- De Poenitentia Liber
Unus -- De Poenitentia Libri Duo -- De
Sacramentis Liber Sex -- De Spiritu Sancto Libellus -- De
Spiritu Sancto Libri Tres -- De Tobia Liber
Unus -- De Trinitate. Alias In Symbolum Apostolorum
Tractatus -- De Viduis -- De Virginibus Ad Marcellinam
Sororem Sua Libri Tres -- De Virginitate -- De XLII
Mansionibus Filiorum Israel Tractatus -- Enarrationes In
XII Psalmos Davidicos -- Epistola De Fide Ad Beatum Hieronymum
[Incertus] -- Epistolae Duae De Monacho Energumeno
[Incertus] -- Epistolae Ex Ambrosianarum Numero
Segregatae -- Epistolae Prima
Classis -- Epistolae Secunda
Classis -- Exameron Libri Sex -- Exhortatio
Virginitatis -- Exorcismus -- Expositio Evangelii Secundum
Lucam Libris X Comprehensa -- Expositio Super Septem Visiones
Libri Apocalypsis -- Historia De Excidio Hierosolymitanae Urbis
Anacephalaeosis --- Hymni -- Hymni Sancti Abrosio
Attributi [Incertus] -- In Epistolam Beati Pauli Ad
Colossenses -- In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios
Primam -- In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios
Secundam -- In Epistolam Beati Pauli Ad Ephesios. In
Epistolam Beati Pauli Ad Galatas -- In Epistolam Beati Pauli Ad
Philemonem . In Epistolam Beati Pauli Ad Philippenses --
In Epistolam Beati Pauli Ad Romanos -- In Epistolam Beati
Pauli Ad Thessalonicenses Primam. In Epistolam Beati Pauli Ad
Thessalonicenses Secundam --
In Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum Primam . In
Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum Secundam -- In Epistolam Beati
Pauli Ad Titum -- In Psalmum David CXVIII Expositio --
Liber De Vitiorum Virtutumque Conflictu [Incertus] -- Libri Duo de
Vocatione Gentium [Incertus] -- Philosophorum Aliquot
Epistolae [Incertus] -- Precationes Duae Hactenius Ambrosio Attributae --
Sermones Sancto Ambrosio Hactenus Ascripti -- Sermones
Tres -- Vita Ex Ejus Scriptis Collecta [Editor] -- Vita
Operaque -- Vita Operaque. Selecta Vetera Testimonia -- Vita
Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi [A Paulino Ejus Notario] --
De Abraham Libri Duo -- De Bono Mortis -- De Cain et Abel Libri
Duo -- De Isaac et Anima -- De Mysteriis -- De Noe Et
Arca. De Paradiso -- Epistola VIII -- Epistula ad Sororem --
Epistulae Variae -- Hexameron Libri Sex . Hymni --
Vita -- La Penitenza -- La Penitenza -- De
Excessu Fratris Sui Satyri Libri Duo [Schaff] -- De Fide Ad
Gratianum Augustum Libri Quinque [Schaff] -- De
Mysteriis -- Mysteriis Liber Unus [Schaff] -- De Officiis
Ministrorum Libri Tres [Schaff] -- De Poenitentia Libri Duo
[Schaff] -- De Spiritu Sancto Libri Tres [Schaff] -- De
Viduis Liber Unus [Schaff] -- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem
Sua Libri Tres [Schaff] -- Epistola. Exposition Of The
Christian Faith -- On The Decease Of His Brother
Saytrus -- On The Duties Of The Clergy -- On The Holy
Spirit -- Repentance -- Some Letters -- Some Letters [Schaff] -- To
Marcellina His Sister Concerning Virgins. -- Treatise Concerning The
Widows. IL DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico apostolato della scienza e
della virtù,chequeigrandi uomini,cuilaChiesagiustamentesaluta suoi
padri,illuminaronoevinsero ilmondo pagano.Allo scetti cismo, frutto di astruse
teorie filosofiche, che distruggevano senza edificare, essi opposero le verità
cattoliche, profonde e s u blimi pei sapienti, chiare e popolari per la moltitudine,pratiche
per tutti;alla spaventosa depravazione prodotta e mantenuta da una religione
tutta materia e sensi,essi risposero coll'introdurre della sfibrata e morente
società romana una moltitudine di uomini e di donne, i quali invece delle
sterili declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé stessi,ad esempio di
Gesù Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e per l'umanità. I
secolo IV segna appunto il massimo furore di quelle in cruente battaglie. S.
Atanasio, S. Basilio, i due S. Gregorii, S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni
Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja di monaci e di sante vergini
dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo dell'Occidente com pare il
grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac coglie la penna di S. Atanasio
per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce, cogli scritti e cogli esempi
propri e della santa sua sorella Marcellina popola, non ideserti,ma le corrotte
città latine di una legione di angeli terreni. Sublime missione al certo,ma non
unica,a cui laDivina Provvidenza destinava il figlio del Prefetto delle Gallie,
allora che inconsapevole de'suoi destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per
esercitarvi qual Consolare l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed
Emilia.Infatti nel congedare il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del
pretorio e cristiano, gli aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da
giu dice,ma davescovo(1).L'opulentoesaggiosenatoreromano con quelle parole
manifestava, senza comprenderne la forza profetica, il vizio radicale ed il
maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto esserne ilrimedio:la
cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e delle leggi. 437 (1)Paulin,in
vit.Amb.n.5. A quest'opera tuttavia richiedevasi non un greco od un
barbaro,ma un nobile romane discendente dall'antica razza conquistatrice;era
conveniente non un uomo di guerra ne un colto letterato,ma un giurisperito,che
dalla magistratura dell'impero terreno passasse alla magistratura dell'impero
spi rituale.Tal fu Ambrogio,allorché nel 374 per mezzo di un prodigio fu eletto
Vescovo di Milano. SealcunofossestatoalloraammessodaDio leggerenel futuro
avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela
responsabilitàdiVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono
rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano; ma insieme
avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe
dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del
grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo
Magno. Si; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del
maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha
consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla
Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei
popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie
santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a
quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo
veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di
uno sperimentato e valente capitano. Nondimeno chi fu che sospettasse in
que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo
di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre
inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano
onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più
trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed
inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle
generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma
efficace opera di S. Ambrogio; ed è perciò con un trasalimento di gioja che
noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla
società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed
affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni, le convulsioni ed i
terrori di questo secolo XIX, per errori e pericoli sociali tanto simile al
secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di
ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di
preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo, gran
Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra
noi S. Ambrogio? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai
secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale,
per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi
riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di
pronosticare il futuro; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il
C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla
società del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore
vorrà ora farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della
tribolata e perico Jonte società moderna; speranza e consolazioni ben
giuste,poi che nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano.
I. La divisione scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se
non di nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era
fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e
modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e
conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di
Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta
semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione
co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la
famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo,uominiprudentialforo lodata perció la
madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli,
futuri tribuni della plebe; poi
chèessaconciòrappresentavaladonnaromana,qualelavo leva il ferreo diritto
repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e tutto si doveva
sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche famiglie patrizie
discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei senatori e
cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo il diritto
pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui nacque e si
perpetuò dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e plebe, che fu
causa non ultima della caduta dellarepubblicaedell'intronizzazione del dispotismo
cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni confinanti
coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari.
L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive
legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa
presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si
concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj
nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli
dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati,
cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso
dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si
informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte
leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma
derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma,ed essendo Roma il
mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento
dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e
militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo
dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo dell'abbrutito
Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova religione, che diceva
doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere glidei
nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri ma di
prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che
ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio-
idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle
porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il
cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso, una delle mille
superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle
vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e
difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e
pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni
sociali,esigendo un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un
cambiamento ra dicale nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro
mulgata questa nuova dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in
ogni classe e condizione dell'impero; accolto sopratutto con trasporto fra
quegli esseri, quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella società
romana ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la giuri
sprudenza e la politica romana si trovassero bentosto nella nece s s i t à d i
r i s o l v e r e u n q u e s i t o, il q u a l e i n v o l g e v a l e s o r t
i d e l l ' i m pero e dell'umanità. Se l'impero accoglieva il cristianesimo,
questo che trasformava le donne ed i fanciulli in eroi, avrebbe salvato
l'impero dallo sfascelo all'interno, all'esterno dai barbari,
mansuefattidalvangelo;ma loStatoconciòcessavadiessere ilsupremo Iddio;laChiesa
assumeva con esso le parti dim a dre; lo schiavo, il vinto, la donna dovevano
esser rispettati; s'umiliava l'orgoglio;cadevano Venere e Mercurio;regnava
Cristo. Se per contrario volevasi sostenere l'onnipotenza dello Stato, la
divinità degli imperatori, l'eternità di Roma, la nuova religione si doveva far
sparire dalla faccia della terra.Da Ne rone a Massenzio gli imperanti romani si
decisero per questa seconda politica e ne affidarono la cura al carnefice; il
quale per tre secoli stancò uomini e belve, e non riesci che a ren dere più
splendido il trionfo del cristianesimo. Costantino cambiò sistema e dopo aver
bandito tolleranza,dichiarossi per ilnuovo
culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e padrone
della Chiesa, divenne il triste
modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse Giu liano,col quale
ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene effimera, riscossa.
Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va lentiniano I, successo al
buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era prode guerriero;accorse al
Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che scrosciava e trasbordava dalle
frontiere, oppose, per allora, un argine di ferro. Tuttavia se la spada
valeva coi nemici non giovava per le questioni interne, nè per arrestare la
decomposizione sociale di quell'immane gigante,cui ilcristianesimo tentava
invano di risanguare con forti e pratiche dottrine di virtù e sagrificio. La
fede operava al certo nel segreto delle coscienze una im portantissimarivoluzionemorale;ma
nonostanteglisforzidi Costantino, il mondo amministrativo si era tenuto in
disparte dalla influenza e dalle istituzioni cristiane.Infatti sotto Valen
tiniano, già confessor della fede avanti all'Apostata, il governo continuava
colle massime e coi costumi dell'antica Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a
chiamarsi divino ed eterno; (1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18. aveva
assunto i titoli e le insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti
degli idoli privilegi e sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della
Vittoria eretto nel mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca
del regnante cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero
tuttora di fronte e disponevano di forze eguali; più popo
lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed
aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il
paganesimo, considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria
romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato
nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo
politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in
campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito,
l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore
nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le
superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra
Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi,
so v e n t e c o n t r a d d i t t o r i i; p e r e s s o il p r i n c i p e c
r i s t i a n o n o n p o r t e r à che colpi troppo prudenti a quelle antiche
istituzioni pagane, che rimanevano sempre incarnate nel diritto civile
dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui ilprogresso introdotto dal
cristianesimoreclamavauna prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una
risposta.Eppure necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società
era tuttora divisa fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e
cittadini,ed una immensa maggioranza di uomini, cui il cristianesimo diceva
fratelli dei superbi padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati
fra gli utensili d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1);
gli schiavi reclamavano in nome della natura e della religione idiritti
dell'uomo e del cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente
introdotta dal fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del
mondo,non solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io
nome di una assennata economia politica, per un mutamento radicale nei
principii che regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il
padre verso ifigli, (1)Ulpian.Inst.I,tit.8. il padrone verso
gli schiavi, e perfino il creditore verso il d e
bitore,anchedopolesaggiecostituzioni diCostantino,con servavano diritti, che si
assomigliavano troppo a quelli che la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti
nel bronzo;la carità cristiana, la quale ne andava sbandendo dai costumi
l'atroce e s e r c i z i o, e s i g e v a c h e il l e g i s l a t o r e s c i
o g l i e s s e i s u d d i t i d a q u e l l e pastoje dell'antico
servaggio,con cui ilgiudice per rispetto ad una formulistica e sacrilega
legalità conculcava l'equità e la g i u s t i z i a. C h e p i ù; il m a t r i
m o n i o f o n d a m e n t o d e l l a s o c i e t à e la donna che ne è il
cuore, erano sempre 'all'arbitrio di una legislazione,che sanzionava,col
divorzio e colla tutela perpetua, una incredibile corruzione di costumi,
massimo fra i pericoli dell'impero;or bene le vergini e martiri cristiane
volevano,che un sesso santificato dalla Vergine madre di Dio, fosse ricollo
cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il matrimonio, pei cristiani
elevato a Sacramento, fosse anche pei pagani cosa seria e rispettata. Queste ed
altre questioni,che travagliavano lasocietà ro mana
nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al cuore
nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in Milano
prese pos sesso dell'importante sua carica? Le parole e le gesta del m a
gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese, e già
risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del governo e
del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto pratico
carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato nella
Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico romano
taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci teorie più
o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli avveni menti;e
perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche sparivano fra l'olezzo
dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il tardo romano si
impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli scritti e più
nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore ardente di
Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere lettere e
volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa prudenza
del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde isuoi detti
ricevevansi come oracoli. Suo primo atto fu volgersi a Valentiniano
I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie e da cor tigiani
e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di gemiti e di
lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici contemporanei non ci è
riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento totale di sua politica
dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul dispotismo cesareo,
Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne volle pe'suoi peccati
conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora creduta impossibile!La
divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche dell'età
classica,asseriva sciolta dalle leggi (princeps solulus a legibus),anzi legge
vivente, e libero senza ombra di ritegno a dichiarar lecito ciò che jeri era
illecitoed ingiusto (2), il dio di R o m a, riconosce d'aver errato; ed i s u d
diti,senza essere costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi celebrar l'apoteosi
dell'imperatore,possono ormai fargliperve nireleloroquerelepermezzodei
Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S. Chiesa. Se ad alcuno però non
piace questo progresso,perché introdottodaVescoviepreti,riservipure
l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i più grandi giurecon sulti al certo
dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano la clemenzaelasaggezza
diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia rimaneva a fare: non
solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva ripudiare official m e n
t e il c u l t o n a z i o n a l e d i R o m a. U n a c e r i m o n i a r i d i
c o l a e r a stata introdotta da Augusto e ripetevasi infallantemente ogni
volta era assunto un nuovo principe all'impero;lo stesso Co stantino non aveva
osato di rinunciarvi.L'offerta però del ti t o l o e d e l l e i n s e g n e d
i p o n t e f i c e m a s s i m o, c h e il s e n a t o f a c e v a
all'imperatore,inchiudeva un gravissimo significato, poichè era la conferma di
quel vecchio diritto pagano e teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano
acora distruggere l'autorità tante volte secolare e che isenatori,in parte
ancora idolatri, facevano studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc
casione.Rigettare quelle insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità
dello Stato sopra i beni, sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle
anime e sulle coscienze dei sud diti. Quale fra i moderni vantatori di
liberalismo in simile circostanza ascolterebbe la voce della ragione e della
fede, par 444 S. AMBROGIO E IL DIRITTO ROMANO (1) Theodor. Hist. Eccl.
Lib. IV,c. VI. (2) Digest. Const. Lib. I, tit. 4. lante per bocca di Ambrogio? Lo stato attuale
d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente pensava però quel caro figlio s p
i r i t u a l e d i A m b r o g i o, c o m e e s s o c h i a m a v a il g i o v
a n e G r a z i a n o, il primo che alla deputazione del senato rispose:sè
essere cristiano. Ottenuta questa seconda vittoria,se ne richiedeva una terza,
perché il cristianesimo potesse lusingarsi di vedere ilgoverno dei Cesari
informatodisue caritatevolidottrine.Ragion logica voleva che l'ara della
Vittoria,simbolo delle antiche superstizioni, s g o m b r a s s e il s e n a t
o, m o l t o p i ù o r a c h e l ' i m p e r a t o r e, a s s o c i a t o s i
Teodosio,avevavintiiGoti,invirtùnondiGiovemadiGesù Cristo.Ilregalealunno
d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra, gli aveva chiesti consigli ed
istruzione a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino
adunque i senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la
statua d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato
commosse la fazione pagana fino nell'ultime fibre: molti senatori tuttora
partitanti per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono
inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore.Ma ai fianchi di
Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte fiMilaniaso,dellasedecristiana.Invanopertanto
ladeputazione instò; il giovine principe si dichiarò irremovibile e neppur
volle ammetterla all'udienza. Graziano era allora nel fiore dell'età,nell'auge
della gloria, gioconda speranza della Chiesa e dell'impero: e invece per uno di
que'misteriosi decreti della Divina Provvidenza,che scon certano tutti gli
umani ragionamenti e non lasciano luogo che all'umiltà ed alla adorazione,
l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue truppe e cadde vittima di infame
tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e risorgevano le speranze degli ido
l a t r i, i q u a l i r a p p r e s e n t a t i d a A u r e l i o S i m m a c
o P r e f e t t o d i R o m a e ricco sfondato, credettero di approfittarsi
delle circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo
sbigot titodel fanciulloValentinianoIedellasuperba,ma insieme d e b o l e, G i
u s t i n a. S t a t i s t a e l e t t e r a t o, f i l o s o f o e s c r i t t
o r e, il d i scepolo d'Ausonio esauri tutte le risorse del brillante suo in
gegno e stese una supplica,vero capolavoro di rettorica; se natore poi e
pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n carepanéecircesi,impiegò
perilpoliteismo,alquale esso (1) Baanard, Vita di S. Ambrogio, pag.
128. stesso non prestava più credenza, tutta l'influenza della per
sona e degli impieghi; e si riteneva sicuro della riuscita. In fattigià stavasi
preparando il decreto che ristabiliva l'ara della Vittoria,allorchèS.Ambrogio
sopragiunse dalleGallie,ove alla corte dell'usurpatore Massimo aveva, con
finezza di diplo matico consumato ed intrepidezza di vescovo cattolico,patro
cinata e vinta la causa del pupillo imperiale. Benchè un rigoroso segreto
presiedesse alla congiura dei senatori pagani ed ai consigli del Concistoro
imperiale,geloso dell'influenza del Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò
le macchinazioni; e presa la penna scrisse, non più all'Eterno, I n v i n c i b
i l e, G e r m a n i c o, P a r t i c o e c c., m a a l f e l i c i s s i m o e
c r i s t i a nissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica lettera,
incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si alternano e
vestono la forma della più commovente tene rezza paterna, si trova già
completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non
padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra.
Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti,
egli stesso è soggetto al Re dei Re; che un altro potere è sorto nell'impero a
regolare le coscienze,al quale pertanto, c i o è a i V e s c o v i, s p e t t a
il g i u d i z i o i n m a t e r i a r e l i g i o s a: i n c a s o
contrario,come indegno della professione cristiana,venendo l'imperatore alla
chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla porta ad impedirgliene l'ingresso.
Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel
giorno il profondo giurista, il de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse
nello scritto del V e s c o v o e d e l s a n t o. Il M e t r o p o l i t a m i
l a n e s e n o n b a d a a c o n tendere coll'avversario in lenocinio di
eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza: perciò non
allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte e,dirò,
fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come le
legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e disperde
perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava a tre
argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali reclamanti;la
patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana degli
imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti
affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo
difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria
è un nome astratto: esso si realizza nel numero e nel valore delle legioni
romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo incenso alla
statua di Giove. Chiedono i pagani
privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli?Dunque con fessano che senza essi non
possono reggersi: ma noi, dice S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le
miserie,lemapnaje; e d e i n o s t r i b e n i f a c c i a m o il t e s o r o d
e i p o v e r i. L e v e s t a l i? O h ! quante immunità,privilegi ed entrate
per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso e gli onori;
il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si conse crarono
a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni. Volete privilegi ed
entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale anche la moltitudine
quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia l'accordar
preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del l'impero e
della recente carestia d'Italia? I cristiani nemici della patria? — Avanti
all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii, che aveva
testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio
all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia,
riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale
prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un
seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle
confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a
riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano
confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma
teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti
convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed ancor
recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano l'indifferenza
dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa osservare che
non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e conclude
dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere ormaitempo,che
letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu vinta:quel soffioche
già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via l'ultimo avanzo del
paganesimo officiale, il quale invano una terza volta sipresenterà a
Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è rotta; non
solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e
contraddittoria, che voleva separato lo S t a t o d a l l a C h i e s a, il c o
r p o d a l l ' a n i m a s o n g e t t a t e; d a q u e l p u n t o
le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa e delle genti cristiane.
Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino, aveva dall'anno 379 al 382
pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa che contro gli eretici e
manichei e contro gli apostati recidivi al paganesimo:ci giunsero nelle
raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando diTeodosioilgiovine,econo
sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto Teodosio il Grande
promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua memorabile costituzione, in
cui dichiarava la fede cristiana religione dell'impero, e fra le varie sette
che ne disputavano il nome, osservava, intender esso quella sola, la quale
profes. sata ed insegnatadalPontefice Romano,allora Damaso,aveva con sé le note
caratteristiche ed esclusive della verità. Qual rivoluzione nei principii
legali e nelle massime di governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore
facesse decreti,esso stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine,
che andavano informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol
favorire i suoi ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S.
Ambrogio si offre pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a
sacrifi care lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande
Teodosio, illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata
ardentemente dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà
costringere il vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli
Ebrei, vedrà giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo
di Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i
dettami di una saggia politica impongono a Teodosio direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra
esi tante;ma Ambrogio insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a
promulgare una legge, con che il troppo vio lento principe impone agli altri
giudici,e prima a sè stesso, di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione
d'ogni sentenza capitale; non solo, ma in abito da penitente lo vedremo con
fessare ed espiare in faccia alla Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze
della impetuosa sua ira contro i Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno
dell'ammirazione di tutta la posterità! Esso fu grande quando sul campo di
battaglia tre volte sgomino le legioni degli usurpatori e due volte ruppe e
disperse le immense orde dei barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo
della Basilica milanese riconobbe, esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita
degli uomini.Circadue centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo
unicamente perlibidiniécrudeltà,avevaespressoildesiderio che il senato e Roma
stessa avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A
quell'imperatore,cui Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e
ne placavano la divina cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe
grande per'mente, per cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo
Cattolico, domandando penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della
giustizia contro alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà
ascriversi il cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I
fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte
intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese
(1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici, perchè il
cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come
tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche
per lo più solo in direttamente: la sua cura cotidiana, il pensiero della sua
vita era la santificazione del suo gregge; e le sue azioni e i suoi scritti
tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii,
quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone, la quale,come rappresentante dei
secoli cristiani,sebbene segni
unqualcheregressonelleforme,locompensaconunimmenso progresso,nelle idee non
mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di santa vita.Ma si può egli
sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco pertantoS.Ambrogio,por professando
osservanza dei canoni,che intimavano a pruti e vescovi una operosa residenza
fra il popolo (2), togliersi da Milano, c o m parire alla corte, intraprendere
disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la necessità della cosa pubblica.
Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando il grande Arcivescovo stava per
entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente dell'impero,lo mando a scongiurare,
che volesse pregar Dio per un po'd'altri anni, poiché l'Italia, lui morendo,
pericolava (3). III. (1) Il signor Cousin citato da Troplong, De
l'influence du christianisme sur le Droit civil des Romains, pag. 368. 29
(2)Epist.LXXXV,n.2. (3)Paulin, Vit.Ambros.n.45. Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non
è perciò meraviglia, se negli scritti e più nelle azioni del Consolare romano
divenuto Vescovo cattolico troviamo, sebbene quasi per incidente e per lo più
solo in germe, accen nate e risolte le principali questioni di diritto, la cui
completa trasformazione doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza
di Teodosio verso i vinti, gli sforzi di lui per siste mare
l'esazionedelleimposte,cuiibarbari,glierroridell'impero e più l'interna
corruzione dei costumi rendevano intollerabili, dimostrano che l'influenza di
S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un ministero di carità da esercitare
(1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a fuoco l'Illirico e ne conducono gli
abi tanti inservitù?S.Ambrogio spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende
ivasi preziosi della Chiesa:essendochè più preziose,
dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e l'argento consecrati
al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo della carità di quella
questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio dicevano di assoluto diritto
delle genti (2) e che la nuova religione professante la fratellanza universale
degli uomini, voleva sbandita dalla terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta
che vedea aperto ilcampo all'azione, viene attuando gradualmente
l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza però che prepara prima la
libertà delle anime e delle intelligenze, avanti di procedere alla liberazione
dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed ispirata solo da passioni
politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli schiavi stessi ed alle
nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne vanno ora facendo
l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza episcopale,che S.
Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e santo.
Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi cristiani, donò
alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che ilsenso pratico
degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore. Con ciò lo stretto
diritto civile consecratodalleleggidelleXIITavole,ilqualegià ritiravasi davanti
al diritto di natura più ampiamente propugnato dai giureconsulti dell'età
classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in quel codice,cui S.
Agostino chiamava divina (1 ) P a r e c c h i e l e t t e r e d e l s a n t o v
e r s a n o s u g l i o f f i c i i, c h e e i s o v e n t e a s s o m e vasi
di intercedere presso l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali.
(2)... quae potestas (servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e
Pomponio conchiudeva che chi cadeva nelle mani del nemico gli re stava per
diritto delle genti suo schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis). mente
emanato per bocca dei principi (1); e che fatto pubbli care da Giustiniano,
mentre l'impero d’occidente era distrutto e quello d'oriente
minacciato,conserva all'antica Roma la gloria di dominare eternamente,se non
coll'armi,col migliore primato delle leggi. Di fianco al diritto civile romano
nasceva il diritto ca nonico. La proprietà è resa universale: non vi sono più
distinzioni di res mancipi o nec mancipi, di dominio quiritario o per pre
scrizione; non si possiede più secondo S. Ambrogio, in forza della cittadinanza
romana, la quale comunichi il diritto di proprietà proveniente dalle
conquiste;la fonte d'ogni diritto è Dio, di cui tutti gli uomini sono figli; e
che unico padrone della terra, ne dà l'uso a chi legittimamente lo acquista
(2). Scompajono egualmente le legillimae nuptiae come contra posto alle justae
nuptiae ed al concubinato legale:non si parla più né di confarreazione, né di
co -emptio, nè di usus per aqui stare alla donna idiritti matronali e la
successione,come figlia al m a r i t o: n o n v i è p e i c r i s t i a n i c h
e il m a t r i m o n i o S a c r a m e n t o d e l l a
NuovaLegge,simbolodell'unionediGesùCristocollaChiesa:la legge ecclesiastica de
determina gli impedimenti,ne prescrive i riti; ed il marito e la moglie si
trovano eguali nell'obbligo di vicendevole fedeltà ed amore e nella santa
emulazione del bene.«Nessuno,predicava S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle
leggi umane... non è lecito al marito ciò che non è permesso alla donna (3).»
Per misurare ilprogresso introdotto dal cristianesimo,bisogna ricordare ciò che
scriveva Tertulliano: * al giorno d'oggi chi si sposa ha già concepito il
progetto d i r i p u d i a r s i e il d i v o r z i o è c o m e u n f r u t t o
d e l m a t r i m o n i o (4 ). ” La lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun
talPe tronio ci introduce a contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa
costituente gli impedimenti dirimenti, per la sempre maggior santificazione
della società matrimoniale,cui invano avevan tentato di mettere in onore le
Leggi Giulie e Pappia Poppea. S. Ambrogio infatti dissuade con parole severe
l'amico dal progetto di contrarre colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla
legge divina (5). Si crede anzi che la costituzione civile (1) Leges Romanorum
divinitus per ora principum emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto
secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento di consanguineità in linea collaterale
è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio parla dellelogge divina considerata
nelle sae dedazioni. (2)De Nabuthe Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim.
(3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $ 6. pubblicata da Teodosio il
grande circa ilmatrimonio fra i con giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo
amico,consigliere e padre spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven
tati dall'opposizione che l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di
simili leggi,si mostrarono incerti e indietreggiarono; ma
l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo ralità,si impose poi
pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e di morte, che le leggi
delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era già stato abolito durante
ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio spi rato dal Golgota,
moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino arrivò a decretare la pena
del parricidio contro il genitore che uccidesse il proprio figlio. M a quanto
cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa materia per giungere a
stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi di na
tura!Nonsoloilpadre conservava,comegiudicedomestico, ildiritto diinfliggere
pene,benché moderate alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato lasentenza,
che nei casi più gravi era reclamata dalla disciplina paterna (3).Arroge che
l'esere dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea zione,fattadaCostantino,delpeculio
quasi-castrensee laparte concessa nella eredità della madre, bastasse a
sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità, che, sebben giusta, dee avere
essa pure i proprii confini. Che più? Perseverava ancora il barbaro diritto nei
padri di vendere i propri figli: S. Girolamo (4) ci ha conservati i lamenti di
una misera vedova,cui ilmarito per supplire all'ingordigia del fisco, dovette
vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio stesso flagellando l'atroce crudeltà de
gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau
toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo, da
cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli; e con sanguinosa ironia
esclama: « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo
della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom
pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li
facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso
simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op.
cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii
(5)De Tobia,cap.VIII,n.20. voleva approfittarsi della legge ed ostava ai
funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere
in garanzia del proprio debito; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con
simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare
coll'inflessibile autorità pa terna un figlio, il quale aveva ardito menare in
isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava
taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge,
diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da
istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal
Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun
talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo
undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa
questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del
pa dre: e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella
prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero
rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda
conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel
grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello
Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del
leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti
importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro dell'aristocrazia;
esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii, gentilizii, in fine
alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del fisco, non si può a meno
di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore di con cetto, quella
intrepida inflessibilità di logica, con cui per con s e r v a r e i b e n i e d
i s a c r i f i z i i n e l l e f a m i g l i e, il l e g i s l a t o r e r o m
a n o non indietreggiava davanti alle più inique violazioni dei di ritti di
natura. L'equità pretoria vi aveva già portato al certo qualche cambiamento
coll'editto:unde liberi;ma ohime!di qnanto poco accontentavasi la sapienza di
Cajo e degli altri giureconsulti della setta stoica (1)! Prima però
cheGiustiniano si preparasse una imperitura e giusta gloria con quelle leggi
sulle successioni, che ancora (!) A a e j u r i s i n i q u i t a t e s e d i c
t o p r a e t o r i s e m e n d a t a e s u n t. (C a p. I I I. C o m. 2 5 ).
Troplong,op.cit.pag.323. C h e p i ù? s c r i v e n d o al g i u d
i c e S t u d i o (X X X ), il q u a l e lo a v e v a consultato sul modo di
comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze capitali, il prudente ed
amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di ragioni l'esercizio dalla
clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è giusta speranza di emenda
del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in nalzando a principio
l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande malfattore, riescono in
pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il santo giurista pone per base
la giustizia della pena di morte e raccomanda all'amico la custodia delle
leggi, « poichè mentre si leme la spada dei giudici, si reprime e non si
stimola il furore dei delilli (3). » La stessa procedura criminale è
lucidamente delineata nelle duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro
gio lo rimprovera d'aver troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la
vergine Indicia; gli fa osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli
argomenti che potevano far prova giuridica in favore dell'accusata; mentre
illegalmente aveva avuto ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi
altrettanto insufficienti; e gli descrive il modo da sè tenuto per riveder
quella causa e cassarne l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel
secolo IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal
nostro santo, seguirsi 11)Ep.LXXXII cit.n.3. (2 ) C o n f. L i b. V I. c a p. I
V. (3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono
la base di tutti i codici moderni, S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma
superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una
soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel
cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive
collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo
delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte
irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze,
cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien
l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera
e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile
quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo
popolo: la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S.
Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come
quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal
modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e
pratica legale,donando loro.la vitael'amore,che provengono dallacroce diGesù
Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il
quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo
e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e
privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano
nella se conda metà del secolo IV? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi
uomini volgari dell'epoca moderna, non studiò gli er rori ed ipregiudizii
dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più
fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed
istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso
pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il
quindicesimo centenario, da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di
Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita
vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo
prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni
cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede?
Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi
percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi
segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie, lo aggiogó al carro
e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere ad
immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie,
quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874?
D i a m o u n o s g u a r d o i n g i r o: il D i o - s t a t o b a r i a l z a
t o o v u n que i suoi altari e non vi è governo che non gli abbruci in censo e
sacrifichi vittime: e quali vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si
presenta ilredivivo paganesimo;ma è in forza deimedesimi principii,che
essoristaural'anticabattaglia, sperando che il maggior progresso delle scienze
fisiche e la maggior forza che ne proviene ai governi,gli daranno di po
IV. ter questa volta abbattere l'indipendenza della Chiesa, ri
durla a servaggio e prepararla alla morte.Dietro al diritto pubblico vien
necessariamente trasformandosi il diritto privato; il matrimonio, qual fu
consacrato e reso indissolubile dalla fede cristiana, l'istruzione della
gioventù, che deve sottrarsi all'er rore,l'inviolabilità della proprietà sia
privata che collettiva, e cento altre conquiste dei secoli cristiani vanno
ritirandosi in faccia ad altre conquiste, per antifrasi dette moderne.Si grida
progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le popolazioni moyon lamenti,simili a
quelli che si udivano nel secolo IV,reclamando contro isempre crescenti
balzelli;una febbre di ricchezzadi vora gli uomini creati pel cielo; e nello
sfondo di un non lon tano orizzonte vediamo avanzarsi il Comunismo, ultima fase
del paganesimo,ilquale viene a prender possesso del mondo in nome della logica
e della Giustizia di Dio. È in questi frangenti che ilvecchio campione del
secolo IV si scosse nella tomba de'suoi quindici secoli e volle rivedere
lasuaMilano. Non spetta certamente all'umana ignoranza di indovinare i d i s e
g n i m i s t e r i o s i d e l l ' a l t i s s i m o: E s s o c e li m a n i f
e s t e r à c o m e e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi
gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza? Il
consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi
speranze; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già
lavorata da S. Ambrogio; e la sua visita perciò non può portare che frutti di
benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società.Ambrogio. Keywords: Sebastiane;
Ambrose and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san
Sebastiano l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano –
normativa dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek
Jarman, Sebastiane – lingua latina -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790040402/in/dateposted-public/
Grice ed Ambrosoli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo. Grice: “I like
Ambrosoli: ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno,
invece, le dottrine e le scuole.’ But then he dedicates his life to Cattaneo –
whose ‘patria’ informs his philosophy, as it does in Mazzini and in each
philosopher Ambrosoli provided an exegesis for! At Oxford we call such a
‘philosophical historian’!” -- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese),
filosofo. È stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del secondo
Novecento. Allievo di Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale,
si dedicò per tutta la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante
impegno civile per la sua Varese.
Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima
docente di scuola secondaria, poi preside di scuola secondaria; successivamente
fu ordinario di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di
Ferrara, quindi presso l'Università degli Studi di Padova e infine preside
della Facoltà di Magistero presso l'Università degli Studi di Verona, dove fu
anche direttore dell'istituto di storia.
I suoi studi si orientarono particolarmente alla storia del Risorgimento
e, nell'ambito di questa, all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente
apprezzati sia per il rigore filologico che per l'acume interpretativo e la
ricerca storiografica. Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia
dei movimenti e dei partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico
e al movimento operaio e socialista.
Grande fu il suo contributo allo studio del sistema educativo e delle
istituzioni scolastiche nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti
interpretativi che ancor oggi sono il riferimento per gli studiosi del
settore. Collaborò a "Il Ponte"
di Piero Calamandrei, "Belfagor" di Luigi Russo, "Nuova
Antologia", "Mondo Operaio", "L'Avanti!",
"Critica storica", "Storia in Lombardia". Fu anche fervido
sostenitore della nascita dell'Università degli Studi dell'Insubria. Altre Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il
primo movimento democratico in Italia” Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione
di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli, Ricciardi); “Né aderire né sabotare
1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!); “La Federazione nazionale scuole medie
dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia
Giulia 1969 per un'opera di storia sociale) I periodici operai e socialisti di
Varese dal 1860 al 1926. e storia,
Milano, Sugarco); “Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze,
Vallecchi); “La scuola in Italia, dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino,
1982 La scuola alla Costituente, Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione
e società tra rivoluzione e restaurazione, Verona, Libreria universitaria
editrice); “Giuseppe Mazzini, una vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero Lacaita
Editore); “Carlo Cattaneo e il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico dello
Stato, 1999 Varese. Storia millenaria, Varese, Editore Macchione, 2002 Ha
curato per l'editore Mondadori i tre volumi degli scritti dal 1848 al 1853 di
Carlo Cattaneo (1967 e 1974) e per l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi
degli scritti del «Politecnico» dal 1839 al 1844 (1989). Onorificenze
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per
uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
«Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» — 2 giugno 1984
Note Luigi Ambrosoli, ricerca storica e
impegno civile, su va.camcom. 16 luglio.
Sito web del Quirinale: dettaglio decorato, su quirinale. Filosofia
Storia Storia Categorie: Insegnanti
italiani del XX secoloStorici italiani Professore1919 2002 15 luglio 20 maggio
Varese VareseFilosofi italiani del XX secolo. Ambrosoli. Keywords: ambrosoli –
cattaneo – Mazzini – insurrezione milanese – filosofia romana – filosofia
italiana – filosofia di varese – ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non
ha patria; l’hanno invece le dottrine e le scuole.” Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Ambrosoli” --. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715421827/in/photolist-2mT5MZr-2mS3srj-2mMV4aV/
Grice ed Amico –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cosenza). Filosofo. Grice: “I like
Amico; at the time when a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed
that instruments are unnecessary given Aristotle’s conception of concentric
orbits – His treatise was highly popular in Padova; therefore, he was killed –
I cannot imagine the same thing happen to Ayer at Oxford after the success of
his “Language, Truth, and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante
nella conoscenza del latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di
pensiero dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta “De motibus corporum coelestium iuxta
principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e
Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi,
Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non
quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche
scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato
nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo
padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in
discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato
dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose
l'epitaffio: «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium
artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine
Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque
laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut
putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto
per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro
saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e
ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che
seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie
osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per
eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte,
ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza
gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri
s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio. Note
Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research
Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio.
amico, giovan battista: d', su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae
Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine
eccentricis & epicyclis, su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco,
Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su
Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda
Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia, Acta graduum academicorum
Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio. Per il testo originale dell'epitaffio si veda
Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a
Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli
uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale,
Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed
opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco
Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. 15 febbraio. Luigi Accattatis, Le biografie degli
uomini illustri delle Calabrie, A. Forni, 1977,
902. 15 febbraio. Mario Di Bono, Le sfere omocentriche di Giovan
Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro di Studio sulla Storia
della tecnica. Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D'Amico da
Cosenza, su Università della Calabria, progetto "Divulgare la Scienza
Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel Swerdlow, Aristotelian
Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista Amico's homocentric
spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/.
Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secoloV CENTENARIO NASCITA DI
G. BATTISTA D'AMICO, in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore
Cosenza Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan
Battista d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico.
L’incipit del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo
costituiscono una profonda frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli
studi condotti nei due millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo,
da Galileo in poi la fisica procede verso soluzioni differenti e
l’individuazione del sistema eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a
quel momento, tutto ciò che costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele
e Tolomeo. Purbach tenta la fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il
cielo, si accorge degli errori contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi
di recarsi in Italia, per consultare direttamente i manoscritti antichi
nell’arduo tentativo di re-digere della nuova tavola e più affidabili di quella
di Tolomeo, allora d’uso comune in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima
affina la capacità di calcolo computando una tavola dei seni per ogni minuto
primo, quindi redige “Theoricae novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico,
il testo contiene l’innovazione di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare
lo spazio in modo tale da far posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo.
Mette a punto le sue nuove tavola, completandone il controllo attraverso la discussione
con i peripatetici veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti
nelle biblioteche italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per
Venezia, muore. Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e
quello matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che
rilevera l’impresa. Pochi anni prima la
pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi
dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e
ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per
avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse
presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la
strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo
senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si
inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano
filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti
che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una
procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per
mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi
rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non
arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la
verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è
indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e
delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e
Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per
mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza
di questa difficoltà. Ipparco è uno dei
primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare
ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli
astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro
questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano
uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la
filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno
protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo
filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose
in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito
della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici
del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di
involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in
passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto,
invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane
cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.
114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis
1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua
biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono
notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni
sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia
delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De
antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il
quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione
di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative.
Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti,
dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di
Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di
Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le
informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza
di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et
Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De
Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo
restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae.
Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini,
Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come
cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di
Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi
celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti
secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte
immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge
l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio.
A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico,
cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte
le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione, ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si
ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri
portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti,
nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia
telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in
Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della
fisica. fScrisse costui seguendo la
teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i
movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel
discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo
inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità
de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso -- e non appartenne alla citata Accademia, che
nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua
opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum
coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già
incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono
ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a
Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica
e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica.
Capacità, questa che lo hanno portato a
essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della
Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma,
trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto
filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi
casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di
famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo
estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di
origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in
quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per
quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia
genitivo di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la
traduzione italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo, in questa
sede si utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel
contesto della “città libera” di Cosenza, potendo permettersi, sia pur con enormi
sacrifici, il mantenimento di un proprio membro agli studi in una città, di
fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana. I sacrifici si posso ben
immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il padre, essendo prematuramente
morto prima della sua nascita. L’assenza del capo famiglia, nel contesto del
XVI secolo, società di fatto a carattere patriarcale, non ha sicuramente
giovato nell’ambito dell’economia familiare, essendo assente proprio il fulcro
stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si può supporre un sicuro benessere, in
quanto, anche in assenza del padre, un giovane rampollo di famiglia di ottimati
puo permettersi gli studi lontani da casa. Nulla si conosce riguardo la sua
formazione cosentina. Di certo, grazie a qualche insegnante, nel corso degli
studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente, dopotutto, è quello emerso dal
retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli studi della filosofia, della
scienza, della medicina e dell’astronomia erano, per così dire, all’ “avanguardia”.
E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan, Amico, Telesio, Doria: documenti e
postille, in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet
e Taton utilizzano la forma ‘Amici’, ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È
a tutti noto che la città di Cosenza non sube mai vassallaggi tipici
dell’infeudazione. -- nuovi
impulsi e ritorni agli antichi studi erano senza dubbio all’attenzione della
koiné culturale cosentina. Ne è esempio lo stesso Barrio. Nella sua monumentale
opera, i riferimenti storici sono in primo piano, così anche è per Fiore e
Marafioti, nonché per lo stesso Quattromani. Una ricostruzione culturale
‘amiciana’, estremamente verosimile si deve a Piperno. Le arti del trivio,
grammatica, retorica e dialettica, portati a termine nella città brettia gli
avevano assicurato la conoscenza attiva e passiva delle tre lingue sapienziali,
aramaico, greco e latino. Dopo tutto questo, era partito alla volta del Veneto,
di Padova in particolare, per completare, in quello prestigioo studio à, gli
studi delle arti del quadrivio, geometria, aritmetica, astronomia e musica, in
vista di intraprendere poi, presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei
tempi l’astronomia era insegnata in funzione della astrologia e questa a sua
volta svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la
diagnostica delle malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle
configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era
profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di
‘astroiatria’”. Sono conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di
formarsi. È egli stesso a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione
alla sua opera. Questi sono tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale
dell’ambiente universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera
Delfino, Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e
matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre
a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in
quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un
commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più
esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale
cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di
cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi,
Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli,
ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco;
mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”,
e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui,
ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un
giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si
dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi
lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di
privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate
che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve
necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico,
percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in
alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona
nell’ambiente padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la
prematura scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi
della scienza moderna. L’Università
patavina vive, ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia
per quanto concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in
questo, Padova e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è
affermata, senza cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante.
Certo, altre città in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada
che riporta ad Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere
omocentriche..., cit., p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non
stampate, né scritte e neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota
tristi particolari di un immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino,
ricostruito da Pataturk, non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore,
il più autorevole tra gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk
n.d.A.], afferma che Amico, durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse
lasciar dormire in casa, accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il
suo cane, un massiccio pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé
dalle Calabrie – come per proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri
come oggi, s’accompagna alla miseria di studente fuori sede squattrinato, in
terra veneta. Il particolare può apparire irrilevante, anzi fatuo; e
trattandosi di una fonte incerta perché irreperibile conviene lasciarlo cadere.
Noi abbiamo scelto di farne uso, perché questa confidenza tra il filosofo ed il
cane e considerata una prova per avvalorare una leggenda metropolitana che
identifica il cosentino con il castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su
richiesta del vicentino Pigafetta, aveva sciolto l’enigma del giorno perduto
dai marinai della spedizione di Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di
Pigafetta, www. UNICAL/ variazioni sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna
declinazione) non appare negli Acta Graduum Academicorum Gymnasii Patavicini. Index
nominum cum aliis actibus praemissis, a cura di Elda Martellozzo Forin,
Antenore, Padova. M. Di Bono, Le sfere omocentriche... -- esempio, a Basilea,
Norimberga, Praga, Cracovia e la stessa Parigi. Ma, sebbene questi centri
culturali abbiano conseguito risultati ragguardevoli e anche maggiori, nessuno
di essi può “stare a confronto, sul piano della varietà di approcci, alla
comprensione di Aristotele che si manifesta a Padova e nel Veneto”127. L’Ateneo
patavino è campo fertile per l’educazione di astronomi (astrologi), medici e
filosofi naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo la scoperta della
stampa, gli impianti artigianali per l’editoria, che permette a tutti coloro
che sono in grado di leggere e ovviamente alle persone istruite “di entrare in
contatto diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con l’elaborazione
teoretica allo stato nascente dei contemporanei – non a caso, sarà nella città
lagunare che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le prime due edizioni
dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a tutti gli effetti,
un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino approfitta del
particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano Pallavicini e
Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta il suo lavoro
ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali, appunto, lo propongono
in carta stampata. La ristampa del volumetto, con aggiunte e correzioni, è
tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento e di come è stato
affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di Venezia interpreta
così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà mediterranee, latina,
bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il centro di riferimento
obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi astronomici. Schimitt,
L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza moderna, in L. Olivieri,
“Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore, Padova. Piperno, Ioannis Baptistae
Amici.... Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore documenta come il filosofo
cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si assunse l’onere
dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una pendenza di venti
scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria, d’origine genovese e
ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della somma è tale da
supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il tipografo
veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche....
Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo l’importanza della
Serenissima quale coacervo di culture, orientale, mediterranea e del Nord
Europa. 91 Limitandoci qui solo ai testi d’astronomia editi a
Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes degli autori
dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio, Igino, Marziano
Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una prima volta nel
1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione dall’arabo in
latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528, sempre nella
traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento, dall’originale
greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi del secolo XVI
non trascura certo le opere astronomiche più recenti o contemporanee: vedono
infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di Malines, Sacrobosco,
Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è una nicchia per accademici,
ma una sorta di ideologia filosofica che impregna di sé tanto la comunità dei
colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che a Venezia esisteva allora un
artigianato altamente qualificato che costruiva le lenti per i presbiti, usando
le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai peripatetici arabi. Questa
trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa prestigiosa per i curricula dei
più grandi filosofi naturali che insegnano astronomia; e di conseguenza a
Padova convergeranno molti tra i più dotati studenti di astrologia, matematica
e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta Europa. Cfr. M. Di Bono, Le
sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del De Motibus corporum coelestium
iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicicli di Amico Un anno dopo
la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132, Giovan Battista Amico pubblica
il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due astronomi siano debitori alle
teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino a dichiararlo nei suoi
scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di unire l’astrologia alla
filosofia naturale, altri, al contrario, hanno cercato di separare queste due
scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno cercato di ricondurre
tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci presentano, a dei
collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in natura; Tolomeo,
all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno voluto, andando
contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed epicicli”. “Gli astronomi
attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando osserviamo i corpi superiori,
agli eccentrici e a quelle sferette che vengono chiamate epicicli. Ma la loro
riduzione di tutti questi effetti a tali cause è pessima. D’altra parte, non ci
si deve meravigliare se hanno errato in tale riduzione, poiché, come afferma
Aristotele nel primo libro degli Analitici Secondi, ogni soluzione diventa
difficile allorché coloro che hanno la pretesa di averla trovata fanno uso di
principi falsi. Dunque, se la natura non conosce né eccentrici né epicicli,
secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene che anche noi rifiutiamo
tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in quanto gli astronomi
attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi movimenti che chiamano
inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono convenire in alcun
modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In quest’opera, forse, non
si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto abbastanza se riuscirò a
eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di rendere più chiara questa
spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132 Girolamo Fracastoro,
Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535. 133 Giovanni
Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica
sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap. Frontespizio
dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Prima edizione
del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici
et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94 Nella dedica al Cardinale,
il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi studi, confessando,
in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto: i classici greci e
latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli dell’opuscolo, secondo
la tradizione, egli compone un breve excursus delle dottrine astronomiche di
Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che l’osservazione millenaria della
volta celeste non autorizza a pensare che la natura sia costretta a muoversi
per epicicli ed eccentrici. Dal settimo capitolo inizia a declinare le proprie
teorie riguardo l’assetto cosmico. Amici, per primo, opera un vero e proprio
pensiero critico riguardo le teorie antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto
cerchio di esse, promuove nuove formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima
che se vi sono due sfere omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari
tra di loro e se i poli della sfera esterna si muovono da una parte e
dall’altra rispetto alla posizione media; se accade tutto questo, allora si
vede facilmente che la sfera interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo
osserva che se i poli delle due sfere formano, più in generale, un angolo di n°
gradi e l’uno ruota in verso contrario rispetto all’altro con velocità doppia,
allora il movimento complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig.
33) – in questo calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il
suo talento debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina
rielaborata dagli arabi134. 134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici...,
cit. 95 Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema
eudossiano, il giovane astronomo può concludere che sono sufficienti quattro
sfere per ricostruire i movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti
– la Luna secondo la tradizione viene considerata tale — ne occorrono di più.
96 Si evidenzia pertanto una aggiunta di sfere che renda possibile la
“salvezza dei fenomeni”, a discapito di un complicazione che già è palese ai
tempi di Aristotele, che comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove,
come risulta evidente nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO
Saturno 4 Giove 4 Marte 4 Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1
=5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5 3 +2 =5 ARISTOTELE AMICO 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4
=9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13 5 +4 =9 4 5 55 89 11 26 33 Di
conseguenza, il subito solleva una obiezione decisiva alla teoria tolemaica: la
Luna di certo non si muove su un epiciclo giacché, se così fosse, non potrebbe
mostrare, osservata dalla Terra, la stessa faccia, come invece a noi tutti
capita di costatare — secondo la fisica aristotelica un corpo che compia una
rivoluzione attorno ad un centro deve rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo
lato (Fig. 34). cosentino passa ad esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e
97 Fig. 34 Formulata così l’obiezione, il giovane astronomo si
affretta a generalizzarne la portata: anche gli altri pianeti non possono
muoversi su epicicli dal momento che i pianeti, corpi intrisi di divina
perfezione, devono dipanare i loro percorsi in forme perfettamente analoghe e
altrettanto pregne della succitata perfezione sublime. Quattro sfere vengono
quindi assegnate a ogni pianeta, in grado di svolgere il ruolo previsto, nella
teoria tolemaica, per gli epicicli. La sfera più esterna, detta d’accesso, ha i
suoi poli nel piano dell’orbita planetaria e si muove da Nord a Sud con la
stessa 98 velocità con la quale si muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico.
La sfera successiva, più interna, presenta dei poli che distano da quelli della
prima di un quarto del diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove
in direzione contraria alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora
più interna, detta di recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si
muove da Sud a Nord. Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a
perpendicolo rispetto al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il
pianeta su un suo cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle
quattro sfere dà luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da
Ovest verso Est; come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso
Ovest. Solo la Luna, per via della alta velocità della sua quarta sfera,
presenterà unicamente il moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in
tempo, da un certo ritardo (Fig. 35). Fig. 35. 99 Dopo avere così
ricostruito qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione
dei pianeti quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il
problema ben più intricato di dar conto della variazioni della durata del moto
regressivo planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con
l’attribuzione a ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e
quella di recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato
l’arco percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo
spostamento della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle
osservate, introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale
di sfere per pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una
undicesima sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi
lunari, l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni
circa135. Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito,
il cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono
ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i
millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a
sedici quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio
ne basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non
certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo
sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre
fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle
diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni
dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate
nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia
affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la
lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può
avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette
all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti
che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più
recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative.
Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia
tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli
epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure
ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si
rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica
peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema
omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo
dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101
e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica
peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione
del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della
imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto
consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La
prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità
apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in
quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in
estate, Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia
zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra-
Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema
omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione
della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando
come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la
Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario
indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata
erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata
sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli
artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere
miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare più
grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi
generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza,
ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti
osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci
appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale
l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle
quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte
splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso
una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso
comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato
da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella
numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello
aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane
astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire
il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala
ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli
ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il
cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce
nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del
mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare
previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo.
L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di
verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni
della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole
della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo,
l’interdipendenza tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo
antico. Nel mondo amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di
cui si può fare a meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima
citazione biblica. La separazione tra scienza e fede, così tipica della
modernità, afferma Piperno, è stata già totalmente interiorizzata
dall’astronomo cosentino. L’Opusculum di Amici, come già detto, aveva vissuto
una stampa e una ristampa a Venezia, poi,
presso lo stesso editore. E ancora una terza, postuma, questa volta a Parigi, a
cura di Guillaume Postel, un intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico,
in bilico tra profezie millenaristiche e rigore scientifico – miscela non
insolita per l’epoca. Tre edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e
poi uno stato di latenza, quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non
sarà citato nella letteratura astronomica fino a quando Dreyer, nella sua
classica storia della cosmologia, gli render. -- Amico non scompare del tutto
dalle fonti letterarie. Il suo nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum
appare in molti testi di storia locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui
in quanto astronomo: cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore,
dedicando all’astronomo nato a Cosenza un intero paragrafo, volto alla
rivalutazione della figura e dell’opera di Amici. La ragione del lungo silenzio
che avvolge per secoli il nome dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della
fisica di Galileo in Italia. Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio
di Amico, usce dai torchi di una tipografia di Norimberga, il “De
Revolutionibus” di Copernico, canonico della cattedrale di Frauenburg, ben più
noto con il nome latinizzato. La diffusione del De Revolutionibus e capillare
in tutta Italia, e le copie del libro saranno rieditate all’infinito è in atto
la pacifica rivoluzione scientifica, meglio nota come rivoluzione copernicana o
di galileo. L’elaborazione dela fisica subisce uno spiazzamento; lo scontro per
l’egemonia teoretica non avverrà più tra peripatetici e tolemaici, bensì tra
questi ultimi ed i copernicani. Prima si confrontavano due sistemi del modo,
entrambi geo-centrici e geo-statici, che si riferivano alla stessa fisica. Oa
la competizione va svolgendosi tra il sistema geo-centrico argomentato con la
fisica aristotelica e quello elio-centrico bisognoso di una nuova fisica. In
questo quadro, Amico sembra avere imboccato la giusta strada ma in direzione sbagliata.
In effetti, il filosofo cosentino ha posto la domanda decisiva per risolvere la
crisi che agli inizi del XVI secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare
l’aritmetica di Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è
quella giusta. Ma la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’
Aristotele – s’è rivelata troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A
History of astronomy..., cit. Oltre a questo testo che descrive a grandi linee
il sistema amiciano, va ricordato l’articolo di Swerdlow, Aristotelian
Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s Homo-Centric Spheres, in “Journal
of Astronomy”, e ancora l’importante
saggio di Di Bono e i lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a
Thorn, sulle rive della Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei
Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a
Padova, per studiare astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto
secoli prima Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica.
Copernico, anche lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con
l’abissale differenza che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà
mosse ad Aristarco cfr. L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della
scienza. Tre esempi in epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed
etica, «Ou. Riflessioni e provocazioni». Eppure, sarà proprio quella
ricomposizione, cercata e non trovata da Amico, a dar luogo alla scienza
moderna e quindi alla modernità tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per
opera dei Galilei, toscano tutt’altro che aristotelico, piuttosto intriso di
neo platonismo. -- Giovan Battista, astronomo talentato, è morto giovanissimo,
ucciso forse senza una ragione, prima di poter portare a compimento il suo
destino, forse perché “caro agli Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è
dato sapere quale sarebbe stata l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo
destino intellettuale, il suo karma scientifico, se fosse vissuto abbastanza,
soltanto pochi anni ancora, da imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico.
Le cose non sono andate così; e un giovane dal destino incompiuto, ma
dall’indiscutibile intelligenza ha potuto solo tentare di dare un senso a
teorie che valgono solo dal punto di vista dell’osservatore. Questo è un mondo
antico, come direbbe Leopardi spazzato via a guisa di una mera illusione dalla
rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità moderna dopo. F. Piperno,
Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, in F.
Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro Editoriale UNICAL, 2001, p. 18. 105. Keywords: planteario di
Cosenza, pianeta, de motibus corporis coelestium iuxta principia peripatetica
sine eccentricis set epicyclis – motti de’ corpori celesti giusta i principi
peripatetici senza eccentrici ma con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Amico” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791085483/in/dateposted-public/
Grice ed Amidei – il
leviatano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Peccioli). Filosofo. Grice:
“I like Amidei; he knew Beccaria well, and thinks, with H. L. A. Hart, that
debtors should not necessariliy go to jail, to which Beccaria famously
responded: ‘depends on what you mean by necessarily should’” -- Cosimo Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio
del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori di Cosimo
Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa quasi nulla sulla biografia di
Cosimo Amidei. Figlio del dotore in giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli
(Pisa), si laureò in Giurisprudenza all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le
modeste condizioni della famiglia nel 1739 aveva chiesto di essere ammesso al
Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto un posto gratuito il 1º novembre 1741,.
Stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro, Amidei era un
magistrato fiorentino, "notaro criminale". Fra le poche cose certe vi è quella che
conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore e con cui fu in
corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso filosofico-politico sopra
la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la Repubblica dentro i loro limiti.
Concordia discors” -- dell'origine della potestà ecclesiastica -- degli oggetti sopra
de' quali si reggira la postestà ecclesiastica -- dell'origine della potestà
politica -- del sovrano -- delle conseguenze -- delle cause della forza della
potestà ecclesiastica ne' governi temporali. de' limiti del sovrano o potestà
politica -- dell'immunità, privilegj ed esenzioni de' beni ecclesiastici
-- de' priviolegij ed esenzione personali degli ecclesiastici -- dell'asilo --
del matrimonio -- del celibato -- delle professioni religiose -- del
giuramento -- de' benefizj ecclesiastici -- della scomunica -- della
proibizione de' libri -- della religione, e della politica. “De' mezzi per
diminuire i mendichi.” L'Amidei è noto soprattutto quale autore del
"Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori" (1770).
Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV del "Dei delitti e delle
pene" del Beccaria, l'opera è considerata una delle più importanti
espressioni del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco. L'opuscolo ebbe
immediatamente successo: fu recensito con favore dalle "Novelle
letterarie" di Firenze, e dal "Journal encyclopédique"; l'anno
seguente ebbe una seconda edizione, con osservazioni di Giambattista Vasco,
uscita a Milano presso lo stampatore Galeazzi, e ancora una edizione in testo
bilingue italianofrancese. Il testo di Amidei influì certamente sulla riforma
leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Francesco Maria Gianni, abolì
la carcerazione per debiti (ma occorre ricordare come un'analoga riforma
venisse promulgata anche in Russia). Nella concezione relativistica delle leggi
e nella critica alla legislazione romana dell'illuminismo giuridico-politico
toscano di quegli anni, l'opera di Amidei si arricchisce di spunti egualitari
rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero illuministico toscano) dai quali
Amidei ottiene la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva
dei debitori. Una nuova edizione dell'opera, apparsa in Firenze nel 1783, è una
prova dell'esistenza in vita di Cosimo Amidei nel 1783; dopo di allora,
infatti, non si hanno più notizie biografiche certe su di lui. La Chiesa e la Repubblica dentro i loro
limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita poco prima il Discorso sopra
la carcere de' debitori, "La Chiesa e la Repubblica dentro i loro
limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è stata attribuita a Cosimo
Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del Discorso
filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però elementi
sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di
biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario di opere
anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e senza
indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di Firenze.
Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando probabilmente
l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa indicazione di luogo
Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di Napoli; si tratterebbe in
realtà di una ristampa contraffatta dello scritto apparsa nella città
partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione proveniente da Firenze,
e che venne sequestrata per la "sediziosa proposizione" dell'origine
popolare della sovranità. Al suo apparire, infatti, per alcuni spunti
contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò l'attenzione dell'autorità
laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu oggetto sono ritenute
importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques Rousseau in Italia. A
Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel clima di irrigidimento
contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche che caratterizzò gli
ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. De' mezzi per diminuire i mendichi Anche
quest'opera, pubblicata anonima nel 1771 senza indicazione di luogo, ma
probabilmente a Firenze, è solo attribuita a Cosimo Amidei; ma l'attribuzione
risale già ai contemporanei,. L'autore sostiene, in base a una concezione
fisiocratica, che il grave problema possa essere risolto solo per mezzo di una
riforma fiscale. Note Società storica pisana, Bollettino storico
pisano 1965300. Società storica pisana,
Bollettino storico pisano 1932517.
Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III
(agosto 1769settembre 1770) Milano 1911,
194-195 C. Beccaria, Scritti e
lettere inediti, E. Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere
dell'Amidei al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B.
231). Frontespizio di Scritti e lettere
inediti del 1910 Carteggio di Pietro e
Alessandro Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770)
Milano 1911210 Novelle letterarie, 16
febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s. Journal
encyclopédique, 1º giugno 1770314
"Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori",
Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la
rue de la Parcheminerie, 1771. F.
Venturi, Settecento riformatore, 2., Torino, Einaudi, 1976237-249 Archivo General de Símancas, Estado Legajo
6102, lettera di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici 13
dicembre 1768, f. 157 v. Savio, "Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti
del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958), 12 n. 2, 31 ss. vedi lettera citata del Tanucci al
Grimaldi Marco Lastri, Bibliotheca
georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria,
agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti
all'Italia, Firenze, 178745 Carteggio di
Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano
1911. M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Altri progetti Collabora a
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Unlimited srl. V D M Illuministi
italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi
italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found. AMIDEI,
Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una
lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono
pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la
notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del
quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68,
e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri. L'A. è
noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori,
s. l. [ma Modena] 1770, che, ispirato direttamente dal paragrafo XXXIV del Dei
delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle letterarie di
Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique, 1
giugno 1770, p. 314. L'opuscolo è un'interessante espressione del
riformismo e dell'umanitarismo settecentesco: esso nella concezione
relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana (partecipe
in questo del diffuso antiromanesimo del tempo) si arricchisce di spunti egualitari
rousseauiani, rarissimi ancora nel pensiero giuridico-politico toscano di
quegli anni, ed anzi proprio dal pensiero di Rousseau ricava la giustificazione
teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori (pp. 22-23
dell'ediz. del 1783). Non sfuggi ai contemporanei questo contenuto
sociale dello scritto di là dall'aspetto giuridico della questione tanto che
"persona illuminata" venne richiesta di note al Discorso dell'Amidei.
Apparve cosi, presso lo stampatore Galeazzi di Milano, una seconda edizione
dell'opuscolo, con osservazioni di Giambattista Vasco che ripropose le sue già
note concezioni economico-sociali: Discorso filosofico-politico sopra la
carcere de' debitori accresciuto di note critiche dall'autore de' Contadini, s.
n. t. (cfr. recensione in Europa letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101).
L'anno seguente esso fu edito ancora in testo bilingue, italiano e francese,
Harlem et Paris 1771; ed influi certamente sulla riforma leopoldina del 1776,
che, per merito del ministro Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà
da ricordare qui come anche in Russia venisse promulgata un'analoga
riforma). Nel 1783 a Firenze lo stesso A. curò una nuova edizione
dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti "un nuovo progetto di riforma
della Legislazione":l'esigenza di riforma nel campo della procedura penale
si articola in un discorso più ampio, di carattere amministrativo ed
economico-sociale (sul diritto di proprietà). Nelle critiche rivolte ai già
aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia, e nella polemica contro le
primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla legge del 1747, dei quali
viene reclamata la totale soppressione, è introdotto ancora, a difesa di un
libero sistema di economia, il motivo umanitario-egualitario che informa tutto
lo scritto (v. partic. p. 58). Il Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV,
parte letter., 24 Ott., n. 17, p. 138, sottolineò il significato dell'opera
dell'A., che resta a conferma dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno
degli aspetti del pensiero del Beccaria. All'A. è attribuita un'opera di
poco precedente il Discorso, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s.
l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz. ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora
mancano però dementi sicuri per confermare una tale attribuzione, attestata
solo da alcuni cataloghi di biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel
Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime). L'opera, particolarmente
importante nell'ambito della pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr.
Passerin), contiene chiari spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore
non sviluppa però in senso antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece
sui "diritti della Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per
essere originalmente ne' Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e
sui limiti che la potestà civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e
alle esenzioni della potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur
moderati ed elaborati - e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il
rafforzamento del vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 -
emergono evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere
assoluto e si giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del
duca di Parma contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza
contro il sistema dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e
contro il diritto di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine,
al problema della tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle
argomentazioni, legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo
pensiero di cui si èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione
accentua, in alcuni nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del
contratto matrimoniale e quella contro gli ordini monastici. Al suo
apparire l'opera richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione
dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto
costituiscono una pagina notevole della fortuna di Rousseau in Italia. A
Napoli, per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della
sovranità (cfr. lettera dì B. Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore
D. Campo una ristampa clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima
che fosse posta in vendita (11 dic. 1768); a Roma fu ritenuto autore dell'opera
il Beccaria e nel clima di massimo irrigidimento contro le correnti
giurisdizionalistiche e illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di
pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione
e la diffidenza per itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a
proposito dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera
indirizzata al granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin). Fonti e Bibl.:
Archivo Generai de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al
marchese Grimaldi, Portici 13 dic. 1768, f. 157 v. (indica Firenze come luogo
di stampa dell'opera; ma molti contemporanei, cfr. Savio, considerarono
napoletana l'ediz. del 1768, identificandola con la ristampa); C. Beccaria,
Scritti e lettere inediti, a cura di E. Landry, Milano 1910, p. 289 (segnala
quattro lettere dell'A. al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano,
Beccaria, B. 231); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati
e E. Greppi, III (ag. 1769-sett. 1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H.
Reusch, Der Index der verbotenen Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin,
La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di
cultura e storia sociale III (1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in
Lombardia, in Atti d. Ace. d. Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e
filol., XCI (1956-57), pp. 41 ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori
lombardi, piemontesi e toscani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958,
pp. 25 (riporta un passo di lettera dell'A. al Beccaria, da Firenze 6 luglio
1767, riguardante la traduzione del Morellet del Dei delitti e delle
pene),1044; P. Savio, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec.XVIII,
in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958), pp. 12 n. 2, 31 ss. Cosimo Amidei. Amidei.
Keywords: il leviatano; amidei — implicatura sovrana — implicatura intersoggetiva —
implicatura sovresoggetiva — implicatura sovre-umana — implicatura
sovrepersonale — hobbes — primo disegno — leviatano — carteggio con Verri —
carteggio con beccaria (paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia
giuridizzionalistica — la chiesa — the high church of england — Gianni abolisce
la carcerazione per debiti — tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amidei”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790009852/in/dateposted-public/
Grice ed Anceschi –
senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice:
“I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue as a mirror (specchio) of
ego and alter or ego and tu – I like that. He is the Italian equivalent of John
Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre l'insegnamento di Estetica
nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna. L'interesse per la letteratura
e le arti figurative si accompagnò sempre a quello per la filosofia moderna
anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua tesi di laurea autonomia naturale, heteronomia artistica. “Autonomia
ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le sue ricerche sulla figura e il
modello letterario antidealistici trovarono voce negli interventi pubblicati su
“Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste da lui stesso promosse.
Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si schierò a favore dell'ermetismo e
della neo-avanguardia, affiancando all'attività di teorico quella di critico
militante: pubblicò i Saggi di poetica e poesia. Con una scheda sullo
Swedenborg e cura le antologie Lirici nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica
del Novecento. Della voce “ermetismo” fu autore nell'Enciclopedia del
Novecento. Concentratosi sui modelli culturali dimenticati dal Neoidealismo, si
dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe Del Barocco e altre prove Barocco
e Novecento. Con alcune prospettive metodologiche. Non abbandona mai gli studi
filosofici: “I presupposti storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i
presupposti empirici dell'estetica kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo
inglese”; “Da Bacone a Kant. Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di
una sistematica dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa
come fenomenologia della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia
critica basò tutte le successive ricerche. Fonda “Il Verri” di cui fu direttore,
mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di
estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli
condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il
fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima
edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di
Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in
Italia”; “Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni
della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre
saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica
fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”.
Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria. Presidente
dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e
dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia
nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e
il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al
Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale
dell'Archiginnasio. Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola
all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006, 18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato
anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi. Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17
novembre. Università degli studi di
Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna,
Compositori, 1998, 863–865. Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore
Quasimodo Alessandro Montevecchi Luciano
Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Luciano Anceschi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luciano Anceschi, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luciano Anceschi, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi,. Fondo Luciano AnceschiBiblioteca
dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna.
22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio 15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio
Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano
BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo
63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste
italianePremiati con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università
commerciale Luigi BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli
Studi di Milano. Sembra proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire
rendersi conto di ciò che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo
vorrà dire vedere come l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e
culturale, ha inteso presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di
coerenza, ma anche alle interne variazioni e differenze. Qualche considerazione
va fatta, per altro, in limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di
ermetismo è frequente nel discorso della cultura per indicare quei movimenti,
quelle manifestazioni, quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in
cui maniere oscure, ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per
esser partecipate, e anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi
sono in grado di adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben
definita e che istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome
di Ermes Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età
ellenistica in cui motivi oscuramente mistici di sincretismo
filosofico-religioso si fusero con ipotesi di fantastica alchimia, in un
tessuto linguistico segreto, ricco di allusioni, di difficile partecipazione.
Si consideri anche che a Ermes Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si
disse, appunto, ‛ermeticamente') un'ampolla di vetro mediante la fusione dei
bordi delle aperture. Oscurità, chiusura, tono di rivelazione sacra, un insieme
di difficili connessioni tra mistica e alchimia, una presentazione immaginosa e
immediata di oggetti intellettuali e riflessivi: ecco alcuni caratteri degli
scrittori che per primi furono detti ‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero
chiamati talora quei movimenti di pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici,
che spesso si posero in antitesi al pensiero dominante nel secolo, che
costituiscono una ormai ben definibile tradizione secolare, continua, e che
talora affiorano nella cultura essoterica con singolari sollecitazioni e
insorgenze. Con intenzioni inizialmente screditanti, ma il nome venne poi
accettato da molti scrittori, ermetismo si disse anche una tendenza della
letteratura italiana tra le due guerre, che, venuta dopo l'esperienza dei
crepuscolari e gli esperimenti dei futuristi, si distinse nettamente dal
rondismo, come corrente dell'ultimo gusto neoclassico, e da ogni genere di
ritornante realismo; ed è ciò di cui qui dobbiamo parlare. Ci sono opinioni
molto diverse su questo movimento. C'è chi, in una ben definita prospettiva
letteraria militante, vede in esso il momento più alto della poesia e del
pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è chi, movendo da un
particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca ermetica di ‛perdita della
immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al limite, una distrazione di
giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione fortemente ideologica,
vede in essa un pericoloso e condannabile momento di evasione rispetto al
dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo un'indagine diretta e
particolare potrà definire il diritto e il torto di considerazioni come
queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò di un movimento
influente, complesso, articolato in diverse disposizioni dottrinali e di
poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo una tradizione breve
e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in cui si manifestò,
trovò una sua forza contro molti oppositori e reali resistenze, giunse fino ad
operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch, si dissolse alla fine
della seconda guerra mondiale, ma lasciò un'impronta viva, e anche un
impulso nella cultura della poesia e della critica che, da un lato, è
continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che, dall'altro, ha
condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i movimenti che
seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo il considerare
l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana contemporanea,
che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto francesi, anzi
europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che in tanto
vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua originaria
purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche, moralistiche,
dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e resolutamente
diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è anche riduttivo
parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una rivolta in cui si
concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico, negatore della
storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto, libero dalle
strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di rinnovazione radicale
dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia e sul loro
significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare
l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria
italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del
movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o
italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li
considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire
ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali
che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati
dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in
modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi
difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati
sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e
individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della
poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di ridurre
il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel riduttivo;
non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto compatta quanto
varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella convergenza di letture e
di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo autonomo per suoi
caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una generazione nuova
in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione ermetica in Italia la
prima voce fu quella di Giuseppe Ungaretti. Anceschi. Anceschi. Keywords:
senso, ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo dell’implicatura,
l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Anceschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711981920/in/photolist-2mUvE1t-2mU8kpn-2mQiU3r-2mMR3uj-2mMBqBb-2mJLMNt-E4u3XA/
Grice ed Andrea –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravello). Filosofo. Grice: “I
like Andrea, in more than one way! Andrea
made me realise how naïve Russell is with his ‘logical atomism;’ back in
Naples, the Accademia degli Investiganti took thing really seriously. D’Andrea,
a lawyer, like Hart, -- his claim to fmae is having written an ‘apologia in
difesa,’ which I would abbreviate as just ‘in difesa’ of atomism – but my
favourite is his unpublication, “Degl’atomi e degl’atomisti”!” Grice: “In
Naples, unlike Oxford – cf. Locke and Boyle – it was understood that if you are
an atomist you are, therefore, a libertine!” -- Da una ricca famiglia, studia a Napoli. Funzionario
del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel giustizierato dell'Abruzzo
citeriore. Frequenta villa Colonna, dove si illustrano i fondamenti
dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti alla sua villa
Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia in difesa
degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario del
Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi in
molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo napoletano
del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore in Puglia
Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Accademia
della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto
Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di
Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il
rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di
un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano
Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso
Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, il
24 febbr. 1625 da Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta
fortuna, e da Lucrezia Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non
fu felice, per le "gravissime ristrettezze" della famiglia
(Avvertimenti ai nipoti, p. 60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato
fin troppo precocemente. Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per
apprendere la grammatica; a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei
gerolamini, ma già ad undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi
nel marzo 1641, appena entrato nel diciassettesimo anno di età. Egli
stesso doveva sottolineare più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i
gravilimiti di quell'affrettata educazione. Nello scritto - che è insieme una
sorta di testamento, una autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e
di comportamenti valido per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della
sua formazione, descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa
ignoranza", cui sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e delle
professioni giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso l'incontro
con le correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove scienze e una
concezione elevata del ruolo dei giuristi nella società. In questo itinerario
intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori", di cui
lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre esperienze,
personali o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo il rapporto
con Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare le dottrine
giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola culta
(ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea, per
"studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando
l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un
mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p.
116). Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a
seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la
principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli
procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver
introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri
eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri
principi della giurisprudenza" (ibid., p. 118). Frattanto a Napoli,
avvicinandosi la metà del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e
politici che la segnarono, si definivano le linee di un'iniziativa culturale,
promossa da ambienti diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non
restò senza conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto
passivi, i giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne
fecero anzi protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che
potevano dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno
spagnolo. Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete
informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di
Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della
nostra casa" (ibid.,p. 119),colmò le proprie lacune nella conoscenza delle
"buone lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo
Colonna, dove s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto
dissimile da quella che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere
il conformismo della dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo
che la caratterizzava (ibid., pp. 120 s.). Fu l'incontro più fertile della sua
giovinezza ed egli stesso ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le
successive esperienze. Le discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il
segnale d'avvio di un rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi
con l'arrivo da Roma di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune
accademie, che spostarono energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi
a quelli scientifici e sperimentali. Superato, con la guida di Camillo
Colonna, il limite di una scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne
intanto con unanime applauso un solenne discorso nella Congregazione degli
avvocati di S. Ivone, istituita dai teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10
giugno 1646,la difese in Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos,
contro la pretesa dei gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro
Congregatione Sancti Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il
favore del viceré, che lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò alla
fine dello stesso anno. Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a Napoli
e in tutto il Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie
malevole sul suo conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo
episodio del febbraio 1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in
pieno tribunale con l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un
duello tra il proprio campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio
della Marra, lo indusse a scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti...
nella provincia di Abbruzzo Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle
insinuazioni di aver parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece
il proprio lealismo alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di
arbitraggio tra i ceti, e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e
giuridico esistente, ivi compreso quello feudale, che era parte integrante
della realtà politica dello Stato. Tuttavia le "seconde
rivoluzioni", che portarono a Napoli alla proclamazione della repubblica
nell'ottobre 1647 ed impressero al moto un carattere indipendentistico in un
quadro politico più complesso e convulso, lo posero ai margini del conflitto
abruzzese, sicché dopo due mesi trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti,
dove ebbe modo di leggere Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa
nomina del nuovo fiscale e concluso l'affitto dell'arrendamento del sale
nell'estate 1648,partì nel settembre per Napoli, che raggiunse in novembre,
dopo un breve passaggio da Roma. Qui non solo riprese l'esercizio
dell'avvocatura, con crescente successo di prestigio e di entrate, ma si
adoperò soprattutto per un rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a
torto il Giannone lo considerò protagonista e promotore principale (Istoria civile,
lib. XXXVII, cap. 5; e lib. XXXVIII, cap. 4).Egli stesso sottolineò in seguito
efficacemente, in una pagina giustamente famosa (Avvertimenti, pp. 124 s.), il
significato della svolta verificatasi a Napoli allora; l'importanza centrale
ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo essenziale di Tommaso
Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con il pensiero europeo;
l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i circoli tradizionalisti
e la protezione ad esse accordata da taluni aristocratici; infine il proposito
che animava i moderni di modificare l'assetto delle professioni, in particolare
giuridiche, attraverso un confronto più intenso con le varie scienze. Il
momento era favorevole ad un'iniziativa dei gruppi intellettuali. L'opera di
restaurazione, condotta dal viceré di Oñate secondo un disegno assolutistico
volto a consolidare l'autorità delle istituzioni regie, prospettava un
rinnovato compromesso tra monarchia e ceti privilegiati, deprimeva le
aspirazioni della nobiltà più riottosa, maturate nei trascorsi disordini,
offriva spazi nuovi e maggiori di presenza politica e di affermazione sociale
ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò prontamente l'azione del viceré e
dalla sua paterna cura per il "ristoramento" degli studi ottenne un
avanzamento universitario per Gian Camillo Cacace e l'attribuzione a Tommaso
Cornelio, nel 1653, della cattedra ripristinata di matematica. Nel frattempo
svolgeva una parte considerevole nella breve rinascita degli Oziosi, tra i quali
recitò diverse orazioni, in particolare a favore della "novella maniera di
filosofare" e per un rapporto più stretto della giurisprudenza con
"tutte le altre scienze" (ibid.,p. 125). La grande peste del
1656, lacerando drammaticamente la vita della città, pose fine d'un colpo agli
esperimenti e alle iniziative che si conducevano a Napoli e che vennero poi
ripresi, dopo il flagello, con lentezza e difficoltà. Rientrandovi dopo il
periodo del "contagio", trascorso nei feudi del principe di Cassano,
il D. dovette rinunciare per qualche tempo agli ambiziosi progetti di politica
culturale, cui ritornò solo dopo alcuni anni impiegati nell'esercizio
dell'attività forense per una clientela sempre più consistente ed altolocata.
Si pose infatti in primo piano nelle vicende intellettuali della capitale a
partire dal 1663, quando con numerosi scienziati, medici, filosofi, come
Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio, Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e
molti altri, dette vita, al primo nucleo degli Investiganti, che prese a
riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese di Arena. Gli orientamenti
dell'Accademia sono noti, così come la molteplicità ed eterogeneità dei motivi
che vi si agitavano: dal probabilismo allo sperimentalismo, allo storicismo.
Altrettanto celebre è l'episodio che ne riassunse simbolicamente il programma e
gli inizi: la visita compiuta nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da
oltre cinquanta accademici, tra cui numerosi nobili e prelati di rango, al
cratere di Agnano, per controllare la fondatezza degli antichi miti,
raccogliere materiali da sottoporre all'indagine chimica, far esperimento
diretto delle caratteristiche naturali del sito. Tra gli Investiganti il D.
ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa cerniera tra i novatori e il
mecenatismo di una parte almeno della maggiore aristocrazia, non pose nulla in
istampa direttamente legato a quell'esperienza, ma di alcune opere fu
consigliere ascoltato, di altre fu promotore o dedicatario, intervenne infine
sui temi che si dibattevano non soltanto come suggeritore o patrono di opere e
di iniziative, o come veicolo d'idee, d'interessi e di libri. Agli argomenti
centrali del nuovo sapere - l'atomismo, le leggi del moto, il rapporto tra
elementi fisici ed "incorporei" e, sullo sfondo, tra metafisica ed
esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori, quando l'Accademia era da tempo
ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa animate, né l'eco che avevano
suscitato negli ambienti napoletani, messi in fermento dalle energiche
controffensive dei gruppi conservatori. Nei manoscritti filosofici del D.
- affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale non sempre chiarita
- possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è un'Apologiain
difesa degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1;
esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e prodotto perciò in
un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una fase particolarmente
vivace della dialettica politica e culturale napoletana. Il secondo, la
Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche del
p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697, ma elaborato a
partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale, coincidente con la
disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro gli
"ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di Napoli,
ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo della Bibl.
Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la copia della
Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card. Passionei dal
pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una seconda stesura
della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne conoscono due diverse
redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms. Brancacc. I C 8).
Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi, in momenti di acuto
conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura "dei
chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non
disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione.
Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si
nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione
napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di
Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o
incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare
il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro
impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei
circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo
possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo orizzonte
i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali e gli
aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla
consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse
riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante,
il metodo sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica,
l'indagine storica come criterio di verifica delle autorità. Comunque
l'impresa cui il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo
presso le corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e
nel 1676 per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e
contestare le tesi della pubblicistica che lo sosteneva. Sin dal 1663 il
re di Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al
diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano
politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le
corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè
Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28
febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una
Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana
dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia
l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita
nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al
ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla
materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato
delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con
altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité
anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso
anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un
Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice
contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della
Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los
Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già
circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di
minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso
nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma,
Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91). Strettamente legati
all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli
svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura
napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in
qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora
la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni
francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche,
affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca
storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a
individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo
carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero
giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe,
indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni
che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli istituti,
i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni
internazionali. Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un
orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in
politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto
intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché
quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo",
atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e
la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del
Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva
forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e
prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e
all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e
dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto
realismo, che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua
attenzione si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove
si decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati,
la debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al
suo interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco
decifrabile, di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo
nutrito carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi
forensi e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi
ora da Mazzacane). La familiarità col principe risaliva al 1673, quando
dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e
Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità
intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di
ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo
con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria,
assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città
poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli
intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si
dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a
lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la
nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve
profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la
partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con
soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e
amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con
vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta,
come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc.
napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl.
Mediceo-Laurenziana, ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile
1675. Le cronache della capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le
stesse lettere, spesso settimanali, al principe Doria consentono di seguire
minutamente le sue attività professionali e la sua azione civile negli anni
successivi. Tuttavia, nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata,
ma vitalissima, nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel
complicato scomporsi e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si
prestano a facili interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente
dalla storiografia. Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è
collegata con un giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il
declino dell'impero spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della
coscienza europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola,
le sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido
ed anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua presenza,
vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo ruolo di
maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia spirituale
che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a Giannone.
Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo con la
politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne sono
testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle pretese
del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de' Francesi
sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di Napoli et di
Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida
"informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche
senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate
dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a
partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione
per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la
possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli
intellettuali e i forensi. L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri,
profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del
Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto
civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi
interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza
propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del
viceregno. Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di
palazzo (già nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio
del Velez, né una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata
energia ai propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi
al ritorno in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito
controriformistico. Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella
scomparsa sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura
napoletana, sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per
rivendicare il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua
lezione. Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite,
apparsa poi a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera
del 1685, un solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e
di una perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza.
Nello stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli
atomisti e ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G.
Burnet, che rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta,
del suo prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani
nell'ambito del sapere moderno. Furono tuttavia episodi che non lo
scossero da una sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni
religiose sempre più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque
in rapporto con alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi
nei grandi dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei
gerolamini, ms. XXVIII, 4. 1). Di peso più concreto fu invece la nomina,
ottenuta dal viceré conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di
Vicaria, della quale prese possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla
scena pubblica, ma attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur
mitigato dalla maggior comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per
le ragioni culturali dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del
sopravvento degli uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva
sempre avversato, ed ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti.
Seguì nel luglio 1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e
poi a fiscale della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti
che s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli
ministeriali di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che
era ormai diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura. Le
funzioni di governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a
far parte richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante
attualità, che egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare
l'originalità e l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre
1690 sul problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e
l'altra, Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia
quae sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici;
entrambe in N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp.
180-96 e 299-328) e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del
1691 (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge
infatti un complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta
analisi dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza
economica, ed un coerente piano di parziali riforme. La linea prospettata
dal D., spesso ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi
alla contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il
richiamo, d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più
avanzate (olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come
causa prima delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione
beneficiaria come uno dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno,
infine l'indicazione di misure concrete sui problemi della moneta, degli
uffici, dei passi. Ma la sua perorazione per la libertà dei commerci e le
proposte di riforma corrispondenti si arenarono subito, nonostante l'intesa col
viceré, per la ferma opposizione del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò
più rara la sua presenza nei diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu
sostituito in Sommaria e fu giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida,
donde dava vita a un rilancio della sua azione culturale. Di tale
intenzione erano state già segno la collaborazione prestata al Valletta per una
scrittura, compiuta in quegli anni, relativa al conflitto accesissimo sulla
giurisdizione del S. Uffizio e la stampa della Disputatio an fratres (Napoli
1694), un testo capitale della scienza giuridica di fine Seicento, in cui, con
matura sensibilità storica, egli poneva la consuetudine e l'interpretazione
giurisprudenziale a fondamento del diritto del Regno e dei suoi svolgimenti.
Risalgono inoltre allo stesso periodo alcune scritture e lettere sullo stato
politico d'Europa e d'Italia (cfr. l'ediz. Mazzacane). Le opere
dell'ultimo biennio valsero a confermare il suo ruolo eminente tra le
avanguardie intellettuali napoletane, sicché non sorprende la visita resagli a
Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695 per concordare un'azione contro
l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si esprimeva sul piano e politico
e culturale con la controversia del S. Uffizio, il processo agli ateisti, i libelli
polemici tra cui spiccavano per ampiezza di argomentazioni le Lettere
apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a Napoli nel 1694 sotto lo
pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le Risposte già ricordate, ma
nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a Napoli. Altri temi più
direttamente incisivi che non gli appelli per la moderna filosofia, si
offrivano a costituire il cemento ideologico capace di saldare alleanze diverse
tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella svolta di fine Seicento,
dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti cattolici alla nuova cultura
e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un tentativo d'imporre il
prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le fila, si attestava
sull'intransigente difesa della giurisdizione regia, assumendola in proprio,
senza demandarne la definizione a intellettuali appartati, sia pure di grande
prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione investigante non poteva più
rappresentare la base per un'intesa tra monarchia, viceré e magistrati,
stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e difatti egli venne del
tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina Coeli. Perciò gli
Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una straordinaria fortuna,
assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva, pagarono il prezzo
della contraddizione tra un modello ancora proposto e il realistico
riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura come alto
magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte neostoiche,
e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si accompagnava
all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito dal ministero,
ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense negli ultimi
cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di analisi, ma
che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le direttrici
ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono terminati l'anno prima
del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe Doria, dove il D. si
ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo stato fisico declinante.
Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una febbre terzana contratta a
Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta meno neppure negli ultimi
mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso politico intorno alla futura
successione della monarchia di Spagna (edito di recente dal Mastellone), che è
il suo estremo messaggio agli intellettuali napoletani nella "cupa"
finis Hispaniae. Fonti e Bibl.: Fonte principale sono le notizie
autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti, pubbl. a cura di N. Cortese, I
ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. F. D.,Napoli 1923, con intr.,
note e append. bibliografica ricche di riferimenti ai documenti ined. e alle
testimonianze più antiche. Per le date di nascita e di morte si sono tuttavia
preferite quelle indicate da L. Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali
del Regno di Napoli, I,Napoli 1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai
Registri battesimali della chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch.
Doria-Pamphili in Roma, fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi
studi, si è adottato l'uso moderno di considerare l'anno di vita compiuto,
anziché quello iniziato. Si è inoltre collocata la laurea nel marzo 1641,
seguendo [G. L. Torrese], Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium
nomenclatura, Neapoli 1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum
Neapolitanorum viventium, Neapoli 1678, p. 21; la documentazione archivistica
dell'Arch. di Stato di Napoli, Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma
almeno e silentio. L'elenco delle opere edite e inedite e delle lettere finora
rinvenute è fornito da A. Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti
politici di F. D., Napoli 1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente
ricostituzione dei testi, avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam,
Minima Dandreiana. Prima ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a
B. Aletino", in Riv. stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche
A. Borrelli, L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in
Filologia e critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al
Redi sono pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi,
in Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono
studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid.,
VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona
parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il
Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale
riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa
la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a
ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente
animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul
secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle
pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D.
Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale
a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di
Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico,
Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella
seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista
(1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il
Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna);
L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970;
V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del
Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti
dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica
forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI
(1976), pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello,
Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id.,
Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile",
in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L.
Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento,
Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA
(Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio
dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi
genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del
sedile di Mon 58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore'
(r). Il Padre, che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro,
appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni
10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio. F in da quesia tenera
età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore
quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva, onde il nome gli
diedero di maeslro di me moria. La sua educazione però, esser dovea tuttaltra
da quella, che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza.
Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la
disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo
ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto, che quel li conoscendo i
talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane,e privar
con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua
riuscita,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te
iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon
per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore
dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro...Turamino Sartese (3): giacchè
a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio. Domenico
Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno, e ſtato già
maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco nell’introduzione
de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi avvertimenti, ove parla
della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal. pag. 8. Giangiuseppe
Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone jlor. civ. del Reg. di
Napo!. [ib. 34.:0.8. Q. r. in fin. scrivono,'che quiz/Zi ancorchè Senese d’
origine su Napoletana. Ma-si sono ingannati a partito. Non pochi monumenti
abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel 1604. trovandosi in Ferrara
scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese in cui scrive: e Neapoli per
Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi dalla carica.di uditor di
Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò la cattedra di diritto
civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio. Zunica Vicerè diNa
'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum, pubblicato nel i593. e
dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che fece precedere‘al suo
opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri. Neap.1595.in4.enel1594. per morte del
Colombino‘passò alla primaria, e tutte le opere, che pose qui a luce le dedicò'
a’personaggí del suo paese; tal è quella sana a Giro lamo Cerretano, e
Francese* Accarisio patrizj Sanesi, che precede al suo,opuscolo ad L. fruit—im‘,
S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso nel 1600. E* da leggersianche
l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura míni,ëdir.&nen/ir1-770.
(4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ n, o AN 'gç Fece gli intendereildotto
GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’ primi ſtud;,e qual bisogno
avesse,per ben. coltivare i suoi talenti nello apprendere la scienza del
diritto.Siffatti avverti menti però dispiacendo all’ambizioso genitore,
bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro, nell’età di anni 17. con
di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra legge per fargli
intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però l’accorto giovanetto
volle secondare i desider) paterni. N o n interruppe per ciò dopo la laurea
dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli autori latini e
greci, tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle opere di Virgilio,
e di Omero, ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui avendoci acquiſtata
una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però giammai vedersi da tan- ’
to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo dispiacimento. Queſta ' insinuazione
gliela diede peraltro anche il dotto Ottavio di Felice, avendogli fatto
comprendere similmente quanto fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e
cronologia,senza di cui e’tratto non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria,
e che ſtato sarebbe ancor per lui molto vanta gioso apprendere qualche cosa di
moral filosofia. Colla guida de’ su odati valentnomint giunto all’età di anni
zo. in cominciò la carriera del foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc
correano-nelle cause del padre. La prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa
fu-sull’ articolo eccitato in un litigio del, principe di Ca salmaggiore,se
l’interesse ~di più anni pote'a- eccedere il doppio della sorte principale. Lo
spirito di novità con cui mane‘ iol-lo, piacque non poco alConsigliere Arias de
Mesa stato diggi catte 'dratìco di Salamanca. La seconda in una causa d’
importanza del Principe d’Aquino col Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu
gliano, e in risposta di quella fatta da Giulio Caracciolo. M a poichè
incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle scienze, cad iscorgere
qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome
dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che
su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re,-se animato non lo
avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi
lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme
cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti
scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise
i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘,
perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di
uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo
aiuto, e che.perciò.vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran protectorde’gtovani.
Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove,recitò_una.suaart-?l 2.
zio 60 AN zione in lode di quella is’tituzione; ed avendone
riportati univerá sali applausi,incominciò pian piano ad incoragirsi,e a
deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi trattenendosiunamat tina*
nel Collaterale,in cui doveasi trattare la tanto famigerata cau sa tralla
succennata congregazione,ei PP.Gesuiri, iquali pretendeano -fondarne altra, ed’
essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos il difensore di essa
congregazione, non vi' si trovò per allora. Niu no de’ tanti avvocati della
medesima,che vi s1 erano radunati vol le esporsi al cimento, ed il solo noſtro
Francesco di anni ar. non già. zz. secondo vuole il Giannone (1) si addossò
eſtemporaneamente l’in carico,e parlando colla più sop‘rafflna elo uenza, e
sodezza di ra— gione,ancorchè avesse dovuto rintuzzare [avversario Francesco
Pra to,che parlato avea in favella Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna
compiuta decisione. Queſto dir solea il noſtro autore, esser ſtato un de’ più
segnalati punti di sua vita, e il primo passo alla gran fama, che andò dipoi
sempreppiù acquistando., Volle il Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di
Chieti, che vi an ‘dòpoiversolafinedel1646.caricach’e
liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e ualmente aglialtriperve ersi
allontanato dal foro un giovanedi rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti
tui,'e dopo di ave 1 procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘
con D. Michele-Pignatelli Preside -e governador delle
-armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari
rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel
savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde
valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio.
Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da
lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una
gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse
soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi
tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea
Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza
dell’Esercito, Marina,Caſtel
lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò nelle mani, ond’io
tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor. civil. del Reg”. di
Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle, che tra i rubelli eranvi
in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia ignobile,edessendo
ſtatocreatodalpopoloCon figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon
degliuffiziali s a m dallo flessoinsuriflo popolo, si credette da taluni,
ehegil noſtro Fi -scale d' Andrea fosse stato il promosso,- qual equivoco su
smentito da esso --Miehele Pignatelli'. O 4. u 1 "A N.ci Sarebbe
ritornato'in Napoli fin da Luglio 1648. se un ordine della Camera non l’avesse
dovuto trattenere sino a Settembre dello ſtesso anno. In qual tempo ripigliò
l’esercizio del noſtro foro, e sparse ditanto
intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad appellarlo
ilcomun maeſtro,e il principe degli oratori (r).,Il Conte di Ognatte avendo,
dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed avendogli data la
facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie dotti gli sembrassero,
eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante fossero~ state e
preghiere fattegli da quel Cavaliere, non volle avvedutamente interrompere
altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’ e’disse,nè di
utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella fiera
peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da parecchi
noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne' suoi stati
nella Calabria Citeriore. Indi cessato il contagio fatto rrtorno in N a poli,
trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la scarsezza
adunque di queſti, e più,per la sua 'abilità;'se gli ac crebbe ditanto il
numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle tante gravi applicazioni,asegno
che incomincio ad infaſtidirsidi sua professione, e a contrarre delle varie
indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e di Domenico Bracati:il primo inqui q
sito di capital delitto, l’altro di menomato. zelo verso del suo So _vrano.
L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto ancor fortunato. Egli ebbe a
perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal d’Aragona,l’al tra avanti del
VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo pe’diritti del suo Sovrano; e
nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed alla gran gloria,chevenne
adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne,otten ne ancor delle buone' somme, che' a
larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi essendosene` morto Diego
suo‘genitore,edavanza te più le sue indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di
fare 'un viaggio per la noſtra Italia (3), a ffi n di ricuperare la quasi
cadente dlhîi sa.-~ t — ` -î- 11-.... (i) Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”. 'ad
Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35. Francesco Maradei prati:.` universal.
proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1). 64. (z) Vedi il.P. D. Carlo Francesco
Riaco:Jil giudizio `di Napoli csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla propria
salute. ñ " f- Le prime cause, che difese dopo il ritorno dalla (Calabria,
siiron passato conteggio cet.,ln Perugia [658. in 3. e il.Ragguaglio della
mirato losa protezione di S. F rancesco Saverio *ver-fit la Città e il Regno di
Napoli ì nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii,
e in Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli.x743. inps. Parrino teatro de' Vic”) di
Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_0-. _. `, ›_~. (3) Vedi il noflro, autore
negli avvertimenti a’suot mp0” 5. i. l. O ' '6:- AN lute. Egli girò per lo spazio
di anni quattro, e luogo non vi.su j ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu
alti applausi esegni di ri spetto e venerazione. lo tralascio a far parola di
que’ favolosi rac conti e del m o d o, 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse
parti dell’ italia; poichè ſtiam pur nella certezza d’ essersi fatto
dappertutto conoscere,e dappertutto ancora esige atteſtatì diſtima ediammi
razione. ln var} tribunali a preghiere de’ più grandi del. luogo, eb be a sar
sentire la sua eloquenza, e donde partiva lasciava negli animi di tutti segni
di affezione. Grandi furono gli onori, ch’ egli esigettc in Firenze (i) e in
Perugia, che in occasion di sua par tenza composero i Perugini la seghente
raccolta intitolatas Affet ti ossequiosì delle Muse di Perugia nella Partenza
del Signor Francesco d’ Andrea Napoletano; In Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno
1672.. alle cantinue preghiere de’ suoi illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o
Vicerè, come si dice, ebbe a ritornare in vqueſta Ca pitale, e ripigliare per
la terza volta l’esercizio del foro. Ella è coſtante tradizione,ch’vogni
qualvoltadovea perorare,radunavansi i più dotti di queſta noſtra Metropoli, e
con essi gli eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni.Mabillon (3) calato in
italia nel 1685. col carattere d’ Inviato del Re di Francia per visitare le
noſtre bi blioteche ed -antichità,dice di averlo ascoltato non seme! in Mist fn
principîs Satriani magna cum eloquentiae flumine et fulmine Perorantem (4),
ancorchè perallora- fosse già di anni 60. Dice Pietro Giannone (5).,,ch’ egli
fosse stato il primo a sar risonare il nome di Cujacio,~-e di altri eruditi
scrittori nelle sue aringhe. Autorità che' venne abbracciata dal Giannelli (á),e
dal Grimaldi (7) avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle
operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes... lb‘7 y.-:l_.
(i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63. (z)
Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol. de
”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne
scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to
1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo
scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed
_entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere.
Vedi. h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du.Am/mm' de 'la Congregalìon a':
S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5) Giannone
islar. civil. [ib.;8. cap. 4. ', › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione 'al figlio
cap. 26. p. 230." (7) Ginesio Grimaldi isl_aría del/_e leggi {Magi/Ira”
del Reg. di Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie:siam/ae degli A m d: mom',
tom.- a. p. 14. a z-r. z” ~ f,-- _.—,__ì..IN-M,... _._ñ- `_. j l'-ó—. ñ
-‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax- LA N 63 so nostroFrancesco avendo volutodarsi un
talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil
rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e
eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli
fioriron d’ innanzi,vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti
quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi
sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti,parte
Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi,cheperorando ne’ tribunali sentir
non facessero anche iloro nomi. Questa gloria,
chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela..i Che da’ suoi tempi
incominciata fosse.un epoca più felice,per un cet. tomodo
introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil
ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile,e delle
nostre municipali leggi,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro autore.
La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per quanto potè
l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime allega'zioni‘,ch"e’scrisse,
e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano. e ì. - Egli s’impe nò,che.la
giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’ erudizionc nella noſtra
Univer lfà.'Si adoprò similmen te, che la cattedra di matematica si occupasse
da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel tempo, ch’egli venir
fece da Roma nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre*
Renato des Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori. F e
riſtabilire la.cattedra- di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri
verso il1687.. come anche indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la rettorica,
nel tempo -ſtesso ch' egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili,'mancandovi
una-tal cattedra nella Uni vcrsità degli ſtud), ch’ indi fu eretta, e conferita
ad Antonio Orlan dino. Fece ancor risorgere ñl’accademia degli Oziosi (a),e fu
uno de’ fondatori delle accademie degli Oscuri.(3) de’ Razzi (4.), ‘de
gl'I/zveſtiganri (5), e venne asgritt’o alla generale adunanza ‘d’Ar.:,..aaca
‘(t) Osserva il mio leggitore le opeíe di Francescantonio d’Adamo, di Vince zo_
Alfani, di Domenico de Rubeis, cet-’per res’tar‘ persuaso- di quel che i è da
me afferiro. - '.. v (z) Nell'anno 1611.‘ Gio. Batìſta Manzo Marchese di Villa'
iſtitui‘ una tal a c c a d e m i a.‘ Vedi G i u l i o C e s a r e Capa c c i o
m i s u r a / f i e r e p a g. 8. e 9. e d g b be il`suo principio addì 3.
Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie... presso S. Agnello. Vedi Tommaso
Coílo memoriale de’succejji del Regno p di Napo/ì, in detto anno, 16”. g‘ (3)
Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!. (4) Nell’ anno ſtesso
surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi. (5) Quella celebre adunanza
iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. - Ao ~› e
cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva ‘di riformare il
guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci.-Per quanto potè
moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli molto il conversare.
Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio, Luca Tozzi, Cammillo Pelle grino,
Carlo Buragna, Grana-alfonso Borrelli, Nicolò Amenta, Giambatiſta Capucci, Daniel'lo
Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari, Pietro Lizzaldi Gesuita,
Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio Magliabechi, Giammario
Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano, Tommaso` Cornelio, Lionardo
deCapua,e altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non
lasciarono di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele
dedicarono ancora, come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll
Crescimbeni colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’
seguenti versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana:;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio
d’Andrea l Con amabilefierezza, \.ñ‘. Con terribile doleezàay, -. ‘~ Tra gran
mani d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _...i` _. Inalzarundi‘*voeva.~9 ñ
y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di
Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v,..,‘h
—tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di Giannone
lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna in
Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig.
semi-nn. Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da, mazionibu:
naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a so
Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea, e il dilui germano‘ fratello
Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da
Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione.
(i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A sti dell’ ush
ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin- Gianno
neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano `delle
notizie del bello, dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3. giornata
V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment., dc chris
iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì,~~“ Che nonfl) s’è
tigre/70,0 -vina, ’ j- - -‘ ñ".' ì. -. r.~ ì ~.-.' -'.EinaNapolise!-óea- p
‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet.
nèaltrimentiparecchi-altriscrittori(1)., '\ ñ _..._-ñ-_._.. -ññ. -..r.-
*A 'AN 65 tutti coloro che ne han fatta parola avvisandosi, che il
Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del Real patrimo— nio;
qual carica essendogli troppo odiosa, commutar la volle con quella di
Consigliere: ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi, ch’ egli ebbe la
commessa delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo. Settembre del
1689. e nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon commesse al
Consigliere D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii. 1691. Dopo anni
9. in circa di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente annoiato, che rinunciar
volle la toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico, avendo menata sua vita da
circa anni 50. tralle noiose cure del foro, e in una piucchè assidua
applicazione. A tal fine si ritirò nella noſtra Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi
erdue. zooo. ove fin dal primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici
e clientoli, si avvide ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo
desiderio; quindi se passaggio nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi
trovato avesse quel tanto suo bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal
sua risoluzione, frequentata venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da
numerosa folla- di litiganti a chiedergli qualche suo savio regolamento, ed
inquietato piuc~ che mai veniva dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che
calava no nella noſtra dotta Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi
diggià sparsa per tutto l’orbe letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in
Candela terra in Capitanata, ove venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore
z:. dell’anno 1698- e di sua età settanta treesimo, e mesi,e non già come altri
scrissero di anni.7t. Il Vescovo di.Melfi si adoprò nella miglior maniera, onde
rendere gli ultimi uffizi alla sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli
avesseorazion funebre,laquale è ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse
ſtata benanche impressa. Il titolo èqueſto: In obi
tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa mera Fisci Petroni
elegiacum carmen,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za Patetta. Ora altro non
resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue opere,ed i motivi 0nd’
ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle iſtorie la controversia
mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di Brabante, ed altri ſtati
della Fiandra contro i Spagnuóli. Per affar sì serio vennegl’impoflo dal Vicerè
D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di scrivere in difesa del lor
Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un tal comando, eaddì2.8.FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua
dotta scrittura, col titolo: '.
1.DijkrtatiodesucceffioneDucatusBraáantiae.QuaMenditurmul- - Tom!. vI lam
4 66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem _Dueatur la
ereditata-m spem fieri;per Consuetua'inem illms pravmciae,quaefilias primi
Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi:, quam-ui:
mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil
commune habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il
Vicerè, che m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo
nome, impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così
manoscritta inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar
nuovo motivo a’ Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar
li al cimento, non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi
produsse-ro. M a nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe
Criſtianiſtimo era giunto co’ suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e
che n"el medesimo tempo avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura
inlingua spa nuolasi), coi tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C
riflianiflimn fi)er *vario: E/Zador dela Monarquia de Españ'a; toſtochè l’ebbe
nelle mani ilVicerè D. Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con
ordine di rispondervi,nel mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea
incominciato ad usarvi tutti gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la
desiderata ris`poſta,e su una delle più celebri scritture, che vedute si
fossero in tal occasione. Eccone il titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle
ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b pra il Ducato del Brabante, con altri
fiati della Fiandra, nella qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe
diFran cia Per la conquisha di quelle Provincie; non o/lanti le ragioni, eee
_fifim pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina
Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo
discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea
ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione
alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed
essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi.
niſtro volta in lingua Spagnuola, e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente
tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del
Parlamento di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur
l’Empire.Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi
aVesse altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea
'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39.
cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i. As N 67 e'd impressa
nello ſtesso anno 1667. in 4. (I).. x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri
Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea
oàvenerunt. A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus,de sue
cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata
molte volte.Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui
opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor
Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar
ticolo t'ratterò più a lungo.. 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi
una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione.. 5.
Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso
Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la
cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti
nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella
rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in
ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in
Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue
opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e
del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac
cademia degli Oziosi, e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per
allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie
lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della
filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di
Feroleto. Queſt’ opera, ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa
l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non
so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò
Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non
(1) Alle altre scritture de’ Franzesi, non vi mancarono ‘altri dottíopposirori,
che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII. e men tovate
vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.” S.” (7.)De
Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ. (3) Jo. Torre traff. de susiefliom in
Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln
1688.1.:(4)*Idemma‘.deprimogenitìs'Italia:eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu- l m
1686. › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. ` * 2. ñ.
53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb perchè il dilui fratello,il
Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del Collateral Consiglia, Gennaro
d’Andrea,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via delle [Zam pe, quantunque ne
[/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio ella conservavasi nella celebre
libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’ Codici Magliabechiani in Firenze
(z) evvi una lettera- di esso Francesco de’ 2.3. Agosio 1685. con cui gli
chiede notizia di var) libri, che consultar dovea per tal suo lavoro. Disror/b
della nobil famiglia della Marra.,. Discor/n sopra la /uc‘reflirme di?pagna in
morte quando filC-'Có’dsldel ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo
scrissestan— do in Candela colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime,
ojjiano avvertimenti a’suoi nipoti, D. Gia. e D. Andrea, per farlor
divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in
cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria.
Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati
impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a
scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro.
Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’
è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella
s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però
attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la
vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto
suo proprio, poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso
nell’ordine delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come
dice ne’ suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit
t-ori,ed inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3).
ANELLO (Gabriella)mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm
ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e:
Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas, advertitur,Pro
Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa,
con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8.
ANGELIS (Baldaffarre de) dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere
nella decadenza del secolo XVI. come rilevafi dal ''.. le (l) Vedi i giornali
rie’letterati Venez. t. 24. pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet.
133. (3) Smge in'sua pale/ira iuris t.z. allega:.7. Parlando del
DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era
fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque
all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso
luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che
questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori
principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di
quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E, del resto,
l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti
da anni in un'intima comunanzadistudi,diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con
cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò,
materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello
stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere
del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la
lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci
informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo,
recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua,
scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di
venti anni. Non vi può esser quindi dubbio. -76 V la vita con
la sua munificenza é la sede col suo palazzo; ma,virtualmente,l'Accademia
esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna,
col Borelli, coi fratelli D'Andrea, troviamo G. B. Capucci, Camillo Pellegrino
(75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A. Porzio e
qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa un cane
bracco col motto lucreziano: « Vestigia lustrat »; motto e impresa che ben
rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli
Investiganti. E, invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli
Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti
perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia
degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette
anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee; essa,
attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci
dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti
si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche,
procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel
motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli
Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua; non è
però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata
dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il
fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra
l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori
l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno
dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia
dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, op. cit., vol. I, p. 333, uno dei
principali fondatori del l'Accademia fu F. D’Andrea. - 77 (75) Questo
illustre storico che nell'Apparato delle antichità di Capua iniziò la via, che
poi il Muratori percorse con passo gigantesco, morì nel
1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna nuova
confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia era già costituita nel
1663, - 78 che ancora abbondavano a Napoli, gli Investiganti
sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi tempi; ed è perciò che
è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei fondatori, mentre, nello stesso
tempo, è documento della sua grande cultura scientifica e della modernità del
suo in telletto. (76) Dell'influsso esercitato dagli Investiganti contro il
vaneggiare della grande turba dei poetastri seguaci del Marino, abbiamo, fra le
altre, una prova nelle parole dell'abate DE ANGELIS, contemporaneo, nella
citata Vita di Antonio Caraccio, luog. cit., p. I, p. 145. Scrive il De Angelis:
« In poco conto erano in quel tempo per tutto il regno di Napoli.... la
vaghezza e la purità dello scrivere italiano.... tenute. Per lo contrario erano
intesi i componimenti di coloro che dal proprio sregolato capriccio e r a n d e
t t a t i, c o n i m p r o p r i e m e t a f o r e.... e c c. ». A g g i u n g
e p o i c h e il C a raccio si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i
consigli e gli esempi degli Accademici Investijanti «uomini per universale
consentimento an noverati tra i maggiori e più ce'ebri letterati dell'età
presente e della passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio
vendicato del Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto
secentistico, al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta.
Senonchè il Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e
filosofi, uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche
poeti. E come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano
un profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare; essi, voltando le
spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme
al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è
nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti
secentistici che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso
salutare, che fu da parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E
poichè il Di Capua, in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob
biamo ritenere che il Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa
Accademia, in cui portò un contributo notevole di profondi studi scientifici,
abbia esercitato un preponderante influsso letterario, che
corrisponde a quello esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77).
Il nome del Nostro si lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che
abbraccia la scienza, la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere
meglio studiata e valu tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche
del B u ragna, potremmo considerare tutti e tre i lati del prisma; ma non
abbiamo che alcuni dei suoi versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza
delle idealità poetiche di questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori.
Ma ci riman gono altri scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già
citati, e, con nuove ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti
nell'importante posto che loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo.
Quanto durò l'Accademia ! Per meglio fissare alcune circostanze della vita del
Buragna, dobbiamo cercare di ri spondere a questa domanda, almeno
approssimativamente. Il Susanna scrive che la vita di questa Accademia fu breve
(78) (77) Nell'esaminare le rime del Buragna, meglio vedremo delinearsi questa
verità. In fondo gli Investiganti sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero,
che fra essi colui che più visse, il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che
vi furono due Arcadie e che la prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi.
(78) Come al solito, le vaghe espressioni del Susanna sono malfide per
stabilire una cronologia con sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il
Nostro, anche durante la sua dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal
1663 al 1667, potesse continuare a prender parto ai lavori degli In vestiganti,
tuttochè lontano da Napoli; infatti ora permesso di inviare per iscritto le
proprie idee sciontifiche e filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano
perchè getta un po' di luce sui procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat
absentibus, ex Academiae institutis, sua mittere de Philosophicis rebus
cogitata, quae recitarentur in congressu et per expo rimenta ad veritatis
expenderentur trutinam. Moris quippe erat altera hebdomadae die ibi dicere quae
quisque sentiret; altera, voro, insequentis heb d o m a d a e ex p e r i m e n
t i s d i c t a e x e r c e r e ». S u s a n n a, o p. l u o g. c i t., f f. 6,
r. e 7, v. Il metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto, comune a
tante Accademie, anche gloriose, di voler creare una discussione che era fine a
sè stessa e di cui, spesso, non v'era bisogno. -79 e ciò
ripetono coloro che ho citato; anzi il Caravelli (79), in un accenno, scrive: «
Disgraziatamente la coraggiosa ed importante Accademia morì quasi sul nascere
». D'altra parte lo stesso Susanna viene a parlare dell'Accademia soltanto a
proposito del ritorno del Nostro da Lecce, dicendo che egli fu accolto dai soci
festosamente e prese parte alle riunioni
degliInvestiganti,cheperò,dopononmolto,cessarono.E così altri contemporanei,
pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci parlano di una vita
addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli Investiganti presuppone una
certa d u rata della società. E se il Nostro prese parte ai convegni in casa
del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi defini tivamente stabilito a
Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe lunga vita, la fine degli
Investiganti dovrà cadere fra il 1668 e il 1670. Ma io credo che l'Accademia
abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno; me ne foruisce una prova
abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia stessa
finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto a
mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente
per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet
era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso
Borelli stampava (79) CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. (8 0 ) P e r ò, (e d a
p p a r e a n c h e d a l l e p a r o l e d e l V o l u b i l e ), s i t r a t
t a d i partenza e non di morte del Concublet, come credette il CARINI,
nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci dà alcuna notizia sulla durata
dell'Ac cademia. (81) Qualcuno accenna ad ostilità dei Vicerè verso gli
Investiganti; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo luogo dell'op. cit., fa
terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione ordinata dal governo. «
Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del male, la dottissima e tran
quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo qualche scissura e qualche atto
violento, ne fu ordinata la soppressione dall'imbestialito governo vi ceregnale
». Senonchè, per vero dire, e non per tenerezza verso l'infausto
governodeiViceré,questanotizianonrisultadaalcundocumento deltempo,
80 IntalmodoilBuragnaaccrescevalasuadottrinaelasua fama, ma
s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento
dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo lore di staccarsi ancora da
tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le più care abitudini
intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare il pellegrinaggio
nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per Giovan Battista
Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di calunnie, di cui
parla il Susanna, per quanto i Vicerè (82)È l'opera: De motionibus naturalibus
a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto ignota agli studiosi. (83)
L'Accademia ci fornisce ancora una prova della impossibilità che il Buragna sia
rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota 48 di questo capitolo).
L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i limiti cho le notizie del
Volubile e del Di Capua consentono. - 81 - una sua opera scientifica
(82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica, degli
Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il significato di
queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba di lungarmi a
dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a Napoli. Non si
può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata di questa
Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea. Keywords:
investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela,
investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere,
non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante –
l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su
vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare,
vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non
sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di
‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691504428/in/photolist-2mKNtmY-2mKCWuP-2mPHbXQ-2mKbfaU-2mJLMNt-2mJq2uE-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mGnP2f-2mEuJp2-E4u3XA-nNAxcL-nNAkjj-GrknGu-FVWdPd-T63iW1-Dw1w1R-DhJMno-BNU6Ba-BNPnbr-Cf6Cmr-Ck5cFS-BVhgDW-BpUfws-Bq2br8-BpPunU-BpZb62-Ck24sU-BnL74H-CayHCW-Ck9fMH-Bm9hW2-Bm2MF1-Cgaeq7-BJXeRz-BvUfSB-BUPaNy-BYzvBt-BRifbP-BwrYXs-B23vYm-Bq4SjB-ABifoD-AyLXky-Am1vDt-Am13jP-A3pPU7-znZhCQ-Am1maP
Grice ed Andria –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Massafra). Filosofo. Grice:
“I like Andria; of course he brings more problems than solutions but that’s
philosophy even if his philosophical credentials are obscure! “He did write a
philosophical chemistry and a philosophical agriculture, but that’s because at
Naples there were only two faculties: law and philosophy – he also wrote a
‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s theory of life – as he calls it –
osservazione generalie sulla teoria della vita’ – owes a lot to Aldini and
Haller-- Mainly he elaborates and
refines Haller, if you believe it – it’s all Italian to me, so it’s
eccitbabilita, sensibilita, ed irritabilita. “Andria goes on to define this
eccitabilita in terms of the ‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei
nervi’ – which galvanism smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita
vegetale’ o delle piante, and ‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is
understood by ‘eucarioti’ of higher order, in terms of reproduction (of life –
hence re-productum). A fronte de' profondi misteri dell'immensa, ed eterna
meccanica, colla quale l’Autor del tutto à voluto che sian le cose disposte ed
ordinate, la forza dell'umano intendimen to si trova per l'ordinario talmente
oppressa dalla propria picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile
le riesce di penetrarvi dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più
esterne apparenze; o pur finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo
disegno, realmente non fa altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e
l'inezia delle sue idee.» (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria
della vita, 1804).Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella
Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico
Gennaro Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando
nel 1769 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi
studi applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo,
a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo
per l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a
quest'ultimo. La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e
Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di
ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove
ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e
pratica, all'agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di
medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa. Nel 1808 Nicola
Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; nel 1811, di patologia e
di nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814,
insignito del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e
il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa
Sofia, insieme al collega Antonio Sementini. Nicola Andria ha subìto per
più di un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di
Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle
sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e
consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama
scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta
per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola
Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del
Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane
ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si
definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria,
Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una
Scuola Media. Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo
anniversario della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico
speciale e una cartolina commemorativa. Pensiero «Non vi è una materia in
Natura che abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser
chiamata vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia
appartenga, e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro
diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita
risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita
producono» (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita,
1804) Il contesto storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più
importanti della storia della scienza e della civiltà: il Settecento e
l'Ottocento hanno “gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e
portato l'uomo sulla Luna. Andria vive a Napoli, per certi versi quasi
“fulcro” e “convoglio” delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua
particolare sensibilità di scienziato di formazione filosofica lo porta ad
assorbirne il carattere rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua
condizione di provinciale in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed
umiltà di cuore, la quale si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo,
«congegni perfettissimi» di straordinaria bellezza. Oggi, questo
significa “ri-orientare” la ricerca scientifica verso un fine che non sia
l'“utile” economico (politico, militare), ma ricerca del vero e del bello nella
tutela e nella salvaguardia di tutta l'umanità. Dagli anni cinquanta
dell'Ottocento la circolazione delle idee andriane (di “freno vitalistico” al
meccanicismo più sterile) si arena sulla sponda di un “nuovo lido”: quel meccanicismo
biologico che dell'anima e del pensiero ha fatto solo un aggregato chimico di
molecole. L'eco dell'appello di Nicola Andria, così instancabilmente
perpetrato, in ricerca come in didattica, si perde; si perde alle soglie di una
svolta importante, la stessa che avrebbe prodotto la Grande Guerra, il delirio
dei nazionalismi, la credenza che debba sopravvivere il più abominevole degli
uomini, dove “fortezza” vale essenzialmente in-umanità, dis-umanità,
non-umanità. «Il filosofo [...] in tutto questo giro di cose, ravvisando
le tracce della sapienza infinita di un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto
ammirabili, o Signore, sono le opere tue!» (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi
di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso politico sulla servitù” (Napoli,
Campo); “Piano di un corso di chimica pratica” (Napoli); “Trattato delle acque
minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera sull'aria fissa” (Napoli); “Elementi di chimica filosofica” (Napoli: Manfredi)
-- Delle forze e delle materie di cui si occupa la chimica -- Del fuoco, sti
che nederivano --- Delle principali combinazioni dell’ossigeno ede'composti
chene risultano -- INTRODUZIONE alla Chimica – Dell’unione delle altre materie
fi. nora non iscomposte, e de’ corpi,che quindisene otten -- Della
cristallizzazione -- ne,edellasublimazione -- Della fusione. X zir X piùsolidi
basamenti del globo terraqueo, che indi ne sorgono -- Dell'ossigenazione, &
quindi della combustione e dell'atmosfera terrestre.-- Della
congiunzionedelleterre,ede? -- Della
soluzione. --- Degl’altri generi di combinazioni – Dell’operazioni chimiche --
Della distillazione, dell'evaporazio -- Della fermentazione, e della
putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli, V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli,
V. Manfredi, “Elementi di Medicina Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni
di Medicina Pratica, Napoli, V. Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione
di agricoltura”; “Osservazioni generali sulla teoria della vita, Napoli, V.
Manfredi); “Riflessioni su di un caso singolarissimo di gravidanza fuori
dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A partire da V. Cuoco, vari studi sono
stati editi a proposito della Rivoluzione napoletana del 1799, la quale diede
vita alla Repubblica partenopea, preparata dal triennio giacobino sin dal
1796. Per l'internazionalità del suo
pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il pensiero scientifico di Nicola
Andria, Massafra, A. Dellisanti,,
95-9 Melania Anna Duca, Il
pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio Dellisanti Editore,
Massafra Melania Anna Duca, Nicola
Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller e Spallanzani,
Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola Andria et les
origines de la psychiatrie moderne. Une contribution historiographique, in
«Psychofenia», n. 23, Melania Anna Duca,
Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme en Nicola Andria, in
«Psychofenia», n. 24, Altri progetti
Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file
su Niccolò Andria Sito dedicato al medico
e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21 ottobre 15 maggio ). Felice Mondella, «ANDRIA
(D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria
Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università
delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel l'assortimento
di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati, e che decide
del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa, che riesca un tal fenomeno
per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la no stra
curiosità ne prende, come di un affare che tanto da vicino ci riguarda, ed è
tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee
mettere,di ravvisarne le prin cipali molle, ed i mezzi percið di farlo corre re
alla lunga, e con passi meno stentati è più sicuri. Disgraziatamente però è
accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi
de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l'
ardito disegno di rischiararli, o d'interpetrarli in qua lunque modo. A fronte
de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica, colla quale a2
l'Au. / 582663 |Autordeltuto à volutoche sian le cose di sposte ed
ordinate, la forza dell'umano intendi mento si trova per l'ordinario talmente
oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità,che o totaliñente
impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all'
osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi
servile, che è pur.quello di cui la Natura si compiace, è permesso alle volte
di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola.
edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli, all'
intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà. tana dal render piena e
perfetta ogni nostra cox poscenza. Nelle cose qui da noi rammentate; e che da
ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra
esser con tenuta la ragione, perchè nella cognizione del, appena fes 4 1%
è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente j sem
brandole di esser riuscita nel suo disegno, real. mente non fa altro,che
deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che
volta diversamente è avvenuto; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di
sèmedesi sempre lon dine Ma pur bisognerà convenire,che fra
le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in
mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti
ed inceni,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo
avvanzamena to si sia finora fatto, quanto ognun sa; non ostante l'importanza
del medesimo, e la forza colla quale, come si è già osservato, à dovuto
richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana. Ne fanno testimonianza
le tante cose, che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i tanti
sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per
lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro
varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui, ricavati non dalla natura,ma
dal fondo di un'im maginazione,spesse fiatę riscaldata,e mal pre venuta. E se
ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian conciliato, cid solo
va inteso per parte di coloro, che senza conoscer l'arte ben difficile di saper
non sapere, e privi perciò di ogni criterio, tutto ammettono ed in gojano,contenti
della sola apparenza, o di qual che picciolo inal concertato artifizio.
dine alle volte si rinviene,che una facile e ge sterale osservazione fa
saltare agli occhi della maggior parte,o che gratuitamente si trova dal la
Provvidenza accordata per intrinseco ed essen ziale appannaggio dell'umano
intendimento.In una tal rubrica dee principalmente quell'assioma registrarsi di
logica universale, in cui è stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan.
ze,che possono aver luogo nella grande,e nel laminuta
esempreugualmentesorprendente meccanica della Natura. Ne inutile sarà ora di
osservare,che una tal cosa sembra trovarsi prin cipalmente verificata nel gran
fenomeno della vi ta, ove gli Uomini fin dal principio an dovuto conoscere ed
ammettere una forza,che unicamen te ne decide.Del che ne abbiamo un argomento
non equivoco nel privilegio,col quale un tal fe nomeno à solo meritato di esser
nel comun lin guaggio annunziatocon una parola,ladi cui eti mologia vien
precisamente in quell'altra voce che in Natura niun fenomeno vi sia senza
una forza che lo produce, e che il principio perciò di ogni movimento, o azione,
o fenome no che si voglia dire,in una forza consiste.Se non che questa forza
medesima può esser sem plice o composta, intrinseca o altronde ricerca ta
con 71 contenuta,che per immemorabile universal con: senso altro
che forza non à soluto mai indie care (a). Questa semplicissima osservazione,
che è pur vera e grande e da ogni ragion sostenuta, sembra la più atta a
somministrare un solo pune to di appoggio, onde alcuno possa spingersi in
un'analisi profonda delle cose della vita; e in tal modo potrà ben procacciarsi
di che ragione, volmente contentare la sua curiosità,e,ciò che importa molto di
più, soddisfare quella cocente natural sollecitudine,che ognuno à di render la
propria esistenza,per quanto all'Uom permes
so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto intendimento,prendes
rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana lisidellavita
eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e dallo sta to
attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso. E mentre questo, e non
altro, sarà (a) "Vita" viene da "vis", come anche
"virtus", "vir","virilitas", le quali parole
tutte fignificano forza: o ciocchè nella forza consiste, o la contiene
Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno dellenostremife che qui
ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi non andarci divagando in
altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a raggiugnerlo.Eviterem soprattutto
le citazioni; ed ogni esame di opi nioni diverse ed il rischio perciò di
attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene e di andar nuovendo picciole ed
inutili gelosie. Contenti di prender dal sacro deposito della Scienza ciò che
al nostro bisogno potrà esser bastante, la --scerem ad ogni depositario poi la
cura di riven dicar il suo, tutte le volte che lo crederà o p portuno al
proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a singolar fortuna quando ci
venisse accordata la sola scarsa lode,.che neppur a coa loro sinega,chenon
potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio recare,se ne dimostra no
almeno premurosi ed invogliati. Della qual nostra buona volontà ci lusinghiamo
che ottima testimonianza ce ne potrà principalmente venire da Giovani che alle
nostre lezioni an sempre assistito, o da chiunque altro che non isdegna di
trovar tuttavia buono per il suo uso ciò che per mezzo nostro l'è potuto in
qualunque modo pervenire. sarà sarà l'assioma di sopra stabilito,
dal quale si potrà per avventura losviluppo ottenere di con seguenze importanti,
che disposte con metodo dalla natura istessa suggerito, ci potran forse a quel
termine condurre, che formerà ora l'og geito principale di ogni nostra ricerca.
Se la vita dunque in una forza consiste 3 che continuamente si esercita
bisognerà neces sariamente supporre attaccataed inerente una tal forza alla
macchina che vive, Questa qualunque facoltà che negli esseri organizzati
risiede per vivere, si è voluto in questi ultimi tempi ecci tabilità
chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo ripugnanti, che quella ancor
si usasse di vitalità,e d'irritabilità universale,e di for za nervosa,o altra
qualunque di simil calibro; le quali ancorchè si sia preteso che possan cose
diverse designare, in ultima analisi perd real mente non sono intese,che
adichiarare il prin cipio generale della vita considerato dadiversi lati, o
sotto forme diverse. Fra 'l' espressioni o r qui accennate noi intanto
riterremo laprima, si perché si trova bastante per esprimer ciò che accade,si
perchè troviam un tal nome già qua si universalmente ammesso.COM 9 b >?
Vi sarà anche per foi un altro motivo, quello cioè di potersi tal Osserv.
lità 1 + 10 cosa in questo modo rappresentare, qual da noi si
crederà più opportuna, senza esser obbligati di ammetterne qualunque altra
corrispondente al le altrui idee. Una definizione, che venga a tempo, toglierà
sempre ogni equivoco,che nel le diverse maniere di immaginare può aver luo go,
ogni volta che con una sola voce sia venu to il talento di annunziarle. E ' un
fatto costante che durante la vita si sentano dagli esseri organizzati le
impressioni, che molti agenti son capaci di farvi, ed alle quali si risponde
sempre con del movimento, o con un particolar senso che si risveglia. L'ec
citabilità è quella su di cui cade l'operazione di ogni natural agente. Questi
agenti medesimi si an poi voluto chiamare stimoli,e il prodotto della di loro
operazione eccitamento. Il quale non dichiarandosi altrimente che per mezzo del
moto,edelsenso,possonoben quindiqueste due cose rappresentare le forme
principali del medesimo.Sembra dunque che per la vita vi bi sogni
l'eccitabilità da una parte onde viene il senso ed il moto,e dall'altra il
concorso de'sti. moli onde l'eccitabilità si mette in azione.Sena za
eccitabilità l'operazion de'stimoli è inutile, e niuna vita produce, e senza
stimoli l'eccitabi Tutti gli stimoli poi, per ragion della di loro
intrinseca particolar natura lità non è richiamata'a qualunque azione, ed
alle ordinarie forine di eccitamento. si sono divisi in esterni, ed interni.
Nella classe de primi l'aria va messa, ed ilcalorico,e laluce,ed il cibo,ed il
sangue, ed ogni altra material cosa, quam li da noi si sono considerate sempre
come gli stia moli della vita,econ tal frase le abbiamo an che indicate tutte
le volte che ci è toccato d'in terpetrarle. Di questi stimoli intanto mentre
che gli esterni molte volte bastano a risvegliare un giro di eccitamento e di
vira comune niera di operare, e diversa m a 9 a tutti gli esseri orginizzati,
non bastano poi senza il concorso degli interni a costituire una vita per feita,
com ' è quella dell'uomo, fra tutti gli al tri esseri che vivono il primo
certamente ed il più nobile. gli organ può operare. Per interni al contrario
s'intendono i movimenti dell' animo e quindi ogni morale azione, che non lascia
pur in una maniera dichiarata di rimbombare sugli organi del corpo, Corrisponde
tutto ciò perfettamente a quello, che gli antichi delle sei cose, c o m u
nemente dettenon naturali,intendevano,le che fisicamente su Quan b2
Quando l'affare è precisamente considerato me' termioi finora proposti,
niuna conseguenza potrà dedursi onde favorir dichiaratamente lo
statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà perciò inutile,e sarà
dissipato si. milmente lo scandalo, che alcuna delle opinioni accennate
potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose profondamente. Trattandosi
di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa intendersi, quando questa si
consideri sotto i vari suoi aspetti,o in circostanzediverse.La vita a senso
nostro può ben rappresentare uno stato passivo guardata per un lato,e nel tempo
stesso uno stato pienamente attivo guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o
siailgerme immedias to della vita relativamente ai stimoli de' quali nulla può
valere, è assolutamente pas siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne
de' stimoli medesimi, ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed
attività,che spiega nell' eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione
quella dell'eccitabilità.Ma questa reaa. zione medesima non è a buon conto che
una lità dunque è passiva relativamente ai stimoli, vera azione qualunque abbia
potuto essere il motivo, ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi senza,
atti attiva relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che
ne può venire.Con una tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con
ciliate le due idee opposte, le quali si trovano ugualmente vere, allogandosi
ognuna nella sua propria nicchia. Nè converrà dimenticarsi in questa spezie
d'indagine,che non essendovi azio ne in Natura, che non sia il prodotto di
un'al tra, per l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere
quella, che inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata.
Perchè altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto, Essendo una verità
di fatto l' eccitabilità; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi,
non lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça 13
si potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto,
ove senza contrasto alcuno incomincia la serie
alternadicagioniedeffetti,chel'immensa ca tena rinchiude delle cose del Mondo.
Ma in tal modo bisognerebbe pur convenire,che invece di sciogliereilnodo
nonsifarebbealtrocheru vidamente tagliarlo,e distruggere così ogni fi lo,nel
quale è unicamente raccapezzatol'ordi ne delle cose. poter sentire chig
di ravvisarvi distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso, e l'uomo
muscolare ed il nervoso, 14 china suddetta in tutto il corso della vita.
a tutti i peza non che può nascere il dubbio, che una tal fa coltà risiegga
ugualmente applicata a tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne
sia onde si propaghi, e venga agli altri comu nicata. Vi sono de' Fisiologi che
nella costitu zione della macchina animale vi ravvisano tante parti, che con un
singolar andamento dimostra no di esser molto fra loro diverse Se, quantunque
poi tutte intese alla formazione di quelli uno, che l'intera macchina
rappresenta e cosi di tutto il resto. Corri sponde tutto questo apparato di
nuove parole, o per Si an voluto insignire col nome particolare di sistemi, ed
è quindi insorto il sistema irrigatore, il sistema assorbente, il nervoso, il
muscolare, il cellula re, e ogni qualunque altro che il bisogno potrà
richiedere. Vi è stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi
di cotai siste mi, per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i
medesimi sembra passare,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione
del corpo prende, non à avuto difficoltà nella con siderazione, che à voluto
fare della macchina umana seo, Noi intanto non sapressimo cosi
facilmente intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della
macchina animale, principalmente di versi fra loro per la diversità delle
forme,o di altre circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro
pasta originale, possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo
unico e vero e general aspetto. Sembra la medesima esser qualche cosa di cale
importanza, alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi
direttamente alla pasta già ram 15 e per dir meglio di parole usate con
nuova regoa la, a ciò che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico
manelfondosignifi. cante lo stesso, si è derto sostanza cellulare
vasi,enervi,emuscoli',eossa nel farne la particolare storia, e stabilire colla
medesima i fondamenti della Fisiologia. Prima di passare ad altri argomentinon
sa ràsuperfluo soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo
iprincipiantis'istruisca no di una dottrina,la quale ne'tempi precedenti
haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi
introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre
Scienze. I Chimici, dopo di Sthal, pretendevano generalmente che dovesse
X 68 X in X 69 X intendersiper flogistoquella talcosa,che ata
caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio della loro
infiammabilità.si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi altri fenomeni.
Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di fuoco, di cui
prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa operazione si
sprigionasse quel fuoco, il quale trovavasi nascosto nel corpo infiammabile.
Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua presenza costituiva il
flogisto. E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio, che il fogi sto fosse
indentico col calorico aderente. M a la natura de'fenomeni richiedeva che
quello com stituisse un ente di suo genere, trasfersisi tutto intero da uno in
un altro corpo. Quindi bisognò immaginare una materia,o sia una base, alla
quale il fuoco, o sia il calorico, si at taccasse ed in certo modo addivenisse
fisso, cosi composto acquistasse un'adesione colle para ti de' corpi
infiammabili. Nella prima edi zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati
di esporre questa teoria, sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo
spazio di quasi cinque lustri ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli
argomenti chimici. Ed in ve ro colla sua applicazione vedevamo che i feno meni
non restavano spiegati con molta infelici tà. Questo è stato ancora conosciuto
da ruta ti i Chimici di gran nome, che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria
del flogisto si era qua potesse affinchè E3 si > X 70 X
siresa universale fino a'tempi presenti.Non può
negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato siabbiapotuto apertamente
diinostra re; e dal fin qui detto si deduce la sua ipotetica composizione.Cid
non ostante era una teoria comoda, ed avea il suo luogo per mancanza di una
migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica, il quale a tempi nostri è
addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più dubbia, ed inetta alla
spiegazione de'fenomeni; ma (quello che magiormente importa ) ne le
hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente
aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi
sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto; ma ora senza
difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso
gnosi sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica
filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita,
vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science?
Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means
No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his
constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689457873/in/photolist-2mUz2t3-2mTzWxT-2mPpmMv-2mKGVU3-2mKF6Rp-2mKBYZx-2mPvmTf-2mJd7nN-2mJ4GHU
Grice ed Angeli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “I like
Angeli – I’m glad he dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because he is
into the infinite (insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my
elucidation of that Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’
‘mentitum,’ ‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential
clause to solve the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the
idea of a ‘de facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad
infinitum’ – So Angeli is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati,
nel 1668, con la soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne
prete secolare. Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova.
Fu l'unica voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria
degli infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti. Si dedica allo studio della geometria,
continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica,
su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli. Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi,
esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata
geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum
mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam”
(Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis
rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù);
“Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note
Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano degli», in
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir
Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo
moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method
of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367 Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St
Andrews, Scotland. Opere di Stefano
degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Pietro Magrini, Sulla
vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec.
XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862:
Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti,
1866. Filosofia Matematica Matematica
Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623
1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano
d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della
sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui
scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui
devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in
geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad
eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum,
orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e
spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima
analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi
ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De
infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o
parabolicum"; "Miscellaneum geometricum", "De infinitorum
spiralium spatiorum mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune
ragioni Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia
Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto
diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di
Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la
confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli, ecc;
"Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due";ed
altri tre gli stampo. The concept of infinitesimal was beset by
controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the
mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to
be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean”
mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth
and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by
Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other
mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri
(1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical
tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated
with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he
understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of
a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a
volume as composed of equispaced parallel planes, these being termed the
indivisibles of the surface and the volume respectively. While Cavalieri
recognized that these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large,
indeed was prepared to regard them as being actually infinite, he avoided
following Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that,
for the “method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles
involved did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the
establishing of a correspondence between the indivisibles of two “similar”
configurations, and in the cases Cavalieri considers it is evident that the
correspondence is suggested on solely geometric grounds, rendering it quite
independent of number. The very statement of Cavalieri's principle embodies
this idea: if plane figures are included between a pair of parallel lines, and
if their intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed
ratio, then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous
principle holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction
of dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to
lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation
of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the
reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to
the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later
realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but
rather of infinitesimal straight lines, its microsegments. La prima opera
alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658, ha per
titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies
conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con
tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione
a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli
si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la
tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso
circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa
anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad
insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla
risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli stabilisce
le regole, che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così fatti
esercizii. L'inglese geometra, dopo tutte le opportune considerazioni, arriva a
darci riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine, confermò
ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera di
recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide. E d eccovi esperte
tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna
i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato. In mezzo ai tanti
curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così
annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del
problema una equazione del terzo la Quello che alcun poco potè
turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza, che il nostro
degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico, perchè
abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua
circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso
se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell'
uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine. ! 20
grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle
coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo
scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in
allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il
degli Angeli scioglie i due casi, senza la face dell'algebra,che allora non era
accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro per
locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che
istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che
domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o
Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di
un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali
così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene: questa equivalenza si de
duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano
segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato
nell'emisfero eguaglia a puntino la zona circolare spettante al
cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile,
dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente
alla sommità della superficie sferica; il che, come si vede, presentava da una
parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza,
cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il
centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe
renza. Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa inezia,
poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie soltanto)
così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè sono
entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a
pretesa, se non in quei casi speciali, ove si richiama ad uno stato anteriore
di rapporto, e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua
lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento
dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente
non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza
andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo dalla
teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del sofisma
per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo splendore di
un gran nome,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran lena ch'ei
porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum 21 di tri
cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome pubblicato nel 1659,
e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in contrasegno di
gratitudine per quella illustre città; nella quale sua opera tratta
profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di alcuni
so lidi, dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare la
parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa
rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi
problemi spettanti ai massimi, inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In
questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e
sul Guldino medesimo, il quale nella rinomata sua opera Centro -barica, così
confessa la sua mancanza in questo proposito: deest hoc loco hyperbolae ejusque
partium centri gravitatis investi gatio. L'opera uscita dalla sua penna nel
1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale viene
dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È stato
umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo, Patrizio
Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito, come tutti sanno, fu
vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte del nostro
degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal suo
concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La dedica, o
Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del Barbarigo.ch'egli
era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che a buon di
22 Parlando della materia del trattato,che s'inti tola De
infinitorum spiralium spatiorum mensura, ella valse a collocarlo in un gran
posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato
coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis,
stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai
beve conosciuto ed usato le proprietà, gli spazi, le tangenti della Spirale di
Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli
Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a
scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma. E quelli che
così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo
degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un
Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese
di fama, Ric cardo Albio. Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di
affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non
trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri
svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio, intraprese
lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per la novità
dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui altri valenti
coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non che la glo ria
di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era riservata al più
moderno chiarissimo 23 ritto e senza lusinghe il degli Angeli lo
invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus. matematico
Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso indicata a modello
ai giovani studiosi, la quale si trova inserita nelle Memorie dell'Accademia
delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a non iscemare di un punto
il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che quella Memoria straniera
comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di abbondanza, nei quali ľ analisi
ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi problemi di tutte le specie
riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi dei solidi non che i loro
centri di gravità, si contengono tanto nella seconda parte di questo libro
delle Coclee, quanto nel Miscellaneum Geometricum prodotto nel 24 Alle
ora accennate due opere va unita per m e rito d'interessanti investigazioni
quella del 1661 De infinitarum Cochlearum mensuris ac centris gra
vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di Toscana, quegli sotto i
cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del Cimento. In questo dotto
lavoro descrive la forma delle infinite coclee sìstrette
esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di
semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto, l'uno circo lare
e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo
degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente
intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere
la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli, m a
ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da
percorrere. 1660, quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662,
cioè nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si
intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u
rae et centra gravitatis quamplurium solidorum. 25. Nell'anno 1661 ideò
un nuovo genere d'in vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n
gulae, a cui si unisce una seconda parte, che tratta de quartis liliorum
parabolicorum et cycloidalium. Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a
trat tare questi argomenti lo racconta egli nella sua pre fazione. Già
nell'anno 1659 era comparso in R o m a un opuscolo de cycloide et de figura
sinuum, che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita, sotto
ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed
indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernen d u m
geometricum mysterium. E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che
quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua
d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del
quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia
un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai
sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei
giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato
libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose
di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del
metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3 26
Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di
combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro
cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento
ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in
tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio
ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e
di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento
l'unghia cilindrica, valuta secon do il solido le aree, i punti di equilibrio,
i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi
oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide. Queste descritte, ed
altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli
Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o, le quali al pari di
quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione
di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più
brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su
periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto
in quei giorni di deca temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così
si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam calcaribus
indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo, che corre da
quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono soggette
aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente morale.
27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di produrre per
largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere maestra, dopo
la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo potentissimi e rinomati
ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un Viviani, un C a
valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in quel tempo in
altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il Guldino
scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che tutti
sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio, il Newton; poi l'Huygens e la
portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui
tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste
straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo
unificava, è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza
l'Italia poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di
molto accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del
Cimento fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate
alcune eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano
solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove
ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde
gnavano di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità,
ebbero talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli
altri al Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu
spiegato in più modi ed in più luoghi dagli oltramontani analisti.
Attenutisi troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli
antichi, e non avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto
facilitava agli altri le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per
arrivare fino ai nepoti, e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che
come venerabili m o n u manti di storica scienza, che visitati non vengono se
non da pochi pazienti eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in
tendimento aveva di mettere le produzioni del mio encomiato Stefano degli
Angeli nell'aspetto sotto il quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a
par lare delle polemiche sue scritture. 28 È notissima nella storia della
scienza la lunga lotta, che si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista
Riccioli Gesuita, uomo rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina
letteraria e scientifica, e so prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto
pro fessore, che in compagnia del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco
colle sue esperienze a conser mare le leggi dei gravi cadenti scoperte dal
fioren tino Filosofo, ebbe poi a macchiare inescusabilmen te il suo nome
coll'essere divenuto uno dei più pertinaci combattenti, che mai facesse
battaglia al grande Italiano sulla sua tesi del moto diurno della Terra. Ma il
sapiente Riccioli non si teneva contento ai soliti plateali sofismi
stiracchiati fuori dalle sagre carte dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a
con trastare in sul serio quel movimento del globo con argomenti fisico
-matematici. Oltre alla tante volte addotta difficoltà di concepire la
rotazione della terra a cagione della forza centrifuga, che
dovrebbe ge nerarsi, a detta degli avversarii, in tutti i corpi terrestri nel
moto circolare diurno,per cui la massa del globo ben presto verrebbe disfatta,
argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta che la velocità della
terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale perchè la forza
centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi, il Padre Riccioli
aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo gusto,al quale
credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere. Immaginatevi, ei
diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una
torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi
per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel
rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac
celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso
da occidente in oriente a principio, c o m e voi pretendete, e troverete
naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le
parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati
sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli
nell'anno 1663, quando 29 questi varii tempi, rappresentate da quegli
archi, dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il corpo
cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i stante
così anche nell'ultimo, lo che è contrario all'esperienza, e perciò questo
vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo già da
sei anni si trovava all'Università di Padova, si propose di abbattere tutti gli
argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente in va rie riprese
colle sue prime, seconde, terze e quarte considerazioni sopra la forza degli
argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto diurno della
Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi quattro opuscoli
riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla forma di
conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il
Matematico di Padova, ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle
d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè
metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole
dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle
ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric
cioli, per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo
affare, atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni
della Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un
ostacolo irremovibile, come il piano sottoposto alla torre, dipendere doveva la
forza della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo
animato, ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità
accordata pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi
egualmente inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla
verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l'
altra orizzontale, soltanto la 30 Ad ogni modo questa lunga
controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua
schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a
per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi
sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed
invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi
fisico-m a t e matici; e tre altri nel successivo anno 1672, che avevano per
titolo Della gravità dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro
omogenei: nei quali con amene conversazioni fra quegli stessi in 31 prima
doveva operare nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii
tempi erano diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r
ticali; e queste appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso
rapporto crescente, come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si
conchiude che il moto della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può
ben anche con essa sus sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille
del Riccioli si usarono dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che
potevansi per allora mettere innanzi. Là prova diretta del movimento rotatorio
della terra, come ben sapete, signori, era riservata ai giorni nostri; chè ce
la diede quel preclaro ingegno del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui
idea to, e poi da quel suo giroscopio, che rende sen sibile il fenomeno fra le
pareti d' un gabinetto di fisica. terlocutori di sopra nominati, si
svolgono tutte le leggi dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi coltà
di certi paradossi, già noti in quella materia, e dei quali in allora ben pochi
precettori davano una chiara spiegazione. Non pretende il nostro autore,
com'egli asserisce con modestia nella introduzione, che queste súe composizioni
contengano cose del tutto nuove e non tocche dagli altri; m a essergli stato di
eccitamento a scrivere il desiderio di gio vare ai nobilissimi scolari di quel
sapientissimo s t u dio:i quali, diceva il nostro professore,camminando al
dottorato pei ponti delle dottrine peripatetiche e delle formalità, poco o
nulla vedevano della filoso fia sperimentale. La quale dichiarazione serve
farci conoscere ad un tempo e lo stato delle p u b bliche istituzioni d '
allora, e gl' intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero scopo degli
studii pegli uomini socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato zelo del
sapere calcasse unicamente le sole aride ed ardue vie della severa matesi e
delle scienze. Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella clas sica
letteratura fosse molto perito, egli che per molti anni della sua fresca età n
' era stato precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di dicitura usò
mai sempre familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle lunghe
dedicatorie epistole, rivolte ai più distinti personaggi dello stato e della
chiesa, lo troviamo come uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere sali
ed argutissime mitologiche allusioni, e questo con frequente uso ed anche abuso
a se conda del gusto del secolo. Il Bresciano dottissimo 32 A
coronare il monumento,che oggi m'ingegnai d'innalzare in questo letterario
ricinto al nostro c o n cittadino Stefano degli Angeli, non mi rimane che porvi
sopra un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle qualità dell'animo
suo. E qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio. Questo sacer dote così
esaltato e venerato dai suoi confratelli per più di trenta anni, così
accarezzato e tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e famosi per
sonaggi, la intera vita del quale non respirò che osservanza scrupolosa dei
proprii doveri, e fu inces santemente modellata alla ricerca e diffusione del
vero, non poteva essere dotato che di bella indole e di soavi costumi. E mi
basta ad accertarmene per tutte la testimonianza del più volte citato sto rico
contemporaneo della Patavina Università, Carlo Patino, che col degli Angeli
viveva domesticamente, ed il quale al suo riguardo si esprime con queste parole:
Singularem Stephani comitatem, m o r u m » que suavitatem experiuntur quicumque
illam d e » siderant, adeo facilis est omnibus, benignus et » beneficus. In
ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum, qui vel levissime de ejus
dictis » factisque conquereretur ». 33 E qui darò termine alle mie
illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli ricorda la corrispondenza
che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio Magliabechi, in assai
scritti di argomenti scientifico-letterari, e questo legame col fiorentino
filologo serve bastan temente a dichiararlo non istraniero al consorzio dei
dotti contemporanei di tutte le classi. di questo insigne matematico
e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere da ob blio ingiusto e di
mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di quest'uomo il nome del
quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli dell'italiano ingegno,
m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella lettura di opere,che at
tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che potrebbe taluno ricantarmi
essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse nella scienza e nelle sue
applicazioni al materiale benessere della vita da impedirci di guardare
addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non ultimo fragl'inte
ressi del progresso e di quelli che lo promuovono, il celebrare con sagro zelo
la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè con questo g e n e roso
operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a quei nepoti 34 « che
questo tempo chiameranno antico », di non mancare di gratitudine ai primi
informatori del bello,dell'utile e del vero.Così impediremo loro di gettare
addosso un guardo compassionevole sui nostri prodigiosi lavori, che ora
vagheggiamo con giusto orgoglio, m a i quali per fermo, secondo mento delle
mondane cose,si contenteranno in al lora di venire conservati e posti in opera
come materiali alla costruzione di nuovi e più amati edi fizii. Stefano degli Angeli.
Angeli. Keywords: implicatura stereometrica – parabola infinita – Grice’s
infinity – regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici – la scatologia di
Platone – il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita – fisica e
metafisica, fisica e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto diurno della
terra, il sistema di galileo – antropocentrismo, ferita narcissista. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691533368/in/photolist-2mJPC2N-2mJd7nN-2mKuzCc-2mGnP2f-2mEiqh9-Bq5Mgn-2mKNBXW-CnnqJD-Bq15zv-CcQs8U-BpSpay-CcQyew-BpT4yh-BpLNTC-BNLT9Z-BpTLSD-BNFFPV-BpWgpV-ChVcoh-CcS92Z-CayY13-BLCyMr-Bm5wbr-Bw1gsc-nNAxcL-nNAkjj-nL5dnJ-nL5bPy-nKrDZR-o2Wc12-nZWxB5-o3cjTW-nJxceu-nJx6xb-nSSg3U-nuY6N7-nu7n1k-nu8c83-ncUvcj-nuoZdT-nuoVrV-nu8cDU-ncUAgf-nu85Xh-ncUzyJ-ncUxh9-ncUmCH-nsmsf7-nu4k8E-fZz6s8
Grice ed Angiulli – la
dialettica della dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castellana). Filosofo.
Grice: “I like Angiulli; especially since he brought some grice to the mill, as
he crossed the pond to read “System of Logic,” but his heart is in Berlin
-- he loved that monumental ‘aula magna’
where Hegel taught. “Once a Hegelian, always a Hegelian.” He loved Feuerbach
because he multiplied dialectic – la dialettica della dialettica – Garin loved
this!” If there is a hashtag here is
#metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis:
metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la fenomenalita’)
should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos translated as
‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing that Mill was so
erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was perhaps
‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he can
quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without (a)
the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante
esponente del positivism. Inizialmente
allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in
Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana
dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in
Inghilterra, dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei
Romano di Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò
l'agnosticismo di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la
"religione dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze
positive. Iniziò la sua carriera
d'insegnante di filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In
seguito divenne professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876
ordinario di pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato
dell'insegnamento di etica e di filosofia teoretica. Fu più volte assessore alla pubblica
istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e candidato senza successo al
parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un progressista vicino al
socialismo che egli invece contestava come dimostra la sua corrispondenza
epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in Germania. Massone, fu affiliato Maestro nella Loggia
Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che ci si
dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e nazionale
inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera società
che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le proprie
caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi educativi e
la politica sociale realizzando così il programma del pensiero positivista che,
secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una pedagogia
scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e
liberale. La pedagogia quindi non potrà
non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come
nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento
tra educazione e una politica laica e liberale.
È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di
pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento,
tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali
destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà
sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che
caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano. I grandi progressi
compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro
riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica,
la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a
infiltrare nell'animo di tutti, nonchè un senso pratico della vita assai più
raffinato, la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte
all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son
sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte? Il tempo
delle finzioni, delle illusioni e dei sogni è passato; ora si cerca ciò che ha
un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle
emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il
grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr
Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo
contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro
specialista in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che
fosse Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte
parti re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente
antifilosofica. Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la Filosofia,regnano
ipiù grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover assegnare a tale
disciplina. La maggior parte dei scienziati, per esempio, ha compreso che ciascuna
delle loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la scoverta di leggi sempre
più generali, di leggi che raccolgano sotto il loro dominio il maggior numero
di fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi principii che offrono
sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti primitivamente raccolti e
descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo tali principii, sidiceche si
fa la Filosofia di quella data scienza. Per codesti specialisti quindi non ci
sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la Filosofia come scienza a parte, ma
ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur volendo ammettere,notarono al cani, la
Filosofia quale scienza a sè, ad essa non rimarrebbe altro compito che quello
di volgere intorno alla Dottrina della Conoscenza. Ci furono altri che
proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per modo che tutti i sistemi
metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che il valore di aspirazioni
dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale. Codeste opinioni sono
sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che non siano giustificate
in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte di verità; il difetto
sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta parte e nell'aver
escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno visto nella
Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i torti,
giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della
sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro
d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di
semplicità ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non
appare con una nettezza definita, nè l'intendimento è comparabile ad uno
specchio terso. L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di
creazione,perchè scovrire è creare. L'immaginazione
entra in giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui
quest'immaginazione è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un
certo fare originale, sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più
lontane dalla complessità della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più
viventi e più complesse, e fra queste in ordine alla più complessa di tutte,
come quella che riflette l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I
sostenitori dell'opinione che la Metafisica debba considerarsi come un romanzo
dell'anima,ragionano a questo modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo
di un'ipotesi esplicativa, la somma delle conoscenze esatte fornite
dall'esperienza. Noi possediamo sull'universo e sull'uomo una certa quantità di
nozioni positive, noi le coordiniamo e completiamo per via di una teoria
generale,allo stesso modo che un geometra disegna una circonferenza intera
secondo il semplice frammento di un cerchio. E queste nozioni posi tive,
materia indispensabile della nostra ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza
in due modi distinti. Da una parte il filosofo conosce i risultati ge nerali
delle scienze sperimentali nel tempo in cui egli lavora, e vi conforma la sua
immaginazione d'inventore d'idee; dall'altra parte questo filosofo ha subìto,
almeno nella sua infanzia e nella sua giovinezza, le influenze infini tamente
multiple e complesse della sua famiglia, dei suoi amici, della sua città,della
sua regione. La sua vita sentimentale e morale ha preceduto ed accompagnato la
sua vita intellettuale. Questa seconda iniziazione si unisce alla prima in modo
che la scoverta d'una dottrina si trova essere insieme un romanzo dello spirito
ed un romanzo del cuore. Coloro che limitano l'obbietto della Filosofia solo
alla dottrina della co noscenza, neanche sono completamente nel falso. Se
l'oggetto della Filosofia come sintesi cosmica è la ricerca della genesi dei
principii fondamentali di ciascuna scienza speciale, è chiaro che per gradi si
risale, generalizzando sempre, dal dominio di ogni scienza speciale a quello della
Filosofia. Le con dizioni della scienza moderna son tali che il puro
specialista quasi quasi si potrebbe dire che non è un vero scienziato.I legami
fra le varie scienze sono oggi così stretti,che s'impongono alla considerazione
di tutti.Ed ipro blemi un tempo di esclusiva pertinenza della Filosofia entrano
ora nel d o minio delle scienze speciali. Identificando l'oggetto della
Metafisica con la realtà immanente dell'esperienza e identificando il metodo di
studiarlo coi procedimenti della scienza positiva, essa o non deve esistere, o
si converte nella Fisica, intesa come scienza prima ed universale, in quanto
tocca il problema cosmico, il problema dei principii fondamentali ed
universali, pro blema che emerge da sè dalle scienze speciali, senza alcun lavorio
partico lare. La Filosofia però è la continuazione delle scienze
positive,costituendo la loro unità, il loro tutto, ma non è che un lavoro di
compilazione. Come còmpito speciale ed originale della Metafisica non rimane
alla fin delle fini che la Dottrina della Conoscenza. L'obbietto del saggio dell'Angiulli
è appunto quello di esaminare i titoli
che la Filosofia pud presentare per essere riconosciuta come scienza separata
che ha un còmpito proprio. È stato per questa ragione che mi è sembrato
opportuno dilungarmi prima un pochino nel delineare come stanno le cose
attualmente. Prima e contemporaneamente alla pubblicazione del libro
dell'Angiulli, parecchi altri hanno mostrato come la Metafisica fosse da
considerarsi quale scienza con un obbietto ben definito. E si può dire che
tutte le scuole filo sofiche contemporanee siano d'accordo su questi punti, che
il vero oggetto del nostro sapere è la sintesi dello scibile, la ricostruzione
ragionata del mondo analiticamente conosciuto,che la veduta metafisica deve
essere sug gerita principalmente dai risultati delle scienze sperimentali, e di
queste essere la migliore spiegazione possibile, e che non ha valore quella
tratta zione metafisica, alla quale non sia fatto precedere un accurato esame
del potere conoscitivo umano,una critica cioè della conoscenza. Gli Idealisti
però non consentono che la Metafisica sia dichiarata una scienza positiva,
perchè, a differenza di queste, essa ha un doppio intento: ha per oggetto
materiale il pensiero, che differisce dagli obbietti delle altre scienze, e per
oggetto formale lo studio delle relazioni supreme onde i singoli fatti si col
legano fra loro.Le cognizioni proprie della Metafisica,secondo costoro,si ottengono
bensì mercè l'osservazione, purchè questa sia psicologica, razi nale, anzichè
solo empirica. Poi il procedimento della Metafisica nell'addurre la ragione
delle conoscenze, non è quello delle discipline positive; queste debbono
limitarsi all'esperimento ed all'induzione, laddove quella, oltre tali metodi,
deve seguire speciali criteri suggeriti dalla critica della conoscenza,
Ora comincio col domandare: A quale delle categorie di pensatori ac
cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui oltre la Filosofia di
ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la sintesi cosmica e del
sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze positive non hanno fatto
pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi cosmica (Cosmologia),
Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza) e Valore
dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in ciòche
riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico. Angiulli
qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola
scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato
da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da
meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di
una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo
sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione. per distinguere
l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole
scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta
fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi
one, la Metafisica e una scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte
ora le sottigliezze metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza,
dirò che tra i filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del
problema metafisico è stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice,
egli dice, non bada che ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla
mente che li conosce, come d'altro canto la psicologià non si occupa che dei
fatti mentali, facendo del pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri
mentali, è solamente la metafisica che si occupa della relazione, del nesso
esistente tra gli obbietti e la mente; e la vera realtà sta appunto in tale
relazione, in tale corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala
Psicologia, sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la
Metafisica sarebbe da dirsi concreta. Insomma, l'oggetto della metafisica
volgerebbe intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale
(conoscenza, volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée
delrestoaccennasolamente aivariproblemimetafisici, ma non ne svolge, nè alcuno
ne approfondisce, vuoi in fatto di cosmologia, vuoi in fatto di psicologia, non
forma, direi,un trattato dei problemi metafisici, in modo che ti si dia la
genesi delle idee filosofiche odierne positive. Tale merito era riservato, si
pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli,m e rito tanto maggiore, per le difficoltà
che offriva il soggetto. La parte vera mente importante ed originale del suo
saggio è di non aver solamente proclamata l'esistenza di una metafisica
positiva e progressiva, di non averne solamente ideato il disegno, m a di aver
eseguito questo, di aver gettato le basi di una Cosmologia e di una Psicologia
quale oggi si può avere dal Positivismo ragionato. I partigiani dell'esperienza
o non devono ammettere una Metafisica, o, se devono ammetterla, non possono
accettare che quella,di ciamo pure, abbozzata dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi
tratti i con cetti fondamentali dell'autore. Se gli oggetti della realtà
conoscibile sono studiati dalle diverse scienze positive, rimane sempre da
studiare l'insieme degli oggetti e le scienze stesse e quindi i rapporti, le
connessioni esistenti tra gli oggetti particolarmente studiati dalle scienze, e
tra le scienze stesse; campo codesto riservato alla Filosofia. Il dimostrare
che è impossibile la formazione di una sintesi cosmica è già una ricerca
filosofica. Ma veramente l'analisi degli oggetti cosmici è inseparabile dalla
sintesi in cui essi ottengono il loro vero valore. E le scienze stesse si
volgono a raggruppare più fatti sotto una nozione o una legge generale,o più
nozioni e più leggi sotto una nozione od una legge ancora più alta.Ma in questa
opera giungono a toccare un limite che di mostra la loro insufficienza. Gli
ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro concetti sorpassano i confini
delle loro indagini; perciò non possono trovare nella propria sfera la
soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia comprende quella
parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad ideeuniversali,
quellapartechericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità superiore. È
parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard,dimostrando che la
Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una loro parte
integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una Filosofia
dei diversi gruppi di scienze,ed una Filo sofia centrale che è la loro sintesi
ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su questo, appunto
perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci della Filosofia,
e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli dice, per sè
sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche; la Filosofia
scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai fenomeni
meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un
principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange
con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti
i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica
che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista
scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove
el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento pos sono essere trasformati
l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune allo studio del calore, della
luce,dell'elettricità e del moto sensibile,conquista rono una verità,la
quale,sebbene tocchi già la sfera della filosofia,non esce ancora dai cancelli
di una scienza speciale. M a quando il principio delle v e locità virtuali e il
principio della correlazione delle forze furono dimostrati entrambi corollari
del principio della persistenza della forza, conseguenze necessarie di un
medesimo assioma, allora la verità conquistata appartenne all'ordine filosofico.
Cosi anche quando Von Baer sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è
un progressivo passaggio dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità,
egli scoprì una verità biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima
formola all'evoluzione del sistema solare, della terra,della
vita,dell'intelligenza,della società,egli conquistò una ve rità filosofica, una
verità non semplicemente applicabile ad un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli
ordini. Dopo averfissatocodestipunti,ilimitidellaFilosofiasembranobencir
coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria
sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini
delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi
fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare
l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che
bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico,
entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza,
mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza prima
far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se
èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “
del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono
raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli
è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura.
Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che
concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si
prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di
essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella
sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A
questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere
nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina
filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va
confuso il Trasformismo col Darwinismo: il primo certamente racchiude un
pensiero generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di
tutto il mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è
certa mente un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari
organici e nello stesso tempo tenta di darne la spiegazione; tanto più se si
pensa che un tempo tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in
ventario più o meno ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra
cosa del Darwinismo: questo in fin dei conti non è che una forma particolare di
quello. Il Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce
dai cancelli di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo
numero di fatti che si osser. vano nel mondo organico? Tenta, dico tenta e non
a caso, di risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è
tanto generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in
Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine? L'idea del trasformismo era
già vecchia; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che
poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui
data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie concorressero
a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la selezione naturale
non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette questi coi fenomeni
fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare l'integrazione, come
si è detto, della teoria darwiniana:siècompletata,sièperfezionata,aggiungendovi
molti altri elementi che l'hanno trasformata tutta. Essa, ridotta ad una teoria
pretta mente scientifica, non offre quell'universalità propria di una teoria
filosofica. È per questo che l'integrazione non concerne elementi accessori,ma
riguarda la sostanzialità di essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia
dipenderebbe la variazione, mentrechè si è notato che il primo fondamento della
varia zione risiede nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un
accrescimento della sostanza vivente, per quel processo naturale onde essa, col
concorso favorevole dei mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello
stadio evo lutivo più di quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi
nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria
dell'Evoluzione, Dispense -- come ha notato il Rolph, dalla prosperità,
non dalla miseria, dipende la variazione, l'accrescimento della materia
organizzata. Questo accrescimento, segnando in pari tempo una conquista di
nuovi caratteri ed una divisione di attività e di attinenze, si porge come
svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui che la prima storia della
vita comincia dal rispecchiare le condizioni dell'ambiente ove essa si svolge.
Innanzi alla lotta coi rivali l'essere organizato deve, di contro alla varietà
degli agenti esterni, conquistare il suo posto. La legge della concorrenza non
può essere il primo sostegno dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La
leggemalthusiana deve essere mantenuta in confini più giusti, poichè il
rapporto della ripro duzione di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si
trasforma col perfezio namento degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo
acchito come siano essenziali gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta
della teoria darwiniana, non ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto
lucidamente ha scritto l'Angiulli nella parte biologica della sua sintesi
cosmica. Egli, guardando sempre le cose da un punto di vista generale, cerca
sempre di connettere e di scovrire i rapporti esistenti fra le cose, mentre il
Darwin, puro scienziato, non vi presenta che serie di osservazioni con le
rispettive dichiarazioni, senza mai tentarediunificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna
ricon durre i principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie
all'effi cacia delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat
tamento e trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe
la stessa della Fisiologia, dilargata nello spazio e nel tempo. A base del
l'evoluzione biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce
dalla complessità e dall'indefinitezza della composizione della materia orga
nizzata. Cosi l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà
degli esseri viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione
ereditaria si risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si
è sentito il bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del
mondo organico, facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna
spiegare la derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni
stesse della vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni integranti
della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice degl’organismi. Senza gli
stimoli della irritabilità, dice Virchow, non vi ha lavoro organico, nessuna
assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento. Inoltre, come le
attività e i rapporti della vita si accrescono e si moltiplicano, si accrescono
e si moltiplicano del pari i fattori della varia zione.Ed a misura che i singoli
fattori si elevano, nello svolgimento della vita, ad una forma più alta,
acquistano un'efficacia trasformatrice sempre maggiore. Perd dobbiamo
attribuire col Virchow alle forme più elevate della sensibilità e della
motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g giore efficacia
trasformatrice e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti della sensibilità
e del movimento è congiunta nella sostanza organica la disposizione a
riprodurli, che fu detta memoria, ed è il fonda mento dell'abito, senza di cui
sarebbe impossibile la variazione degli esseri viventi. In tale proprietà
va implicato quel processo di coordinazione o ag gruppamento degli effetti
dell'esperienza che altri ha considerato come nota speciale dell'intelligenza.
All'occasione di un sol termine di una relazione di un gruppo, dato da una
sperienza presente, si riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso
congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei
progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come
effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in anticipazione
di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni attuali, ma benanche
un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna attività della
rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre una certa
modificazione della struttura orga nica in anticipazione della funzione.Così si
ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti della vita,
rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore della
trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera dell'immaginazione
anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente intellettuale, perchè
riguarda circostanze nuove e non previste,e non si riconosce in un abito già
formato. Questa specie di adattazione selettiva o raziocinativa si appalesa
gradatamente nella serie degli organismi, comin ciando dai più bassi, m a senza
di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di molti istinti el inesplicabile il
progresso della vita animale. La varia zione, per esser progressiva e
perfettiva, non può essere accidentale, abban donata alla pura lotta esterna
degli organismi, ma deve essere promossa da una funzione coordinatrice ed
anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora domando: Dopo un'integrazione
di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la filosofia della trasformazione
delle specie, perchè riunisce sotto un unico principio, giusto o falso che sia,
tutti i vari elementi che concor. rono alla derivazione delle specie organiche,
che cosa è divenuta la teoria darwiniana vera e propria, quale uscì dalla mente
del suo autore? Niente altro, mi pare, che un caso particolare della grande
legge della variazione organica. Già Darwin stesso confessa che egli rifugge
dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi di quellid'ordine
generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura organica non può fare a
meno di trattare la que. stione della genesi della vita, come di penetrare
nella natura intima dei fenomeni implicati in essa,quali la nutrizione,la
crescenza,la riproduzione, lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E
l'Angiulli,chehaintesodi porgere le linee principali di una sintesi biologica,
ha trattato a modo suo tutte codeste questioni. Potrà essere discutibile la
soluzione data del problema, ma questo va sempre messo col tentativo della
discussione. Alla teoria darwiniana manca per questo ogni individualità
propria, e può entrare nei sistemi filosofici più diversi; individualità e
precisione che (1)Qui espongo semplicemente l'integrazione della teoria darwiniana
offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio la critica, perchè ciò non
risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare come il Darwinismo
sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo che sarebbe oltremodo
necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa organica che
l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite dall'integrazione fattane,
la quale racchiude un pensiero filosofico. Il concetto della selezione è per se
stesso abbastanza elastico,e si presta alle più disparate interpretazioni, ond'è
che per vedere un concetto filosofico in essa,la si è più o meno piegata alle
proprie idee. La selezione, si è detto, è il fatto stesso della variazione
prodotta dal complesso delle attinenze e delle condizioni interne ed esterne
dell'essere vivente: è un'espressione a b breviativa di tutte le condizioni
interne ed esterne di esistenza: non è la causa della variazione, ma è
l'espressione di essa.La selezione, si è anche detto, non deve circoscriversi a
significare l'accumulazione di quelle varia zioni che sono utili nella lotta
coi competitori, ma deve essere intesa in un senso più generale, cioè come
quell'aspetto della variazione che rende l'or ganismo atto a sopravvivere,come
espressione metaforica del fatto che ogni equilibrio di forze meglio adatto a
sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo modo,rispondo io,la selezione
naturale diviene un con cetto astratto, una forma vuota,e non più una legge
concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni. Se essa non ci si
presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla impunemente da
parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione naturale
significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare: per lui
era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise prova
sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca
esattezza da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più
certo il fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea
alla Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica; vi si
trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò
solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista
si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in
altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è
fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa
onorarsi il pensiero italiano. sono, come l'Ente, altro che umane
astrazioni. Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività, una
funzione dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità
metafisiche sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno
psicologico. Vale dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè
di essere la natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il
pensiero una m a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla
materia non vi ha altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque
ad un tempo la conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo.Questa specie
di dialettica della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore
autore fu il Feuerbach, 12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero
e lo spirito assoluto, affermato c o m e principio e verità di tutte le
cose,non è altro che la massima di Pro tagora spogliata del carattere
d'individualismo. Se Protagora esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel
esprime esagerata un'astrazione spiritualistica, che non è meno relativa del
relativismo sofistico. Feuerbach tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per
luiilcentro della filosofia,ma nè più co m e l'individuo arbitrario dei
sofisti, nè più come l'universale astratto dell'Hegel, si bene come tutto
l'uomo,come sensibilità e come società. Di con tro all'idealismo si riafferma
il realism. Solo Però l'astrazione è produzione di nuovi concelli solo in
quanto è trasformazione di precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò
che vale per la geologia modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono
spiegabili con le stesse forze fisiche e fisiologi che,con
l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità. psicologica è un altro fatto accertato
dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi
non facciamo che continuare le atti iudini e le conquiste del passato.
Ilprogresso è l'educazione dell'umanità;la civiltà è un risultato d'esperienza,
e non un miracolo di rivelazioni. Ma con tutte queste aggiunte e modificazioni
dell'empirismo voi, si dirà,non potrete mai elevarvi sopra la sfera del
sensibile;ossia le cause che voi potete ricercare non possono essere che altri
fatti primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro,che le relazioni
costanti dei fatti. Precisamente questo: così l'uomo moderno ha in sè stesso il
suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza bisogno
di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha in sè
stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua spiegazione.
La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della cultura
ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora ricadetenel
positivismo schiell. No, perch è se il positivist a r i l i c n e come. Opere: “La filosofia
e la ricerca positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo
assoluto confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso
della storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei
romani antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il
risorgimento italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di
Kant in Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica
filosofica e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo
filosofico in Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri
sistemi contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La
filosofia come ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia. “Gl’hegeliani e i
positivisti in Italia e altri scritti inediti”(Savorelli); Pubblicazione
dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Gli
hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e socialismo. Problemi di
etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof. Haeckel e la pena di morte.
Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione "Studi". “La pedagogia lo stato
e la famiglia”; Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or
ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema
dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è
resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria
dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia
e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione
nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e
di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La
scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa.
Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione
religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la
morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e
la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione
scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei
maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia.
L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta
nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice.
Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana.
Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità della politica scientifica.
L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di VIII parziale
di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e
conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro
discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia
determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla
conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo
dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi
dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la
scuola” La quistione fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze
e la filosofia rispetto alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e
del processo conoscitivo. La filosofia non è una pura somma de' risultamenti
delle scienze. Le scienze generano la filosofia. La moltiplicazione delle
scienze agevola l'opera della filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della
filosofla riguardo alle scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può
scoprire verità di un ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle
scoperte scientifiche è dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza
e della filosofia nel corso della storia. La filosofia come dottrina generale
della conoscenza e della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza
comune, la scienza e la filosofia. Relazione storica della logica o dialettica
e delle scienza. Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto
delle scienza astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia
più compiuto di quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi
dell'evoluzione cosmica e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia
filosofica nella classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca
*meta-fisica* come *compimento indispensabile* della scienza e della dottrina
della scienze. Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato
*cosmo*-logico della meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi
generativi dei fatti è una nota caratteristica della scienza e della filosofia.
Contraddizione del Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato
metafisico dell'etica. La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema
e speculazione. IV. Il problema della critica. Ladottrina del Kant si muove
sopra un supposto *non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice.
I problemi della filosofia, della sensibilità. Le forme dello spazio
e del tempo. Le categorie del l'intelletto. L'attività sintetica originaria
della mente. La funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica della
dottrina kantiana. Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti e i
vetero-criticisti. La critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il
Riehl, il Goering, il CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer,
Lewes. La critica dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso
supposto dualistico della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione
metafisica. La genesi della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà
psichiche sono una derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza
debbono ricercarsi col soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze
incoscienti. Le leggi della vita e le leggi dell'esperienza. Il senso e
l'intelletto. La sensazione e la coscienza. L'attività trasformatrice
dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e l'esperienza individuale.
L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La legge dell'esperienza e la
legge dell'associazione. L'esperienza individuale e l' ESPERIENZA sociale e
COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica. La psicologia
sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della sensazione e del
pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto dell'esperienza
stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza mediante le
attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle categorie. Le
note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il principio della
regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale. Le proprietà del
reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa. La metafisica. La
dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla concezione del
mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I fattori della
dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi della materia e
della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico problema.
Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione biologica.
L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali dell'essere vivente.
La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la motilità. L'origine delle
specie viventi spiegabile mediante l'azione delle attività fondamentali della
vita. La dottrina del Darwin. Estensione del principio della lotta per
l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la causa della variazione.
L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione sociale*. La legge dell'associazione
nel seno della biologia. *Formazione della società etnica*. Struttura e
funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione dell'analogia biologica. La
dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio degl'individui non si può
ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I fattori che determinano la
differenza specifica e qualitativa del fatto sociologico. Il consentimento
volontario e la creazione di prodottiche debbono essere appresi. Rapporti tra i
prodotti della cultura nello svolgimento progressivo della vita sociale. La
dottrina dell'Etica. La sociologia mette capo al problema dell'etica. La
dottrina del l'etica compie il concetto della filosofia. Nell'etica si accoglie
un problema di un significato cosmico. L'etica e la religione. La dottrina
dell'evoluzione è il fondamento più saldo e perfetto dell'etica, ed è il
fondamento di una nuova religione. La religione nella sua forma primitiva è una
scienza nascente. Gli elementi costitutivi della religione. Il lato pratico, il
lato estetico. La legge morale e la legge dell'ordine cosmico. Il fatto morale
è il *prodotto* no n il presupposto dell'evoluzione. L'ottimismo e il
pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la nuova dottrina del migliorismo. La
base biologica sociale storica dell'etica. Il fattore dell'ideale nell'etica e
la quistione della libertà umana. La libertà è un prodotto sociale e storico.
L'educazione rinnovatrice dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica.
L'educazione nel suo metodo e nel suo contenuto scientifico. Opinione dello
Spencer. Le materie dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro
ordinamento conforme allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine
dell'istruzione non si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i
diversi rami degli studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La
filosofia nei diversi gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria
debbono essere animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro
efficacia educativa. Lo studio della filosofia nella scuola media.
Trasformazione di questa scuola secondo i bisogni della cultura moderna. Lo
studio della psicologia nella scuola media. La teorica della conoscenza. Lo
studio della filosofia all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio. Curiosità Al
professore è stata intitolata, nel 1906, la Società Ginnastica Angiulli di
Bari. Note E. Garin, Dizionario
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Cavallera, A. A. e la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce 2008. Positivismo Pedagogia Famiglia Altri progetti
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Angiulli Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Angiulli Collabora a
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Angiulli Eugenio Garin, Andrea Angiulli,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Andrea Angiulli,. Andrea
Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia
Istruzione Istruzione Filosofo del XIX
secoloPedagogisti italiani 1837 1890 12 febbraio 2 gennaio Castellana Grotte
NapoliMassoniProfessori dell'BolognaProfessori dell'Università degli Studi di
Napoli Federico II. Angiulli. Keywords: la dialettica della dialettica; l’antisignano
del positivismo filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto
sociale, la collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa,
la collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711772279/in/photolist-2mTna1x-2mNaxw3-2mMAmhF-2mKE4L3-2mFd1fG/
Grice ed Annunzio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescara). Filosofo. Grice: “I will call
him a philosopher.” D’Annunzio
e il fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo
oscuro Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e
burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a
forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini
e la dottrina fascista. Difficile trovare un personaggio più divisivo di
Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente
perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si
addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia,
e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza
amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che
si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.
Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di
seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo
della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo.
La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al
regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo,
erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso
e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe
un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è
altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo
non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel
tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci
allora con l'anima in quegli anni terribili. Cartolina disegnata da
E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio,
in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un
fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità
d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica
con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto
dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se
un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande
Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I
reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici –
quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti
sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che
auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante,
potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno
di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata
con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul
campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la
vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la
tiene fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine
all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in
Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le
fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano,
le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il
biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno,
quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al
Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche
oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i
contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto
repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia
bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e
anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.
La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e inconcludente,
i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state condotte con
scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La gestione
dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange dell’esercito, delle
forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a simpatizzare coi fascisti:
almeno loro riescono a garantire un minimo di ordine, seppure in maniera
inadeguata a uno stato di diritto. Qui si incastra una doppia illusione.
Da un lato, parte della borghesia industriale e agraria foraggia i fascisti in
funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi lavoratori indisciplinati.
Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene che queste squadre di
*incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a prevenire una
possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come tutti i
fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti, violenti
agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di potersi servire
di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri comodi.
Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere letterarie, i
saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo gusto nel bel
vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A questa età, Mussolini
si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò Annunzio *è l’italiano
più famoso all’estero* e più influente in patria. La parola del Poeta non è
quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio è un *eroe di guerra*,
è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime pagine dei giornali di
tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più tradotto, il più amato e il
più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di sostenitori appassionati, reduci
di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di legionari fiumani legati a lui da
giuramento -- è un uomo che può raccogliere attorno a sé migliaia di fedeli,
persone che tra le altre cose conoscono le armi. È un uomo pericoloso. Quando
arringa, unisce; quando dileggia, divide. È bipartisan il Vate, piace a tutti e
non appartiene a nessuno -- è inserito fino al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace
agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota, beniamino di tanti nazionalisti.
Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni momenti pare davvero un
rivoluzionario, per questo lo osservano diversi proletari. Lo vorrebbero
con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non ricambia il favore ai demagoghi
che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia
sordida. È un ottimo momento, ma il Vate temporeggia. Stanco, disilluso,
disgustato dalla politica e dal governo *liberale* che gli ha tirato addosso le
granate, a lui che, *monarchico* e patriota, vanta sette medaglie al valore. Si
è ritirato nella villa di Gardone, sul Lago di Garda, e sostiene che non
c’è oggi *in Italia* nessun movimento politico sincero, condotto da un’idea
chiara e diretta. Perciò è necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*,
immuni da ogni mescolanza e contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia
versa e decide di non gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è
questo il suo terreno. Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo
richieda a gran voce come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la
guerra civile. Ha tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi
auguro di essere la persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti!
Non resta che lui! I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca
un vero condottiero. Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben
lontano dal diventare il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento
viene acclamato come *duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve
portare al potere *la giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora
di politici vecchi e mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito
loro e hanno svenduto la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il
seguito, la statura culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma,
compiendo quella rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la
rivoluzione bolscevica*. Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui.
Annunzio è però anche un cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle
nei momenti bui ma del tutto inadeguato alla politica intesa come mediazione e
governo quotidiano. Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua
porta. Contemporanea Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia
dalla belle époque alla marcia su Roma. Mussolini sigla il patto di
pacificazione coi socialisti, che prevede la rinuncia bilaterale alla violenza
e la *costituzionalizzazione* del movimento fascista, e all’interno dello
stesso movimento le polveri esplodono. "Chi ha tradito, tradirà" si
legge sui manifesti affissi dagli stessi fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura
è al tradimento del Mussolini socialista. La massa fascista, le squadre e i
rispettivi ras, ripudiano la guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni
(rigettate) e affermando che quello che era un movimento ideale si è
trasformato in una banda armata al servizio del capitale. Mussolini è
politicamente fuori gioco e i ras invocano il duce che è tornato da Fiume da
pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si incaricano dell’ambasciata a Gardone
per offrirgli la guida del fascismo. Annunzio rifiuta nettamente, senza
rispetto, e i due se ne vanno sdegnati. Anche Gramsci compie il pellegrinaggio!
Non si sa quale sia la proposta perché Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché,
dice, non posso lasciarmi imporre i colloqui. Forse Gramsci vuole
trascinare il poeta nel Partito Comunista, più probabilmente proporgli di unire
i suoi legionari alla resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non
ama i fascisti, seppure con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più
motivato dai toni che in quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate,
quando smette la riverenza e dice apertamente che le iniziative politiche di
Annunzio sono irrilevanti, che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e
intrattabile. Non ha tutti i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra,
il condottiero che prende Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è
pur sempre un poeta, un dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle
arringhe, a infondere emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo,
ma di cosa sia la politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato
com’è da tutto e tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e
tornare ad essere quel che era, un operaio della parola, come ama sempre
definirsi. I due personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa
immagine si ritraggono un Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo*
e *abbigliamento scuro*, minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in
uniforme, gli occhi persi nel vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno
granitico*. Nel periodo precedente la marcia su Roma Annunzio mostra
particolare ostilità al fascismo. Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono
ricevuti i capi della CGIL e persino Čičerin, commissario sovietico agli Affari
esteri, tutti per attrarlo nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a
trasformarsi in fatti. Di agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo
addirittura Nitti, il Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che
gli scrive: bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di
stupidità e di violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia,
di libertà e di lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire
sulla *gioventù*, infiammandola e riportandola al buon sentiero. Francesco
Saverio Nitti Il momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo
le forze in lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato
un incontro tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade
da una finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul
volo dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la
storia fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se
si fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e
l’opposizione rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene
annullato. Il poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di
scena. La foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste
ancora l’uniforme ma già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da
*camicie nere*, posa con lo sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani
sui fianchi. Pittoresco e quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante
ciò le folle, armato della retorica altisonante e aggressiva, trionfale e
accattivante, che ha in parte imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma
non viene ricevuto. Si incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili.
Ormai i tempi sono maturi, i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo.
Ricorre l’anniversario della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per
presenziare le celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di
una settimana. Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare
alcune correnti in favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le
squadre imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di
firmare lo stato d’assedio e convoca Mussolini. Annunzio è ormai un
relitto della politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva
forze vive, uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né
l’ambizione. Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino
all’inutilità. Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava
praticare la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine,
se è vero che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare
nel silenzio, ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza
seguaci*, un *maestro senza discepoli*. Gabriele D’Annunzio Mesi dopo,
uno che per vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è
qualificato come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel
servizio ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini
come del più grande bluff d’Europa. Aggiunge che sorgerà una nuova
opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio
e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso
che è Annunzio. Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non
verranno risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non
si rivela esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma
rimane silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente
vecchiaia. Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia
Mussolini prima guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti
italiani. La costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la
più bella costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo
stile, la prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu
scritta da pur insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra
costituzione. Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande
poeta-soldato. Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata
dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo
spirito sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale,
scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta:
democrazia -- diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro
produttivo e sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare
nella sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il
Carnaro di Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della
lingua. È d'Annunzio a sostituire 'repubblica' con quella più
classica 'reggenza' -- intesa come governo del popolo. Fu Annunzio a
richiamarsi ai produttori e agl'ottimi. E fu Annunzio a indicare nella bellezza
della vita, del lavoro e della virtus, la credenza religiosa collocata sopra
tutte le altre, che guida lo Stato. La forte impronta sociale e popolare
della carta non impede il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle
arti e delle discipline più nobili, del corpo e dell'anima. Nella
carta è garantita ogni libertà dei cittadini, il voto universale
-- è poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era
disegnato l’assetto delle corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni
raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra; mare, operai,
impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima corporazione era
enigmaticamente riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in
ascendimento, al genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza
fatica -- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e
presidenzialismo, riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei
produttori -- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il
dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo.
Elementi costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la possibilità
di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà
italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto
dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione come
un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire che
sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del
Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro
originale. Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la
forze sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge
anche ai paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice
Italia, dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani d'Annunzio
che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo statuto. Da
L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E a Fiume vi
rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno proibito di una
città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il frutto di
un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni, come l’ha
sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione più lucida
e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra la fano
sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al mondo
l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in sé
accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più nobile
e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di
rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza,
non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo,
sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura
fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico,
Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51749241873/in/photolist-2mQUoGa-2mQWsyF-2mQT8Uz-2mQT8Ly-2mQXDcP-2mQUoRU-2mQXD1m-2mQUoQ1-2mQUoRJ-2mQNTJ4-2mQNTxs-2mQWsqj-2mQNTK1-2mQWssy-2mQWszh-2mQUoR3-2mQWsDk-2mQT8R8-2mQXD2i-2mQWsxJ-2mQXD78-2mQT8Qb-2mQNTy9-2mQUoNh-2mQXDdq-2mQUoR8-2mQWsqu-2mQWstA-2mQXD6g-2mQWsE7-2mQNTyz-2mQUoGk-2mQNTBL-2mQUoUK-2mQXDeC-2mQT8Hh-2mQWsoR-2mQUoLD-2mQWswX-2mQNTyK-2mQXD2t-2mQT8Lo-2mQUoPz-2mQaKxF-2mPUHFB-2mN8ym7-2mN9XHg-2mN5fBh-2mMR2RR-2mMXAfJ
Grice ed Antiseri –
solidali – filosofia italiana – Luigi Speranza Foligno). Grice:
“Antiseri makes a distinction between what you CAN say and what you MUST
‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was thinking when I made the
explicit/implicit distinction, but similarly! His point is that for Vitters,
questions of the mystic – which Antiseri compares to Bonaventura! -- -- ‘la
logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial – I was thinking more
along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’ is best left
implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and what I call the
principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’ too strong, and
change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is conceptual: you
just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his word) to keep
whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and he indeed
quotes me, not only because he MUST, as in his history of contemporary
philosophy, but because he LIKES it (cf. Italian piacere) – as surprised I was
when I see that when discussing the future of metaphysics within analytic
philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice: “Antiseri
reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and ‘filosofia
anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke, when
lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the “Oxford
School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests a lot
to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as giving
‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his key
words, such as solidarity, are very much along the lines that base my ‘ethics
of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has to fight
how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he confronts
‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a principle of
subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced with the
principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri: “It is
amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans, where
that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri (Foligno),
filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in filosofia nel
1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso varie università
europee sui temi legati alla logica matematica, all'epistemologia ed alla
filosofia del linguaggio. Divenuto libero
docente nel 1968 ha iniziato l'insegnamento presso l'Università "La
Sapienza" di Roma e l'Siena. È inoltre membro dell'Advisory Board del
Centro Studi Tocqueville-Acton. Dal 1975
al 1986 è stato ordinario di filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre,
dal 1986 al 2009, ha assunto la cattedra di "Metodologia delle scienze
sociali" alla LUISS di Roma per poi ricoprire l'incarico di preside della
Facoltà di Scienze politiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998.
Nel febbraio del 2002 è stato insignito, assieme a Giovanni Reale, di una
laurea honoris causa presso l'Università Statale di Mosca. Collabora
stabilmente con il quotidiano Avvenire.
Dario Antiseri ha pubblicato testi didattici di filosofia oltre a testi
di divulgazione filosofica e di autori stranieri, in particolare ha contribuito
a far conoscere in Italia il pensiero di Karl Popper. Critiche Il pensiero del professor Antiseri è
da tempo sottoposto a critiche sia all'interno della Chiesa sia all'interno del
mondo intellettuale liberale. A tal proposito sono interessanti le critiche
recentemente mosse al pensiero dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul
giornale on-line L'occidentale e l'articolo del 2005 su
"espressonline" di Sandro Magister in cui l'opera di Antiseri viene
definita "apologia del relativismo".
Altrettanto interessante è il commento al relativismo di Antiseri
apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello di Litta Modignani
pubblicato sul sito Critica liberale. Opere: “Perché la metafisica è necessaria per la
scienza e dannosa per la fede” (Brescia, Queriniana); Epistemologia e metodica della ricerca in
psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora spazio per la fede?, Milano,
Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli); “Liberi perché fallibili,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di metodologia delle scienze sociali, POMBA
Università); “Come lavora uno storico, Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e
quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'università italiana. Com'è e
come potrebbe essere, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Tre idee per un'Italia
civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere dopo la filosofia del secolo
XX, Roma, Armando); “Didattica della storia: epistemologia contemporanea, Roma,
Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'agonia dei partiti
politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia e didattica delle
scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze, Edizioni Memoria);
“La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale ragione?, Milano,
Cortina); “Teoria unificata del metodo, POMBA); “Cattolicesimo, Liberalismo,
Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, Karl Popper. Protagonista del secolo XX,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista
perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle
medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi
liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo);
“Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a
difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard,
Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la
fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica
e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia
della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La
filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2],
Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo.
Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie
della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica
è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione
del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del
cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di
Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri,
Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione
filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo
sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità
del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria
Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University
Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, Note
Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica. Marx, un falso profeta sconfitto dalla
storia, su lanuovabq. Contro Popper,
Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura
sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio in. di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12
giugno. Vedi Questioni disputate. Un
filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister,
chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.
Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di
Fabrizio Falconi, 1º gennaio. Vedi La
falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile in. di Alessandro Litta Modignani, Fondazione
critica liberale, 29 maggio. Giuseppe
Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in
Giuseppe Franco, Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza.
Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce, 23–43.
Relativismo. Citazionio su Dario Antiseri Sito ufficiale, su docenti.luiss. Dario Antiseri, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Dario
Antiseri,. Registrazioni di Dario
Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su tocqueville-acton.org. Filosofia
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloInsegnanti italiani del
XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9 gennaio FolignoProfessori della
SapienzaRoma. In un saggio in "Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e
perché studiare ancora il mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le
argomentazioni, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi
due punti. Primo. Niente avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le
stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento,
che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati
tutti buoni conoscitori del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale
italiana è quella latina. Non c’è possibilità di auto-identificazione e di
innovazione se la si ignora. Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione
di fatto della nostra civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto,
dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si
sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al
più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non
collima col secondo punto. Non solo questo passato italiano è romano, ma è
selettivo. Accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la
cultura materiale e i valori. La selettività di per sé contraddice al
*momento* romano *antico* correttamente inteso. Anzi gli toglie la
staticità del *classico*, cioè del modello unico, esemplare perfetto e
irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica
dell’evoluzione umana, lega la unica Roma all'Italia d'oggi. Questa elettività
diventa filosofica, quando considera il romano *antico* -- in sue fasi
monarchica, repubblicana ed imperiale -- un momento come un altro, senza
speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si configura in qualche modo
come una ri-edizione della tesi della priorità vetero-italica, palaeo-italica,
o archaeo-italica, sulla civiltà classica. Peggio ancora, se pre-dilige il
*passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio, quale che sia come tale, come un
tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla
cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai romani del suo tempo (lettera al
de Sinner, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e
senza lingua). Se nell’interesse verso *il romano antico* non ha per noi un
posto preminente i tre *momenti* del romano antico -- regno, repubblica,
principato -- questo è segno di perdita di storicità vichiana, gentiliana, o
croceana, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel
momento del romano antinco non è importante solo perché ha aperto vie,
costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato
un impulso decisivo a un complesso filosofico, di idee, mentalità, istituzioni,
che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di
italiani. Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza
ragione, far partire la nostra riflessione storica, il rinascimento
toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono misurati con questa
tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata. Se
riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile romana,
dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare Roma e se non sia
riduttivo assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare la civiltà
*latina*, del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione
dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per
ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse
contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il
nazionalismo rispecchiava se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai
barbari. Il sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo romano, cioè
del modello a-storico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime
fasi della sua storia, la tesi trova forti resistenze in Italia per la
convergenza di due motivazioni diverse. Da una parte il nostro nazionalismo,
culminato nella grande guerra, dall’altro la nuova estetica simbolista di
d'Annunzio, che insegna a fare filosofia in se stessa. Oggi quei
condizionamenti storici e quei presupposti teorici sembrano molto lontani. Del
resto, a parte le punte polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione
di fatto di questi atteggiamenti. La contrapposizione poi di una *romanolatria*
è più pensabile come ideologia politica. Il mondo romani costituisce una unità,
ma non tanto in senso sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone
in successione, in una unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello
dotto. Non è un fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine.
Roma accentua la tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo
diritto successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano
il problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la
legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione
storica. Se la civiltà romana è tradizionale, nell’atto
stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare
Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni,
e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità,
la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma.
L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che
l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi
per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina,
conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa
evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre
latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il
latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché
usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere
da matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si
riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei
non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben
diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione
post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo
studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma
ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia).
Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più
istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si
fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli
studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa
tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che
questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci
appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente
ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono
però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il
mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È
invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente
(Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora
ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso
politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del
potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è sempre
reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo fra
Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio, volte
come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella cultura
moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro
relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della
ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni. Rifiuto
dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo
moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità
antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli
antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto
anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un
modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi
improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come
nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si
definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso.
Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro
(ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I
convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio
il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto
oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città, l’economia
(vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario:
Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica come fatto di
cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il concetto di
«classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del bello e del
perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di problemi
esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro debolezza,
anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro composto da
W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia, Firenze). Si
esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo campano).
Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro, Callimaco,
Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano ecc.). Si
ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori e
movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier, Firenze),
le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina (La Nuova
Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse verso i
rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero religioso di
Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F. Arnaldi, La crisi
morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e polidisciplinare è la
bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno frequenti le
monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P. Grimal, Le
siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier, Paris --
Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria italiana: va
da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori
storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito (che è un
grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé, Lucrezio e
l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione romana,
Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W. Jaeger.
Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia dell’educazione
nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi.
La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli,
testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità. Di
recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento
antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura
scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico
a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il
procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno,
tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo
studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del
moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già
il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro
(Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital.
di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo,
Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo
crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i
classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre
ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e
problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per
scoprirne la formazione lontana: pace-. libertà, progresso, lavoro, scienza.
L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare
di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine
culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo: dunque
alterità più legame storico. Questo comporta anche l’uso di strumenti
ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di
tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G.
Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto
vivace è oggi la narratologia; e è il Convegno internazionale «Letterature
classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina
dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno
compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto
danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi
vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha
messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni
problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e
narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica,
Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la
differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come
vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla
ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri»)
alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta
quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia,
topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle
tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo
greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come
del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che
a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una
storiografia totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri
o addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue
classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti della
grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria hanno
riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia
greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi.
Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata
cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da
una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica
letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento:
gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si
presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek,
Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura
Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi
strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là
dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi
letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego
di strumenti antichi. Dario Antiseri. Antiseri. Keywords: solidali -- antiseri
— implicatura solidale — il concetto di solidale -- liberali d’italia – il
principio del liberalismo – la mistica di Gentile e il liberalismo di Croce —
Grice — metaphysics in Pears 3rd programme — Grice p.331 — ‘violazione
consapevole della massima’ — flouting the maxim — la scuola di Oxford di
filosofia analitica del linguaggio ordinario — Austin, Grice, … gruppo di
giocco – Grice sa benissimo che la massima e violabile intenzionalmente e
comunicativamente — Fidanza — il mistico — la logica di un mistico -- Roma – la
relevanza della filosofia del mondo romano antico -- — La mistica fascisdta di
Gentile —Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Antonini –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo).
Grice: “I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem of these Italians –
but cf. Occam – by sticking to the first-name is that a researcher in the
longitudinal history of philosophy has to check references to Aegeius
viterbensis and Aegidius Cinesio! It was only recently that he was found to be
one of the Antoninis! His place in the longitudinal history of philosophy is
that famous pendulum between Plato and Aristotle – so after Aquinas’s
Aristotle, Egidio – an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing –
especially his philosophy of love in the symposium, the references to Ganymede
as representing ‘amore,’ and he has the cheek to display all this hardly scholastic
erudition (more of a renaissance thing) in his commentary of Lombardo’s
sentences! Delightful – my favourite is his reference to Ganymede, for here we
have the treatment of a subject (Zeus) of another subject as an object – and
that’s just only one reading of Zeus’s intention --.” Grice: “In any case, the sacrificial status
of Ganymede is recognised in the Platonic tradition – as the manipulative use
of a subject by another subject who is subjected as an object, rather --.” Antonini:
Essential Italian philosopher. Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da
Viterbo «Sono gli uomini che devono
essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini»
(Egidio da Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini
da Viterbo, O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da
Viterbo, affresco XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo
Stemma egidio Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di
Sant'Agostino, Cardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola (1517)
Cardinale presbitero di San Matteo in Merulana (1517-1530) Vescovo di Viterbo e
Tuscania (1523-1532) Patriarca titolare di Costantinopoli (1524-1530) Cardinale
presbitero di San Marcello (1530-1532) Amministratore apostolico di Zara
(1530-1532) Amministratore apostolico di Lanciano (1532) Nato1469 a
Viterbo Ordinato presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523
da papa Clemente VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo
Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa
Clemente VII Creato cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre
1532 a Roma Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente
Egidio da Viterbo (Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli
Agostiniani. Nacque a Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in
un giorno imprecisato tra l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori
di origini modeste, fecero compiere ad Egidio studi approfonditi presso il
convento agostiniano viterbese della Santissima Trinità. Forse influenzato
dalla predicazione di Mariano da Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre
anni dopo, nel 1488, all'éta di diciotto anni, entrò nell'Ordine degli
Agostiniani, presso il medesimo convento per esservi ordinato sacerdote. Sotto
il priorato di Giovanni Parentezza, studiò filosofia, teologia e lingue antiche
(greco, ebraico, arabo, aramaico, persiano) e si perfezionò, cominciando anche
ad insegnare, presso le case del suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma,
Viterbo ed in Istria. A Padova (1490-1493) incontrò più volte Pico della
Mirandola, con il quale discusse di astrologia e cabalismo, ma, soprattutto, in
quella città curò nel 1493 l'editio princeps di tre commenti aristotelici di
Egidio Romano, con notazioni contrarie ai peripatetici e ad Averroè. Alcuni
anni più tardi conobbe a Firenze l'umanista Marsilio Ficino, di cui fu allievo
e successivamente amico, e con il quale si perfezionò notevolmente nello studio
delle dottrine neoplatoniche, specialmente in rapporto alla loro assoluta
compatibilità con i principi del Cristianesimo. Nella primavera del 1497 il
cardinale Riario, protettore degli Agostiniani, che aveva per lui grande stima,
lo richiamò a Roma dove, dopo una duplice e complessa prova, conseguì il
magisterium in teologia. Oratore di straordinaria efficacia,
particolarmente apprezzato in quegli anni da papa Alessandro VI, quindi dai
suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu in contatto con i
maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta corrispondenza con Marsilio
Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a Napoli con Giovanni Pontano
(che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli intellettuali della sua
Accademia. Nel giugno 1506 papa Giulio II gli affidò la guida dell'Ordine
agostiniano come Vicario apostolico; l'anno successivo (1507) il capitolo
generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida come Priore Generale, incarico
che mantenne per molti anni, durante i quali riformò profondamente l'Ordine
stesso, riportandolo agli antichi fasti con il pieno recupero della regola di
S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più stretti collaboratori di Giulio
II, che accompagnò nella sua missione contro Bologna e dal quale fu inviato
come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per ottenere l'adesione di quegli
stati alla crociata progettata dal pontefice: venne anche inviato nella città
ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio 1512 il papa gli conferì il
prestigioso incarico di tenere l'orazione inaugurale del Quinto Concilio Lateranense:
Egidio pronunciò così una celebre, accorata allocuzione in cui parlò con
determinata onestà dei mali della Chiesa, suscitando viva emozione nei
presenti, molti dei quali lodarono lo stampo ciceroniano dell'orazione.
Morto Giulio II, anche il suo successore Leone Xappartenente alla potente
famiglia fiorentina dei Medicicontinuò la stretta collaborazione con Egidio,
che impiegò in importanti missioni diplomatiche, come quella del 1516 in
Germania, quando ottenne una difficile pacificazione tra Massimiliano I e la
Repubblica di Venezia. Il papa innalzò Egidio alla dignità cardinalizia nel
concistoro del 1º luglio 1517 creandolo cardinale prete con titolo di San
Bartolomeo all'Isola; quasi subito il porporato viterbese optò per il titolo di
San Matteo in Merulana, antica chiesa agostiniana; molti anni più tardi, poco
prima di morire, avrebbe infine optato per il titolo di San Marcello. Nel 1518
Leone X lo nominò cardinale protettore dell'Ordine degli Eremitani di
Sant'Agostino e, nello stesso anno, lo inviò come legato pontificio in Spagna
per una complessa missione nella quale avrebbe dovuto impegnare Carlo V alla
crociata contro i turchi. In quel periodo fu anche governatore di diverse città
dello Stato Pontificio. Occorre altresì ricordare come a meno di quattro mesi
dalla sua nomina a cardinale e quando Egidio era ancora Priore Generale degli
Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, affisse sulle porte
della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95 tesi che avrebbero dato inizio
alla riforma protestante. Dopo la scomparsa di Leone X ed il breve
pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto papa, con l'appoggio
di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi giorni dopo l'elezione, il
2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina a vescovo proprio della
diocesi di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne nominato patriarca latino di
Costantinopoli e amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo
in quegli anni le indecisioni e gli errori politici di Clemente VII crearono
problemi gravissimi al governo della Chiesa: il papa finì per schierarsi con i
francesi, ma prima la sconfitta di Francesco I a Pavia, poi le incertezze della
lega di Cognac aprirono le porte alla discesa in Italia di Carlo V con i suoi
lanzichenecchi, culminata nel terribile Sacco di Roma (1527), durante il quale
venne distrutta -tra l'altro- tutta la ricchissima biblioteca di Egidio nel
Convento di Sant'Agostino. Il porporato si trovava allora nelle Marche e, per
soccorrere il papa, assediato in Castel Sant'Angelo, organizzò -impiegando
anche il proprio denaro- una spedizione armata, che non ebbe però fortuna per i
molti ostacoli frapposti dai signori locali. Dopo quei dolorosi momenti la
salute di Egidio andò peggiorando: questo fatto non gli impedì, peraltro, di
tenere, durante il concistoro pubblico una famosa ed appassionata orazione
sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano. Clemente VII
dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il suo successore, Paolo III,
conterraneo di Egidio, a convocare l'importante Concilio di Trento, che
segnerà, con la controriforma, la prima importante reazione della Chiesa al
protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu nominato arcivescovo di
Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di commenda per sette mesi,
fino alla morte. Morì a Roma il 12 novembre 1532 e venne sepolto nella
chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una semplicissima lapide sul pavimento
della navata centrale, a cornu evangelii rispetto all'altar maggiore.
Filosofia, Ebraismo, Cabala Egidio da Viterbopartic. di affresco XVIII
secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima Trinità, Viterbo Egidio deve
certamente essere considerato uno dei maggiori filosofi di quei secoli. Il suo
primo impegno importante fu quando, studente a Padova, curò nel 1493 la
pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e vescovo agostiniano
Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò così un'autentica
avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e dell'averroismo,
contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse, specie dopo
l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con Sant'Agostino, il
neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua piena compatibilità
con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere tutte le opere che
studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte, per meglio
comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una straordinaria
conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva padronanza
assoluta, dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia, dell'arabo,
per il Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah. Ebbe una
fitta corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin, finissimo
conoscitore dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su temi
relativi all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh),
argomento da lui già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei
misteriosi simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere
stesse dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le
problematiche della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte
dei suoi ultimi anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in
ambito cristiano tutte le altre culture, dedicandosi in particolare ad
approfonditi studi e ricerche sullo Zohar. Lo scrittore e l'oratore
Raffaello:La disputa del Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane) Egidio
da Viterbo in preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima
Trinità, Viterbo Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di
Egidio, sia a causa della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di
Roma, sia perché lui stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte
delle sue opere. Tratta quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura,
dall'astrologia alla storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia
all'arte: a quest'ultimo proposito si ritiene che il programma iconografico per
gli affreschi di Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene
nella Stanza della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con
la probabile mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini preferisce
di solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto, presso
Siena, o la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi nei
dintorni di quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di Bolsena,
ed un Eremo nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione tre
ecloghe latine di stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e Egone
-- in Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu Domini –
L’orto di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”,
in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita
dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei
sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem
Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di
sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le
vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da
Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è
perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione
il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere
dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala. Il campo nel
quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o
dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei
decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da
parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era
veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di
suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia
che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto
fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le
orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare
su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De
aurea aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di
Giulio II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove
terre e riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di
riferimenti cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore
concessogli dal papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece
definire l'agostiniano viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione
la celebre sentenza di Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati
dalla religione, non la religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione
tenuta in occasione di un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa,
che viene da molti considerata come il vero preludio al celebre Concilio di
Trento, convocato da Paolo III. Genealogia episcopale Arcivescovo
Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo,
O.E.S.A. Note Notizie molto precise sul
suo luogo di nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di
Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima
documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento
monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli
precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta
Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici abbiano,
sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è Antonini. Quanto sostenuto dal Signorelli è pienamente
confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario Biografico degli
Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più completa
monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole. Pur essendo acclarato il cognome Antonini,
appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius
Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di
nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da
lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide
sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono
intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa,
O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia
chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel
centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi
siano altre istituzioni viterbesi.
L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che
cita vari documenti del periodo. Si veda
in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X.
Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346
De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in
VIII libros Physicorum Aristotelis
Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio
sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza;
si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo,
IV,lib.XVI,pag.394,Viterbo, Agnesotti, 1913.
Lo dice espressamente il Signorelli, op. cit., capo II, pag 5. Per la precisione fino al 25 febbraio 1518,
giorno in cui depose l'incarico davanti al Capitolo generale dell'Ordine,
consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele Di Volta, nominato due giorni
prima con breve di Leone X proprio su proposta di Egidio; v. G. Signorelli, op.
cit., Capo VI, pag. 68. Lo sottolinea bene
Ernst (op.cit.). L'episodio che vide
Egidio alla testa di un esercito è ricordato in un intero capitolo (Da Vescovo
a Duce) nella monografia del Signorelli, op.cit., capo VIII. Papa Paolo III, era nato come Alessandro
Farnese nella cittadina di Canino, situata ad una trentina di chilometri da
Viterbo. La lapide, fatta collocare dal
Priore Generale Gabriele Veneto, reca la seguente iscrizione: D.O.M.AEGIDIO
VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande
figura religiosa del Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società
in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12; il volumetto
contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo,
nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale,
praticamente distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982, a cura
dell'Ist. Stor. Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente,
l'iscrizione. Il background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due
affreschi della Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico
gesuita Pfeiffer (Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das
goldene Zeitalter und die Stanza della Segnatura, in: J. A. Schmoll gen.
Eisenwerth, Marcell Restle, Herbert Weiermann, Festschrift Luitpold Dussler,
Monaco-Berlino, Deutscher Kunstverlag, Id., La Stanza della Segnatura sullo
sfondo delle idee di Egidio da Viterbo, Colloqui del Sodalizio, serie II, n°3,
1970-1972, pagg. 31-43; Id., Zur Ikonographie von Raffaels Disputa: Egidio da
Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura,
Roma, Università Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo,
Egidio da Viterbo e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il
ruolo di Fedra Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato
inizialmente ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami
auf dem letzen Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica
Vaticana, e si ritrova in: Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della
Segnatura: Meaning and Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002.
Per una sintesi si veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the
School of Athens: Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia
HallRaphael's School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press, Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat.
6525 Il più autorevole di questi
manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14).
Tutti i giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo
il Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca
e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.
Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due
affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la
Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)
S.Vismara,op.cit.. Il testo
latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per
homines. Egidio da Viterbo,
"Ecloghe", Jacopo Rubini, Sette Città,. Rafael Lazcano, Episcopologio
agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin, Riforma Cattolica
o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The problem of Giles
of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana", Francis X. Martin, Friar, Reformer, and
Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian
Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on
Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad
mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo, Roma
e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret,
Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana", Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da
Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a
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Egidio da Viterbo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da
Viterbo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini.
Egidio da Viterbo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Egidio da Viterbo, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da
Viterbo, su ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di
Egidio da Viterbo,. Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton Company. David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic
Hierarchy. Biblioteca e società, ATTI
del Convegno di Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte,
su bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica [collegamento interrotto], su
bibliotecaviterbo.ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene,
peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da,
su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International
University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al
pensiero riformistico di Egidio da Viterbo, su bc.edu. PredecessorePriore
generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da
Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di
San Bartolomeo all'Isola Successore CardinalCoA PioM. Domenico
GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in
MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de
Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e
TuscaniaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre
1532Niccolò Ridolfi (amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare
di Costantinopoli Successore PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco
de PisauroPredecessoreCardinale presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA
PioM.svg Enrique Cardona y Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino
GrimaniPredecessoreAmministratore apostolico di ZaraSuccessoreArchbishopPallium
PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo metropolita) Cornelio Pesaro
(arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore apostolico di
LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10 aprile12 novembre
1532Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del XVI secoloCardinali
italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti
italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di
CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus,
quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt.
Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR
est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium,
quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt,
quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati
ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna,
stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma
immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota
videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione.
Sane divinus ille Amor ex aliquo semper effertur inaliquid,quod si quamanatex
aliocogitetur Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut
vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a
patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex
Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem
divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa
donantur.Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio
quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id
innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut,
quemadmodum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus
sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio ut, efficiturque
et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam immoti semper poli
sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris
corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos
animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat]
percipiat V sint] sunt ac. V Utrumque … est] Symp. NV ; Symp. N medicus … mortalium] Symp.
N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum,
nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque
sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum,morborum,malorum
omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait,
mortals non nisi divino gurore correptos bonos eri. Quae quidem sententia
oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis
mortalibus rapi. Utenim malus furor in era humanam sortem rapit mentem, ita
divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam
men-tem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS
EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD
DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM
PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA
RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum
tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium
maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid
prohibet, a libera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non
mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam
statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit,
quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique dicenda esset, si quod constituit,
in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse, ubi prius
non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in tempore dicimus
procisciillum cum divino aliquot coniungitur munere, quo prius nobis non coniungebatur.
Callistoetenim, et amanti deo miscetur prius, et deinde ab eodem in caelum
rapta est. Quibus quidem in rebus, non divinum AMOREM sed illam mutatam esse
voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac deinceps etiam caeli sede a divino AMORE
donata est nactaque. Spiritus munus est quippe quem non aquis mergi sed
superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extinguere
non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentum obrui in undas
non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanctus [amor in marg.
V animus] animis ac. V Quare] quarum ac. V esse]
etiam V esse] esset V etenim om. V
Salamone N V cum … placet] Symp. N N V Menon … eri] Men. N N
V puero] asteriscus N Nam … divinissimum] Ion N V ;
Phaedr. Ion N caeli … rapi] Mt. Aquae … charitatem] Cant.] ille AMOR
inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant ventos, nulla
malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et postea Maro
posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod hii, quos
divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis
tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe est,
duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae
esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid in spiritu:alterum
re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil erum constituat
oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis. Nos medium
malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus, omnis enim
progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi
coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam,
quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex
alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures
esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde fluit
adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse
principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum
est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo
duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid
in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo
reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium
residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram
et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut
idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse,
ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM
constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi
mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit,
quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad
Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos
amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii N re ponimus]
reponimus V onte V spiritum V concedunt
V Almenae N V Arctos … tingi] Virg. N V omnis …
est] Phy.;. Phy;.Phy. N N V Aristotele … Chaos]. Phy. N N V Arctos
… tingi] Geo..Calcidicaque … arce] Aen..dicere) per Iovis adulteria
intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene
mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam
seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta
terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI,
quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM
sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei,
quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse
voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales.
Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur
hominibus, ipse etiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum
muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus,
commemoravit, antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse
maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum
vero et primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua
divina in nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit
Aristoteles in Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam
divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis
conciliant divinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse
vult, ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo
in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id
agit AMOR ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex
hostibus AMICI efficiamur, non potest idem ipse AMOR non esse innobis. Iungimur
quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probetum
nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae praecipua a Deo
munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime
haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus
cum Deo spiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo
non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem efficitur,
ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione possideatur a nobis.
Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se animo, cum sinui
penetralibusque amatae mentis illabi- ut]
et V nixus V ille sl. N suscepimus V ut]
et V prius in marg.V autem] etiam V .– Dat …
reperitur] Eut. N V ; Eutyphrone N Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod
si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei
AMOREM in discipulorum cordibus praedicat diffusum per spiritum, inquit,
sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur,
quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et
exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest,
sienim AMOR est donorum primum, nullo nos donari munere sequitur, nisi prius
AMOREM spiritumque suscipiamus. Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus
divini dona suscepisse, spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda
sunt nobis, quae saepe a rismegisto et a Platone in medium afferri consuevere.
Deum namque apellitare soliti sunt patrem, verum, bonum. Patrem quidem nominant
illamut causam, a qua pro ecti sumus. Verum, ut id quod summum intelligimus. Bonum,
ut id quod ut beatisimus adamamus. aria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes
quibus in nobis est Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est, omnibus inest
rebus. Ea namque, quae sunt, similitudinem servant eorum, unde sunt, atque hoc
pacto in rebus est Deus. Esentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica
senatus decretal censuerunt. Ego omnia impleo, dicebat oraculum. Quam quidem
rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus
scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium musae. Iovis omnia plena. Ubi et
sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovis esse plena
omnia, atque ideo ab eo principium musae facere. Qui locus longe altius agit,
quam prima carminis ronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam
Musae principium, atque ortus a Iove ipso est. Filias enim Iovis Homerus Musas ecit.
Musas etiam caelestesque deos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo
fuisse constat. Quare id circo docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque
omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua
Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret
principium. Didicitex imaeo Deum esse non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi
insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile
est, effari autem nulliunquam as est. Quod enim sit Deus, magno tandem negotio
coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus.
rimegisto illam] illi N intelligmus beatissimus]
beatissimus V inquit sl. N ac] et V advertimus V Ab
plena] Virg. NV Didicit … est] im.NNV At esse ubique Deum
Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem
doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur.
Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis et mentis, quod quidem divinum
munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur
namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur
imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in
contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo
quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam
verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud cognitionis,
hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum
illud est interstitium, quod rei speciemaltera, altera non speciem, sed rem
ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis,
cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed in ipsissintrebus. Quaretertius
hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum, atque
homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos
ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae
aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus,
non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui
similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas
optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio
quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad
rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam
virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo
sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus
eandem devenirent, ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod
in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum
disciplinarum necessitas similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro
ipsi devinciant. Adde quod velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse
demonstraret, matrimonii illa et nuptia- vel sed V ii ipsi ac.
V atque N altera om. NV sint sl. V nodus] modus
ac. V potitur V Iarbam] Hyarbam N V
mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et
lib. cap. N N V hoc artiorem]. Reip. N NV speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni
cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis,
commercia namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque
conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum.
Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene,
aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio
plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur. Est
itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel
proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps,
quadam et specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso
per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est,
alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens
cognitionem, postremum gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et
intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in
postremo AMORIS bene ciodatseipsum. Iam itaque constarepalam potest, quaemunera
AMORIS ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse
exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen
inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur
hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum,
quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus,
in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio indicat, quod
in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur, cuius
inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non similitudini,
sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O Fortunatos
HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet nuptias, ubi
amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo. Quidfasces, quid
imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc AMOREM non
possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt
deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt, quam
terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes
acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque]
ac V costare V quoque quo V inestimabili V;
inextimabili N N ac a V Hoc copuletur Symp. N V ad
aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum
munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum
concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella a
Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum
ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad
amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque
apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se
flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione
similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti
atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi
pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam
ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere
volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum
donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi
ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals
usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod
magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est
curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique
eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus,
non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire
non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa
praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam
a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla
potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper effertur inaliquid, quod
si qua manatex aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio.
Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur,
velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur,
quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui
quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa
donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio
quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id
innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut,
quem ad modum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus,
articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et,
efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quamquam immoti
semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed
spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad
morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad aegrum se confert, ut
agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur.
Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet,
uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum,
malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur.
Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri.
Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim
pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem
rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum
usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA
IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO
CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT
NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN
DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi,
Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum,
divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet,
alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur,
quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit.
Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat
autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non
ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam
uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere,
quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et
deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem,
sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam
caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem
nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone
teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentumobrui
in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanc-tus ille Amor
inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant ventos, nulla
malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et postea Maro
posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod hii, quos
divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis
tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe est, duonesint,anunus.Aliiduos
aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatesse
contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu: alterum re, alterum ratione.
Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum constituat oportet. Res ex re
oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos medium malentes, modo quodam
unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus, omnis enim progressio inter duos
iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidica
que levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis
esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare
possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et
amoris divini processus. Si ontem unde fluit adspicias,unus dumtaxat erit
immortalis aeternusque, sicut unum esse principium ostendimus unde manat. Sin
vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum
temporarium, ut spiritus divinus, et huma-numgenus, id circoduosesse progressusasseverandumest.
In onteenimsi quid est quodsitad aliquidin processu spiritus, unum dumtaxatest.
In nibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum,
alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit,
qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut idem
interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut
etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem
Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii
melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis vates
aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum Iovem traxis
senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per
divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per Iovis adulteria
intellexere, nisi AMORIS divini adventum
inhomines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad
miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere,
caelum contemptaterraconscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone
Divino Amori, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne
enim Diis AMICUM sanctum, diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid
itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest,
exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit
non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini
muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis
Spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod
prius adduximus, commemoravit, antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum
ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem.
Antiquissimum vero et primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum
etiam qua divina in nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM
facit Aristoteles in “Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur,
nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam
nobis conciliantdivinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo
esse vult,ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque
substantiaeeo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent.
Quodsi id agit Amor ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti,
ex hostibus amici efficiamur, non potest idem ipse Amor non esse innobis.
Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem
probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae praecipua a
Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime
haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus
cum Deospiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad
aliquid,quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem
efficitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione possideatur a
nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se animo, cum sinui
penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus, non potest
Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum cordibus
praedicat diffu-sum “per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo
quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona,
verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex
iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum,
nullonos donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum
tamen nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum
tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto
et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt
Patrem, Verum, Bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua protecti
sumus; Verum, ut id quod summum intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus
adamamus. ria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est
Deus; quaenimPaterac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt,
simili-tudinem servant eorum, unde unt, atque hoc pacto in rebus est
Deus:essentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretacensuerunt.
Ego omnia impleo,” dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum
consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit,
“principium Musae; Iovis omnia plena”; ubiet sententiam et sententiae causam
elegantissime posuit scribens, Iovisesse plena omnia, atque ideo ab eo
principium Musae acere. Qui locuslonge altius agit, quam prima carminis fronte videatur,
voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a
Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus Musas fecit. Musas etiam
caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat.
Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerum-que omnium pater est
et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus
inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet pateret principium.
Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa
Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem
nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid
autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At esse ubiqueDeum
Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem
doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur.
Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis, quod quidem divinum
munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur
namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur
imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in
contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo
quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam
verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis,
hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum
illud est interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem
ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis,
cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius
hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque
homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos
ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent,
quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum
cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor,
qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas
optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio
quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad
rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam
virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo
sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus
ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est
quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem,
cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula
pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima
esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus
Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum
etinmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori
nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui AMORES canit et castos et divinos, ab
Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus
est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum
arbitremur.Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa
iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui
rationis est particeps,quadamet specierum similitudine et intelligentiae luce.
Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem
naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis
essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiamatque benevolentiam. Deus
siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei
species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum. Iamitaqueconstarepalampotest,
quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor
quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit
omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum
muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat
oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum signi-catum est munus: “ad eum,”
inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonicoSymposioindicat,quodinAmorisortu
Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius inaestimabili et
bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima
copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O fortunatos HOMINES, ubi
divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet nuptias, ubi amatae sponsae
commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces, quid imperia, quid utiles
hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem non possident, male omnia
atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese
aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere
volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque
non sentiunt. Qui vero contemplantur ut verum in Mercurii orbem
oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur.
Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo
iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque
semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo
recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii
somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi
ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in
concertatione similitudinum dimi- cant vel laborant, sed in pace in id ipsum
dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,”
inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc
se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas
aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc
denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua
semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum
munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini.
Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Antonino – imperare – filosofia italiaa –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo. – marc’aurelio:
antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call him Antonino, since the
first time his thing was published in Latin, his thing was under ‘M. Antonini,’
no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once suggested to Strawson that he
should write a dissertation on a comparison of Barberini’s and Xylander’s
translation of Marcus Aurelius; you see, he was a Roman who philosophised in
Greek; and he was translated to Latin only in the 1550s; and into Italian a
century later! Sir Peter responded: “I guess you want me to detect all the
misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato
che solo questo abbiamo.» (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio
Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle
epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente come
Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su
indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio
acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale. Nato come
Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo
padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino,
e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus
Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e
imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo
Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a
Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da
Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È
considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il
quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon.
Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e
marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come
importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso (Τὰ εἰς ἑαυτόν
nell'originale in greco). Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome
"Marco Aurelio" per accreditare un inesistente legame familiare con
lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome
originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia
potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino
Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre del 147,
rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex virtute
Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus. Titoli:
Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della assunzione
del potere imperiale) nel 161, (II) nel 163,[11] (III) 165,[12] (IV) 166, (V)
167,[13] (VI) 171,[14] (VII) 174,[15] (VIII) 175,[16] (IX) 177[17] e (X)
179.[1] Nascita26 aprile 121[18] Roma Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale
Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore
FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla
Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia
Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare
Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato
dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero
adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e
161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono
frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato
dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva
al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute
(come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di
Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e
affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di
Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari, che coprono il
periodo che va dal 138 al 166. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una
finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza
riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più
attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di
Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti
letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di
Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono
ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse
l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti
archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a
Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla
ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu
senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu
elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa
Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande
fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto
redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole
espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre
quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di
Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione
Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e
Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo
consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla
fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente
nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura,
quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse
nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo
padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di
Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio,
affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua
madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come
evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso
riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre
fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me.
Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma
anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco
(probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa
alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era
nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio.
E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra
cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso
gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli
insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi
che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno
dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o
qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua
istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno
dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo
Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione.
Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a
utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores,
Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un
importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo),
continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua
formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con
sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato
di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come
Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle
persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps
Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio
Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere
stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di
Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso
princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio
Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta
il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase
sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con
riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano,
che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la
residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse
esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il
candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima
questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione
facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente
divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali
imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente
avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta
che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per
i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e
attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione
privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando
anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore,
gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae,
località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La
successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per
eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine
senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo
"Pio". Governo con Antonino Pio (139-161) L'adozione (Monumento
dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro)
con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a
sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying
glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino
pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i
suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa
fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e
bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel
140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi
nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il
titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito
si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato,
Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra
i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis
e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella
Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto
difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche,
anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di
condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva
essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile
vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile
vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile
attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver
abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra
abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura
delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in
generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi
compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni
che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo
statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo
tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta
lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare
lo Stato. Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta,
a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire
molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il
discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una
lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto
cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma
riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare
nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico
romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato
a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina Busto
di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la
quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano,
per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino
liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso
contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua
sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le
immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come
pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al
matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver
indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione
oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino,
Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e
di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più
stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da
parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di
quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda
sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma,
Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con
sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco
d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista;
Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei
suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei
decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes
Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo
d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande
reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era
considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base
ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran
simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una
vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non
divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di
avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il
principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese
difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a
far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a
disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso
malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti
immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva
mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con
devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua
salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro
lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue
lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto
Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero
successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo.
Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico
a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede
alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di
almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe
partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre,
Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè
l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato
conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un
provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri
gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di
Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina
furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel
151.[92][95][96] Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da
una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta
"felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non
sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi
ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono
sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io
non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di
perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III 682-808351FAVSTINA
AVGVSTA, busto con drappeggioFECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità)
seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161
circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui
seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153
(un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una
moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine
e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non
sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate
solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui
mancò la sorella di Marco, Cornificia.[92][96] Un settimo figlio nacque e
morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera
di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre
due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di
Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al
gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare,
Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne
questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva
ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il
consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non
aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una
personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere,
in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai
giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino
Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in
famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota
dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai
tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da
Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il
tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure
avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di
Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio
Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza
con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore,
Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il
princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono designati
consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che
infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della
Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due
giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre.
Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio
imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio
Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro
della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da
Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi
si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio,
Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe
presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex
Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra
che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi
carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu
"costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la
morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere
imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica,
ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo. Anche se
nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano,
Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i
piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui,
egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori:
alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo
di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco
Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco,
Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio
Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due
imperatori contemporaneamente.[109] Fin dalla sua ascesa al principato,
Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di
parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato
massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima
volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i
due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà
Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di
questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio
Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco
Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A
dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di
Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con
Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a
tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più
giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un
governatore obbedisce all'imperatore. Subito dopo la conferma del Senato, gli
imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra
Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe
schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo
imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale,
che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite
ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio
della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà
ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che
l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una
valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito
a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento
processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo
titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di
Traiano al 79%. Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito
potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una
pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio
preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime
volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a
Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza
sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. A
Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo,
che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i
gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero
favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le
nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale. Statua equestre di Marco
Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in bronzo, situata al Campidoglio
(copia moderna non fedele dell'originale che si trova ai Musei capitolini)
Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne,
Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento,
furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza
Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero
popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di
parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus,
poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi
altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di
clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco
Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio
Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario
Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio
militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator
Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare
un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno
degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto.
Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii
Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di
Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana
Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della
Germania superiore. Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi
allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo
rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale
Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché,
disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'insegnante
si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi. Egli, ripensando al
discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143, elogiò Marco con queste parole:
C'era allora una straordinaria capacità naturale in te, perfezionata ora in
eccellenza, il grano che cresceva è ora un raccolto maturo. Lucio era invece
meno stimato dallo stesso precettore, i suoi interessi erano di livello
inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie di Lucio Vero Il primo
periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté
dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto,
però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas
temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato. Nell'autunno
del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche
e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda
alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono personalmente questi disastri» e le
comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di
rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori
avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani. Gli insegnamenti
di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva
che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi
di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse
riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un
certo periodo di tempo perso interesse. Frontone ricordò nuovamente al suo
allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni filosofiche:
Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di Cleante e Zenone,
eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la mantella di lana
del filosofo. I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della
vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo
imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come
lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al
Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del
disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente degli
ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la città
durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica
interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si
comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè
"primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi
rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di
decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle
popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle
magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre
categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte
cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati
influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse
cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza
guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto
da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva
preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come
Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era
imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena
consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino
romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla
loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti
i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi
pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica
immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una
condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in
opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete
stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio,
o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi
gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava
solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di
gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il
malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della
guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali
stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze
locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle
arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.
Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo
regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i
cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi,
come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se
non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo
per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui
presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva
emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono ad
esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un
momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale.
Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad
affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi
molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di
professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva
il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli
mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli
schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini
(decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui
suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a
causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era impegnato in
Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La
prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale,
dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte
persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo
testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano
essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia:
Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla
propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes.
Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva
mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni
dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone
esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo,
studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la
decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte,
applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la
normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero
di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per
Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e
non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a
differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe
servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico
legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato
profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla
schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro
un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò
un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di
riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria
disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di
manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e
citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno
schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò
numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già
promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio
il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere
puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si
trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul
letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di
alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i
confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia
incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il
Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui
gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e
parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era
così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli
antichi territori dell'Impero persiano.[154][156] Il governatore della
Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i
Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu
sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente
distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano
lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico,
dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che
Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda
il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare,
avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non
nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena
di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo
delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo
giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria
era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era
quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori
ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente
importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio parthica) il fratello
Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e più giovane del
fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley suggerisce che Marco
volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a
capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e
nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la
città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a
Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di esperienza, e
che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito
Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino
alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium,
una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose
preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico
Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello
che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato.
Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai
suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e
di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a
risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari sappiamo che Marco
non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone poiché ho doveri che
incombono su di me che difficilmente possono essere delegati e rimandati,
adducendo la sua devozione al dovere. Conclude informandosi della salute
dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro, uomo dal cuore buono. Frontone
rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per
rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una
lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle
edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra
partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma aveva subito pesanti
sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui loro nemici: Sempre e
ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in successi e i nostri terrori
in trionfi.[164] Il teatro delle campagne militari orientali di
Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in
Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli
inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante la guerra, nel periodo
autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con
Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle
sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini.
Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina,
insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per
l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino
a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò
istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero
alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e
alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non
avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si
rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando
Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria.
Le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di
origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con
l'assenso di Marco. Vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia,
dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le
metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e
Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle
fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della
peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua
armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme
a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione
imperiale. Ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri,
permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco
otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti
si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di
dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del
fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus
legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla
campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata
risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie
nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due
figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il
gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]
Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni
diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver
favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda,
infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata
presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i
Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò
sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia
giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo
predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al
nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di
Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi). Marcomanni
e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne
inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove
si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i
nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava
estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata
distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e
settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli
ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di
un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti
vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù
germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i
confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo
nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro
volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima
invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto
più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia,
clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò
contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre
tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori
compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta,
conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una
coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche
e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della
Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della
piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale
conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi
migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero
romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi,
sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia
per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre,
attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo
la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi,
sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti
alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato
numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica
prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste
nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera
di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento
delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le
limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente
dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei
barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di
Carnunto (nel 168).[184] Al ritorno dalla campagna partica l'esercito
portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la
"peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a
partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime
e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo
la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o
morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi.
La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino
a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera
popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna
di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo
che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in
seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da
Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato
dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari
lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari
ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali,
organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi
appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo,
vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie,
oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno
Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il
fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito
con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto
dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma
egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte
settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le
popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via
dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e
assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del
nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai
tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord
Italia.[192] Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente
dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia,
spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi.
Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari
germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le
due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse
una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra
l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate
Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si
ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco
non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che
qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a
combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del
Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia
Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva
in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore,
in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e
Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco,
Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché
andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195] tuttavia egli, per
via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far
ritorno a Roma. Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni
episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia,
rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio.[196] I
Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un
possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per
sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la
pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di
fede cristiana.[197] Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in
Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città
di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai
rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo[198].
Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La
ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni
della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il
governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari
romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore.
Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio
Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa
credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle
mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio
venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle
province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei
ribelli. All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia
dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte
all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso (adlocutio)
rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo
soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente
falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e
del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa
dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma
l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non
esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la
clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi
dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando
metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande
quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200] Viaggio in
Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M
ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP
VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g); coniato nel 176
Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali
imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma.
Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai
comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le
province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo
essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse
a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati
dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina
morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in
Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla
morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto
accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la
gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza
all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente
con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso
accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a
essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove
era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono
istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo
dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino
Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola
italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio,
spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il
marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe
nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia
Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la
Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata
con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato,
incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese,
quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove
ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo
essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò
Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva
fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi
"protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di
studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici,
aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei
misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si
rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise
di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite
tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di
alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e
l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità.[214]
Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si
dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del
passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di
spesa a quelli gladiatorii. Il 23
dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e
sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato
romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo
onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei
Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)
L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente
tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni,
Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178
Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera
danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai
più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo
nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera
successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente
parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta
infatti che: «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di
forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme
verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste
informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori,
decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro
partenza.» (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178,
il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia),
per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato
al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente
nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La
sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a
fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva
da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.[221] Morte
(180) Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una
rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a
letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a
destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante,
con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo,
sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o
per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di
grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma
la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è
completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del
dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi
parti sereno: chi ti congeda è sereno.» (Marco Aurelio, 12.36.) Marco
Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo
invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo
contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante
da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da
quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il
Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio
(che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di
Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per
prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che
lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne
sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del
padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco,
sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da
stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così
la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto
giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché
piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se
vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i
soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio,
rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel
settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza,
ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il
capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte
morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della
malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho
chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se
secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il
funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri
furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il
sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori
successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le
sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la
costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva
stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato
Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di
fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne
fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era
estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in
giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici,
appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso
prendeva parte), passione ereditata dalla madre. Marco Aurelio riteneva,
a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto
a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero
come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco
Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il
passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che
meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la
durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro
maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie,
non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il
fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse
le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento,
dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da
un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.» (Cassio Dione, 72, 36.3-4.)
Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui con sé
stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto imperiale.
Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini) Marco Aurelio fu
l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i Colloqui con sé
stesso, come esercizio per il proprio orientamento e auto-miglioramento. Il
titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente Marco intitolò l'opera “A
se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di renderla pubblica. Il saggio è
considerato uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi. Sii come il
promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e
intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è
capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è
capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente
e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a
tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora
perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?»
(Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento nei confronti dei
cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei cristiani sotto Marco
Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea indulgente degli
imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti dei culti
ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani. Molti
disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da epidemie,
carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai cristiani,
ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli dèi, avendoli
negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio, personalmente, non mostrò
esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò un vero pericolo, ma
piuttosto dei fanatici.[229][230] Monetazione imperiale del periodo
Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini. Il prototipo di
statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco Aurelio. In
precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio a Roma,
prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente Palazzo dei
Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De Caesaribus,
16. Tertulliano, 25. Grant 1996,27.
Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator Caesar Marcus Aurelius
Antoninus Augustus. Il luogo della morte
è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio
apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium
[...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17
marzo.» Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii
octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium
omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più
forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona» Riportato invece
così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo,
della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta
incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo
consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita,
venne consumato da una malattia a Vindobona.» Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9;
McLynn 2009,24. Cassio Dione, 69, 21.1.
Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a
(Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5. Machiavelli 1531, I.10. Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e
forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in
cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273
nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione "good
emperors". Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo, che parla
dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa nuova
epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra nella
"vita di Marco Aurelio".
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8. Renan 1937.
Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio
Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL
VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed
Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio
Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non
appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due,
in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva
riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio
memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio,
cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le
loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli
di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome
Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare»,
«Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da
molti altri. Birley 1990,317-318.
Birley 1990,269 ss. Birley
1990,316. Birley 1990,313-319. CIL II, 656 (p 696). Birley 1990,31. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley
1990,32-34. McLynn 2009,14. Birley
1990,34. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1. Poiché suo fratello Marco Annio Libone è
stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi
del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data,
verosimilmente, appunto, nel 124. Birley
1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2 Birley
1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4. Marco Aurelio, 1.3. Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7. Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.
Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.
Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.
Marco Aurelio, 1.4. Marco Aurelio,
1.6. Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6;
Birley 1990,43. Marco Aurelio, 1.10 e
1.12; Birley 1990,46. Birley
1990,51-52. Guido Clemente 2008,629-630. Birley 1990,55 ss. Guido Clemente
2008,630. Birley 1990,69. Birley 1987,38-42. Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia Augusta,
Hadrianus, 25.5-6 Cassio Dione, 69,
22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13.
Birley 1990,63-66; Grant 1996,12.
Birley 1990,63. Mazzarino 1973,328. Marco Aurelio, 6.30: "Bada di non
cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede infatti". Historia Augusta, Marcus Aurelius, 6.5;
Birley 1990,67-68. Marco Aurelio,
1.16. Marco Aurelio, 5.16. Birley
1990,68. Marco Aurelio, 8.9. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4 e
3.6. Birley 1990,108. Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da
Haines 1.184 ss.). Cassio Dione, 71,
36.3. Grant 1996,24. Birley 1990,110-111. Marco Aurelio, 1.11. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4;
Cameron 1967,347. Aulo Gellio, 9, 2.1–7
e 19.12; Birley 1990,76-78. Birley
1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei
contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg
Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò
"disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito
"pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né
l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982
commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha
riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre
Mellor 1982 su Champlin 1980. Birley
1990,88 ss. Birley 1990,78. Birley 1990,113. Birley 1990,114 ss. Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8. Marco ricorda Epitteto come una guida
spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad
esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune
massime. Birley 1990,336-339.
Birley 1990,126 ss. Champlin
1980,174 n. 12. Frontone, Ad Marcum
Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.). Birley 1990,130-132. Marco Aurelio, 9.40. RIC, III 682
(Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399
note. Inscriptiones Graecae ad Res
Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140. Birley 1990,205 e 339. Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e
3.4-7; Birley 1990,132-133. Forse in
omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e
Cecconi,58). Bianchi Bandinelli e Torelli
1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).
Birley 1990,137-138. Birley 1990,140. Cassio Dione, 71, 33.4-5. Historia Augusta, Antoninus Pius,
12.4-8. Birley 1990,142; Historia
Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8 Birley 1990,142-143. Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
15-16. Historia Augusta, Lucius Verus,
3.8; Birley 2000,156 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 7.9. Savio
2001,331. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley
1990,144-145. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.
Historia Augusta, Commodus, 1.2. Birley 1990,145-147. Birley 1990,145-146 cita Mattingly 1940,
Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss. Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.
Birley 1990,150. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss. Vittorino minore fu console assieme al nipote
di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL
III, 8237). Birley cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad.
da Haines 1.298 ss.). Frontone, Ad
Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.). Birley 1990,148
ss. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
8.4-5. Birley 1987,278. Birley
1990,158 ss. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 8-10 e 12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10. Pulleyblank 1999. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.
La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42
m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico
del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora
è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove
venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella
dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23. Renan, Eusebio, 5.1.77. Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13. Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII,
1,42. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.1-3. Codice Giustinianeo, Digesto,
XLVIII, 9, 9, 2. Codice Giustinianeo,
Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps
providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare
animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum». Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi
anche Millar 1967,9-19 Frontone, Ad
Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin
1980,134. Historia Augusta, 24.1-3. Svetonio, Titus, 8 e 9. Casadei e Mattarelli 2009,107-108. Bloch 1947.
Renan 1937,336-337. Birley
1990,170-172. Historia Augusta, Antoninus
Pius, 12.7; Birley 1990,148. Birley 1990,149. Mazzarino 1973,335 ss. Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da
Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10
(trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633. Luciano di Samosata, Alessandro, 27. Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata, 21;
24-25 Cassio Dione, 71, 2.1. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9. Birley 1990,151-154. Birley 1990,154-155. Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis
Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157. Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da
Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157. Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia
Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius
Verus, 7.7; Birley 1990,162. Birley 2000,163. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1;
Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad.
da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, 233 e ss.. Birley 2000,162.
Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e
n. 1370-1375322. Birley 1990,163. Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, nos. 261ff.; 300 ff. Birley 1990,174. ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly
1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss.. Birley 2000,164. Birley 1990,183. Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino
1973,338 ss.. Frontone, De nepote amisso
2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines
2.232 ss.) Birley 1990,164-165.
Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in
Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia
inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M.
Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella
Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio
Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano.
La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e
da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore
disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,
245 ss.; Pannonia Inferior,251. Birley
1990,189. Southern 2001,203-206. Ruffolo 2004,84. Birley 1990,
194-197. Stathakopoulos 2004,95. Birley 1990,186-187. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8;
Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.
Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2. Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245
ss.; Pannonia Inferior,251. Questa
invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri
studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170. Birley 1990,208-213. Guido Clemente 2008,635. Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina
Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere
ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello
specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del
179). Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.4. Tertulliano, 5, 6. Michael Grant, The Antonines. The Roman
Empire in Transition, Routledge, 1994,50.
Birley 1990,230-231. Cassio
Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12. RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P);
MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674. Astarita 1983,155-162. Birley 1990,239-240. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 26.3-9. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.
Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1. Birley 1990,243-244. IG II2 3620
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.
Historia Augusta, Commodus, 12.4.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8;
Cassio Dione, 71.31.1 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 27.6. Historia Augusta,
Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus,
12.6. Birley 1990,259-261. Guido Clemente 2008,636. Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228. Birley 1990,264. citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti,
costumi, discorsi, lettere, di Marco Aurelio imperatore, Venezia, 1557,80. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio
Dione, Birley Cassio Dione, 72, 36.3-4.
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Predecessore: Antonino Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore
Console romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio
Fulvio Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito
Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano
Antonino Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo
Claudio Severo Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore
Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio
Annio Atilio Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon
Lucio Elio Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio
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marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli
imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio
Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most
important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman
emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations
(Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the
history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his
ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to
his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many
were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa
and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement
in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers
immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the
panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like
all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion
for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or
dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to
love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical
arguments, give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici
placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione
ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga
deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed
et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu
remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus
domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore,
ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab
eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis
negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes
non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de monug
pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi
causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite
libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde
Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad
greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni
cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas,
non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas
adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi
ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu,
negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo
ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este
et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid
deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec
omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum
loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et
e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer,
certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam
rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a
missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter
contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum
etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de
homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum
suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis
accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato
permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium
patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam,
ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores
omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior
ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset.
Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum
vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum
indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat
ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam
citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi
tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum
quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare. Perinde
ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa non
verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione
idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem
invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in
humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil
necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve
identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia
detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et
nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item
ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto
traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić
et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem,
BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua
æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet
libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam
in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam servare,
bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo elſet
factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de ipsius
voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus me est,
ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo bono cùm
aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis,
ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere.
Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex
animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse
nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo
gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem,
veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille.
Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret.
Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel
essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que
sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos,
qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter
pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU
lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce
nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua
impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis
accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg
cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel
satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In
oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq
et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem
compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus
procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem
cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his
sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad
vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter,
fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis
uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut
vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum,
adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM
VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi
ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat,
non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim
negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis
opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei
præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum,
aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant,
adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum
instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a
maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et
negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at
que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana
et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in
spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi
negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur,
reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non
de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia
anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter
Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius
moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod
dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta
et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem,
firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate
memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple
rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi
ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui
conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos
parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos
bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam
quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum
beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id
quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus,
quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus
expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam
excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere
& vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei
proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui
principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum
fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset
excitate, honore autemet amore in me suo
delectare. Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt.
Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme
fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos
a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere,
quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod
Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem
vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret
& co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut
secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm
monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem. Quòd in cali uita mcum corpus
tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui, fed &
pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil
prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu
venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung
pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi,
pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut
alterius ope indigerem. Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui.
Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia
mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg
Caietę. Sicut Chrękę cuğanimü ad PHILOSOPHIA
adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere
doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in
Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum,
ingratum, contumeliosum dolosum, invidum,
DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego
vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod
turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem
carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum
lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò
quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus
alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ,
ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in
vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est
repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente.
Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum
morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí
muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera,
qualis ea sit. SPIRITUS nimirum, ne que is idem semper, sed qui in horasali us
efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic
tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß
alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes
subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura,
complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas
etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd
natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui
vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita
& exipsis concretarum rerum mutations.Hec sufficiant tibi, ac sem per
præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare
sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea
diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe
aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore
de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G
ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi
defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET
VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta
gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis.Interea animum tuum
ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium,
eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita
conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis,
AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis
admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ
similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà
exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim
honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid
præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed
felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ
extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid
addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error: nó. nulli enim
actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos
conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix
ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius
animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet
recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta,
qualis pars ca cuius totius Git: adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper
ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS
in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi
rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata,
graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et
occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem
peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS.
Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit
cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus,
& propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis
explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda,
ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si
quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt
affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti
nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et
rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret,
id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset,
utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò
hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet
redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem,ncg
fciens quidem, non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem
admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis
malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita, honor et
ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem
ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque
turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in
müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum
cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel
faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam
sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam
sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per
se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am
nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui
nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et
prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte?preterea
quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia
circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ
ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq
quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis
ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à
diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút,
virtutis causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur:
nonnunquam etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala
ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere
poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg
triginta alia, tamen recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam
deponere, negaliam dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum
spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est,
quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß
præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei
adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia
ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam,
eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis, an uerò infinito videat tempore.
Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem
amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm
habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in
opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua
autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem
admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis
modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, &
qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere
animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes
continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa
adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit.
Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to, quum
fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà
quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum
finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem
atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë
tum eft, natura fluxa,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc
fcitfacilè,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere, famaincerta
eſt. Atque ut ſummam rei dicam, o mnia quæ ad corpus pertinent, fluuij naturam
habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, & peregri natio,
fama poſt mortem,obliuio eft. b4 Quid
ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere? PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit,
ut genium quiin te est, incontaminatum conferues, atqz illesum, la voluptatibus
et doloribus superiore: ut nihil fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil
cures, agátne quicquam alius, aut omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue
eueniunt, ita accipias, tanquã inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò,
utplacıdo morté animoexpectes,quip penihil aliud,quàm diffolutionem ele métorum
eorum,ex quibus unūquod libet animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil
mali euenit continenti bus iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem
in alia uertuntur, quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque
fini ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero
malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est considerandum,
singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde minorérelinqui: fed &
hoc cogitandum,getſiquis diutius lit uictu rus,incertum tamen eſt,lítne
fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen das res et contemplationem cuiusfiniseft
peritia rerü diuinarű at humanarum, Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit
quidé nihilominus, nutrietur, imagi nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates
retinebit: ca vero vis, qua se i plo uti queat, rationes officii subduce re
accuratas, quæ animo pręcepitin or dinem collocare, de coipſo an iam tem pus
fit uitam relinquendi delibcrare, ac fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione
probè exercitata opuseft, ea inquã uis iam antem extincta est. Feftinandum eſti
gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b s ti propiores fimus, fed &quia rerum in
telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca quę appendicis
quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ & o
blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius rumpi: quod
ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet ta
mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú
maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi
niproximum,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes,
leonis ſupercilium, fpumam apro rú ex ore effluentem,multa eiuſmodi alia fiquis
ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men quia
rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his adferre,
& delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi untmente
contemplatus fuerit, nihil pon eleganter eſſe factum putabit, e tiam corum quæ
appendicis loco res naturales conſequuntur. Itaque ue ros belluarum rictus haud
minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli effingunt:
uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem, puerorúmque amori aptum florem caſtis
oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem inuenientia
sed apud eos folùm, qui naturam, ciúſque opera rectè intelligit. HIPPOCRATES
quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis finem vitæ
prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius, & C. Cesar,
quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa cqui. tum
peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS,
multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse
intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM
pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam,
navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem
neibi quido erit quicquam dijs uacuum:lin omnissensus adiinet, non iam præterea
dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori. Quinimo quod
servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra fit, &
tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando, nifi ad commune
aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio negotio
detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem, quid loquatur, quid
cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò efficitur
euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem.Itaq;in
ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas, &
malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites, de quibus
fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè pofsis
refpondere, hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas eſſe
ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs, ac negligenti earum quæ
ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum,ua cuo contentionis,
inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus eſſes,pudore
ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur diutiusexpectet
nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos quasi et administer
deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum. Id autem hominem
præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum A LIBIDINE
inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet ullus cum
affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ eveniunt,
fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica necessitate
urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem. Solis enim
iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi ipsi sunt
deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta & pulcra: quæ
uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs cuius factű
& constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia ratione
prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ,ho minis naturæ cóueniens, ut omniūho minú
curā gerat: exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam, sed ijs
tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi quales ſe
domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi nibus
admiſccant, perpetuò memoria tenet: ab his igitur laudariſe nihil cu rat, quum
ij ne fibi quidem ipfis pro. bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum, neque
cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te retrahi:nein
cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis,ne que multa negocia
ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo animanti, ſeni,
ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum inſtructus
expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas, néue hominis
alicuius teſti monio, Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio
poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó
quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia,uc ritate,
temperantia, fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe
ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam,
in fato, & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid his
quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft
collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi
fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat
Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc
inferiora omnia, & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede,
nefemel ad eam inclinans, poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus
rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono
rationcprædito, & effe &tri ci opponi: ut laudem popularem, principatum,
divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum
fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò, inquam,
fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære:me lius autem eſt id
quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin
quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne
quid, p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread fallendum
fidem,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones, imprecandum,
ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta degideret.
Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas defert, is
tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ hominum
indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo téporis
{patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli continuo
migrandum fit,i. ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam functionem
uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per uniuerſam uitam
obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad ſocietatem ciuilem
nato animali, ei que rationis compoti cóueniant, nihil unquam in
animodeprauatú, nihil puc rulentum, nihil contaminatú,nihilſug. gillatú
invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici
poſſet de tragãdo fabula no. dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile,
nihilfucatum,nihil alligatum, nihil abſciſſum, nihil obnoxium,nihil occulcum.
Venerare facultatem cogita trice: in co.n.ſuntoía, ut pars cui prin cipatum
obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut conſtitutionianimalis
ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à temeritate alieni,
coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde omnibus proie &
is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq tantùm, id quod
præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum,autin in certo
politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus etiãter ræ, in quo
uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum cft, quæ &ipſaper
ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum, acne ſe quidem ipfos
cognoſcentium, nedů cum,quiiampridem fato conceſsit. Ad dendum his quæ
commemoraui præce ptis unum, nempe eius quæquouis tem pore animo noftro
cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe faciendam,quo
tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus alijs ſeparata
natura, ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel laciones eorum,
è quibus ipfa confiata eſt, & in quæ diſſoluet. Nihil enim per indeaninum
magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ in hacui. ta nobis
occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà deprehen datur, cuinam
uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio habendúra tione cum iplius.uniucra,
cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus
lunt reliquæ ciuitates. Quid eft, quibusex elementis concres tum. & quandiu
fert natura cius ut per maneat id, quòd modò cogitatione ani momco
attulit?quaporrò uirtuteadid uſus cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine,
ueritate, fide, ſimplicitatc, ea qua totus ex me aprus fum, cęteris?de lingu
lis ergo dicédum. Hoc divinitus venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna
attulit,hoc pfectum eſt à cognato mco & focio,ignaro quidem quænam effet
cius natura: ego autem & noui, & cofc cundum legem ſocietatis naturalem
u toræquo animo,iuſté,limulgin mc dijs rebus coniecturam facio ut unicui que
ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea &am rationem fequens, id quodinſtat agas
diligéter,firmiter,æquo animo,nc quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum
geniumGincerum conſerues, perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita
ſi perſeucres nihil expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis,
& heroica in dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt,
quihocimpedire poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua
inſtrumenta habent, at ferramenta: fictu ad res diuinashuman nalý præcepta
inſtructa habe,atos para ta:omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo
genera interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi
ſimulcam ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios
leges tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris,
quæ tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes
miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam.
Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere,
uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis
ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid, & uiſum
concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa,id
quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò
mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos
eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe
perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum
ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca
quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg
turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo
obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi
nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè, ac tranquillo animo uiuere,
tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad
quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui
nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī
cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt
comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur
ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum
exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei,
pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus
exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG
iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil
agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus
compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq ſoles
maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ & & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq
uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec
maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum: præſer cim ei qui intus
ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit:bene
nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac teipfum
renoua. Breuia auté fint quædam, & elementorú uicem ob tinentia, quæ
tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil
indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè?nú
hominüimprobitatem?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani..
mantia unum effe alterius caulanatum: tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ:
item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi
tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita &
deſinetádem. At molcftú tibi eft fatum tuum? in mētem reuoca quomodo uniuerfi
partes difti xerit uel prouidentia,uel atomiillę,uel quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum
eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta
intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri
Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu
perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte
net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti
utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio
num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt
terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca
ipſa, aut quales illi, qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã
demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha
ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL
MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu
cffe debcãt, duo funt:alterú,gresipfæ animā non contingut, ſed extra eam fic
matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú,
goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita,
quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde
formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu,hominibusnobis
inter nos eſt comune, erit &ratio, ob quam illud no bis adeft cómunis: ſin
hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido mittendum, communis eric
omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues ſumus: crgo ciuitatis alicuius
partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco esse: cuius.n. alius civitatis
dicere possimus comunionem esse humano generi? utruita ex hac comuni civitate
nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione, & legi, datú est, an
aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ sunt tributæ &
humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, & ignca natura, ſuis
fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso nihil enim eſt,quod non alicunde &uc niat,
& aliquò abcat.) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt. Mors,
perinde acuita,arcanum cftnaturæ opus, ex ijſ dem elemétis in eadé confufio
& mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt
contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita,
hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit,perinde faciat, acli ficum
ar borem fucco uelit carere. Omnino au tem memineris,intra breuiſsimum tem lo
pòſt, ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem, fimul etiam de
accepto damno abolebitur cogita tio:hacý ſublata, ipſum etiam danum non crit. Quod
hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft, id neg uită eius pciorem reddit,ncg
lædit,nec extrin Tecus, neg intrīſecus. Natura utilitatis hoc neccſſariò fccit,
ut quicquid acci dat,iufte accidat: quod, fi diligenter observes, ita haberc
inuenies: atq hocdi co,non tantùm caufarum consequentia ita fieri, fed etiam
ratione iuſtitiæ, & ab aliquo, g tribuat unicuip dignita te ſuū. Itaq,uti
coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid facies, hoc modo a
ge,adhibitabonitate, quo modo uerè bonus intelligitur:idgin omnibus tuis
obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá fa cit,
uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè lint,perſpice.Sem
per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas, quod ratio cius
partis, quæregnum in te, & poteſtatem obtinetlegislatoris,te hortat, idý
pros pter hominum utilitaté. Alterum, ut fi quis adfit, qui te corrigere, &
ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu tes:modò ut ea mutatio fidé
mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu iufmodi cauſa,
nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur ca non uteris?
quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium? Scis te, utparté,
interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta mutationc allumcris
ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana eidem aræ impolita,
unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra decimum diem, Deus
uideberis ijs,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát: fiquidem ad præcepta
&ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam tibi in immenſos annos
prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet,bonus ut sis cura.Quantum
otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di catsagat, aut cogitet, ſed tantùm
quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit & fas. At quifecundum Agathonem
fortèbo numno circunfpicit nigrosmores, fed propofitamlineam recto,non uago cur
fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate ducitur,non cogitat quenlibetco Tum,
quiipfius mentionem fint facturi, mox ipfum etiam moriturum: deinde itidem eum
quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum omnis memoria per attoni.
tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur. Quinetiam fingeim mortales
fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură memoriam.. quid ergoid
adte,ne dicam,mortuum? quid ueluiuo tibilaus proderit?nifi ra tionecuiuſdam
difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus, huic tempo ri non conucnicns et
de quo fuo loco erit differendum. Omne quod pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt,
atquc in ſc ipſo abſoluitur,nullámque ſui partem habetlaudem. Ideoid quod
laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius. Idý ctiam deijs intelligiuolo,
quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut quæ ex materia fiunt,
&artis opera. Id autem quod rcuera bonum eft, noa magis alia quadam re opus
adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran quillitas animi,uerecundia:quid
horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera tione corrumpitur? Smaragdus quidem
niſ laudetur, debonitate sua aliquid a mittit? quid aurum, ebur, purpura, cul
ter, floſculus, arbuscula? Si permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer:
& quomodo terra abęuo uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc
corpora quum aliquádiu in terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs
cadaueribus præbent:fic animæ in aérem ſubuectę,quum aliquá diu
ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg, &ad menté omnium aliarum ge nitricem
adiungunt, eağ ratione alijs aduentantibus locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt,
pofito animas eſſc cor poribus ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum
eo modo cor porum confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à
nobis, & beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero,
acni hilominus fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem, aërem, calo
remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui
rantur.Non eſt uagandum,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in
cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum, conuenit, id omne
mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú, quod tibi ſit tépeſti uum:oéid
fructum meum puto, quod tuæ ferunthoræ.Ex tcfunt, &in una to omnia, ac in
te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de tccur
non dicam, ô cha ra Dei urbs? Pauca age, inquit, fi tibi tranquillitas animi curæ
eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere, & quæ ratio
animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim non modò
rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam ex his,
quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt neceffaria
tollat, is &maiori otio Pombaur, & pauciores per turbationes
experietur. Itaque lingu. lis in rebus circunfpiciendum, ne quid non
neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt
uitandæ. ita cnim fict, ut nea. &tiones quidem fuperuacaneæ conſe
quantur.Facpericulum,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam,qui fato fibi
deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, &
placidoftatu:ui diſti illa,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum, fed fimplex
efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit, ab
initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum. Omnino autem breuis quum sit uita,
curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus:
ac in remiſsionibus animi ſobrius fis. Aut compofitus eſt certo ordine mundus,
aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum, mundus tamen. An quum in te ipſo
poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om
nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis. Mores nigri
uocantur mores effæminati, duri, fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto
lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur,
quæin mundo funt, non cognofcit: haud minus peregrinus erit, qui ea quæ
fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ
oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget, nequein fe habet omnia quæ ad
uitam conducunt. Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt, qui ſe à communis naturæ
ratione feiungit,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura,
omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum, quiſu am animam à communi &
unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga
philoſophatur,ali us abfg libro,alius feminudus,panes ſe non haberè,& tamen
ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere, &
tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce.
Reliquam vitæ partem: ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua
commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera
ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias
contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe,feſtos
dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif
ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami
uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros
d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli
ta eſt?Rurfus ad ætatem Traiani defcé. de: invenies eadem omnia, atque cius quo
ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes totas
conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt ceciderint,
& in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di ſunt,quos
ipfe cognouiſti uana affc Etantes, cum agere fecundum id ad quod natura erant
facti, cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque
opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum,quantum digni tas cius
& modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim
moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta
tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt
glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde
AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus: omnia enim hæc euanida ſunt, & mox
in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad
miraculü ufo clari erant: relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, &
ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia
füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut
cogitationes antiuftæ, actiones ſo cietatem humanam refpiciant, ratio te punő
fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé
principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid
teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius,
túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera, oía permutationes fieri, neq
uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em
quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum, quæ cxillisſunt naſcitus ra;
eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram
aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is
quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe
damni afferri, omnib. benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram
cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru
dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio
neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum
eſleiudica, & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft
proximum,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars, quæ iudi care de
his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum,neque malum,quod
exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam
uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum, neque contra naturam eft, Aſsiduè
tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum,
quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu
mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis
ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es, quæ cadauer geſtat: ut
Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum
quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum, fluctus quidam eſtrapidus carum
quefiunt rerü:fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud
ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit, ita conſue tum
eſt, & notum, ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis,
calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam
afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim
numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có
fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe
ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam,fed mirabilemctiam quandam
inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera cleti
ſemper eſtmemoria tenédum:ter ræmortem fcilicer eſſe aquam,aquæ ac rem,aêrisigné,idý
uiciſsim. Eius quo quc exemplum recolendum,quineſcie bet quorſum iter duceret,
Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter conſuetudinem ha
bentes, tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie incidunt, ca noua ipfis
& peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus, agendum nobis eſt & lo
quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi
ſunt nobis pueri, qà parentib.fuis * hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias
tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut ad diētertiú: nojā ma
gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt
interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos
acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa, quàm multi medici fint mortui, qui
ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia contraxerint: quot Mathematici, qui
alijs exitú è uita præ dicédo ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte &
immortalitate multa alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant:
quot tyranni, qui magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi
crant:quot urbes mortuę(utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ
innumeræ.Col lige etiam,quos tuipſc noftiunum poſt alium,cuius funus curaffet
mortuos:Et quod heri fuit piſcis,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum
itagté pus à natura eſſe conſtitutum, conſide randum eft æquoſ animo è uita
abeun dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit
ac genuit,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod
al fiduè fluctus alliduntur: ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir
cùm ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me,
quihunc cafum fine dolore perfe ram, & nec præſentibus frangar, necfu tura
extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore
cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati
adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt
hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non
eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit,
quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab
errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum,quçhominis naturę
funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet,
recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum,fedfelicitati
tri buendum, quòd id fortiter feran Eft quidem ignobile,præſenstamen ad
contemnendam mortem auxilium, memoria repeterc eos, qui uitam inlon giſsimum extraxerc
tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte
ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam defuncti iacent, Cadicianus,
Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q cúmultosex tulissent, ipfidein
de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium, időper quotlabores,inter quos,
&quali in corpuſculo exigendum? Ne igiturmortem prore difficili accipe. In
tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë, & eius quod reſtat,immenſam longitu
dinem:in tanto tempore quid præſtat is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum?
Semper breuiorem uiamingrederc: brevissima autem est ea, quamnatura præ
ſcripſit. Itag in omni & fermone & a. & ioncidfectare, quòd
eſtrosiſsimum. Hocpropoſitum laboribus,militia, çura rei familiaris, &
folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à fom no ſurgis, in promptu tibi
ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum ſurgere.lca que ergo dices) grauatè
acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum, ac pro ter quæ in huncueni mundum?
scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi
dius eft. Ergónead uoluptatem natus es, nonad agendum?nonuides plantu las,
palierculos, formicas,arcaneas, a pes, lingula hæc luo intenta officio: tu uerò
ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc ad id te confers, quod naturæ tuæ
conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed & huic,modü ftatuit natura,
pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú &laq gfatis é, pcedis:n reb.uc
rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò, qateipſum nó diligis:alioqn eń &
natura tua, cius voluntate diligeres.Et cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus
fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog cibi curá habeant. Tu naturm tua non
tanti facis, quanti aut tornator, aut histrio suam artem, quanti avarus argentum,
&inanis gloriæ cupidus glo riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum
eas augere poſsint, cibų &fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad
ſocietatem ſpectanteshumanam uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ?Quàm
facile eft omnem cogitatio nem quæ animo aut perturbationem af ferat,aut
nóconueniat, reijcere, & delc re, ſtatimg effc in fumma animi tran
quillitate? Omnem fermonem & actionemque fit fecundum naturam, dignam te
iudi. ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare fermones aliorum ca consequentes.
Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim
aliam ra fionem,alios appetitus fequuntur:ad quos tibi non eit refpiciendum,fed
re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf
que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec
morte finiam: expirans qui dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in
terram, ex qua &femen meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix
collegit: quæmeterratot iam an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem
fert, ac totmodisipla abu tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit
fanè, at multa alia ad quæ tc non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur
profert, quętota funtin te: integritatem, grauitatem,laborum tole rantiam,
uoluptatum abftinentiam,ani mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem,placidum,liberum,
àcurioſi tate & nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa
poſsisprę ftare, de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ: &
taméadhucfpó te tua inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa
cogit indigna ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem
improbare,leuć eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut
liberareris malis,in tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris
ingenij, ac qui non facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras:
Sed & hoc exer citationeerat corrigendum,neſubinde cogitares de tua
tarditate, néue ca de lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune
genera:primum corum, quiſtatim exhi bito beneficio, ſtatim etiam quam ſint
meriti gratiam reputant. Alterum co rum, quiid quidem non faciunt,ta conſcij
quid fecerint,debitorem ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum
quidem quod fecere,no runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit, ut femel ſuum
deditfructum, nihil præterea quærit. Equus ficucurrit, canis fi uenatus
eſt,apis fi mel fecit,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad
ali ud negocium tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat.
In his nc igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid
faciunt?equidem.ſed hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis
lege sociati, ut sentiatle et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû
qui ſocietatis eft ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici
tur, excipe. Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim
uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná
litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés
tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros
& cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino
fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé, illi
lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe:nihil aliud eft cú
dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen
brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO
O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia,camrem reſpectum habere ad fanita
té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc
nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut
Pyramidibus extruendis congruere a lerunt, quippe certa cos collocation ne
inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius
corpus ex omnib.corporib. eſt compactum, ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema
cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim,hocſors
cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ Acſculapius
impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc ſanitatis
ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio,fi milis
ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút(ctiāli gd durius
uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté.
Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i
quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum
adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que
tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi
de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al
teras quòd ca faciunt adprofectum, & perfe &tionem, ac permanentiam
eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti
nuitatis & coherentieutmembrorum, ita etiamcaufarum difcindas. Id autem
quantum intc eft,facis, quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam modo
tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi fuccef
ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti:ſed fruſtratus
conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre: neque debet te
eius,ad quod redis,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam ad
pædagogum redeundum:Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam & ouum,
alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o.
ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca
tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam
uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas? Vide
gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid
enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ
ſcientiam certam, & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, &
ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate,
ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil
uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft
omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle
errare dixerit? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice & as,acuide quàm breues, uilesø Gne, quæ
ctiam à cinædo, fcorto,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum,
quibuscum uitam degis, inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne
dicam, quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine,
sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu, non
uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum
confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his
modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum
naturam uniuer fi:alterum, quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum
geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc
teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum:ea
pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum? num
pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ, num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia
fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo
concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia,ut
fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub
hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat,ca qui an tè mente
conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà
Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum
opinatio:alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer
ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato
urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis
ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum
quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma &
materia conſto: ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo
extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem,
atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ.
Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum
uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur.
Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib.
Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum:habent a &
tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos
rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim
ei conucnit, ea ratione, qua homo eft: Non hæchomo,ncgiplius natura
profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc
quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum, quod finem illumabfol
uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus,
quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici
mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to
magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt
ca,de quibus ſubinde cogitas: nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im
buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum, qualesſunt:ubi
cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet:uiuere autem licet in aula, ergo etiã
bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò
gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é
poſitus: ubi ue ro finis,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione
prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft
demonſtratum. An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum, rurſumýex his
unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca
quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non
poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit.
Id quod alius iniquè fert, e bas wal
wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut
magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur
admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ
animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt.
Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere,
fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu. do cũ hoíe cóftituta,quaeibenefacere,
eumý ferre iubemur:cú aúcimpedire conant noſtras actiones, nó magis ad nos
attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire effectú aliquãdo pofsint:
animi uero appetitioné, & affectum no qucunt,quiahæcexceptioné habét, &
conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento fuit effectioni,id animus ad ca quæ
præcellerút,cóuertit, atßcomo do id, quod instituto operi, uiccoßinitę
obftitit,ei iam confert aliquid. Id quodin múdo eft præftantiſsimū, cole. Eit
aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat. Similiterid quoßhonora, q in te elt
primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa üles DO Pe quatum,quòd & cæteris
quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam uitam regit. Quod civitati nullum
affert detri mentum,idnc ciui quidé nocet. Hæcre gula recoléda tibič, quotieſcúq
telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no affecta cft, ei qui
ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero códdera, ệ celeriter oía
quæ & funt & fi unt, abripiãtur & cuanefcát. Etenim &
ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu, & cffectiones
cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ, & cauſarúinfinitæ ſunt uices:denią
nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, & uenturiçuí
infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó damnet, qin hoc
tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe affectú quiritaf.
Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini. mã parté tenes: totius zui,cui'
breue & mométaneútibi éattributúſpacium:fa ti, cuius perexigua ad te portio
ptinet. Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet affectioné, ſuum a
&um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c & C a & 1 uult
cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura. Pars animitui princeps
neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu, neg admittat per fuafones
quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex ratione alterius
conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum cor pore copulata
eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur, reluctan dum non eft:
opinioniautem mali aut. boniadfentiremensnon debet. Viuendum eſt cum dijs.Vitam
ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum oftendit probātem ea quę
ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent: quem lupiterſuæ quandam
particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú mente atæ rationé.
Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad teidcmaliredibit,
Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala conſequi, Rationc,inquis,
præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit, intelligere poteſt quainre delinquat.Benereshabet.
Proinde tu, qui & ipfe præditus es ratione, mentem eiustuæ mentis motu
cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe rat tibi, fanabis eum, negira
opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra gedo autſcorto qui egrediés uiuere
co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc uita excedere, ita quidé,ut qnihil
mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale
abducit,liber permaneo,neq mequif quam prohibet agere,ut uolo, uolo au. tem,ut
naturæ animantis ratione predi ti, & ad certum nati conuenit, Mens quæ
mundum gubernat, ſocic tatisrationcm habuit:itag & inferiora
præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum unum alteri ſubdidit. Videt, ut
ſubiecerit, cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt
pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit. Quomodo uſus es hactenus dijs, pa
rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa
mulis? an in huncuſquediem in nemi nem horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere
étą ſupaueris, actolc raueris: tum fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo
miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa uidiſti pulcra? quot uo luptates
quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré
animi artis & diſciplinæ uacuiarte & fcientia præditum confun dunt?
quem uerò animum arte & ſcien tia præditum uocas?cum,qui principi um &
finem cognoſcet,et mentem, quç per uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes
fæculorum curſus defini tos atq; ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris,
&oſſa nuda, nihil öter nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil
eftõſonitus. Atea quæ magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua,
atą inſtar catellorum mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox
plorant. Cæterű fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib. tcrræ cæld
petiere relictis. Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý
mutationib. cxpofita?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula
ipſa, quæ cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis
illa? Quid ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem,uel translationem,idý æquo
animo?Quid interim dum eam occafio adducit,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm
deos uene rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs
abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea
meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti
ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ
menti communia funtcum homi nis, omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum,
non poſle te ab alio impedi ri:alterum,iniuſta uoluntate & actione | bonum
eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca
fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid
folicitus deco ſum?querò dānúě cómunis focictatis? Non debemus nos
cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt,
& dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca
enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni
poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris.
Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú
ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung relictus,factusſum
felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices: id eft,boni motus
ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo guberna tori obedies
eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin ſeipſa ha betmalè
agendicauſam: quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea quic quam læditur:
omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein diſcrimine,algenſne,
an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè audiens,moriens an aliud quid
agens id facias, quod te decet: quando mors etiã una eft carum a & tio num,
quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea etiam imminente, id quodin
ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei nequepro pria qualitas,neqid
quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta ſunt,celerrimè mutantur, &
autin halitum refoluun tur, fiquidem fit compacta corum ſub ftantia,aut
diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó ſe habeat, quid agat, & quá
habeatma teriam ſubiectam. Vlcilcédi ratio optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui
iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis
humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad aliam tranfeas, dei memor. Princeps
hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat atą cict, feğz talem, qualem
vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia, qualiaipſa uult, fibi uidean
tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc: negenim poſſunt fieri fecundú ali
ali quam,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue incluſam,fiue foris ſuſpenſam.
Vniuerſum aut confufio quædam eſt, & cótextus fortuitus rerum iterum àſé
diuellendarum & diſsipandarú: aut unitionc ordine, & prudétia conſtat.
Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu pia inani huic colluuiei &
mixeuræim. morari? quid aliud expetendum,quàm ut in terram utcungredigar? quid
per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha
bet, uencroreú, animoſ conftári ſum, & gubernantimundum confido. Cum te
rerum præſentium ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm
neceſſe é, à modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius
harmoniam tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul
&nouerca, & mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad
matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ. Quarc ad hanc
sæpe numero revertere, & in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ
tibi tolerabiles uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid
cogitandum est de cibis & id genus rebus? hoc eſſe piſcis ca dauer, illud
auis, aut porci: item Fa lernum, ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos
elle ouiculæ, modi. co teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum,inteſtini parui
affrictioné, mu ciğ excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę
ſunt: nam ré ipfam attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit,cerni poſsit.His
per omnem ui tam utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu
digna,tegu mentis cſt nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,&
id,quo fe oftenta bat, ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac
tummaximèin frau dem inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas
tractare putat. Videigit, quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq,
inquit,corum, quæ uulgus ad miratur, fi fub habitu aunatura conti nerent, ad
latiſsimè patentia genera ré uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites,
oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto, ad animata,utgreges,arméta.Si qua paulò plº
haberćt gratiæ,hęcad eareducebac a cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé
uniuerſali,ſed quatenus artes tra ctat, aut alias facultates: aut ipſa per fc.
au L fcæſtimabat, ut:quidnam cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra ••
tione præditum cû omnibus ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum
is rerum nullam curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum,atgita
fe mouentem, ut ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt
eiufdem generis, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox
exiſtent, quin &cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, &
alterationes continenter mundű renouất: quemadmodum infinitum æ uum temporis
adſiduolapſu nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút,
ac quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit,acli
quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu
cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a
fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus,
& efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt, quòd f ac ad all a. ba omnem
reſpirádi facultatem, quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus, eò reddimus
unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium,reſpiramusmore pecudú, & ferarú,
quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q congregamur, quòd
nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd excernimus
cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá. Ergo nelaus
quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit etiâ gloriola,
quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut quemadmodú fa
ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam diligentia opificum,
&artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod paratú eft,aptü fit &
idoneu adopus, cuius operis cauſa paratú eft. Idé querit uinitor,idé qui pullos
equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo &inſtitutio primęætatis &
doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem expetere debeas. Húc córecutus,nihileft
in alijs rebus quod ſis tibi quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã
expetere, nec liber cris, neg tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula
beris,liniſtra ſuſpicaberisdehis, quiilla tibi adimere poſsúc,infidiaberis ijs,
qui? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato,
qiſta de fiderat:fępe etiá deos incufare. Quiuc rò mente ſuam reuereturato
colitis & fibi ip, probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet,
cúmque dijs conſentier,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt &
ordinauerunt. Infrà, ſuper, atque circum te motus ſunt elc métorum. Motus uerò
uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá, & adin telligendum
difficili'uia procedit. Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis
uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant:nimirúabijs
quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi
dolerét, non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid
allegintelligétia tua neqs, id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert as
f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id & tibiconcediiu
dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium laniauit,autcapiteincuſſo
ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum fufpectum habemus: caue
mus quidem nobis abeo,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum quid de eo ſuſpica
mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in reliquis uitæ partibus,
ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus collucamur:poflu muscnim
(utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere, & cosuitace. Si quis
meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte ſentiam,aut agam,læto
animo fentétiam mutabo:ucritatem.n. quæro, quæ nemini unquam dáno fuit; damnum
autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct. Ego, quodcft mci
officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc carent,aut uiæ
ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res & fub.
iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus
uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis habita utere. Inomdisciònegocio
deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum tempo ris fpatium tibi adagendum
detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ. Ale xander Macedo,agaloß eius,
mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti ſunt ad mentēmundicam, qua fati
ſunt reliquorum animi, aut diſsipati ſuntin atomos, unus perinde atgalter. Cum
animo tuo conlidera,quàm multa uni co temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @
noftrûm,cùm animo, tum corpo re:ita fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò
uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul extent. Si quis à te quærat, quomodo
fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne fingulatim omnes literas proferres? Quid
ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum
inibis placidè; Ingularum rerú? Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium
quibuſdam con ſtare numeris: quos li imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus
alijs ipfo com Spro MIUS. quog indigneris,recta uiaid quod pro
pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui detur,hominem impedire, ne ad ea fera
turquæ ei utilia & cognata uidetur. At quiid tu ne faciant prohibes quodam
modo,dūiniquo animo fers cos delin quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ
fuæ coniunctum, & utile putāt. Sed res nó ita habet. IditaB oftéde eis,
& & doce citra indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, &
cogitation num officijs,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft
in hac uita, in qua corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à
pręfé tiſtatu deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum
Gmplice, bo ne núintegrū,graué,apertū,iuſtitiæ ſtudio fum,piúerga deos,
benignú, humanú, ad officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas,
qualetefacere uoluit phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue
eſt uitæ in terra degen dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio,
& actiones commu- beri pitati hominum utiles.Omniautdecet Anto SE maig
Sophie Antonini diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir
mitas, quæ ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento: quæ uultusferenitas,
accomitas. Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb.
ſtudium, quum nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno
uiffet.Vt tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc
rit:ut nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut
di ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus,
non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus, ut do moleco,
ueſte, cibo,famulatu:quàm tolerans laborum,quàm lenianimo: ut tempusnequeadueſperam
propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi coſueta hora opus ei
effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia, &æqua bilitas: quomodo tulerit
cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý fuerit,fi quis melius
aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra ſuperſtitionem,recordare,
ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re ¿ te tibi coſcio adueniat.
Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co gitans quæ te inſomnia
perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex cor pufculo & anima
con to. Corpuſculo nihilintereſt interres, neque enim po teft difcrimen
ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt ipfius actiones:
has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de præſentibusaccipiendum,præteritę
enim & futurę animi actiones,ipſe quo que nullum habentiam diſcrimen.Ma
nuiacpedi,dum ſuum agunt officium, nullus eſtpræter naturam labor.ita ho mini
quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium, nullus eſt præter naturam la bor:ergo
nę malum quidé.Quotuolua ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis,
parricidis, tyrannis? Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten. tur artes, uſque ad
certum finem ſe pri uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis
rationcm retinét, nab ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus
&medicus magis lux artis rationé reuercatur,quá ſuam homo, quæ quidé ei eſt
cum deo communis? Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare,
guttamundi: Athos, glebula mundi: omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis.
Omnia funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt, profecta à
principe uniuerfi,aut per conſequétiam. Etenim rictus lconis, lethalia uenena,
omniaos maleficia,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta,
Non igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi
dera. Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in
infinitum uſg erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero
co gita de omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim
modo omnia inuicem ſunt impli cata,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio
confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut
ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda:
& quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero,proſeque re.Organa,
inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis
qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý
eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li
ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de
alijs hoíbus oíbusin tellige. Quodcu exijsreb.quæ extra te,negin tua uolútate
ſunt pofitæ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat,
uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis, efficiet ut & deos incufes, &
odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g
uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi
ftatuimus, fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt
pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus,
aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus:
pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú &
dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc
quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat:ſupuacanea opera eft eius
qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur
múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi
niſtratorhuius uniuerd, utiq tePombare &è, & accipiet te inter
cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et
ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire
cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa
quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his
quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam
Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa,
propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos, & ad
uniuerſum (cuius maximè habentróné fru & usredijſſet? Sin de me priuato
nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea
conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos
confilium inire, impiū eſt credere: autneſacrificãdum, neprecandum,neiurandum
quidé, ne que quicquam corum faciendum,quæ fingula tanquam cum preſentibus
& u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis
ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare.
Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú.
Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi
est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit
tantùm mihi funt utilia, quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca
profunt uniuerſo: id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi
animaduertere uc lis,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed
nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in
theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, &
uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum.
Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis
excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis
generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad
Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum, idem
euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO,
PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum
Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis,
callidis, contu macibus,his ipfis,qui caducam hanc & & in dies durantcm
uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú
eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina?
Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib. & iniurijsho
minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis, cogita virtutes corú qui
uiuunttecum: ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut aliud
quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam, quantam limilitudines
uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe cófertim offe
rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot libras te appen
dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum, & conon maiorem ui
ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram, quanta cibi eſt
tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum eft. Annitendum
eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus, etiam illis
inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te
impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis
opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca
appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui, cui ſatiſfiat, ii id,
cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono reputat.uoluptuarius
affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio né.Licet etiá nihil
de hisexiſtimare.ipſe.n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú no ſtrúefaciat.
Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed totus animo
diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau tæ malè
gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui
mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá
multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút?Mor bo regio
laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia, aqua eft timori: pueris
fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle fal
Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo animali.Nemo
prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua accidet, quod
fit cótrarónéuniuerg.Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut ppter qd, g
cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon. dat: imò
quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia?id, quod iệpenumero uidiſti.Et quic
quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc rcgula, ſæpeid effe à
te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore petas,inuenies omnia
cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ,mediæ, recéteró hiſtoriæ,& urbes,
& domus:nihilnouú eft,omnia uſitata & breui durātia tem pore.Neque uerò
alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm cogitacioni bus quæ ijs respondent,
abolitis: quas quidem ut continéter reſuſcites, in tua cft pofitum poteſtate.
Poſſum de re oblata exiſtimare, id quod oportet: li hoc poflum, quid eſt cur
animo pertur ber?Quæ ſuntextra mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc
modo affectus,rectus eris. Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti,
rursus apud animum tuum contempleris, exactam uitæ partem qualirepetes. Inane
pompa ſtudium, fabulæ ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello
proiectum,auteſca in piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum
geſtationes,murium perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le
moucát. In his igit oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, &
intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po
ſuit. In oratione ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant
maduertendę: ato hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic
quidfignificent: Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G
fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli
naturaconcello Sin g. contrà, aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit,
perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó
iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera
mca'mensid efficerepoſsit,quod in præſentia fitcommodum, & focieta ti
hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft
obliuioni tradita? quàm multietiam horum, qui iſtos celebrauerunt, è medio funt
fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim
tibiid agere, quod fit tuarum partium: perinde ac militiin oppugnatione muroru.
Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires:
ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit,
peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris.
Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ
alie ñum, ordincenim omnia certo funt dif polta, unum eundem mundum ex ornent.
Mundus ex omnibus conſtat unus, unusqueper omnia diffufus est d Deus, una
natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una
ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis,
eiufdemó participia rationis ui animantium.. Omneid quodmateria conſtat, ce
lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi
adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm æuoconfunditur. id Ratione
prædito animali cadem a. EEtio & fecundum naturam eſt, & fccun dum
rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem in unitis & compactis
corpori bus habent membra, eatn obtinent ra tione prædita animalia in diullia,
præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro
tibiipfi dicas: pars fum cius, quodeſtex ratione præditis conflatū, corporis:Si
autem propter elementum R.dicas te eſfc partem, nondum ex ani mo diligis
homines, nondum ex bene ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat
animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis, non ut in te ipfumbeneficium
conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego
quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:&
licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem
oportet ellebonum:haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita
diceret, quicquid alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem
ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt,non afert fibiipfiullam
cupiditaté autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem
afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert.
Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet, ne quid patiatur dis cato, ſi quid
patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci
ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat, niſ feipfam deftituat:ita
&perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu
bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia? ubi, unde ueniſti, non enim te
opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem: non tibiſüccéſco,
faltem abi, Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe, ncque
eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna
mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc
fieri?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe,ac perinde nc
ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem,
tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti
et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn
deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad animum accidet. Vnum
hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam, quodhominis conſtitutio aut nolit factum,aut alio
modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum
obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos
di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos, im
prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt & te, & illum qui
peccauit,moriturum; idý potiſsimum,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua
mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi, ex uniuerſitatetaną ècera
modò equum finxit,moxco con fuſo, materia iſta ad fabricam arboris
ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada. liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre
uiísimo duraruntſpacio. Atquiarcula utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli
diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit
prętextus,aut ad extremú extinctus eſt,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo
intelligere labora, irá à ratione effe alienam. Nam fi etiã ſenſus peccati nul
lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice
mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in alias mutabit formas:ut femper
recens fit mundus. Si quís aliquid contra te deliquerit, ftatim cogita quánam
boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi cernas, miſc reberis
eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam autipſeidé,quodis,bonum putas, aut
aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas,
cò placabilioreris ei qui falsus. Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus
cogitandum eſt:fed præſentium ea quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame
moria repetendū,quánam rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men
præſentia adeò probes, ut etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p
turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt natura mentis,utiuſtè agens, in hocg
acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe
inſtans tempus,cognoſceid quod uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in
materiam &formam, co. gita de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat,
ubi pec cațum ſubliſtit, Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente
penetrandum in causas et effectus, Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia,
coś, ut quæ ſunt medio inter uir tutem & uitium loco, in nullo ponas di
fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege.
Quod fi diuina ſunt etiam elemen ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege
conſtare,aut admodú paucaſecus, Mors é auţ diſsipatio,qui indiuidua rum
particularum ſecretio,aut exinani tia,autextinctio, aut migratio, Dolorli
fitintolerabilis, mortem af, fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam
retinet tranquillitatem,ne que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ
quæratur,fiquidem poflunt. Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales
Gint, quid propolitụm habc cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ
cumuli Co- alij ſuperaliosappulg,prioresoccultát, įta in uita quo priora à
ſubſequenti bus celeriter abſconduntur. Platonicũ.Quiigituranimocſt præ unditus
alto et cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ,an tu cúpu er tas
exiſtimarç, quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid?Nequaquam,reſpon sc
ditille. Ergo,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era
uerò, Antiſthenicum,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta
co obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum
non componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim
noſtram nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti
fpicam mcæ uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be
Quod ſi dij me, libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene
efle et iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria
hoc retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté
aliquo in diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id
potius unum có fiderare cum inter agendum,iuſténcan iniuftè agat, & eáne
fintuiri boni anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut
quo quis loco ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita
Gtoptimum,cò colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat,
ac quoduis pericu lum ſubire,neg mortem, uelullam alia rem turpitudine grauioré
ducere. Sed heus tu,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam
ferua re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum
diçimereri, qui quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat:
Sed 1 leo sel gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum, qui dehis cura deo commife la,
credens mulieribus, non pofle fa tum ab ullo euitari, id consderandum porrò
ducat, quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi, Curſus liderum
conſiderareexpedit, quali eos comitaremur, & elementorú mutuæ mutationes
crebrò cogitandæ. Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene
eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur, intuendum est in pes
terrenas. Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes,exercitus,agricul
turas,nuptias,pacta,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas, uaftitates regionum,
varias. Barbarorum gentes, ferias, lu dus, nundinas, in ſumma, qui colluui cm
illarum, & ex contrarijs compol tum præteritorum aceruum, tantas 191
imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc poterit. Quippe et
candem hæc habent cum præteritis for mam, nem alio possuptmo fieri, Itaçćç Cu
alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių ſpacio annorum uitam humanam
exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra enim nata in terramredacta
funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio
complexuum, quibus ato miiunguntur, sive elementorum passio nis expertium dissipacio.
Cibis, potug, & magicis adeo artibus Avertimus currum, & mortis fugi
mus uiam. Flantem diuinitus auram Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg
calentibus. Est aliquis te peritior luctæ:quid tú? at rófocietatis humanę
ſtudioſior eſt, non uerecundior, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita
mitis homi num peccatis. Vbicung poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs
& hominibusratio ncm, ibi nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet
actionis, quære&a uia proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft
uerendum nequid fubfit tog fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt
manupofitum,ut ca quæin præfentia di biacciderunt, & approbes piè, &
cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas, &ui ſa oblata artificiofe
examinesne, quid non facis perceptum admittatur. Noli aliorum mentes
circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit, cùm uniuerli, per ea
quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt propoGta. Id autem
unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni conſentaneum. Porrò
ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua quidem omnia corum
cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum causa, ratione autem
pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur inter partes ex quibus
ho mo conſtat, ca pars obtinct, que fo cietatcm humanamreſpicit:alteras,ca,
fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim & intellectu prę
ditimotusproprium eſt,ſeipſum circa ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe
titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua
principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria, quig pecuius natura
ferat,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt,uacuitas te meritatis &
erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo,
&qui hactenus tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi
crit fecundum naturam,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens, quæ tibi
fatum iniunxit, contentus efto. Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue
niunt,ftatim cosante oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati
ſunt,nouitatem rei mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam. Quid
attinet te corum fimilem effe uel le? acnon potius alijs fuum morem rc linquere,
ipfein hoc effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec
deeritmateria, modò animaduerte, & ftude, uttibiipliin omnibus actionib.
uidearis honeftatem confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum
cft.Intrò reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias.
Corpus conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens
efficit, ut vultus Gt compolitus & aptus, ita detoto corpore uttale Gt
annitendú eſt. Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint.
Vivendi ars palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu
rat,utad ea quæ incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum
hominem feruet. Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te
ferreuis, ac quæ co rum fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee
teſtimo nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones
hau ſerunt:Omnis animus, inquit illc, non ſua ſponte priuatur ueritatc: idem
sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef
ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior.
Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen
tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe
hæcnegrationc materiæ, nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem
dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg
æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum
dolore naturam, ta men occultèmodò moleſta eſſe:ut dor miturire, eſtum
ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori
ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines.
Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ
ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle,aut peritiùs cum So
phiſtis diſputalic, & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium
abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe
tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum
eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus
præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam
litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli
uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit,
nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit
omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum, & quæ ſont propria cuix,
caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus
uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam,
quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice
Dialecticú autPhyl cum futurum,iccirco etiã liberú,pudi cum,fociabilem,deog
obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni
ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis
membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet
in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio, & uſu corú
quæ ſuntpræma. nibusexpedito: ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat: fanè cu
natura tua họces,etfi aliud uideris:urg ulus dicat rei oblatæ: Ego te quærebam.
Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis rationalis &
ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id quodaccidit,deo eft
aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed conſuctum & tractabile.
Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá ſupremūagas,nihil tremas.
nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales, tamen non indignè ferút,
quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos homincs perferre debeant:
quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui iamiam cef
fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non fuge rc
tuáipfiusmaliciam, id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce ditur
tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc vn. ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq ad
focietatem conducens, id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui feciſti,
& cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo tertiumaliquid
requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc, & gra tiam recipias.
Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi cita tcſecundum naturam
aliquid agere: nc igitur dum alij prodes, dcfatigare tibi aliquid boni parando.
Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe contulit:nunc autem uck omnia
quæ fiunt, confequétia fiút ſua,, uel ctiá in præcipuis corum, ad quæ fa mundi
gubernatrix natura confert, ra tioninullum locum efle & cóGlio, tené
dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in rebus animo ut his tranquilliori
cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ cupiditatem facit, quòd non licet
tibi adhuc totam uitam,quæàprima tuaæta te fuit,philofophicè uiuere: fed cumul
tis alijs, cum uerò tibi ipli manifeſtum eſt factum,teproculà PHILOSOPHIA abef
fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi
facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį,
in quo litrespofita, omitte curare quis habearis:fatis autem fit tibi fireli
quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca uelit, cogita, hinc te nihil diuellat.
Expertus enim es circum quotres ua gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin
ratiocinationibus, non in di uitijs, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi
uero eſt?in agendo ea, quæ hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si
eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ appetitiones &actiones ueni
ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci licetNihil, effebonühomini, quod nó
reddit iuftum,temperantcm,fortem, li beralem:nihilmalum,niſi quod horum
contrarium efficiat. In omni actione à teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec
poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris, &omnia è medio fint. Quid
prætcrca requiro, li præſens a &tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis
hominum ftudiofi et deo æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad
Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau
ſas,materias:ita erant ipſarum mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet
prudentia, & feruitus. Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis.
Primum cſt hoc,neperturberis:om nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò
pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus & Auguſtus. Deinde in rem ipfam
intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc tc eſſebonum uirú, acad hominis
natura uelit, ageid quod pro pofitum eſt cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe
puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc
agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmPomba, & exuno lo coin alium res
transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß quicquã mc tue: nihil enim
noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter diſpenſantur.Cæte fum unaquęg
natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi fufficit.Natura autem in tellectiuaid
facit, G'in cogitationibus, id obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur:
impetus animi ad eas folum actio ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum:
catantum appetat & uitat, quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi
natura tribuuntur grata ha beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ
ftirpis pars eſt: nifiquod hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au
carcas,impedirepoſsit:Hominjsną gratis
non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ impedirinon poſsit,intelligat,& iuita
fit:liquidem æ qualiter, & pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam,actionem,
& eué ta diuidit. Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res
exami nes: finunam cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem
arcerc,uolup tatibus &doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam
ſtupidis & in Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem
teipfum. Penitentia eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif
ſum:bonú uerò,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho
neſto.At nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem, ergo
uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é
hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia, quæ
forma?quod eius in mundo officiú,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris,
reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni, & naturæ humanæ, ut
aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod
autem unicuiq ſecundum naturam eſt, id & magisproprium ei eſt, &
cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus
cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum. Si de natura,
affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè
interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate
& dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non
debet mihinouum aut mirum uideri, li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo
em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum
raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum
eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle, li quis
febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam,
& re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum
tui animi impetum fit atque iudicium, tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur
facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt
cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau
ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam: lin neutrum,quid iamtibi profuit
repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do:nam
ut conftat, & mutatur, ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ
mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum. quodgeſtad
certum finem factum, ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij
pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa? num uolupta
tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ
quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier,
quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit?Quid
bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur? Idem de lucerna poſsisin
telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis uita
cft & laudantis, & cius q laudatur, cius quimentionem facit, &
eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi
quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra
punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò
hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo, id ita fit à
me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd,referoidad Dcos,
om niumg rerum fontem,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent.
Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab
ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum,
deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam, Antoninus
hæc omnia. Cęterű Adrianum, inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates,
& inflaci? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, &
fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne
minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli
etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari
tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut
faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ
genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia,
cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus
ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam, à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose
nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd
animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro
malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio, & inclinatio
intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo,
Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni
hilfitmaliciæ,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti
funt, fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum
naturam. Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana
ora tione non eſt apertè femper utendum. Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po
ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui,
amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors
abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota
Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius
familiæ ultimum. Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem
relinquerent: & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est
ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum, quantum cius
fieri po teſtpræſtet officium, contentus fis:at queid quominusfiat,nemo tibi
obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem,
quodiufti ciæ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis
aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule, fico
ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to,alia emergertibi adio, quæ
ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu,
dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam, uelpedem,capútuc
amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro uirilifuahunc,
qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate feiungit,aut agit
aliquid ab čaalienum, Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali abrupiſti,cuius
eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft, quòd iterum tibilicetei
adiun gi:id quod nulli alij parti deus
concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret toti.Hicmihi bonitatem
conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam & initiò iplius in manu
pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus redier,iterug
cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet, dedir.Nãquéadmo dugngulç ferè
rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs, ita nos quoß hanc ab ipſa
accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat & rcfiftit,cóuertit,
& fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc prædi tum poteft
omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd intenderat. Note
cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs,quæ mul ta uidentur
dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo quæro, quid náca in
rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te fateri.Deindememineris,ne que præterita
tibi, ncquefutura ullam afferremoleſtiam, fed præſentia tantű. Achæc
cxtenuantur,& fuis ca limiti, bus, determines, cogitationem tuam
redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca,
aut Pergamus? Num Adriani sepulchro Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc.
Quid verò G adGderent, ſentiréntne illi? autuoluptatem cape Tent, fiquidem
ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis
quoquefatum fuit,ut ſencs &uetulæ priùs ficrent, inde mo scrétur? Quidautem
illi poftmodò fa ciét, his mortuis? Oia hæc fætida funt, & tabus in facco.
Si acutèuidere potes,afpiccetquàm fapientiſsimè iudica,inquitille. In
conſtitutionc animantis mente præditi nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam
cxpellat: Sed quæ uolupra. tem cijciat,uidco continentiam. Si tuam opinionem
detrahas ab ea quod uidetur dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe?
Ratio.Verùm ego, inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re
afficiat:Si quid aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit
fomnus aut appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione
offenditur. Ita fi mensim pediatur,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad
te tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur
quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid
appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit:lin communetibi p
poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones
nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro,tyráno,autcalum
nia,aut alia ulla talire. Sphæra cum fit,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi
ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res
læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam
uel hominem, uel humanum calum:Sed omnia placidis afpici at oculis, omnia accipiat,
ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui
commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes
futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua
intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, &
ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat
ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props
tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius?abicctus, appetens, anxius;per.
territus? Ecquid co dignum inueniam? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit
humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ. Quòd
fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur
indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter
cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium, molc
ſtiã affert: id uerò ut abolcás, in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in
te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi
doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid, quàm doleas:
ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At
uidetur ujuendum non elle,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo
&is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui principem ſu
perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre
ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò
fier, li étà rõe parata, circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe
ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó
uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut
cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft,aliquem
tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum,non taméid quo $,cflc teleſum. Video puerú
ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte
primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete
omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit,omitte cum: uc i pres in uia
ſunt, declina cas:ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim
ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares
quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide: res.Atquihi ca poſſunt
aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte
potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe
habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog, & nulli ele uſus uideantur, in
ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá
extra ſe requirat, neqlo cum,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur
ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin
communi uita turbandú, ncquecogitatiouibus uagandum, nego omnino animus
contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus
attcrenda.Cædes peragunthomines, mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus
mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido
& dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat
purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen
ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum, ut
fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum,ut fis ad oés horas
liber, man fuctus,fimplex,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür.
Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit,neq; omnino mundú
cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat.
Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem,anilli, qui ac negubi,nequc
qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic, & feipfum ſpa cio unius horæter
execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is
probeturlibiipa,qui ferè om nium eorum, quæ egerit,poenitétia cor ripitur. Non
iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum méte
quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod cam
trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim
malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui
& conceflum eſt, ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad
meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius, uel caro.Nam etfi maximè
uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū, tamé principes noftrum partes,ſuum
quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non
Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe
uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim
eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo
Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis
per anguſtum in umbrofam donum immiffum. Recta enim im mittitur, &
diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit:ibi ucrò
permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi
oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta
impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet, & illuftretid, à quo acci
pitur, id quidem, quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit. Qui mortem
metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet, aut diuerfum fenfum, Quod& amitượt
ſenſum,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal,
neg amittetuitam. Homines unus alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer,
Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit, &in deliberatione
uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem cuiuſuis partem: præbet au
tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am principalem partem. Viiniuſtè agit,
impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer natura ratione prędi ta animantia eò
effecerit ut quantum eius dignum eft,unum alteri profit,noceatautem ne quaquam:
qui uoluntatem cius præua ricat, impius utißeſtin omniú dcorú primam.Acqui
mentitur,etiam impic tatisin candem dcam fefe obligat. Na tura enim
uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia interfecognata funt. Porrò
autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa. Quii. tagſtudiò mentitur,
cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò, p ab uniuerh natura
diſcrepat, &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer, b naturæ:repugnatenim
ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop quam iplius natura
ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót jam uera à fallis
diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan, quam bonum
appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà incufet
communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue
tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib. efficiútur eæ,poſsidet:boniuero
dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam qui dolorem metuit
mețuet aliquá do aliquid eorum,quçinmundo fient: įd uerò impium eſt.Rurfus qui
uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia:id uerò palàm impietas
eít, O portet autě ad ea,quæ natura in utraq partem æqualia effecit (nca cnim
utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe babuilſet)eum qui naturam
uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum,Ita & qui dolores
& uoluptates, mortem & uitam,gloriam & ignomini am,quibusæqualirationcutitur
natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro culdubiò impiè agit. Quod auté dixi,
Naturam communcm ijs exæquo uti, ita intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque
parté conſequentia quadam, iu xta antiquum prouidentiæ impetum, quo illa ab
aliquo principio ſe ad res i ta diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam
corum quæ ellent futu ra, deſtinatis quibusdam facultatib. ex quibus
nafcerentur ſubicctæ, muta ţiones, & fucceflus eorum, Gratiofius quidem
crat, hominem mendacij, fimulationis, luxus & ſuper biæ omnis inexpertum
mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita
quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem
fugias? Pestis enim eft ca intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris
quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus
uiuitillud: hæcho minum, qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni
camć conſule, quippe remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco
re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare,
uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe ctioncs, quas tempora
uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc utentis cft,mortem
ncggraucm,ncquc uiolentam, neg contemnendam rem exiſtimarc,fed operiri eam,
tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde atque nunc expectas, quando
fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda etiam hora, quaanimula tua ex
hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed taméquod corattingere poſsit,do
cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem efficiet, fi cogites, quales ij
fint à quibus diſcedas, & à quorum morum litanimus tuus ſeparandus col
luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút, nequaquam debes, ſed corum curā
gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum tamē tibi eſt,te ab hominibusnon
idem tecum fentientib. diſcedere. Hoc enim unam erat,quod poterat retinere in
uita', G fuiffet homini datum uiuere cum ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm
laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne
quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè
agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum,lædit. Sæpenu merò iniuriam
facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt certa de rebus fententia,
& a ctio ſocietatem humanam ſpectans, & animus ita affe & us,ut
boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt à cauſa profectum: hæcli
adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im petum animi, extinguendum
appetitú, &habendum paratam apudſeſc parté principalem. Vna uita brutis
animantibus eft dis tributa:unamens, rationem adeptis. Qucmadmodum una eſt
terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus, unum aêre trahimus. quæcáqucuidendi
& uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid habent,con tendút ad id quod eft
eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit,omnc item humidum, aut aërcum ad
ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea inde in tercludi.Ignis furſum
effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic igni aliquid eſtparatum
utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè i gnem concipiat,quia minus
eft in eius temperic id quod inflammationě pro hibeatItag & omnc, id quod
commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co gnatum ſuum contendit:atq etiam
am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ Itantius, tanto ¶țius ut
cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I taquc apudipla ſtatim bruta
inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones, atq id genusquali
amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret, apud
præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó
inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, &
domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex
diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora
conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem
habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon
uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc
coniun &tioncm,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis
autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid
nulli terreno adiunctum, quàm hominem ab homini bus auulſum. Fructumfert
&homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc: quòd lconfuetum cſtin
uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert
&communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est
ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem
tibipropterea datam: nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul
lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam,auxilium ferüt:adeò funt
benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec
ut qui uel miſericordia,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum
agere ſe cundum ciuilem rationcm. Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia
quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione
mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du
ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud
illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß
pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed
actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut
ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil
mali accidit fi dccidat,ncg bonum, quòdin ſublime effertur. Introſpice corum
animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent.
Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo
corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum,
ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali.
Tranfi nunc ad ætates, ut puericiam, adoleſcentiam,iuucatutem,ſenectam: horum
omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam,ſub
matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs,
quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ
finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam,uniuerfi,ac proximi:tuam,ut ea
iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas
fitnein ca igooratio,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad
explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem
complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam, tanquam finem
uel propinquum uel remotum refertur,illa uerò uitam inter polat,& unitatem
eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac
concordantia. Pue. rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co
efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa, čamgå materia
ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas.
Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat
facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid
talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil
eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle
debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia,
uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant, circulus ſunt rerum mundanaa rum,
quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi
intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id, quò ca ſe applicat:approba. Aut
ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid
unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem, que Deus fit, recte omnia
habent: ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu? lam nosomnesterra
occultabit:poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum
mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg
celeritatem, is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi rapit
omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones
iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum? quod nuncnatura
poſcit,cò con tende îi liceat, neqcura,an fit aliquis mortalium
hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto,G uel minimum
procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus. Mutat aliquis
illorum ſuum placitum? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus
gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum
et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue
ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm
ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit, ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ ſim-,
plex eft, & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat grauitaté.
Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia,omnis generis diuitias, in
tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata, quæitem
deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te uiuét:
horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum sciant,
mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt culpaturi.
Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria, aut aliquid tale. Vacuitas
perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt, iuſticia in ijs, quarū
actionum tu es cauſa: hoc eft impe tus animi, & actio, quæ finem habe at
ſocietatem humanam: id enim eft tuæ naturæ conſentaneum. Multa fup uacanea ex
hisq te perturbát,precidere potes,q tota in tua ſunt opinione fità, multūý
laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo cócipe,tuuğæuú per pēde, tú
celeré lingularú rerú mutatio. né.breue.f.efſe tēpus ab ortu ad interi.. túid
uerò q huncfequit,idó pillú prę ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime
interibút: hi quo,quieorú interitú ui dent, ipfi quog mox peribunt. Qui
decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co, quiimmaturamorte cadit. Quænam
ſunt eorum mentes, quib. rebus ſtudent,quæ habent in honore, quæ amant?iudicate
nudas ipforum in tueri animas.Cum uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe
putant, quæ cítilla opinio? Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio:
hacautem delectatur natura uni uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te.
Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt, licg eritin infinitum. Quid ergo dicis
omnia facta, & futura male. Ergo nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca
corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut perpetuis malis conflictetur. Vide quàm
putris ſit omniú rerum materia,aqua, puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ,marmora:fęces,
aurű & argentum:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi.
Eti am quæ fpiritu conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis
miſeræ uitæ eft, & murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris?
quid in hisnoui? Qui terret te?nú formala ſpicc cã.nú materia? afpiceilla.
Extra hæc nihil eft. Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus.
Idem eft Gue tribus hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit, malum apud
ipſum eſt: fortaſsis autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam
onteomnia progrediuntur, quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet
euentis totiusfuccenfere. Autato miſunt omnia,confufio, & diſsipatio; quid
ergò perturbaris?Menti tuæ dicis. Mortuus es?perijſti, efferatus es, ſimu las,
cs in cætu, aleris? Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil,cur non
compræcaris eos?Sin pol ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid
horum metuas, autexpe tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim
li poſſunt adiuua reij homines, etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in
meapoſuit pote ftate.Efto. Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti
libere, quàm de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc, animo
feruili & abiecto 9 3 k 3 Quis autem tibi dixit, deos non in his etiam, quæ
penes nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat
alius, ut cum aliqua cubet: tu petę, ne eius rei appetitustibioriat. Alius
petit, ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú:
tu, ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum
uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum
ſu is colloquia,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti
nenter.Eı rei ſe intentum, mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę
motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe
ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè
habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua.
Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis
uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum
ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia
offenderis,ftatim percótare teipfum, an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo
impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit:alio quin ipse
quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto,infideli,omnidenim
quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná firecorderis neceſſarioid
genus hominú efle, fingulos æquioré te prebe bis.Id quoq
utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú
dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū,
aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q
pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue
nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu
ra deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret. Quid
verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu
tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a
peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis
ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui
infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere.
Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem
feruaturum: aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis,
neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud
requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt,te tuæ naturæ conuenienter
egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus
poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné
facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem
adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus, & quid beneficij cótulerit,
aut aliud quid ege rit,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid,cuiusgratia eſt
factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando, ô anima,
bona, simplex, unica, & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto. Gu
ſtabis olim amoris affo ctum:plɔna eris,nullius indigens, nihil deliderans ncg
animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum:ncqtempus requires: quo diutius
fruare,neq locũ, regionem, aut aèris commoditatem, nec hominum conuenientiam.Sed
có tenta eris præfenti ſtatu, dele & aberis omnibus quæ cruntin promptu,
tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia cuareétè habere,omnia à Dijs
tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ tibi ad perfe&ti animalis
ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum, honeſtum,omnia generat at continet
& ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia exiplis exiftant. Eris
aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas, utne quid in ijs
repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua requirar, quippe qui
tātùm à natura gu berneris:id deinde fac &admitte, nifi tuanatura,qua
animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt, qd animalis natura
quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide terius tit habitura ea
natura, ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui lis, & rationalis.
His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum. Omni quod tibi euenit, aut ita euc
nit,ut tu laturuses, aut ſecus.Si como do, quo tuid ferre potes, non fer ægrè,
fcd utnatura tua te docet: fin cótrà, no litamen indignari, etenim ipſum peri
bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam,ut omnia feras ca,quæ an into
lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum uiſa, qua
id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes benigne,
& oftendere quid non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne
teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą
à conne xu caufarum fataliter tributum. Nam &quod tu es, et quæ tibi
cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc natura
mundus conftat, id primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra
gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris
partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram
eorum, quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti
prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id, cùm omnibu set có mune
naturis, tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca
cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi
cognatio quædam eſt cum partib. quę funt eiuſdem generis, nihil agam quod non
refpiciat communitatem, imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas
actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis,necefle eſt uitá
proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam
intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles, boniş consulentis
quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft,
alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit,nónne uniuerfum malè poſsit
perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim
natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ
ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit? Vtrung quidem non eft ueri li
mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item
ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad
mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut
indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in
ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ
ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram,aèrci autem in ae rem, ita ut
hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus
inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas
partesnon opinare ab ortu te habc re: omnia iſta heri & nudiustertius ex
alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero
matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil
rcuera,puto,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc,
bonus,uerecundus,uerax, intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta
nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in
telligentis indicari ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui
cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam
approbationem corum, quæ communis natura tribuc rit:altitudine animi,mentis
intentioné & ſublimitatem, ſupraleues & duros motus carnis, gloriam,mortem,
aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his nominibus præftiteris,non id
appetés, utab alijs ita appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam. Nam
talem te porrò elle,qualis hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari
&inquinari, nimis ſtupidi eft hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum,
qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen
hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues
& dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem
pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin
teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in angulum aliquem,utibi
uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero
ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté
memoriam illorú nominum retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis
deorum, atß eos nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia,
ipforum quàm fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi
ciumfacit: idem eft &hominis partiú. Mimus, bellú, terror,ſtupor,ſeruitus:
hæc quotidic delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum
hauſta circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir
cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó
ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando capies fru
&tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum rerum? quæ:
nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius natura ut du
ret, quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare autadi
Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum,aut fu cm,
aut urſum, autfarmatas,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs, quomodo
unumin alterum tranf mere. mPombaur,uiam ac rationem contempla di
parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil
eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in
telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum,torů
teipſum da iufticiæin actionib. tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum
naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne
ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto, ut & iuftè
agas in præſentia, & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc
cupationes,omnia ſtudiamiſſafac,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege
ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis
hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò procedendum.
Sın id nonintelligis, inhibendaactio, & optimis utendum confiliarijs.Quòd G
alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ fentes occaliones,animo
ci quodiuftú uidetur intento. Optimum enim eſt cú áttingere ſcopum. Quietus
fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus, & conftans eftis, qui
ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex teipfoftatim à fomno ex
pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt & reétè habent, in aliorum fint
poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es, illi qui aliorum fermonibus &
laudibusfeiactant,qua les in lecto fint,quales inméta quid? a gant,quæ fugiant,
quæ confectentur? quæ furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed
precioſiſsima ipforum parte,qua acquiri poteſt (ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo
nusgnius. Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus
dicit: Da quicquid uis, aufer quicquid uis. Ne que hocaudacia elatus dicit,
fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars:uiue tanquá inmonte.
Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in
urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué
tem.Sinon ferunt eum, occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam
præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis
uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum, & uniuerſam
natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum,temporis,tenebri
cóuer lio:1dý de ſingulis rebusindaga.Quem admodum exiam diffoluátur, finto in
mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione: utunumquodą ſuam ucluti
mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum
quiimperant alijs, ſuper biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli
paulò antè feruierunt, & qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid
prodeft, quod naturau niuerG fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit
quidem pluuiam terra: expetit autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus
in terram decide re,ita & mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei
adſentiri. Itag & hocfit, & dicitur fieri, quod mundus uultita
fieri.Authic uiuis, & te adſuefe ciſti, aut aliò te confers, & hoc
uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa
nimo. Semper fit euidens, hoc efſe agrú: 1 & quomodo omnia funt hieijs qui
in ſummo luntmóte,autin littore, autu. biuis. Omnino enim inuenies Platonis
illud, ftabulo in monte abditus: & ba lare. Quid eſt mens mca? ad quid nunc
ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum? cftne aliquid à comunitate diuullum? num
affixum & admixtum carni, ut il ludunàmPombaur? Qui dominum ſuum fugit,
fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt.
Acdolo-, rem aliquis,iram, aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod
facūeſt, uçlât, uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum
gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet,
dolet, aut irafcit, & fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo
abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit, & abſoluit facum,animaduerten dum
eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia
cauſaluccedens,ſenſum,appetitum,ui tam,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ
in tanta occultatione fiunt, co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft,ut&
eam quæ deorſum, & eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem
corporeis, fed haud minus tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do
omniahęcſint,qualia fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum,
quasuelexperientia uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá
Adriani,totam Antonii aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia
enimhæc, talia erant. Tantú per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei
caufa doletautindigna tur,fimilem efle porcello qui mactatur, & calcitrat
at grunnit, Similisetiã ei qui gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem
noftram. & quod ſolianimali ratione prędito datum eſt ut rebusque
cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb.
rereexteipfo debes, fitnemors mala, proptereà quòd ea re te fit fpoliatura.
Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim ad te reuertere, ac cogita quain fi
milire tu pecces: ut,Quòd argetum,uo luptatem,gloriolam in bonisducas. Id iram
mox obliuione delebit: accedat autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias.
Quid uerò faceret coactus? Tu; li potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem
uides,Socratium ti bifinge conſpectu dari:cùm Eutychen, Hymenem,uel Euphratem
cervis, Eutychionem, Syluanum, Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon.
te uiſo, Critonem aut Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne
limilem oppone. Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli? nusquam,autubicung.
Ita nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi
recorderis id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore. Tu aut in
quo tempore es? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam
materiam, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ
accuratè perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum. Perduraigitur,
dum eas res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi
effiçit familiaria: & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co
&fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur,
quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa
hibeat,nelisbonus&fimplex? Tibimo ftet ſententia,nó uiuere,nifi talis ſis:ne
que enim patiturratio te niâ talem. Quid Git, quod poſsit de propoſita materia
rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel dicere li
cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine ſolicitudiné, ita ſis
affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit actio in ſubiecta & ob
lata materia, humanæ cóftitutioni co ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe
cundú natură, p uoluptatehabendú é: licet aút ubią.Nam cylindro quidem non
datur,ut quouis loco feraturſuo,p prio motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs,
quęànaturaautanima rationis ex pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis,
& intercipiant.Mensautem, ſi ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re
poteſt ſecundum ſuam natura & uo luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos
ponens, g mens per omnia poſsit ferri, ficut ignis ſurſum, lapis deorſum,
cylindrus per decliue,nihilpræterea re quire.Reliquaimpedimenta aut corpo
reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú
afferunt malū:Alioquin is qui impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res
omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At
hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit homo, maiorique dignus į aude,fi rectè
utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis
eſt,nihil poſſe no cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic
nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum uerò, quæ incó moda autinfortunia uocant,
nihillegi officit:ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus,
ei ad recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum. quale
illud: Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum. Foliorum uerò
rationem obtinent &liberi tui, &ij homines qui acclamát &
collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè
repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po
ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris:pòſt animus ea
deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om nibus
eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis, paulò pòft
moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft,omnia uiſlia
cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio aliquo
oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia fui
generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus ad
omne a limétum paratus debet effe,inſtar mo læ, quæ ad quæcunque molienda para
ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed ea ģ
hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius actiones,
ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft adeò
felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam, qui malú quod ei obtigiſle putatur,
haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad extremum
aliquis dicet fe cum, Etipfe aliquando reſpirabo-ab hocpædagogo.Nulliquidem
noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab coſperni. Hæc de bono uiro
dicentur. ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter quæ multi ſunt, qliberari à
nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us diſcedes hinc, reputans te ex ea
uita abire, ex quaijipli q ei' ſunt participes, quorum gratia táta
certaminafuftinui, precatus ſum,pcuraui,meuolüt migra re,fortaſſe aliquid
meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic mo rari quæras? Nihilo tn
minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami
cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la
facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib.
nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias
ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç
fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu
quorſum hocrefert? A teipso facinitium, teg primo examina, Memento facultatem
motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita
dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc tibi
afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata funt.
Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm
radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi
ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult,
efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg
etiam animalium, alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit
terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit,
ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta: fed is animus omni in parte,
ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum
reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum,
eiſ inanc circundatum,figuram eius, infini tatem qui, certis conuerlionibus con
Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum
aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius
nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía
præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria,
amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem
ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem, &ra
tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam,faltationem, & pancratium contemnes,
Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex
teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem
dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib.illis quæ nonfunt uirtus, nec à
uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in
cótemptum adducere: ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia
quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl
diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit, à peculiari iudicio uenit: non ut
fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra
tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione
per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem
ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam
fic hocratione? Si contempler, partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā.
Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus
ſolent, eam eſſe.rerum naturam, ut liceueniant.At uerò quib. in ſceną
delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro? Vide. ris
quidem,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama uerunt.
Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur, quale eſtil ludin
primis.: Quod li dijmenegligút, &liberos, Rationem habet illud.item. Nam
reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag id
genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ accommodatam
habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu extolleremur. Cuius
fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media quædã comedia &
ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem, a ad ſtudiú artis imitando
oftentandæ. Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur: fed tota
huius poëſeos & fabularum,ſcriptionis intentio qué nam finem reſpicit?
Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad philofophádū,ut
eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an & à tota
arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà toto excidiſſe
cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo feparat, cum eum
odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate ſecadéroeabrumpitur.
Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté cóftituit,ut rurſum adcre
ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi hæcauullio fæpius admitta
tur,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile pofsit id quod erat auul
fum:tum uerò, quòdfatent plátatores, non eadem eſt ratio rami qui ab initio
floruit cum arbore,manfitgin ea,&e. ius qui amputatus;rurſus deinde eſt in
fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi nonidem cum omnibus ſentias.
Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti impedimento funt,ut auer tere teà
recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga ipſos beneuolentia depel
lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò iniudicado cóftantia, &
agédo, fed &aduerſus eosqte phibere conantur, aut aliâs indignantur,māſue
tudiné tuearis. Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci, ô defiftere ab actione,
& concideremetu perculſum: utrunque eft eius qui ordinem ſuú delerit, quod
alter mctu facit,alter odio cognati fibi, &amicinatura. Nulla natura arte
inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ imitatrices. Quodſi eſt,utiq
naturaomnium perfe & tiſsima &omnia compræhendens, ar tium folertiæ
nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú gra tia faciunt uiliora:ergo
& cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ: ab hac reliquæ uirtutes
dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte na tura neqz bonis nec
malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli ues erimus: Non ueniunt
ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed tu quo dam modo ad eas
accedis:iudiciumita la que deijs quieſcat,ita etipfçquieſcent, & & ne
ſequeris eas,neg fugies. Animus globo ſimiliseſt, figuræ æ quabilis, quandones
effertie, negcó trahit,ſed luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem
cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo: uiderit. ego ibi curabo,nequid
contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus
ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo.
100 god m oftendēdos alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut
patientiam o ftentem meam, fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi
idip ſum præ ſe tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs
conſpici hominem nullam rem indignè ferenté, autquiritantem. Quid enim mihi
mali accidit,fi alius id agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id
quod nuncnaturæ uniuerfi eſt opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni
utilitati inſeruias? Qui contemnunt fe mutuò, ijdem mutuò ſe demerentur: &
qui mutuò de primatu contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, &
fallusille, qui dicit: Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis? non erat hoc
præfari opus: ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe
fermo,acftatim ex iplis oculisapparere: Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum
ſui ama fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet
aliquld fi mile habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate
depræhendat. One tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ:neq uerò quicộ
turpius eftfubdo lis acinfidis congreſsib.Hocoím maxi mè fugito.
Bonus,fimplex& manſuelº uir,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè
uiuédi facultas é in tuo aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in
nullo ponas diſcrimine. Id fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim,
& rationetotius,memor nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare
opinionē, negadnos ueni re: sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q
deijsiudicia faciamus apudnos, easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío
no depingereillas, aut fihoc oío ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis
attétio hæc eſt, indefinis erit uitæ.Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant?Quęli
ſuntſecundú naturam, gaudeillis, & erútfacilia:ſincótra natu ram,quære quid
fit tibi fecundum natu ram,atpid contéde et si gloria careat.
Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde uenerint omnia, ex quib. conſtent,in
quod mutentur,qualia fint inde futura,tum nihilmalicis accidere. Primùm, quis
mihi ad eos reſpectus. Nati fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione
natus fum utipfisprę ſim, ficut aries gregi, aut taurus ar mento. Rem altius
repetc. Sinó conſtat mú dus ex atomis, utią natura cum guber nat. Quod fi
detur, utiq deteriora præ ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum.
Deinde, quales illi ſunt in menſa,le cto,alibi?Maxime autem quib. illi funt
neceſſariò opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft.
Sircctè faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum: ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione
peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum
uno quoli betut eſt dignum,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti,
ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis
delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha
bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut
aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an
peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm
certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men
uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones
ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis: fednoftræ
opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala: limul
ſuſtuleris iram.Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem
turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis
peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt
dolor & ira,quam obaliorum pecca: ta concipimus, quam ipla illa, ob quæ m 3
raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo, li genuina fit, no adſcititia aut
fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi
conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat, placidè eum hor teris ac
doceas eo ipſo tempore, uacás huic reitum, cùm is te lædere nititur. Si dicas,Noli
fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia pertè &
integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta funt natura
animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi caufa
hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti uidearis,
acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi
alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono
accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis. Tam vero cavendum ne
irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et
damnosum. In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem:
id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem:
quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or
eftmanſuetudouacuitati affcctuum, tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in
impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor
rexit. Quod fi lubet, etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani
eſſe,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó
pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et
tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis,
inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum,hocfacit
ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere,
inter abfurdiſsima eft reputandum. Quartum: tibiipa ex probra, eſſe hoceius,
quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti,
corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ
quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt
ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te,
& humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in
fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per
uim, manent, donec diſſolutio. nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur iniquum
lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil
ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non
ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu fticiam,luxuriem iram,dolores,
& me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid
corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem
& pietatem cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam: quia & hæ
(pecies funt uirtutum,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam
antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum
habet fcopum, is unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id
quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum
enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio,ſed quæ eſt certorum
quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens
eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones
ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum
huiusý pauorem & fugam, Socrates, & uulgi opiniones,Lamias
uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede
adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates Perdiccæ
quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu
peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum
literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex antiquis,
qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se iubebant,ut
recordemur eorum,qui femper fuum officium præſtant: ité or dinis,puritatis,
& fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum. Memento qualis
fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte fumpta
procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc affectis, ac recede tibus, cum
uiderent eúin iſto ornatu. Núquàm fcribere &legere alios do. cebis: nih
ipſe prius didiceris: id multò magis inuita eſt præſtandum.Seruus es, ratione
cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit. Virtuti grauibus facient conui cia
urbis. Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale eft puericiam quærere præteritam.
Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo fe collocutum dixit. Fortaſsis
cras mortem obibis. Abo minaris hoc: nihil dictu graue cft, ingt, quod aliquod
opusnaturæ defignat:ni ſi abominere, quod fpicæ'metuntur: Vua primùm
cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin nihilum,
ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars
autem, aitidem, in ueniéda eft in adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita
uthabeátautadiun ctam exceptionem, spectét societatem et dignitatem. Cupiditate
omnino abſtinendum çít, neque inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq,
inquit,non de leuire,ſed de in. fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne
compotes rationis animos habere, aut non?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos?ſanos.
Cur ergo nó quæritis? Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ
per circui tus temporum adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides:
hoceft, Siomneid gpręte. rijt,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò
quod præſens eſt,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam: alte ram, ut boni
conſulas ca quæ tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram, ut
liberè ac fine ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut
dignum eſt. Non impediat autem teneg aliena malitia,aeg opinio,ncß vox,nequc
fenſus circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu
cùm fis,tantummentem tu am,idç quod eſt in te diuinum,uenera beris:neo morrem
metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus
mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua, admirans
ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia
mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola
enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac deriuata
funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies, ne ita
circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam, occupaturin ueſte,
domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo contemplando. Tria
ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum ea ratio ne tua
funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod si separes à
te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura pturbát, aut quæ
corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam uolunta tem accidunt,
ac quæfluctusexterna. rum rerum uoluit:Ita ut intellectus ab illis rebus, quæ
fato una sunt, exemptus libera apud feipfam uitā uiuat, agensiu Ita,probás
euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ
adhærent, itemģfutu rum & præteritum tempus, efficies ex tcipfo globú,
qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú
uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet, ut ad fine ufo ui tæ tibi
ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,& geniū tuú pbás atq amās
exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei, q homi nes cùm feipfos
magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe exiſtimatio nem minoris ducant
quàm aliorum. Quòd fi quis Deus,aut prudens præ ceptor mandet, ne quid homo
apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim lit prolaturus, certè
ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid proximus de nobis fit
exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit, quod Dij, cum oía pulchrè &
humaniter ordinauerint, hoc unu neglexerint,quod nonnullos homines apprime
bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem quaſi teſſeris fecerunt
teſtatam,unuinig lele familia res multis pijs actionibus et facrificijs
effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia extingui finunt. Idaute
Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,& aliter fieri
expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum, erat utiq etiam poſsibile: ac di erat secundum
naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si tamen non ita
habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft fie ret.Vides
enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc. Atqui non
hocmodo cũ dijs colloque remur, nili cos optimos eſle &iuſtiſsi mos
putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè accontra
rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de
ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis,propterca q non
conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete
corripiecmorscorpore et ani mo?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft
te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis
nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors,
gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia
opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ, nó
gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper
habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt,
diuiſione earum facta in materiam, formam et respectum. Quanta est potentia
hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia
quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt
culpandi, nam nex volentes,neg inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt
& perigrinus, qui ratur ca quæ in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas
fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia placabilis: aut confufio
inanis & nul lum habés pręfectum.Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid
reluctaris? fin p uidentia quę admittit placationcm, dignum præbe teipſum
diuino auxilio. Sin confufio eft, cui præſtnemo,conté tus eſto, gin tanto rerum
fluctuipſe in te habes mentem: quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè
corpuſculú, animu: lam,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen
candela tanti ſperluceat dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas
autem in te et iustitia et temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis
deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú? ac fi
peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net, ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere
oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius limiliseft, quinon uult ficum in
ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare, equum hinnire: acli quz ſunt alia
neceſſaria.Quid enim aliud faceret, quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur
trux eſt, cura eum morbum. Sinon conuenit,neagas:& non eſt uc rum,ne dicas.
Tui animi motusita Gint compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita, quid fit quod
cogitationem tibi commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum,
tempus, intra quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te
præſtantius ac di uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent.
Quid enim est intellectus? nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid
aliud tale? Primò cogita nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò
referatur: deinde, ut non aliò ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post
nusquam eris, nec quicquam eorum quæ núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt.
Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur, vertatur et pereant, ut in eorum locum alia
na ſcantur. Omnia opinione cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu
bet,opinioné,eritộtibi tanĝ pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu
etibusuacans. Nulla, quçcung ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re
definat: icutnesis, qui agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus
omnium in uniuerſum actionú, quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea
rationcpatitur:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd'
fecit. Tepusucrò debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim
utin senectute. Oio aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem
perrecens & uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum,
o códucit uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit
turpis: quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona
aútfit: cú & opportune fiat reſpectu u niuerli, & profit,
&diuinitus accidat. His cogitatis, tria hæcin,pmptu habe. Primúut in agendo
cures, ne quid fru Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus
extrinſecus accidentib. easfortunæ nutu,aut puidétiæ obtigif fe:quarú neutra
éīcuſanda. Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam
accepit,indeý,donccca reddidit:ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur.
Tertium,ſurſum elato animo humanas res intuere, earumý multiplicem uarietatem:
quàm multa circùm in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum, quoties in
ſublime attolla ris: utſintomnia.unius ſpeciei, & breui tempore durent.
Hisne superbimus? Eijce opinionem, & faluus es. nemo id prohibebit. Rem
aliquam moleftè ferés, oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā;
&quod peccatum fit alienum:præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta
effe, & futura,núcý fieri ubiq:item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho
minú coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus
es etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium
effe, ſed illinc & fætum, &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli
t'es oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, &
amittit. Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati,
qui maxima gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút.
Deinde quære, ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne
hoc ipsum quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius
Cattullinus rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius
Caprei, Velius Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus
ftatutum.Tum quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit
philofophięconfenta neum, in data materia tueri iuftitiam, modeſtia,ac
fimpliciterdijs obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando
exercetur, omnium eſt gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos
uideris, aut elle deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde
absqz hocſit, tamen animam me am cum non uideam,nihilominusma gnifacio:ita
Deosquoq ex uiribus co rum quas identidem percipio,cùm eſſe intelligo,tum
ueneror. In cò ſita eſt uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in
iis formæ sit, quid materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim
superest, q ut fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium
intermittas. Vnú eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs
innumeris rebus. Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib.
infinitis diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio
nibus diſtributa uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di
ctorum partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé
nihilcóiunctio nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia
continentur.Atpecu liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis,
neo a societate divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere,
loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad
extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic
instituto pugnat, ægrè ferre aliquid, an uerò morsid abolet? Quanta pars
immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit.
Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc
omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum, ut ductu naturæ
agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa
utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus,
mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét,qui dolore in
malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid
tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum, ac cui perinde eſt pluresne an
pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit
diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua
eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum
quinquénio? Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave
accidit, si te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura
quæ te introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod
cum introduxerit. Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital
fe, recte dicet. Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is
determinat, qui et concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor.
Tuneutrius es causa. Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit,
propicius tibi est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi
e'l non adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia
virile. Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il
contenerini non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero.
Ancora la semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso.
Appresi dal bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in
casa di buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere
senza risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani,
ne co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di
poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter
le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò
chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di
altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si
fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI
FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside,
Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni
letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar
in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura,
di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE
SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore
ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la
rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per
casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui
medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio
reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che
errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi
di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in
dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi
d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con
franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître
por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori
più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo
di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo. Era egli
non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara
mente l'infima delle ſue doti la pratica, e ſpedita maniera dello ſpiegare i
Theoremi. Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie,
ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola
piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di
viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen
te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza
conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione
aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in
quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli, che feco erano: E di più
yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime
neceſſarie al viuere. Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto
maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua
gli altri, ma ſenza ecceſſo; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da
Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente, ſe al
cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua; ma con
bella maniera ſuggerire quel tanto appunto, che ſi douea dire, apportandolo per
cagione di riſpoſta, di confermamento, o di conſiderazione ſopra la coſa
ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo, e coperto
auuertimento, 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e
la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie.
m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne ceflità
il dire, o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal modo
ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli, che
con noi viuono ſotto preteſto, che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non
havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli;
maprocurare di ritornarli nel solito stato; CO, sì ancora di celebrar di cuo re
li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto:
Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero
l'affezione verso i domeſtici; l'amor della verità e della giuſtizia. E per fuo
mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO BRUTO;
c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica, con leggi eguali
a ciaſcuno, e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà de'
ſudditi. Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za nel
PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza e la
liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di esser
AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro, che
conosce la meritassero sicchè a quelli, A 5 che gli crano caduti di grazia non
lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello ch'egli
voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu eſortazione
di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in cosa alcuna ed
esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle malattie. Esser
ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza querimonia esecutore
delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA COME SENTE e che nel
fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua: in niuna cosa e
frettoloso o tardo o perplesso, i ne s'at accdioso o si faceva befe fe o vero
era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e pare ch'e'e
più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai alcuno si tene
da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e ſe fu faceto
fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO PIO, la mansuetudine
e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare, di non esser
vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica, operando di
continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir cose PER
UTILE COMUNE, Iin mutabile in dare a
ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser discreto
ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto
con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI
AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero
per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima
Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni
sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a conseruarsi
GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si contenta
d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo, e preordinando di lontano,
eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno ne
acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato,
e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza
se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii
ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in
tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che
conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli
tera stata liberale;vfaua ad un’ora senza fasto, e iſchiettezza, dimodo ch'egli
godeua indifferentemête del le preſenti, non bramando ciò chenon haueua. Non vi
fu alcuno; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o pedante; mavn
perſonag gio maturo,perfetto,ſuperio. re alle adulazioni, capace a gouernar ſe
ſteſſo e gli altri; ed oltre ciò onoraua quelli, che veramente eranoFiloſofi;
tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle conuer fazioni huomo
compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio corpo tene ua cura
quanto conueniua, non come huomo del tutto dedito a prolungare la vita, o per
fare il bello, però ne meno con traſcuraggine, ma in maniera tale, che col
propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di medi camenti, o al di
fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia a que’tali, ch'e rano
dotati di qualche facul tà, come a dire, o di ben lare, o dinotizia per via
d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre fi fatte co ſe; anzi
ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to acquiſtaſſe nome e crediato.
E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti de'maggio. ri,non perciò veniua ad
appa fire rigido guardatore dell' antichità, non efſendo amico di muouerſi
leggiermente, ſuariare,ma di diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari. E
dopo i paroliſmidem dolori di teſta tornania ſubito freſco, e vigoroſo alle ſue
ſoli te operazioni.Egli non hauea ua di molti arcani, ma po chiſſimi, molto
radi, e queſti ſolamente circa gli affari del comune. Andaua con pru denza, e
miſura nel conce dere gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij,
e ſimili opere, fi come colui, che riguardava a quel to, che conueniuà di fare
e non alla gloria, che dal te coſe fatte ne era per ri fultare: Non vſaua bagni
fuor di tempo,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di
teſſiture, etine ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za. A
Lorio ýſaua la tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa, e così sſana ordinariamente
per Lanuuio: ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro; e di tal licen za ne
faceua come ſcuſa. Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc,
non iinmodefto, non eccedente nelle ſue azioni, ne comeſi dice in prouerbio,
Infino al ſudore; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte, come
ſe foſſero fatte a bellagio, placidamente, or dinatamente, con ogni vigo re, e
conſonanza fra diloro. Onde a propoſito di lui ſi po teua dire, ciò che di
Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe, delle
quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono, e nel goderle ſi moſtrano in
temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe, e lo ſtar ſaldo, e sobrio nell'vno e
nell'altro, è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato, ed inuitto, come ſi vide
nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto buoni auoli,
buoni genitori, buona ſorel la, buoniprecettori, buoni dimeſtici, parenti,
amici, e quaſi ogni coſa buona: che, niun di loro inconfiderata mente io
offendeſfi, benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto il caſo,
io vi farei traboccato. Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui tal
combinamento di co le, che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che io no
foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo, come
dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi
d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo
che io peruenni a quell'età: L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre, il
quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può
viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie, le veſti ſegnalate, le
cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato; ma che ſia
lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi, o de primerli
per far quello, che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno ·
Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le, che poteua co’ſuoi coſtu.
mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo, mentre in-: fieme con l'onore, e
con l'a more mi ricreaua: D'hauer hauuto figliuoli d'indole non tralignante, ne
di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori progreſſi nella
Rettorica, e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij, ne'quali for fe mi ſarei
troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente m' auanzaua: Che
io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori, concioffiecoſa che
mi pareua eli lo defiaſſero, non nutrendoli di ſperan za, come che cffendo ano
cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era per fare: Parimente
d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico, e Maſsimo: Che ſo uente, e
chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma della vita c011
ueniente alla natura. Onde', per quanto appartiene agli Iddij per le
ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è ſtata coſa,
che mi tolga il viuere rego lato alla natura, o che'l man camento non proceda
al tronde, che permia colpa, e per non offeruare io gli au uertimenti, de'quali
fui da lo ro come addottrinato: Che: il corpo mio fia durato nella ſorte divita,
che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato ne a Benedetta, ne a Theodoto;
mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho conferuato la men te fana: Che
ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io no fia traſcorſo tantoltre, che
me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia ma dre era per morir giouane, io
viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni ſuoi.Ogni vol ta che io habbia
voluto fou uenire il pouero,o qualunque altro biſognoſo, non vdij mai che i
denari, co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero; ne mai accadde tal’vrgenza, che
io da altri gli accattaffı. D’ hauer conuerfato con vna moglie tanto riuerente,
tan.. to amoroſa, e tanto ſchietta: Che ho haluto buona forte negli educatori
per li figliuo li: Che in ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin
cipalmente quello allo ſputo del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi
la grazia in Gaeta ed anco in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto
della Filoſofia, non m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua
dernare ſcartafacci, ne in or dire, e ſoluere fillogiſini; ne mi ſmarrij tra le
quiſtioni meteorologiche. Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e
dalla loro for tuna; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di
bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale,
che ſia o importuno, o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso, o nemico
di ogni comunanza. Tutti queſti difetti prouennero in eſsi dall'ignoranza del
bene', e del malc; ma hauendo io notizia della natura del be ne, che è
l'eſfer'oneſto; e del male, che porta al no oneſto; ed eſſendomi inſiememente
nota la natura di chi nel male pecca, poſciachè egliè a me, cõgiunto no tanto
per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto per la mé te, la
quale è comeporzione, della diuinità, ne ho da trar re conſeguenza,che non pof
lo rimaner leſo da alcuno de detti difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi
auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e non ho da ſdegnarmi con chi è a me
congiunto neodiarlo, im perocchè ſiamo fatti a fin di cooperare, come li piedi,
le mani, le palpebre, e de i den til'ordine di ſopra con quel di ſotto. Il
contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro all'iſteſſa natura, e l'adirarſi,
e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di
carnuc cia, ad vno ſpiritello, ed al la parte ſuperiore, ch'è la mente. Laſcia
da parte i libri, ne coſa alcuna ti diſtragga. Ciò non t'è permeſſo: ma co me
sul'orlo della morte ſprez za quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio,
oſſetti, ed in vna teflitura tramata di nerui, venette, ed arterie. Conſidera
ancora che ſia lo ſpirito? aura che mai non ri mane ľifteffa; ma ognora B fuori
ſi ſpira, e reſpirando di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è
quella, che ci gouerna, circa della quale così hai da diſcorrere, Se' vecchio
non hai da com portare che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per
violenza ſtraſcinata dall' im peto, ch'è alieno dall'huma na comunicazione; e
che non fi prenda più faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in
auuenire. L ' opere degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della
fortuna non ſono ſenza concorfo della natura, o del la coordinazione, ed intrec
ciamento delle coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce.
Aggiugni anco ra, che così èneceffario, conferendo all' vniuerfo Mondo, del
quale tu se porzione e ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la
comu ne natura; e ciò che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano
il Mondo così le mutazioni degli elementi,co. me quelle de compoſti. Que Ite
coſe a te ſieno ſufficienti, e perpetui decreti. Caccia ľ auidità de'libri per
non mori re fufurrando, ma con vera placidezza, ringraziando di tutto cuoregl'Idddij.
Ammcntati da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante
volte de termini, a te aſſegnati da gl'Iddij, non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta
che tu riconoſca di qualMon do ſij parte; e da qual Rettor del Mondo deriui: E
come ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo, il quale, ſe tu ben non te
ne varrai per tran quillarti, trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più.
2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo
forte, e maſchio, ad ele guire quello, che hai tra ma no, con attenta, e non
affet tata grauità, con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa a te
ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione; E allora la rimouerai, quando
facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita, lontana però da
ogni temerità, e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione, dalla
diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo, e da qualſiuoglia diſpia cenza alle
coſe a te per fatali tà congiunte. Tu vedi quan te poche ſiento quelle coſe, le
quali poffedendo, potrà vno viuere felice, e diuina vita; poſciachè gl'Iddij
niente di più domanderanno a colui, che queſte tali coſe oſſerua 3. Rimprouera,
o anima,rim, prouera a te ſteſſa, come t'è ſcorſo il tempo per propria mente
honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge;ela tua è già quaſi su
I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione degli ani mialtrui. 4 Perchè
fe diſtratto dagli ac. cidenti ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura
del l'ozio a te ſteſſo, per appren dere qualche bene; e ceſſa da aggirar la
mente. Inoltre hai da guardarti da vn'altro ſua. ria mento: Imperocchè alcu, ni
quaſi delirano con le loro aziani: cioè quelli, che tra uagliano aſſai nella
vita, ne hanno fine certo, doue indi rizzino ogni inclinazione, e tutta quanta
la loro imma ginazione. $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice, perchè
non comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno
quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti
ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij
vniuerfali, e quale la propria; ecome ſi riferiſca quefta a quella, equal parte
ellaſia, e di qual vniuerfo: E cheniitno impediſce, che tu del continuo non
facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura, della quale tu ſe'parte.
Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione de'peccati, fe
condo che più comunemente fi vſa tal paragonc, afferendo efſer più graui quelli,che
per la concupiſcibile fi commer tono, di quelli, che per l'ira fcibile.
Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto raggricchiamento dell'animo
pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli, che pec ca per la
concupiſcenza, vin to dal piacere, dimoſtra che in certo modo più da intem
perante,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta mente dunque, e da
filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con piacere, che qucgli,
che pecca con dia ſpiacere: E in ſoinma l’ynos" assomiglia più a colui che
per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria, e che, forzato dal dolore, entra
in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare ingiuſtamente, portato
a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da con durre P opere, ei
penſieri, come tu foſſi in punto per vſcir di vita. Ne il dipartirti dagli
huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I & dij, quefti non
poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero, o nonhaueffen ro
alcun penſiero delle coſe humane, che mi giouerà di viuere in yn Mondo manche:
uole degl'Iddij, e doue mans chi la prouidenza?Ma e gl'Id BS dij cifono, ea
cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non cadetle in quello che
veramente è male, il tut to ripoſero nel ſuo volere. Nell'altre coſe, ſe vi
fofle del male, haurebbero pure in torno a queſto prouueduto, a cagione che
niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non può render la perfo na
peggiore, come potrà far peggiorela vita ſua?La natura dell' vniuerfo ne
ignorante mente, ne ſcientemente, ma per non poterle preferuare,ne taddirizzare
le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì enormepeccato, oper
mancanza del potere, odel fapere, che i beni, eimali ac cadano vgualmente, e
indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi;giacche la morte e fæ vita
la gloria e'l disonore, il trauaglio e I pia cere la ricchezza e la pouertà; e
così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini si buoni, si cattiui, non
hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del difoneſto; dunque non portano feca
ne bene, ne male O come il tutto ben pre fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi,
e dopo anche col tempo le memorie di effi fi dileguano. Di tal condizio ne
fonotutte le coſe ſenſibilis e ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere',
o che atterriſcono col tranaglio, o per lo faſto ſono applætrdite, quanto
fonovili,diſpregevo Li, fordide, e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti?
10 Tocca alla facultà intel lettuale l'auuertire, che coſa fieno quelli, nelle
opinioni, e voci de'quali fi conftituiſce la gloria: Che coſa ſia il morire; il
quale, fe alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente; e conla diſgiunzione
della con: fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono
rappreſentate, com prenderà non eſſer altro, che yn opera di natura: Onde da
fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura; e pure il morire non ſolo
è opera + zione della natura, ma molto a quella conferente: Come s? vniſce
l'huomo a Dio; e con qual parte di ſe, e con qua ! maniera ancora tal
particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta. II Niuno è più miſerabile di colui che
s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice
fin nelle viſcere della terra; e an cora va cercando per con ghietture quello,
ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di
paſſarfela bene col ſuo genio, e riuerentemente ſe condarlo, eſſendo dentro di
lui. Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni,
dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da
gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la
virtù s? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la congiunzione
della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di compaſſione, per
non conofcere il bene, e il male; ne queſta ignoranza è minore dell?
offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che tre mila anni
ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia', nondimeno
ricor dati che niuno perde altra vita, che quella, cħeviue', ne altraviue;che
quella cheper. de.. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita funghiffima,
comela breuiffima. Perchè quello, ch'è preſente, a tutti & vguafe,benchè
quello, ch'è perduto, a tuttinon è va guale; ecosì quello, che & perde,
pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro da niuno ſi
perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha, come può eſſere tolto da veruno?
Però dique ſte due coſe è da ricordarſi: l'vna, che dall'eternită tutte le cofe
fono ſtate ſimili, vol. tandoſi in giro, e non v'è niu na differenza, ſe per
cento, o per dugento anni, o pure per tempo indeterminato vedrai le medefime
coſe: La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi mamente ville, come quegli, che
preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella perdita, mentre non vengono a rima
ner priui, chedelpreſente, il quale ſolo hanno, eciò, che non fiha, non ſi
perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che appariſce mani feſto dalli
diſcorſi con Monimo Cinico. E chiaro farà l've tile di queſti diſcorſi, ſe da
quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia ſe ſteſſa l'ani ma
dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera fua, diuenta
yn’apofte ma, o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal volentieri prende
quello, che il tempo porta, è vn ' diſtacs camento della natura, in par te
della quale le nature di cia. fchedun degli altri ficonten gono:Secondariamente,quan.
do ſi ha auuerſione a qualche huomo, o ſe gli opponeper danneggiarlo, come
fanno que', che ſi adirano: Nel ter żo luogo tratta male fe me deſimaallora,
che ſi arrende al piacere, o al dolore: Nel quarto, oue diſſimulando fina
tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa, o dice: Nel quin to, quando non
indirizza l' azioni fue, eiſuoi moti à niun ſegno; ma opera a cafo, e ſenza
congruenza; effendo neceſſario che ancora le coſe minutiſſime habbiano rela
zione al lor fine. Ora il fine degli animali ragioneuoli è di ſeguire la
ragione, e la leg ge della Città, e dell'anti chiſſimo gouerno. Il tempo dell'
humana vita è vn punto: la ſoſtanza fluſſibile: il ſenſo caliginoſo: e la
coagulazione di tutto il corpo facile a putrefarſi:lani moyn continuo rigiro:
la for tuna difficile a conghietturarm fi: la fama vna incertezza E per recare le inolte parole in vna: tutte le
coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani ma vn ſogno, e vn fuina d'ac qua:
la vita yna guerra, e vor pellegrinaggio di vn viandan. te: e la famapoftuma
farà di menticanza. Checofà è dun que, che pofſa fare durare 1 huomo Una sola la Filosofia; e queſta conſiſte nel con
feruare l'interno genio inno cente e ſenza taccia,ſuperio re a ' piaceri, e a '
dolori; che niente operi temerariamente, ne con bugiane con finzione: e che non
habbia biſogno, che altri faccia, o non faccia. In oltre, che ben ricetia ciò,
che auuieneso impoſto gli ſias come di là tutto auuenga, donde egli medeſimo è
ve nuto; e ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena, non: nonla
confiderando, che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia
animale fi compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua,che
ſi fa di ciaſcuno di eſli in vn altro, per qual ragione hafli a temere la
mutazione, e il di fcioglimento di tutti inſie me, giacchè è conforme al la
natura e niente è male, eſſendo conforme ad effa? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt
gde jeunesse eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno
in giorno conſumando; e che di eſſa ne rimanc il meno; ma quel lo ancora fi
vuole andar ri penſando, che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio,
pur reſta quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in
telligenza degli affari, e di quella ſpeculazione, che ri chiede nel trattare
le coſe humane, e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen. zura l'huomo a
delirare, non perciò gli mancheran forze, ne il reſpiro, ne la facultà del
nudrirſi, ne l'immaginatiua, ne gli appetiti,ne ſimili altre potenzc; ma
s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere, e
di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente
ſpiegare i con cetti dell'animo, e di confi derare altrui, fe tal volta debba a
ſe medeſimo dare la morte; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i quali
per ben riſoluere richiedel vn perfetto, e raffinato di ſcorſo.E'dunque da non
iſtar fone a bada, non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa, ma perchè
in oltre il ra ziocinio, e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano innanzi
alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal la natura
prodotte ſoprattuie ne, aggiugne loro yn certo che di bellezza, edi grazia;
comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce, infrangonfi, e in varie guiſe
apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta, che fuor della creden, za, ed
arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono P
appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia; e allylive
ſtagiona te, mentre principiano a pu trefarſi, fi viene ad accreſcere in tal
particolare alletta mento: le ſpighe, che per lo pelo s' inchinano, il ſopraci
glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo, e altre coſe,
delle quali, ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe, appariſce lontana da ogni
bellczza,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a queſte orna
mento, e agli animi deri guardanti diletto; Ondechi ha l'affetto e la
conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo, quafi
niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come neceſſarie
pendi ci, che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E così i veri
digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà, che quelli,
che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no rappreſentati; e vn certo
vigorc, e vna certa maturità d'vna vecchia, o d'vn vec chio, non che la venuſtà
de? fanciulletti, potrà con ben purgata viſta rimirare; e mol te ſimili cofe,
che non ad ogn’vno ſaranno accette; ma ſolo a colui, che finceramen te
ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà internato. 3 Hippocrate, che
haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli ſe nemorì: I Cal-, dei a molti
prediſſero le mor ti, ed eſſi poſcia furono dall: ora fatale portati via: Aler
ſandro, Pompeo, e Caio Ce fare, hauendo intiere Città del tutto, e tante volte
di ſtrutte, e tagliate a pezzi in battaglia molte decine di migliaia d'huomini
tra fanti, e caualieri, eſſi ancora alla fi ne vſcirono di vita: Heracli to,
dopo hauer con diſcorſo naturale trattato dell'incen dio del Mondo, gonfio le
vi ſcere d'acqua, rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni: Democrito da
i pidoc chi, Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti?
Entraſti in bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora, e ſcendi; ſe pervn'al tra
vita, iui ancora faranno gl'Iddij, eſſendo quclli per tutto "; ſe reſterai
ſenz'alcun ſenſo, ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri, e
di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore a
quello, a cui ella ferue. Poi chè queſta è la mente, e il genio, doue quello
terra, e putredine. 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti riinane nel
darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non riguardino all
vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te aliena, ro
fiſticando, che faccia il tale, cd a qual fine e che dica, o penſi, o macchini,
e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall' offeruanza della parte,
ch'è la propria di cia fcuno reggitrice. Concioffie coſa che biſogni nel
diuilare ľ immaginazione, sfuggire ogni penſiero intempeſtiuo, e vano, e molto
più quello, che habbia del vizioſo e del maluagio: Alucfare ancora vuolſi ſe
ſteſſo a penſare ſolo a quelli particolari,de' quali, chi all'improuiſo
t’interro gaſſe, che penſi tu adeſſo? tu polla con franchezza riſpon dere,
ſenza interporre tempo di mezzo, queſto, e queſto; dalle quali riſpoſte ſubito
manifeſtamente appariſca che i penſieri tutti ſono in te ſchietti, manſueti,
come conuiene a i viuenti per l'hu mana comunicazione; e che, tu non ſei
applicato ' a i piace ri, ne a qualſifia voluttuoſa immaginazione, non alle
conteſc, non all'inuidia, o a i ſoſpetti, o ad altro, per lo che tu ti hauefli
da arroſſire, diſcoprendo quello, che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo.
Giacchè vna perſona, così coſtituita, è quaſi vno degli ottimi, qual facerdo te,
e miniſtro degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo
rende l'uomo illibato e libero da i piaceri, illeſo da ogni trauaglio, intatto
da ogni ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia, cam pione del maggior
combat timento, da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na, intinto nella
giuſtizia in fino all'intimo, che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene,
e quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi
neceſſità, e che ſpet tano all' vtile comune, ri flettente a quello, che altri
ſi dica, o faccia, o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari, e
dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell' vniuefo
a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà compiuti,
queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che, quanto a
ciaſcu no viene dal fato deſtinato, fia portabile, e del bene ſeco portante. Ed
egli tenga a mente, che a lui effcr dee fa migliare tutto quello che ha del
ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee applicare alla cura
di qualunque ſi ſia degli aleri uomini. Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione
così d'ognuno, ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura; e dee
offcruare quali ſieno quelli, che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in
caſa, e fuori, il giorno, e la notte, e quali, e con quali conuerſando ſi me
ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro, che ne
meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia, ne come ſcor
dato del bene comune, ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne
ritro fo; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi concetti,
non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero. Iddio, ch'è in te, preſieda al tuo
viuere da perſona virile, e nell'età auanzata, e di vita politica, e da nato
Romano, e chema neggia gouerno. Sta in mo do tale apparecchiato e diſ poſto che
alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti da i viui fi intero, che ti fia
data credenza senza tuoi giuramenti o teſtimonianze altrui. Queſt'vno non
manchi, ch'è tal ſerenità nell'animo, che non occorrono conforti efterni, ne di
effere tranquil lato per opera d'altri: s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo
retto, e non raddirizzato. 6 Se nella vita humana tu trouerai alcuna coſa migliore
della giuſtizia, della verità, della temperanza, della for tezza, e in fomma fe
altro meglio, che l'eſſer l'opera zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa,
acciò ca gioni, che tu operi ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può
dipendere dal pro prio tuo conſiglio, al fato tu ti accomodi: ſe meglio dico di
ciò tu truoui, od iſcopri,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi
dell'ottimo, che haurai ritrouato. Ma fe nulla t'appariſce, che ſia inigliore
dell'iſteſſo genio, che in te riſiede, il quale habbia sottomessi a se stesso i
proprij mori de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate, e che dalle
perſuaſioni, o alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea, ſia diſtratto, e
con 1 affetto attento agli huomini, fi fia fubordinato agl'Iddij: Se di queſto
trouerai eſſere ogni altra coſa inferiore, e più vile, non dar luogo nclla
mente tua ad altra cofa veru na, alla quale vna volta che tu o propendendo, o
decli nando aderifli, ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente
preferire ad ogn'al tro il ſingolare, e proprio tuo bene; non eſſendo giuſto
che al bene ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro, che ſia
in diuerſo genere, come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità, o
le ric chezze, o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo
apparcnza, ancorchè in minimo, di adattarſi a noi, repentemente preuarranno, e
ci rapiranno. Ondeio ti di co, attienti fchiettamente, e francamente al meglio;
e С aderiſci a quellos e il meglio è quello, che a'te è di profit to; però ſe
ſi confà, come a perſona ragioneuole, queſto riſerbati; ma ſe ſolo, come. ad
animal viuente, riggetta lo, e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il fologiudicio,
per po ter formare vn eſame certo, e ſicuro. Non iſtimare giam mai, che ſia
coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a traſgredire la
fede, mancarc all honore, odiare alcuno, ſoſpettare maledire, fintulare, ed
ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen to di muri, e di
velami. Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua mente, e il genio, e
l'operazioni della ſua virtù, quegli non fa azione da tragedia, non pia gne,
non hannà biſogno di Itar folitario, ne della com pagnia di molti. Esquel che
più importa, viuerà ſenza de fiderare, e ſenza sfuggire co fa alcuna; ne farà
molto ca fo, ſe dell'anima circondata dal corpo ſe ne ſeruirà per più lungo, o
per più breue tempo: acciocchè qual ora s'haueſſe a dipartire, così franco ſe
ne vada, come ha ueffe a disbrigarfi di qualche affare, che gli conueniffe efe
guire con decoro, e con ogni modeſtia: ofſeruando queſto folo puntualmente per
tutta la vita, che i fuoi penſieri s. aggirino attorno qualche co fa, che ſia
propria de viuen ti razionali, e ciuili. 7 Nella mente di perſona C 6 ben
aggiuſtata, e purgata non trouerai niente di guaſto, niente di marciume, o che
v'habbia fatto ſaccaia. Simil. inente. non troncherà il fato la vita di coſtui
imperfetta, come ſi direbbe dell'Iſtrione, fe,auanti di finire, e compire il Drạmma,gli
vditori all'im prouiſo piantaſſe. Di più non trouerai nulla di feruilc, ne di
affettato, ne di appicci cante, ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer
corretto, ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà, che forma
l'appren ſione, dependendo da queſta il tutto;acciocchè niuna opi nione s'
inſeriſca nella tua mente, che non confcnta colla natura, e colla coſtituzione
di viuente razionale: E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che
l'huomo fi confaccia con gli huomini, e verſo gl’Iddij ſia offequiolo.
Rigettate dunque tutt'altre coſe, imprimiti ſolo queſte poche, e ſpesſo
rammenta ti che da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha
gia viuuto, o gliè af fatto ignoto. Piccola adun que è l'età di ciaſcuno: Pic
colo è il cantoncino della terra, dove ſi viue, e piccola, benchè lungi
s'eſtenda, è a ' poſtuni la fama, proceden do queſta dalla ſucceſſione di
homicciuoli, che preſto ſe ne vanno a morire, i quali non conoſcono le ſteſſi,
non che colui, il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti
s'aggiunga ancora di far ſem pre vna diffinizione, o de: ſcrizione di quello,
che vie ne dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella
propria ſo ſtanza, e il tutto per tutte le parti diſtintamente, tu rico
noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome, e
i nomi di quelle parti, delle quali è compoſto, e nelle quali ſi ri foluerà.
Perchè non è cofa, che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente;
quanto l'eſaminare con me todo, e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella
vita ': c riguardarla del continuo in tal modo, che tu comprenda inſieme a qual
Mondo, qual vſo porgano, che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo, e
quale in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma
Cittade di cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie: Che co fa ſia, o di
quali principij ſia compoſto, e quanto tempo fia per durare quello, che al
preſente m’imprime tale im inaginazione; e qual virtù in torno quello s'habbia
da vla re: come a dire della manſue tudine, delle fortezza, della verità, della
fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte, e d'altre fi
mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa: Queſto viene da Dio, ma questo
per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale
congiuntura, e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo, e congiunto,
e teco conuer fante, ignaro di quello, che a lui pernatura ſi conuiene. Ma io
che lo ſo m’auuaglio d' effo, fecondo le leggi naturali della comunicazione,
con af fetto benigno, e giuſtizia; e inſieme nelle coſe indifferen ti, o
mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando, qual ftima a quelle habbiaſi a da
re. Se tu, della retta ragione feguace, opererai quello che haurai dauanti
ſtudiofa mente, validamente, placi damente, e non mirando ad altro che
all'intrapreſo nego zio, anzi conferuerai il tuo genio puro, e conſtante, co me
ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai, a niente
altro at tendendo, niente fuggendo; ma nell'operazione, che hai tra le mani,
conformandoti alla natura, e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto
ciò, che a dire intra prendi, tu viucrai felice. In vero non v'ha chi ti potra
quefto impedire. u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli
ſtrumenti, e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a
ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane, in tutto ciò, che,
quantunque mi nimushaurai da operare; ben ricordcuole come queſte fia no
amendue tra di loro con giunte, non potendo far nulla, che appartenga agli huo
mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario. 12 Non andar
più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me morie, ne
i fatti degli an tichi Romani, e Greci, ne le raccolte, che hai eſtratte da
varij ſcrittori, le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia. Affrettati
adunque ver ſo la fine, e abbandonando, mentre che t'è lecito, le va ne
ſperanze, porgi ogni aiu to a te ſtello, ſe tu fe'a cuore a te medeſimo. 13 Gli
huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate, femina
re, comperare, ripoſare; ne fanno diſcernere quello, che s'ha da operare: il
chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo il
corpo, l'a nima, c la mente: Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli
apperiti, alla merite i decreti. Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani
inali bruti; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di
pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie, e da effeminaci, e d ' yn
Falaride, ed'vn Nerone. L'applicarela reggitrice men: te all' apparenti
conuenienze è ancora di coloro, i quali non tengono, che ci ſiano gl’Iddij, e
che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria, e che quando han chiu te le
porte, fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti, reſta
proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga, e che
dal fato gli fia compartito, come il non rimeſcolare, e confon dere il genio,
che nel mezzo del petto riſiede, ne pertur barlo colla moltitudine dell'
immaginazioni: ma conſer varlo placido, e come a vn Dio, decenteinente portar
gli riuerenza, ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera non ſia;ne
fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna. Se poi tutti gli huomi ni non
crederanno, ch'egli fchicttamente, e oneſtamen te, e tranquillamente ſe ne viua,
non però fi crucсerà con chi che ſia di loro; ne vſcirà mai dal dritto ſentiero,
che lo conduce al fine della vita, al quale fa di meſtiere giugnerepuro,quieto,
c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo glia al proprio de
ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma alla natura, reſta sì
indif ferente a tutti gli auueni menti, che ſenza ripugnanza ſempre prontamente
ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile, e conceduto; Imperocchè non s'obbliga a
materia deterininata; ma è facile verſo ciò, che gli venga propoſto, ben che
con qualche eccezione; e quello, che in luogo dell eſcluſo è introdotto,
s'appro pria come ſua materia, in guiſa del fuoco, quando nel le coſe, che
incontra predo mina; dalle quali vna picco la lucernctta verrebbe e ſtinta,la
doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta mente tutto quello, che in nanzile
è poſto, e lo conſu ma, e di quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi
faccia a ca ſo, ne altrimente ſi eſegui ſca, ſe non conforme agli
ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte. 3 Proccurano le perſone di ritirarſi
nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2. e 01 marina, e ne' monti, e an co
tu queſti ſe' stato particolarmente ſolito d'amaro e queſta è coſa
ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito in qualſifia tempo, che ti pia
cerà, ritirarti in te ſteſſo. Ne c'è luogo per l'huomo di più quiete, e più
lontano dalle faccende, per ritirarſi di quello del proprio animo;
particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che in quelli
internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità. Ne altro dico
eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto: Ritirati dunque ad oraad o ra, e
rinnuoua te ſteſſo. Si eno però breui, è ordinati que' ricordi, i quali ad vn
tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni moleftia, e di
rimetterti nelle tue operazioni; alle quali ſenz' annoiarti farai ri torno.
Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia? forſe della maluagità degli huomini?
Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no prodotti a pro \
vno dell'altro; e che il medeſimo ſofferire è part e della giuſti zia
dell'huomo: e che quelli, che delinquono, no'l fanno di buona voglia; e quanti
dopo hauere eſercitato l'oſti lità, i ſoſpetti, e gli odij, e trafittiſi ľ.yn
l'altro, ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re? quietati dunque vna vol ta.
Ma tu non t'appaghi di quello, che dall' vniuerſo ti è ſtato diſtribuito.
Richiama: D però nella memoria la pro porzione diſgiugnéte, che ci è, o la
prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe, donde ben fi conchiude che il Mondo
è in guiſa di ordinata Città. Se poi t'aggrauono le coſe cor poree, tu quì
confidera che la mente, dopo che vna vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta, e
haurà riconoſciuta la pro pria dignità, non ſi meſco ſerà con iſpirito, che
venga ad eller morbidamente, o ru uidamente agitato. Aggiu gnidi più tutto
quello, che del dolore, e del piacere tu hai vdito, e l'hai approuato. Mala
gloricota ti diſtrarrà? Da vno ſguardo, come pre fto va il tutto in dimenti
canza, e nel chaos dell'euo da amendue le parti immen fo, e nella vanità d ' yn
rim bombo: e quanto mutabili, e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono
formar concetto, e in quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue; mentre
tutta la terra è yn punto, e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra
abitabile; e quanti, e quali fono quelli, che ſieno per lo darti. Ricordati
dunque di ritirarti in quella particella di te ſteſſo; e ſopra tutto di non ti
diftrarre, e di non far refiftenza; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA
VIRILE, D’UOMO, da cittadino, da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e
ſpe diti, i quali hai da conſide rare, fieno queſti due. L'yno, che le coſe
iftcffe non s'at D 2 taccano all'anima, ma ſtan no al di fuori immobili; e che
le turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna: l' altro è, che quanto vedi,
queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante
mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente, che il Mondo ſta
nell'alterazione, la vita nell'opinione. 4 Se l'intelletto è comune, comune
ancora è la ragione, mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que
ſto, eziandio la ragione, che comanda quello, che ſi deb ba, e che non ſi debba
ope rare, ſarà coinune. E ſe è cosi, ſarà comune la legge; il che ammettendoſi,
verre mo noi ad eſſer Cittadini; donde è, che hauremo da par ticipare di
qualche Cittadi nanza; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere come vna Città.
Concio ffiecofa che dirà alcuno: qual'altra Cittadinanza fitruoua fi co mune,
della quale tutto il genere humano partecipi? E da queſta comune Città deriua
l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le gale. O se quindi non
ès-don de è perciocchèſi come quel lo, che è di terreſtre in me, da qualche
terra a me ſi com, parte, el eſſere vmido da vn altro elemento, e l'eſſere
fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò, e'l caldo, e l'i gneo da qualche
altra pro pria ſorgente; imperocchè nulla prouiene dal nulla, co D3 me ne meno
ritorna in quel che non è così anche l'intel lettiuo da qualche luogo fi
comparte. 5 Tale è la morte, quale è la generazione, e ſono degli arcani della
natura; queſta è miſtura degli elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede
fimi: In ſomma non ſe n'hà d'hauer vergogna, poichè non è contra la conuenienza
del viuente intellettuale, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione,
6 La natura porta che queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente; il
che, ſe ad alcuno non piacerà, vorrà che'l frutto del fico non habbia
lattificio. Quello in tutto, e per tutto rimanga nella mente, che tra
breuiſſimo tempo tu, e quel tale vi morrete, e tra poco non ci ſarà, ne pu re
il voſtro nome. Leua via l'opinione, che ſarà tolta la querela, che dice, IO SO
NO STATO OFFESO, leua queſto dire: IO SONO STA TO OFFESO, e verrà tolta
l'offeſa. Quello, che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo, non renderà
peggiore la di lui propria vita; e ne in ternamente, ne efternamen te
l'offenderà. 7 La natura ad operare in tal modo per lo comune vti le fu
neceſſitata. E ciò, che auuiene, giuſtamente auuie ne: il che ſe attentamente
of feruerai, trouerai eſſer vero; ne per ſola conſeguenza di co, che è queſto,
ma perchè D4 così vuole il giuſto; venen do da colui, il quale ſecon do il
proprio merito, diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo.Of ſerua dunque tu queſto, co me
hai dato principio; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio
ne, e con lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera, come s'intende
propriamen te l'hucmo dabbene. Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione. 8 Non
farai concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia; ne come e
quali eſſo vuole che tu le giudichi; ma conſiderale, quali eſſe veracemente
ſono. 9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non
operare in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per
l'vtile degli huomini fuggeriſce; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di
parere, ſe qual cuno fi corregga, e rimuoua da qualche opinione; però queſto
rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione, che porti del giuſto,o
del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento, ouero per
apparenza di gloria. Hai tu la ragione? la tengo: Per chè dunque non te ne
ſeruia Che vuoi cu altro, che que ſta, mentre ella fa quello, che è proprio di
lei? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito, così tornando
a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto, diſparirai, o più toſtoy con qualche
mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello. Di molte granella
d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre, purchè ſi conſumi
mula la importa. Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli quali ora
ſembri vna be ftia; e yna ſcimia, fe ritorni a ri pigliare i decreti, e la vene
mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli ancora a viuere più
migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta, mentre viui,mentre ti è permeſſo
diuenta buono.. II Quanto di quiere d'ani mo guadagna chi non bada a quello,
che'l vicino diſſe, o fece, o pensò, ma ben fi ſolo a quello, ch' egli ſteſſo
fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta, e pia?, nericercando va ſe altri ſia di
buoni, o rei coſtumi, ma corre a dirittu ra per la linea, ſenza punto da efla
ſcoſtarſi? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito, non
conſidera come cia fcuno di quelli, che di lui li rammenteranno, anch ' egli
preſto ſe ne baſirà, e così di nuouo quegli ancora, chea queſto ſuccedera,
finchè ogni memoria, per mezzo di huo mini, parte ſtupiditi, parte già morti
continuata ſi ſpen ga.Mapreſupponi tu, che quelli che terranno di te me moria
fieno immortali, e la memoria rimanga immorta le? ciò che gioua a te 2 ne ora
parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada Te ef 1 rai estinto, ma del preſente
mentre tu viui. Che è la lo de ſe non certamente yn tal condeſcendimento
d'huomi ni. Tralaſcia dunque, come inopportuni i doni della na tura, mentre che
dipendo no dal giudicio d'altri. Del reſto tutto quello, che in qualſiuoglia
maniera è buo no per ſe ſteſſo è buono, e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le
fue parti annouera la lode; onde non diuiene ne miglio re, ne peggiore. il
lodato. Queſto dico ancora di ciò, che volgarmente ſi chiama buono: quali ſono
le coſe, che o per la materia, o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano.
Ed in vero quello, che è realmente buono, di che ha biſogno di nulla più certamente
che la legge, di nulla più che la verità, di nulla più, che la buona mente, che
la modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata
ſi corrompe? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc. cio, ſe non è lodato? non
di rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett, del
fiorellino, dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano, come fin dall' eternità
le può contenere in ſe l'aria? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti
di tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione
di queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo
ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria, e trattenuteuifi
al quanto, fi tramutano, e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella
ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre, che appreſſo
vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du
rino, biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma
quella an cora degli animali, che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi
mangiano; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi
ſeppelliſce nelle viſcere di quelli, che ſe ne cibano de tuttauia capono in
questo luogo per la traſmutazione in in sangue, in aria, e in fuoco. Qualeè
intorno a que ſto la notizia della verità il. diuiderſi in materiale, e cau-,
ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione
dell'animo deefi aſſegnare il giuſto; ed in ogniimmaginazione con feruare quello,
che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé, o Mondo, è conueniente, a me ancora
ſta bene. Nulla è a me acerbo, o tardivo, che a te ſia ſtagionato; ogni coſa,
che portano le tue ſtagioni, è a me frutto. O natura, da te deriua il tutto, in
te è il tutto, e a te il tutto ritorna. Diffe colui; Amata Città di Ci tropese
tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco, diſſe, se tu vuoi ſtare
coll' animo quiero Non è miglior cola, che far ſolo ciò, che è neceſſario, e
quello, che la ragione all ' huomo,nato per la vita ciui le, detta, e nel modo,
che lo detta. Imperocchè queſto non folamente reca la tran quillità, che dal
ben fare procede; ma quella ancora, che dal poco operare.ti au uiene.
Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che ſi dice, o lifa, non
eſſen do di neceſſitade, alcuno ri ciderà, egli ſe ne ſtarà int maggior ozio,c
meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in particolare ricor darſi che
forſe ella ſi è vna di quelle, che non lon neceſſa rie. Biſogna in oltre non ſo
lo toglier vią l'azioni, che non ſon tanto neceſſarie, ma ancora l'iſteffe
immagina zioni, perchè così non ſegui ranno azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti
rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè, cheſi contenta di ciò, che dall'
Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa del proprio operare giu ſtamente,
e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi derato queſto.2 rimira queſt altro;
non ti turbare, habbi l'animo tuo aperto. Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au
uenne qualche bene? Dal principio dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose
intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi
guadagnare il preſen te gote con feguire la retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta
attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio
confuſo, tuttauia & Mondo. Ora ſe in te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper
efem plo,vna venuſtà può conſiſte. re, haurà poi da eſſer yn'im monda
ſconuenenza neli'yni. uerfo, mentre in effo tutte le cofe fi vedono così
diſtinte, c dilatate, con effer inſieme reciprocamente affette? 19 Ci ſono
coſtumi negri, coſtumi effeminati, ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono
fimili a'brutali, e a ' fanciul leſchi, inſenſati, affettati, buffoneſchi,
tauernieri, e ti rannici. Se fireputa pellegri no nel Mondochi non faciò: che in
eſſo ſi truoua, molto o più pellegrino è colui, che ignora ciò, che in eſſo ſi
fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0 dalla ragione ciuile, è cieco chi ha chiuſo
l'occhio dell' intelletto, mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap "
preſſo di ſe tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema
del mondo, chi ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura,
non accomodan dofi agli auuenimenti; men tre gli produce quella mede fima, che
ha te ancora pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città, chi diſtacca la pro i
pria anima dalla mente r & ei gioneuole, che è vna. 20. Ci è chi filoſofa
ſenza tonica, e chi ſenza libro, vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe,
e nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti, e pur in eſſi
perſcuero: Affe zionati all'articella, che im paraſti, e in quella acqueta
ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo
affare, e ciò con tutto l'animo: e dhuomo, che viua,non ti fare,ne tiran i no,
ne fchiauo. 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano, tu vi vedrai
tutte queſte medefi me coſe, cioè huomini, e far.nozze, ed educar figliuoli, ed
ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e
agricoltori, e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e
infidiatori, e deſideranti la morte, e delle coſe, che ſuccedeuano ha
lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di
Conſolati, e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1
nulla. Appreffo traſportati all'età di Traiano; di nuouo I rimirerai tutte le
medeſime cofc, e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri
ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e
tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro,dilì a poco ca e dettero, c fi
dileguarono ne gli elementi. Specialmente B t'hai da rammentare di quel li, che
tu ſteſſo hai conoſcill ti, che vanamente affannati hanno tralaſciato d'
operare conforme alla propria diſpo
fizione, e d'aderire tenace mente a quella, e di quclla foddisfarli. E
neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la
ſua propria conue nienza, e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu
non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22
Le voci già correnti, ora fono diſufate, e richie dono chioſe; così i nomi di
quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte voci:
tale è Ca millo, Cefone, Volefo,Leon.nato; e poco appreffo Scipio ne; e Catone;
dopo anco Auguſto, c indi Adriano, e Antonino; perchè ogni coſa ſua Ct colla
211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce, e tofto paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto
dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di quelli, che a
maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro
fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda. Che coſa è dunque queſta eterna
memoria? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in
que ſto ſolo; che la mente ſia giu ſta, l'azione diretta al co mun bene,tale la
ragione che mai non reſti ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che
gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario, e co me famigliare, e come
dall' ifteflo comun principio, e fonte deriuato. Di buon ani til zie id 700
DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del fato; permettendogli che e
inuolga in quelle coſe, che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta,
e'l rammen tato. Mcdita del continuo, come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo
delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare, che nulla ama così la natura
del l' vniuerſo, come di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle
aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella,
che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi
traſ mettono nella terra, o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto
idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI
che can de nuto ſchierto, e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid'
eſſere dagli eſterni leſo, ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza
eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli
altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non
consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue
dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali. Per di ciò non opinare queſto, che
il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo, che a f quello è propinquo,fi
ſeghi,fi abbruci, marciſca, ſi putre faccia; purchè rimanga quie ta la
particella, la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe, cioè
che non giudi chi eſſer ne bene, ne male ciò, che può accadere, tanto all'huomo
dabbene, quanto al cartiuo, Concioſliecoſa che quello, che ſimilmente auuiene a
chi viue, secondo la natura, e a chi viue diuer ſamente, non è ne secondo la natura
ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto
d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi
riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di
tutto quello che ſi produce, ſon co. muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento,
ola teflitura. Sei un'animuccia, che porta un cadauero; diceua Epitteto. A
quelli, che ora ſono ali nella mutazione, niente è di male, come niente è di
bene a quelli, che nella mutazio ne ſuffiſtono. 28 L'euo è come un fiume, e
come yna corrente violen ta delle coſe, che ſi fanno, perchè, ſubito che
ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta, e altra ne compariſce, e queſta
ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito, e famigliare, come nella
pri mauera la roſa, c nella ſtate i frutti. perciocchè tale è la malattia, la
morte la maledi cenza, l'inſidie, e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta.
Quello, che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti.
poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per
necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e
come ſono coor dinate, e ben congiunte tut. te le coſe che eſiſtono, così
quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna
certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente
quel detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua; e la
morte dell' ac qua, quando diventa aria; come del l'aria, quando fuoco, e così
per l'oppoſito. E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la
ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente, e del continuo con uerſano
con la ragione, la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif
ſentono, e che quelle coſe, nelle quali ogni dis’abbat tono, a loro paiono
ſtranie re. e che non biſogna fare, e fauellare in guiſa quafi di
dormienti,perchèallora anoi ſembra difare, e di dire; ne fi hanno da imitare i
fanciul li, i quali dicono con ſempli cità: Così habbiamo appreſo dai noftri
maggiori. « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe, che hai da morire la domane,o
al più lungo por domane, non molto ti im portarebbe, che foſſe più to ito domane,
che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E 3 quanto
ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più toſto dopo
moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo; quanti medici
ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma lati? quanti
matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2 quanti Fi
loſofi dopo mille, e mille contefe della morte, e dell' inmortalità? quanti
prodi in armi, che molti vcciſero? quanti tiranni,checon gran de preſunzione
della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no, quaſi chenon foffero e glino
ancora mortali? quan te Città ſono, per così dire, affatto morte? Elice, Pom
pei, Erculano, e altre innu nie merabili. Traſcorri ancora quanti hai tu
conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti. Que gli dopo hauer fatto i fune rali
dell'altro, ha ſteſo egli morendo le gambe, e dopo lui yn'altro. Tutto ciò in
bre de tempo. In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come
d'vn gior no, e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o
ceneri. E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo, ſecondo la natura, e
muori tranquillo, come l'vliua, che fatta ben matura cade laudando la ſua
producitrice, e rendendo gra zie all'albero, dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a
vn promon torio, nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e
nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli
dell’acque. Infe. lice me, perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me
ſelice, che essendo miciò accaduto, me ne ſto ſenz'al cun dolore, nedal
prefente offeso, ne temendo l'auueni re. imperciocchè queſto po teua ad ogni
altro accadere, manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè
adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato?
echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto, che non è difauentura alla
natura hu mana? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello,
che non è contra ilvo il volere di lei? Quello che ella voglia, l'hai tu
appreſo? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto,
magnànimo, tem perato, prudente, conſidera to,,verace, modesto, libero, con le
altre qualità, le quali efſendo preſenti, la natura humana gode ogni ſuo pro
prio. Quanto al rimanente ricordati, ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad
attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza. Che queſto, che t'è accaduto non
ti è d'infelici tà, ma di felicità, foppor tandolo generoſamente. 32 Per certo
è volgare aiu to, ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte, il ri
membrarſi di quelli, i quali, attaccati al viuere, lungo Es: tempo durarono. Che
hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono?Giacor ciono ſenza
dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio, Giuliano, Lepido, e altri fi mili, i
quali, dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono poſcia
ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio, il quale con quante moleſtie, e
con quali ſten ti, e in qual corpicciuolo vien ſofferto? Dunque non ne far gran
conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo, e a te dauuanti yn altro
infinito. In queſto, che differenza è tra vno morto a capo di tre giorni,e d'vn
Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre, e quella via, che ſi conforma
alla natura, è la fcortatoia saluteuole. Però dì, e fa ogni coſa nella ma niera
più ſalateuole. Impe r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche, da i
com battimenti, da ogni ſimula zione, e da ogni oſtentazione. Vando dal ſonno
neghittofamente la mattina ti fue gli, habbi in pronto. lo mi fueglio all'opera
dell'huomo; ancora dunque ripugnanza fento, ſe io vo a fare quello pere, alle
quali ſon nato, e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato
ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto.
Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato?
non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api
comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello, che ſpet
ta all'huomo e non accorri a ciò, ch'è conforme alla nå tura tua? Ma biſogna
pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re; e diedele
ancora, ed al mangiare, ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura, e
oltre alla ſufficienza. Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi
puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello, che quando ciò foffe, amereſti
la natura, e'l di leivolere. Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano
ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni. Tu fai men conto
della tua natura, che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il ſaltatore
dell'arte del fal tare, o l'auaro dell'argento, o il vanagloriofo della glo
rietta; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali ſono
inclinati, abban donano più preſto ilmangia re, e il dormite, che il laſciar
d'accreſcerle. E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana appariſcono
di più baſſo pregio, e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo ſcace
ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione, onon conueniente, e ſubito
metterli in iſtato d'ogni tran quillità? Reputa te ſteſſo de gno d'ogni
diſcorſo, e d'ogni azione, che lia conforme alla natura, ne ti ritragga il ri
chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue; masſe farà coſa oneſta da operare,
o da dire, non te ne ſtimerai indegno. Imperocchè hanno quel li la propria
loromente, e v fano della propria inclina zione, alle quali tú non hai da
riguardare, ma dei cam minare per la diritta, ſegui tando così la propria
comela comunenatura, delle quali amendue èvna via. Io cammi. nando me ne vo per
le coſe, che ſono ſecondo la natura, finchè cadendo io mi ripoſe rò, e ſpirando
in quello,don de ciaſcun giorno reſpiro, e si cadendo in quello, donde il
ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre, e il lattuccio dalla inia
nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni di mi paſco, e
m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco, e dello ſteſſo in tanti modi in '.
abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia così. Ci fono
molte altre coſe,delle quali non puoi ne gare, che in te non ſia l'abi lità
Mettidunque in opera quelle, che ſono tutte a tua. diſpoſizione, l'eſſere
ſincero, grauie,tollerante della fatica, non amico del piacere, non, quereloſo
della tua forte, biſognofa di poco, placidos libero,moderato, serio, e magnifico.
Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di fare, per le quali tu non hai prete
ſto, che la tua natura non fia atta, o abile; nondimeno di propria elezione te
ne reſti, comedappoco al diſotto? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe
neceſſitato a inor morare, ad eſſere tenace, ad adulare, ad incolpare il cor
picciuolo, o a luſingarlo, ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti
d'eſſer natu ralmente inetto, e dappoco? Non per gl' Iddij. Ma però già vn
pezzo fa di tutte que Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E
ſolamente, ſe però è così,poteui ellerac cuſato come più tardo, e du ro ad
apprendere. Ed in que ſto ancora ti doueui eſercitare, non trasuolando altroue
con la mente, ne godendo della pigrizia. 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche
amoreuolezza in riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia:
eď emui ancora chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla, nondimeno
ap preſſo di ſe penſa, quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene
quello, che egli haoperato. Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello
cheha operato; ma è fimile alla vite,laquale, prodotto il grappolo,null’al tro
di più richiede, dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to. Il cauallo, cheha
corſo il cane,che ha cacciato; l'ape, che ha lauorato il mele; 1 * huoc huomo,
che ha ben opcrato, non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me
la vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti
dun que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera? fi per
certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare. Perciocchè, dirà alcuno, è proprio del comu
nicatiuo che s'auuegga d'o perare, conformealla comu nicazione; ma perciò ſi
vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica, fe n'accor ga.
E'veriffimo coteſto, che tu dì, ma ſe tu non compren di quello, che'ora ſi dice,
farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio
ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe
tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello, che s'è detto, non temere; ne
perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli
Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi.
Però o non bisogna pregare, o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A quello,
che comune mente ſi dice: ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare, o il
lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto che la
natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia, o la ſtor piatura, o
qualche perdita, o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola, Ha ordinato,
vi è vn tal ſenſo, che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto, come per
riferirſi alla fa nità, e così qui quello, che accade a ciaſcheduno, è con
ſtituito per relazione al deſti no. E però diciamo queſte coſe conuenirſi nel
modo, che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura, e per le piramidi
conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi. Perchè in fatti
l'armonia è viia, e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc vn tal corpo,
che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato vna tai cagione
compita. Comprendono ciò, che dico anco le genti affatto idiote. imperocchè
così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui douea ar rivare;
e ciò era dal fato or dito a queſto. Prendiamo dunque ſi queſte coſe, co inc
quelle, ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe in vero in fc ſter ſe
ſono aſpre, e nientediine. no noi l'abbracciamo per la ſperanza della ſanità.
Penſa alle coſe, che per la comune natura auuengono, la perfe zione, e il
compimento effe re, come a te la ſanità. E così tuto quello, che vien dato,benchè
ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo, perchè conferiſce alla sanità
del mondo, c agli proſperi auuenimenti, e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa
che queſti non produſſe mai coſa alcuna, fe non per giouare all'vniuerſo;
giacchè qualſifia natura non produce niente, che non ſia congruo al go uernato
da lei.Però biſogna che per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne.
Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e a te s'ordinò, e a te in certo modo
attiene, deſtinato da ſourane, e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra,
perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au
uiene, è cagione del progreſ ſo, e della perfezione, come anche in verità
dell'iſtella per inanenza. Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto, fe
qualſifia particella tu tronche rai della conneſſione e conti nuanza,così delle
parti come delle cagioni; e, per quanto è in te, lo tronchi, quando non ben lo
riceui, ed in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire, non da
ſmarrirſi,nc ſtomacar fi, ſe volendo tu operare, ſe condo la rettitudine de'pre
cetti, in ciaſcuno di quelli non ti rieſce; ma ancorchè ſij abbattuto, torna di
bel nuouo ad eſſi, e ad abbrac ciarli nelle coſe, che hanno maggiormente
dell'humani tà; e affezionatia quell'azio -ne, alla quale tu riedi. Nc ſi ha da
tornare alla filoſofia, nel modo, che ſi fa al pedan te, ma come glinfermi d'oc
chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri
al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla
ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati, che la Filoſofia ſolo
vuole quello,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal
voler della natura. Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il
piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle? ma tu conſidera, ſe più
diletto dia la magnani-, mità, la franchezza, la ſchiet tezza, l'equità, la
ſantimonia. E qual coſa vi è, che ſia più diletteuole della prudenza, quandoben
conſidererai,che ſia il non fallire, e l'eſſer ben docile in tutto quello, che
tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere? 8 Sono le coſe in yo certo F modo
così ricoperte, che a non pochi Filoſofi, e queſti non ignobili. parue che del
tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a
comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere, e mu tarſi, in
che luogo dunque fa rà l' immutabile? Riuolgiti però col penſiero a queſte co
ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee, e di po ca ſtima: ch' elle
poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro, da vna meretrice, da vn aſſaſſino.
Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che teco viuono, tra quali anco il
più da te gradito, malage uolmente da te vien compor tato, per non dir che l'huo
mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal
Auſli bilità della ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi
muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di
ſtima, e d'affetto. Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il
natural diſcioglimento, e non dolerſi del rattenimento, ma ac quietarſi in
queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà, che non ſia confor me
alla natura dell' vniuerſo; e l'altra, che ſta in mio pote re di non operare
contro il mio Dio, e genio:'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir
queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da
in terrogaré me ſteſſo, e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione, che
reggitri ce viene chiamata? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per
auuentura d'vn: bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola, d'vn
tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni, che alla
moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi
fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza, la
temperanza la giuſtizia, la fortezzá, chii haurà con la conſiderazione
concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra, che a queſto
bene non ſi conformi. Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle, che con
faccia di bene agli più piacciono, da rà luogo, e facilmente rice uerà il detto
del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza;perchè altrimen te quel
detto non offende rebbe, e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con
trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz
e, e de cominodi per lo luffo, e per la pompa. Passa più ol e interroga, ſe
queſte coſe hai da pregiare, e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto
con gaiezza, e gra zia, che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia
manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa, e di
materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non
fu prodotta. Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del
Mondo; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà, e così in
infinito. Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto, ed i miei genitori; e
così retrogradan do in vn altro infinito. Ne ci e chi proibiſca di così parlare,
ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e
l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime, e alle opere loro
proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio; e camminano
dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate
queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino. Neſſuna di
queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo,
come huomo, ne ſi richiedono dall'huomo, ne quelle profeſſa la natura del
l'huomo, ne ſono perfezioni della natura humana. Non è dunque ne meno il fine
dellº huomo ripoſto in quelle, ne meno il bene, che è il compimento di quel
fine. Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo, non gli
apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la: ne farebbe da lodarſi
chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle, anzi chi ſtudiaf fe priuarſi d'alcune
di quelle, non ſarebbe buono, mentre quelle foffero buone. Ora però quanto più
l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno, 0 altre ſimili; o permette, che ſe gli leuino,
tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le coſe, che ſpeſſe
volte ti ſono paſſate per la fantaſia:reſtando l'ani ma colorata dall'immagina
zione. Immergila dunque in fi fatte continuate immagi nazioni; delle quali yna
ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella Corte
ſi può viucre, a dunque nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere. E dinuouo
queſt' altrà, che cia ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta, e dou' è di
ſpoſta ſi porta, e doue fi porta conſiſte il ſuo fine, e doue è il fine, iuiè
l'vtile, e il bene di ciaſcuno. Sicchè il bene del viucnte ragion euo le è la
comunanza; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza ſiamo nati, non è
euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat to, come vn meglio per l'al
tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli animati li
ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili: ma impoſſibile è
che i cattiui non facciano alcune tali co fe. Niente auuiene a niuno, che non
gli ſia ſtato dato a portare dalla natura; ma le medeſime coſe ſuccedono a gli
altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro, o per oſtentar la magnanimi
tà, non ſi muouono dal lor fefto, e lieti ſe ne ſtanno Onde ſtrano parrà che
l'in gnoranza, e la propria com piacenza fieno più poſſenti della prudenza. Le
coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima; anzi non hanno in quella
l'introito, ne poſſo no piegarla, o muouerla. El la ſola riuolge, e muoue ſe
ſteſſa: e le coſe, che le fo prauuengono fono tali, qua ſi ella ſe ne forma i
giudicij. 15 Per vn altra ragione la natura degli huomini è a noi
famigliariſſima, in quanto che noi dobbiamo far loro del bene, e tollerarli; in
quanto poi alcuni relifto no all'operazioni, che a noi conuengono, l'huomo a me
diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del fole, del vento, delle
beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione; ma non ſi può dare
impedimen to, ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione, a cagion della
eccezione, e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente riuolge, e tra muta
in coſa a ſe proporzio. nata tutto quello, che all? operare le da impedimento,
e quello, che ratterrebbe l'o pera, l'iſteſſo diuiene opera, e quello che
innanzi era oſta colo al cammino, ſe le fa. cammino. Di tutto quello, ch'è nel
Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello, che, feruendoſi del tutto, il
tut to gouerna. E così parimen te di quello, ch'è in te, onora l'ottimo,hauendo
queſto fin golar relazione a quello.. Concioſliecoſa che, eſſendo in te, fi
vale delle coſe tue, eſotto il di lui gouerno è condotta la tua vita. Quello,
che non è di danno alla Città, non nuo ce al Cittadino.Applica que fta regola
in ogni occorrenza in cui tu reputi d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non
ri ceue nocumento, ne io lo ri ceuo; e fe la Citrà riceueffe nocumento, non
biſogna, che tu t'adiri contra chi l'ha daneggiatta. Ma moſtra in che egli ha
traueduto. Conſidera ben fouente la preſtezza,con la quale li por tino via, e
ſi fottragghino tutte le coſe, che ſono, e ſi van facendo; poſciachè la ſo
ſtanza a guiſa d'yn fiume è in continuo fluſſo, eľ opera zioni in non intermeſſe
mu tazioni, e le cagioni ſogget te ad infinite riuolte. Nec è quaſi coſa
alcuna, che falda ftia, e che non ſia vicina ad yn'immenſità infinita, sì del
paſſato,come del futuro,ncl la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo
chi di queſte coſe ſi gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per
iſpazio di tempoan, che pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni
uerſale, della quale tu partecipi per vna minima parte, e del vniuerfal
tempo,del qua le vn breue ſpazio, o momen to te n'è aſſegnato; e nella ſerie
fatale che parte fai? Alcuno pecca: che impor ta queſto a me? Egli ſe lo ve
drà. Egli ha la propria diſpo ſizione, la propria operazio ne. Io al prefente
ho quello, chela natura comune vuole, ch'io adcfſo m’habbia, e fo quello, che
la mia propria natura vuole, che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice, e domi,
nante porzione della tua ani maſia immutabile, e inarren. deuole a i moti della
carne, o morbidi, o aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe
ſteſſa, e confini quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra
ſim patia ſi rinnalzaſſero alla mente, per effer ella vnita al corpo, ſtante
l'eſſer il ſen ſo connaturale, non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la
mente reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al
male. S'ha da viuere con gli Iddij. Viue con gl'Iddij chi loro fuela
continuamente la fua anima effer contenta del diſtribuitole, ed operando tutto
quello, che vuole il ge nio, dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e
rettore, come parte a ſe medeſimo preſa, e queſto è la mente, e la ragione di
ciaſcuno. 20 Non ti adiri tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli
altresì,che man da fuor dalla bocca fetente fiatore? che ti farà coſtui? Egli
ha vna bocca ſi fatta, e l'aſcelle di tal condizione: Forza è, che ſimili
eſalazioni eſcano da ſimili parti; Mal huomo, mi dirà alcuno, ha la ragione, e
può s' egli au uerte conſiderare in che egli difetti. Buon prò ti faccia. Dunque
per hauer tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con
la tua, inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà, lo riſanerai,
e ſarà fu perflua ogni collera. 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da
mere trice: Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita, così ti lece ora di
vivere? <a quando non te lo permetteſſero, allora eſci di vita, ma però,
come da niuno infortunio abbattuto,ma quaſi tu dichi: Qui c'è del fumo, e io me
ne vado. Ti par queſto gran coſa? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango con
la libertà, e niuno mi vieterà di far quel lo, che io vorrò. Vorrò però quello,
ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la vita cos
mune. 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua; e perciò hafat te le coſe
peggiori in ordine alle migliori, e le più princi pali tra di loro ſcambieuol
mente compoſe • Vedi come le ſubordinò, come inſieme le ordinò, e come quello
che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con reciproca
concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij, con i geni (tori,
co fratelli, con la mo glie, con i figliuoli, co * pre cettori,co'nutricatori,
amici, domeſtici, e ferui? hai tu fin ora oltraggiato alcuno di - loro, o in
fatti, o in parole? -Ricordati di più per qualico fe ſe paſſato, e quali ſe
ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è adempita la • ſtoria della
vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le hai vedute? e quanti pia
-ceri, e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d' apparente gloria hai neglette?
a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per qual cagione l’ani me
ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar te, e l'erudito? quale
dun que farà l'anima perita nell' arte, ed erudita nelle ſcicn • ze? quella,
che ha notizia del principio, e del fine; e di quella ragione, che pene trando
ogni ſoſtanza dell' vniuerſo, per tutta l'età, fe condo i periodi ordinaci,reg.
ge il tutto. 25 Or or tu farai cenere, é carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne
pur nome, ridu cendoſi il nome in vn poco di ſtrepito, e di riſonanza; e
certamente quelle coſe, che in queſta vita s ' hanno in i grandeſtima, ſono
vane,pu tride, ſcarſe, e in guiſa dica gnolini, che ſi mordono, e di 2 putti,
che contendono, e ri dono, e ad vn tratto paſſano al pianto. Ma la fede, la mo
deſtia, la giuſtizia, e la verità Da ilarghi ſpazi della terra alCielo s?
innalzarono. Che coſa adunque qui ti rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci
liffime a mutarſi, e non ſon conſiſtenti, e gli organi del fenſo oſcuri, e
facili a ri ceuere falſe impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna
eſalazione, l'acquiſtar gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque
aſpetti? Aſpetta placido o la eſtin zione, o la traportazione. E finchè il
teinpo arriui di que ſto, che coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il
ri uerire gl’Iddij, e lodarli, e be neficare gli huomini, sopportarli e
aftenerſi da quelli? E quanto coſe ſono fuori del confine della carnuccia dello
ſpiritello ricordati, che non ſono tre, ne ſotto il tlio comando. Potrai
profpcrarti per. fempre, e ben incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e
operare. Queſte due co ſe ſono comuni così all'ani ma di Dio, come a quella de
gli huomini', e d'ogni ra gioneuole viuente, cioè di non poter eſſere impedito
da che che altro fi fia, e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo
bene; e in queſto ri ftrignere ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia,
ne meno l'operazione procede dalla mia malizia, ne il comune viene offero, perchè
di ciò mi trauaglio? e qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen
te rapire dalle immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi, e conforme alla conuenienza;
e ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che
queſto ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine. Ma come yn vecchio
andandoſene richie deua la trottola del ſuo allies uo, ricordandoſi che al fine
era vna trottola, così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche
coſa di bel lo, non ti ricordi, che coſa queſto fia? me ne ricordo. Ma quello è
pregiato da co loro; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già
vna volta ſoprap preſo, douunque io foſſi, ed ero fortunato; e l'oſſer fortu
nato, conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte: le buone ſorti ſono i
buoni mo uimenti dell'animo, le buo ne inclinazioni, le buone azioni. La
sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione, che
la reg ge, non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia, ne
opera malamente, ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione; ma il tutto conforme a
quella fi fa e s'affina. Sia a te
indiffcrente d'operare quello, che ſi conuiene; ſe tu ti ſenti freddo o caldo o
pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o tu ftij
ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli atti vitali
per i quali noi finiamo. Baſta. dunque, e in queſto ben disponi il negozio
preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità, ne il merito
di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi. Tutto ciò, che hai dinanzi affai
presto si cambierà, o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via d'vnione,
o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione e che cosa
e in qual materia opera. s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi t'offcfe, è
il non aſſomigliarſi a lui. In vna ſola cofa hai da godere, e d’acquetarti,
cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad vn altra azione,
pur conuenien te alla medeſima, con ricor darti, che ci è Dio. 6 La facultà
reggitrice è quella, che ſe ſteſſa eccita, e volge, e forma ſe ſteſſa in quella
guiſa, che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi rap preſenta, quale più le
piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la natura dell'universo e non
secondo altra natura, che si fia, o esteriormente ambiente o al di dentro
riſerrata ouero al di fuori ſeparata. Il mondo o è vn imbro glio, e
auuiluppamento, e diſſipazione, ouero vnione, eordine, c prouidenza: Se i primi,
per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa massa confusa, e cotal
nieſcolanza? a che m applico io ad altro, che ad eſſere per qualche modo ter ra?
che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che qualun que coſa io mi faccia la dif
ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è l'altro detto in fe. condo luogo, io
riueriſco co lui, che il tutto diſpone, e in lui m’acqueto e confido. Quando
gli anuenimen ti eſtranei ti violentano per qualche verſo a perturbarti,
prontamente ritorna in te ſteſſo; e non vſcire dal tenore, e concerto più
diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im perocchè cóſeruerai più con fonanza,
ſe toſto in eſſa ti ri metterai. Se inſieme tu ha uelli la matrigna, e la
madre, tu quella feruireſti, e niente dimeno del continuio alla madre fareſti
ritorno. Non altro a te è ora la Corte, e la Filoſofia: a queſta ſpeſſo ri
torna, e in eſſa acquetati, per mezzo della quale le cofe, che in quella
occorrono, ti parranno più tollerabili, e tu nell' iſteſſe coſe farai da
tollerare. 10 O comeè bene formar ſi nell'immaginatiua intorno alle viuande, e
altre cole ſi mili comeſtibili: che queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro
cadauero d'vn' vccello d'un porcello. Simil mente, che il falerno ſia pic cola
gocciola d’yn grappo lino d'vua, e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta
col fanguuccio di vna conchi glia. Così ancora nelle coſe intorno al
congiugnimento carnale, che fia vn diletico dell'inteſtino, e conqualche
conuulfione yna egeſtione di yn moccino.Ora come queſti fimili conceputi
penſieripe netrano je toccano il fon dodelle coſe in modo, che ſi vedano talis
quali elle fono in queſta maniera biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita,
e doue le coſe paiono più degne di fede, dinudarz le, e riguardar la loro viltà
e ſuilupparie dalla pompa, con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè
l'apparenza è vnagrande ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le
coſe ferie, allora più che mai t'affaſcini. Mira dunque a quel, che diſſe
Cratete di Senocrate. Il più delle coſe, che la inolti tudine degli huomini
ammi ra, ſi riduce generalmente a quelle, che hanno dalla na tura le forme, o
dall'arte fon loro aggiunte; per cfemplo, le pietre, le legne, i fichi, le viti,
e gli oliui, e quelle, che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati,
fi riducono alle coſe animate, ome a dire, gregge, ar menti: ma quelle, che
ſono pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole, non
già di quell'anima, che è dell' vniuerfale, ma di quella, che fi val dell'arte,
o altri mente come con ingegno penetra, o per dirlo ſempli cemente tutto tiene
ſogget to, in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma ragioneuole,
vniuerfale, e ciuile fa conto, non bada a nient'altro, ma ſopra il tutto conferua
la propria anima di ſpoſta, e ſemouente ragione uolmcnte, e alla comunica zione
humana, é con l'vni uerfale, ch'è del medeſimo genere, coopera. II Alcune coſe
s'auanza no al lor facimento, e altre s'auanzano al lordisfaci mento; e di
quello, cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita. I corſi delle coſe, e l'al
G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano l'infinita eternità, cd il Mondo;
nella maniera, che il corſo non mai man cante del tempo lo rende ſempre recente.
E chi è que gli, che in queſta corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle
coſe, che via traf ſcorrono, mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa +
rebbe in guiſa d'vno, che ſi metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli, che
col volo trapaſſano, dopo che già dal. la viſta foffe fcappato. La vi ta di
ciaſcheduno è come lo ſuaporamento del ſangue, e'l reſpirardell'aria. Poichè.
qual'è l'attrarre dell'aria, e il renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale
è ogni fa cultà reſpiratiua, che ieri, o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice
uè, e l’ha da irimandare là, donde primafu colta. 12 Stimabil coſa non è, ne
l'efferc fuentolati, come le piante, ne il reſpirare,come le beſtie, e le
fieregne il riceue re l'impreſſioni nell'immagi nazione, ne l'effer tirato dal
l'impėto delle paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi; poichè
queſto è il me deſimo, che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento. Di che s'haurà
da far conto de lo sbattimento delle mani? Non già. Dunque ne meno
dell'applaufo delle lingue; poichè gli applaufi, ele ladi della moltitudine
altro non fono, che ſtrepito di lingue. Mentre tu dunquc leui via queſta
glorietta che ci riina G 5 ne da pregiare? Io per me re puto,che ſia il
muouerſi, e com tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e
l'arti conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta,
lia abile all'opera, per la quale è diſegnato. Queſto pure ri cerca il
lauoratore della vi gna, ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere. E ledu
cazione de' fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano? Qui
dunque con ſiſte il pregio, e, ſe ciò ti ſta rà bene, di niente altro ti
curerai. Cheſe non ti quie ti, e ſtimeraipiù altre coſe, allora non goderai
della li bertà, ne ſarai ſufficiente a te ſteſſo, ne immune dalle paſſioni;
conciofficcola che ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia, e
l'emulazione, e'l ſoſpetto verſo quelli, che habbiano potere di priuarti delle
dette cofe; e anco di macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo
no. Onninamente è neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è
biſogno fo, e che in oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij. Ma chi la ſua
propria mente ris ueriſce, e pregia, compiace rà a ſe ſteſſo, e a quelli, che
fecocomunicano s'adatterà, e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto
eſli defti nano, e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu,
e in giro: però il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę; +
R ng ſte;ma come coſa più diuina, per
via malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no
glihuomini? ricuſano di lodare coloro, che nel me deſimo tempo, e inſieme con
effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’ poſteri,
i quali ne mai conobbero, ne mai vec dranno; ed è quaſi lo ſteſſo, che fe tu ti
doleſli, che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai parlato. Non
perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai d'apprendere,che Via
impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi bile, e conuencuole,
Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij corpo rali 1 DIMARCO rali,
ſe vno con l'vnghie graffia, o vrtando il capo ha urà fatto piaga, non perciò
glie la ſegnamo, ne ce n'of fendiamo, ne ombra ne prendiamo come d'inſidia tore;
ancorchè ci guardiamo da lui, non, come da nimi co, ne con ſoſpetto, ma
piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi da noi ancora nell'altre parti,
che reſtano della vita noſtra, do ue ci affatichiamo aſſai, co me contro quelli,
che con noi s'eſercitano; perchè vn può, come ho detto, fcan fargli ſenza
ſoſpetto, e odio. 17 Se alcuno potrà cor reggermi, o moſtrarmi, che io dalretto
m’abbaglio con l'opinione, e con l'opere, di buona voglia mimuterò, essendo in
me brama della vee rità, la quale non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo
dal proprio errore, e dalla ſua ignoranza, nella quale egli perſiſte.Io fo quel
lo, ch'appartiene al mio of ficio; l'altre coſe non mi di ſtraggono, perchè
ſono ina nimate, o irragioneuoli, o che errano e non riconoscono la strada. De
viuenti irragioneuoli, e vniuerfal mente di tutte le coſe, e dem ſoggetti tu
come ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza, giac chè
ragione non hanno; ma degli huomini, perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel
modo, checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi
1 gliar penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera, perchè tre fole
ore fo no baſteuoli. Alessandro Macedone, e 'l ſuo mulattiere, ora che ſon
morti, ſono in tutto ri dotti al medeſimo. Auue gnachè o ſono aſſunti nell'
iſteſſe ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera
quante coſes. dell'animo, o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia di
noi tutte in ſieme fi facciano; ed in tal guifa non ti marauiglierai, fe molte
più coſe, anzi tutto quello, che ſi fà, in queſt vno, c yniuerfo, che noi
chiamamo Mondo, parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga, come fi
ſcriua il nome & ANTONINO, proferirai tu appuntatamente ciaſcu-. na delle
lettere? Che dun que s'egli entrerà in colles ra,entrerai ancor tu in collera?
Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con piaceuolezza le
lettere? Però queſto ti ri durrai nella memoria, che ciò, che è conueniente, da
alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna offeruare, e ſenza
turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli, che prendeſſero Idegno, ter minar la
faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il non permettere agli
huomi ni che ſi diano a far quello, che pare a loro s'adatti, e conuenga. Il
che in vn certo modo tu vieti loro di fare, quando, peccando eſſi, tu ti
diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a quel lo come a coſa, a
loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa, mi dirai, non va così. Dunque tu
inſtruiſcili, e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti. 22 La morte fa cellare l'
impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano., le commozioni violente per
l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali, e ogni ſeruitù ver ſo della
carne. Diſdiceuole coſa è, che in quella ſorte di vita, nella quale il corpo
non s'infiacchiſce, l'anima prima del corpo s'infieuoliſca. Guarda di non
inccfa rirti, per non intriderti, che così fuole auucnire. Però conferua in te
ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte grità,la conueneuelezza, l'in genuità,
l'amore del giuſto, la pietà, la piaceuol ezza, l'humanità, la fermezza nell
operare cofe comuenienti. Sforzati di mantenerti tale, quale fu l'intento della
Filo ſofia di formarci. Venera gľ Iddij, protegi gli huomini. Breue è la vita,
e l' vnico frutto del viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far
opere indirizza te al comun bene degli altri. In ſomma fa ogni coſa da vero
allieuo di ANTONINO, Rio cordati, come egli sempre sta in un retto tuono d'operare
ſecondo la ragione dell’uguaglianza ſua in tutte le cose della santità, della serenità
della faccia della soauità, del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione
nell'apprender gli affari. E come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna, ſe
prima non l'haueſſe ben co noſciuta, e perfettamente confiderata; e come egli
comportaua quelli', che di eſſo a torto ſi lamentauano, ſenza ridolerſi diloro;
e co ine in coſa alcuna non s'af frettaua, c non ammetteua calunnie; ne de'
coſtumi, o dell'azioni era curiofo fpia tore, ne rinfacciatore, non timido non
ſoſpettoſo, non ſofifta; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare, sì net
dormire, sì pel 0 e veſtire, sì nel mangiare, si nella ſeruitù; come, pronto
trauagliaua volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà; e in qual modo fe la
paf ſaua fin alla ſera con leggier riſtoro; non hauendo biſo gno fuor delle ore
conſue te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza
niuna variazio ne nell'amicizie; e la tol leranza' di chi liberamente
contradicena a’fuoi pareri, e't godimento, fe venina da al tri moſtrata cofa
migliore; e come era, religioſo ſenza fuperſtizione: acciocchè nel l'vltinio
punto della tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo,
me'anuenne a lui. Riſuegliati e richiama te fter D fteſlo, e di nuouo fuori del
fon no conſidera che i ſogni ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare
queſte coſe humane, come miraui quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo, e
d'anima. Al corpicciuolo dunque ogni coſa è vna, poichè egli non può farui
differenza; maall? intendimento tutto quello è indifferente, che non è del le
ſue proprie operazioni Ora le ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e
fra queſte, quelle che al preſen te folo maneggia: mentre quelle dell'auuenire,
o quel le del paſſato anche eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di
natura la fatica alla mano, e al piede, finchè il piede fa quello, che ha da
fare il piede, e la ma no quello, che la mano. Co sì ancora all'huomo, come
huomo, non è fuor di natu ra la fatica quando opera quello, che ſi ſpetta
all’huo mo; c ſe ciò a lui non è fuor di natura, non gli ſta male. Quanti
piaceri ſi goderono i maſnadieri, i zanzeri, i par ricidi, i tiranni? Non confi
deri come i mecanici artiſti infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano
nientedimeno ſoſtengono la regola della loro arte, ne comportano, che da quella
ſi manchi, Non farà coſa ſconueneuole, che l'archi tetto, o il medico
riſpettino più la ragione della propria arte, che l'huomo la ſua, la quale gli
è comune con gli Iddij? L'Asia, l'Europa ſono angoli del Mondo: tutto ľ Oceano
vna gocciola del Mondo: il monte Atho una zollerella del Mondo: ogni tempo, che
corre yn punto dell'eternità. Tutte ſon coſe piccolc, facili a mutarſi, che
preſto fuaniſcono là, donde procedono, deriuando tutte dal comun direttore.
Sicchè il grifo del Leone, e'l vele no, e ogni maleficio,come le ſpine, ela
mota, ſono giun te forucnute da quelle coſe degne, e buonc. Dunque queſte coſe
non reputar alie, ne da quello, che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il
fonte di tutte le coſe. 28 Chi vede le coſe pre fenti, l'ha vedute tutte, fieno
quelle, che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli, o quelle, che
per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere, e confor mità.
Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e l'abitudine; o
il riſpetto, che vna ha con l'altra; giacchè in certo mo do tra ſe tutte le
coſe ſono intrecciate, e così tra di loro, ſecondo queſto, ſi affeziona no,
poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le, o per la
coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que' negozij;
che ci ſono toccati in forte, ea quelli huomini, co’quali ſei deſtinato
d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi, e ognivaſo,
ſe a quello, ache è stato ordinato s'accomoda, è buono; ancorchè quegli', che
lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe, che ſotto la natura ſi contengono
den tro vi è; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe. Perciò tanto più deeſi
quella vene rare; e ſtimare, perchè ſe tu opererai, e ti gouernerai conforme al
voler di quella, il tutto ti riuſcirà, ſecondo la tua intenzione; così an cora
ad ognuno le cofe - rie ſcono, fecondo la mente di lui. 30 Quando fuor di
quello, che cade ſotto la tua elezio ne hai a te ſteſſo preſuppoſto o bene, o
male', è neceffa. rio, ſecondo l'auuenimento di detto male', o miſauueni mento
di detto bene, lan H mentarti degl'Iddij, e anco ra odiar ' gli huomini, che
ſieno ſtati cagione, o che a te ſieno ſoſpetti, come che poteſſero eſſer
cagione di detti miſauuenimenti, o au uenimenti. E per queſta dif. ferenza
verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo giudi chiamo le coſe buone o cattiue,
che ſono in noftro potere, non ci rimane niuna cagione, ne di dolerci di Dio,
ne di contro gli huo mini con oſtil ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a
compiere l'iſteſſo ouraggio, alcuni ſapendo, e compren dendolo alcuni ſenza
ſaper lo. E quindi, al mio parere, Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel
facimento di tutto quello, che nel Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro
modo coopera, e molto largamente ancora quegli, che ſi querela, e que gli, che
ſi sforza d'opporſi, e di diſtrugger le coſe,che ſi fanno: concioffiecoſa che,
di ciò hebbe meſtiere ilMon do. Reſta dunque, che tu intenda tra quali di
queſti tutti annoueri; poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà
bene di te, e ti riceuerà in qualche parte di quelli, che cooperano, 0 poſſono
operare; ma tu fa di non hauer tal parte, quale nel dramavn vile, e ridico lo
verſo mentouato da Cri ſippo. Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia? ed
Eſculapio da terra fruttifera? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella,
quantun que dall'altre diuerfa, nien tediineno al facimento di vna, e iſteſſa
coſa concor re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe, che a
me ſono per au uenire, la deliberazione non farà, ſe non buona: hauena do in fe
repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio. Qual cagione lo mouerebbe a far mi
del male? Poſciachè a los ro, e all'vniuerſo, del quale hanno ſpezial
promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe? ma ſe intorno a me non de liberarono,
certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato, per cui conſe guenza
eſſendo queſti auue nimenti ordinati, debbo ab bracciarli, ed eſſer contento.
Se poi di nulla ſi pigliano cura, il che è empio a crede Te, non facrifichiamo
noi? non porghiamo preghiere? non giuriamo? e non faccia mo altre coſe, le
quali tutte agl' Iddij, come ſe foſſero prefenti, e conuerſaſſero con noi;
indirizziąmo? E ſean cora niente in riguardo no ftro deliberano, farà lecito
ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia riſoluzio nenon farà altro,
che intor no a quello, che mi torna 'bene;maquello torna bene a ciaſcheduno',
che è fecon do la ſua conſtituzione, e nåtura. Ora la mia natura è ragioneuole,
c cittadineſca. La Città, e la patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto
ſon huo. mo è il Mondo. Dunque quelle coſe, che a queſte Cittadi sono d'vtile,
quelle fole ſono a mebuone. Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto.
Queſto doueua effer fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con
perfpicacia of feruerai, che ciò, che acca de conferente all'huomo, anche agli
altri huomini conferiſce. Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov
nelle coſe mezzane in ſenſo comune al bene, e al male. Come quanto ti ſi rap
preſenta nella faccia del Theatro, o di ſimili luoghi, fe in vn modoſempre ſi
ve de, e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta, l'iſtella
apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita. Poichè ſottoſopra tutte
le coſe ſono le medeſi me, e dalle medeſine ca gioni. Sin doue dunque?
Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini, e ď ogni ſorte di
profeſſione, e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a
Filiſtione, Febo, e Ori ganione. Paffa adeſſo ad al tre nazioni. Colà hauemo da
tragettare, doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi Filoſofi.
He. raclito, Pitagora, Socrate, tanti Eroi primieramente, e poi tanti
condottieri, e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco, Archimede, e
altri di perſpicace ingegno, magnanimi, amatori della fatica, Scaltriti,
arroganti: e quelli ancora, che di que fta vita humana caduca, e giornaliera ſi
ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che già yn pezzo
fa giacciono. Ora che male è a loro queſto, e che male a quelli ancora, che in
tutto ſono ſenza niuna no minata? Vna coſa iui è dc gna di ſtima, il viucr tran
quillamente con li bugiardi, e gl'ingiuſti, vſando la veri, tà,e la giuſtizia.
34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo all’ec cellenze di quei:, ché
teco viuono: come a dire all'atti uità di quegli, alla modeſtia di queſti, alla
liberalità d? vno e così ad altra virtù di qualche altro. Non ci effen, do cofa,
che tanto rallegri, quanto le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli
coftumi de contemporaneiig le quali tutte in vn tratto in fieme a noi
rappreſentano. Per lo cheper quanto è pof fibile, le hai d ' hauer ſempre alle
mano. Forſi tu ti duoli, che fei ſolamente di tante libbre, e non di trecento
di Nell' iſtefla maniera, che fino a tanti anni prolungherai la vita, e non più.
Perchè co me della ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti,
così fa ancora del tempo. 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o
pereremo ancora qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto
così richieda.E ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone, trapaſſa alla
placidezza fen za dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù;
e ricordati che tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne, non appetendocofe
im. poflibili. Che coſa dunque appetiſco? quel certo defi derio regolato; e
queſto tu ottieniquando, arriua quel lo, che primo, e principal mente viene
deſiderato. L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio
bene; quegli, che ama la voluttà, dalle ſue pafſioni: ma chi ha ceruello, dalla
propria operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione, e non
perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza
ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le
coſe, che da vn'altro fo no dette; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi
fta parlandoti. 40 Quello, che non è gio. neuoleallo fciame, ne' meno gioua
alla pecchia. Se i marinari parlaffe Fo
male del loro piloto, 0 gli ammalari del loro media co, forſe per ciò ad altro
ar tenderebbono, che all'opera re, quegli per la ſaluezza de' nauiganti, e
queſti per la fanità di quei, che fi ciira no? Quanti fon già morti diquelli,
che meco ſon en trati nel Mondo? -43. Aglitterici pare ilme-, le amaro: e a '
morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore: e alli putti è coſa bella il
palloncino. A che dunque io m'adiro? forſi.pa re a te, che habbia minor forza
quello, che falſamen te s'apprende, di quello cheha la bile nell'itterico, o'l
veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona, che tu non viua ſecondo la
condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori della ragione della
natura dell’vniuerfo.. 44 Quali ſono quelli, alli quali ſi deſidcra d'andar a
verſo, e per qualiauuenimen, ti, e con quali opere? 0 quanto preſto i ſecoli
ogni coſa copriranno, e quante han di già ricoperte! Che coſa è la mal nagità?
è quello, che ſpeſſo hai veduto; e ad ognicoſa, che ti ſoprauuenga, prontamente
rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo, che ſpef fo hai veduto. Vniucrſala mente nelle
coſe ſuperiori, ed inferiori, trouerai le me deſime, delle quali ſono pie nele
Storie antiche, e quelle di mezzo tempo, e lemoder ne, e ora ne ſono piene le cittadi,
e le caſe. Non ci è niente di nuouo, tutto è vſa to, e di corta durata. I dogmi,
in qual' altra maniera ſi potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a
quelli ſono con formi non ſi eſtinguono, le quali, a te ſta di continua menté
rauuiuare? Reſta in mio poter di fare intorno a ciò quel concetto, che ſi
conuiene: e ſe ſta nel poter mio, a chemi turbo? Quel lo, ch'è fuori della mia
men te, non ha che fare in modo alcuno con la medeſima mente. Queſtoſia il tuo
ſen timento, e cositu ſei retto. 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in
vita, riconoſci le coſe nel modo, che le hai già vedute; perchè in ciò conſiſte
il ritornare in vita: Tali ſono la vana curioſità delle pompe, le rappreſen
tazioni nelle fecne, i bran chi d'animali, le mandre, i giuochi d'arme; vn
ofſetto gettato a cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci,
i trauagli, e il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de
toperti ſpauentati, i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle.
Bi fogna dunque tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo, e ſenza
ſtrepito: e confe guentemente apprendere, che tanto ciaſcun vale,quan to
vagliono le coſe, intorno alle quali s'affanna. 4 E' neceſſario attendere nel
parlare parola per parola a quello, che ſi dice: e nell' operare ad ogni moto:
e nel l'vno riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti; e nell? altro oſſeruare
quello, che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto, o
non è? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla
natura dell'yni uerſo nell'opcrare; se non è ſufficiente, o io cedo l'ope ra a
chi poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante, o
vero la fo come poffo, feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col
mio intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno, e vtile alla
comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo, o con
altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo, e più proporzionato al
comune. Quanti, che ſom mamente furono celebrati, di già ſono paſſati
nell'obbli uione? E quanti, che li cele brarono già tempo fa, ſono ſpariti a
Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti
appartiene, come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia. Che dunque
fareſti, ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro
poteſſi farlo? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai
a quello, fe ſarà di vopo, fornito dell'iſteſſa ra; gione, della quale tu ora
ti ferui in ciò, che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe ſono
tra di loro auuinte, ed il nodo è fa cro, e quaſi' niuna è all'altra ſtraniera.
Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano l'istesso mondo,
poichè di tutte le coſe queſto è vno, e Dio è vno per tutto, vna la natura, e
yna la legge, vna la ragio ne comune a tutti i viuenti intellettuali, e la
verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che ſono dell' iſteſſo
genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano. Ogni coſa materia
le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo: e ogni
cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale. I ſecoli
ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono preſtamente la
mc moria di ciaſcheduno, s,is:: 8 L'animal ragioneuole ha la medeſima
opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione, o retto o raddirizzato. Con
qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con tale fi confans no
gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN
UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza di queſto, ſe
ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto, aduna mento di
razionali. Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno, cioè membro, farai
fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a re
ſteſſo. id -11 huomini, ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro fine
della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza, e non come per far
beneficio. 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a coloro,
che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino pure à lor e
voglia: che quanto a me, se io non reputo che ſia male l'auuenuto accidente,non
ne reſto lefo: ora da me dipen de il non reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi
faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo dabbene:non al trimente, che ſe
l'oroj ouero lo ſmeraldo, o la porporaco si delcontinuo diceſse; Che che altri
ſi faccia, o dica; a na or el file 7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са
) ſim bil vie La 011 me tocca d ' eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio
colore. La porzione, che è in noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta, cioè à
dire, ella non s'atterriſce ne s'affige con la cupidigia, e ſe altri è poſſente
d'atterrirla, ò di contriftarla, lo faccia. Certo è cheda per ſe ſteſſa con
l'ap prenſione non fi riuolgerà a tali commouimenti. Alcor, picciuolo ſi laſci
il penſiero, che non patiſca coſa alcuna, ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però
l'animuccia, che teme, e s'attriſta, e riceuc total mente l'apprenſione, niente
patirà; concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto
a ſe ſteſſa la por qu Id nd CC n A 0
porzione in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non
ſi fabbri ca la neceſsità, e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed
incapace d'impedi mento, fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La
felicità è il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia? deh
pergľ Iddij, vattene comevenifti, nonho vopo di te.Seivenuta conforme
all'antica vfanza: non m'adiro teco; ma vatte ne vna volta. 14 Alcuno ha paura
della tramutazione; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne, e quale è più
di lei ami ca, o domeſtica alla natura dell'yniuerfo? Ti potreſti tu lauare, ſe
le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero? ti potreſti nutri re,
ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero? che altro fi com pierebbe di neceſſario
ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è
confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo?. Per l'effen
za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e
cooperanti con l'yniuerfo, almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano.
QuantiChriſippi, quanti Socrati, quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito?
l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa. Vna
coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che
la conſtituzione dell'huomo non vuole, o nel la maniera, che non vuole, o come
al preſente non vuole. Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco tutti ſi
ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che erra no;e
queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà, che quelli, che peccano, ſono
a te congiunti; e che o per ignoranza, o non volendo, peccano; e come tra
breuil ſimo tempo, e tu, e quellive n'andrete: e ſopra tutto per chè non ti ha
leſo, mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più che per
linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza vniuerfale,
come ha ora formato vn ca: 3. da cera, 194 LIBRO SETTIMO caualluccio, e poi,
quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn albero di poi d'vn
homicciuolo, e appref lo per qualch' altra coſa; e ciaſcuna di queſte ha durato
per cortiffimo ſpazio. Non reca al caffettino molcftia if diſcomporlo, ficome
non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La ſdegnoſa torbidez za del volto è
oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe fiate ſuanire la gratia di quello,
ouero alla fine in guifa l'eſtingue, ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi:
Dunque, per queſto iſteſſo sforzati di apprendere che quello è fuori della
ragione; poſciachè, ſe il riſentimento contra il peccare fi perde, a che gioua
il viuere? 18 Le coſe, che tu vedi, tutto tra poco le muterà la natura, che
gouerna il tutto; e dall'eſſere di queſte pro durrà altre cofe, come di nuouo
altre dall' effenza di quelle, acciocchè il Mondo di continuo ſi conferui in
giouentù. 19 Quando vn commerta errore contro di re, toſto conſidera, che coſa
egli pec Cando s'immaginò di bene, o dimale: perchè,conoſcen do queſto, lo
compatirai, ſenza marauigliarti, o adi Tarti. Pofciache o formerai l'isteſſo
concetto del bene ch' eſſo formò, o altro ſimi le a quello concepirai, on de
fia neceſſario perdonar gli. Ma quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo
concetto del bene, o delmale, ti renderai più facilmente benigno ver fo colui,
che ha traueduto. 20 Non s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di
quelle, che ora ſono: ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili, e ricor
darſi con quanto ſtudio quc fte fi cercherebbono, fe non foſſero preſenti. Però
è inſic me da guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle
vantaggioſamente., a ſegno tale, che, ſe ti inan caffero, te ne turbaſſi. 1.21
Raccogliti in te mede mo. La parte ragioncuole, e principale, è di tal natura,
ch'è ſufficiente a ſe ſteffa, quando giuſtamente opera; e in ciò truoua la sua
quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni,
circonfcriui il prefente del tempo, riconoſci quello, che auuiene così a te,
come ad altri: diftingui, e partiſci quello, che ti ſta fra mano nelle fue
cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora: laſcia l'errore comineffo a
quello, e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la
mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti: Abbelliſci te ſteffo
colla ſemplicità, è vergogna, e coll indifferenza, ch'è in mezzo tra la virtù,
e'l vizio. Ama il genere humano, con formati con Dio. Quegli diſſe, ogni coſa
eſſer ordina ta con legge certa, ma gl’elementi soli muoverſi con mouimento
incerto, e for tuito. Baſta hauer nella me moria tutte le coſe eſſere rc golate
con legge fiſſa, c po chiffime andare a caſo.. 23 Intorno alla morte: 0 è
diſipazione, o atomi, o euacuazione, o eſtinzione, o trapaſſo. Intorno al
dolore: fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è inſoffribile; e
l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria tranquillità, e la
parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore, ſe poſſono,palefino
il loro ſen timento. Intorno alla glo ria: riguarda gli animi di co loro, quali
ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap petiſchino: e come l'arene de i
lidi, che vna ſopra l'al tra venendo a ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil
mente nel noſtro viuere le coſe antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto
ca cellate. 24 Da Platone. Penſi tu dunque, che quegli, che ha penfieri da
magnanimo colla fpeculazione d'ogni tempo, e d'ogni ſoſtanzia faccia gran
concetto del viuere dell'huo po? Non può eſſer che ſia, riſpoſe. Dunque ne
queſti potrà reputare che ſia male la morte. Non per certo. Detto di Antiftene.
E' coſa da Re operar bene, e riceuer ne biaſimo. E ' ſconuenelio le, che'l
noſtro volto obbe diſca, e ſi regoli, e s'abbel liſca, come la noſtra mente I 4
or 200 LIBRO SETTIMO ordina, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi
abbelliſca. Se con le cofe diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è
vano. A i mumi da cui morte va lontano Diaſi allegreza,e diaſi pur'a noi. Che
ſi tronchi la vita, come ſuole Matura Spiga, e un viua, e un ' altro mora Che
di me cura, e de' miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole.
26 Da Platone. Io riſpon derei con giuſta riſpoſta. Che tu, o huomo, non ben
diſcorri, ſe penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere, o il morire
dell huomo, per poco ch'effo va glia, e non più toſto queſto solo confiderare,
cioè, ſe quando opera, operi coſe giuſte, o non giufte e da huo mo buono, o
cattiuo. Così il vero ſta, o citta dini d ' Athene: fe alcuno reputando il
poſto cfler otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato, "
conuiene, come a me pare, ch'iui ſi fermi, anco che vi foſſc pericolo, non
facendo conto ne della morte d'altro, fuori che della brut tezza. Ma poni cura,
o galant huomo, ſe altra coſa è l'effer buono, e generoſo, che'l faluare altri,
e faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo
veramente prodc la vita lunga,ne dee ftare appiccicato al yiuere, ma rimet
terſi intorno a tutto ciò in Dio, credendo alle donne, che neſſuno può ſcanſare
il fato; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare,
per ottimamente viuere, il tem po, che gli reſta da viuere. Offerua il corſo
delle ſtelle, comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le
vicende uoli tramutazioni degli ele menti; perchè coll' appren fioni di queſte
coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena. Bene ne i diſcorſi
dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene,
co me da alto in baſſo, le con greghe, gli eſerciti, i lano ri et is 20 90 7.1
her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi, i diſciogli menti,
le nafcite, le morti, gli ſtrepiti de' tribunali, i paefi diſertati, le varietà
del te genti barbare, le feſte, i pianti, imercati,il rimeſco famento del
tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro contrarie. Riuedi
conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute: le tante mutazioni degl'Im perij. E
lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a tutti i modi hauranno l'
iſteffa ſomiglianza, c non trauſeranno mai dall' ordine di quelle, che al
preſente ſi fanno. Quindi auuione che il miſurar la vita humana con anni
quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1 0 I 6 ni 204ni
diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più? Vanno indietro le coſe, e ciò che
diede La terra in terra, e nel celefte templo Ciò che venne dall'etera ſen
riede Ouero queſta è, yna riſolu zione degl'intrecciamenti de gli atomised vna
diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione. Con beuande,con
cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via. Conuien Soffrir con
ftenti, e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce vno più
di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri: ma non ſia più co municatiuo,
non più riſpet toſo, non più compofto ne gli accidenti, non più benigno verso
gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc, secondo l'intendimento comune
agl’Iddij, e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine, iui non è del male:
auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione, che proſpera
mente s’auanza, e non trali gna dalla ſua diſpoſizione, iuinon s'ha da
ſoſpettar di danno. In ogni luogo, e in ogni tempo ſta in re il pren der a
grado, con la douuta pietà, quello, che preſente mente accade, e di portarti
con glihuomini, li quali con te conuiuono, giuſtamente, ed eſaminare
efattamente quello, che fi rappreſenta all'immaginazione; accioc chè non vi
fubentri qualche coſa, che non ſia per prima bene compreſa. 31 Non inueftigare
ciò che ad altri paſſa per la men te, ma riguarda diritta mente à quello, a che
la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo, per le coſe che ti accadono,
ouero la tua, per l'azioni, che da te dependono. Ora quellos? haurà a fare da
ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua diſpoſizione. Per rò tutte
l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli, che ſono ragioneuoli, come in ogni
altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per
l'altra.Dunque il primo e principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere
COMMUNICATIVO. Secondariamente non arrenderſi alle corporali inclinazioni.
Concioſliecoſa che proprio del mouimiento ragioneuo le, e. intellettuale è
dicir confcriuer fc fteffo, e non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o
impetuolis poi chè tanto gli yni, quanto gli altri hanno del beſtiale. Ma la
intellettiua vuol la preininenza, e non eſſere do minata da quelli: e a ragio
ne; perchè è fatta per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole
conſtruzione, è di non trauedere, nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe
dunque applicata la men te proceda a dirittura, e co si conſeguirà quello, ch'è
fuo proprio. 32 Come tu non hauefli havuto a uiuere, che fin ora, e già foffi
morto, queſto fo pra più che c'è dato diuiuere, dourai viuerlo fecondo la
natura, folamente contento di quello, che ti auuenga, e che ti è deſtinato dal
fato, imperocchè qual coſa ti può efferpiù couveniente? 33 In ogni accidente vo
glionfi hauere auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili, e che
poi fi dole uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano. Doue dun que ſono
eglino ora? in niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto? Perchè non la fci
gli altrui rigui alli rigi ranti, e rigirati?: e non te ne ftai tutto intento
come ti habbi da ſeruire di tali acci denti? Te ne feruirai dunque bene, e
quelli ti ſerui ranno per materia. In ogni coſa, che farai; non hai da
applicare ad altro, ne altro proccurare, che d'effer a te Iteffo buono. Nell'
yno, e -nell'altro (fia di ciò, che hai da ſcanſare, o ſia di ciò, che hai da
fare ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia
rimira dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te, la quale non
ceſſerà mai di ſca turire, ſe tu di continuo la terrai ſcanata. 35 Il corpo ha
da ſtar fiffo, e non ſi ſtorcere, o fia nel moto, o fia nella poſtura. Perchè
nel modo, che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia, ferbandola ſe 7 1 Il ria,
e ben composta, al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente nel corpo;
e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione. Il noſtro modo di
viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra, o lotta, che all'Orcheſtra, o al
ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono, e non ſono pre ucdute trouarſi
appareccħia to, e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai d'eſaminare quali
ſieno quel li, dalli quali tu brami le te ſtimonianze, e quali l'inten
zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli, i quali peccano
inuolontaria mente, ne ricercherai la lo ro teftimonianza, fc rimire rai da
qual fonte ſcaturiſco no 10 a,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis Torta ballo
lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima, diſſe que gli, di
ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno al
la giuſtizia, alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è
fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni
coſa penoſa, che ti ſucceda, ti fouuenga prontamente che quella non ha
bruttezza, ne può peggiorare la mente in noi reggitrice; poichè non le nuoce,
nene in quanto è ragio neuole, ne in quanto è co municatiua; e nella maggior
parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro; Che to pre cchia dere
ulcera quel let inter: per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è
intollerabile, o non è eterno; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini
fen za aggiugnerui altro con la tua opinione. Ancora quel lo hai da hauer a
mente, che molte coſe, che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte
ci trauagliano: come è l'hauer ſonnolenza, lo fmaniar di caldo, il patir faſtio
di ſtomaco '. Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con
feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta
quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini. 40 Donde
argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre, e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre
non baſta, che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co '
Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe, e co
mandato a condurre quel Salaminio, più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe
renitente, e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno. Intorno a che era
aſſai da in ueftigare le così era vera mente. Maquello è neceffa rio
conſiderare, qual ' animo s'haueſſe Socrate, e ſe egli po teſſe appagarſi
d'effer giuſto inuerſo gl’huomini, e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi
temerariamente contro la malizia, ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno, ne
accettando come ſtranie Fit Ho fe je. Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa
datagli dall' vniuerſo, o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai
acconſentito, c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non
in fi corporò talmente il compó fto, quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere, e
regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo. 41
Può eſſere facilmente, in che vn diuenga huomo diri no, e non fia conoſciuto da
alcuno. Ricordati ſempre di queſto: e in oltre di quello, 1 che?l viucre
felicemente conſiſte in pochiſſime coſe. E non perchè habbi tu per duto la
ſperanza d' eſſere Dialettico, o Fiſico, ti ſtime rai rigettato dal poter eſſer
libero, pudico, comunicati uO. E I uo, e oſsequente a Dio. 42 Senza alcuna
violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità, an corchè tutti
ſtrepitino,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i membricciuoli di
queſta mafsa, che t'è cres ſciuta addoſſo, perchè, che vieta in tutte queſte
coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità, e nel giudi cio vero
delli circonſtanti accidenti, e collyſo pronto i delle coſe preſenzialmente
ayuemute: in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra è quello, che vien
accadendo: queſto fe' in ſoſtanza, ben chè lecondo l'opinione, al tro
appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente: tu fe' quel lo, ch'io cercaua.
Perchè fem - 01 te elle est sempre quello, ch'è preſen te, ferue per materia
della virtù ragioneuole, e ciuile; e inſomma è materia dell'ar te
dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello, che auuiene ſi fà famigliare a
Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua, ne intrattabile, ma conoſciuta, e
maneggieuo le. 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto; ch? ogni giorno
ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo, non ſi com mouendo a coſa alcuna, ne con
iftordimento, ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a
male, che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario comportare ta li, e
tanti fcelerati, anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in
oltre di quelli vna total cura; e tu che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non
oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati? è da riderſenc; tu non fuggi la tua
propria mal uagità, il che è poſſibile, ę fuggi quella deglialtri, il che t'è
impoffibile. 45 Quello, che la facultà ragioneuole, e ciuile truoua, non
fecondo l'intelletto, ne ſecondo la ſocietà, con buon dettame lo giudica più
viledi fe ftefla. 46 Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il
beneficio, oltre di queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi, di parer
d'hauer fatto bene, e d'hauer a rice uere il contracambio? niuno s'affatica,
mentre riceue vtili K tå, oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta
anzi 9 Tantà, e mentre l'vtile è azione ſecondo la natura; non ti af, fannar
dunque riceuendo yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri. La
natura dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo, donde
è che ora tutto ciò, che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello; ouero
le coſe principaliffime, alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna
particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te. Se tu ciò a memoria ha
urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia
erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio
ueuole contro la vanagloria, con fiderare, che non iſta più in tuo potere
l'eſſer viuuto tutta la vita, o almeno la paſſata dopo la giouentù, filoſofica
mente: ma a molti altri, e a te medeſimo hai dato a co nofcere, che tu ſeben
lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato: perchè K 2 1 1 # oramai
non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo, ſenza che ti è contraria
ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue
conſiſte ľaffare, non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato, ma baſtiti ſe
tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na: tura. Conſidera
dunque quel lo,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga: perciocchè hai già
prouato per quantecoſe ſe'i to vagando, ne mai in niuna hai trouato il ben
viuere, ne nel fillogizzare, ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei
piaceri, ne in che ſi fia. Don ue dunque farà? nell'operare ciò, che richiede
l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà? quand'v no faciled
Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati
queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti, elo pere. E quali ſono
queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni, e a i mali, come nulla eſſer
bene all'huomo, che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla
male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette, 2 In ogni operazione
in terroga così te ſteſſo: in qual maniera queſtaa me fi confà? forfe appreffo
non ine ne pen. cirò a Di qui ' a poco io farò porto, e ogni coſa fuanirà. Che
coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad animale
ragioneuole, e comunicatiuo, e che nella legge ſi conformi con Dio? Alessandro,
Caiose Pompeio, che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E SOCRATE? Queſti
penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie, e tali erano le menti loro: ma
quelli a quanti haueuano da prouedere? a quanti haueua no da ſeruire? 4
Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe. Al bel
primo non ti ſtare a turbare; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo la
natura dell'vniuerſo; e tra poco tempo tu farai nič te; ed in niun luogo, come
non é Adriano, ne Auguſto. Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa, conſiderala,
ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab bene, e ciò
che la natura del l'huomo richiede, fa ciò, che tu ti proponeſti con inuaria
bile fermezza, e parla come giuſtiflimo ti parrà; però con placidezza e con
rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura dell'uniuerso l'opera e'l
ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà, tramutarle leuarle di quà, ed
iui riporle. Ogni cosa è mutazione, non però sì, che s'habbia da te mcre di
nouità, andando il tutto ſecondo il conſueto; anzi le diſtribuzioni delle co fe
fono eguali. Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa, s'ella cà. mina per la
propria via. E la natura ragioneuole cammina bene, quando nelle immagi nazioni
non conſente al falfo, o all'incerto; e negli appetiti, quando alle ſole opere
co munali gli dirizza; e nellide fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le
reſtrigne a quelle coſe fole, che ſtanno in noſtro ar bitrio; e abbraccia
volentie ri tutto quello, che dalla na tura comune le vien datos poichè è parte
di quella, co me la natura della foglia è parte della natura della pian ta, ſe
non che iui la natura della foglia è parte di natura, che è ſenza ſenſo, e
ſenza ra gione, e che ſi può impedire: doue la natura dell'huomo è parte della
natura ad impedi mento non ſoggiacente, in tellettuale, e giufta; mentre eſſa,
ſecondo l'egualità, ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de'
tempi, delle ſoſtanzie della cagione, dell'operazione, e delle con tingenze. "
Anuertiperò,che non trouerai in niuna coſa, conſideratele ad vna ad vna, queſta
vguaglianza pari ad vn tutto;maſi bene accumulata mente, conferendo il tutto
dell'vne col tutto dell'altre. 6 Non te conceduto di poter leggere,maè in tuio
po tere il non far delle ingiurie, -il vincere i piaceri, e idolori, l'effer
ſuperiore alla glorietta: di più,il non alterarti contro de i difenfati, e
degļingrati: anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno ti oda
querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8 Il
pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato. Ora il
bene de' efſere qualche vtile, e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e di
buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen. timento
di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile, ne buona il
piacere. 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con ftituzione?
Quale è il ſuo ſo ſtanziale, e materiale? Quale è il ſuo caufale? A che serve
nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di fguſto dal ſonno
ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione, e fecondo la condizione
naturale dell'huo. mo di produrre operazione a prò dell humana focietà: dove il
dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li. Quello perù, ch'è
naturale ad ognvno, quello è più pro prio, e più comodo, ed è più giocondo. II
Continuamente, ed in ogni immaginazione, giuſta tua poffa, eſamina la ſua na
tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri. In
chiunque t'ab batti, prontamente diſcorri dentro di te; Queſti che maf fime può
hauere intorno al bene, e intorno almale?. Im perocchè, fe ha tali, e tali maſſime
intorno al piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no, e dell'altro, intorno
alla gloria, all'ignominia, alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò, ne
mi parrà coſa K 6 ſtrana, s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò, che quegli è
violentato ad operare in fi mile maniera. Rammentati, che come è coſa
difdiceuole lo ſtimare ſtrano, che'l fico produca fichi così che'l Mon do
produca quelle coſe, delle quali è fecondo. E ſimilmen te ancora farebbe
vergogna al medico, ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza, ſe viene ad yno la
febbre, e fe il ven to ſoffia in contrario. 12 Ricordati, che tanto il mutarſi
quanto il conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer libero;
perciocchè l'azione è tua, e ſecondo il tuo appetito, e giudicio, co me anco
conforme al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine. 13 Se depende da te, pers ché
in chè lo fai? ſe depende da al tri, di che ti lamenti? degli atomi, o
degl'Iddij? mentre così l'vna, come l'altra è paz zia. Non dei querelarti d'al
cuno: perchè ſe è in tuo po tere queſto, correggi l'iſteſſa azione; ma ſe
quello non tuo potere, a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa
alcuna inuano? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo:ſe reſta dun que qui, e
qui fi muta, anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie, le quali ſono elementi
del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò
che è, per qualche coſa è fatto, come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti
maraui. gli? Il Sole pure dirà, per qual'effetto ſon fatto, e così gli
altr’Iddij. Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re? conſidera ſe
l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno, non meno
del fine, che del principio, e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in
alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto, o
che di male quando fcende, e quando ca de in terra? E che di bene n'auuiene
alla bolla dell'ac qua, ſe dura in eſſere, e che di male, ſe fi dilegua. In que
ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna. Riuolta il corpo, e vedi quale
è, e in uecchiandoſi, quale diuiene, o pure cadendo in infermità, o dap o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali.
18 E ' di breuc durata echi loda, e chi vien lodato: il men touato, e chi lo
mentoua.Ag giugniui, che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in
quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento; ne pur yno è ſempre del
medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto. 19. Applica
l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione, oal
fignificato. Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a diuenirc
huo. mo dabbene, più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna, la fo
riferendola a bencficio d'huo. mini. Se m'auuiene qualche? l 1 P cofil 232coſa
la riceuo, riferendola al.. tresì agl Iddij, e al forte d'or gni coſà, dal
quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la uarſi?
olio, fudore, fucidu, me, acqua', ſtrofinacci, coſe tutte difpiaceuoli: I ale
èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta. 22 Lucilla
ſeppelli Vero, appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo, appreſſo morì
Seconda. Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino ſeppellà Fauſti
na', appreſſo morìAntonino. In tal modo cammina ogni cofa. Celere ſeppellì
Adria no, appreſſo morì Celere. Quelli anco d'acuto ſpirito, o indouini; o
fuperbi, doue ho ra ſono? come Charace, Demetrio il Platonico, Eudemone, e
altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in yn giorno, e
di già morte, e mancate: alcuni ne meno per poco rcſtarono nel la memoria:
altri trapaſſaro no in fauole; altri già dall'i ſteſſe fauole ſcancellati, Quel
lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta tua
compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello, o traſpor tarſi, e altroue
riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò, che
appartiene all’huo mo; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello, che gli
è ſimile per natura: ſprez zare i moti delfenſo, diſcer ner le probabili
apparenze, contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP
niwer niuerſo, e tutto ciò, che in quella ſi produce. Tre fono le abitudini,
l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina, dalla qua le il
tutto a tutti deriua, la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è
male del corpo, el corpo ſia quello, che lo paleſi, o è dell'animo: ma l'animo
ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non
rcpu tar, che quello fia male. Per chè ogni giudicio, e inclinac zione, e
appetizione, e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male
neſſuno. 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo: Ora è
in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia
luogo alcuna maluagità, ne la cupidigia, ne qualſiuo glia turbolenza: ma cono
fcendo ciaſcuna coſa, fecon do il ſuo eſſere, mi ſerua di ciaſcuna per quanto
vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura. 26 Parla nel
Scnato, e con ciaſcun'altro in particolare co decoro, e non con troppa li
fciatura, ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la
figlia, i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari,
gli a mici, Ario,Mecenate, i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita
con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai
la morte d'vn huo mo ſolo, ma di tutte, come dei Pompeij. Mancò quella, e ne'
fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te: come anco. quello,
che viene ſcolpito ne'monumen ti, vltimo della ſua gente. Conſidera poi quanto
fi tra uagliarono i loro antenati, di laſciar yni fucceſſore, e pure fu di
neceſſità, che alcuno for ſe l'vltimo, e qui parimente conſidera la fine di
tutta quel. la gente. 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la vita; e ſe
ciaſcuna vi ha la ſua parte, Thuomote nºha đa content - re; e che quella non
habbia il ſuo pienoaſufficienza, niuno lo potrà impedire.Se poi s'op- ' poneſſe
qualche cofa eftra nea?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea? niente al certo s'oppor rà
al giuſto, modefto, e confi derato. Ma forſe qualche al tra operazione
l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento, e trapaſſe rai
coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi furrogherà vn'altra
operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di cui ora ſi parla,
che veramente firice na ſenza fato, e fi laſci pure con facilità 29 Se mai
vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto del corpo reci fa
in qualche luogo giacere; a queſti ſimile per quanto a il Luiſta ſi rendechiunque
ricu fa le coſe ch’auuengono, e ſe ftetſo quafi tronca, o fa quel ſa lo, chenon
ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli altri, col diucller i in
certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen do nato parte di cffa, da
te ſteſſo te ne fe'reciſo, ma qui cade in acconcio il dire, che in tuo potere
ſta di ritornarti a riunire: il che Dio a niuna altra parte ha conceduto, che
ſegregata,e reciſa, di nuouo fi tornaffe a congiugnere. Però confidera la
fouranz bontà, che tanto onore conceffe all' huomo. Poichè nel principio poſe
inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero, e dopo diuelto, il ritornare,
ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto di parte. 30 Come ciafcuno
de'ragio. neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre facultà quaſi qua to è capace
la condizione del. boz fa € 1li
ragioneuoli, così ancora da lei riceuemmo queſta facultà, la quale è, che in
quel modo, che quella tutto ciò, che le reſiſte, e le oſta, lo conuerte, e
rimette nel fato, e lo fa ſua parte, così l'animal ragione uole può d'ogni
impedimen to farſi propria materia, e ben vſar di quello, a che ella per
iſtinto e portata. 31 Non ti confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non
iſtare a ghiribizzare pen ſando quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti;
ma in qualunque delle coſe, che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo: in
queſto fatto,che ci è d'incomportabile, che ci è d ' intolerabile?
Concioſliecofaa che t'arroſſirai di confeſſarlo. Appreſſo ricorda a te ſteſſo,
che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua,
ma ſem pre quello che è preſente; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo
ſeparerai, e la men te tua riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a
que ſto ſolo. 32 Forſe aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea,
o Pergamo? o pure a quello di Adriano Cabria, o Diotimo? E ' da riderſene, E ſe
aſſiſteſſero, ne haureb. bono ſentimento? E ſe ne ha uefíero ſentimento, haureb
bono godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per
queſto immortali? Non portò il f to, che ancora queſti prima diueniſſero vecchi,
e vecchie, ed appreſſo moriſſero? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque
erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza, e mar
cia in yn ſacco. 33 Se tu haiacuta viſta, adoprala, difle quegli ſauia mente,
nel giudicare. 34 Non vedo, che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole ſia
virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia: ma fi bene vedo cffer repugnante al
piacere la virtù della con tinenza. 35 Sea quello chepare ap porti a te
meſtizia, detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro. Chi è
quel tu ſteffo? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la
ragione non tra uagli ſe ſteſſa. Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L
male 16 han Foi [ um 10 The male, ella
medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura
vitale, e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito:
ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento, e male della conftitu. zione
vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura intel
lettiua; applica: tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e? I piacereti co
muotono? il ſenſo fę n'auuer. drà. Nell'apperire ti ſi poſe oſtacólo ſe tu ti
folli moffo fenza ſottraimento, e rifertias allora farebbe male delura:
gioneuole;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non fe'dannificato, ne
impedito, po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra cola ſuo le impedire
le coſe proprie della mente: perchè in quieta la ne fuoco, ne ferro, ne ti
ranno, ne maledicenza, ne altra coſa del Mondo può pe netrare:che cheſi faccia
della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa indegna il mole ſtar me
ſteſſo, mentre a niun? altro mai di proprio volere ho dato moleftia Altre coſe
cagionano allegrezza in altri; io m'allegro, ſe la mia facul tà guidatrice
ſtarà fana, la quale non habbia auuerſione ad alcuno huomo, ne adal cuna coſa
di quelle, che fuc cedono agli huomini, mail tutto rimiri con occhi placi di; e
riceua ciaſcuno, e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo pregio. L 2 38 Ve có LIF CA
Mo It This 700 TO: Vedi di ſpendere a tuo prò queſto tempo preſente. Coloro,
che più affettano la fama apoftuma, non conſidc rano, che quelli, da’quali la
ſperano ', faranno tali, quali al preſente ſono coloro, che a lor non
piacciono, poichè eſſi ancora ſono mortali. In ſom ma che t'importa, ſe quelli
con tali, o tali voci ftrepitino, o habbiano di te queſta, o quella opinione?
39 Prendimise gettami do ue vuoi: poichè iui ancora trouerò il mio genio buono,
e propizio, cioè a dire a me ſufficiente, purchè habbia e operi quello, che è
confor me alla propria fua condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa
s'incommodi l'animo mio, e peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi, appctire,
confonderſi, e ſgomentarſi? E che trouerai, che tanto ine riti? Non può
auuenire coſa a vn huomo, che non ſia acci dente, che non habbia dell? humano;
ne al bue che non ſia accidente, che egli non habbia del bue; ne alla vite, che
non ſia della vite; ne alla pietra, che non ſia proprio della pietra. Se accade
dun que a ciaſcuno quello, che è folito, e connaturale, perchè t'attriſti?
mentre non è intol lerabile quello, che la natura comune a te contribuiſce. E
ſe ti pigli moleſtia per qual che coſa eſtranea, non certo efla ti moleſta,mail
tuo giudi cio intorno a quella. E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E
ſe ti trauaglia qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo, chi è quegli,
che ti vieta di rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni,
perchè non operi tu ciò, che a te pare ben fat to? Perchè più toſto non ope ri,
che contriſtarti? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi
chè non proccde da te la ca gione del non operare. Ma non par che conuenga di
più viuere, fe ciò non fi fa. Dùn que placidamente finifti la vita: mentre
ancora quegli fa qualche coſa, che muore benigno eziandio verſo colo ro; che
gli fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta
inespugnabil, quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con
tenta non facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia
ſenza la. iuto della ragione. Che dun queſarà, quando coll'aiuto della ragione
prudentemen te giudicherà qualche coſa? Per queſto la mente libera delle
paſſioni è come vn'alta rocca, giacchè l'huomo non ha coſa più forte, nella
quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende
è igno rante: chi l'ha comprefo, non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più
ſuggeri fci a te ſteffo di quello, che portarlo Ic mere priine ap prenſioni.
T'è ſtato riferto, che il tale dice malc di te; queſto è vn rapporto. Ma L 4 che
tu ſij ſtato, offeſo, non ſi contiene nel rapporto. Veg gio, che il figliolino
è am malato, queſto ilvedo, ma che ſia in pericolo nol vedo già. Dunque reſta
ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione, e non v'ag. giugnere
dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio: e così niente ti ſopragiugne; anzi
aggiugni, che non ti viene nuoua qualunque coſa, che nel Mondo accade. Il cóco
mero è amaro, laſcialo; le fpine ſono nella ſtrada, ſchi fale, baſta; non iſtar
a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate fatte nelMondo concioffiecoſa
che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia inueſtigatore della natura: come
appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da vn fabbro, o da yn coiaio, ſe tu
li condennafſi, per ve dere nella ſua bottega fca muzzoli, e ritagli delle coſe,
che effi lauorano. E pure que gli hanno doue gittar queſte coſé; il che non può
fare fuori di ſe la natura dell'vni. uerſo: maciò che recamara uiglia di queſta
ſua arte è, che circonſcritta in ſe ſteſſa, quan to dentro di fe fi corrompe, e
s'inuecchia, e appariſce non eſſer più ad alcun yſo, tutto in ſe ſteſſa tramuta,
e di nuo uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa, ch'ella non ri cerca
ſoſtanzia eftrinfeca, ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte.
Così le ſono baſteuoli la ſua regione, la ſua materia, e la propria arte. Dzi
De TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli
congreſi non far confufione. Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo
alcuno con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in
fouerchie faccende. Se ammazzano, fe mandano a fil difpada, fe con efecra zioni
infeftano, che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura, prudente,
contes nente, e giuſta? fiati per e fcmplo: le vno auuicinatofi ad vna fonte di
dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb be
di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go, ' e dello ſterco,
immanti nente ella lo ſegregherebbe, e diffiperebbe, e in neſſun modo Llande
agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь modo fe
n'imbratterebbe.. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua; e non vn
pozzo d'acqua fta gnante? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà, ſtando con
l'aniino trãquillo, ſchiet to, e modeſto. 44 Chì non sa, che coſa ſia il Mondo,
non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia ſtato fatto, non
få ne qual'egli fi lia,ne che co. fa ſia il Mondo. A chi manca vna di queſte
coſe, non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque pare a te, che ftia più
contento, quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o quelli, che nonfanno
doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da vnos che tre volte
l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe cfiun do L 6 se ſteſſo?
Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo
quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali pon ma no, ſi pente? Avverti
per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am biente dell'aria, ma ancora di
conformare i tuoi penſieri con l'intelletto, che tutte le coſe contiene.
Concioffieco fache non meno queſta facul tà intellettuale fi diffonde, ed entra
in quello che la puòat trarre, che quella dell'aria in quello, che può
reſpirare. 46. Generalmente la mali zia non danneggia il mondo; e quella che
riſguarda il par ticolare, non fa danno ad vn altro, ma a quel folo e noci ua,
al quale ancora è conce duto read Idishi med quafi ma enie l'am ncora ofieri
tele eco cu duto di libcrarſene, qualun que volta egli ſia pronto a volerlo. Al
mio arbitrio è indift ferente egualmente l'arbitrio del proſſimo, ficome anco
il fuo fpiritello, e la carnuccia: Imperciocchè fe bene ſiamo fatti
principalmente l'vno per l'altro, niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il
fuo dominio particolare; altri mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo
foſſe il mio male, coſa che non è piaciu ta a Dio, acciò non dependa da altri il
far il mio ſtato in felice. Il Sole par, che fià dif fuſo, c veramente per
tutto fi fpande, ma non però con queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè
queſta ſua ef fuſio Ged at iain ali doi par yn ci ce fuſione è vn
diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi, o raggi ſi chiamano in Greco con
parola, che viene dallo diftenderk. Ma quale sia la natura di queſto raggio, tu
la potrai conoſcere,fe riguardila luce del sole penetrata per qualche feſſura
in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di rettamente, e quaſi vien diui fose
ſquarciato da ogni corpo folidojin cui s'incontri no am * mettente più oltre
l'aria: e qui ſi ferma,nc inciampa, ne cade. Tal effuſione, e diffuſione del
eſſere della mente, non ell çuamento, ma diſtendimento; ficche agl'impedimenti
chein. contro le ſi parano non violen. temcntene temerariamente re fifta, mà
refti ſtabile, e illumi. ni ciò che la riceue. Imperoc chè llo be 1 ih pier lill chè priua fe ſteſſo di
luce, quegli, che non l' ammets te. 49 Chi teme la morte, o te me la perdita
de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo, ſe non haurà niun fenſo, non fentirà
male alcuno. Se poſſederà vn'altra ſorte di ſenſo, farà yn altro animante, e
non reſterà di viuere. 50 Gli huomini ſono fatti P'yno per l'altro; Dunque in
ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la faetta, al trimente ſcorre l'intelletto. Ma
l'intelletto e quando cau tamente procede, e quando alla conſiderazione ſi
volge, non meno ſi porta per diritto, ed al berſaglio. S'ha da penetrare den
tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1] Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu
no di penetrare dentro la pro pria tua mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto
d'empietà. Im perocchè, hauendo la natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali
ragionevoli, vno a prò dell'altro, acciocchè, ſe condo il douere, vno gioui
all'altro, e in niuna guiſa gli muoca, chi traſgrediſce tal decreto di queſta,
commette manifeſta empietà contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij.
Concioffiecofache la natura dell' vniuerſo è natura di enti, e gli enti hanno
vna coral fratellanza con tutte l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa
fi noma verità, ed è prima cagione di tutte le cofe vere. Onde chi ſponta
neamente mentiſce è empio in quanto con l'inganno fa in. giuſtizia, come ancora
chi in uolontariamente mentiſce, in quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo,
e in quanto ca gion deformità, ripugnando alla natura del Monda. Im; perocchè
ripugna quegli, che per ſe ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere:
giacchè haueua innanzirice uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo
traſcu rando, non può ora diſcerne re le coſe falſe dalle vore. E pure chi
ſegue i piaceri, come coſa buona, e fugge il traua glio, comemale, commette
empietà. Perchè è neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune
natura, qua fi ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati, ed a fol
leciti contra il lor merito; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri
abbon danti, e di quelle coſe ond'ef fi deriuano; ed i ſolleciti al l'incontro
fieno da dolori op preſli, e cadano in quelle co fe, che dolore cagionano • In
oltre chi teme i dolori, ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe, che
hanno da ſucceder nel Mondo; e ciò fimilmente ha dell'empietà. chi va dietro
a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia, e qucſto Lira Ck Ho che all te:
Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà. Biſogna, che a quelle co ſe, alle
quali la natura comu ne egualmente ſi porta (per chènon haurebbefatta l'vna, e
l'altra, fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata
vgualmente pro penfa ) quelli, che vogliono eſſere ſeguaci della natura,
hauendo i medeſimi ſenti menti, con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi
a' dolori, ed a'piaceri, o alla morte, e alla vita, o alla glo ria, e al
diſonore, delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo, non è per fe
ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è, che fia empio. Io però dico valerſi
di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire, che auuengono
vgualmente per certa conſeguenza alle coſe, che ſi fanno, o che vanno ſucceden
do conforme allancico im pulſo della prouidenza, col quale ſi moſſe ſin dal
princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune
ragioni del. le coſe future, e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze,
delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti. 2 Migliore, e più deſidera bil
coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno
affatto; così dire,del mentire, del ſimulare, del luſſo, e della fu perbia:
defiderabile dopo ciò (quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione) ſareb
be, che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21 di
queſte coſe,voleſſe più to fto morendo fpirare, che nel la prauità continuare
viuen do". E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla peſte? e la
corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di quella, che dall
intemperie, e mutazione del l'aria, che d'intorno fi fpande, e fpira: poichè
queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati: e quella è degli huomini
in quanto fono huo mini. 3 Non diſprezzar la morte, ma fija quella ben affctto,
ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe; che la natura richiede; poichè quale è la
giouentù; la vecchiaia, il creſcere, l'in uigorire, il naſcere de’denti, la
barba, i canuti, il genera re100 nel ICP 1000 dali ell Mei de ant re figliuoli,
portargli nel ven tre, e partorirgli, e altre ope re naturali., le quali prodịco,
no le ſtagioni della tuavita, tale è ancora il diffoluerfi. Dunque queſto è da
huomo, che ben ſi ſerue della ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente,
ne ſuperbamente fiporta verſo la morte;, ina l'attende come yn'opera del la
natura. Nel inodo che tu ora, aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic,.com
hai da caſpetar l'ora, nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca
ca dendo. E fe vuoi ancora vn conforto cordiale, benchè
volgareztirenderàſoprammo do prontoalla morte l'appli cazione alle coſe
preſenta nec, dalle quali douraieſſere ſe A oto des Tak ler jed Simi Jä Teni
Nem If feparato, e a'coſtumi di colo ro, con i quali non t'haurai più da
meſcolare: tuttavia con quelli non s'ha da rompe re, ma ſtudiare di curarli, e
placidamente ſoffrirli. Onde hai da rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha
da fare da huomini, i quali non han no teco glifteſli ſentimeriti: mentre
queſto folo potrebbe ſeruirci di contrappeſo,e rite nerci in vita, ſe ne foſſe
con ceduto il conuiuere con quel li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti. Ma tu-
ora vedi quanto malageuole ſia il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti.
Sicché ſi può di re: Sollecita o morte a veni re, accioché io non arriui a
fcordarmi vna volta di me ſteffo. 4 Chi rola aurai mpe afait har caini ebbe 4 Chi
péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu ftamentega ſe medeſimo nuô ce,
rendendo maluagio ſe ſteſſo; è ingiuſto ſpeſſe volte, non ſolo chi opera alcuna
co fa, ma ancora quegli, che nonfa qualche cosa. Basta la presente opinione
apprensiua e la preſente operazione comunicativa e la presence disposizione,
che fi compiace d'ogni cosa, che da principiocauſante prouen. ga; per
iſcancellar l'immagi nazione arreſtar l'impeto de gli affetti, temprare gli
appe titieper mantenere nella ſua facultà la parte principale. 6 Fra i bruti
viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i viuen. ti ragioneuoli è compartita
vn’animà intellettuale: fico. M me COlle auch Tere vad COll ade bel oni qili?
mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola terra, e tutti quanti habbiamo
facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu cc vediamo, c d'un aria respiriamo.
Tutti quelli, che partecipano d' vna coſa co mune a quella, che è del me deſimo
genere, anſiofaniente fi portano. Ogni coſa terrc ſtre inchina alla terra.
Tutto l'ymido va inſieme ſcorren do,ogniaereo ſimilmente: ſic chè biſogna
diuidergli a for za. Il fuoco s'erge a cagione del fuoco elementare. Tutto il
fuoco, ch'è quà giù, è così pronto ad ardere con l'elc mentare, come ogni
materia le alquanto più ſecco è facile ad accenderſi pereſſere meno abbondante
di quello, che impediſce l'accenderſi. Dun que letes re CO me In 170 za que tutto quello che
è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre ſimilmente verſo il ſuo
connaturale, anzi più;: perchè quanto è meglio degli altri, tanto è più diſpo
fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare - Anticameji te dunque furono tra i
bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i pollai, e quaſi ynioni d'affetti;
imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi la virtù congregatiua tra i min
gliori ſpicca maggiormente, il che non è nell'erbe, non è ne faffi, non è
ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi truouano leRepubbliche;lean micizie,
le famiglie leraunan ze, e in tempo di guerra le paci, e le tregue. Anzi nelle
coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe
lontane, in qualchemo do vi è vnione, come a dire, tra le ſtelle, così il
deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra
le coſe diſtanti. Vedi dunque quello che ora ſi fa. Perchè foli
gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti mento, e dell'affetto tra loro;
e queſto concorrimento in effi ſolamente non ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè
fuggano, reſtano accerchiati, e preſi, poichè la natura in ciò pre uale. E
vedrai queſto, che di co, offeruando, che più preſto trouerai qualche coſa
terre ftre non congiunta ad altra terreſtre, che vn'huomo dall' altr'huomo
totalmente diſ giunto. 7 Producon fruttto e l'huomo dire deria apo 2126 Vedi
fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e ſi pro duce ciaſcun frutto nelle
ſue proprie ſtagioni; e ſe la con ſuetudine principalmente ſi ferue di queſto
modo di dire nelle vitije altre ſimili piante, cið poco importa: però la ra
gione produce il frutto si proprio, come il comune; e da quella fi propagano
altre tali cofe, della condizione delle quali è ancora l'iſteffa ragione. 8 Se
tu puoi, inſegna ſem pre il meglio a quelli, che er rano; e ſe non puoi,
ricordati che per ciò fare t'è ſtata data l'amoreuolezza, e che gl'Id dij ſon
amoreuoli verſo que? tali, e tanto ſon benigni in alcune coſe,ch'e'dan loro aiu
to per la ſanità,per le ricchez ze, e per la gloria. E queſto a neft viera 2110
vrela pre edi ceſto erre Ultra dall ' dile 10 M 3 te lice, o ſeno, dichiara,
chi te lo vieta? 9 Trauaglia, non come vn tapino, ne meno a fine di pro
cacciarti compaſſione, o mara. uiglia: ma vn folo fia il tuo fine di muouerti,
e di fermar ti, fecondo che la ragione ci uile richiede. 10 Oggi vſcij d'ogni
mole ftia, anzi ſcacciai fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano
eſterne, ma couauano dentro nelle opinioni. 11 Tutte queſte coſe fami gliari
per l'yſo di vn fol dì quanto al tempo, fordide per la materia, ſono ora tutte
le medeſime, quali furono a tem po diquelli, che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe
ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori, per così dire, delle por ch meni dipro mara il 2016
Amal onec 1270 tutte porte, е da per ſe medeſime, niente fanno del ſuo eſſere,
e niente a noi fanno apparire. Che dunque è quello, che le diſcuopre? la
ragione. Non nella perſuaſione, ma nella operazione conſiſte il bene,e'l male
dell'animal ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù, e’lvizio di queſto
non è nella perſuafione, ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede
male ſe caſca, ne bene, tirandoſi in alto. 13 Entra più addentro nelle menti
degli huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma, e quali ſieno elli giudici
intorno a fe ſtelli. 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef
fo in vna continua alterazio nc, c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold
de pe urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo.
15 L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è. 16 Il finire della operazio
ne, il ceffare dell'appetito, e dell'apprenſione, e quaſi la loro inorte, e
nulla nuoce: Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile, alladolcfcenza,al la
giouentù, alla vecchiaia. Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte. E
per ciò ne auuiene danno? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto
fotto l'auolo; appreſſo, quello, cheſotto la madre, dopo ſotto il padre, e
trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni, e termini, di manda a te medefimo,
ſe ve alcun' nocumento. Dunque fimilmente pe manco nel finire, nel ceſſare, e
nel mutarfi del total tuo viuere. 17 Rifletti alla propria tua mente, e a
quella dellyniuer fo, e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta, a quella
del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri per
conoſcere, le viene da ignoranza, o da animo deli berato; e nell'iſteſſo tempo
fa tua ragione, che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per dar
compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile, così ogni tua azione compia
la vita ciuile, Dun que qualſiuoglia tua amone, che non iſtà in tal modo che o
proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine, quella
fcon certa la vita, ne le permette, che continui l'iſteſſa; ed è di M 5 più
fedizioſa, quale è colui nel popolo, il quale diſtrae il fuo partito da fimile
concor dia. 18 Riffc, e giuochi di figlio letti, e ſpiritelli foftenenti
cadaueri; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del martorio. Applica
alla qualità del la cagione; c conſiderala aftratta dalla matcria, dopo
preferiui il tempo, in cuitale, è tal coſa in particolare ſia per più
lungamente durare.: 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö ſoddisfatto del la
tua mente operante quello, in ordine a cui ella fu fatta: ma queſto baſti. 21
Quando alcuno ti biafi ma, o t'odia, o con ſomiglian ticoncctri di te ſparla,
rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione? 3 tra dentro, e ſcorgi quali
quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna trauagliarti per l'opi ch'elli hanno
dite, ma è neceffario voler loro be ne, ftante che, ſecondo la na tura, foto
amici, e gl’ladij in ogni manicra li foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora
in quelle coſe, nelle qualief fi difſentono. 22 Queſti fono i rivolgi menti
fotto e fopra del Mon do, da vn ſecolo all'altro.. E la mente dell' vniuerſo oli
applica alli particolari, e fe ciò è, riceir volentieri ciò che quella ti porta:
ouero, ſe vna volta dette la molla, e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza,
e come vna è nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6
corpi 276 LIBRO NONO corpi indiuiſibili: e in fom ma, ſe ci è alcun Dio, ogni
coſa ſta bene: ſe il tutto è a caſo, e tu non le'a caſo? Fra poco la terra
naſcon derà tutti noi; appreſſo anco ra eſſa fi muterà, e quelle co fc, in cui
eſſa s'è mutata, in in finito fi muteranno, e quelle di bel nuouo fi
cambieranno in infinito. Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni,
e alterazioni, e la ve locità di quelle, diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa
vniuerfale è vn torrente, che rapiſce il tut to. Quanto vilc e ancora queſta
politicheria, e queſte faccende humane, ſe filoſo ficamente vno le conſidera,
quanto ſono piene di mocci? O huomo fa yna volta quello che ora la natura
richie de. Se ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge:
ne hauere fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone: ma contentati ſe la
cofa, ancorchè mcnomiffima, ti rieſce profitteuole, e l'eſito di quella
conſidera non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti? e
ſenza la mutazione delli de. liberamenti, che altro farà che yna feruitù di
lamentoſi, e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami
d'Aleſſandro, di Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero
quel lo, che voleua la natura vni uerfale, e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi, o
fe pure fecero da recitanti di Tragedia, Niu j -1 no m'ha condannato ad imi
tarli: l'opere da Filoſofo fona fincerità, e modeftia; non mi traſportare alla
faftoſa graui tà. 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero,
innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle, e nelle
bonac ce; e diuerſità di coſe, che fi fanno, che inſiemefi fanno, e che ſi disfanno.
Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri, e quella, che dopo te
s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue. E quanti
vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome? Quanti pure prefto fe lo
ſcorderanno? E quanti, che ora ti lodano, di qui a po. co t’incolperanno. E
coine non è da fare ftima, ne della gloria, nc d'altro tal, qual a fia. Sij tu
imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene, ela
giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire, che
habbiano i moti dell'animo, ele aziciri da terminare nell'operare conforme al
ben comune, co me quello, che a te appartie ne, fecondo la natura.1 526 Molte
coſe fuperflue, che ti trauagliano, puoirife gare, le quali ſono ripoſte to
talmente nella tua opinione: e così yn molto ampio cam po a te ftcffo
dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo, e va conſiderando
il ſecolo, nel quale ſci; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa; e
particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto
è im menſo quello, che è ſtato a uanti al naſcere; e come pa rimente infinito è
quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento. Tutte le coſe, che tu vedi
periranno preſtiſſima mente, e quelli, che al pre fente le rimirano perire, pre
ftiffimamente anch'eglino pe. riranno. E quegli, che nella decrepità fi muore,
paſſerà a Atato pari con quegli, che muore immaturamente. 28 Quali ſono le
menti di coloro, e a quali coſe atteſe rose per quali cagioni le ama no, ele
onorano? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali; perchè hanno apparenza di C
nuocere, mentre biaſimano, e di giouare,mentre lodano. O quanto è vana queſta
im maginazione ! 29 Il perire non è altro che mutazione: e di queſta gode la
natura vniuerfale, in con formità della quale tutte le coſe bene ſi fanno. Ab
eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre
coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì, che tutte le coſc fatte, e tutte quelle, che
ſi faranno ſempre faranno mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di
tanto va lore, che poteſſe vna volta correggere queſte coſe? ma è ſtato
condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano? 30 La
putredine della materia, che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of
ficelli,immondezza, o pur cal li della terra, come i marmi; o feccia,comeè
l'oro, e l'ar gento; o peli, come la veſte; o ſangue, come la porpora, e tutte
le altre cofe fimili. Elo fpiritello,benchè altro, è tale, e di queſto in altre
cofe ſi tra finuta. 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora
rione, e alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa
attonito. Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella, fuori di
que fte non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore, e
più piaceuole. 32 Il medefimo è, che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per CH sof cz. mi te; o 2,6 Elo tra per cent'anni,
o per tre. 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale, ma forſe non peccò. Certamente,
come in yn corpo, da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non
biſogna, che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto; ouero
fonoatomi, e nient'altro: ouero yn me ſcuglio, e diſſipazione, che ti conturbi
dunque? Alla men. te tu dì ſe'morta, fe’perdutå, ſe'rigettata, ti congreghi, e
a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente, o lo poſſono. Se
non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono, perchè più preſto loro non dimandi,
che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte, ne di bramare
quella, ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di qualſiuoglia di
effe più toſto, perchè eſſe non ſi habbiano, che acciò fi hab
biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini, poſſono ancora
in torno a queſte coſe giouare. Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe in
mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende da
te, che laſciarti di ſtrarre con feruitù, e baſſezza intorno a quello, che da
te non depende? Machi ti diſſe, che gli Iddij non aiutano in quelle coſe, che
ſono in no ſtro potere? Comincia dun que a pregargli intorno di effe e vedrai.
Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co. lei? tu anzi dì; come potrò
io non deſiderar di goderla? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e agli Ora in
Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui? tu dì: come
non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro: come non perderò il fi gliolino?
tu dì: come non temerò di perderlo? In ſom ma in queſta maniera indirizza le
tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro: Nella malattia i
ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del corpicciuolo i ne
meno con quelli, chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa. uellato: ma hauer
ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe premeditate; tutto intento a
queſto, cioè, come. partecipando la mente di co tali mozioni, ch'erano nella
carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il proprio be ortida lezza dar
idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre ne. Ne hauer dato occa
fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato qualche coſa, ma che
contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran quillamente,e bene.Il
medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare, ſe ti ſen. tiffi
male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio. Poichè il non partirſi dallaFiloſofia
in qual fiuoglia cofa, che vada acca dendo; e il non applicare alle bagattelle
degl'idioti', e fofi fti è comune diqualſiuoglia fetta, è di ſtar fiffo ſolo
nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello ſtrumento permez zo del quale ſi
opera:" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac. tiạtezza di alcuno, ſubito in:
terroga te fteſfo: Può forſe il Mondo essere senza sfacciati non 0 ca fara '
cobs vanda ta tra ētiles trinal non può. Non ricercare dunque l'impoſſibile:
poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i quali è neceſſario, che ſieno
nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del l'infedele, e di qualſiuoglia
vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto; Quando ancora ti ricorderai eſſere
impollibile, che tal forte di gente non ſia, tu ſarai più placido iuuerfo
ciaſcuno di eſſi. Sarà pari mente gioueuole il conſidera. re ſubito qual virtù
habbia dato la natura all ' huomo contra di queſto vizio: men tre ha dato, come
antidoto contra l'ingratitudine, lc mã, ſuetudine, come contra d'vn altro
qualche altra virtù. E ſopra tutto t'è lecito di diſin gannare chi errò. Ora
ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO m.cz sfac it feil nii 10,no,che erra, Si
deuia da quel, che gli fu propoſto, e va va gando. E poi in che ſe'ſtato
danneggiato? poſčiachè tro uerai,, che niuno di coloro, contro de'quali tu ſei
eſacer bato, habbia operató tal fat to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere
peggiorata; men tre in queſto è ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi
male, o di ſtrano è ſtato fatto, ſe vn'ignorante opera da ignorantc?Guarda,che
tu non habbi più toſto a ripren dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo,
ch'egli for: fe per commettere tal man camento; done tu haueui i motiui della
ragione à conſi derare, ch'era veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe: E
nientedimeno ſcordato ti maAtato 170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia
caduto? quel principalmente quãdo tu l'ac. the cuſi, come d'infedele, o d'in.
grato, rifetti in te ſteſſo:con cioſliecoſache più che manis oros feſtamente
l'errore é tuo, ſe credeſti, che yno sin tal mort fue do diſpoſto, e haueſſe ad
of feruare, la fede; e ſe facen dogli delle grazie, non le haidate
coinpitamente, ne in che modo da riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il
frutto ſu bito. Perchè qual coſa più deſideri, che di hauerbenefi cato
vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai operato coſa conforme alla tua natura?
e di quefto ricerchi lamercede? come ſe l'occhio domandafle la ricompenfa,
perchè vede, ei piedi perchè camminano. E fi come queſti membri ſo N no 7210
Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho farti a queſto effetto, e ſe condo la loro
conſtituzione operando si ne ritraggono quello che è loro proprio: così l'huomo
dalla natura pro dotto benefico, quando be nefica, o nelle coſe mezzane
coopera, ha operato, ſecondo la fua condizione, e ottiene quello, che a lui
ſpetta. Fine del Libro Nono. LI 10 291 180,CH tituziar TAGION propri cura on do
be 70272 cond l’Anima ſarai tu mai Ovna volta buona, e ſemplice, e vna, e quda,
più ſplendida del corpo, che ti circonda guſterai tu giammai della
diſpoſizioneamicabile e caritatiua quando farai pienamente fornita,e von
bi. fognofa, e di niente altro de fideroſa, e di niente o ani mato, o inanimato
anida, per N 2 prender piaceri? ne di temo Po, nel quale più lungamen te habbi
da fruire: ne di luo go, o paeſe, o buona tempe. rie d'aria: ne d'huomini au
uenenti; ma ti compiacerai del preſente ſtato, e goderai di tutte le coſe a te
preſenti, e inſieme perſuaderai a te Itefla, che tutto ciò, che ti fia dauanti,
tutto bene ti ſtia, e che dagl'Iddij a te venga, e ti parrà bene tutto quello,
che a loro piacerà', e quello, che da loro ſi concederà s'in riguardo della
ſalute, e con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto, ebel los é
quello, chetutte le co fe genera; contiene, circon da, e abbraccia, le quali fi
diſſoluono, generando altre cofe fimili. Sarai dunque finalmente talc, che tu
ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo che
tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a
condannare. 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera
natura vien diret to: poſcia fa quello, cab ) braccialo, fe la natura tua, 7
come diviuente, per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare appreffo,che
1 coſa richieda la natura tua, come di viuénte, e tutto ciò f hai da riceuere,
ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal ragioneuole,, nó fia
perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo tempo ancora ciuile. Ditali
01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro curioſamente. 3 Tutto ciò,
che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per natura abile a com portarlo,
o pure a non com portarlo. Se dunque t'accade nella maniera, che puoi fof.
ferirlo, non l'haucre a male ma ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo';
fe poi non fe'idoneo per fofferirlo, aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando
té, confumerà fe parimente. Niente dimet no ricordati, che tu ' se fatto per
fofferirc ognicoſa; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla
tollerabile, cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca,
o che ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da
inſtruire, e moſtrargli quello, ch'hab, bia traucduto. Però ſe ciò non ti
rieſce, la colpa è di te ſteffo, anzi ne meno di te ſteſſo. 5 Qualunque coſa
c'auuie ne, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua, e l'intralciamento delle cauſe
fin dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo, e con quelli au
venimenti. 6 O fieno gli atomi, o ſia la natura, ftabiliſcafi primie ramente
che io ſon parte dell'yniuerfo, che la natura gouerna; appreffo, che io ho vna
famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè
ricor dandomi di queſte coſe, in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non
pren derò a male coſa alcuna, che venga compartita dall'vni uerlo:
concioffiecofache ni ente, che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla par
te:imperocche non vi è coſa, che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno
comune tutte le nature; e quella del Mondo ha queſto di più, che da niu na
cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua; e
ſecondo quella ricordanza, che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò
ditutto ciò, che au uiene; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle
parti, della medeſima forte, non o pererò coſa, che non ſia co municatiua con
queſte, ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte, e condurrò
ogni mia inclina zione all'vtile del comune, e dal contrario me ne ritrarrò
Queſte cofe così da te con dotte, ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra
la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino, che gui daſſe il ſuo
viuere in azioni vtili a i cittadini, c.abbrac ciaſſe tutto quello, che dalla
città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo, quelle dico,
che il Mondo contiene, è di necel ſità il corromperſi,cioè a di re,
l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò, che loro è necellario, el fere dannoſo, non
ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo, eſſen do le parti di lui nell'altere zione
diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura
ftef-. ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti, e le fa ceffe
fuggette al male, e che di neceſſità caſcaſſero a far il male, o'che
inconſiderata mente non s'accorgeſſe, che le faceffe tali: ma ne I'vno', ne
l'altro certamente è da credere. E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas
voleſſe dir, ch'effe ſom no così nate, quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo
tempo il dire, che la naſcita loro le porta, come parti dellyni uerſo,alle
mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male, come ſe auuenifs ſe
fuori della natura dell'yni. uerfo? Tanto più, che la dif ſoluzione vien fatta
in quel le coſe, delle quali ciaſcuna è compoſta, e conſiſte. Im perocchè, o è
diſgregazione degli elementi, dequali le coſe eran permiſchiate, o conuerſione
del folido nel terreſtre; o dello ſpirituale nell'acreo, in modo, che queſte
coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo: o è che dopo più periodi di temu
ро ſe ne vada in fuoco, o po re con perpetue viciffitudini fi rinnuoui. E
queſto folido, e queſto ſpiritale, non t'im maginar, che fia dalla prima
naſcita, perchè tutto queſto l'altro giorno, o al più tre di fa dall'alimento;
e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to. Dunque queſto, che ri ceuè fi
muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello ti riduce affai
N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare, che a ri ſpettodi quello,
che ora fi dice, ſecondo la mia opinio, ncé nicnte. 8 Quelli titoli, che ti se
poſto dibuono, di modeſto, di verace, d'accorto, dipru dente, di magnanimo, au
uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi, ſolle citamente torna a
ripigliarli. Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi ſignifica l'attenzio ne,
che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf cuna coſa ſenza abbarbagliar.
ti la mente: con quel di pru dente, la ſpontanea approua zione delle coſe, che
dalla natura comune vengono di Itribuite: con quel di magna. nimo,
l'alcanzamento della particella del fenno ſopra i moti della carne, ſieno
aſpri, o morbidi, intorno alla glo rietta, intorno al morire, o a coſe si farte.
Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te ſteſſo, e di riceuer queſti titolida al
tri non ambirai, farai yn al tro, e darai principio a dif ferente vita.
Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer come finora ſe'ſtato, e ſtraſcinarti
in tal vita, e imbrattarti, è da troppo inſenſato, e da in namorato del viuere,
e da fi mile a quelli che, combatten do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati, i
quali,pieni di ferite, e di marciumi, ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin
ål giorno ſeguente,per rigettar fi di nuouo, così come ſono alle
medefime'vnghie, e zan ne. Interna dunque te fteffo nella confiderazione di
queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati, qua fi traſportato a
ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra,
e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual che cantone, doue
fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita, non iſdegnan doti, ma
con ſemplicità, li bertà, e modeftia; mentre non hai pretefo altro in queſta
vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande
mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij; e come quelli non vogliono eſſere
adulati, ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa
quello, che appar tiene al fico, e'l cane opera da cane, e l'ape da ape, così
Phuomo da huomo. 9 Il giullare, la guerra, lo, sbigottimento, il terrore, la
feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu
eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione. Però
abbiſogna conſiderare il tutto, e operare in modo che inſieme s'habbia da
adempie re quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che
s'è fpeculato ſi metta in opera; e la franchezza, che s'acquiſta dalla ſcienza
in torno a ciaſcuna coſa, fi con ferui occulta sì, ma non - for terrata. Dunque
quando go derai della ſemplicità? quai do della grauità d e quando della
notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi
fia, e qual luogo habbia nel Mon do, e per quanto debba du rare, e di quali
coſe ſia com poſta, e chifia' per hauerla, e chi fienoquelli che poſſono darla,
e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato
vna moſca: ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete,
e altri per i porcaftri,. vn'al tro per g’orſie altri per i Sar. mati. Non
faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente loro? 11
Seruiti del metodo fpe culatiuo, oſſeruando, come tutte le coſe in fe
RECIPROCAMENTE fi trafinutano, e di con. tinuo ſta applicato,e intorno a queſta
parte eſercitati; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani
mità. Del corpo ſi Spogliò. E conſiderando, come ben pre ſto partendo dagli
huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto, ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla
rettitudine ', nell'ope rar quello, che da luidepen de, e alla natura
dell'vniuer ſo negli altri accidenti. Ma che dica alcun di lui, ouero creda, o
faccia contro di lui, ne pur colla mente vi bada: contento di queſte due coſe,
dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera; e di compiacerſi di quello,
che a lui preſentemente vien diſtri buito, e libero da ogn'altra occupazione, e
ſtudio, non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e
ſeguir Dio,che a dia rittura cammina. Perchè hai da vſare il ſoſpetto, quando
ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci, proſeguirai
in quel lo dibonariamente, e fenza mai voltarti indietro: ma fe tu non lo
conoſci, trattieni il giudicio, e feraiti di confi glieri ottimi. Se poi ii
ſucce dono in contrario di queſto altre coſe, cammina pruden temente fecondo
l'occaſioni, che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo l'appa renza
ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello, nel quale il
non ac certare ſia caduta. Quegli, che in tutto ſegue la ragione è inſiememente
agile, e poſa to, e vnitamente viuace, e co Itante. 12 Subito che dal forno ſe
fuegliato interroga te fteffo, ſe hauratti a importare, che quello che è giuſto
é, retto, da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a importäre. Ti fe'forſe
ſcordato, che queſti, i quali ſi vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui,
tali ſono nel letto, e tali nella menfa: e quali coſc fanno, quali fuggono,
quali ambi fcono, quali naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi,
ma con la digniffima parte di loro, colla quale,volendo jacqui ftar potevano la
fede, la mo deſtia, la verità, la legge, e'l buon genio. 13 Il ben diſciplinato,
e modefto,dice alla natura,che da il tutto, e riceue: Da ciò che vroi,ritogli
ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza, ma con pura obbedienza pienezza di
gratitudine verſo quella. 14 Poco è quello che ti re ſta;paſſalo come tu ſteſſi
in vn monte: imperocchè niente importa che qui, o lì fi ftia, quando doinunque
fi fia, s'ha da viuere nel Mondo, come in vna Città. Veggano, eri conoſcano gli
huomini yn huomo vero, che viua con forme alla natura. Se non lo ſopportano,
l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di quelli. !! 15 Tu
non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo dabbene, ma
proccurerai d'eſſer tale. 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e la ſoſtanzia
vni uerſa; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è come vn
granello di mi glio; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano: e appli. candoti
a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento, e nellamuta
zione, e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che ciaſcuna coſa è
ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli, che, mangiano,che
dormono, che attendono alla generazione, che mandano fuori gli cſere menti, t.
altre coſe fimili: appreſſo quelli cheſignoreg: giano gli huomini, e s'inſu perbiſcono,
o li ſdegnano, e come fuperiori inſultano, e pure poco innanzi a quanti
feruiuano, e per quali occa fioni, e di quì a poco in che fi ridurranno 17 Ad
ognuno conferiſce quello, che apporta a ciaſcu no la natura dell'vniuerfos, e
allora conferiſce quando ella l'apporta. La terra ama-cer. tamente la pioggia,
amaque ftaianco l'almo etera, amai Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo
dico dun que al Mondo: '10 ti Tono compagno nell' amore. Non fi fa ancora
queſto se fi dice; che s'ama di far quefto; 0 quello 18 O quà tu viui, e a
queſta vita fei di già accoftumato, o elci di effa, e ciò era quello, che tu
voleui, e hai finito l'officio tuo; fuori di queſto non c'è altro. Dunque ita
di buon animo. 19 Habbi ſempre per cui dente, che ogni luogo è fi mile ad vna
campagna, e che tutte le coſe rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn
alto monte, o sul lido del mare, o douunque ti piaccia. Perchè chiaramente
incon trerai da pertutto quello che diſie Platone: la greggia Ata torniata di
fiepi? ful monte 501 Che coſa è in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio?
Ache di quella di pré fente mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni
in telligenza? forſe è qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento
di forfu qualche coſa liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia,ſicchè habbia da commutarſi
con quella? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la
padrona, echi ope ra contro la legge, é fuggiti. uo. E inſieme, chi ſi da alla
malinconia, o alla collera, o al timore, per qualche coſa delle ordinate, che
già ſon fatte, o fi fanno, o ſono per farſi da quello, che governa il tutto,
che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello, che gli vienę.
Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia, oall'ira è feruo fuggitiuo 21
Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero, fi dipar tegte appreſſo,
qualch'altra cagione raccogliendolo, lo perfeziona, e compie il feto: di qual
materia? è quale è? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola, e poi qualche
altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap petito, la vita, e la
robuſtez za, e altre coſe (c quante, c quali? ) Biſogna dunque, che tu
contempli quelle co fe, che ſotto tal copertura ſi fanno, e in queſta manicra
ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella cheaggra ua, e quella
cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente. 22 Del continuo
conſidera, come tutte le coſe ſono tali, quali ora ſi fanno, e già ſono ſtate;
e conſidera quelle, che ſono per eſſere, erappreſen O tatele auanti agli occhi
come intiere fauole, e ſcene, cun forme alle coſe le quali o per tua eſperienza,
o per antichi racconti ti fono note. Verbi gratia tutta la Corte di Adria no,
tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di Alessandro, di Creso,
poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte, variando ſolo ne'perſonaggi.
Immaginati, che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi rammarica, e
s'afflige, è fimile ad vn porcello, che fi macella calcitrante, e gru gnente;
ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la noſtra dappocaggi
ne; e immaginati, che al fo lo animal ragioneuole è con ccduto d'accomodarſi
volon ta hi volontariamente agli
accidenti, e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In ciaſcuna
delle coſe, bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in tcrroga te
ſteſſo, le la morte 01 pare terribile a cagione, che habbiamo a reſtare priui
di e quella tal cofa. 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui peccare,,
rientran do in te ſteſo, fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri: come a
dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta, il piace re, e la glorietta, e
altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione preſta mente
ſmorzerai la collera, venendoti inſieme in mente, che colui opera forzatamen te.
Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere, libe ralo dalla violenza. Vedendo
Satirione, vno de Socratici, immaginati o Eutichete, o Himene: e ve dendo
Eufrate, immaginati di vedere Eutichione, o Sil uano: e vedendo Alcifrone, di
vedere Tropeoforo; e ve dendo Senofonte, immagi nati Critone, o Seuero: e ri
mirando te ſteſſo, immagina ti qualcheduno de ' Ceſari, e in ciaſcun altro
qualche coſa {imile a proporzione. Ap preſſo ti ſouuenga, doue ſo -no dunque
quelli? o in nilt no, o in qualſiuoglia luogo. Così di continuo vedrai le coſe
humaneeffer fummo, vn nulla; maſſime fe eandrai rammentando, che il mu tato vna
volta per tutta l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere. E tu quanto tem
po ſtarai a mutarti? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per
degnamente paſſarlo? qual materia, e qual foggetto abborriſci? che al tro ſono
tutte queſte coſe, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con
fiderato, e diſcorſo ſopra la natura di quello, che è nella vita? Perſiſti
dunque finchè tu ti renda famigliare queſti, in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co
che ognicofa abbraccia, e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa, che tu gli
butti dentro ne forma fiamına, e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di
te, che tu non se {chietto, o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3.ma mentiſca
chiunque di te ha fimile opinione. E rutto queſto è in tuo potere. Per chè chi
t'impediſce, che non fij huomo dabbene, c ſchiet to? A te folo ſta lo ftatuire
di non voler viuer più, ſe tik pon farai tale: imperocche non comporta la ragione,
che tu non ſij tale. Che coſa è, che ſi pora fa intorno a queſta materia
rettiſſimamente operare, je dire? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla,
e dirla, e non metter préteſto d'effe re impedito. Non prima cef ſerai di
lamentárti, che tu ſij ridotto a queſto, che quale è agli huomini voluttuoſi il
luſſo, queſto è a te l'operare nella ſoggetta, e ſommini Itrata materia,
conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia
tutto quello, che farà lecito d'operare con forme alla propria natura, e queſto
è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi per
qualſi uoglia luogo col proprio mo. to, come ne meno all'acqnas ne al fuoco, ne
ad altre coſe, le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima irragione uole;
eſſendo molti li rat tenimenti, e gli oſtacoli:ma la mente, e la ragione può.
penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura, e a ſuo beneplacito.
Queſta facultà, poſta che tu te Phai innanzi gli occhi, fecondo la quale la
ragione potrà portar fi per tutto, come il fuoco in 04 alto, come la pietra al
baſſo, come il cilindro per dio, nicnt'altro ricerca. Per chè gli altri
impedimenti che. procedono o dal corpo, ch'è yn cadauero, o ſenza l'opi nione,
e inchinamento dell' iſteffa ragione, non fanno. leſione, ne apportano danno
alcuno, altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer rebbe cattiuo:
perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno, che ad alcuno
auuiene rende peggiore quel lo, che lo patiſce. Ma quì, le è lecito il dirlo,
ſi fa l'huo. mo migliore, e più degno di lode, ſeruendoſi rettamente di queſti
incontri. In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per natura cittadino,
nien te nuoce, che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non fa dan no chi alla legge
non fa dan no. E niuna di queſte, che chiamano difgrazie offende la legge.
Quello dunque che non offende la legge, non offende ne la Città, ne il
cittadino, - 29 A quello che gia è toc co da veri dogmi, è fuficien te ogni
piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli di sbandire ogni dolore, e
ti more. Quale è queſto? Delle foglie altre il vento a terra abbatte, Altre
produce il verdegiante bosco; Quando la primauera fa ritorno. Cosi ſuccede alla
natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil, l'altro; dien em. Fogliucce fono i
tuoi figlio lini: fogliucce ancora que fti, alle acclamazioni de qua 70 ol 70.
di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto credito, e che parlano bene del fatto
tuo; o pure per lo contrario quelli, che maledicono, o tacitamente biafimano, o
di leggiano:fogliucce ſimilmen te ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua
fama dopo la tua morte. Perchè tutte que fte coſe naſcono al tempo della
primavera, dopo il ven to le butta a terra, e appref fola felua in luogo loro altre
produce. La breuità del tem po'è a tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e
appetiſci tutte le cose, quafi chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu
ferrerai gli occhi, e vn al tro piangerà quello, che ben preſto ti porterà alla
ſepoltu. 30 L'occhio fano è dime ra. Itie ftiere, che veda tutte le coſe
viſibili; e non dire: Amo ve dere il verde, che queſto è perchi patiſce di
viſta; e l'v dito fano, o l'odorato biſo gna, che ſieno pronti a tutte le coſe
da vdirſi, e da odorar fi; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe, che nudriſcono:
pa rimente, come yna macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare,
nell' ifteſſo modo la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti;
maquella, che dice: Sieno faluii figliolini, e tut ti lodino quello, che io
farò; fono occhio, che cerca il verde, o denti, che cercano il tenero. Niuno è
talmente feli. ce, che qualcuno di quelli, che ſi truouano alla ſua morte O 6 non
ſia per godere di qucl. cattivo accidente. Era egli di valore, era fauio? non
fa rà alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica? reſpireremo pur una volta
da queſto pedante, Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi, che
tacitamente ci riprendeua. E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te
altre coſe ci ſono, per le quali molti bramano liberarſi da noi? queſto dunque
confi dererai nel punto del morire; e meno trauaglioſo ti riuſcirà diſcorrendo
come ſegue. Da quella vita io parto, dalla quale quelli, che meco co municano,
e per li quali ho trauagliato intante cofe, ho pregato, m'ho preſo tanti
penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano, che io me ne
vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo. Chi dunque non
saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai per ciò da
quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore, amoreuole,
beneuolo, e propizio: e non come ſe foſli per forza ſtrap pato, ma come a
quegli, che felicemente trapaſſa, facil mente l'animuccia ſi diſtacca dalcorpo,
così biſogna, che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe preſenti; giacchè la
natura con quelle ci vnì, e congiunte. Doue ora ti diſ giugne? mi diſgiungo
perciò, come da famigliari, non già con renitenza,ma fpontanea mente; poichè
queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe conformi alla natura. 32
In tutti gli atti, che da ciaſcuno ſi fanno, cerca d'af fuefarti, per quanto
c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa quefto, per qual ca gione?
comincia però da te medeſimo, e printieramente eſamina te fteſso. Ricordati,
che, comequelle cordicine, che tirano i bambocci, non appaiono, così quello,
che t'addolora, è dentro nafco fto. Quello è la perfuafiga, quello è la vita,
quello, ſe conuiene cosi dirlo, è l'huo mo.Non fantaſticar dunque di quello,
chea guiſa di vafo ti circonda, e di queſti inſtru mengucci, che attorno a te
fono formati; poichè queſti ſono ſimili all'aſcia, folo in 1 1 ciò diffcrenti,
che ſono con naturali. Mentre ſenza la ca gione, che gli muoue, e rat ticne,
non è maggior l'vtile, che da queſti membri s'ha, di quello, che ne ha la teſli
trice dalla fpola, gli ſcrittori dalla penna, e dalla fruſta i ! cocchicro. E
proprietà dell'anima ragioneuole ſono, il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu
tamente ricercare, fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella
produce lo produce a ſe ſteſſa (giacchèi frutti del. le piante, e ſimilmente
quelli degli animali, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il
termine della vita, arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli, e
nelle rappreſentazioni, e in fimili coſe, nelle quali, ſe qualche impedimento
s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta: ma ella in qualſiuoglia parte, e
douunque s'interrompa,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi perfetto,
e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire; lo poſſiedo il mio. In oltre,
traſcorre per tutto il Mondo, e per lo va cuo, ch'è intorno ad eſſo, e al la di
lui figura: ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli, eleri generazioni di tutte
le coſe, che a certi giri de' tempi ſi fanno, comprende, intende, e diuiſa, che
niente più di nuouo ſono per vedere i po ſteri, e niente di più videro i.
noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi haurà quaranta an ni, s'ha fior
d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare, future, per la ſomiglianza tra
effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole amare il proſſimo, effer verace,
mo deſta, e non iftimare niuna co. ſa più di ſe ſteſſa. Il che è proa prio
ancor della legge. In queſta maniera tra laretta ra giòne, e tra la ragione del
la giuſtizia non è differen za. 2 Sprezzerai il canto Infin gheuole, il faltare,
e'l pan crazio, cioè l'eſercizio degli atleri: ſe tu ſpartirai la voce
armoniofain ciaſcuno de'tuor ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te
fteffo: Se da quel lo tu refti vinto; perchè in ve ro te ne vergognerai. Nell' eſercizio
del ſaltare farai l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi
mointorno al pancrazio. In ſomma, in tutto quello, che e fuori della virtù, o
da quel la non deriua, ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la
diuiſione di quelle ver rai a vilipenderlo. E queſto l'hai da traſportare
allvſodi tutta la vita 3 Quale è l'anima, che ſta pronta, fe già bifognaffe, a
fcioglierſi dal corpo, o eſtin guerſi, o diſliparfi, o a rima nerui? pronta,
dico, ma che tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente,non
da vna nudacapar. bietà, comeè quella de'Chri ſtiani, mi conprudente diſ corſo,
e maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai
qualche cofa ap partenente al comune? Dun que n'ho ritratto dell'vtile. Queſto
ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il tuome
ſtiere? l'eſſer buono; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo delle
fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura. dell'vniucrfo, oltero intorno la
propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in trodotte le
Tragedie, per rammemotar agli huomini gli accidenti; e che queſti così
naturalmente, loro fogliono auuenire. E acciocchè quelle coſe, che ſu le ſcene
vi ricre aſſero l'animo, non vi contri-, ftal ila NO jai 76 il Her e ftaffero
nella ſcena maggio re, Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte coſe in
cotal modo ſi terminino; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh
CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli, che com pongono ii Drami,
quale è particolarmente quella. Che di me cura, ne de’mieifigli uoli. Non ſi
prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar non lice.
E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga. 119 e altre coſe ſimili. Pure
dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di
maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere, rammen tando non inutilmente
col fuo retto parlare la modera zione del faſto; al quale me defimo fine in
qualche modo Diogene ſe ne valeua. Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia
mezzana; e ap preſſo la nuoua, a che fine fu poſta in vſo, o come a poco a poco
per l'arte, e applica zione dell'imitare ſubcntrò; mentre ſi ſa, che anco da
que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to di tal
forte di poeſia, o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira? C 6 Come
truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a propoſito per
fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente? to ta 7 II zenu co
TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo, ſe non fi
diſtacca inſieme da tutta la pianta; cosìyn huomo non ſi può difceuerare da vn
altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione. Il ramo dunque Jo diuide vn
altro, ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal proſſimo, con odiarlo, e
renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede, come dalla gene rale cittadinanza ha
ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono particolare di Gioue il quale
ha conſtitui to queſta comunicazione. Concioffiecolache è lecito di nuouo
ricongiugnerſi col proſſimo, e dinuouo incor porarſi colla perfezione dell'
vniuerſo; ma ſe ſimile ſepa razione fi fpeſſeggia, fi rende ľu più niC di le ds.81
tra tutduqunat più dificile il riunirſi, e'l tor nar a rallignarſi. In ſomma il
ramo, che da principio ger minò con l'altro, e como conſpirando conſiſte, non é
fimile a quello, che dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato. Il che
pur dicono gliagricoltori. Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio, ma non
dell'iſteſſa lembianza. 8 Quelli, che ad impedirti ti ſi frappongono, quando tu
cammini conformealla retta ragione, ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla
fana operazione, così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di
loro: ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno, e nell'altro; ne folo
colcoſtante giudicio, ecol l'azione, ma col portarti per9 all anttö ting
allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro, che ſtudiano d'impe manſuetamente
ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato, ma d. dirti dirri, o in altro
modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro
di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè
amen. effe due abbandonano il poſto, queſti intimorito, quegli alie nato dal
congiunto, camico per natura, 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte; concio
liecofache le arti imitano le nature. Sc pe Cana rò queſto è, la natura perfet
tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia, non cederà Ao alla più
atificioſa induſtria. Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi
fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune; donde é, P che Jo tu ipo
han vo nel ! olo 04 arti ſo & 11 re
M che da quella deriua la giu ſtizia, e da queſta poi tutte le virtù hanno la
ſua ſufiften za. Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo
troppo attribuirem'o, o fa remo facili a prender errore, ead cſſer temcrarij, e
muta bili. 10 Se non vengono a te le coſe, delle quali il proſegui mento, o la
fuga ri perturba 110, ma tu in certo inodo a quelle ti conduci, dunque il
giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri, e quelle rimanghino immote, e tu non
ſarai vedu to, neappetirle, ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa, quando
ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa, ne dentro ſi ritira, o fr conſtipa,
ma riſplende con P d d. a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI
Legii proccurerò di eſſer manſueto, quel lume, col quale ſcorge la verità di
tutte le coſe, e quella, che è in lei medesima.Mi fprezzerà talvno? ſe
n'accorgerà cgli. Io mi guarderò bene, che niſſuno mi truoui o opcrare, o parla
re coſa degna di diſprezzo Miodierà? guardiſi egli. Io mez ot TOTE, MUT tele
urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno, e con
queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere, non per modo
di rinfacciare, o di far moſtra della mia fof. ferenza; ma con ingenuità, e
probità, nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè così
biſogna, che ſieno le coſe interiori, e che l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij
irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij, così diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna
con iſde. gno, con querele. Poſcia. chè di che danno è a te, ſe tu fteſſo fai
al presére quello, che e proprio della tua natura? non accetterai tu ciò, che
ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo, o huomo ordinato per far qucllo,
che conferiſce al comune 13 Quelli, che l'vn l'altro fi difprezzano, l'un
l'altro fi luſingano: e quelli, che cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro, l'vn all'altro
ſi ſottomci tono. Quanto rancido, e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di
portarmi teco ſchiettamente. Che fai, o huomo? non è di me ftiere far queſto
prologo: apparirà da per ſe. Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce.
Quello, che hai dentro, ſubito viene eſpref fo negli occhi, come nel lo ſguardo
degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato. Tale inſomma biſo gna, che
ſia il fincero, e buo no, che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli
ac coſta, nell'iſteſſo primo in contro voglia, o non voglia, al fiuto lo riconoſca.
L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore. Niuna coſa è più brutta,
che l'amicizia lu pina. Fuggila più di ogni al tra. Gli occhi del buono del
ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde. 15 La
facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti
le piglia indifferentemente: e le prenderà indifferente merte, ſe ciafcuna di
quelle contemplerà ſeparatamente, e con riguardo al tutto ricor dandoſi, che
niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa, ne a noi venire: ma
quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli, che formiamo i giudici di quelle, come
in noi dipignendole; mentre è lecito laſciar di dipigaerle, è lecito ancora,ſe
furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta attenzio ne
ſarà per corto tempo, e appreffo terminerà la vita. E che difficultà ci è in
ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo la naturai, habbile
care, e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant 1 enoi moi ne if
färanno facili; ſe ſono contro la natura, cerca quello, che ſia ſecondo la tua
natura, e intorno a queſto ſtudiati, an corchè ſia ſenza gloria, eſſen đo da
vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene. 16. Conſidera donde ciaſcu na
coſa è venuta, e di quali fubbietti ciaſcuna conſiſta, e in quali ſi muti, e
mutandoſi quale ſarà, c come non ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma
qualabitudine ſia in me verſo di quelli, eſſendo che ſiamo nati vno a prò
dell'al tro; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli,
come ariete al greg: ge, o toro all'armento. Poida queſto paſſa a raziocinar
più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi, è la natura, che: legi ente car Slicet
ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi
gliori, e queſte l'vna per l'altra. Secondo offerua, quali ſie no nella menfa,
quali nel letticciuolo, e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità
apportino loro i dog mi, che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione
met tino in opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo. Se quelli retta
mente queſte coſe operano, non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente, chiara
co fa è, che operano per for za, o per ignoranza; perchè ogni anima dimala ſua
voglia reſta priua come del vero,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la
ſua conucneuo lezza; e perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et
FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al
peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo. Che tu ancora fai di molti errori, e
come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni, tuttauia hai
l'abito di com mettergli, quantuinquc per cagione di tinore, o di glo ria, o
d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori. Per Quinto. Che manco
hai ben penetrato, ſe errano: auuenendo molte volte, che lo fanno
diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di
pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di
miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia 346
[ f fi ti, che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo
diſteſi. Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano;
imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli, ma ben sì i noſtri apprendimenti.
Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio, come di coſa a te
graue; e la collera farà ſùanita. Or bene in qual maniera li deporrò?
diſcorrendo;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le; poichè ſe non
foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole,male', néceſſario fareb be, che tu
in molti modi pec cafſi, diuenendo ladro, e af fatro ſcelerato. Qttauo. Quanto
fono coſe più graui quelle, che apport tano C t t C te al more f per le 30 tano
per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe i,
quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è
inuincibile, quando ſia fincera, e non affettata fimulata. Che ti farà vno per
fouerchieuoliſſimo, che cgli fi fia:, ſe tu perfeueri d'eſſere con lui
piaceuolc? E, ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ', e meglio
l'inſegne rai', attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che
colui fi ftudia di fare a re il male, dicendogli tu:: Non figliuolo, noi
ſiamoprodottiat altre coſe. Io non rimarrà l'offeſo, ma tu bon fi,figliuolo; e
con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai, che la cofa paf P 6 ſa cosi. E
che ne le api ciò fanno, ne niuno di quegli animali, che per lor natu ra
inſieme ſi congregano E però di biſogno, che ciò ſi faccia lontano
dall'irriſione, o dall'improperio; ma ami cheuolmente, e ſenza mor dergli
l'animo, e non come nelle ſcuole, ne acciocchè altri, chepreſente ſia, faccia
delle marauiglie, ma a ſolo a ſolo, quantunque alcuni altri vi ficno intorno.
Queſti noue capitoli tiengli a mente, come doni a te fatti dalle Muſe: e yna
volta, men. tre se'in vita, da principio ad eſſer huomo. Però biſogna guardarſi
egualmente, come di non adirarti contro quelli, così di non adularli; perchè
l'vno, e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione, e tira no al danno. Ti
ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode huomo
l'adirarſi; ma la placidezza, e la manſuetudine, quanto più fono da huomo,
tanto più hanno del maſchio; poichè. queſti partecipa più della for tezza, e
della neruoſità, e det vigore, ma non già chi è ſdegnofo, e diſamoreuole.
Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo, altrettanto è
ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli, così è la col lera.
Poſciachègli vni, e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no. E ſe ti piace, dal
principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non
volere j, che i cit 350 1 cattiui pecchino, concioffie colache in ciò fi
pretenda l'impoſſibile.Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno tali, e il
volere, che contro di te non pecchino", è cofa da: huomo- ftolido, c.da
tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti
dell'anima. E quando tu li ſcoprirai, gli hai da ſcancellare; dicendo fra te
ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto
diſcioglie la co -- munanza: Queſto non lo di rai di capo tuo;perché il non
dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime: II quarto è, che tu a te
ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione più diuina,
che in te è, e fot to و in te è, bench cometterla alla parte più i gnobile,e
mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto
quello d'igncos che è in te miſchiato,diſua natura tende 1 in alto', nondimeno
per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene.
Ancora', tutto quanto di terreſtre, e d'humido, che tuttauia refta ſollevato',
e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono
alle cofe vni verfali, quando, douunque fieno traſportati, reſtano per
forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli. Dunque
non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire,
e che ſdegni la ſua re gione? e pure non ſe le ordi na niente di violento, ma
ſo lo quello, che é ſecondo la natura fua; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre
al con trario. Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le
lafciuie, i ran cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura.
E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle, cheauuengono,allo
ra abbandona il ſuo poſto; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità, e
pietà verſo gl’Iddij, non meno, che alla giuſtizia; perchè queſte ſono d'yna
tal forte, che tendono alla buona comunanza, e fo no più antiche delle iſtelle
opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira, non può
eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita.Ma non baſta quefto,
che s'è detto, ſe non aggiu gni à quello, quale dee effere queſto fine.
Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia
modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte, cioè di quelle, che
ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto alla vita comune, e
ciuile. Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà
vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera
il topo nion tagnolo, el domeſtico, e la 4 Vand S vana paura, e fuga di queſto.
Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie, e spaventacchi de'putti. I
Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi
ſedeuano doue a forte loro toccaua.. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca, perchè
non andaua da lui, diſfc; Acciò io. non periſca di così infame morte; mentre
non po teſſi corriſpondere alla grazia, che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E
feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno
degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici
ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo; acciocchè
ſempre ci ricordaſſimo di quelli, che ſempre ſimilmente, e nell'i ſteifa
maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità, e difuelamento;
im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto
d'vna pelle, quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa;
e' rammentati quello, che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano, e
ſi ritirauano, quando lo vidde ro in tal'abito: 26 Non far il maeſtro di
fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare
molto più nella vita. Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re
me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti. 27 E' da pazzo domandar i
fichi l'imerno. Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne, deſidera yn
figlioli no. Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino, che diceſſe
tra di fe: domanefor fi morrà. Sono parole di mal augurio coteſte? Non è, di
ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch' opera
conforme alla natura: altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo
augurio, L'vua è prima agre ſto, poi matura, e poi paſla. Ogni coſa foggiace a
mu tarſi, non nel non eſſere, ma in quello, che di preſente non è. Detto è
d'Epitetto, che Ninno è ladro della volonti. Vn arte, diſſe egli,s'ha da ritro
uare d'aggiuſtar gli affenfi, e in materia degli appetiti biſo gna conſeruare
l'attenzione, acciocchè ſieno con eccezio ne, e che s'indirizzino al be. ne
comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie
e non iſchifare coſa alcuna, che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque,
diſſe egli, la conteſa intorno ad vna coſa ordinaria; ma intorno all'ef fer
pazzo, o ſauio. Diceua Socrate, che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o
degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o
de’deprauati? de'fani. Per chè dunque non le cercate? perché le habbiamo:dunque
a'che contraſtate, e diſcor date? Fine del Libro Vndecimo, CO b pa te fa fa PI
all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di
poſſeder tutte quelle coſe, alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di
peruenire, ſe tu non inuidij a te ſteſſo: cioè a dire, ſe tu non farai più caſo
di tutto il paf fato, e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu
indirizzerai alla ſantità, e alla giuſtizia. Alla ſantità, acciò tu ami quello,
che ti vien deſtinato; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato
quello a te, comc te a quel to. Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup
pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge, e la
conueneuolezza. E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità, ne l'opi
nione, ne le ciarle, ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita. Però,
chi pati- re. ſce, cipenſi. Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem po
t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe, solo stimerai la tua
mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta dal
vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura, ſa rai
huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha
generato, e nonſarai più foreſtiere nella patria, e non ti marauiglierai,come
di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono,'e finiraidi rimaner
ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa. 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti
diſpogliate de’yaſi materia li, delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua
ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe, che da eſſo ſcaturi rono, e
deriuarono in queſte eofe materiali. Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare, ti
liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo
circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa, alla gloria, é a
fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe, delle qualitu fe conpofto, 'il
cor picciololo fpiritello, vela mente. Di queſte le prime duefono cue, finche
ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua. Setu fequeſtrerai
da te, cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no, o
dicano, e quelle,'che Tu hai-detto e fatro, e que te,'che,comefe falfero per
auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo, che ti circondala
per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che
intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche;
rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali,
pura, eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando: le cofe " giufte, te
rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri tà: Se tu
ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa
zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate,
etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle; Chestutta titanda guide
della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere, the gu viui,
cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti
reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio.
Speffo miſonimarauiglia TO:, come ciaſcuno più di tut Q:2 ti ti ami ſe
ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe
medeſimo, di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo, o vn macſtro pru
dente, comandi ad alcuno, che nulla dentro dife penfi, o diſcorra, che ſubito
l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno.
Cosìpiù temiamo di quello, che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che
noi medeſimi giudichia mo.: 5 Come farà mai, cheha uendo ordinato il tutto
gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo, queſto folo habbia no traſcurato,che
alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co
me 01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che
ſouentemente per l'opere fan te, e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari,
queſti, vna volta morti, non ſi facciano ritornare, ma rimangano del tutto
eſtinti? Queſto, ſe pu re così ſta, tu hai da ſapere, che fc altrimente
biſognaſſe, che foffe; l'haurebbero fat to. Concioffiecoſa che ſe era giuſto,
era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura, l'haureb be prodotto la natura. Dal
non eſſer così, ſe così non è, tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato
neceſſario, che al trimente fi faceſſe. Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi, che ciò
ricercando, tu entri a con tendere in giudicio con Dio. Ma noi non
diſcorreremmoco sì con gl’Iddij, ſe ottimi, e Q 3 giufillimi non foſſero. E ſe
così è, nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato, e irragio nevolmente negletto
nellab Tellimento dell'vniuerſo.. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe, delle
quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata
all'altre coſe, reggeil freno più fortemente, che la deſtra, e queſto perchè vi
s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna, che tú ti truoui,e del corpo,e del Panima,
ſopraggiunto che fą rai dalla morte: la breuità della vita, la vaſtità
de'ſecoli ayanti, e dopo, la debolez za d'ogoi materia. Content pla ſpogliate
d'ognicorteccia le caufalità, le relazioni dold' opere; che fią la fatica,
che'l piacere, che la morte, chela gloria: chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne
deltrauaglio, e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione.
& Nell'vſo delle tue maffime è neceffario, che tų fij, limi le non
all'accoltellatore, ma al combattente maneſcamen. te con le pugną. Concioſſie
cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta vcciſo, ma
queſti ſempre ha la mano, nę gli biſogna nient'altro, che ſerrarla. 9. Di
queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe, diuidendo ke in materia, forma, e
rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro, faluo quello, che Dio ſia
per gradi re, e riceuere tutto quello, che Dio gli diſtribuiſca, con Q 4 forme
all'ordine della natu ra. To Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono,
nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad errori; ne meno ſono da áccufare gli
huomi ni; perchè non peccano, fe non contra voglia, Diniuno dunque s'hanno da
far querele. Quanto è ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa,
che nella vita occorre! Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile, o
prouuidenza piegheuole, o confuſione temeraria ſenza gouerno. Se è neceflità
iné witabile, a che ti contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata,
fa degno te ſteffo del fuſſidio diuino: ſe è confuſione ſenza reggimen to,
rallegrati, chein queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice
qualche mente: e ſe la tem peſta t'aggira, fia traportata la carnuccia, lo
ſpiritello, e l'altre coſe, ma la mente non farà traportata. Il lume della
lucerna, finché fi ſpenga, 'ri luce sì, e non perde lo ſplen. dore: ma la
verità, che è in te, e la giuſtizia, e la tempe ranza, anticipatamente s'e
ſtingueranno? Dove l'immaginazione concepiſca, che vno ha peca cato, rifletterò
donde ho,che queſto fia peccato, e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo
per quell'atto? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia
rifletti, che chì non vuole, che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO,
che voglia, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio, e i bambini non
piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di
neceſſità. Pero, che coſa ha da fare, hauen do contratto " va cotal mal
abito? Dunque, ſe ti ſenti da ciò, riſanalo. Se non conuiene, non do fare. Se
non è vero, non lo dire, ma l'appetito dia fox, to dite per conſiderare il gut
to che è quello, che fa im preſſione nella tua immaginas zione, e diſcutilo,
diuidenz dolo nel formale, nel mate, riale nella relazione neltem po, dentro al
quale quello ha da Vis petto? forſe cupidigia a forfe da finiie. Riconoſci una
vol ta, che in ce è vna coſa più eccellente, e più diuina di quelle, che te
paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono,che in qràge in la in
guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano. Che’çoſà è ora il mio
penfie rodforfe timore? forfe for. cofa alia fimile: 15 Primieramente penfais
che niente è a caso e niente, senza relazione. Secondaria mente chea niun altro
fine, che a quello della focictà fi riduc. Che non molto dopo niūno in niun
loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte quelle, che orá vedi, ne al cuno
di quello che ora: vi -91 I Qo NOuono; conciofficcofache tut te le coſe ſono
nate per mu tarſi, trasformarſi, e perire, acciò altre per ſucceſſione ſe
guano. Ogni cosa è opinione,e queſta depende da te. Togli dunque, quando tu
vuoi, l’opinione; e, come chi volge al ridoſſo d'vn promontorio trouerai
ferenità ferma di tutte le coſe, e vn ſeno tran quillo.: -18 Vna, e
qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce, nonpariſce danno niuno,
perchè finì; ne l'ope rator di quella, per hauer finito, patiſce mal alcuno. In
ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica ditutte l'ope razioni, che è la vita,
ſe in qualche tempo finiſce, non rice etut or me erine Quel one, Togh oila
ageal torio ma Stra / di riceue alcun danno, percioca chè fini; ne quegli, che
in tal tempo terminò queſta ſerie, fu malamente trattato. Il tempo, e'l termine
fono dále la natura conſtituiti, talvolta dalla propria,come nella vec chiaia;
ma generalmente dal I'vniuerſale, le cui parti con tinuamente mutandoſi, reſta
tutto il Mondo ſempre nouel. lo, e vigoroſo. Tutto ciò del continuo è buono, e
oppor tuno, che all'yniuerfo.confe riſce. Dunque il finir del vi uere a
chiunque tocchi, non è coſa cattiua, perchè non è vergognofa, come non de pende
dal noſtro volere, ne contraria al comun bene del l'yniuerſo. Anzi è buono
quando è opportuno, e con ferente all' vniucrſo, e con quel elial tem dan l'ope
verf olfille 12 l'ope ſe i non. lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache
è portato da Dio quegli, che fi perta vnitamente con Dio, e a quel le ifteffe
cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre
in pronto.. Primieramente in ciò, che tu fai, non fia niente inuano, ne
altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to: ma nelle cofe,
che anlı uengono di fuori, mentre quelle o fono procedurea ca fo, o fecondo la
prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe, ne accufare la prouuiden za
Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene, fino all'animazione,
e dall'animazione, fino al ren dimento dell'anima, e da qua. li coſe da fatto
l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe ſoprad'yu’ers minenza
follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer compreſa, la lor gran va
rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e nel l'acre, e nell'etera,
e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato, vedreſti le medeſime, l'iſteſſa
ſpecie, la breue dura ta. Ed in queſte éla noſtra ſu perbia, 29. Gitta fuori l'
opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque e’impediſce il gittarla. Quando perqualche
co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor dat, che ogni coſa li fa', le condo la
natura yniuerſale, che quel peccato è d'altri. E oltre queſto, che tutto ciò,
che pure, che ſi fa,cosìſempre's'è fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per
tutto: ancora, quanta è la co gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere;
per chè non è la comunione del fanguccio, ò della poca ſe menza; ma della mente.
Ti fcordaſti che la mente di ciaſcheduno è Dio, e che da lui ſcaturì, non
eſſendoui coſa alcuna propria di niuno, anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo,
e l'iſteſſo ſpiritello in di vennero. E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è
opinio ne, e parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto
ſolo ſi-perde. Del continuo riuolgi nell'animo quelli, che per qualche coſa li
corrucciarono, e quelli, che in grandiſſime glorie, o calamità, o inimicia zie,
o in alcuni altri auueni menti li ſegnalarono. Dopo medita, doue fono al
preſente tut te queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole.
Tiſouuenga di tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e
Lucio Lupo, e Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo; e in ſomma
di chi ha fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa: ecome ſia di
vil prezzo turto, che in tentamente appreſe, e finala mente quanto più foffe da
Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto, e da fa uio e da
ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di
umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda
nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi
appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e
poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è
degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo
comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno
riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo
FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO. Che resta
altro, che goder della vita, aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur
si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga
interrotto dal: o e pareti, dai monti, e da altre mille cose. Una è la
sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati
dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e
mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se
bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com!
me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono
insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione,
che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende
all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben
comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e
poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa
di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da
frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa
contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo
d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é
compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di
tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta
la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non
t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti
conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa
la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre
cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo:
om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della
morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male
nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è
bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta,
quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor
spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que
sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle
leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti
manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi
t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai
che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo
tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono
tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da
finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali
tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti
licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non
adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del mio genitore, l’esser verecondo
e maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non
solo dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora,
l’esser Sottintendi, come nei paragrafi seguenti, il verbo ‘imparai’,
ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto
chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra
espressione che riempia acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi
forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze
dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche
scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e il conoscere che
in siffatte cose non si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il
non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè
scuta- [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo
materno e Catilio Severo. Non è chiaro di quale dei due si parli nel
testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente
come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome
dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i
colori che distingueno i due grandi partiti degli aunghi del circo,
che non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero.
Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il giovane,
IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le
parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il
saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non
porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non
occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che i magi e i
fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e
altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi
dilettato di simili cose, il patire ehe altri mi parli francamente.
[Parmularius e il gladiatore armato di un piccolo scudo di cuoio
detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande
e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo
Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune lezioni ad
Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani aveano prego dai greci,. Si
faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento
si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito
primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da
ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose
che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto
in pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di
coltura. Il non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o
scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o
facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere
abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non
passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere
semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da
Domiziano per aver lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella
ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar
rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e
rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il
leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè
assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo
avere avuto contezza dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di
suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel
proposito senza dar mai nulla al caso, il non guardare ad altro mai,
nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi
dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad
evidenza nel vivo esempio di lui siccome può la stessa persona essere
gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare
e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi pregi
la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere
imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli
amici, senza diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte,
lasciando correre la ('osa senza saperne grado. Da Sesto:
l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il
concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare
con sollecitudine quello di die gli amici hanno uopo, e il sopportare
gl’ignoranti e il sapersi adattare a Nello spiegare. [Intendi: nel dare
altrui tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire
le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla
Ina libertà] tutti per modo ch’il CONVERSARE
con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno
in quello stesso punto ed appo quelle stesse persone in venerazione grandissima,
e la chiarezza di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava le
verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai
indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più
impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui,
senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza che
paresse. Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente
chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di
suoni, parlando; ma profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto
dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar
con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo
di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone:
quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E
siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che
no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a
nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di
disimpegnarmi in tal modo dei doveri verso le persone con le quali
io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener
poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di
ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di Antonino]. [Cinna Catulo,
filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo
alle maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei
maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero
affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor
del vero e del giusto, l’avere, per mezzo di lui, avuto contezza di
Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere
venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti
e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo Qataker potè
chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello
che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero
di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico
di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta
da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti
di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga
conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed
uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far parte
altrui volentieri e senza rispar- mio delle proprie sostanze; e lo sperar
bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le
persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il non aver mai avuto
bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non
volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il
contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo,
l’esser di buon animo nelle malattie e negli altri casi avversi e
quella temperatezza di costume, soave ad un tempo e [Clandio
Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza
querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che
tutti avevano di lui, ch’egli pensas tutto che dicee fa a lìn di
bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla,
non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè
infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il
beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer piuttosto
uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu
mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè
migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre
adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo
nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità
da quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita;
il dare ascolto a chiunque avesse da proporre qualche cosa di utile
al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse
dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser
rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il
sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con
gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non
accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi
per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la
persistenza con che esamina le cose nei consigli, non come
quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione
contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli
amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il
sopperire a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei
da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e
l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e
il tenere allestito sempre quanto era necessario per le occorrenze
dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo la taccia
che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla superstizione
verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi di acquistar
grazia appo il popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo intricato. Nota
due modi condannevoli e vani: di acquistar grazia appo gli Dei, con
pratiche superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro a genio e
secondarli anche a costo del dovere lusinglie, o con lo imitare i
modi di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro che
dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume
stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che
conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi
pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le
assenti non desidera; e siccome nessuno avria mai detto di lui
ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom
maturo, perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo
ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare
scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da
loro e il conversare sciolto, e quella
sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano preceduto. che non
ristuccava; e il tener cura del proprio corpo, non tanta da parer tenero
deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta
basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto
quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche
cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e
dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme
con essi perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che
primeggia e quel suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori,
senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello
di volere conservare essi institnti. Ancora il non esser nè randagio
nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad
occuparsi delle medesime cose; e dopo passati gli accessi del dolor
di capo, ritornar iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori
solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di
rado, e solamente nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza
nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far
distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a
quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose
fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non
ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o
nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di
Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo,
che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano,
nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno,
siìw al su- dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente
avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le
altre, come se le avesse premeditate per ozio. Ed a lui si potrebbe
applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e
godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e
la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà
ad ambedue non appartiene se non a colui che ha l’animo sano ed invitto,
quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto
buoni avoli, buoni genitori, buona sorella, buoni maestri,
domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non
avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio
Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto
il caso: ma per bontà degli dei non incontra mai tal concorso di
cose che mi ponesse a repentaglio. Il non essere statò più lungamente
allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior
degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile
prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere stato
sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni
sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte e non aver
bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue,
come s’usa, nè d’altre simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo
di ristrignersi quasi alla ondizione di private e non perder nulla
però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello
stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è
d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi
consola nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli
mi porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti
di corpo, il non aver fatto maggiori progressi nella rettorica nè nella
poetica nè nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi
fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i
miei educatori, come parve a me ch’essi
bramassero e non avere indugiato con la speranza del potere far
cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio,
Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la
vita [Lucio Vero fratello per adozione, uomo in vero viziosissimo,
più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e
affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè
per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non vivessi a quel
modo; manca bensì por me, il quale non osservai gli avvisi e, sto
per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della
persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non aver avuto a
fare ne con Benedetta nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella
PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi
adirato più volte con Rustico, io non abbia fatto nulla di che
avessi poi a pentirmi; che, dovendo mia madre morir giovane, abbia
nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh
io volli soccorrere alcuno, o povero o altrimenti bisognoso, non mi
fu mai detto ch’io non avessi danari per farlo e il non essermi
trovato mai io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso
ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così
alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi
stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e
contro le vertigini, e il non essere caduto nelle mani di un qualche sofista,
quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo
scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del cielo.
Le quali cose tutte richiedono l’aiuta degli dei e della fortuna.
Fra i Quadi, ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser
diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi
pessimi portamenti ad un nomo di sì poco sospettosa natura qual era
Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu
dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un
soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti
questi difetti han per causa la ignoranza dei beni e dei mali. Ma
io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e
quella del male, e so cb’egli è l’inonesto; e quella di lui
medesimo che pecca, e so ch’egli è mio congiunto; non perch’egli
sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè
partecipa «r una stessa mente e d’ una stessa origine divina. Io
non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché nessuno mi farà
incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto,
nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome
i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e
i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro
natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro
e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un
composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia stare i
libri; non travagliartene più; non ne hai più il tempo. Ma, come quegli
che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono
altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene
[La parte sovrana, cioè la ragione o la mente e d’arterie. Vedi anche il
fiato che cos’è: imvento; e non sempre il medesimo, ma di continuo
rigettato e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da
badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non
lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da
appetizioni insociali; non lasciare che ella contraddica più oltre al destino,
0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose
avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di provvidenza. Le opere
della fortuna non sono infuori della natura, cioè di quella
coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza governa. Tutto
scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo
di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta
la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo,
siccome le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei
composti di essi elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre
mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri,
affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei
sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo
queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità dagli dei,
non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una volta di
qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome
un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per acquistare la
tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà
più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO
E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e
non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e
sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna
tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di
leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di
doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza per le cose
condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri
possa vivere una vita avventurosa e accetta agli dei! Chè di fatti
gli dei non richiederanno nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati
su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà più tempo. Perchè
tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie ne arreca; e
tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse
CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)
te medesima, ma riponendo nelle anime altrui la tua felicità. Se’
tu svagato dalle impressioni del di fuori? Concedi agio a te stesso
di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai
anche hai da guardarti da un secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche
con le azioni gli uomini stanchi della vita e non aventi uno scopo a
cui dirigano ogni loro sforzo ed ogni lor pensiero qualunque. Per non
avere avvertito ciò che succede nell’anima d’un altro, di rado
l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima
propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a mente
sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha
questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come
nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla
natura di che sei parte. Filosoficamente Teofrasto, nel paragone
ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole, afferrna esser
più gravi le colpe che si commettono PER CONCUPISCENZA che non quelle che si commettono PER
IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto
deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove
CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più
intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta
filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di
chi pecca con dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia piuttosto a
persona ingiustamente [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato
stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a
sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi
PER CONCUPISCENZA a far
checchessia. Convien pensare ed operare ogni cosa come se tu dovessi
uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è
punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare
incappar nel male e se non ci sono, o se non curano le cose umane, a
che vivere in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono
gl’iddei, e si piglian cura dell’uomo; e perch’egli non inciampasse
nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei rimanenti se alcun
fosse male, a quello ancora avrian provveduto, sì che potesse
ognuno guardarsene. Ma quello che non fa peggiore l’uomo, come farebbe
peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata
mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè
sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per impotenza nè per
disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che i beni e i mali
toccassero del pari e senza differenza nessuna ai buoni ed ai
tristi. E pur noi veggiamo che la morte e la vita, la gloria e l’infamia,
il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che non sono
nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai buoni.
Adunque, nè benf olle sono nè mali. Come tosto svanisce e va a
per- dersi ogni cosa, nel vortice del mon- do i corpi, e nello
avvicendarsi del tempo la memoria di quelli! quali sono tutte le
cose sensibili, e mas- simamente quelle clic adescano col piacere o
atterriscono col dolore o sono dalla vanità degli uomini celebrate!
quanto son vili, dispregevoli, sucide, corrottibili, morte! questo
è . da considerare per una facoltà intel- lettiva: che cosa son
coloro le opi- nioni dei quali e le voci distribui- scono la fama;
che cosa è il morire; e siccome, chi lo considera solo da per sè,
separandolo con la mente da tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non
se ne fa più concetto se non come di operazione della natura: ora
il temere un’ operazione della na- tura è cosa da fanciullo. E
questa non solo è operazione della natura, ma operazione utile a
quella. In che maniera 1’ uomo comunica con Dio, e per qual parte
di sè; e come disposta debb’ essere allora questa parte dell’
uomo. Non v’ ha misero al pari di colui che va esplorando in giro
ogni cosa, come disse quell’ altro, anche le cose di sotterra, e
vuol penetrare, per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del
vicino, senza accor- gersi che gli basterebbe pure tenersi accanto
al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio che è
in noi,' vuol dire mantenerlo netto di passione, di operar teme-
rario, e di scontentezza per cosa che venga dagli Dei o dagli uomini.
Per- chè quel che viene dagli Dei è ve- nerabile, per la virtù eh’
è in loro: quel che vien dagli uomini è ami- chevole, per la
parentela che abbiam con loro; e talvolta anche compas- 1 sionevole
per l’ ignoranza in che ' sono de’ beni e dei mali; cecità non
minore di quella che impedisce di scernere il bianco dal nero. Quand’
anche tu avessi a vivere tre migliaia d’ anni ed altrettante
diecine di migliaia, sovvengati non- dimeno che r uomo non perde
altra vita che quella eh’ egli vive, nè vive ' Inteudi la
ragione. altra vita che quella ch’egli perde. Ad uno stesso
fine adunque riescono e la più lunga vita e la più breve. Perchè il
presente è uguale per tutti, se bene non è uguale lo spazio di vita
insino allora trascorso; e così appare che il tempo che l’ uom
perde è un momento indivisibile. Nè il pas- sato di fatti nè il
futuro non può perdere egli mai; come perdere ciò che non ha? Di
questi due punti adunque ti hai da ricordare; l’uno, che il mondo
va eternalmente sem- pre ad un modo, ravvolgendosi come in un
cerchio, e che non v’ ha dif- ferenza dal vedere le stesse cose per
cento anni al vederle per dugehto o per la infinità dei secoli; l’ altro,
che ugual vita perde e chi muor decrepito e chi muore'per
tempissimo; perchè il presente è la sola vita che venga lor tolta,
essendo la sola che ciascun d’ essi abbia, e nessuno non potendo
perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di
Monimo il cinico. E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il
midollo per insino ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè
stessa, primieramente quando ella; diventa, per quanto sta in lei,
come chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da
quello co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un [Diceva
che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un
tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli stoici il torre
esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome quella in cui
è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche uomo, od
anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime degli
adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua deter- minazione di volontà, ma opera a caso e senza
sapere che cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non
(iovrian farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli
animali ra- gionevoli è il conformai'si alla ragione e legge della
più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della
vita umana, la durata è un punto; la materia, fluente; il senso,
tenebre; la compagine di tutto il corpo, corruzione; l’anima,* un
La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo
certamente ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere;
la fama, cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda
il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle, linee
segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta
distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene
di colà d’ onde è venuto egli stesso; sovra tutto poi, aspetti la
morte con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli
elementi onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo
essere trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca-
gione si avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’
essi tutti in una volta? Ella è cosa se- condo natura; e nulla che
sia se- condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non
solamonte è da considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che
sempre ce ne riman meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo
viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per la intelligenza
degli affari e la contemplazione che ha per iseopo la conoscenza
delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli incominci a
vaneggiare, non cesserà però, egli è vero, nè di tra- spirare, nè
di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene,® e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto
bene esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà
spenta anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente
perchè ci facciamo ognora più vicini alla morte, ma ancora perchè
cessano in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com-
prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle
cose le quali sono un mero accompagnamento necessario [‘Onesto’
chiamano gli stoici il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita
r nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo] d’ ima operazione
della natura hanno un non so che di grazioso e di dilettevole. Per
esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi luo- ghi. Or
bene, anche quelle così fatte screpolature che stan là, per così
dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un certo garbo o
muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio. Ancora i fichi,
quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive lasciate lunga
pezza in su V al- bero, quello stesso essere già vicine a
corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza particolare. E
le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone, e la
schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre cose le
quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno,
perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’ opera della natura,
aggiungono a quella ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi
avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad una ad una le cose
che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne troverebbe per
avventura, anche di quelle che sono mera conseguenza- necessaria
delle altre, la quale non gli paresse farsi con una certa grazia.
Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra viva con non meno
piacere che quando gli scultori o i pittori glie la fan vedere
imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi scorgerebbe un certo che
di finito e di maturo non meno piacevole ai casti occhi di lui che
là venustà dei fanciulli; e molte altre cose gl’ incontrerebbe di vedere,
che non fan senso in tutti, ma solamente in chi s’ è veramente
addimesticato con la natura e con le opere di
quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso,
e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per
loro la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali
distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in
giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi
anch’essi di vita, alla fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e
ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli
d’acqua il corpo, coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’
pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’
imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’altra
vita, nessun luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sente il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nota alcuna tradizione che concordi con ciò che
qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere senza sentimento,
avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a versi ad un
vaso che è di tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è
mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare quella
porzione che ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui, ogni
volta che tu noi faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello andar
fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che dice,
e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali tutte ti fan
deviare dalla custodia della tua parte sovrana. Conviene adunque
guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma
molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a
pensar solo tali cose che, quando altri, all’improvviso ti domandasse, che
pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema. Questo, o quest’altro.
Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in te che non sia
schietto e benevolo, nulla che non convenga ad animai socievole; il
quale non si compiace nelle immaginazioni di piacere o di godimento
qual eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua-
lunque altra cosa ti facesse arrossire quando tu avessi a confessare
che l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’
oggi in domani a por sè nel novero degli ottimi, è come un
sacerdote e un ministro degli Dei, devoto, non meno che agli altri,
a quello che ha il suo tempio in lui medesimo; per virtù del quale
l’ uomo diventa inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile
ad ogni dolore, inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni
malizia, sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella
del non essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia
in- sino al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto
accàSe e gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè
mai senza una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o
dice o pensa; perch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le
proprie, e pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r
universo gli arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome
ha fede che le seconde sien buone; quando la sorte attribuita all’
uomo procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme
con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien sempre a
memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e fuor di
casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali praticano;
non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può venire da
tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. 5. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccen- de.' Ancora, fa’ che il Dio
tuo in- terno abbia a governare in te un animale maschio,
attempato, citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di
tutto punto, siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono Di
molte faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o
faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e non occorre
sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la testimonianza (f altr’uomo;
nel lieto aspetto del quale ben si scorge non avere egli bisogno nè
dell’ aiuto che vien dal di fuori, nè della tranquillità che gli
altri procurano. Conviene adunque esser ritto in piedi già, e non
riz- zarui solamente. Se tu trovi qualche cosa di meglio nella vita
dell’ uomo che la giustizia, che la verità, che la temperanza. che la fortezza,
e, in una pa- rola, che quella disposizione della mente per cui
ella si appaga di sè medesima nelle cose die ti fa ope- rare
secondo la retta ragione,, e del fato, nelle cose che senza
parteci- pazione della tua volontà ti vengono distribuite; se,
dico, tu trovi alcun che di meglio che questo, a quello 1
Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo i Romani. voiti con
tutta l’ anima e godine siccome di cosa che hai ritrovato esser
l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il genio stesso tuo
interno, quando si è fatto signore de’ propri moti, e rivoca ad
esame le proprie immaginazioni, e si è sot- tratto^ come dice
SOCRATE, dalle passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e
pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di questa, tutte . le
rimanenti cose ti paion picciole e vili, non dar più luogo appresso
te a nessuna altra, alla quale una volta che tu ti sentissi
propendere, più non potresti senza repugnanza preferire a tutti quel
bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al bene j’azionale ed
efficiente non vien contrapposto impunemente mai nulla che sia di
natura diversa, come le lodi della moltitudine, o il comandare, o i
piaceri del senso; tutte queste cose, per poco che le si paiano
Ò1 adattare,' ti sopralfamio in un attimo e ti
strascinano. Or tu, dico io, sce- gli schiettamente e liberamente
il meglio, e a quello ti attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se
l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’
utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper- tamente e vivi di poi
senza boria nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada,
ve’, che non ti inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i
[Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò
in che consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci,
senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia
per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il pudore,
odiare alcuno sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa j che
abbia bisogno di pareti e di ve- lame. Chi ha posto innanzi ad ogni
altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’ è propria
di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di solitudine,
non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive senza ricercar
nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o, abbia ad esser corto
Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta nel corpo
l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè an- clic il
minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non veggo che cosa
abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del testo è: sia lungo o
sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani- ma contenuta
nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia lungo, o sia breve il
tempo ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello sgombrare, cosi
spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque di quelle
azioni che si possono con verecondia e con dignità operare; da
questo solo guardandosi per tutta la vita,, che veruno dei moti
della sua men- te non sia mai men che convene- vole ad animale intelligente
o sociabile. Nella mente dell’ uom castigato e puro non troverai
nulla di marcio, nè tampoco nulla di contaminato o che paia sano al
di fuori e noi sia. La vita di lui, a qualsivoglia ora lo sorprenda
la morte, non è mai imperfetta, come tu diresti quella tragedia d’onde un
attore si fosso riti- rato prima d’ aver condotto a fine la sua
parte. Ancora non è in lui nulla di villano, nè nulla di artata-
mente gentile; nulla che il leghi alle cose esteriori nè nulla che
lo separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè
nulla che covi addentro nascosto. Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^
Per lei sta che non si ge- neri nella tua parte sovrana nessuna
opinione che non sia consona alla natura o al fine per che 1’ uomo
è ordinato. Ed essa promette la infallibilità, e l’amicizia con gli
uomini e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque da banda tutte
le altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed ancora ricordati che
i r uomo non vive altro tempo che questo presente, cioè un attimo;
il rimanente o lo ha vissuto o non sa se il vivrà. Picciola cosa
pertanto è [Intendi: nulla che appaia manifestamente vizioso. Ossia la
virtù del non cadere in errore; che vien definita da Zenone la scienza
del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no. Questa accompagna
sempre il giudizio comprensivo, che è il criterio della verità appo
gli stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che l’ uom vive,
picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola cosa la
fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro sè, e questa
tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi
appena nati, ed ignari anche di sè medesimi, non che di colui il
quale moriva è già gran pezza. li. Agli avvertimenti dati sin
qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere
l’oggetto che cade sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte
a parte distin- tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua
essenza nudo, e dir teco stesso il nome proprio di quello e il nome
delle cose di che è compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’
ha nulla che sublimi cotanto l’animo quanto il potere arguire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo
di qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è cittadino
della suprema fra le città, della quale le altre città sono' come
al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è composto, e
quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione ora sul mio
senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per esem- pio, della
mansuetudine, della for- tezza, della veracità, della fede, della
semplicità, della frugalità, o simili. Però, intorno a ciascuna cosa,
con- vien dire: questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla
complica- zione delle cause condestinate, e so- miglianti cose;
quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto, dal partecipe d’
una stessa società con me, il quale ignora nondimenò ciò che è
secondo natura per lui. Ma 10 non lo ignoro; e però mi
governo con lui secondo la legge naturale della società, con
benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho riguardo, nelle
cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la
retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo; se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più disainto,
più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed accettare,
quando gli è data la scelga, quelle che han più valore, o che han meno
disvalore. 0. Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da
nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion tua presente secondo
natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa che tu dica:
felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa questo
impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e strumenti
per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi! * per la
cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla mai, per
poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce queste con
quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo ri- ferirai
al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per- chè non sei per
rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le azioni degli an- tichi
romani e greci, nè gli estratti Punti fondamentali di credenza,
cre- denze prime, dommi: decreta. appo CICERONE. d’ autori che riserbavi
per la vec- chiaia. Studiati dunque d’ arrivare al fine, e poste da
banda le spe- ranze vane, soccorri a te stesso, se pur ti cale di
te, mentre che il puoi. 15. Non sanno * quanti significati
abbiano le parole rubare, seminare, comperare, riposare, veder quel
che sia da fare, il che non si reca ad effetto con gli occhi, ma
con un’al- tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo
son le sensazioni, deh’ anima le ap- petizioni, della mente le
credenze.^ Ricevere impressioni nella fantasia è cosa anche da
giumento; esser mosso da appetiti è cosa anche da fiera, anche da
androgino, anche da Falaride, anche da Nerone; avere per iscorta la
mente a quello che ci pare nostro ufficio, è cosa anche I
Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci
par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona la
patria, da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera nefanda.
Se adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli anzidetti, resta
che sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab- bracciare gli
accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal macchiare e
turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede nel petto di
lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente* come un
Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè dicendo mai
nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno ttro interene.
Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli stoici.
Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto denota essa
il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto questo
perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai, hanno
maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic. de Officiùt otc. degli
uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità, con ve-
recondia, e di buon animo; nè s’adira egli contro costoro, nè si svia
dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si vuol
giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo- lontà col proprio
destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato
natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti, che senza
difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato. Perch’ella non ama
nessuna mate- ria determinata; ma si porta con eccezione* a quello
che si ha pro- posto, e quando alcun che se le viene ad
attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia; come il
fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana o dominante. [Eccezione:
vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò
la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una picciola
lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni
cosa che se gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa
s’in- nalza più in su. 2. Nessuna azione sia fatta a
caso mai, nè altrimente che secondo una delle regole costitutive
dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti;
e tu stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo una virtù
da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni
virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed un’ arte:
parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi e come
arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle quali è
parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti numeri. inroRDi.
«4 in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e
con meno brighe che nell’ anima sua; massi- mamente chi ci ha
dentro tanto alti oggetti di contemplazione che il solo affacciarsi
a loro procaccia tosto ogni sorta di agevolezza. Quan- do dico
agevolezza, non voglio dir altro che buon ordine. Concedi adun- que
sovente a te questo ritiro e rin- novella quivi te stesso. Breve
sia r espressione ed elementare la forma di quelle verità
contemplative che avran forza di rasserenare al primo incontro V
anima tua c. rimandarti senza corruccio alle cose alle quali
ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'- rucci? Della malizia degli
uomini? Rammentati di quella sentenza, che gli esseri ragionevoli
son fatti gli uni per gli altri; che il sofferire è parte della
giustizia; che malgrado loro peccano; che tanti si son già inimi-
cati, sospettati, odiati, perseguitatisi
a morte, i quali ora sono spenti, son fatti cenere; e te ne darai pace.
0 ti crucci tu di quella parte che a te Vien compartita dell’
universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0 è la provvidenza o
son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che s’ è di- mostrato
che il mondo è come una città. Ma forse tu ti contristi delle
affezioni del corpo? Pensa che non han più nulla che fare con la
mente i moti o sieno soavi o sieno aspri del senso, ogni volta che
questa s’ è raccolta in sè medesima ed ha cono- sciuto la sua propria
potenza; al che potrai aggiugnere quelle altre cose che intorno al
piacere e al dolore hai apparato ed accettato per vere. 0
sarà forse T amor di gloria quello che ti turba? Considera come è
ratto Si allude al sistema atomistico di- Epicuro, il quale
ne- gava la previdenza, e attribuiva il mondo e tutti i fenomeni
del mondo ad una causa non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato
dal - runa parte e dall’ altra* il caos della età, vana cosa il
rumore, mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘ esalta,
angusto il luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta la
t.erra' è un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu abiti?
e quivi ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi adunque
sov- vengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo;
e sopra tutto, non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e
vedi le cose da uomo, da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed
abbi in pronto, fra le verità alle quali dovrai far ricprso, queste
due principalmente: 1’ una, che le cose non arrivano sino all’
anima, anzi stanno al di fuori immobili;* e i turbamenti nascono
dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice la scuola. [nione,
che è dentro. L’ altra, che quanto tu vedi già già si muta e più
non è quel desso; e rivolgi in mente ciascuna delle mutazioni alle
quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita,
opinione. Se la intelligenza ci è comune a tutti, anche la ragione
per cui siam ragionevoli ci è comune; se cotesto è, anche la
ragione imperativa di ciò che si dee fare o non fare ci è comune; adunque
anche la legge ò comune; aifunque siam concittadi- ni; adunque
partecipiamo tutti ad una specie di reggimento civile; adunque il
mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che sia quel
reggimento civile di cui tutto il genere umano partecipa? Di colà,
da quella città comune, viene a noi r intelligenza, la ragione, la
legge, o d’ onde verrebbon esse? perchè, siccome quanto v’ ha in me
di terreo viene da una certa terra di cui fa parte; e quanto v’ ha
in me d’umido, da un altro elemento; e quanto v’ha di caldo e d’
igneo, da una certa sorgente propria (nulla venendo mai dal nulla
nè ritornando nel nulla); così anche la intelligenza dee venire da
qualche cosa. La morte è come la nascita, un mistero della natura.
Composizione e risoluzione di certi elementi in quegli elementi
medesimi. Ad ogni modo non è cosa di
che1’ uomo debba arrossire; perchè non è cosa che repugni
alla natura dell’ animale intellettivo o disconsegua al principio della
formazione di quello. Tali cose debbono di necessità farsi in tal
modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non
abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo
e * Intendi ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui
sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che
il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso:
» togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la
vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè internamente. È
necessitata dall’ utile ‘ la na- tura a far cotesto. Siccome ogni cosa
che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai con
attenzione, troverai 1 Comune. Più letteralmente: « È necessitata
la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir utile, cioè
il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente
in questo luogo la voce natura), il quale evolvendosi, come ragion
seminale, successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia bene. Perchè
non conviene dimenticar mai che, appo gli stoici, l'utile non è altro
che il bene. sempre vero: non solamente, dico, secondo l’ordine di
conseguenza, ma ancora secondo l’ordine di giustizia; come se le
cose procedessero da tale che distribuisse a ciascuno secondo il
merito. Osserva adunque, come hai cominciato; ed ogni cosa che tu
fai, falla con questa condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero
signifi- cato della parola dabbene. Questo carattere conserva in
ogni tua azione. Non concepir le cose quali le giudica colui che fa
ingiuria, o quali egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali
sono in realtà. Conviene esser sempre pronto a queste due cose; fai'
solamente quello che la ragion dell’ arte regia e legislativa ti
suggerisce per 1’ uti- lità degli uomini; e cangiar partito, quando
altri viene a raddrizzarti e rimuoverti da una qualche falsa opi-
nione. Ma questo cangiamento dee farsi sempre per un qualche motivo
plausibile, come di giustizia, o d’ utilità comune, o somigliante;
e non mai perchè la cosa ti piaccia o sia per arrecarti
gloria. Hai la ragione? Si. Che dunque non 1’ adoperi? Perchè,
se essa fa quanto le spetta, che ti resta a desiderare? Sei venuto
al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti
raccoglierai nella ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti
grani d’ incenso su uno stesso altare: l’uno è caduto prima e l’altro
dopo. È lo stesso. Tra dieci giorni parrai un Dio a coloro, ai
quali pari ora una bestia e una scimmia, se fai ritorno ai prin-
cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a vi- vere
molte migliaia d’ anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti
è dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera
chi non bada a quello che ha detto il vi- cino, o ha fatto, o ha
pensato, ma solo a quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera sua
sia giusta, e santa, e qual si richiede dall’ uomo dabbene ! Non
andar guatando attorno i neri costumi, ma corrér diritto in sulla
linea senza volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato dal
pensiero di lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun di
quelli che si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi
ancora chi sarà a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da
abbagliato in abbagliato e da morente in morente, venga a spe-
gnersi affatto ogni memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a
ri- cordare di te, ed immortale la fama; che fa ssi abbia, e
nessuno non potendo perdere quel che non ha. Siccome tutto è
opinione. È « noto il detto di Monimo il cinico.
E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il midollo per insino
ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè stessa,
primieramente quando ella; diventa, per quanto sta in lei, come chi
dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da quello co-
me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente
qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro alla quale
son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature degli
altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un * Diceva
che «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco vuol
dire ad un tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli stoici
il torre esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome quella
in cui è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche
uomo, od anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime
degli adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua determinazione di volontà, ma opera a caso e senza sapere che
cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non (iovrian
farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli
è il conformai'si alla ragione e legge della più antica fra le città
e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata
è un punto; la materia, fluente; il senso, tenebre; la compagine di
tutto il corpo, corruzione; l’anima,* un [La città e
repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente
ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere; la fama,
cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo,
è un tor- rente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo; la vita
tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le vien
dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere? Sola
ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo- dire
per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle, linee
segnenti; ma solamente il principio ’ della vita animale. Vedi il § 16
del lib. Ili | dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,
anima c mente. P. I nato siccome cosa che gli viene di colà
d’ onde è venuto egli stesso; sovra tutto poi, aspetti la morte con
mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli elementi onde
ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo essere
trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca- gione si
avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’ essi
tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se- condo
natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non solamonte è da
considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che sempre ce ne
riman meno, ma eziandio che egli è in- certo, ove ancor 1’ uomo
viva lunga- mente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per
la intelligenza degli affari e la contemplazione che ha per iseopo
la conoscenza delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli
incominci a vaneggiare,* non cesserà però, egli è vero, nè di tra-
spirare, nè di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto bene
esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà spenta
anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente perchè
ci facciamo ognora più vicini alla morte, ma ancora perchè cessano
in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com- prensione
delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle cose le
quali sono un mero accompagnamento neces- [“Onesto” chiamano
(gli stoici) il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita r
nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima
operazione della natura hanno un non so che di grazioso e di
dilettevole. Per esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi
luo- ghi. Or bene, anche quelle così fatte screpolature che stan
là, per così dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un
certo garbo o muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio.
Ancora i fichi, quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive
lasciate lunga pezza in su V al- bero, quello stesso essere già
vicine a corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza
particolare. E le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del
leone, e la schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte
altre cose le quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni
bel- lezza, nondimeno, perch’ elle accom- pagnano necessariamente
un’ opera della natura, aggiungono a quella ornamento e dilettano
altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad
una ad una le cose che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne
troverebbe per avventura, anche di quelle che sono mera
conseguenza- necessaria delle altre, la quale non gli paresse farsi
con una certa grazia. Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra
viva con non meno piacere che quando gli scultori o i pittori glie
la fan vedere imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi
scorgerebbe un certo che di finito e di maturo non meno piacevole
ai casti occhi di lui che là venustà dei fanciulli; e molte altre
cose gl’ incontrerebbe di vedere, che non fan senso in tutti, ma
solamente in chi s’ è veramente addimesticato con la natura e con
le opere di quella. Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’
ammalò egli stesso e muore. I caldei predissero a molti la morte, e
poi venne anche per loro la morte. Alessandro e Pompeo e Caio
Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e
taglia- rono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di
cavalli e di fanti, uscirono poi anch’ essi di vita, alla fine.
Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso
intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,
coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi
d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na- vigato,
sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’ altra vita, nessun
luogo è vuoto di Iddii, e nè anche [Diogene Laerzio narra che
Democrito mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente di vita,
perchè sentiva il suo spirito indebolirsi per effetto degli anni.
Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna tradizione che concordi con
ciò che qni dice Antonino. P. quello dove vai; se per
rimanere senza sentimento, avrai Unito di sof- frire i dolori e i
piaceri, e di dovere andare a versi ad un vaso che è di tanto
inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio, e r
altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione che ti rimane
di vita nel pensare ai fatti altrui, ogni volta che * tu noi faccia
con un fine di comune utilità; cioè nello andar fantasticando che
cosa opera il tale e per qual cagione, e che dice, e che pensa, e che
mac- china, e somiglianti cose, le quali tutte ti fan deviare dalla
custodia della tua parte sovrana. Conviene adunque guardarsi, nella
succession dei pensieri, dall’ ozioso e dal vano, ma molto
ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a
pensar solo tali cose che, quando altri, all’ improvviso ti
domandasse, che pensi ora? tu possa risponder tosto e senza tema:
questo, o que- st’ altro; onde appaia subito mani- festamente non
avervi nulla in te che non sia schietto e benevolo, nulla che non
convenga ad animai socievole; il quale non si compiace nelle
immaginazioni di piacere^ o di godimento qual eh’ ei sia, o di
gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua- lunque altra cosa ti
facesse arrossire quando tu avessi a confessare che l'avevi in
mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’ oggi in domani
a por sè nel novero degli ottimi, è come un sacerdote e un ministro
degli Dei, devoto, non meno che agli altri, a quello che ha il suo
tempio in lui medesimo; per virtù del quale l’ uomo diventa
inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile ad ogni dolore,
inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni malizia,
sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella del non
essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia in-
sino al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto accàSe
e gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè mai
senza una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o dice o
pensa; per- ch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le
proprie, e pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r
universo gli arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome
ha fede che le seconde sien buone; quando la sorte attribuita all’
uomo procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme
con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien
sempre a memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e
fuor di casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali
praticano; non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può
venire da tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo
in- terno abbia a governare in te un animale maschio, attempato,
citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di tutto punto,
siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono [Di
molte faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o
faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e non occorre
sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la testimonianza (f altr’
uomo; nel lieto aspetto del quale ben si scorge non avere egli
bisogno nè dell’ aiuto che vien dal di fuori, nè della tranquillità che
gli altri procurano. Conviene adunque esser ritto in piedi già, e
non riz- zarui solamente. 6. Se tu trovi qualche cosa di me-
• glio nella vita dell’ uomo che la giu- stizia, che la verità, che
la tempe- ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella
disposizione della mente per cui ella si appaga di sè medesima
nelle cose die ti fa ope- rare secondo la retta ragione,, e del
fato, nelle cose che senza parteci- pazione della tua volontà ti
vengono distribuite; se, dico, tu trovi alcun che di meglio che
questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo
I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine siccome
di cosa che hai ritrovato esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-
senta di meglio che il genio stesso tuo interno, quando si è fatto
signore de’ propri moti, e rivoca ad esame le proprie
immaginazioni, e si è sot- tratto^ come diceva Socrate, dalle
passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli
uo- mini; se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti
paion picciole e vili, non dar più luogo appresso te a nessuna
altra, alla quale una volta che tu ti sentissi propendere, più non
potresti senza repugnanza preferire a tutti quel bene che è pro-
prio di te ed è il tuo; perchè al bene j’azionale ed efficiente (3)
non vien contrapposto impunemente mai nulla che sia di natura
diversa, come le lodi della moltitudine, o il co- mandare, o i
piaceri del senso; tutte queste cose, per poco che le si
paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo e ti strascinano. Or
tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il meglio, e a quello ti
attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se l’utile al- r uomo in quanto
è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’ utile all’ uo- mo in
quanto animale, dillo su aper- tamente® e vivi di poi senza boria
nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada, ve’, che non ti
inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i [Par
che Antonino alluda qui alla teoria dello adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, come diremmo noi, del con- cetto alla
rappresentazione, che è ciò in che consisto il giudizio. Dillo
spiattellatamente, se ardisci, senza avvolgerti in parole coperte: e
ammetti poi tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi
da animale mero e puro, senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di
virtù nè di giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso
sarebbero un vano fasto di pa- role. E provocazione al senso intimo
dell'uo-mo. Utile a te nulla che sia per isforzarti un dì a violar la
fede, abbandonare il pudore, odiare alcuno^ sospettare, maledire,
simulare, desiderar cosa j che abbia bisogno di pareti e di ve-
lame. Chi ha posto innanzi ad ogni altra cosa la sua mente e genio,
e il culto della virtù eh’ è propria di quello, non fa tragedie,
non geme, non ha bisogno di solitudine, non di frequenza d’ uomini;
quel che più impoita, vive senza ricercar nulla nè fuggire; abbia
ad esser lungo o, abbia ad esser corto Tintèrv^allo di tempo
durante il quale sarà conte- nuta nel corpo l’ anima con che egli
lia a fare,' non se ne piglia nè an- clic il minimo pensiero; e
quando [Con che egli ha a fare. Non veggo che cosa abbia
voluto dire Ornato. Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia
breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani- ma contenuta nel
corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo
ch'egli ha a vivere. è giunta V ora dello sgombrare, cosi spiccio se ne
va, come se impren- desse un’ altra qualunque di quelle azioni che
si possono con verecondia e con dignità operare; da questo solo
guardandosi per tutta la vita,, che veruno dei moti della sua men-
te non sia mai men che convene- vole ad animale intelligente o so-
ciabile. Nella mente dell’ uom castigato e puro non troverai nulla
di marcio, nè tampoco nulla di contaminato o che paia sano al di
fuori e noi sia. La vita di lui, a qualsivoglia ora lo sorprenda la
morte, non è mai im- perfetta, come tu diresti quella tra- gedia
d’onde un attore si fosso riti- rato prima d’ aver condotto a fine
la sua parte. Ancora non è in lui nulla di villano, nè nulla di
artata- mente gentile; nulla che il leghi alle cose esteriori nè
nulla che lo separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente
ripreso,' nè nulla che covi addentro nascosto. Abbi in rispetto la
facoltà giu- dicativa.^ Per lei sta che non si ge- neri nella tua
parte sovrana nessuna opinione che non sia consona alla natura o al
fine per che 1’ uomo è ordinato. Ed essa promette la infal-
libilità,* e l’amicizia con gli uomini e r ubbidienza agli Dei.Messe
adunque da banda tutte le altre cose, queste poche sole abbi in
mente; ed ancora ricordati che i r uomo non vive altro tempo che
questo presente, cioè un attimo; il rimanente o lo ha vissuto o non
sa se il vivrà. Picciola cosa pertanto è 1 Intendi: nulla che
appaia manifesta- mente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in
er- rore; che vien definita da Zenono « la scienza del quando
conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no. > Questa ac-
compagna sempre il giudizio comprensivo, che è il criterio della verità
appo g-li stoici. 0. Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che
l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive;
picciola cosa la fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro
sè, e questa tramandantesi per succes- sione d’ omiciattoli in
omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari anche di sè
medesimi, non che di colui il quale moriva è già gran pezza.
li. Agli avvertimenti dati sin qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di
de- finir sempre o descrivere l’oggetto che cade sotto al tuo
senso, si che tu lo scorga a parte a parte distin- tamente e tutt’
insieme quale egli è nella sua essenza nudo, e dir teco stesso il
nome proprio di quello e il nome delle cose di che è compo- sto e
in che s’ ha da risolvere. Per- chè non v’ ha nulla che sublimi
cotanto l’animo quanto il potere ar- guire per la diritta via e con
verità ciascuna delle cose che incontrano nella vita, e saperle
vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo di qual uso
sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual valore ha
rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è cittadino della
suprema fra le città, della quale le altre città sono' come al-
trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è composto, e quanto
tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione ora sul mio senso;
di che virtù s’ ha da far uso con esso, per esem- pio, della
mansuetudine, della for- tezza, della veracità, della fede, della
semplicità, della frugalità, o simili. Però, intorno a ciascuna cosa,
con- vien dire: questa mi viene da Dio; questa dalla sorte, dalla
complica- zione delle cause condestinate, e so- miglianti cose;
quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto, dal partecipe d’
una stessa società con me, il quale ignora nondimenò ciò che è
secondo natura per lui. Ma 10 non lo ignoro; e però mi
governo con lui secondo la legge naturale della società, con
benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho riguardo, nelle
cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la
retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo; * se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più
disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed
accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han più valore,
o che han meno disvalore. 0. ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to,
nulla aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion
tua presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa
che tu dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa
questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e
strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi!
* per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla
mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando;
per- chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le
azioni degli an- tichi romani e greci, nè gli estratti *
Punti fondamentali di credenza, cre- denze prime, dommi: decreta.appo
Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’
arrivare al fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a
te stesso, se pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non
sanno * quanti significati abbiano le parole rubare, seminare,
comperare, riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca
ad effetto con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo,
anima, mente; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap-
petizioni, della mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella
fantasia è cosa anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa
anche da fiera, anche da androgino, anche da Falaride, anche da
Nerone; avere per iscorta la mente a quello che ci pare nostro
ufficio,* è cosa anche Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par
eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona la patria,
da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera nefanda. Se
adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli anzidetti, resta che
sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab- bracciare gli
accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal macchiare e
turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede nel petto di
lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente* come un
Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè dicendo
*mai nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno ttro interene.
Questo è il significato gene- rale della parola ufficio appo gli stoici.
Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto denota essa
il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto questo
perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai, hanno
maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic. de Officiùt otc. 0.
degli uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità,
con ve- recondia, e di buon animo; nè s’adira egli contro costoro,
nè si svia dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si
vuol giunger puro, tran- quillo, spedito, e conformato di vo- lontà
col proprio destino. La parte che dentro di noi re- gna,* quando è
nel suo stato natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti,
che senza difficoltà si ri- volge sempre al possibile e al dato.
Perch’ella non ama nessuna mate- ria determinata; ma si porta con
eccezione* a quello che si ha pro- posto, e quando alcun che se le
viene ad attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia;
come il fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana
o dominante. [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limi-
tazione del proponimento al possibile. Farò la tal cosa, se non sarò
impedito. cose die incontra, dalle quali una picciola lampana sarebbe
spenta; ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se
gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa s’innalza più in
su. [Nessuna azione sia fatta a caso mai, nè altrimente che
secondo una delle regole costitutive dell’arte.* 3. Van
cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti; e tu
stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè * Ad ogni caso della vita corrispondo
una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42):
ed ogni virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed
un’ arte: parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi
e come arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle
quali è parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti nu meri. 0.
inroRDi. «4 in nessuno altro luogo
si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno brighe che nell’ anima
sua; massi- mamente chi ci ha dentro tanto alti oggetti di
contemplazione che il solo affacciarsi a loro procaccia tosto ogni
sorta di agevolezza. Quan- do dico agevolezza, non voglio dir altro
che buon ordine. Concedi adun- que sovente a te questo ritiro e
rin- novella quivi te stesso. Breve sia r espressione ed elementare
la forma di quelle verità contemplative che avran forza di
rasserenare al primo incontro V anima tua c. rimandarti senza
corruccio alle cose alle quali ritorni. Perchè, di che cosa ti
coi'- rucci? Della malizia degli uomini? Rammentati di quella
sentenza, che gli esseri ragionevoli son fatti gli uni per gli
altri; che il sofferire è parte della giustizia; che malgrado loro
peccano; che tanti si son già inimi- cati, sospettati, odiati,
^perseguitatisi a morte, i quali ora sono spenti, son fatti
cenere; e te ne darai pace. 0 ti crucci tu di quella parte che a te
Vien compartita dell’ universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0
è la provvidenza o son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che
s’ è di- mostrato che il mondo è come una città. Ma forse tu ti
contristi delle affezioni del corpo? Pensa che non han più nulla
che fare con la mente i moti o sieno soavi o sieno aspri del senso,
ogni volta che questa s’ è. raccolta in sè medesima ed ha cono-
sciuto la sua propria potenza; al che potrai aggiugnere quelle altre
cose che intorno al piacere e al dolore hai apparato ed accettato
per vere. 0 sarà forse T amor di gloria quello che ti turba?
Considera come è ratto [Si allude al sistema atomistico
d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i
fenomeni del mondo ad una causa non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa,
interminato dal - runa parte e dall’ altra* il caos della età, vana
cosa il rumore, mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘
esalta, angusto il luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta
la t.erra' è un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu
abiti? e quivi ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi
adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo;
e sopra tutto, non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e
vedi le cose da uomo, da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed
abbi in pronto, fra le verità alle quali dovrai far ricprso, queste
due principalmente. L’una, che le cose non arrivano sino all’anima,
anzi stanno al di fuori immobili e
i turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte
pott come dice la scuola], che è dentro. L’ altra, che quanto tu
vedi già già si muta e più non è quel desso; e rivolgi in mente
ciascuna delle mutazioni alle quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo,
alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune a
tutti, anche la ragione per cui siam ragionevoli ci è comune; se
cotesto è, anche la ragione impera- tiva di ciò che si dee fare o non
fare ci è comune; adunque anche la legge ò comune; aifunque siam
concittadini; adunque partecipiamo tutti ad una specie di reggimento
civile; adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm
noi che sia quel reggimento civile di cui tutto il genere umano partecipa?
Di colà, da quella città comune, viene a noi r intelligenza, la
ragione, la legge, o d’ onde verrebbon esse? Perchè, siccome quanto
v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa parte; e
quanto v’ ha in me d’umido, da un altro elemento; e quanto v’ha di
caldo e d’ igneo, da una certa sorgente propria (nulla venendo mai
dal nulla nè ritornando nel nulla); così anche la intelligenza dee
venire da qualche cosa. La morte è come la nascita, un mistero
della natura; composizione e risoluzione di certi elementi in
quegli elementi medesimi. Ad ogni modo non è cosa di che 1’ uomo
debba arrossire; perchè non è cosa che repugni alla natura dell’
animale intellettivo o disconsegua* al prin- cipio della formazione
di quello. 6. Tali cose debbono di necessità farsi in tal
modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non
abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo
e [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui
sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che
il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso:
» togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo- mo non fa nè anche
peggiore la vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè
internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome
ogni cosa che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai
con attenzione, troverai [Comune. Più letteralmente: « È necessitata
la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir utile, cioè
il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente
in questo luogo la voce natura), il quale evolvendosi, come ragion
seminale, succes- sivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia bene.
Perchè non conviene dimenticar mai che, appo gli stoici, l'utile non è
altro che il bene. Digilized by sempre vero: non solamente, dico,
secondo l’ ordine di conseguenza, ma ancora secondo 1’ ordine di
giustizia; come se le cose procedessero da tale che distribuisse a
ciascuno secondo il merito. Osserva adunque, come hai cominciato;
ed ogni cosa che tu fai, falla con questa condizione, che tu sia
uom dabbene, nel vero signifi- cato della parola dabbene. Questo
carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le
giudica colui che fa ingiuria, o quali egli vuole che tu le giudichi;
ma vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto a
queste due cose; fai' solamente quello che la ragion dell’ arte
regia e legislativa ti suggerisce per 1’ uti- lità degli uomini; e
cangiar partito, quando altri viene a raddrizzarti e rimuoverti da
una qualche falsa opi- nione. Ma questo cangiamento dee farsi sempre
per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o d’ utilità comune,
o somigliante; e non mai perchè la cosa ti piaccia o sia per
arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che dunque non 1’ adoperi?
Perchè, se essa fa quanto le spetta, che ti resta a desiderare? Sei
venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto,
ti raccoglierai nella ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti
grani d’ incenso su uno stesso altare: l’uno è caduto prima e
l’altro dopo. È lo stesso. 16. Tra dieci giorni parrai un Dio
a coloro, ai quali pari ora una bestia e una scimmia, se fai ritorno ai
prin- cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a
vi- vere molte migliaia d’ anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi,
mentre ti è dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si
libera chi non bada a quello che ha detto il vi- cino, o ha fatto,
o ha pensato, ma solo a quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera
sua sia giusta, e santa, e qual si richiede dall’ uomo dabbene !
Non andar guatando attorno i neri costumi, ma corrér diritto in
sulla linea senza volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato
dal pensiero di lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun
di quelli che si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi
ancora chi sarà a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da
abbagliato in abbagliato e da morente in morente, venga a spegnersi
affatto ogni memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a ri-
cordare di te, ed immortale la fama; che fa egli a te cotesto? E non
dico. a te quando sarai morto, ma a te mentre sei vivo: che è
la lode, se on forse talora un mezzo per una qualche dispensazione?
Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la considerazione dello essere
secondo natura o no e cosa quindi che non ha pregio se non per rispetto
d’ una qualche altra. Tutto che è bello, qual che egli sia, è bello
da per sè, ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra
le sue parti la lode, e lodato, non diventa nè peg- giore, nè
migliore. Dico, anche i belli volgari, le cose belle per materia o
per lavoro artificioso (perchè, in quanto al bello per essenza, ha
egli mai bisogno di lode alcuna? No, niente più che la legge,
niente più che la verità, niente più che la be- nevolenza o la
verecondia). Quale di esse è bella per venir lodata o perde per
venir biasimata? Lo smeraldo diventa egli peggiore, se non si loda?
E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un arboscello? Se le anime sussistono dopo morte, come
può, dalla eternità in qua, contenerle in sè l’aria? E come
contiene la terra i corpi che da tanti secoli vi sono seppelliti?
Perchè nell’ istesso modo che questi, dopo essersi conservati alcun
tratto di tempo, col mutarsi di poi e col dis- solversi dan luogo
ad altri cadaveri: cosi le anime che passano nell’ aria,
soffermatevisi un certo tempo, si mu- tano si struggono e accendono, e
ve- nendo accolte nella ragion seminale dell’universo, fan luogo
alle altre che lor vengono appresso. Questo si può rispondere nella
ipotesi che le anime sussistono dopo morte. E convien recarsi a
mente il numero non solo dei corpi seppelliti a questo modo, ma
anche di quelli che ogni di e da noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè
quanti se ne consuma egli e se ne seppellisce, per così dire, nei corpi
di coloro che se ne cibano! E pur nondimeno li cape uno stesso
luogo, pel convertirsi, eh’ essi fanno, in sangue, pel trasmutarsi loro
in aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla
cognizione del vero? Col distinguere in materia ed in causa. Non isviarti;
ma fa’ sì che ogni atto della tua volontà rappresenti il giusto e
che ogni tuo giudizio serbi il carattere di comprensivo. Tutto a me
conviene quel che a te conviene, o mondo. Non è im- matura per me
nè tardiva nessuna cosa che sia opportuna per te. Tutto è frutto
per me quel che portano le tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il
tutto, in te è il tutto, a te ritorna il tutto. — Queir altro dice: 0
amica città di Cecrope! ‘ e tu non dirai: 0 amica città di
Giove? Fa’ poche cose » dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio
il dire, fa’ le cose che son necessarie, quelle che vuol la ragione d’un
animai socievole, e a quel modo ch’ella le vuole? Cosi acquisterai
la contentezza non solo che nasce dal far bene le cose, ma quella
ancora dell’ averne a far poche. Perchè, se dalle cose che diciamo
e facciamo lu tronchi via le non necessarie, che sono il maggior
numero, assai più agio ti rimarrà ed assai brighe avrai meno.
Quindi, ad ogni cosa che sei per fare, domanderai a te stesso: Non
è questa una di quelle che non [Aristofane, nella commedia de' contadini
[DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo] sono necessarie? E
conviene troncar via, non solo le azioni che non son necessarie, ma anche
i pensieri; perchè in questo modo non avrai nè anche più* a temere
che azioni so- verchie li seguano. Fa’ un po’ il saggio
dei come ti riesce la vita dell’ uomo dab- bene, dell’ uomo che
accetta con pia- cere ogni cosa che gli venga com- partita dal
tutto ed a cui basta che r azion sua propria sia giusta e la
disposizione dell’ animo suo bene- vola. Hai tu veduto quelle cose?
Vedi anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice.
Pecca egli, un tale? A sè medesimo pecca. T’ è accaduto qualche
cosa? Bene sta; ab eterno era stato destinato per te, destinato
insieme con te, tutto ciò che ti accade. Al postutto, breve è la
vita: conviene far guadagno del [seguendo la ragione ed il
giusto] Sii in te anche quando ti ricrei. il mondo o è ordinato da
una mente, o è un accozzamento fortuito di cose, venute d’ ogni
parte, sì, ma non di meno ordinate. 0 credi tu che possa avervi un
cotal ordine in te e che nell’ universo alberghi il disordine?
massimamente quando ci vedi, le cose cosi distinte le une dal- r
altre, così mescolate le une con r altre e cosi intimamente
collegate tutte insieme col vincolo di reciproca dipendenza?
28. Neri costumi, eiremminati co- stumi, costumi duri, brutali,
pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo- neschi, taverneschi,
tirannéschi. 29. Se è uno estraneo nel mondo chi non sa che
cosa c’ è nel mondo, non è meno un estraneo chi non sa che cosa vi
si fa; un fuoruscito chi esce fuori della ragion civile; un cieco
chi chiude gli occhi della men- te; un mendico chi abbisogna d’ al-
trui e non ha in sè quanto gli fa d’uopo alla vita: un apostema'
del mondo chi si separa é allontana dalla ragione della natura
comune, avendo a male ciò che accade; perchè quella te lo arreca la
quale arrecò te* me- desimo ancora; una smozzicatura di città chi
distacca la propria anima dall’ anima comune degli esseri in-
telligenti, che è una. Chi filosofa senza tunica, e chi senza libro.
Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure sto fermo nella
ragione. Ed io non ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo
anch’io. Ama l’arte che hai apparato; in essa ti acqueta; e vivi il
rimanente della tua vita come quegli che ha accomandato le cose sue
con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun uomo non vuol essere ne
tiranno nè servo. Figurati, per esempio, i tempi di
Vespasiano; vedrai le stesse cose che adesso: uomini che
s'accasano, che educan figli, che s’ammalano, che muoiono, che fan
guerra, che fan festa, che mercatano, che coltivan la terra, che
adulano, che presumon di sè, che sospettano, che tendono insi- die,
che desideran la morte di alcuno, che mormorano del presente, che
fanno all’amore, che ammassan te- sori, che voglion diventar
consoli, diventar principi. Or tutta quell età è sparita. Passa ai
tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età è spenta anch’
essa. Considera nello stesso modo le altre generazioni d’ uo- mini
e le nazioni tutte intere, e vedi quanti si travagliarono e
straziarono per morir poi poco stante e risol- versi negli
elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto a’ tuoi
di aiTaticarsi per cose da nulla e trascurare quello per che eran
nati, dove era da attendere a questo uni- camente e non cercare
altra cosa. Qui è pur necessario il rammen- tarti che a
ciascuna azione corri- sponde un certo valore e un grado di
applicazione proporzionato.* Per- chè allora solamente eviterai il
rin- crescimento e la noia, quando non ti occuperai più di quel che
conven- ga, nelle cose da poco. 33. Le voci che altre volte
erano in uso, or sono antiquate; così an- [Termine stoico. Un
grado di applicazione (dovutale per parte deir uomo) proporzionato al
valore, cioè air importanza di essa. E vuol dire che dobbiamo
attendere e applicarci a ciascuna azione secondo il valore o l'
importanza di essa azione, cioè molto a quelle che hanuo un gran
valore, e meno a quelle che ne hanno un minore; e fra due di valore
ineguale, attendere piuttosto alla più importante, che alla meno
importante. che i nomi di coloro che una volta furon celebri, or sono,
per cosi dire, antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso, Leonnato; e
poco dopo, Scipione, Catone; poscia Augusto, poscia Adriano c Antonino.
Incerti e favolosi presto diventano; presto ancora son sepolti
nell’ oblio universale. Parlo di co- loro che in un qualche modo furon
chiari e ammirati; perchè, quanto agli altri, appena han reso l’
ultimo soffio. «Nessun ne parla più, nessun ne chiede. Ma che è
ella poi, alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è
dunque quello a cui dobbiamo seriamente badare? Questo solo: che
le_ nostre intenzioni sien giuste; le azioni, utili alla so- cietà;
le parole, non mai menzogne- re; e r animo, disposto ad accettare
tutto che accade, siccome cosa ne- cessaria, siccome cosa amica,
sicco- me cosa derivante dallo stesso prin- cipio e dallo stesso
fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle mani del Fato,
lasciando eh’ egli ti destini a quelle cose eh’ ei vuole. E il
ricordante e il ricordato, ambidue han la vita d’ un giorno. Osserva
di continuo coipe ogni cosa nasce per via di mutazione; ed
avvezzati a pensare che nulla ama tanto la natura dell’universo,
quanto di mutar le cose che esistono e farne dell’ altre simili.
Perchè ogni cosa che esiste è seme, in un certo modo, di quella che
per essa esisterà. Ma tu ti immagini come semi quelli so- lamente
che si gittano nella terra 0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo assai. Or
ora moirai, e non sei giunto per anche ad esser semplice, nè im-
perturbato, nè senza sospetto che le cose esterne ti possano nuocere,
nè sereno inverso tutti, nè a riporre la prudenza nel solo operar
con giu- stizia, Guarda alle menti di costoro, e
dei prudenti fra loro; quali cose fuggono, e quali cercano!
39. Nella mente d’ un altro non istà il tuo male; nè tampoco in un
i qualche cambiamento o alterazione di quello che ti circonda.
Dove sta egli adunque? In quella
parte di te, che giudica intorno ai mali. Quella parte adunque non
giudichi, e tutto andrà bene. Ancorché la cosa a lei più vicina, io
voglio dire il corpo, sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,
infracidisca, stiasi nondimeno quieta la pjirte che giudica di siffatti
acci- denti; cioè giudichi non esser nè j male nè bene ciò che può
accadere ! ugualmente al tristo ed al buono. Perchè quello che
accade ugual- ^ mente e a chi vive contro natura e a chi vive
secondo quella, non è cosa nè secondo natura nè contro. Avvezzati a
considerare il mon- do come un animale unico, avente un corpo unico
ed un’ anima unica; e come ad un senso unico, che è il senso di
lui, ogni cosa risponda; come con un impulso unico - ogni cosa
operi; come ogni cosa concorra alla produzione d’ogni cosa; e qual
sia la connessione e il concatena- mento di tutte. Sei una
animuccia che porta un cadavero, come diceva Epitteto. Non è punto
un male il venire a mutazione, come non è punto un bene l’esser nato da
mutazione. L’età è come un fiume di cose che accadono, e una
corrente rovi- nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già passata ed un’
altra passa, ed un’al- tra passerà. Tutto quel che accade è
cosa tanto solita e tanto familiare quanto le rose nella primavera
e le frutta [Intendi rapidissima e non cagione di rovine, il che
sarebbe nn disordine nel mondo, che è 1' ordine per eccellenza. sa
nella state; nè son da riguardare altramente la malattia, la’
morte, le calunnie, le insidie, e tutto quello che allegra o
attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi, quelli che
seguitano han sempre re- lazione di parentela con quelli ché li han
preceduti. Perchè non è già quivi come un novero di cose indi-
pendenti r una dall' altra, cui la sola necessità * insieme costringa,
ma sibbene una connessione ragionevo- le; e come negli enti si
ravvisa una coordinazione armonica degli uni con gli altri, cosi
negli accidenti si manifesta, non già semplicemente la successione,
ma un certo modo di parentela mai'aviglioso. 4C. Abbi a mente
ognora il detto di Eraclito; che la morte della terra è il diventar
acqua, la morte del- r acqua è il diventare aria, la morte I
Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.*
Ricordati ancora di colui che non sa dove inette la via;* e sicco-
me la ragione con la quale gli uo- mini conversano il più
assiduamente, e che governa ogni cosa, è quella per r appunto con
che essi non van d’ accordo; e le cose in che s’ imbat- tono ogni
dì, son quelle che ad essi paiono più strane. E siccome non
conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci par
di fare e di dire; nè come fan- ciulli che van dietro ai lor padri,
cioè nudamente e semplicemente a quel modo che abbiamo appreso.
47. Come se un Dio ti avesse detto che domani sarai morto, o
posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato da Diog. Laorzio,
Plutarco, Massimo Tirio, Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti
dal Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un
detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo, al più, tu non ti
cureresti gran fatto dell’ avere a morire posdomani piut- tosto che
domani, ove tu non sia il più codardo degli uomini; perchè, quanto
sarebbe il divario? così non ti paia nè anche gran fatto l’avere a
morire piuttosto in capo a molte diecine d’anni che domani.
48. Pensa di continuo quanti me- dici son morti, che sovente in
su gli ammalati le ciglia aggrottarono; quanti astrologi, che la
morte altrui, come un gran caso, predissero; quan- ti filosofi, che
intorno alla morte o alla immortalità migliaia di discorsi fecero;
quanti prodi, che molti am- mazzarono; quanti tiranni, che con
orribil ferocia, quasi non avessero essi mai a morire, la podestà in
sulle vite esercitarono; quante città tutte intere, per dir così,
son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza fine. Rammemora ancora
quanti hai conosciuto, l’ un dopo V altro: questi fece a colui la
sepoltura, e poi morì egli, e queir altro la fece a lui; tutto ciò
in breve. La somma è, che le cose umane son da riguardare come di
nessuna durata nè pregio; un po’ di moccio, ieri; mummia o ceneri,
doma- ni. E quindi, questo attimo presente di tempo, si vuol
passarlo conforme la natura richiede, e finirsela in pace; come
oliva matura che cada, benedicendo la terra che la portò, e
ringraziando l’ albero da cui fu ge- nerata. 49. Sii simile
ad un promontorio, contro al quale incessantemente s’in- frangono fonde,
e quegli sta saldo, e s’abbonacciano intorno a lui i gorgogli dell’
acque. Sventurato me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato,
che, la tal cosa essendomi accaduta, me ne sto nondimeno senza
cruccio, nè ango- sciato del presente nè pauroso del- f avvenire.
Ad ogni altro poteva accadere; ma ogni altro non l’avria senza angoscia
sopportata. Perchè adunque sarà quello una sventura piuttosto che
questo una ventura.* E poi, chiami tu. sventura per l’ uo- mo
quello che non defrauda punto la natura dell’uomo? E ti par egli
che defraudi la natura dell’ uomo quello che non va contro al
volere di quella? E che? il volere della natura tu il sai; forse
che questo accidente ti impedirà dall’ esser giu- sto, magnanimo,
temperante, pru- dente, cauto, veritiero, verecondo, libero,
fornito, in somma, di tutte quelle doti che. unite insieme appagano e
soddisfano intieramente la natura dell’ uomo. Sovvengati adun- que,
ogni volta che una qualche cosa ti contristerà, di ricoiTere a
1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun- que sventura V esserti
accaduta la tal cosa, piuttosto che chiamare avventura felice r
aver tu saputo sopportarla con impertur- bata costanza? » questo
pensiero: che non solamen- te essa non è sventura, ma anzi il
sopportarla da forte. è una buona ventura. Volgare aiuto, sì, ma
nondi- meno efficace per disprezzar la morte è il rimembrar coloro
che durarono lentamente vivendo sino all’ età più decrepita. Che
hanno essi ora di più che gli spenti di morte immatura? Kcco, son
buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio e Giuliano
e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono
molti alla tomba, e poi ci furono accompagnati essi alla fine.
Breve, ad ogni modo, è l’in- tervallo che l’uom vive, e questo
breve, tra quali cose, con quali uo- mini, in qual corpicciuolo
conviene stentarlo! Non farne adunque gran caso. Vedi, dietro a te,
una eternità senza fondo, e un’altra eternità in- nanzi a te: posto
così in mezzo, che divario fai tu,da una vita di tre giorni ad una
di tre secoli? Fa’ che tu vada sempre per la più corta via. E la
più corta via è la via secondo natura. Seguirai quin- di, in ogni
cosa che tu abbia da fare o da dire, il più sano partito. Que- sto
proponimento ti libera dai tra- vagli, dai combattimenti interni, e
da ogni sorta di dispensazioni* e d’astuzie. Al mattino, quando con
difficoltà ti svegli, abbi in pronto questo pen- siero: Mi sveglio
all’ufficio d’uomo; come adunque m’ incresce, s’ io vo a far quello
per che son nato e in grazia di che sono stato messo al mondo? 0
sono io stato fbrmato forse per riscaldarmi giacendo in sul letto? Ma
quest© mi dà più gusto. Per pigliarti gusto adunque sei nato? e non
anzi per operare? per essere attivo? Non vedi le pian- te, le passere,
le formiche, i ragni, [Intendi: cO il fine a cui nacqui è
for- se di giacermi a godere questo tepore del letto?» le pecchie, far ciascheduna l’
ufficio suo, concorrer, ciascheduna all’ordi- namento di quel mondo
che le è proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a
quello che è secondo natura per te? Ma è necessario poi anche il riposo. È
necessario, è vero; ma la natura vi ha posto un limite; ve n’ ha
posto anche al mangiare ed al bere; e tu nondimeno varchi quei
limiti, vai al di là del bisogno; quando si tratta di fare, poi, la
è un’altra cosa, tu stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu
non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame- resti anche* la
natura tua, e la vo- lontà di lei.* Gli artisti, che amano l’arte
loro, si consumano in sui la- vori di quella, dimenticando il ba-
gno ed il cibo: ma tu, fai men caso della tua natura che il tornitore
del [Intendi agire, operare, essere attivo, e non infingardo] torniare,
che il ballerino del ballare, che r avaro della moneta, che il va-
nitoso della gloriuzza. Quando la passione ha preso. piede in
costoro, lascian piuttosto di mangiare e di bere che di attendere
ad avanzare la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali
paiono esse cosa di men pregio, cosa men degna di applicazione?
Come è facile il respingere e il cancellare ogni
immaginazione turbolenta o disconvenevole, e tro- varsi tosto in
piena calma! Reputa degna di te ogni parola ed azione che sia
secondo natura; e non ti persuada il biasimo od il garrire che ne
seguirà di taluni; ma, se è onesto il farla o il dirla, credi eh’
ella è anche cosa da te. Perchè quei tali hanno una mente lor pro-
pria per guida, ed operano per una lor propria volontà; alle quali
tu non badare, ma va’ innanzi per la diritta, seguendo la natura
comune e la tua. La via dell* una e dell’ al- tra è una sola.
Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che
cadendo io trovi requie; esalando lo spirito in quello di che ogni
giorno respiro; giacendo su quello di che mio padre raccolse il
seme, mia ma- dre il sangue, la balia il latte; di che da cotanti
anni mi pascolo e mi abbevero, che sopporta me il quale lo calpesto
e in tanti e sì vari modi lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza
del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui
vanno tutte le cose che sono secondo natura, in- sino a che cadendo
io trovi requie; esa- lando lo spirito in quest' aria che ogni
giorno respiro, per essere sepolto in que- sta terra onde mio padre
raccolse il seme dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba- lia
il latte; dalla quale da tanti anni io traggo di che nutrirmi e
abbeverarmi, che mi sostiene mentre ora la calco coi piedi 0 ne uso
ed abuso in tanti modi.» P. cose ei sono, delle quali non puoi
dire, la natura non mi ci ha dato disposizione. In quelle adunque
ti esercita, le quali dipendono intera- mente da te: la sincerità,
la gravità, r amore al lavoro, l’ indifferenza al piacere, la
rassegnazione, la fruga- lità, la mansuetudine, la libertà dello
spirito, r incuriosità, la serietà, la generosità. Non vedi quante
cose puoi acquistare, dove certo non ha luogo la scusa dello
esserci disadat- to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella forse la
tua mala disposizione natu- rale quella che ti sforza a mormo-
rare, a star neghittoso, a piaggiare, ad accagionare il corpo, a
lusingare, a millantare, a passare per tanti e tanti turbamenti
dell’animo? No, per gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi esser libero
da tutto cotesto; ma solo avevi a cuore, se pur l’avevi, di non
farti scorgere per uno ottuso e di poca penetrativa! E questo [Antonino
ancora si vuol correggere col por mente alle cose, e non istar
sopra pensiero, nè compiacerti nella tua propria
infingardaggine. V’ ha chi, quando ha prestato un rpialclie
servigio ad alcuno, è pronto anche a domandargliene il contracambio. Un
altro non domanda con- traccambio veramente, ma riguarda colui come
suo debitore nel suo se- greto,, e sa quello che lia fatto. Un
terzo poi, non sa, per cosi dire, nè anclie quello che ha fatto, ma so-
miglia ad una vite che ha portato un grappolo, e non cerca nulla
più in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto a lei proprio. Il
cavallo die ha ga- loppato, il cane che lia ormato, l’ape che ha
fatto il miele, e cosi Tuomo 1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora
si vuol nondimeno correggere, quello cioè dell’ es- sere ottuso e
di poca penetrativa. Il testo in questo luogo, e nelle linee che
precedo- no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato
dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non Lschiamazza,' ma passa
atl altro, co- me passa la vite a portar di nuovo un grappolo d’
uva nella stagione. S’ha egli adunque ad essere un di coloro che
fanno il bene, per così dire, senza saperlo? Sì Ma convien pure che
1’ uom sappia quello che fa: sendo proprio dell’ animai sociabile il
conoscere ch’egli opera so- cialmente, e, per Giove, il votere che
anche colui, con chi egli ha a fare, lo conosca. Tu di’ il vero: ma
non. pigli pel lor verso lo mie parole; quindi sarai anche tu un di
coloro di che ho fatto menzione quassù. Perchè anche essi son
tratti in errore da una qualche apparenza di ragione. Ma se vorrai
intendere che cosa è quello eh’ io dico, vivi si- curo che non
avrai a lasciare indie- tro nessuna azione sociale per questo. Cioè
non dee schiamazzare, ma passuire ad altro ecc. Preghiera degli
A.teniesi: «Pio- vi, piovi, o amico Giove, sui campi degli Ateniesi
e sui prati. )> 0 non s’ha da pregare, o così alla buona s’ ha da
pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio ordinò a
colui il cavalcare, o il ba- gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare
a piè nudi, si dice del pari, e con locuzione non diversa, la natura
or- dinò a colui una malattia, una stor- piatura, una perdita, o
altro simile. In quella prima frase, di fatti, la parola « ordinò »
vuol dire assegnò la tal cosa a colui siccome correla- tiva alla
salute; e in questa, i casi che avvengono all’ uomo gli sono as-
segnati, in un certo modo, come correlativi al destino. Così ancora
si dice « i casi (die avvengono a come son dette dagli artefici «
avvenii*si » le pietre quadre nelle mura o nelle piramidi quando
elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter- minato.
Perchè del tutto l’armonia è una. E siccome di tutti i corpi presi
insieme è composto il gran corpo del mondo, cosi di tutte le c,ause
prese insieme è composta la gran causa del fato. Intendono ciò eh’
io voglio dire anche i più rozzi, quando dicono: * ella è toccata a
lui. Adunque ella andava a lui, adunque era ordinata per lui.
Riceviamo per- tanto gli ordinamenti della natura come facciamo
quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro, e pur gli
accettiamo di buon grado per la speranza della sanità. Or be- ne, r
adempimento di ciò che la natura ha voluto sia lo stesso per te che
la tua sanità. Accetta di buon grado, per dura che ti paia, ogni
cosa che accade,- pensando che ella conferisce alla sanità del mondo
e [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon
successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta a
qualcheduno, se non fosse conve- nuta al tutto: sendo questo il
pro- prio d’ogni natura, e poni anche la più infima, che quanto
ella arreca sia sempre acconcio al governato da iei. Per due
ragioni adunque dèi tu aver caro ciò che accade: Tuna, che questo
accade a te, è ordinato per te, ha attinenza in un certo modo con
te, essendo stato conde- stinato di lassù con te dalla più an- tica
delle cause e dalla più veneran- da; l’altra, che quanto tocca in
sorte a ciascuno, concorre, come causa par- ticolare, alla
prosperità, alla perfe- zione, e, sto per dire, alla perma- nenza
istessa del reggitore del tutto. Perchè diventa mozzo l’intero
quando tu tronchi via un minimo che, sia dalla continuità delle
parti, sia dalla concatenazione delle cause. E tu lo tronchi,- per
quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti corrucci
di quel di’ è accaduto. Non dèi indispettirti, nè per- derti d’
animo, nè impazientirti teco stesso, se la non ti riesce cosi per
be- ne ogni volta il governarti secondo i retti principii in quello
che tu fai; ma, uscito di via, ritornarci; quando la maggior parte
delle tue azioni sono passabilmente degne d’un uo- mo,
contentartene; ed amare quello a che ritorni; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA, non
come ad un pedagogo, ma come un eh’ abbia mal d’occhi alla spugna
ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti darà
più fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in quella
il riposo. E ricordati che la filosofia vuole quello solamente -che
la tua natura vuole; e che sei tu quegli il quale volevi altro, che
non era secondo natura. Ma pure, che v’ha egli di piii liisingliiero? E
il piacere, non t’ inganna egli appunto perchè è lusinghiero? Ma vedi
se non fossero cosa più lusinghiera la magnanimità, la libertà, la
sempli- cità, la bonarietà, la santità. Quanto alla prudenza poi,
v’ ha egli cosa più lusinghiera di quella? se tu badi allo andar
esente da ogni fallo e all' avere a seconda ogni cosa, che è il proprio
della virtù comprensiva e intellettiva? Le cose stanno immerse, per
cosi dire, dentro a un buio tanto folto, che a filosofi non pochi, e
non dei più volgari, elle son parate del tutto incomprensibili. E
gli stoici essi medesimi tengono che elle sieno - comprensibili sì,
ma difficilmente: e che ogni nostro assentimento sia mal certo;*
perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che
gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i facondo sempre più scettici, ed
aveano essi medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro
scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-
getti in sè stessi; come poco dura- no, come poco valgono, come
possono - cader nelle mani d’ un bagascione, d’ una cortigiana, d’
un malandri- no. “- Passa ai costumi degli uomini con chi tu
vivi; il più gentile dei quali appena si può tollerare, per non
dire che appena v’ ha fra loro chi possa tollerar sè medesimo. In
tanta caligine adunque, in tanto lez- zo, in un tal flusso continuo e
della materia e del tempo, e del moto e di quanto è in moto, qual
cosa v’ ab- bia mai che meriti la nostra stima, o anche pur solo la
nostra premura, io noi so immaginare nè vedere. Che anzi ci bisogna
confortar noi medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e
non adirarci dell’indugio, ma acquietarci in que- ste sole due cose:
T una, che nulla mi può accadere che non sia secondo la natura dell’
universo; l’ altra, che è in mia potestà il non far nulla contro il
Dio e il Genio mio. Perchè nissuno y’ ha che mi possa sforzare mai
ad offenderlo. il. Che uso fo io ora della mia anima? cpiesta
interrogazione con- vien fare a sè medesimo in ogni circostanza, ed
esaminar sè stesso, che v’ ha egli ora in quella parte di me la
quale è detta sovrana? e che sorta d’ anima è ella ora la mia? Non
è un’ anima di fanciullo? o di gio- vinetto? o di donnicciuola? di
tiran- no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli die al volgo
})aion beni, tu il potrai conoscere anche da questo. Chi ha
preconce- pito nella mente, qual bene, alcuna di quelle cose che
sono un bene davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza, la
giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal concetto gli dura,
pre^star più orec- chio a chi venga a dire in sulla scena,
«Tanta ho di ben dovizia.... eco. I perchè questo ripugnerà
al bene al (juale egli pensa. Ma chi ha precon- cepito alcun dei
beni volgari, ascol- terà ed accoglierà con piacere sic- come
arrecato a proposito, quello che il comico dice. Così persino il
volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un .de’
casi quel motto, che accoglie poi,’ siccome calzante e faceto,
nell’altro, quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose
che fo- mentano la effemminatezza o l’am- bizione. Fàtti innanzi
adunque e domanda se si hanno da stimare e [Verso di tm autor
comico, che dovea esser famigerato in sul teatro a quei tem- pi; il
senso del quale, benché Tautore noi citi intero, appare dall' ultime linee
di que- sto paragrafo] da riguardar come beni quelle cose
rispetto alle quali può molto accon- ciamente venir soggiunto, che
al possessor loro, per la soverchia ab- bondanza, non riman più luogo
ove fare i suoi agi. Sono un composto di causa e di materia.
Ora nè questa nè quella non è per ridursi a nulla mai; co- me
neppure non è venuta dal nulla. Adunque ciascuna parte di me di-
venterà per via di mutazione una qiìalche parte del mondo, e quella
poi ancora un’ altra parte del mon- do, e così all’ infinito. Da una
simi- gliante mutazione ho avuto io resi- stenza, e la ebbero i
miei genitori, e così risalendo, sino ad un^altro in- finito;
perchè nulla osta che si fa- velli a questo modo, quand’ anche
vogliamo stabilire che il mondo si regga a periodi determinati.'
1 Allusione alla c conflagrazione del mondo » domma Eraolitico, la
quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa sono facoltà che
si contentano uni- camente di sè medesime e delle operazioni lor
proprie. Piglian le mosse dal principio peculiare a loro; vanno
dirittamente al fine proposto; ondechè son nomate catortosi le
azioni di cotal sorta, significando col nome la rettitudine della
via. Non è da dire che sia dell’uo- mo nessuna di quelle cose che
non ispettano all' uomo in quanto uomo. Non sono punto requisiti
dell’uomo, nè le promette la natura dell’ uo- a certi tempi,
e distruggersi allora tutto r ordine esistente delle cose, per dar
luogo ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante- riori,
modificato e cangiato dai posteriori: tra i quali non volle decider nulla
Antonino. por essere consumato ivi dal fuoco, se T universo va
soggetto a con- flagrazioni periodiche, o per servire con vicenda
perpetua al rinnovamento di lui s'egli dura eterno o incorrotto. Beota
effectio appo Cicerone, lib. Ili de Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è
no- mato catortoei è l'aziono conforme al dovere, ed è voce solenne
alla scuola. lYio o attende complemento da quel- le. Adunque non
istà nè anche in loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza,
che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna di queste coso
spettasse all’ uomo, non ispetterebbe a lui il dispregiarle o r
opporsi ad esse; nè sarebbe lo- devole chi mostrasse non averne
bisogno; nè sarebbe buono chi se ne disdice alcuna, se buone elle
fossero, f^ppure, quanto più Tuoino si priva di queste cotali cose, o
so- stiene d’ esserne privato, tanto più buono è tenuto.'
IG. Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà la tua
mente: perché si tigne dai pensieri la men- te.^ Tignila adunque
con l’ abitudine ' Dunque queste cotali cose non sono veri
beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è
sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue Filipj iche disse
che quali sono le azioni in (li pensieri come questo, per esempio:
Dove si può vivere, quivi si può anche ben vivere. Nella corte si
può vivere; adunque anclie nella corti; si può ben vivere. K come
quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem- plazione d' un’ altra, è
fatta per qucl- r altra; se è fatta per quell’ altra, a quella ò
portata; se a quella c por- tata, quivi è il suo fine; se quivi è
il suo fine, quivi è anche il suo utile e il suo bene. Adunque il bene
del- r animai ragionevole è la comunità; sendo dimostrato già da
lunga pezza che per la comunità siam nati> O non era evidente
forse, che gli es- seri men degni son fatti a contem- plazione dei
più degni, e i più de- gni, a contemplazione gli uni degli altri?
che gli esseri animati son più degni che gli inanimati, e i ragio-
nevoli più degni che gli animati? cui sogliono versare gli uomini,
tali soglio- no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’
impossibile è cosa da stolto. Ora è impossibile che i malvagi non
facciano cose di questa sorta. Nulla accade a nessuno, che egli non
sia nato per sopportare. Le stesse cose accadono a un altro, il
quale, o ignorando eh’ elle sieiio accadute, o volendo dar a
divedere grandezza d’ animo, sta inaltérabile e non se ne duole.
Tristo a noi, se la ignoranza o il rispetto umano avran più forza
che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non toccano l’ anima punto;
nè hanno accesso all’ anima; nè posson volger r anima nè muoverla.
Si volge ella e si muove da per sè sola; e quali sono i giudizi di
che ella si reputa degna, tali ella fa che sieno per lei gli oggetti
che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui, ora. Cioè a
dire: «quali sono i giudizi che Per un riguardo, l’ uomo è
di quelle cose che ci toccano il più strettamente, in quanto
convien far del bene agli uomini e sopportarli; ma in quanto si
oppongono alcuni alle azioni debite, diventa per me cosa
indifferente 1’ uomo, non meno che il sole, non meno che il vento,
non meno che le bestie. Dalle quali cose può benissimo venir
impedita una qualche azione; ma la volontà, ma la disposizione
interna non in- contrano impedimento mai, per l’ ec- cezione ‘ con
che l’anima accompagna i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella fa,
l’ostacolo. Perchè l’anima ha facoltà di rivolgere al suo scopo
ogni cosa che s’ opponga alla attività di lei; e serve quindi ad
un’ azione ciò che impediva quella certa azione, e ella stima
degno di sè il fare delle cose esteriori, cotali ella fa che per lei
sieno le dette cose. diventa una via ciò che le sbarrava quella
certa via. Di quanto v’ lia al mondo, onora r eccellentissimo. L’
eccellentissimo ò quello che si vale di tutto il resto e che tutto
il resto governa. E così ancora, di quanto v’ ha in te, onora
l’eccellentissimo. L’eccellentissimo in te è quello che v’ ha in te
di congenere a quel primo. Di fatti esso si vale in te di tutto il
resto, e da esso è governata la tua vita. Quello che non offende la
città, non offende il cittadino. Ad ogni pensiero di offesa che ti
paia aver ricevuto applica questa regola; se la città non è offesa
da costui, non sono offeso nè anche io. Che se la città è offesa,
non conviene adirarsi, ma insegnare ‘ a chi l’ha offesa dove sta il
mancamento. Do il mio pieno voto alla correzione dello Schultz,
preceduto dal Gatakero, ben- ché questi non sapesse così bono porro
al suo luogo le pardo scadute. Considera sovente la rapidità con
die passa e si dilegua tutto quello che esiste e che nasce. Per-
chè la materia, a guisa d’ un fiume, è in un flusso perpetuo; le
azioni, in uno avvicendarsi continuo; le cause, in mille
determinazioni di- verse; nulla, per cosi dire, che stia; e questo
infinito che presso presso t’incalza, del passato e del futuro, è
un abisso dentro al quale si spro- fonda ogni cosa. Come adunque non
è uno stolto chi, fra questi termini, si gonfia, o si travaglia, o
guaisce, per cosa che minimamente il mo- lesti, come s’ ella avesse
pure a du- rare un buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la
materia, della quale per una minima parte partecipi; e a tutta quanta
la età, della quale un breve e momen- taneo intervallo ti è
assegnato; e all’ universale destino, del quale che parte aliquota
sei? /Ucuno pecca. A me che fa? Tocca a lui il pensarci; sua è
la volontà, sua 1’ azione. Io ho adesso quel che la natura comune
vuol che adesso io abbia, e fo quello che la natura mia propria vuol
che adesso io faccia. La parte sovrana e dominante deir anima tua
stia salda ai moti della carne, o sien piacevoli o in- grati, e non
vi partecipi, ma circo- scriva sè stessa e tenga confinate nelle
membra quelle passioni. Che se elle penetrano ciò nondimeno sino
alla mente, per la simpatia in- volontaria che han fra loro le
parti d’ uno stesso tutto; allora, al senso, che è cosa naturale,
non -si vuol tentar di resistere; ma si guardi la parte sovrana
dallo aggiungervi del suo r opinione che quello sia un bene od un
male. Vivere con gli Dei. E que- gli vive con gli Dei, il quale di
con- tinuo appresenta loro T anima sua disposta di tal maniera che élla
si contenti di quanto le vien distribui- to e faccia quanto vuole
il Genio cui Giove distaccò da sè stesso e diede a lei per
reggitore e per guida. Questo è la mente e la ragione di
ciascheduno. T’adiri tu con quello che sa di caprino? T’adiri tu
con quello a cui pute la bocca? Che vuoi tu che ci faccia? Egli ha
la bocca a quel modo, egli ha le ascelle a quel modo, di necessità
debbono uscirne esala- zioni a quel modo. Ma, odo chi dice, r uomo
ha la ragione, e può scorgere, rillettendo, in che pecca. Egregiamente. E
anche tu, dunque, hai la ragione; eccita, con la disposi- zione
razionale, in lui la disposizione razionale; ammaestralo;
ammonisci- lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua- rirai, e non c’ è
più uopo di collera. 28. ' Nè eroe di tragedia, nè putta. Come fai
conto di vivere uscito di qua,^ puoi vivere in quello stesso modo
anche qua. Che se non tei permettono, allora esci pur anche
<lalla vita: ma come quegli a cui non incontra nulla di male. C’è del
fumo qua, io me ne vado. Perchè stimi questo gran cosa? Ma sin-
[Queste parole nella vulgata stanno alla fine del § precedente; ma,
se non sono cor- rotte, debbono essere separate e formare da por sè
sole un paragrafo. 2 Cioè, non camminar sui trampoli, e non
istrascinartì per terra: non tanto alto da parer gonfio o affettato, non
tanto basso da muovere a schifo altrui. Cioè, dalla corto. Allude,
secondo che ci avverte il Gata- kero, al proverbio:« tre esserle cose che
ci caccian fuori dì casa; il fumo, il pioverci dal tetto, e la
moglie astiosa.» Vuol dun- que che r uomo esca di vita con quella
in- differenza con che uscirebbe dalla camera dove vi avesse fumo. tantoché
nulla di somigliante non mi sforza a partire, me ne rimango libero,
e nessuno m’ impedirà dal fare le cose eh’ io vorrò; e vorrò se-
condo la natura d’un animai ragio- nevole e sociabile. La mente
dell’ universo ama la comunanza. Perciò ha fatto gli esseri men
degni in grazia dei più degni, e i più degni ha conciliato gli uni con
gli altri. Tu vedi come essa gli ha subordinati, coordinati, dato a
cia- scuno secondo il suo grado, e ridotto a mutuo consenso i primi
tra loro. Come ti sei portato sinora con gli Dei, co’ genitori, coi
fratelli, con la moglie, coi figli, coi maestri, co- gli educatori,
con gli amici, coi fa- migliari, co’ servi; se, riguardo a tutti,
puoi dire insino ad ora: « Nè d’ opre mai nè di parole
oltraggio A nullo io fea.* » ' Omero, Odiss. Kanimenta
per quali traversie sei passato e quali hai avuto la forza di
tollerare: e siccome è piena ornai per te la storia della vita e
termi- nato r incarico. Che cosa s’ è potuto scorgere in te di bello;
quanti piaceri e quanti dolori hai dispre- giato; quante occasioni
di gloria hai negletto; a quanti sconoscenti ti sei dimostrato
amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro, e il pensiero di
Antonino meno ambigua- mente espresso se diremo: < Qual fosti
infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i fratelli, la moglie, i
figlinoli, i maestri, gli educatori, gli amici, i servi? Puoi tu
dire, rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole oltraggio a
nullo io /«a? De' passati tuoi casi e delle passate fortune, quante
hai saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te oramai è il dramma
della vita, finita la parte che ti era assegnata. Ebbene, quante sono
le buone azioni che di te puoi ric-ordare? Quanti piaceri, quanti
dolori hai saputo disprezzare? quante cose stimate gloriose, * non
curare? a quanti ingrati essere bene- fico e amorevole?» In questo
paragrafo il Pierron ed altri dei migliori interpreti pre- sero
alcuni grossi granchi; 1' Ornato intese Per qual cagione certe
anime inesperte ed ignare confondono esse una esperimentata e
sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen- tata e sapiente? Quella che
sa il prin- cipio ed il fine, e conosce la ragione che penetra la
materia delle cose e governa, secondo cicli determinati, per tutta
la eternità 1’ universo. Oramai sei cenere, e schele- tro, e un
nome, o nè anco un no- me; e il nome è strepito e rimbombo mero. Le
cose di che si fa gran conto nella vita son vuote, fracide,
picciòle, cagnolini che si mordono, fanciullini astiosi che ridono e
poco stante guaiscono. E la fede, e la ve- recondia, é la
giustizia, e la verità, oc Air Olimpo, la terra abbandonando
Dalle vie spaziose.* » meglio di tutti; ma troppo fedele alla
let- tera del testo, non fu chiaro abbastanza nello esprimerne il
senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin- Che dunque ti può
trattenere qui ancora? quando le cose sensibili sono senza costanza
nè sussistenza; gli organi del senso, ottusi- e pronti a
impressionarsi del falso; l’animuc- cfa * tua stessa, non altro che
una esalazione del sangue; e 1’ aver fama appo cotali, cosa del
tutto vuota. Che dunque aspetti? Con pazienza il tuo qual eh’ ei
sia o spegnimento 0 traslocamento. Ed intanto che quel- lo viene,
che cosa ti basta? Che altro, se non venerar gli Dei e bene- dirli,
beneficar gli uomini e soppor- tarli e astenerti con loro,^
ricordan- doti che quanto è fuor dei limiti del tuo corpicciuolo e
della tua aniinuc- cia non è nè in tuo potere nè tuo? tendi
un verbo, recaronsi o altro che più ti piaccia. P. t Per
antniuccta, intende* spesso Antonino il principio animale mero, comune
anche ai bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue
relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre, giacché puoi andar per la
diritta sempre, giacché puoi giudicare di- rittamente sempre ed
operare. Due proprietà son queste, comuni al- l’anima e di Dio ' e
dell’ uomo e d’ogni animai ragionevole: il non potere essere
impedito da altrui, e lo avere il proprio bene interamen- te
riposto nella disposizione interna e nella azione conforme alla giustizia,
senza che il desiderio arrivi più oltre. Comuni all'anima e di Dio e
dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora un corpo o un essere
vivente ed eterno, non simile all' uomo, ma composto tuttavia, come
rnomo. d’anima e di corpo. L’unità del corpo divino coll’anima divina ora
per essi il mondo, e quindi si accordavano a dire che Dio è il
mondo, cioè la materia, dotata di una certa qualità e forma, colla
forza attiva in essa immanente. L'anima di Dio sarebbe dunque questa
forza attiva immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è
malizia mia, ' nè azione procedente da malizia mia, ' nè
riceve danno la società, perchè me ne do io fastidio? E qual dan-
no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla
immaginazione al primo incontro; porgi aiuto altrui, sì, a tuo
potere e secondo l’ importanza.del caso, qiiand’ anche lo scapito
non sia se non di cose mezzane; * ma guardati • dall’ immaginare
che sia un danno. Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che
nel partirsi domandava la trottola del suo allie- vo, sapendo bene
che ella era solo una trottola: così hai da fare anche tu *
sui rostri. L’uomo, hai tu dimenticato che cose son queste? No. Mma
costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare stolto anche tu?
® Dovunque il colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol
dire che ha dato buona ventura a sè stesso; e buona ventura sono i
buoni moti dell’ ani- mo, le buone volontà, le buone azioni. La
materia delle cose è ar- rendevole e piglia volentieri ogni forma.
E la ragione che 1’ ammini- stra non ha in sè nessuna causa di mal
fare, non avendo malizia, e non fa (juindi male a nulla, nè nulla è
dannificato da lei. Ed ogni cosa av- viene ed ha compimento per
essa. Non ti curare che tu stia al freddo o che tu stia al caldo,
quando fai il tuo dovere; che tu caschi di sonno 0 che tu abbia a
sufficienza dormito; che te ne venga biasimo o che te ne venga lode;
che tu muoia, o che tu attenda ad un’ altra azione qualunque.
Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita, quella
per cui si muore; e basta anche quivi, per conseguenza, ben
disporre del presente. 3. Vedi addentro; nè la qualità propria
di nessuna cosa nè il valore ti sfugga. Tutti gli oggetti in
brevissimo tempo si mutano; ed o avvampe- ranno, se la materia è
unificata, o si disperderanno. La ragione governatrice sa bene
con qual intenzione e che cosa opera, e su qual materia. Il miglior
modo di vendicarsi d’ una ingiuria è il non rassomigliare a chi r
ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere, è di quella ti soddisfa;
del passare dall’ una azion sociale all’ altra azion sociale,
ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono utile
alla comunità dogli uomini, e qual si conviene ad un animalo socievole
qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che eccita e volge sè
medesima; che fa sè quale ella vuole,* e fa parere a sè quali ella
vuole tutte le cose che aw^engono. Secondo la natura dell’
universo ogni cosa si fa; non potendosi fare secondo una qualche
altra natura la (piale 0 conterrebbe in sè quella, o sarebbe
contenuta in quella, o sta- rebbe separata al di fuori di quella. 0
confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel
tutto, ordine, prov- videnza. Se- il primo supposto ha luogo, come
desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè
stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa- rebbe più
questa la natura universale, ma r altra; se fosse contenuta in essa,
quel che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a fortiori, secondo
l' altra: e se stesse sepa- rata al di fuori, ci sarebbe qualche
cosa fuori dell* universo, il che è assurdo. più.a lungo in un
guazzabuglio di quella fatta e lordume? Che altro mi debbe star a
cuore che il « diven- tare terra a qualunque modo? » E di che mi
turbo io? Verrà il disperdi- mento a me, checché io mi faccia. Ma se è
vero il secondo, adoro il reggitore dell’universo, e in lui sto
fermo e confido. Quando vieni sforzato punto punto dalle circostanti
cose a tur- barti, rientra subitamente in te stes- so, e non istar
fuori del ritmo ’ pili di quello che la necessità ti costringa.
Perchè ti farai più valente nella misura col ritornare ad essa di
continuo. Se tu avessi la matrigna e la madre nel tempo istesso,
alla prima faresti onore, ma torneresti pur non- dimeno sempre
accanto alla madre. Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona
la vita alla mimica. 0. Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda
e in essa ti riposa, la quale fa a te sopportabil la corte, e te sopportabile
in quella. Come ti fai concetto di tale o tal altra vivanda, dicendo
teco stesso: è un cadavero di pesce, è un cadavero d’ uccello o di
porco; e del falerno, è succo di grappoletti d’uva; e della
porpora, son peluzzi di pecora intinti nel sangue d’ una
conchiglia; e del congiugnimento, è attrito di membrane ed escrezione
di moccio con un po’ di spasmo; come tu giudichi allora, penetrando
col concetto sino alle cose esse mede- sime e rappresentandole
nella es- senza loro quali sono; così hai da fare in tutte le
occorrenze della vita; e quando le cose ti si fanno innanzi con
molta appariscenza, denudarle, e scorgerne la bassezza, tolto che
avrai d' intorno a loro la pompa onde si fan magnifiche. Imperocché gran
madre illusioni è la boria; e quando tu credi più fermamente eh’ elle
sieno serie le cose a cui attendi, allora sei più affascinato. Vedi
che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’ Le cose che il volgo
apprezza sono per la maggior parte di estremo genere ed infimo, di
quelle cioè che dall’ abito (0) o dalla natura son go- vernate:
pietre, legni, fichi, viti, ulivi, (rii uomini un po’men rozzi
tengono in pregio quelle che son governate dall’anima: greggio, per
esempio, e mandre. Gli uomini ancor più còlti, quelle che son
governate dall’anima ragionevole; non tuttavia in quanto è universale,
ma in quanto è arti- ficiosa o, come che sia, ingegnosa. 1
StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e famoso per l’austerità del suo
carattere, (guanto al Cratete qui menzionato, ignorasi se fosse il
filosofo Cratete di Atene, oppure il cinico di Tebe; come ignorasi
pariraentn qual fosse il detto a cui si acceuna in questo luogo. 1
m2 ricordi. V od anche senza relazione a nulla, '
come il possedere semplicemente una moltitudine di schiavi.* Quegli
poi che fa stima dell’anima ragione- vole universale e sociale, non si
cura delle altre cose più punto; ma si studia di consolidare in istati
ed in moti conformi alla ragione e volti al bene della società 1’
anima sua, ed aiuta il suo congenere a far lo stesso. Una cosa
s’affretta a nascere, iin’ altra a venir meno, e di quella stessa
che nasce ima qualche parte è già spenta; il flusso e l’alterazione
ringiovaniscono ad ogni ora il mondo, come lo scorrere non interrotto
del tempo fa sempre nuova 1’ eternità. Tn tal fiumana di cose che
vengono e passano, che v’ ha egli che altri 1 Intendi che
costoro ameranno possedere* nn gran numero di schiavi come i detti
pocanzi ameranno possedere nna mandra numerosa. debba aver caro, quando,su
nulla può' far fondamento? Gli è come se imprendesse ad amare uno
degli uc- celletti che volano, e quegli è già sparito via.
La vita di ciascheduno è non al- trimenti che una esalazione del
san- gue o una respirazione dell’aria. Pei> chè non v’ lia
differenza, che tu tragga • a te l’aria una volta e la renda, il
che tu fai tuttodì, o che tu renda tutta insieme colà d’ onde l’ hai
tratta la facoltà respiratrice che ieri o ier l’altro nascendo
acquistavi. 16. Non il traspirare, come le piante, è degno di
stima, non il re- spirare, come i giumenti e le bere, non il.
ricevere impressioni nella fantasia, non Tesser mosso dagli ap-
petiti, non l’adunarsi in branco, non il nutricarsi; cosa non dissimile
dal mandar fuori il soverchiò del nutri- mento. Che è degno di
stima adun- que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito
delle lingue. Ora le acclamazioni del volgo non sono altro che
strepito delle lingue. Anche la gloriuzza hai posto adunque da
banda. Che rimane, che s«i degno di stima? Il muoversi, pare a me,
e il ristarsi * secondo il prin- cipio della propria costituzione,
al che conducono ancora le arti e le culture diverse. Perché ogni
arte ha questo per iscopo, che il formato da lei sia acconcio
alPopra per la quale è formato; e il vignaiuolo che coltiva la
vite, e il cavallerizzo, e il canat- tiere, cercano pur questo. E le educazioni,
e le scuòle, a che tendono? Questo adunque è il degno di stima. E
se questo vien condotto a bene, non occorre procacciar più altro. —
Non finisci di stimare ancora molte altre cose?* Nè libero adunque
sarai 1 L'operare e il non operare. 0. ^ Cioè, non
cesserai dallo avere in pre- gio molte altre cose? tu mai, nè bastevole a te, nè im-
passibile; perchè ti sarà mestieri invidiare, ingelosire, sospettare
chi ti può tórre le cose che stimi, mac- chinar contro a chi le ha;
in fine, conturbato convien che sia chi d’ alcuna di quelle è
privo, ed ol- tracciò, che mormori contro agli Dei bene' spesso;
laddove la riverenza della propria mente e la stima ti farà accetto
a te medesimo, accomo - devole agli uomini e consonante agli Dei,*
io voglio dire, contento di tutto che essi distribuiscono e di tutto
che hanno ordinato. Air insù, all’ ingiù, a cerchio intorno,
son le mosse degli elementi. La virtù non si muove in nessuna
^ cDi modo che ciascheduno che procac- cia di desiderare e fuggire
solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, pro- caccia
al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di G.
Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del Manuale. di queste guise, ma in
una certa sua più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo
va di bene in meglio. Che cosa è mai quel che fanno ! Ai loro
contemporanei, che insieme con essi vivono, non voglion dar lode;
ed essi medesimi poi agognano di aver lode dai posteri i quali non
videro mai, nè vedranno. Gli è come se tu ti dolessi del ' non aver
lode anche da’ tuoi antenati. Non ogni volta che una cosa è
malagevole a te, hai da credere però eh’ ella sia impossibile all’uomo;
anzi, ogni volta ch’ella è possibile all’ uomo e dimestica, credi ch’ella
è conseguibile anco da te. Nell’ esercizio della lotta alcuno talora ci
graffia, o venendoci addosso ci percote malamente col [Merico
Casaabono cita qui, siccome un bel comento a questo §, il saggio di Giobbe,
che vuol leggersi tutto intero. capo. Ma noi diamo a divedere, e
non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo in apprensione di lui quindi
innanzi, come se ci insidiasse; ce ne guardiamo, sì, ma non come da
nemico, nè con. animo sospettoso; lo scansiamo con piacevolezza.
Questo medesimo s’ha da fare in tutte le altre parti della vita:
molte cose lasciar correre, come tra persone che lottano. Perch’egli si
può, come ho detto, schi- vare altrui, e non averlo però a so-
spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere e far capace eh’ io penso ed
opero non rettamente, di buon grado son per ricredermi; perchè io
cerco la verità, la quale non noeque mai a nessuno. Nuoce bensì
altrui il li- manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a
me, io so l’ufficio mio; le altre cose non me ne distolgono; perchè
o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon la
via. Gli animali irragionevoli e le cose in generale a te
sottoposte, quando esse non han la ragione e tu r hai, usa senza
riguardi altera- mente; gli uomini, che han la ra- gione, usa come
vuol la legge di com- pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli Dei. E
non curarti del più o men tempo che tu durerai a far cotesto:
perchè bastano anche tre sole ore cotali. Alessandro il Macedone e
il mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua.
Perchè, o furon ricevuti ambidue nelle stesse ragioni seminali del
mondo,' o si dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un
medesimo istante, dentro a ciascuno * Nel caso che sia vero il
sìsteina ato- mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al
corpo nello stesso tempo ed all’ anima; e non istupirai che molte
più, anzi tutte quelle che avvengono, coesi- stano simultanee in
quel tutto ed uno a cui diamo il nome di mondo. Se
qualcheduno ti domanda come si scriva il nome d’ Antonino,
proferirai tu forse con isforzo di voce ogni sillaba? E se quegli
s’adira, t’adirerai alla tua volta anche tu? Non annovererai tu
piuttosto, pa- catamente procedendo, l’una dopo l’altra le lettere?
Cosi hai da fare anche adesso. Ricordati che ogni ufficio* consta
di certi numeri; col- r osservare i quali, e non col tur- barti, e
non coll’ adirarti con chi s’adira, arriverai direttamente al fine,
proposto. Come è crudele il non per- mettere agli uomini che
seguano quel che sembra a loro convenevole ed utile? E tu noi
permetti, in un certo modo, quando ti corrucci del loro fallire.
Perchè del tutto e’ non vi si indifcono se non in quanto il credono
convenevole ed utile a loro. Ma non è così. Dunque ammae- strali e
falli capaci, senza corrucciarti. La morte è una pausa alla im-
pressione dei sensi, allo stimolo degli appetiti, al discorrer della
mente èd alla servitù verso la carne. È un vituperio che in
quella vita dove non ti s’è stancato ancora il còrpo, ti si sia
stancata innanzi tempo r anima. Bada a non incesarirti,* a non
imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e. Conservati adunque semplice,
buono, ^ Intendi: sebbene tu sia stato adottato nella
famiglia dei Cesari, bada a non t«cc- sarirli, cioè cadere nei costumi
viziosi di molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno, preceduto. intemerato,
grave, ingenuo, amico del giusto, pio, mansueto, amorevo- le, saldo
nell’ adempire al tuo ufficio. Combatti per mantenerti tale, quale
ti ha voluto fare la filosofìa. Venera gli Dei, fa’del bene agli uomini.
Breve è la vita; e l’unico frutto di questa esistenza terrena è la
santa disposi- zione deir animo e 1’ opere indiriz- zate al comun
bene. Ogni cosa da vero discepolo di Antonino quel suo vigor
costante in ciò che operava secondo ragione, e 1 umor sempre
uguale, e la santità della condotta, e la serenità del volto, e la
soavità dei modi, e il dispregio della vana gloria, e l’ ardore nel
voler comprender le cose, e come non avrebbe lasciato andar nulla mai,
ch’egli non avesse ben bene considerato in prima e chiarito; e come
sopportava quelli che si dolevano di lui ingiustamente, [Antonino
Pio, suo padre di adozione. senza ridolersi egli di loro; come non faceva
mai nulla in furia; come non dava adito ai delatori; come era
diligente esploratore dei costumi e delle azioni, non maldicente nè
te- mente i rumori, non sospettoso, non sofistico; come si contentava
di poco, in materia d’abitazione, per esempio, di letto, di
vestito, di cibo, di servidori; come era operoso, lon- ganime, e di
tal tempra da poter durare in uno stesso luogo sino alla sera,
senza aver uopo, per la fruga- lità del vitto, nè anche di uscire
ai bisogni del corpo fuor dell’ ora con- sueta; e la costanza e il
tenor sempre uguale nelle amicizie; e il sopportare che altri
contraddicesse con libertà di parole al suo parere, e rallegrai’si
quando glien era mostro un migliore; e come era religioso senza
supersti- zione; affinchè, con una buona coscienza pari alla, sua, tu
incontri come egli incontrò l’ultima ora. Esci dall’ ebrezza,
ritorna in te; e cacciato via il sonno, e veduto ch’eran sogni
quelli che ti turba- vano, risvegliati una seconda volta, e guarda
le cose della vita come tu guardavi quelle altre. Son composto di un
corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo tutte le cose sono
indilferenti; non potendo egli nè manco far differenza. Air anima
sono indifferenti tutte Qui r Ornato volea fare una nota, come è
indicato nel manoscritto, ma non la fece. Verosimilmente egli volea
gìnstiiicare e il- Instrare la sna interpretazione di questo luogo,
alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La traduzione letterale
di tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te stesso; e cacciato via
il sonno, e veduto che eran sogni quelli che ti turbavano, desto
una seconda volta, guarda queste cose, co- me tu guardasti quelle altre. Intendi anima razionale, la quale per
gli Stoici non era altro che ragione e vo- lontà, esclusa la sensibilità
appartenente solo airantmwccta, mero principio animale comune anche
ai bruti. quelle che non sono azioni di lei. E quelle che sono azioni di
lei, stantìo tutte in balia di lei. E di queste an- cora, quelle
sole che riguardano il presente. Perchè le azioni future e le
passate sono pure indififerenti per lei. Il lavoro non è cosa
contro natura nè per la mano nè pel piede, sintantoché il piede fa
le cose del piede, e la mano le cose della mano.. Quindi non è nè
anche cosa contro natura per V uomo, in quanto uomo, fìnch’egli fa
le cose dell’uomo. E se non è cosa contro natura per lui, non è nè
anche per lui un male. Quanti piaceri non godono i malandrini, i
bagascioni, i parricidi, i tiranni? Non vedi come gli artisti mec-
* canici condiscendono bene in.qual- Sottintendi; € hanno
importanza per lei. che cosa agli imperiti, ma non seguitai! meno
però la ragione del- l’arte, e da quella non si vogliono
distaccare? Non è ella una vergogna che l’architetto e il medico
abbiano più rispetto per la ragion dell’ arte loro propria, che l’
uomo per la sua, la quale egli ha in comune con gli dei? L’Asia e l’Europa son cantucci del
mondo; tutto il mare, una goc- ciola del mondo; l’ Athos, una
zolletta del mondo; ciascuno degl’istanti pre- senti del tempo, un
punto dell’ eter- nità. Tutto è piccola cosa, mutabile, peritura.
Tutto vien di colà, da quella mente comune, o voluto da lei, o per
concomitanza.* E quindi la gola del leone, e il veleno, ed ogni cosa
ma- lefica, come le spine ed il loto, sono un accompagnamento e
quasi una produzion necessaria di quanto v’ha d’eccelso e di bello.
'Non immaginai ti adunque che sien cose aliene da quello che tu
veneri; ma pensa alla sorgente del tutto. Chi ha veduto le cose d’
adesso, ha veduto tutte le cose, quante per gl’ infiniti secoli
furono e per gli jiltri infiniti saranno; perch’ elle son tutte d'
uno stesso genere e d’ uno stesso coloi'e. Considera sovente la
concate- nazione di tutte le cose nel mondo e la relazione dell’
una all’altra. Per- di’ elle son tutte intrecciate, dirò così, r
una colf altra, e tutte, per (piesto motivo, amiche l’ una del-
l’altra. Di fatti all’ una vien sempre dietro 1’ altra; del che è cagione
iJ moto tonico e consenso di tutte e r unità della rnateiia
prima. Alle cose che ti sono date in sorte, ti devi adattare; e gli
uomini, coi quali hai comune la sorte, li devi amai'e, ma amar veramente.
Uno strumento, un ordigno, un arnese qualunque, se è atto, a tutto
quello per che è stato formato, va bene; ancorché non ci sia più
chi r ha formato. Ma negli esseri governati dalla natura è
immanente dentro e continua la virtù che li formò; per lo che
conviene ancor più venerarla, e stimare.che, ove secondo il voler
di quella tu viva, sia per riuscirti secondo il tuo in- tento ogni
cosa. E questo ò quello che succede all’ universo, che gli riesce
secondo il suo intento ogni cosa. il. Quale che sia la cosa
dove tu riponi il tuo bene o il tuo male, s’ ella è una di quelle
che non di- pendono dalla tua volontà, di neces- sità debbe
accadere che, incorrendo tu in quel male, o non conseguendo quel
bene, tu accusi gli Dei, e che tu odii inoltre gli uomini, i quali
ti saran causa, o i quali tu sospetterai avere ad esserti causa del
non conseguir 1’ uno o dell’ incorrer nel- l’altro; e molte
iniquità, certo, com- mettiam noi, per non essere indif- ferenti a
siffatte cose. Ma se noi tenghiamo per beni o per mali quelle cose
soltanto che dipendono da noi, nessuna causa rimane più nè di ac-
cusare Iddio, nè di stare in ostilità verso l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD
UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti, gl’altri alla cieca; per
modo che anche i dormienti, come disse Eraclito, se non erro,
lavorano e COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci lavora in una
guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza suo prò, ci lavora e
coopera anche colui che si va querelando e fa prova ' Vedi il
§ 16 di questo medesimo libro. Con questo § finisce il volgarizzamento
del- r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento rifatto da
me. di resìstere e distruggere l’opera altrui: perchè anche di questi
ha bisogno il mondo. Rimane dunque che tu vegga nel novero di quali
tu ti vuoi porre: perchè chi governa il tutto, saprìi ben valersi
di te in ogni modo, ricevendoti in questa o in queir altra banda
de’ suoi lavora- tori e cooperatori. Se non che hai da badare che
tu non sia tal parte della brigata, qual è del dramma quel povero e
ridicolo verso di cui parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le
veci della pioggia? o Esculapio quelle di Cerere? E gli astri non
hanno essi i loro uffici diversi, ciascuno il suo, 1
Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le parole di Crisippo, alle quali
allude Anto- nino: «In quel modo che le commedie hanno talvolta dei
versi ridicoli e facezie che non hanno alcun valore in sè, ma giovano
non- dimeno all'effetto generale del poema; pa- rimente il vizio è
certamente riprovevole in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente
delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE? Se gli Dei hanno
deliberato intorno a me ed alle cose che deb- bono incontrarmi,
hanno bene deli- berato e provveduto: perchè un Dio senza senno e
improvvido non pos- siamo neppure immaginare. E farmi del male, per
qual motivo l’ avreb- bero essi voluto? Qual pio ne sa- rebbe
venuto ad essi o al tutto di che prendono sì gran cura? Che se non
hanno deliberato intorno a me in particolare, essi hanno al certo
deliberato universalmente intorno a tutto il complesso delle cose.
Io debbo quindi accettare e aver caro tutto che mi accade, come
conse- guenza necessaria di quella loro ge- nerale determinazione.
Che se poi non pensano nè provvedono a nulla (è una empietà il
crederlo; o vera- mente non facciam più sacrifici, nè preghiere, nè
alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e viventi con
noi); ’ se, dico non pen- sano nè provvedono in. alcun modo a niuna
delle cose mie; posso io almeno pensare e provvedere a me stesso: e
mio primo pensiero debbe essere di conoscere in che consiste Futile
mio. Ora egli è utile ad un essere qualsivoglia ciò chcs è con-
forme alla costituzione e natura di lui. La mia costituzione è ragionevole
e socievole: la mia società e LA MIA PATRIA, come Antonino, è ROMA; come
uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste due patrie, ò
utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo solo basta.
Ma tu osserverai ancora, so tu ci badi, che per F ordinario ciò che
succede ad un uomo, è utile an- cora agli altri uomini. Intendo ora
^ Intendi: «che suppongono la presenza J e la provvidenza divina.» r utile nel senso volgare, cioè attri-
buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che fanno in te gli
spettacoli degli anfiteatri e di simili luoghi, chè per essere sem-
pre le medesime cose, ti rechi a noia il vederle, quello effetto
me- desimo facciano in te tutte le cose della vita: perchè esse
sono, dalla cima al fondo, sempre le stesse, e nate sempre dalle
stesse. K fino a quando adunque? Non cessare di
rappresentarti al pensiero uomini’ trapassati di ogni fatta 0 di
ogni sorta di condizioni, discendendo anche a Filistione, a Febo e
a Origanione;* passa di poi ad altri generi di viventi. Colà dob-
I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu ancora
un Filistione di Locri, il quale era medico, e da alcuni creduto
autore dei libri sulla dieta che fanno parte della collezione ip-
pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci sono al tutto incogniti. biamo
andare anche noi dove sono iti tanti valenti oratori, tanti gravi
filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate; tanti eroi prima di loro, tanti
capi- tani dopo, tanti tiranni; e insieme con loro EUDSOSSO,
IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini magnanimi, laboriosi,
scaltri, arro- ganti, beffardi, schernitori di questa povera vita di
un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui. Pensa che tutti
costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il cui sistema
è esposto nel XII della Metafisica di Aristotele; e che insieme cou
Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella teoria dei numeri. A lui si
applica, non meno che a Speusippo,!' osservazione di Ari- stotele:
«la matematica è divenuta tutta la filosofia del nostro tempo. [Matematico
contemporaneo di Tolomeo Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato
a Gadara, dal quale un certo genere di satiro che furono dette menippee:
orasi beffato dei filosofi e delio loro dispute scrivendo con uno spirito
e una vena inesauribile, che gli fu invidiata, come pare, anche da
Luciano. da gran tempo. Ora che male per essi? che male per coloro dei
quali non resta pure il nome? Solo una cosa è qui da avere in gran
pregio: r osservar sempre la veracità e la giustizia, comportandoci
benevol- mente anche verso i bugiardi e gli ingiusti.
48. Quando vorrai rallegrare te stesso, rappresentati al pensiero
le migliori qualità degli uomini coi quali tu vivi: per esempio,
l’ope- rosità efficace di questo, la vere- condia di quello, la
liberalità di quel- r altro, e cosi via via. Perciocché non è cosa
che tanto rallegri, quan- to le sembianze della virtù espres- se
nei costumi delle persone colle quali viviamo, e quanto più esser
possa, accumulate e frequenti. Vuoisi dunque averle pronte alla memoria. Ti
quereli tu del pesare solo cotante libbre e non tre cento? Così non
ti querelare dello aver a vivere solo tanti anni e non più. Come ti
tieni per pago e lieto della quantità di materia che ti fu assegnata,
così accontentati del tempo. Fa’ prova di persuaderli; ma non
lasciar di operare anchh mal- grado loro, quando ragione di giu-
stizia il richieda. Che se altri ti impedisce colla forza, volgiti
alla rassegnazione, e serba la serenità dell’anima, facendo uso di
quello impedimento per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu
vuoi condizionalmente,* e che non si ri- chiede da te r
impossibile. Ora che si richiede adunque? Una cotale determinazione di
volontà. E questa [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè
medesima, sia o non sia ella efficace, cioè a dire, sia o non sia
seguita dall' effetto esteriore, il che dipende dalle circostanze
esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto nel mondo è conseguito. L’ambizioso
ripone il ben suo nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle proprie
passioni; ' il savio nella sua propria azione. Io posso astenermi
dal fare concetto alcuno intorno a ciò, e non turbarme nell’anima.
Non le cose, ma noi siamo gli autori dei nostri giudizi. Fa’
di avvezzarti ad ascoltare senza distrazioni ciò che altri dice, e
ad entrare quanto più puoi nel- l’animo di chi favella. Ciò che non
giova allo sciame, non giova neppure alla pecchia. Quando i
naviganti mormorano contro al nocchiero, o gli infermi. Meno
stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè
nel piacere procurato da questo soddisfaci- mento. Perchè il piacere
stesso è per gli Stoici una passione, un patire e non un agire
dell' anima. Di contro al medico,' qual motivo può moverli a ciò se
non se il modo con che il medico e il nocchiero procacciano la sanità
e la salvezza loro? Quanti di coloro, coi quali io venni al
mondo, se ne sono già andati! Agli itterici sembra amaro il miele,
l’acqua è spaventevole al- r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi
una palla. A che dunque mi adiro? Stimi tu men potente una falsa
opi- nione che la bile nell’itterico, o il veleno
nell’idrofobo? Niuno può recarti impedimento al vivere secondo la
legge della tua natura; nulla accaderti contro la legge della natura
comune. Che è il vizio? è ciò che tu spesso hai veduto. E ad ogni
acci- dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero, che è
cosa da te spesso veduta. Su e giù, a dritta e a manca troverai pur
sem- pre le stesse cose, di che sono piene le antiche storie, le
mezzane e le moderne; di che ora son piene le città e le case.
Nulla di nuovo: tutto consueto e di poca durata. La fede nei domini
come può venir meno se non se collo spegnersi di quei pensieri che
sogliono ali- mentarla? i quali sta in te jl ride- «^tar di
continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare: se
questo è in mia facoltà, a che mi turbo? Ciò che è fuori ilella mia
mente, non ha nulla che fare colla mia mente. Fa’ di essere cosi
dispo- sto e sei ritto. Il risorgere sta in poter tuo: vedi di
nuovo le cose a quel modo che tu le vedevi: sarà il tuo
risorgimento.' 3. Pompe, trionfi, vani apparati, drammi che
si recitano in sulla sce- na, greggi, armenti umani, scara- mucce,
ossicciuolo gittate al cagno- lino, tozzo di pane ai pesci nel
vivaio, affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi
spaventati, fantoccini mossi da un filo. È mestieri assistere a
codeste cose con viso benevolo e non burbero, ma non però dimenticare
che tanto vale cia- Pare che ad Antonino in un momento di sconforto
sombrasse aver perduta la fede nei domrai della filosofia. E si conforta
a ri- cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno
quanto vaglion le cose cui dà le sue cure. Conviene por mente parola
per parola a ciò che si dice, e atto per atto a ciò che si fa. E
veder tosto nell’ una cosa qual è lo scopo; nel- l’altra, qual è il
significato. 5. Basta, o non basta il mio in- gegno a proccurare
questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno stromento che la
natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove non osti il dover mio,
lascio fare r opera a chi può condurla a fine meglio di me; ovvero
io la fo co- me posso, giovandomi dell’aiuto di tale, che possa,
scorto dal mio pro- prio consiglio, recare ad effetto ciò che è
utile ed opportuno alla co- munità. Perchè questo deve esser sempre
il fine di ciò che io faccia, sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui:
l’utile e il convenevole al comune. 6. Quanti lodatissimi
sono già stati dati all’oblio! e quanti che li loda- rono sono
scomparsi, già è gran tempo! 7. Non ti vergognare
dell’essere aiutato. Tu ci sei per fare quello che tocca a te, come
un soldato ad una battaglia murale. Ora se tu, offeso in una gamba,
non potessi solo salire in sui merli, e ti venisse fatto col- r
aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose future. Tu
arriverai ad esso, se il dovrai, recando teco quella mede- sima
ragione di che fai uso nelle cose presenti. D, Tutte le cose
sono reciproca- mente collegate fra loro; sacro è il legame che le
unisce, e niuna cosa può dirsi estranea ad un’altra. Esse sono
tutte coordinate insieme e con- corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè
uno è il mondo che è formato di esse tutte, uno Iddio che penetra
tutto, una la materia prima, una la legge, una la ragione comune a
tutti t?li esseri intellettivi, una la verità:. essendo pur anche
una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri e partecipi della
stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza
universale; presto svanisce ogni causa, rientran- do nella ragione
universale; e la memoria di ciascheduna cosa è presto inghiottita
nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la stessa azione
che è secondo natura, è anche secondo ragione. Se non sei ritto,
dirizzati. Quella relazione che hanno fra loro le membra del
corpo nell’ ani- ' male individuo, hanno fra loro gli esseri
intelligenti nel corpo collet- tivo della società: tutti sono fatti
per cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio
ricordartene avrai cura di ripetere. spesso a te medesimo: io sono
un membro del sistema degli esseri intelligenti. Ma se tu di’
solamente: io sono una parte, tu non ami ancora di cuore gli uomini;
il beneficarli non è ancora per te cosa che per se me- desima ti
diletti e ti contenti: tu il fai tuttavia per pretto dovere, non
perchè tu senta di beneficare ad un tempo te stesso. Accada che
vuole al di fuori a quelle parti che possono ricevere nocumento da
cotali accidenti: se ne dorranno esse che patiscono,’ se il
vogliono. Quanto si è a me, ove io non faccia concetto di siffatti
ac- cidenti come di un male, non ne ricevo nocumento veruno. E sta
in mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o
dica, a ine conviene essere uomo dabbene: per appunto come se V
oro, o la porpora, o lo smeraldo dicesse: che che altri faccia o
dica, a me conviene essere smeraldo, e avere il mio pro- prio
colore. 16. (7) La parte sovrana non dà mai noia a sè stessa,
vale a dire, non è mai cagione nè di tristezza, nè di timore, nè di
concupiscenze a sè stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si
adoperi. Quanto a lei, operando razionalmente, non sarà mai a sè
stessa cagione di cotai moti. Provveda il corpo, se può, al non
avere a soffrire; e se soffre, lo dica. Quanto si è all’animuccia, nella
(filale veramente cade la tristezza e il terrore, basterà solo che la
parte ove si formano i giudizi* del terribile [Animuccia;
intendi il principio della &dìoi&1o e del tristo, non
dia luogo a quelli: essa animuccia non ha attitudine a formare
giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai manco di nulla,
ove ella non venga meno a sè stessa: e similmente non è mai turbata
nè impedita, ove non turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine
vuol dire buon genio, vuol dire mente buona. Che fai dunque tu qui,
o immaginazione? Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat- tene come
sei venuta: non ho bisogno di te. Tu sei venuta secondo l’usanza
tua vecchia. Non mi adiro teco; ma vattene. V’ha chi teme il
mutamento? Ma che può farsi mai senza muta- mento e trasformazione?
E che v’ha di più caro, di più proprio e consueto alla natura
dell’universo? E puoi tu stesso prendere un bagno se le legna non
si trasformano? puoi tu nutrirti, se non si trasformano i cibi? E
v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie alla vita che possa
elfettuarsi senza trasformazione? Non vedi tu dunque che il dovere
tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le altre
trasformazioni,, ed è parimente necessario alla natura dell*
universo? 19. Per entro la sostanza dell' uni- verso, come
per entro a un torrente, passano tutti i corpi connaturati a
(jiiello, siccome sono connaturate a noi, e cooperano con noi le
nostre membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti
Socrati, quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati (l;ogni altro uomo,
o cosa qualsi- voglia. Una sola cosa mi turba: la tema di far
cosa che la natura dell’ uomo non voglia, o come essa non voglia, o
quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato, e presto ancora
sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’ amare anche colui che
ci offende. Il che ti verrà fatto se tu penserai che egli è pur tuo
congiunto,^ che ha peccato per ignoranza e suo malgrado, che fra
poco sarete morti ambidue, e so- pra tutto che egli non ti ha
nociuto: perchè non fece peggiore che olla prima si fosse la tua
parte sovrana. La materia comune di tutte le cose è nelle mani della
natura universale, come la cera in quelle dello scultore.^ Ora ella ne fa
un cavallo, poi, rifusa la materia del cavallo, ne fa uso alla
produzione di un albero, poi a quella di un omiciattolo, poi a
quella di qualche altra cosa, e ciascuna di queste cose dura un
brevissimo spazio di tempo. Ma e'non è oggi più tremendo pel
forzierino r essere sconficcato e disfatto, che non fu ieri 1’ esser
fatto. Il quale si serve di essa cera per fare i modelli delle sue
statue. II livore in sul viso è cosa contro natura, da che spesso vi
al- tera anche il colore che naturalmente 10 abbellisce, e
che alla fine vi si spegne in modo da non potervisi più ravvivare.
Questo ti provi che è cosa eziandio contro ragione: perchè se anche
la coscienza del peccare si perde, qual motivo di più vivere? Tutte le
cose che vedi, già già le viene mutando la natura reggitrice del
tutto, la quale ne farà altre della materia loro, e poi altre della
ma- teria di queste, affinchè il mondo sia sempre giovane.
Quando altri ti offende in che che sia, considera tosto qual
cosa egli abbia dovuto estimare come un bene o come un male perchè
fosse così mosso ad offenderti. La qual cosa scorto che tu abbia,
tu avrai compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti e dallo
adirarti. Perdiè o tu stesso stimerai tuttavia come un bene o come
un male quella medesima cosa od altra somigliante; e allora gli si
vuol perdonare; o tu farai altra estimazione ch’egli non fece, e
più facilmente benigno sarai a chi travide malgrado suo. Non
pensare alle cose che tu ancora non hai come se tu gȈ le avessi.
^Ma facendo piuttosto il no- vero delle più comode tra quelle che
liai, sovvengati quale studio porresti in procacciarle se tu non le
avessi. Bada nondimeno che questo tuo averle in grado non ti venga
avvez- zando a stimarle in modo da turbar- tene poi quando elle ti
mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole
dell’ uomo ha natura tale che basta a sè quando agisce rettamente e
sa trovare in ciò la sua quiete. 29. Cancella le immaginazioni,
raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre- sente del tempo. Conosci ciò
che accade a te e ad altrui. Dividi e ri- solvi ne’ suoi elementi,
la parte causale c la parte materiale, ogni oggetto di appetizione
o di aver- sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia stare il peccato
altrui colà dove ò nato. no. Segui col pensiero le
altrui parole. Penetra coll’ acume della mente nelle cose che si
fanno e nel- r animo di coloro che le fanno. 31. Adornati di
verecondia, di sem- plicità e di indifferenza verso tutte le cose
che non sono nè virtù nè vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto
le cose, disse colui, si fanno secondo una legge immutabile. 0 gli
Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa [Cioè a
dire: o v' ha una provvidenza divina, o non v' ha, secondo il sistema
ato- mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche il
poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò
un accozzamento fortuito di atomi o altra aggregazione qualsiasi.
Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un traslocamento. Quanto
al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente
conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa: e la parte
dominante non si è fatta peggiore. Quanto alle parti che sono
offese dal dolore, ce lo dicano se il possono. Quanto alla gloria,
vedi le menti loro, quali cose fuggono e quali cose ricercano. E
ancora, che a quel modo stesso che gli strati di arena novel-
lamente gittati in sul lido ricoprono i precedenti; similmente nella
vita le cose nuove ricoprono, sovrappo- nendosi, per così dire, ad
esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono. Di Platone: Ad
uomo di eccelsa mente, al quale sia dato di abbracciar col pensiero
tutta la serie dei tempi e l’ università degli esseri, credi tu che
la vita sia per sembrare un gran che? Impossibile, disse quegli. E
la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da lui una tremenda
cosa. — No certo. » Di Antistene: Operar bene ed essere
lacerate è cosa da re. È vergogna che il
volto ubbidisca alla mente e si componga ed assesti come ella vuole; e
che la mente poi non sappia comporre e«l assestar sè
medesima. Contro le cose lo adirarsi è vano, Ch'esse non se ne
curano. 1 Fiat. Rep. lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli
Apoftegmi attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal
‘Bellorofonte’, tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa
lieti. Mieter la vita Come spica matura, e morir l' uno, E
viver l’altro. Sed ime vède’nii eigl’ilddii non curano, Ciò pure ha sua
ragione. Che il bene e il dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè
esultare. (Di Platone). A chi mi favellasse
in colai guisa, potrei con giu- stizia rispondere: Tu erri dal
vero, o amico, se tu credi che un nonio di qualche vaglia debba,
quando im- prende a far che che sia, computare le probabilità dello
avere a morire 0 a vivere; e non piuttosto conside- rare unicamente
se ciò ch’egli im- t Nel testo è un verso esametro, ma igno-
rasi onde 1' abbia tratto Antonino. P. 2 Due versi dell' Isipile,
tragedia perduta di Euripide. II primo di questi due versi è citato
anche al § 6 del lib. XI, come verso di un tragico; ma il nome del poeta
non è noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P. 5 I §§ 44 e 45 sono
tratti dall’Apologia di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia
giusto od ingiusto, se azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè
così è veramente, o Ateniesi: quale che sia il posto che altri scelse
nell’ordinanza, giudicatolo il migliore, o in che sia stato
collocato dal capitano; egli vi dee perseverare, secondo che mi
pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di nulla la
morte ne altro checchessia, in paragone della disonestà e vergo-
gna che sarebbe lo abbandonarlo. Ma bada bene, o valentuomo,
che altra cosa non sia la gentilezza, d’animo e la virtù, ed altra il
pro- cacciare salvezza asèe ad altrui; e che ufficio deir uomo,
dico chi voglia essere uomo veramente, non sia per avventura,
anziché lo ingegnarsi di campar lungo tempo avendo cara sopra ogni
altra cosa la vita, il ri- mettersene piuttosto a Dio; e pre-
stando fede a ciò che dicono le fem- mine. essere inevitabile il destino
di ciascheduno, studiare il modo di vi- vere, il più virtuosamente
ch’ei può. quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli
astri accompagnandoli, per cosi dire, nel loro corso; e ripensare
di continuo al perpetuo tramutarsi degli elemen- ti da una in altra
forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure di questa vita
terrestre. 48. Bello è quel luogo di Platone: « Chi ragiona*
degli uomini, deve an- che osservare, come da un’ alta ve- detta,
tutte queste cose terrene: adunanze popolari, eserciti campeg-
gianti, agriculture, nozze, divorzi, nascimenti',’ morti, strepiti di
tribu- nali, contrade inabitate, varietà di nazioni, feste, lutti,
mercati, e que- sto miscuglio di tutti i contrari, e l’ordine di
questo miscuglio di che si compone il mondo. Questo brano di Platone non
si trova nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le
cose che furono prima di noi: tanti mu- tamenti, tanti e sì grandi
rivolgi- menti di stati. Puoi anche conside- rare le cose che
seguiranno in futuro, perchè esse saranno pur sempre ti’ un taglio,
e non è possibile che escano mai del tenore usato infino ad ora.
Onde che tanto vale il ri- cercare gli eventi di che si compone il
vivere umano ^ in un periodo di t^uarant’ anni, quanto in uno di dieci
mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo torna alla
terra; Ciò die d’ etereo seme è germoglio. Del deio
etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione degli atomi terrei
che erano insieme ag- gregati, e somigliante separazione degli
elementi attivi.^ ^ Intendi il vivere dell' umanità, o non
deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo gli dE con cibi
il torrente e con bevande £ con incanti di stornar proccnra Perchè
a morte noi tragga. Con quel vento Che Dio ne manda navigar ci è
d'uopo, £ non spargere inutile lamento.» Pili valente nella lotta,
ma non piò devoto al ben comune, non piò verecondo, non piò
indulgente e piò benevolo verso il prossimo che ha peccato. Ogni
volta che può condursi a fine una impresa secondo i precetti della
ragione comune agli Dei e agli uomini, non hai nulla da temere:
perchè dove sta in te lo avvantag- giarti coir esercizio libero della
tua operosità, procedendo secondo la costituzione dell’ uomo, quivi
non è luogo a timore di avere a soffrire alcun danno.
stoici, Paria e il fuoco, con che intende- vano il freddo e il
caldo; i passivi, la terra e l’acqua. In ogni luogo e in ogni tempo
è in tua facoltà lo acconciarti di buon grado e con pia rassegnazione
all’ evento che ti occorre; e il por- tarti con rettitudine verso gli
uomini coi quali ti trovi; e il vegliare dili- gentemente con
quelli spedienti che tu sai sopra ogni tuo pensiero pre- sente,
affinchè non v’entri inavver- titamente nulla che tu non abbia
perfettamente compreso. Non andare investigando in qual modo
credano di doversi governare gli altri, ma guarda dritto . Non andare
investigando gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti degli
altri approvano o disapprovano; bada dirittamente a ciò che approva la
tua. Noto questo perchè altri non creda essere il qui detto da
Antonino cosa contraria a ciò che disse in molti altri luoghi, e
segnatamente nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di ognuno.
Le sono due cose diverse. In quanto al tuo operare, non badare a ciò che
le menti degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri- ve la
tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi
nelle menti loro, per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il
quale ti scorge la natura universale per mezzo degli eventi che
essa ti manda; e la tua propria natura per mezzo dei doveri che
essa ti impone. E dovere di cia- scheduno sono quelle azioni che
cor- rispondono al fine pel quale è stato formato. Ora gli esseri
non ragio- nevoli sono stati formati per gli es- seri ragionevoli
(come universal- mente tutte le cose che hanno minor valore, per
quelle che ne hanno un maggiore); e gli esseri ragionevoli, gli imi
per gli altri. Primo dovere adunque dell’ uomo, in conseguenza
della sua costituzione, è di cooperare al bene di tutti i suoi simili. Il
secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo
proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,
circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla t
Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva.
Perchè queste due forze sono animale- sche, e sopra di esse quella
vuole aver primato e signoria, e non la- sciarsi signoreggiare da
esse. E con ragione: quella essendo fatta per servirsi di queste.
Terzo dovere del- r uomo \i è il procedere cautamente ne’ suoi
giudizi, per non cadere in errore. A queste cose applicandosi la
parte tua sovrana, compia per la diritta via il suo corso; ed ha tutto
ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo- rire testé e fornito
già tutto il corso della tua vita; vivi secondo natuia (piei giorni
che ti rimangono, con- siderandoli come un soprappiù che tu non
avessi sperato.’ se alcuna mistura di elementi estranei alla
sua natura,. e apparir quindi distinta con taglio nettissimo da tutto ciò
che ha na- tura diversa dalla sua. [A quel modo che se ci trovassimo
al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’ incontrano, e
sono quindi come a dire contesti insieme collo stame della tua vita. Che
potresti desiderare di più accomodato a te? Ad ogni accidente che ti
occorre abbiti davanti agli occhi coloro ai quali incontrarono le stesse
cose; ed essi se ne adirarono, parve loro strano, se ne
querelarono. Ora dove sono coloro? In niun luogo. Perchè vuoi tu
dunque rassomigliar loro? e non lasci piuttosto a chi li vuole quei
moti alieni da te, e non badi unicamente all’ uso che devi fare
deir accidente intervenuto? Perchè tu ne farai buon uso, e ti sarà
nuova materia a virtuosamente operare, solo che tu intenda ad esser
uomo morte senza speranza di riaverci e consi- derassimo la
nostra vita trascorsa; ci dor- remmo di averla male impiegata, e
vor- remmo caldamente impiegarla meglio per l’avvenire, scampando;
cosi dobbiamo vo- lere ora ec. dabbene agli occhi tuoi propri, sia
qual si voglia la cosa che tu faccia; e ti sovvenga di queste due verità:
im- portare assai quale sia l’ azione, e non importare nulla in che
cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è la fonte del bene, la quale non
sarà esausta mai, solo che tu ci vada scavando di continuo.
60. Anche il corpo, e nel cammi- nare e nello stare, serbi un contegno
egualmente alieno dalla avventatezza e dalla mollezza. Imperocché siccome
l’anima si rivela nel volto, imprimendovi un certo che di assennato e di
composto; così ella dee rivelarsi anche nel rimanente del corpo. Ma
ciò vuoisi fare naturalmente, senza che vi appaia studio nè
affettazione. La volontà giusta è per gli Stoici solo scopo e
termine di sè medesima, sia, o non sia ella efficace, cioè a dire sia o
non sia seguita dall' effetto esteriore, il che dipende dalle
circostanze esterne. La virtù sola è huona.essa sola basta alla beatitudino.
L’arte del vivei e virtuosamente rassomiglia piuttosto all’arte
della lotta che a quella della danza, in quanto bisogna essere
apparecchiati ad ogni accidente non preveduto, e saldi per non
cadere. Non cessare di recarti a mente le qualità di coloro dai
quali vorre- sti essere lodato, e quelle delle menti loro. Così non
ti avverrà di trascor- rere all’ ira contro uomini che fallano
malgrado loro, nè ti curerai dell’es- sere da loro lodato o biasimato,
ve- dendo qual sia la fonte onde moiVono i giudizi loro e le loro
azioni. Non per sua elezione, dicea quegli, ma sempre malgrado suo,
è l’anima umana priva del vero.' E [La sentenza è di Platone,
ed è citata anche da Epitteto (Dissert.), il quale nomina T autore. Nel
Sofista parti- colarmente, Platone intende a provare che r
ignoranza è sempre involontaria, e che sempre malgrado suo è l’uomo privo
della cognizione del vero. parimente malgrado suo è priva della
giustizia, della temperanza, della mansuetudine e di tutte le altre
cose cotali. Sommamente importa che tu r abbi sempre a mente: sarai
più mite c be_nigno inverso di ognuno. Oi. In ogni caso di
dolore abbi apparecchiato questo pensiero, che non è cosa
disonesta, non tale da far peggiore la mente che ti gover- na:
perocché non le nuoce nè in quanto ella è ragionevole, nè in quan-
to ella è socievole. Nel maggior nu- mero dei casi troverai soccorso efficace
anche in quel detto di Epicuro: il dolore non esser mai nè intollerabile
nè di lunga durata, solo che tu non lo ingrandisca colla tua im-
maginativa, nia lo vegga ne' limiti suoi naturali. Avverti ancora
che molte cose ci muovono ad atti di impazienza senza quasi che vi
ponghiaino mente, le quali non sono pur altro che dolore: siccome
lo aver sonno quando vorremmo veglia- re, r essere travagliati dal
caldo, o r avere inappetenza. Ora quando tu sostieni malvolentieri
alcuna di que- ste cotali cose, di’ a te medesimo che tu hai ceduto
al dolore.* 65. Bada a non comportarti mai verso i disumani,
come i disumani si comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo
noi che Telauge, quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi
che non basta reggere ai dolori gravi, ma conviene saper vincere anche
i leggieri: coi quali sovente non ci pigliani briga di combattere,
perchè la loro piccio- Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo
vinti senza accorgercene. In quei casi, dico r autore, di’ a te stesso: «
ho ceduto al do- lore: » qnasi volendo, col rammentare quel nome,
che è il vero, faro a sò stesso parere più gravo il caso,o destare cosi
la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico diede il nome ad
uno de' suoi dialoghi]. Imperocché non
basta che la morte di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè eh’
egli abbia fatto prova di mag- giore sagacità nel disputar coi sofisti,
di maggiore fortezza col pas- sare la notte in sul ghiaccio, di più
nobile coraggio col disobbedire al comando di andare a prendere
quel- r uomo di Salamina,' nè eh’ egli camminasse per le vie con
altero contegno: la qual cosa sarebbe mas- simamente da considerare
quando fosse vera. Ma vorrebbesi vedere quale intimamente fosse
l’animo di Socrate. Se egli potea contentarsi dell’ esser giusto
verso gli uomini e [Quest’ nomo chiamavasi Leone e posse- dea
grandi ricchezze. Delle quali i trenta tiranni sperando poter fare lor
preda, avea- no comandato a Socrate che andasèe, ac- compagnato da
altri quattro, ad arrestarlo. Socrate, con pericolo della sua vita,
disub- bidì al comando. Questo fatto è ricorda- to nell’ Apologia
di Platone, da Eschine il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto. santo
verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente contro il
vizio, nè di servire all’altrui ignoranza, nè di accogliere come
strana o incomoda o intollerabile veruna delle cose che gli
venivano compartite dal tutto,* nè di lasciare che la mente sua
partecipasse delle affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò
solo, nella santità e nella giustizia, la sua felicità, Renza nulla
desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi ad inferire che
egli particolarmente dubi- tasse della grandezza mórale di Socrate;
ma esse vogliono piuttosto esser prese in un senso generale, servendosi
Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio, por avvertire
quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da
alcune loro azioni esteriori, sieno buone o sieno cattive; e come
l’eccellenza morale non consista solamente nel compiere este-
riormente qualche grande atto di virtù, ma richiegga inoltre tutte quelle
disposizioni intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La
mente non fu dalla natura mescolata per modo e confusa in- sieme
col corpo che essa non possa distinguersi da esso e come a dire circonvallare
sò medesima, ed eser- citare libera signoria sopra ciò che è ‘suo;
sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno
il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che in pochissime cose
consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi conosciamo
altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo,
quindi dal corpo. Ora può benissimo immaginarsi il caso che un uomo moralmente
eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema
povertà, 0 altra forza esteriore, da non poter usare in verun modo
del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione
esteriore delle disposizioni virtuose deir animo. In questo caso esse non
potranno essere conosciute. E però quando Antonino dice: «esercitare
libera signoria sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra il corpo,
ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia
dispe- rato di dover essere mai eccellente nella dialettica o nella
fìsica, non disperare medesimamente di dover esser libero, e
verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da
alcuna forza esteriore e colla più grande contentezza d’animo,
ancora che tutti gli uomini schiamazzino a posta loro contro di te,
e le fiere mettano in brani le membra di codesta conge- riedi carne
e d’ ossa che ti è venuta crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E che
v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente
tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione
delle cose circostanti e uso ragionevole degli accidenti che intervengono?
Per tal modo che la tua facoltà giudicativa dica all’ oggetto
presente: « secondo T opinione tu sei altra cosa; ma Tessere tuo vero,
è cotale. E la tua facoltà operativa dica immantinente all’
accidente in- tervenuto: « te appunto io cercava: perchè io non ho
altro intento che di operare razionalmente e socievole mente, e
tutto che accada me ne porge occasione, tutto può essere materia ad
esercitare questa virtù, quest’ arte umana e divina. Perchè
qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con
Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-
ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a
fare. Perfettamente costumato è co- lui il quale vive ciascun giorno
come se quello fosse l’ ultimo. Non mai affannosamente operoso, non
neghittoso, non infinto mai. Gli Dei che sono immortali, non indispettiscono
d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata di tempo, tanti e cotali
dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di loro. E tu che oramai
sei per finire, tu rinneghi la pazienza, e quando sei tu medesimo
uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo non voglia fuggire la
propria malizia, il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il
che è impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non
vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè
stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu
cercando, come gli stolti, una terza cosa di più, cioè, che si sa che
tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si
stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro [Cioè del novero
di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli,
come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla
natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad
altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose
che succedono nel mondo sono conformi alla intenzione di quella
natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta
intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno pel ministero
particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più
tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria
giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu
sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza:
cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu
stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu
sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar
rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche la condizione del tuo
stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto,
lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te,
e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita
che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna
altra cura ti distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre
cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA
BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella gloria,
non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta essa
adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto?
Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale
credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo
ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte e libero.
Non essere il malo veruna cosa che non lo faccia essere il contrario. Cioè
non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto
interrogate medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da
pentirmene? Ancora un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che so
ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e
avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio,
o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o
Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;
e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma
quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante
non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la
medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il
contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo
la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun
luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano nè Augusto. Di poi
affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna
essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo
senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser
giusto, ponendo mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con
amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti
turba. Questa faccenda ha la natura dell’universo. Trasportare colà le
cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto
è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto
è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura
qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera nella propria via. E la
natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad
alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi
sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce
se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è
che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad
ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte
di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte
della natura della pianta. Se non che la natura della foglia è parte
di una natura senza senso e senza ragione, e che può essere
impedita. Dove che la natura dell’*uomo* è parte di una natura che non
è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché
distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo,
la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di
distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una
cosa di questo con l’una cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa
di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì
moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL
PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu
il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar
cura di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più
quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il
pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di
utile. Ora il bene conviene di necessità che sia qualche cosa di
utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si
pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è
il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa
è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del
bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di
sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel
mondo? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti dal
sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e alla natura
dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune cogli
animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme
alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a noi,
più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li
esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della
FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali
della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te
medesimo. Che opinioni ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha
intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno
alla gloria e all’ infamia, alla morte e alla vita, certe cotali
opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose.
E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati
che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura
generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione ha
col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la
quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente
identica con essa, e vedendo a che cosa ti giova, secondo il
precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi
anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando
inoltre le conseguenze che si possono dedurre da questo giudizio:
tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la
ficaia produca il fico, così è il maravigliarsi che il mondo
produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti
sarebbero quel medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri
avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere
da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi
propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione
che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà
giudicativa, e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter
tuo, perchè la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi
o degli dei? E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o
non fare yna cosa, o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o
lasci che ai faccia per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi
di nissuno. Perchè se il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non
puoi l’uomo, hai a correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il
lagnarti a che giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza
scopo. Fuori del mondo non può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche
e non altrove si trasforma e si risolve ne’ suoi principi, che sono
gl’elementi del mondo e tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una in
altra forma, e non mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo
fine: il cavallo, la vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo
Apollo dice. Io nacqui ad un certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu
a che sei nato? A darti bel tempo? Vedi se ciò concorda col
concetto che tu fai dell’uomo. Non meno che il cominciare. Cioè nel mondo
e crescere delle cose la natura ha in mira il loro decrescere e
finire, non altrimenti che il giocatore che gitta la palla. Ora
c^ual bene per questa il salire o il discendere, od anche il cadere a
terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi e qual male il
dileguarsi? Il medesimo puoi dire della lucerna. Arrovescialo codesto
corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e ammalandosi e
depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato, il ricordante
e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore non lancia la
palla perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè abbia a
discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale
egualmente. S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al
di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI
SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi pure sono tutti d’accordo,
e v’ha tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la
terra non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o
al domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti
accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani che essere oggi uomo
dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade
una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte le cose,
dalla quale procedono in- Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre
rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi,
esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della
quale tu operi, esaminando se ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando
se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè
riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA
SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che
accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua
fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali sono tutte le singole parti della
vita, tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi
altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino,
poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere
ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E
quei belli spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi
dove sono egli- no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace,
Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno,
tutti son morti da lunga pezza; di alcuni non si è fatta più menzione
nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi
scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come bisognerà
pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito
vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un altro
posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E
proprio dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i
moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne
di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a
quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa circostante.
L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che accade ad
ognuno. La terza cogli uomini che vivono con noi. O il dolore è un
male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per
l’anima. Ma questa ha in poter suo il conservar sempre la sua calma
e serenità, e il non fare concetto del dolore come di un male.
Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione
qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male può salire
insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente
a te stesso. Ora sta in poter mio il fare che in questa mia anima
non sia veruna malizia, veruna concupiscenza, veruna perturbazione,
in somma; e vedendo le cose nel vero esser loro, fare uso di
ciascheduna secondo il valore di essa. Nel senato e con
chicchessia parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole,
e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie,
figlia, nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa, congiunti,
famigliari, amici. Ario, mecenate, medici, sacrificatori. Tutta una
corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non delle
persone ad una ad una, ma, per esempio, della famiglia Pompeia. E quella
scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta; w e pensa
quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non mancasse
loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco
allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà delle singole
azioni vuoisi procacciare di ben comporre la vita. E se ciascuna di
esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè
ciò può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche impedimento
esteriore. Ninno impedimento che possa toglierti di operar giustamente,
temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera potrà essere
impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e passi
alacremente a far buon uso della nuova occasione che ti vien data,
ecco posta nella serie degli atti di che si compone la vita, in
luogo di quella che ti avevi pro- posta, un’ altra azione la quale
non è meno acconcia a quella buona composizione della vita di che
si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an- dare senza
ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca. t Cioè i beni della
fortuna. Gli è come se dicesse: Non tenerti per da più, quando la
fortuna ti viene a trovare; non tenerti per da meno, quando ella se ne
va. o un piede, o una testa giacenti lungi dal corpo onde furono
recisi? Cotale si rende, per quanto sta in lui, chi ripugna ad
accomodarsi r ciò che accade, e si separa a questo modo dalla società
comune, o fa qualche atto contrario al bene di quella. Tu te ne
stai là gittate in un canto, fuori dell’ unione naturale degli
esseri. Perchè tu eri nato parte di quella, e te ne sei spiccato.
Se non che tu puoi sempre rappiccar- viti di nuovo, usando della
facoltà a te concessa da Dio, e non concessa a veruna altra parte
di checchessia, che spiccata una volta dall’ intero potesse
rappiccarvisi.Evedi di quanta eccellenza volle Iddio adornare la
costituzione dell'uomo: chè, primie- ramente, egli pose in potestà di
lui il non separarsi punto dal tutto; e poi il rapprendersi e
compigliarsi di nuovo con quello, quando se ne fosse spiccato, e
riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente qual era
da prima. 35. Dalla natura degli intelligenti ha ricevuto
ciascuno di noi,’ come tutte le altre facoltà (e sono tante quasi e
tali, quante e quali quella medesima ne avea ricevute*), e così
anche quest’ una: che a somiglianza di lei, la quale volge e dispone
nella serie del fato, facendone cosa sua e quasi parte di sè
medesima, tutto che a lei si venga ad attraversare e a resisterle;
così può T animai ra- gionevole far cosa sua di ogni im- pedimento,
pigliandone materia al suo operare e all’ esercizio della propria
virtù; sia pur qualsivoglia la cosa nella quale venisse impe- dito
(14). 36. Non ti turbi il pensiero, quale [Intendi: in qnanto
siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro di lei. sia per essere
tutta la tua vita, e non darti pena e sconforto coll’an- dare
fantafticando quanti e quali travagli avrai forse ancora a soste-
nere: ma ad ogni caso presente in- terroga te stesso col dire: che
v’ha in ciò d’impossibile a sopportare? Perchè avrai vergogna di
rispondere affermando che v’ abbia alcun che di tale. E poi ricorda
a te medesi- mo, non essere mai nè il futuro nè il passato quello
che ti grava, ma pur sempre solo il presente. E que- sto presente
s’ impicciolisce assai quando tu il consideri ne’ suoi pro- pri
confini, chiedendo poi alla tua mente, se anche così impicciolito
ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse
tuttavia seduti presso alla tomba di Vero? o Cauria e Diotiino presso
a quella di Adriano? è follia il chie- derlo. Ma quando pure stessero
tut- tavia colà seduti, forse che ai loro signori ne giungerebbe
notizia? e quando ciò fosse, forse che ne avreb- bero diletto? e
quando ne avessero, sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e Diotimo
immortali? non era egli destino che anche questi invec- chiassero e
poi morissero? e morti che fossero, che rimarrebbe a fare ai loro signori?
fetore è tutto cotesto, e marciume in un sacco. Se hai la vista acuta,
dice egli, ' adoprala, giudicando saviamente delle cose. Una virtù che si
opponga alla giustizia non veggo nella costituzio- ne deir animai
ragionevole; ma una che si opponga al piacere veggo io bene: la
temperanza. Togli via il tuo concetto in- 1 Epitteto. P.
Intendi: se hai P ingegno sottile, fa' che la tna condotta il dimostri,
cioè non contentarti di dire le belle cose, falle. Dai giudizi
dipendono, secondo gli stoici, ne- cessariamente le azioni. torno alle
cose che sembrano darti noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma chi è
questo tu a cui favelli? La ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La
ragione non dia dunque noia a se stessa. E se poi v’ ha altro in te
che si dolga, faccia egli concetto di quel suo dolore. Un male per
la natura anima- le è r impedimento del senso. Ancora un male per lei è
ciò che può impedire la soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’
hanno im- pedimenti alla natura vegetale, e sono quindi un male per
essa. Adun- (jue ciò'che può recare impedimento alla mente è un
male per la natura intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que- sto ragionamento
a te stesso. Il do- lore ti tocca o il piacere? lascia che ci badi
il senso. Qualche ostacolo è sorto ad impedire un effetto da te
voluto? se tu volesti senza la debita riserva, questo invero fu un
male per te, in quanto sei animale ragio- nevole. Ma se fu una
appetizione nel significato comune, tu non hai ricevuto nocumento
nè impedimento alcuno. Perocché tutto che è pro- prio della mente
non può essere impedito che da lei stessa; non è dato nè a fuoco,
nè a ferro, nè a tiranno, nè a maldicenza il giun- gere insino ad
essa: quando si è fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad
alcuni versi d’Empedocle, il quale considerava la sfera come la più
perfetta delle figure; onde che appo Orazio la rotondità potè anche
essere immagine a significare l’eccellenza morale, Sat. II, 7; «Quisnara
igitur liber? Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque pauperies,
neque mors, neque vincula ter- reni: Responsare cupidinibus,
contemnere bonores Fortis, et in seipso totus teres, atque
rotundus: etc. » Ai quali versi di Orazio alludeva pur forse Antonino in
que- sto luogo. Anche a Dante piacque una figura geometrica come
immagine di una virtù morale quando disse: < Ben tetragono ai colpi
di ventura. Non debbo, io, che non ho mai voluto contristare altrui,
voler con- tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una cosa,
chi ad un’ altra. A me fa piacere se ho una mente sana, che non
abbia avversione a verun uomo, nè a ve- runa delle cose che
sogliono acca- dere all’ uomo, ma guardi ed accetti ogni cosa con
sereno occhio, facendo uso di ciascheduna secondo il valore di
essa. 44. Pigliati questo tempo presente: chi vuol piuttosto
darsi pensiero della fama che lascerà dopo sè, non considera che i
posteri saranno tali tuttavia quali sono i contemporanei eh’ egli
ha in fastidio, e mortali essi pure. A te che rileva al postutto
che dalle bocche loro s’ oda echeggiare tale piuttosto o tal altro
suono, e che essi abbiano di te tale piuttosto o tale altra opinione? Toglimi
di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco il mio genio
propizio, vale a dire pago di sè medesimo, quando le disposizioni.
sue sieno conformi alla sua propria natura. Ciò * vale il
pregio che la mia ani- ma se ne turbi e voglia farsi peg- giore di
sè, essere travagliata da desiderii e timori, sconfortata, im-
miserita? E qual cosa troverai tu ' che lo valga? 4G. Air
uomo non può nulla ac- cadere che non sia un accidente umano, nè al
bue che non sia acci- dente’ proprio del bue, nè alla vite che non
sia accidente proprio della vite, nè alla pietra che non sia ac-
cidente proprio della pietra. Ora se a ciascheduno accade quello che
è solito accadergli e gli è connatura- * Intendi: colà ancora
dove mi avrai git- tato, e dove-che sia, avrò meco ec. Intendi: ciò che
ora mi accade, o chec- ché altro di somigliante. le, a che ti
crucceresti? la natura comune non può arrecarti nulla che tu non
sia fatto per tollerare. Se ti attristi per alcuna cosa esteriore,
non è la cosa esteriore quella che ti turba, ma si il giudizio che
tu ne fai. E lo annullare quel giudizio sta in te. Se ti attristi
per alcun che del tuo stato interiore, chi ti impedisce che tu non
raddrizzi l’opinione onde deriva quel tuo stato? Che se ti attristi
perchè non fai tale o tal altra cosa che ti par buona, chè non ti
volgi al farla anzi che attristarti? — Ma sorse osta- colo più
potente di me. Non attristarti adunque se tua non è la colpa del non
fare. Ma non porta il pre- gio di vivere, se questo non posso fare. Esci
dunque pacatamente di vita (dacché muore anche colui cui vien fatta
la cosa che imprende), o con animo benevolo verso chi ti ha
contrariato. Sovvengati come divenga ines- pugnabile la parte
sovrana dell’ uomo quando rinchiusa in sè stessa non abbia altro
proponimento'che di non lasciarsi indurre a far cosa che essa non
voglia, anche nei òasi in' che quel suo ostinarsi a non volere
fosse fuor di ragione. Ora che non sarà quando la sua risoluzione
proceda da sano e ben ponderato consiglio? La mente scevra da
passioni è dun- que una eccelsa rócca, nè 1’ uomo ha luogo più
validamente munito ove raccogliersi per non esser vinto mai. Chi
non conosce questo- rifu- gio, è un ignorante; chi lo conosce e non
vi ricovera, è uno sciagurato. 49. Non dire tu a te stesso
più che non siati annunciato dalla per- cezione immediata. Ti si
annuncia che il tale sparla di te. Questo ti si annuncia; ma che tu
ne riceva no- cumento, non ti è annunciato. Vedo che il figliuolo è
ammalato. Questo veggo io; ma ch’egli sia in pericolo non vedo. Fa’
dunque di attenerti sempre a ciò che ti dice la perce- zione
immediata, non aggiungendovi nulla del tuo, e così non ti accadrà
nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur qual- che cosa, e siano le riflessioni
di un uomo che conosce le relazioni e le con»lizioni vere di tutte
lé cose che accadono nel mondo. Il cocomero è amaro? non man-
giarlo. V’hanno sterpi nella via? fa di non inciamparvi. Tanto ti
basti. Non farti a dire: che bisogno ci avea anche di cotali cose
nel mondo? perchè ne avresti le beffe dell’ uomo versato nella
scienza della natura, come avresti quelle del legnaiuolo Nulla di
male, intendi, perchè tutto quello che sarà oggetto immediato della
percezione, senza alcuna aggiunta del tuo, non sarà mai gran male. Cioè
che tutto che accade è nell' ordine della natura, e vuol essere accettato
di buon grado. e del calzolaio se ti facessi a biasi- marli del
trovarsi trucioli e ritagli nelle loro botteghe.' E nondimeno per
costoro v’ha luogo ove gittarli fuori delle loro officineT mentre
la natura dell’ universo non ha fuori dell’ universo alcun luogo.
Ma questo è appunto il mirabile dell’ arte di costei, che essendo essa
circo- scritta da quei limiti che ella pose a sè stessa, tutto ciò
che nella sua officina sembra guasto, vieto, non più utile a nulla,
ella riprende in sè stessa e ne fa materia alla pro- duzione di
cose nuove. Perchè ella non vuole aver bisogno mai nè di estranea
materia, nè di luogo este- riore ove gittare il vietume, e a lei
basta il suo proprio luogo, la sua propria materia e l’arte sua
propria. Fa’ di non essere molle o negligente nell’ operare, non
confuso nel favellare, non vagante qua e là senza scopo nel
pensare; fuggi, in quanto si è agli affetti, lo scoramento e la
subitanea gioia, e nel tenore della vita lo impigliarti in troppe
faccende. Ammazzano, tagliano a pezzi, fanno imprecazioni. Che vale
tutto questo ad impedire che la tua mente non si conservi pura, assen-
nata, temperante e giusta? Se alcu- no fattosi vicino ad una fontana
lim- pida e dolce si ponesse a maledirla, forse che da quella
cesserebbe di scaturire acqua potabile? Vi gittasse ancor dentro
fango e sterco, essa lo avrebbe sciolto ed espulso in poco d’ ora,
e non ne rimarrebbe conta- minata. Come avrai tu dunque in te una
fontana limpida e perenne, e non un pozzo? Col non cessare di
rivendicarti in libertà, serbandoti sempre mansueto, schietto e
verecondo. Chi non sa che cosa è il mondo, non sa dove sia egli
stesso. E chi non sa a che il mondo e stato fatto, non sa nò qual
sia egli stesso, nè " che cosa sia il mondo.* E chi
ignoia r una di queste due cose, non può neppur dire a che fine
egli stesso sia nato. Ora che ti pare di colui che ambisce esser
lodato da tali che non sanno nè dove essi sono, nè quali essi
sono?^ 53. Vuoi tu essere lodato dall’uo- mo che tre volte
all’ora maledice se stesso? Vuoi tu piacere all uomo il quale non
piace egli stesso a sè medesimo? Piace egli a se medesimo chi si
ripente quasi di ogni cosa die va facendo? Oramai non ti basti' più
sola- E chi non so o che il mondo..... nè che cosa sto il
mondo. StiU" interpretazione di questo luogo diversamente inteso
dagli interpreti, si può vedere la nota nell' edi-zione di Torino. [Intendi
quali ^ieno le loro condizioni. mente il respirare* con l’aria* che ti
circonda, ma fa’ eziandio di pen- sare e di volere con l’
intelligenza universale* che in sè contiene ogni cosa. Perchè la
potenza intellettiva si diffonde e penetra per ogni dove, chi
voglia attingere da essa, non [Respirare: intendi vivere la vita
sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare” e il
corrispondente nel testo hanno nelle dne lingue rispettive oltre al senso proprio,
quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e cooperazione dell’aria,
conformemente - alla na- tura di essa aria, e insieme con essa; chè
essa pure vive è spira, o respira. La preposizione con e la corrispondente in
greco esprìmono nelle due lingue rispettive, oltre alla relazione di
compagnia, quella ancora di conformità, aiuto reciproco o COOPERAZIONE',
esprimono ancora il rapporto di causa sia istrumentale, sia materiale. Tutte
queste rela- zioni di compagnia, conformità, aiuto e causa
materiale, vogliono intendersi come simul- taneamente espresse, confuse
insieme in una idea complessa, nelle dette preposizioni, così in
questa come nella frase seguente. Coll’intelligenza
universale: intendi coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e
insieme con essa. meno che l’aria rispetto a chi la aspira. Il vizio,
universalmente, non nuoce al mondo; e singolarmente, non nuoce ad
altrui. Nuoce solo a colui al quale è dato di potersene liberare al
primo momento che il voglia. Alla mia volontà la volontà del vicino
ò cosa tanto indifferente quanto la anim uccia di lui e il cor-
picciuolo di lui. Perchè, sebbene siam nati tutti gli uni per gli
altri, la parte sovrana di ciascuno di noi ha nondimeno il suo
proprio domi- nio separato; altrimenti la malvagità del vicino
potrebbe essere un male per me. Il che non fu voluto da Dio,
affinchè non fosse in potestà altrui il far me infelice. Il sole
sembra versarsi per ogni dove, e effettivamente si diffonde '
Cioè alPuomo vizioso, che può cessare di esser tale tosto che il voglia. da
tutti i lati, ma non però si effon- de.* Quel suo diftbndersi è uno
esten- dersi: e però gli splendori di lui si chiamano actines
(raggi) da ecteine- sthai (estendersi).* Tu puoi vedere che cosa è
un raggio guardando la luce del sole che penetra per un piccol buco
in una camera oscura: ella si allunga in diritta linea e va come ad
applicarsi sul corpo opaco qual siasi, che le si fa incontro e
intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si ferma senza sdrucciolare giù nè
ca- dere. Cosi dee pure diffondersi la mente, non effondersi, ma
esten- dersi; e quando s’ appresenta un ostacolo, applicarvisi
senza violenza nè urto, nè tampoco cader giù, ma Non si versa fuori
in modo eh' egli ab- bandoni il luogo onde parte la sua luce. [Falsa
etimologia, simile a tante altre che puoi incontrare presso' gli antichi.
Vale a dire intercetta come corpo opaco il passaggio della luce agli
strati d' aria che sono al di là. star ferma e- illuminare 1’ obb
ietto che la riceve. Che se questo non vorrà trasmettere la luce, tal
sia di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la morte, teme o di
non dover più aver sentimento, o di dover avere un sentimento diverso dal
presente. Ma se tu non avrai più sentimento, non sentirai verun
male; e se tu avrai un sentimento diverso, sarai un animale diverso,
e non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati gli uni
per gli altri. Ammaestrali dunque, o sopportali. Altro è il moto
della freccia, altro quello della mente. Perchè la mente anche
quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va 1
Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare da essa luce, dandole passaggio nelle
parti più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma al buio
nell' interno. nondimeno per la diritta via verso Io scopo.
61. Entrare nella parte sovrana di ciascheduno, e far sì che
ognuno possa penetrare nella parte sovrana di noi medesimi. Chi fa
ingiuria ad altrui, è reo d’ empietà. Perchè la natura univer- sale
avendo fatto gli animali ragio- nevoli gli uni per gli altri,
affinchè r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il
trasgre- dire le intenzioni di lei, è manife- stamente un peccare
contro la più veneranda fra le Dee. Chi mente, è pur reo di quel
medesimo peccato. Perchè la natura universale è natura degli enti,
e gli enti hanno relazione di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo
il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è
il solo che intendesse bene Oltre che ella è nomata la
verità, ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON
INTENZIONE*, è reo verso di lei, in quanto fa torto ad altrui
ingannando; e chi mente senza intenzione,' in quanto che ad ogni
modo discorda dalla natura universale, e turba V ordine andan- do a
ritroso della natura del mon- do; * perchè va a ritroso di essa non
senza sua colpa anche colui che insciente va a ritroso del vero; sendo
che non per altro che per non aver profittato di quelli indirizzi e
sussidi di cui gli fu prov- vida la natura, non è egli più in grado
di distinguere il vero dal falso. Ancora è reo di empietà chi segue
il piacere come un bene e schifa il dolore come un male. Perchè non
questo luogo, ancora che un po' troppo pla- tonicamente. Vedi la
nota dell' Ornato nel- l'edizione di Torino. Cioè per ignoranza, o a
caso. P. * Che è l'ordine per eccellenza. può essere che costui non
mormori spesso contro la natura comune, quasi ’ ella non abbia riguardo
al merito nelle dispensazioni che va facendo ai buoni ed ai tristi,
veg- gendosi spesso i tristi vivere nei piaceri e nella abbondanza
di tutte le cose che li procurano, quando i buoni cadono nel dolore
e van sog- getti a tutti gli accidenti che ne sono cagione. Oltre
che chi teme il dolore, temerà pure talvolta alcune delle cose che
sono per accadere nel mondo: il che è già da per sè cosa empia;* e
chi va in cerca del piacere non si asterrà dal far torto agli
altri. Del resto, chi viiol seguire la natura, dee consentire colla
natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4. « Di modo che ciascuno che
procacci di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere
desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio » (traduz.
di G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere indifferente rispetto a
tutte quelle cose rispetto alle quali ella si dimostra indifferente
col far che suc- cedano egualmente nel mondo. K • però chi non fa
eguale stima del dolore e del piacere, della morte e della vita,
dell’ infamia e della gloria, delle quali cose fa uso egual- mente la
natura universale, è mani- festamente reo di empietà: dico che la
natura ne fa uso egualmente, vo- lendo significare che sono
accidenti a cui sono deipari sottoposti secondo la legge di
anteriorità e posteriorità,' tutti gli esseri che nascono e si suc-
cedono gli uni agli altri per conseguenza necessaria di.quello impulso
primordiale con cui la previdenza concependo in sè certe ragioni
del futuro,* e determinando virtù gene- ratrici di esistenze, di
cangiamenti 1 Abbiamo seguito l' emenda^siono del Ce- rai. Ragioni
seminali. e di successioni conformi a quelle,' diè principio a questo
ordinamento di cose. 2. Certo meglio era per te
serbarti puro di menzogna e di ogni sorta di finzione e di boria
sino al punto della tua dipartenza dagli nomini. Ora il partire
nauseato di queste cose è, dopo quello, il miglior par- tito che ti
rimanga. 0 hai tu forse deliberato di marcir sempre nel vizio, e r
esperienza stessa non ti persua- de ancora a fuggire dalla peste?
Perchè è peste la corruzione della mente ancor più che lo infettarsi
c corrompersi di quest’ aria che ne circonda. L’ una è peste degli
ani- mali in quanto sono animali; l’altro è peste degli uomini in
quanto sono uomini. 3. Non disprezzare la morte, ma
accettala di buon grado, siccome Conformi a quelle ragioni seminali. quella
che è una delle cose che la natura vuole. Perchè quale è il giun-
gere alla adolescenza, alla vecchiaia, il crescere, il giungere alla
virilità, il mettere i denti e la barba, il ge- nerare figliuoli,
portarli, partorirli, e tutti gli altri effetti che arrecano le
stagioni della vita, tale è ancorji il dissolversi. Appartiensi dunque
ad uomo assennato il non procedere alla cieca colla morte, nè all’
avventata nè con superbia, ma aspettarla come uno dei tanti effetti
naturali: come aspetti l’ora che dall’utero della mo- glie esca il
feto, a quello stesso modo aspetta l' ora in che l’ anima tua
uscirà di codesto suo invoglio. Che se ti è bisogno anche di uno
em- piastro da idiota il quale s’ applichi al cuore,' ti gioverà il
considerare Che se ti è bisogno anche appli- chi al cuore. Le
parole del testo, chi ben le intenda, non sono, a parer mìo, senza
una certa ironia. Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai
a dipartire, e gli umori degli uomini tra i quali l’anima tua non
sarà più impigliata. Non che tu abbia a re- carteli a noia, chè
anzi hai da averne cura e sopportarli con amore; ma potrai
ricordare che non sei per di- partirti da uomini che la pensino
come te. Perchè, se ci avesse cosa con indifferenza la morte, la
ragione specu- lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare
al filosofo, al quale non dovrebbero abbisognare argomenti che ai
indirizzino alla sensibilità, e che Antonino chiama “empiastri da idiota
che s’ applicano al cuore”. Ornato traduce questo luogo come segue: Che
se vuoi inoltre uno espediente da nomo materiale che ti muova
sensibilmente:» notando al margine: c anzi tutto conveniva far
capire il senso, e qui era maggior fedeltà il la- sciare la
lettera. Il primo mezzo, dice An- tonino, era da filosofo: questo secondo
da illetterato: e però quello era speculativo, questo pratico. Ma
vedi se puoi dir meglio, chè sono scontento assai. » Per dir meglio
io ho stimato che fosse da conservare il linguaggio figurato e l'ironia
del testo, non tanto difficile poi a capire anche nella traduzione. che
dovesse affezionarci alla vita, questa sarebbe fuor di dubbio; lo
averla a passare con chi sente e giudica come noi. Chi pecca, pecca
a suo danno: chi commette ingiustizia, fa ingiuria a sè medesimo,
facendo sè malva- gio. 5. È ingiusto soventi volte non
solo chi fa, ma ancora chi non fa. Se il giudizio che tu fai nel
momento presente è vero; se l’azione che tu fai nel momento presente
si riferisce al ben comune; se la disposizione in che sei nel momento
pre- sente è di accettare di buon grado quanto avviene per virtù
della causa esteriore; non ti abbisogna più altro. Togli via
le false immagina- zioni; contieni i moti dell’ animo; spegni i
desiderii troppo accesi; fa’ che la mente sia padrona di sè. Una è
l’anima distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una la
ragione compartita a tutti i ra- gionevoli come una è la terra di
tutte le cose terree, una la luce per cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo
tutti quanti abbiamo vista! e respiro. Tutte le cose che hanno alcun
che di comune fra loro, tendono l’una verso dell’altra. Il terreo
tende verso la terra, V umido s ac- costa all’umido, l’aereo
all’aereo. Il fuoco va in su per cagione del fuoco elementare;
e quaggiù è così pronto ad unirsi con altro fuoco, che ogni materia
un po’ secca s accende di leggieri per lo esservi mescolata dentro
minor quantità di ciò che impedisce l’unione, h sunilmente ciò che
partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene- re, e con
più forza eziandio: perchè quanto ha più eccellenza delle altre
cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha
somigliante natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo
gli animali privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse
amori: sono già anime in essi, e la virtù unitiva, più intensa nel
più perfet- to, vi si manifesta quale non è an- cora nelle piante,
nelle pietre o nei legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi città,
amicizie, famiglie, radunanze pubbliche; e anco nelle guerre patti
e tregue. E appo gli esseri ancora più eccellenti l’unione ha luogo
in certo modo anche fra i disgiunti e lontani, come puoi vedere
negli astri.' Cosi un più alto grado di eccellenza può generare
scambievole corrispon-. Molti degli Dei popolari riferivano gli stoici ai
gran corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle. Gli Dei medesimi
non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo; ma
tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza
negli esseri anche a mal grado della distanza che è tra mezzo. Ma
vedi ora a che siamo: soli i ragio- nevoli sembrano talora aver
posto in oblio la loro qualità che li chiama ad unirsi
reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si
trovi sempre concorso reciproco. Nondimeno con tutto che essi fug-
gano a poter loro, e’ sono da ogni parte arrestati; chè la natura è.
più potente di loro. Tu vedrai manifesto (j nello che io dico, se
tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra
scompa- gnata dalla terra, che non uomo scompagnato dall’
uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il
mon- do: e ogni cosa nella sua stagione porta il suo frutto. Che se
l’uso ap- plica questo modo di dire propria- mente alla vite e alle
altre cose di simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un
frutto c per gli altri e per sè stessa,* e nascono da lei cose che
hanno natura e qualità simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’
che si ricre- da; se non puoi, sovvengati che la benignità ti è
stata data per questo.* Anche gli Dei sono benigni a questi tali; e
in certe cose eziandio li aiu- tano, come a conservare e ricuperare la
sanità, ad acquistare fama e ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il medesimo
puoi fare.tu an- cora; o veramente di’ chi ti impedisce che tu noi
faccia. Lavora non già come un ta- pino nè come chi voglia farsi
com- miscrare o ammirare; ma intendi a ciò solamente: operare e
astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an- che chi erra e non vuole o
non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli
stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi
sono uscito d’ ogni mia noia, 0 per dir più vero, ho cacciato fuori
ogni mia noia, perchè non era fuori di me, ma dentro, nelle mie
opinioni. Sion tutte cose, in quanto al numero delle volte che si
sono ripetute, consuete; in quanto alla durata, transitorie; in quanto
alla materia, sordide. Tutte sono ora quali erano al tempo di
coloro che abbiam sep- pelliti. Le cose stan fuori dell’ uscio,
^ dapersè, nulla sapendo disè, nè giu- dicando. Chi è dunque che
giudica intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi
fuori di noi, e non hanno adito a noi nè potenza di turbarci, se noi
non apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro disuguale al vero.
Ho creduto di dover con- servare l'espressione figurata del testo
greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella razione sta il bene e il male dell’animai
ragionevole e socievole; come non istà nella passione ma nell’
azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in
aria non è punto un male lo andare in giù, nè un bene lo andare in
su. Penetra nell’interno delle menti loro, e vedrai che gente è
quella di cui tu temi il giudizio, e che sorta di giudici sono
anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un passare
incessante da una in altra forma. E tu stesso non perduri un
istante nel medesimo stato, ma ti vai di continuo alterando e come
a dire dissolvendoti. E
l’universo parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non
che verso gli altri; dannando essi la lo(o parte sovrana a servire alla
inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo dov’è. Il finire di una
azione, il cessare di una volontà o di un pensiero e, per così dire, il
morir loro, non è punto un male. Considera ora le diverse età: l’infanzia,
L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede
per dar luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È
egli un male? Passa a considerare la vita che vivesti sotto 1’
avolo, poi quella sotto la madre, e rammenta ancora molte altre
diversità di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces- sazioni; e
interroga te stesso; è egli cotesto un male? Adunque nò anco
il cessare e concludersi della vita, nè il totale mutamento di essa
non è punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non
nuoce che a sè medesimo. Bada alla tua parte sovrana, a quella dell’
universo, a quella di costui. Alla tua, per ridurla giusta ed
imparziale; a quella dell’ uni- verso, per non dimenticare di che
sei parte; a quella di costui, per chiarire s’ egli operò per ignoranza
ovvero con intenzione, e ricor- dati ad un tempo che egli ti è
congiunto. Come tu medesimo sei parte del corpo sociale, così anche
ciascuna delle tue azioni è parte inte- grante della vita di quello.
Adunque se una qualsivoglia di esse non ha per iscopo, o immediato
o mediato, il bene della società, ella turba la vita comune
rompendone l’ unità, ed è sediziosa come è sedizioso chi parteggia
in una città e guasta, per quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni
fanciulleschi, bambo- late, animucce che portano cadaveri, cose che
rappresentano al vivo ciò che narra Omero delle anime degli spenti.
Considera la qualità della causa, e separando quella dalla materia,
fa’ di contemplarla distintamente in sè stessa; di poi vedi anche e
circoscrivi distintamente entro i suoi confini il tempo che, al
sommo, possa cotal cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille
travagli per non aver voluto appagarti unicamente del far quello a
che sei stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia,
o che schiamazzano contro di te, come fanno ora, pensa alle
animucce Farla di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI,
discesa di Ulisse all’Inferno. Intendi: per non aver riposto unica- mente
il tuo bene nel far quello ohe ec.Come schiamazzano ora; relativo a
qualche caso particolare. di questi tali, penetra loro addentro e osserva che
uomini sono. Ve- drai che non ti conviene il dar;(:i briga perchè
essi abbiano di te piut- tosto tale che tale altra opinione. Hai
nondimeno a voler loro bene: chè sono per natura amici tuoi. IC
anche gli Dei non lasciano di giovar loro in ogni modo, per mezzo
di sogni, di oracoli, sebbene in quelle cose soltanto che da
costoro si pregiano. Cotale è il perpetuo giro delle cose mondiali;
all’ insù all’ ingiù, d’ età in età. 0 la mente dell’ uni- verso
determina con atti particolari di volontà ciascuna cosa; e se que-
sto è, tu hai da ricevere con amore il voluto da lei: o ella ha voluto
e determinato una volta per sempre, o tutto pende e procede da
quella determinazione; e allora a che il ri- calcitrare? Egli è, in certo
modo, come se non ci avesse altro che atomi e indivisibili. Al
postutto, o egli v’ ha un Dio intelligente e provvido, e tutto sta bene;
o le cose si governano dal caso; e tu almeno non governare a caso
te stesso. Oramai la terra ci ricoprirà tutti quanti siamo; e poi anche
la terra si trasformerà; e poi si trasformerà quello ancora in che si
sarà trasformata la terra; e quest’ altro ancora di nuovo, air
infinito. Davvero chi ripensa a un cotale incalzarsi di mutamenti e
di moti e alla rapidità con che si suc- cedono, non può essere che al
tutto non disprezzi ogni cosa mortale. La causa universale è un
tor- rente che trae seco ogni cosa. E que- sti omicciuoli che al
parer loro ma- neggiano secondo filosofia gli affari «li Stato,
come son piccioli! Veri bimbi in culla.* 0 uomo, attendi a Letteralmento:
« pieni,di moccio, moc- ciosi, » cioè « bimbi col moccio al naso.
far quello, che che sia, che la natura richiede da te nel momento presente,
e non andar guardando attorno se altri il saprà. Non isperare la repubblica
di Platone, e sii contento ad ogni po’ di progresso che tu vegga;
pensando che anche il ridurre questo ad- effetto non è pic- cola cosa.
Perchè le opinioni degli uomini chi può mutarle? E senza correggere
le opinioni, che puoi tu avere se non ischiavi che gemono e
s’infingono di obbedire? Or va’, non istar più ad allegarmi
Alessandro, Filippo, Demetrio Falereo. Buon per loro, se conobbero
che cosa vuol la natura comune, e seppero raffrenare e governar sè
medesimi. Che se operarono solo per parere,' nissuno ha moT'oeuXy
direbbero i Francesi. Dal novero di questi bimbi non pare che Antonino intendesse
escludere sè medesimo. Fare il bene per amor del bene piutto- sto che
della lode, voler essere piuttosto che parere ottimo, è il tratto più
essenziale condannato me ad imitarli. Semplice e modesta è l’opera
della filosofia. Non indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come
da un’ alta vetta, mandre infinite d’uomini, usi di religione
innumerevoli, e un na- vigar da ogni banda, in tempesta, in
bonaccia, e diversità di nascenti, di conviventi, di morenti; pensa
an- cora alla vita che si vivea per lo addietro, e a quella che si
vivrà dopo te, e a quella che tra le nazioni barbare si vive ora, e
quanti v’ ha che di te ignorano anche il nome, dì un gran
carattere morale, dipinto da Eschilo con tre versi sublimi nei Sette
a Tebe parlando di Amfiarao, in parte fran- tesi dal Belletti; e la
cui traduzione let- terale, per quanto è possibile, sarebbe: « non
sembrare, ma essere ottimo ei vuole, fa- cendo fruttificare il fertile
terreno della sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [
Bellissimo e nobilissimo paragrafo ! quanti insegnamenti, e per quanti,
si compendiano in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo in breve, e
quanti che ti lodano forse ora, e ti biasimeranno tantosto: e come
non è da fare stima nè della ricordanza, nè della gloria, nè di ve-
runa cosa quaggiù. Imperturbabilità rispetto alle cose che
procedono dalle cause este- riori; rettitudine nelle cose di che tu
stesso sei causa: vale a dire, determinazioni ed azioni non aventi altro
fine che sè medesime, cioè d’o- perare socievolmente, siccome cosa
che è secondo la tua natura. Fra le cose che ti molestano, molte le
quali hanno sede nella tua opinione, tu puoi sgombrare da te, o
darai cosi campo ed agio a te stesso. Fa’ di abbracciar colla mente
l’uni- verso mondo, e concepir nel pensie- ro r eternità dei
secoli, e considera la rapida trasformazione di ciascuna cosa
particolare, e quanto è breve l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione,
e infinito il tempo che precedet- te la nascita, e infinito del pari
quello che terrà dietro alla dissoluzione. Tutte le cose che tu
vedi si tlissolverannò tra breve, e coloro che le vedranno
dissolversi, si dissolveranno tra breve anch’essi. E chi morrà d'estrema
vecchiezza, si tro- verà ad un medesimo ragguaglio con chi mori
anzi tempo. Che menti son quelle di costoro ! e per che motivi amano
e onorano altrui! abbi in uso diveder nude le loro animucce. Quando
si credono nuocere biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita
di che che sia non è altro che una trasformazione. Edi ' questo si
compiace la natura dell’universo, conforme alla quale tutto
[Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè la lode e il biasimo di chi che
sia noii aggiunge e non toglie nulla al valor vero degli uomini o
dello cose. si fa bene. Per secoli innumerevoli le cose si sono fatte a
questo modo, e continueranno a farsi' a questo modo per altri
secoli innumerevoli. Che dirai dunque? Che sempre sensi fatte male,
e che continueranno a farsi male per l’avvenire? Or nissuno dunque s’ è
mai trovato fra cotanti Iddìi, il quale avesse potestà di correggere tutto
questo? E il mondo è egli condannato a mali che non avranno mai fine? Vedi
il marcio della materia che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini,
sudiciume. Il marmo, callosità della terra; l’oro e r argento,
capomorto di quella; la veste, peli; la porpora, sangue: cosi di
tutto il rimanente. E la materia organica vivente, altrettale: di La
conclusione è che le perdite, i mu- tamenti, e tante coso allo quali il^
volgo dà il nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti
si com- pone, e in quelli si risolve. Abbastanza hai tapinato, abbastanza
hai mormorato, abbastanza hai fatto la scimmia. Che ti turba? Che
t’interviene di nuovo? Che è ciò che ti trae dal senno? La causa?
vedila. La materia? vedi la materia. Da queste cose in fuori non v’
ha nulla. Ma anche fa’ di essere più pio verso gli Dei e più
semplice. Lo stare a veder queste cose tre o cento anni è
tutt’uno. Se egli ha peccato, in lui sta il male. Ma forse non ha
peccato. 0 da una sola fonte intelligen- te, come in corpo organato procedono
tutte le cose; e se ciò è, non appartiensi alla parte il querelarsi
di ciò che fassi ad utilità comune del tutto; o sono gli atomi. E
tutto che esiste, accozzamento del caso, vien dissipato dal caso. A
che dunque ti turbi? Di’ alla parte sovrana: sei tu morta? sei tu
fradicia? sei tu altra cosa che te? sei tu imbestiata? sei tu giumento?
sei tu pecora? gli Dei non possono far
nul- la, o possono. Se non possono; a che li preghi? Ma se possono,
che non li preghi piuttosto perchè ti concedano di non temere nè
desidarare alcuna di queste cose, nè di rattristarti per esse, anzi che
pre- garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad ogni modo, se e’
pos- sono aiutare gli uomini, debbono poterli aiutare anche in
questo. Dirai forse: cotesto gli Dei hanno posto in mia facoltà. 0, non è
dunque meglio valerti con altezza d’ animo indipendente di ciò che
sta in poter tuo, anzi c he affannarti abbiettamente e servilmente per
ciò che non dipende da te? E poi chi ti ha detto che gli Dei non ci
aiutino anche nelle cose che stanno in poter no- stro? provati di
pregarli, e vedrai. Altri prega: fa’ che io possa giacere con
colei. E tu prega: fa’ che io non desideri di giacere con colei. Altri:
fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non abbia bisogno li
liberarmi dal tale. Altri ancora: fa’ che io non perda il figliuolo.
E tu: fa’ che io non tema di perderlo. In somma raddrizza cosi le
tue pre- ghiere, e sta’ a vedere che ne segue. 4L Dice
Epicuro: « Ammalato, io non facea mai parola delle affezioni del
mio corpicciuolo nè d’altre co- tali cose, quali sogliono essere
quelle di che amano gli infermi inti’atte- nersi con coloro che li
vengono a visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare intorno ai punti
principali della filosofia naturale, soprasUmdo ad
investigare e dimostrare ciò ap- punto: come possa V anima, ancora
che partecipe dei moti del corpo, serbarsi nondimeno imperturbata,
e conservare in sè quel bene che è proprio di lei: nè dava,
aggiunge egli, materia ai medici d’insupei- bire, come se facessero
gran che: chè la mia vita, anche in quello stato, non era senza
calma e giocon- dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia, ponghiamo
caso, che tu ammali, o t’ intervenga qualsivoglia altra mo- lestia:
perchè"' il dover serbar fede alla filosofia in ogni
congiuntura qualsiasi, e non delirare con lo stolto e con l’ignaro,
è precetto comune a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò che tu
fai nel momento presente, e all’ istro- rnento con che il fai. Quando
ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto te n'iedesimo:
ò egli possibile che non ci abbia impudenti nel mondo? Non è. Non
voler dunque l’impos- sibile: questo è uno di quelli impu- denti
che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e del furbo e
del disleale, e di qualunque altro vizioso che pecchi in qualsi-
voglia modo. Perchè ricordandoti essere impossibile che tal sorta
di gente non sia, tu ti farai più mite verso ciascuno. Giova ancora
il pen- sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo
peccato'? Ha dato, per modo di eseni- [Intendi: tosto che ci
sentiamo offesi por tale 0 tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi:
contro al sentirsi offeso da questo peccato del vicino. Perchè colle
stesse parole in altro luogo potrebbesi anche si- gnificare: qual
virtù diede all'uomo la na- tura.per combattere in sè medesimo
questo peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la
mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio, altre virtù. Ad ogni modo
tu puoi far prova di ravviare quel traviato; perchè chi fallisce,
fallisce Io scopo a cui mirava, ed è quindi traviato.' E ancora tu
hai a pensare qual danno te ne viene: eli è troverai nissuno di
costoro, contro ai quali ti adiri, aver fatto cosa per cui la mente
tua sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo male, ogni tuo danno,
ben sai, non poter essere altrove che in quella. E poi che male ci
ha, o che v’ ha egli di strano se l’indotto fa cose da indotto?-
Vedi piuttosto che tu non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai
aspettato da colui tal sorta di fallo. Perchè a te la ragione
porgeva argomenti a pre- vedere che costui fallirebbe probabilmente in
quella guisa; ’ e tu non badasti, ed ora ti vai maravigliando eh’
egli abbia fallito. Massimamente (juando parratti aver rimproveri a
fare a un disleale, a un ingrato, fa’ che tu rivolga contro te
medesimo r accusa: sendo manifestamente tuo r errore se hai creduto
che un uomo in cotale disposizione d’animo fosse ' per mantenere la
fede; o,se facendo tu del bene ad altrui, non l’hai fatto senza un
rispetto al mondo ad altra cosa che al bene che volevi fare, nè con
r intento di avere a raccogliere immediatamente e unicamente dal
fatto stesso dello aver compiuta una buona azione, tutto ed intero il
frutto di essa. Nel vero quando tu hai beneficato un uomo, che vuoi
tu an- cora di più?^ Non ti basta aver fatto II saggio, diceano gli
stoici, avrà amici, ma li amerà per utile loro, e non di sè stesso. un’azione
che è conforme alla tua natura, e vuoi inoltre ima mercede, come se
gli occhi avessero ad esser pagati perchè vedono, e i piedi perchè
camminano? Perchè siccome queste membra furono così confor- mate
affinchè avessero a fare cotali uffici, e quando hanno fatto i servigi a
che furono ordinate, hanno ricevuto tutto ciò che è dovuto loro;
cosi l’uomo, per 'natura benefico, quando ha operato alcun che di
bene, o semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto
quello a che è stato ordinato ed ha ricevuto tutto quello che gli è
dovuto. E quando mai, o anima, sarai tu buona, o schietta, ed una, e
ignuda, e più appariscente ' del corpo che ti (àrconda? Quando gusterai
tu di quello stato che è tutto dilezione ed amore? Quando sarai tu
fornita di tutto punto, non mancante di nulla, non agognando nè
desiderando nissuna cosa, sia animata o sia ina- nimata, per
pigliarne diletto? nè tempo perchè il diletto più duri? nè ' luogo
od opportunità di paese o di clima, nè conformità d’uomini che ti
vadano a genio? ma sarai paga [Intendi visibile, chè questo senso
ha pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo
piacer tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu
hai tutto e che tutto va bene, e che tutto li viene dagli Dei e
tutto andrà bene, checché piaccia ad essi d’ inviarti per la salute
di quello animale per- fetto e buono e giusto e bello, il quale
genera tutte le cose, e tutte le contiene ed abbraccia e riceve al-
lorché si dissolvono per la riprodu- zione di altre simiglianti?
Quando mai sarai tale che, vivendo in una società con gli' Dei e
con gli uomi- ni, non ti accada mai né di dolerti di loro, né di essere
condannato da loro? Vedi quello che richiede la tua natura in
quanto sei governato dalla sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni
volta che non sia per patirne danno la tua natura d’animale; Di poi os- Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva
quel che richiede la tua na- tura d’ animale, e questo ancora ri-
duci ad atto ogni volta che non sia per patirne danno la tua natura
razionale. Ma il razionale importa, qual conseguenza immediata, il
so- cievole. Metti in pratica queste re- gole, e non darti pensiero
più d’altro. Checché ti accada, è o non è comportabile alla tua
natura. Se è, non hai motivo di crucciartene, ma Adunque Antonino,
come già gli stoici antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente
Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,
tre diversi gradi simultanei di vita distin- gueva nell' uomo: la vita
plastica o vegeta- tiva, la vita animale, e la vita razionale.
Quanto al principio unico, o moltiplico di queste tre vite, le idee degli
stoici erano confuse. E Antonino errava lungi dal vero quando diceva,
parlando della vita plastica o vegetativa, questa essere « governata
dalla sola natura, » se con ciò intendea che a produrne, o a
spiegarne tutti i fenomeni bastassero quelle leg^ che i moderni
chia- mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace,
essendo tu nato a ciò. Se non è, ancora non crucciartene; perchè
verrà meno come prima ti avrà consunto. Ma sovvengati che sei tale
per natura da poter tollerare tutto ciò che sta in potere della tua
mente di rendere tollerabile col persuaderti che ti giovi 0 sia
dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol- mente, e
mostragli in che ha falla- to. Se noi puoi, incolpane te stesso, o
veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era
da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale delle cause * avea
connesso insieme quello accidente colla tua esistenza. 6.
Atomi, o nature, quale che fosse dei due, io pongo per fermo in
primo luogo che io sono parte di ^ Concatenazione delle cause, o
serie delle cause è appo gli stoici la definizione stessa del fato.
un tutto governato da una natura; e- in secondo luogo che io ho
rela- zione di affinità con tutte le parti a ine congeneri. Avendo
ferme nel- r animo queste due cose, in quanto io sono parte, non
avrò a grave nulla di ciò che mi viene compartito dal tutto, non
essendo nocevole alla parte quello che al tutto è giovevo- le; nè
potendo il tutto aver nulla in sè che non conferisca al bene di lui;
primieramente perchè questa è proprietà generale di tutte le na-
ture, e poi perchè la natura del- r universo ha questo ancora di
più, che non è càusa alcuna esteriore da cui possa essere
necessitata a pro- durre mai cosa la quale sia per nuo- cerle.
Ricordandomi adunque che io sono parte di un tutto cotale, avrò
caro ogni cosa che avvenga. E in quanto ho relazione di affinità
colle parti a me congeneri, attenderò a non far nulla mai che non
si riferisca a quelle; ma anzi mirando sem- pre a» miei simili, rivolgerò
tutte le mie forze a procacciare il ben co- mune, e mi asterrò da
tutto che possa ridondare in altrui danno. E così governandomi' non
può essere che la vita non abbia un corso fe- lice; come felice
stimeresti il corso della vita del cittadino il quale pro- cedesse
d’ una in altra opera giove- vole ai suoi compagni di patria, e
avesse caro tutto quello che fosse voluto dal comune. Alle parti del
tutto, quante per natura contengonsi nell’ universo, è necessità il
corrompersi: questo sia •detto per significare lo alterarsi di
esse. Il quale alterarsi se fosse per natura un male, come è una
neces- sità, poco felici sarebbero le condi- zioni del tutto, le
parti di lui es- sendo, come a dire, avute in odio da chi governa,
e da lui fatte tali da doversi chi in uno, chi in altro modo
corrompere. Dove converrebbe dire o che la natura avesse' voluto
nuocere ella stessa alle proprie sue parti (20), sottoponendole al male,
e facendole tali che dovessero neces- sariamente incappare ' nel
male, o che ciò sia avvenuto senza che sia stato voluto nè
avvertito da lei. Delle quali cose nè V una nè 1’ altra ò da
credere. Che se taluno, messa da canto la natura, presumesse espli-
care il nodo affermando le cose essere nate a ciò, non sarà punto
meno strano il dire essere le parti del tutto nate ai mutamenti, e
ad un tempo il maravigliarsi e dolersi quan- do questi mutamenti si
compiono: massimamente quando noi veggiamo che esse risolvonsi
sempre in quei medesimi elementi di che è compo- sta ciascuna. Avvegnaché
la corru- zione o dissoluzione delle cose altro non possa essere e
non sia in ef- fetto che una disgregazione e dispersione di quegli
elementi, del cui ag- gregato esse si compongono, o vogliam dire un
ritorno al terreo di I ciò che v’ ha in esse di solido, e al- r
aereo di ciò che v’ha in esse di vitale,' di modo che la ragione
se- minale dell’universo riprenda di nuo- vo in sè questi elementi,
perchè al- r ultimo sieho consunti dal fuoco, se r universo è
sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con per- petua vicenda
al continuo rinnovel- lamento di lui, se egli dura eterno ed
incorrotto.* E questo solido e que- sto vitale non darti già a
credere I che sia quello che tu avesti dalla madre nascendo: perchè
ieri, e ier r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda siccome
appo gli stoici la vita consiste nella respirazione, e quindi T es-
senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi: Ze- none,
Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone da Tarso, Boeto,
Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata. Questo adunque
che ti si è assrefiato ora si trasforma, e non oo o
più. quello che partoriva la madre. Fa’ che tu vi sottoponga col
pensiero quel che ti lega sì strettamente a ([ueste tali e tali
altre cose, le quali sono un nulla, cred’ io, jrispetto a quello di
che io ragiono Avendo tu imposto a te mede- simo questi nomi di buono, di
mc- ciosto, di veritiero, di assennato, di, consenziente, di
magnanimo, fa’ che non abbiansi a mutare nei loro con- trari; e ove
mai ti accadesse di per- dere quelli, fa’ che tu non tardi a ri-
cuperarli. E ricordati che con la pa- rola assennata, tu volevi
significare r attenzione discernitiva a ciascuna cosa presente, e
il non pensare ad altro in quel mentre. Con la parola consenziente,
l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito dalla natura
comune; e con la parola ma(filammo, la elevazione dello spirito al di
sopra di ogni moto soave o insoave della carne, e al di sopra I
della gloriuzza, della morte c di si- mili cose. Se adunque tu ti
assicu- rerai il possesso di quei nomi senza bramare che ti vengano
dati da al- trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai in ima vita
nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale sei stato
infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e I Je
angosce di una vita cotale, troppo è da uomo stupido e codardo,
simile a quei bestiari ' mezzo rosi dalle fiere, i quali pieni di
ferite e con- taminati di sangue e di loto, pre- gano pure di essere
conservati infine al domani, ancora che.consapevoli di dover essere
di nuovo esposti, conci in quel modo, alle medesi- Cosi chiamavano
i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte- vano contro
le fiere. me unghie e ai medesimi denti. Gittati adunque con animo
delibe- rato in su quei pochi nomi, e se puoi tenertivi saldo ed
eretto, tien- tivi, non altrimenti che se tu fossi venuto ad
abitare in qualche isola fortunata; se ti accorgi che tu vi
tentenni, e non possa vincere la prova, vattene animoso in qualche
cantuccio ove tu sia certo di vincer- la; od anche esci al tutto di
vita, senza adirarti, ma semplicemente, liberamente, modestamente
contento di aver fatto pure una cosa nella vita: Tesserne uscito in
cotal modo.* E al farti ricordare di quei nomi gio- verà non poco
il ricordarti degli Dei, i quali non vogliono essere adulati; * ma
bensì che tutti gli esseri ragio- nevoli facciano di assomigliarsi
a Epitteto, Manuale. La pietà verso gli Dei consiste massimanientG
in avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del
Leopardi). loro, e che il fico faccia le
cose che s’appartengono al fico, il cane quelle che si appartengono
al cane, e Tuomo quelle che s’appartengono all’ uomo. Il teatro, la
guerra, lo sbigot- timento, la torpidezza, la servilità andranno in
te cancellando di giorno in giorno quelle sante massime, le quali
tu apprendi bensì colla imma- ginativa e confidi alla memoria, ma
senza dar loro fondamento nè fer- marle colla considerazione del tuttto
022). Egli ti bisogna vedere le cose e fare in modo che e il
particolare che è intorno a te, sia bene osser- vato, e la
relazione di quello al tutto sia contemplata, e quella compia-
cenza di sè medesimo che nasce dalla scienza di ciascuna cosa si
con- servi nell’ interno tuo, segreta, ma non celata. Altrimenti
quando godrai i frutti della semplicità? quando quelli della
gravità e sodezza? quan- do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale
ella è per essenza, che posto occupa nel mondo, quanto tempo è per
sussistere, di che è composta, in quali obbietti si può trovare, e
chi sono coloro che possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha
preso una mosca; altri, se un lepratto; altri, se un’ acciuga;
altri, se un cinghiale o un orso; altri, se fece prigioni alcuni
Sarmati. Non sono dunque assassini costoro se tu consideri i principii
che li movono? Fa’ che tu impari il modo ac- concio di contemplare
come tutte le cose si mutano le ime nelle altre, e attendi senza
ristare a questa parte della filosofìa, e vienti esercitando in
essa. Perchè nuli’ altro è che tanto innalzi 1’ animo. Chi è
assiduo in questa contemplazione si spoglia, sto quasi per dire,
del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli converrà lasciare
tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at- tende più ad
altro che a conformarsi alla. giustizia e alla natura dell’ uni-
verso in tutto che egli fa o patisce. Che dirà un tale, che opinione
avrà di lui 0 che farà contro di lui uìi tal altro, egli non se ne
dà un pen- siero al mondo, pago e contento di queste sole due cose;
se egli fa con giustizia ciò che egli fa nel mo- mento presente, e
s’ egli ha caro qualsiasi cosa presentemente gli ac- cada. Tutte le
altre cure e negozi lascia andare, e d’ altro non gli calo che di
camminare perla diritUivia, tenendo dietro a chi sempre cam- mina
per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu puoi
ricercare che cosa è da fare nella congiuntura presente? Che se tu
il vedi, mettiti a ciò, e va’ in- nanzi alacremente per quella via,
senza guardarti dietro; se noi vedi, sospendi il giud^io, e aiutati
del consiglio degli ottimi. Se insorgono ostacoli al compiere quello
che hai deliberato, governati razionalmente secondo la nuova
occasione che si presenta,* attenendoti sempre a quel- lo che ti
par giusto. Perchè questa è r ottima cosa da conseguire, sendo che
lo scostarsi dalla giustizia è un decadere dalla natura umana. Egli
è un certo che di lento e posato e insieme di mobile ed alacre, di
ilare e sereno e insieme di serio e grave, colui che segue la
ragione in ogni cosa. Appena riscosso dal sonno chiedi a te
medesimo se ti impor- terà che da altri anzi che da te si faccia
quello che sta bene ed è giusto. Non te ne importerà: o avre- sti
tu dimenticato quali sono costoro che superbiscono nel farsi
dispensa- M t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti
di Ini come di nuova materia ad azione. tori della lode e del biasimo,
quali nel letto, quali a mensa; e quali cose facciano e quali
fuggano, a quali intendano, e quali rubino e quali rapiscano ' non
colle mani o coi pie- di: ma colla parte più nobile di loro, la
quale può diventare, solo ch’ella il voglia, fede, verecondia,
verità, legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie tutte le
cose, 1’ uomo bene instituito e modesto dice: « Da’ quello che
vuoi, togli quello che vuoi, o natura. E questo dice non già con baldanza
orgogliosa, ma con intimo senso di alfettuosa obbedienza verso di
lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so- vrana deir anima
talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste
parole di Marcaurelio corri- spondono perfettamente a quelle di
Giobbe: Dominui dedita Dominus abstulit, osserva qui bouissimo il
Pierron. Poco^ è questo che ti rimane a vivere. Vivi dunque come in
sulla montagna. Perchè a qui, o colà, nulla monta, se, dove che tu
sii, tu vivi sempre nel mondo come in una città. E veggano e
conoscano pure* gli uomini un uomo davvero, il quale vive secondo
natura. Se noi possono tollerare, uccidanlo. Meglio questo che
vivere com’ essi fanno.* 1(». Non è più tempo di far parola
intorno a ciò che deve essere Tiiomo dabbene, ma di incominciare ad
esserlo. Il pensiero del tempo universo e della materia universa ti
sia del continuo presente, e che tutte le cose particolari sono,
rispetto a que- sta, un granello di miglio, e rispetto a quello, un
batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli obbietti che offronsi alla
tua osser- Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di
rappresentartelo come già in atto di dissolversi e trasfor- marsi;
d’ infradiciare, per esempio, o dileguarsi in fumo, o altro,
secondo il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano,
quan- do dormono, quando usano con fem- mina, quando sono al cesso,
o fanno altre cose tali. Vedili poi (piando stanno in sussiego o
fan cipiglio, quando van tronfi e pettoruti, o s'adi- rano, rabbuffano
altrui con alterigia. E poco innanzi servivano pure come schiavi a
tante cose, e per quali motivi ! E poco dopo ritorneranno a quelle
medesime cose. Giova a ciascuno ciò che ar- reca a ciascuno la
natura comune. Ed allora giova, quando essa lo arreca. La
terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far
quello che è per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non
dicesi egli parimenti che una tal cosa ama accadere? 0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo; 0 vai
fuori, e questo tu desi- deravi; 0 muori, ed hai finito il tuo
compito. Fuori di questi tre casi non v’ ha altro. Adunque stattene di
buona voglia. Abbiti sempre per certo che quel tuo vivere in
villa non è punto diverso da questo, e che tutte son qui le cose
come in sulla cima del monte, o sulla spiaggia del mare, o dove che
tu voglia. Perchè ti si pa- rerà davanti a bella prima il detto di
Platone: « Egli sta nella reggia come in una capanna sul monte, mugnendo
l’armento. Che è in questo istante la mia parte sovrana? e quale la fo io?
A che Tadop ro io? Non è ella per av- 8Ìde«nd^‘°R sognando o
deventura vuota di ragione? Non è ella separata, divelta dalla
comunità? Non è ella cosi congiunta, conglu- tinata col corpo, da
doverne seguire tutti i moti?* 25. Chi fugge dal suo signore,
è servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge,
è dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o
non vorrebbe che fosse accaduta o acca- desse 0 fosse per accadere
alcuna qualsivoglia di quelle cose che ha ordinato il reggitore di
ogni cosa, cioè la legge distributrice di quello che tocca a ciascheduno.
Adunque Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che Platone avea già.detto
nel Fedone: «Cia- scun piacere e ciascun dolore, non altri- menti
che un chiodo confìgge l'anima al corpo e con esso la unifica per modo
che ella, accetta per vero tutto che è affermato dal corpo. La
legge di cui qui parla Antonino è la legge universale, quella della
natura, di Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è nn servo
fuggitivo. 2(ì. Chi introdusse il seme nella matrice, se ne
va; un’ altra causa sottentra immantinente, e lavora e conduce a
termine il feto. Qual cosa e da quale? Ancora, egli manda giù il
cibo per la gola: e tosto un’ altra causa sottentrando produce
senso, moto, vita, vigore, eccetera. Quante e quali cose? Queste
maraviglie, che si compiono sotto un velo si impe- netrabile,
sianti spesso subbietto di contemplazione, e sappi fare concetto
della potenza operatrice di ({uelle, come facciamo della causa che
fa gravitare i corpi o li spinge in al- to, la quale non vediamo cogli
occhi, ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte
queste cose, che ora si fanno, si sono fatte prima d’ ora: e pensa* che
si faranno per l’avvenire. Pònti da- vanti agli occhi quanti drammi
o scene vedesti tu stesso, o leggesti nelle antiche storie: come,
verbi- grazia, tutta intera la Corte di Adrian no, tutta intera
quella di Antonino, tutta intera quella di Filippo, di Alessandro,
di Creso: perchè erano tutte la stessa cosa che adesso, solamente erano
diversi gli attori. Fa’ ragione che colui il quale si attrista d’
alcuna cosa, o l’ ha a male, non è punto dissomigliante dal
porcellino percosso dal ferro del sagrifìcatore, il quale ricalcitra
e grida. Non altro concetto hai da farti di chi lamenta solitario
sul suo lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo
animale ragionevole è dato seguire volontario gli eventi: che in quanto
al se- guirli ad ogni modo, è forza di ne- cessità per tutti.
1 Lettuccio è qui come chi dicesse il canapè su cui l’uomo lavora e
studia. Cosi, bene il Casaubono. Considera segregatamente in sè
stessa ciascuna delle cose che vai facendo, e interroga te medesimo
se la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando
per l’ altrui fallo ti senti montare la collera, rivolgiti tosto
sopra te stesso ed esamina in qual cosa simile a quella tu pecchi:
stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere, o la
gloria; secondo il genere del- l’altrui peccato che ti sprona all’ira.
Perchè se tu badi a ciò, presto cesserà la tua collera. E ancora
con- sidererai che colui è forzato.* E in vero che farebbe egli?
Ovvero, se tu il puoi, rimovi da lui ciò che lo sforza. Cioè a
dire, rimovi dalla sua mente l’errore, il falso giudizio; perchè gli
stoici deriTavano interamente il bene morale dal giudizio
razionale, e riferivano quindi uni- camente alla luce della ragione le
risoln- [Veggendo Satirione, immagina di vedere Socratico o
Imene: veggendo Eufrate, immagina Eutichione 0 Silvano: quando vedi Alcifrone,
immagina Tropeoforo. Qquando vedi Senofonte, immagina Oritene o Severo; e
in te stesso figurati di ve- dere qualcheduno dei Cesari; e così
via via. Poi ti occorra alla mente: ora dove sono costoro? In
nissun luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a
consi- derare le cose umane come un fumo ed un nulla: massimamente
se ti rammenterai come ciò che fu mu- tato una volta, non
riprenderà mai più quella forma in tutto il tempo infinito. E tu in
qual tempo? Che non ti basta adunque il passare co- zioni
virtuose della volontà: secondo essi il giudizio determina la volontà
necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano mai più, ti credi
tu di averci a ritornare tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti
è dato? Da qual materia d’ azione, da quale impresa rifuggi? Tutte
queste cose che ti accadono, sono esse altro che occasioni di
esercizio alla ra- gione, la quale abbia diligentemen- te, e come
si addice allo studioso della natura, considerate le cose che
avvengono nella vita? Rimanti adun- que finché tu abbia assimilato a
te medesimo ancor questo,' come il valente stomaco assimila a sè
tutti i cibi, come lo splendido fuoco fa fiamma e luce di tutto che
tu getti in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non
sei sempli- ce e schietto, che non sei uomo dabbene: ma menta
chiunque fac- cia di te un tal giudizio. E tutto ciò sta in poter
tuo. Perchè chi è [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma- teria di
azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che tu non
sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo di non voler
più vivere quando tu non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è
ciò che in questa occa- sione che mi è data si può fare o dire per
lo meglio? Checché egli sia, è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.
Non iscusarti col dire che ne sei im- pedito. Non prima cesserai dai lamenti
che non sii fatto tale, che r operare conforme air istituzione tua
in (jualsivoglia caso non sia per te la stessa cosa che è pel sen-
suale la voluttà. Perocché ciò ap- punto vuoisi dall’ uomo avere in
conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia
caso.» Chi preferisse la frase stoica dica: « in questa materia — in
qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato. A me parve troppo
alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria
natura. E questo può egli in ogni caso. Al cilindro in tutti i casi
non è dato potersi muovere in quella forma di moto che gli è propria,
nè all’acqua, nè al fuoco, nè a nissuna delle cose che sono
governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale: molti sono gli
impedimenti che loro si frappongono, molte le resistenze. Ma la
mente, la ragione può seguire, solo che il voglia, la sua propria
via vincendo tutti gli ostacoli. Questo potere e agevolezza che ha
la ragione di seguire la sua via in tutte le direzioni, all’alto, al
basso, per 10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro,
pònti davanti agli occhi, e non cercare più oltre. Tutti gli
ostacoli che tu puoi incontrare non hanno relazione se non se al
corpo che è cosa morta; o veramente, se non sottentra l’ opinione,
e se la mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno.
Altrimenti chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa- tire
deterioramento, come veggiamo di tutte le altre produzioni sia
della natura sia dell’ arte; le quali tutte trovansi deteriorate
ove incolga loro alcun male; ma, qui al contrario, r uomo, se ho a
dirlo, si fa migliore e più degno d’ encomio, quando fa retto uso
degli accidenti, quali essi sieno, che gli incontrano. In som- ma
ricordati che non offende il ve- ro cittadino ciò che non offende
la città; che non offende la città ciò che non offende la legge; e
che nissuna di tutte queste così dette avversità offende la legge.
E se non offende la legge, non of- fende adunque nè la città nè il
citadino. A colui che fu ben penetrato dalle vere credenze, basta
il più breve detto, anche di quelli che sono a tutti i più noti, a
sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per esempio. Quali sono
le foglie, e tali sono Le schiatte degli umani. Quelle il vento A
terra sparge, ed altre ne produce La germogliante selva a
primavera. Cosi le schiatte degli umani: questa Or nasce, or quella
muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti costoro che ti
acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che dicano il vero;
foglie questi altri che altamente ti maledicono, o ti vilipen- dono
e lacerano in segreto. Foglie sono ancora quelli che ricorderanno
il tuo nome dopo la tua morte. Tutte queste cose spuntano fuori alla
verde stagione, poi fi vento le sparge a terra, e(i altre in loro
vece ne ri- produce' la germofjliante selva. Il durar poco è comune
a tutte. Ma tu le fuggi 0 le cerchi come se aves- sero a durar
sempre. Ancora un poco e chiuderai gli occhi; e a quello che ti
comporrà sul rogo, altri farà il corrotto. 35. L’ occhio sano
deve essere dis- posto a vedere tutto ciò che è vi- sibile, e non
dire: io voglio vedere solamente il verde; perchè ciò è da occhio
ammalato. L’ orecchio sano e r odorato debbono essere disposti a
udire tutti i suoni e a sentire tutti gli odori. E lo stomaco sano
deve essere preparato a digerire tutti i cibi, non altrimenti che
la macina è pronta a macinare tutto quello che ella fu fatta per
macinare. E così pure la mente sana deve essere pronta ad accettare
tutto quello che accade. Colui il quale dice: « sieno salvi i
figliuoli » e « tutti lodino le mie azioni » è come 1’ occhio che
vuol vedere solamente il verde, o come i denti che vogliono
masticare sol cose tenere. 36. Nissuno è tanto
avventurato che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si
rallegrerà del male che gli incontra. Savio e dab- ben uomo sia
stato; non mancherà all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una
volta da questo pedagogo. A nissuno di noi diede noia con rampogne,
è vero; ma ci siam pure avveduti che in cuor suo ci condannava. »
Questo si dirà del- r uom savio. E di noi, quante altre cose
possono fare a molti desiderare che ce ne andiamo! A questo pen-
serai quando sarai per morire, e la tua partenza ti verrà fatta più
facile. Ragionerai teco stesso: me ne vo da questa vita, dalla
quale questi miei concittadini, pei quali ho in essa tanti travagli
sostenuto, tante preghiere fatto, tante cure avuto, vogliono ora
essi medesimi. eh’ io me ne vada, sperando forse che debba seguirne
loro qualche profitto. Chi dunqu e potrebbe desiderare d’avere
a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo
verso di quelli, ma, serbando inai- terato il costume e 1’ indole
tua, amico loro tuttavia qual fosti, pro- pizio e amorevole a
tutti, e non però mesto nè ripugnante. Ma co- me veggiamo in chi
muore di fa- cile morte V anima soavemente scio- gliersi dal corpo,
cosi conviene che si faccia la tua separazione da co- loro. Perchè
la natura ti avea pure congiunto e complicato con essi. Ora me ne
disgiunge? Ed io mi lascio disgiungere come da amici e carissimi
congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo e di mio buon
grado. Perchè anche questa è una delle cose volute dalla
natura. A ciascuna cosa che tu vegga fare a chicchessia, vienti
avvezzando, per quanto è possibile, a ricercare, ragionando teco
medesimo: costui a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da
te, esami- nando te stesso il primo. 38. Ricordati che chi dà
V impulso e muove, per cosi dire, le fila del fantoccino, è il
celato nel di dentro. Quello è il dicitore che persuade, t|uello è
la vita, quello è, se vogliam dire il vero, V uomo propriamente.
Guardati dal figurartelo come una sola cosa con esso il vaso le cui
pa- reti lo circondano, o con questi in- gegni che songli cresciuti
intorno.* Questi somigliano alla scure; se non che gli sono per natura
aderenti. Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad
in- tendere ordigni, cioè gli organi e le mem- bra del corpo. Gli
Inglesi e i Francesi presero dai classici Italiani questa parola
ingegno con questo senso, e dicono quelli engine e questi engin; come ne
presero tante altre bellissime o utilissime dello quali si servono
quotidianamente; e di tali ancora che noi abbiamo interamente
dimen- ticato: e per significar poi quelle cose di cui abbiamo
dimenticato i nomi italiani, an- diamo ad accattar vocaboli dai
forestieri, E in effetto, allontanata la causa che li muove, non è uso
alcuno di essi pili che non sia della spola, senza la mano, al
tesserandolo, nè della penna allo scrittore, nè della frusta al
cocchiere. È proprio deir anima razionale' il veder sè medesima; il
conoscere partitamente sè medesima; il far sè meilesima quale ella
vuole: il cogliere essa medesima il frutto che ella produce, laddove i
frutti delle piante e i portati degli animali sono colti da altrui;
il giugnere sempre allo scopo che è proprio di lei, in qualsivoglia
punto arrivi il termine della vita: perchè 1’ azione di lei, in
qualsiasi momento ne sia arrestato il corso, non rimane imperfetta,
co- [Razionale per distinguerla da quella dei bruti, che
dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni
sceniche o nel hallo, o in simili cose; ma anzi in qualsivoglia
istante, in qual- sivoglia luogo le sopravvenga la mor- te, ella
compie nondimeno intera- mente, e in modo soddisfacente a sè
stessa, quanto si avea proposto (28), e può dir sempre: io ho tutto il
mio. Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e
il vuoto che lo circonda, e contempla la forma di quello, e si
estende nella infinità dei secoli, e abbraccia col pensiero i
rinascimenti periodici della università delle cose; e contemplan-
doli si fa capace che non rimane da vedere nulla di nuovo ai nostri
po- steri, siccome nulla di più videro i nostri antichi; chè anzi
1’ uomo giunto all’età di quaranf anni, per poco che abbia di buon
discorso, ha 1 Tutto il mondo: intendi ciò che noi di- remmo
tntto il creato. Ma l'idea di crea- zione era aliena dagli stoici. in
certo modo veduto e conosciuto tutto ciò che fu e tutto ciò che
sarà per la somiglianza che hanno le cose fra loro. Ancora è
proprio del- r anima razionale l’ amore del pros- simo, la veracità
e la verecondia, e il non anteporre nulla a sè mede- sima: * il che
è proprio eziandio della legge. Onde segue che la retta ra- gione e
la ragione di giustizia sono una sola cosa. I canti aggradevoli e
le danze e gli esercizi ginnastici ti cadranno Bene avverte qui il
Gataker come an-che la legge cristiana ci prescrive di non avere a nulla maggior
rispetto che alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26; s.
Marco Vili, 36). E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a
ciascuno che la propria anima» riproducendo quasi nella sua prosa
il verso 301 dell’Alceste di Euripide. [Esercizi ginnastici,
letteralmente il pancrazio. Ognuno sa che i romani per mezzo della
ginnastica voleano esercitata la forza del corpo con signiftcazione di
leggiadria. E quindi i giuochi ginnastici erano pur uno degli spettacoli
più graditi ad un popolo, in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la
cantilena melodiosa in ciascuno dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad
uno considerandoli, domandi a te stesso, è egli questo quel che mi vince?
» perchè ne avrai vergogna. E similmente in- torno alla danza,
considerando sepa- ratamente ciascuno dei moti, cia- scuno degli
atteggiamenti; e così per gli esercizi ginnastici. E gene- ralmente
in tutto ciò che non è virtù, o che non procede da virtù, i
sovvengati di ricorrere alla divisione delle cose nelle parti loro (29),
si che divise a quel modo elle ti cadano in dispregio. Fa’ l’applicazione
di ciò anche alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima in
tutto r ordine della cui vita regnava sovranamente l'idea della bellezza.
Cioè, dividi la vita umana in tante pic- cole porzioni, per disprezzarla
tutta insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a
sciogliersi, ove oc- corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a
dissiparsi, o ad entrare in una nuova condizione di esistenza. E questa
disposizione proceda da giudizio particolare della mente, non da
sola pervicacia di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni
tragica ostentazione, non però senza dignità, da poter anche
persuadere gli altri. Ho io fatto qualche cosa che giovi alla
società? Adunque ho gio- 0 ad entrare eiUtenta; letteralmente: 0 a
perdurare. Ornato traduce: o a rimanere ancora dopo morte Non mi piacque,
ma la mia versione, che svolge il pensiero dell’ autore, ha un
coloro troppo moderno. I Cristiani
erano ancora comunemente mal conosciuti, e creduti settari fanatici,
nemici dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’
suoi caratteri esteriori, da poter persuadere altrui che essa
procede da ben ponderato giudizio,* nòn da codardia 0 vanità o da
intemperata esaltazione o concitazione di mente. vate a me stesso.' Questo pensiero ti
occorra sempre pronto alla mente, e ti conforti a perseverare. Qual
è r arte tua? L’esser buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se
non per le buone dottrine, le une intorno alla natura dell’uni-
verso, le altre intorno alla costituzione propria dell’ uomo? Da prima fu
istituita la tragedia a ricordare i casi che sogliono av- venire e
come essi sieno così fatti per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo
essere una contrad- dizione il pigliarne diletto quando li vediamo
sulla scena del teatro e dolercene poi quando accadono sopra una scena
maggiore. Voi vedete di [Sono le parole di' Salomone, Prov.
XI, 17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.» Epitteto svolgo il
medesimo concetto, dis- sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non
potest beate degere qui se tantum intuetur, qui omnia ad utilitates suas
couvertit: al- teri viVas oportet, si vis tibi vivere.» fatti essere pur forza che 1’ azione si
compia a quel modo (30), e che deb- bono ad ogni modo soffrirlo
anche coloro che esclamano: « 0 Citerone, ahi lasso.* w E invero
alcune cose diconsi utilmente dagli autori di tra- gedie siccome
questa: Che se gli Iddìi Di me nè de’ miei tigli non
han cura, Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro
alle cose lo adirarsi è vano. » E ancora quest’ altra:
€ Mieter la vita Come spiga matura -» E le altre
di cotal fatta. Dopo la tragedia fu introdotta hi t
Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re, vers. 1391. Ecco, secondo la
traduzione del Belletti, i tre versi che formano il periodo intero
di cui quelle parole sono il comin- ciamonto: Oh Citeron!
perchè raccormi? o tosto Perchè morte non darmi, ond' io giammai
L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con
quella sua libertà, facesse come da aio al popolo, e con quel suo
chia- mare le cose coi nomi loro, ne ri- cordasse agli uomini la
vanità: i quali modi assunse poi Diogene ezian- dio ad un fine
somigliante. Dopo la vecchia, quale sia stata la mezzana commedia,
ed ultimamente poi la nuova, e quale scopo abbia questa, che a
poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione, lascio
a te il considerare. Che anche da costoro si dicano alcune cose
utili, non è da negare: ma l’ inten- zione generale di un tal genere
di poesia e di composizioni drammati- che, qual è ella mai? Come
vedi tu chiaro nissun’ al- tra setta' essere così acconcia al
1 Setta, intendo della setta illosodca in che Marco vivea, e non
dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il
3iou filosofare, come quella in che sei ora? Un ramo
spiccato da un altro ramo non può non essere separato dalla pianta
intera. Parimente un uomo diviso da un altro uomo è sca- duto dalla
società intera degli uo- mini. Il ramo vien divelto per mano
d’altri. L’uomo si separa egli stesso dal suo vicino, quando egli l’
odia, quando lo ha in dispetto; e non s’ avvede eh’ egli si
distacca ad un, tempo dalla intera comunità. Se non che, per dono
di Giove autore dplla comunità, può ciascuno di noi che siasi distaccato
dal prossimo, riap- ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire
qualche cosa che non fosse nè la condizione sociale-y nè la setta
filosofica^ ma bensi il modo e r ordine ili vita adottato da Antonino
nella condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in- tesero anche il
Gatakero e lo Schultz, i quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome
rOrriato pare che fosse ben fermo in quella sua opinione, ho conservato
la sua parola fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-
tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile
diviene la riunione o il ristabili- mento a suo luogo della parte
stac- cata. E ad ogni modo egli è diverso il ramo che crebbe da
principio in- sieme cogli altri e sempre rimase unito con essi, dal
ramo che vi fu innestato dopo esserne stato divelto: checche ne
dicano i giardinieri, fa un albero solo cogli altri rami, ma non un
solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non è una. Questo
potrebbe dirsi di un ramo di pe- sco, p. es,, che fosse innestato in
quello di un noce; ma quando un ramo del uoco che ne fosse stato
spiccato fosse innestato in un altro ramo del noce medesimo,
sarebbe una la vegetazione cd una ancora la forma. Mi è anco
sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv parlandosi di piante. Io propendo a
credere, coi migliori critici, questo luogo corrotto o manchevole
nel testo. Alcuni di quest' ulti- ma frase fanno un paragrafo separato:
e remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in
cosa che tu faccia secondo la retta ragione, siccome non avrà forza
dà distoglierti dall’ azione incominciata, cosi ancora non ti
riinova dal sen- timento di benevolenza che devi avere per lui: ma
fa’ che tu ti serbi co- stante nel giudicare e nell’ operar
rettamente, e ad un tempo amore- vole verso chi cerca di impedirti
o in qualsivoglia modo ripugni a ciò che tu fai. Perchè non sarebbe
mi- nore fiacchezza lo adirarti contro questi tali, che il ritrarti
dall’ im- presa e dar luogo per paura; essendo egualmente disertore
chi teine e fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon- tana dal
congiunto e dall’ amico suo naturale. IO. Non è natura alcuna
la quale sia da meno dell’ arte che ne è imi- tatrice; nè la più
perfetta fra le na- ture, quella che comprende in sè tutte le
nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti
tutte fanno le parti inen nobili di ciascuna delle opere loro per
amore delle più nobili;' adunque anche la natura comune. Quindi ha
origine la giustizia, e da questa procedono tutte le altre virtù. Perchè
mal potrà conservarsi giusto colui, il quale o non sarà
indiflerente verso le cose medie, o si lascierà facilmente in-
gannare dalle apparenze, o sarà pre- Come, per esempio, un pittore farà
ciò che pone nel fondo di un suo quadro per dare maggior risalto a
ciò che ne è il sog- getto principale. E (la questa procedono tutte le
altre virtù. Intendo che dallo aver la natura voluto che si
osservasse la giustizia, procedette che essa natura istituisse le altre
virtù; quelle cioè di cui parla poco dopò; le quali sono necessarie
alla pratica della giustizia e fu- rono dalla natura istituite per amore
di essa giustizia, còme un artefice fa le parti men nobili di una
sua opera per amore delle più nobili. Ricordi il lettore che appo
gli stoici posteriori parte sovrana della filosofia • era la morale:
la logica, anche per gli stoici antichi, era subordinata alla
morale. cipitoso nel giudicare, o mal fermo
nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio o timore ti turba,
vengono alla volta tua; ma tu in certo modo vai alla volta loro.'
Ora fa’ che il tuo giudi- zio intorno a quelle stia cheto, e quelle
rimarransi quete del pari, e tu non sarai veduto desiderar nulla nè
temere. La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando
ella nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di
dentro, nè si dissipa, nè si accascia,* ma splende di una luce per
la quale ella vede la verità che è nell’ universo e quella che è in
lei. Un tale mi disprezza? Tal
sia di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è
nello stato con- forme a natura, quando ella non ha nè de- siderio,
nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto
meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia di lui. Quanto si è a me, io mi
ser- berò mansueto e benevolo verso ognu- no, pronto a chiarire
dell’ error suo anche colui che mi odia, non con parole di
rimprovero nè ostentando pazienza, ma cortesemente e con sin- cera
amorevólezza, come Focione so- lea fare (31), supposto che non
s’infin- gesse. Perchè la mansuetudine vuol essere interna, sì che
gli Dei veggano in te un uomo disposto a non ricevere nulla con isdegno
nè a ma- lincuore. Qual malej in fatti, per te, se tu fai ora quel
che s’ addice alla tua natura e ricevi ciòcche ora è giu- dicato
opportuno dalla natura uni- versale, tu uomo ordinato a questo fine
che sempre si faccia il comun bene, sia qualsivoglia lo strumento
per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e si vanno
piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro, e s’
inchinano 1’uno all’ altro scawi- bievolmente. Che fradiciume e che
doppiez- za non è il dir di taluno: a Io ho deliberato di trattar
teco schietta- mente. » 0 uomo che fai? Non è bisogno' di questo
preambolo. Alla prova si vedrà. Sulla fronte conviene ti si legga
immantinente ciò che tu di’, perchè è cosa di tal natura che tosto
si manifesta negli occhi, come nello sguardo dell’ amante ogni cosa
conosce immantinente l’ amato. L’uo- mo schietto e buono dev’ essere
come chi sa di caprino, sì che al solo ac- costarsegli altri il
senta, voglia o non voglia. La schiettezza simulata è un’ arme da
traditore. Non è cosa più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del
lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a quella
favola di Esopo, nella quale i lupi persuadono le pecore a dar loro i
cani come ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi A tutto
potere fuggi cotesto. Alfuom dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom
benevolo sono appariscenti negli oc- chi tjuelle qìialità loro, e non è
bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che sta
in potere dell’anima, solo ch’ella voglia essere indifferente verso
le cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna
di esse nelle sue parti e nelle sue relazioni col tutto, non dimen-
ticando che nissuna di esse viene alla volta nostra nè ci sforza a
fare di lei tale o tal altro concetto; ma • anzi elle si stanno tutte
immobili dove sono, e noi siamo quelli che facciamo i. giudizi
intorno ad esse, e li scriviamo, per così dire, dentro di noi,
potendo non farlo; e ancora. come gaardiatii in luogo di quelli; e
divo- rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare dalle belle parole
e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto
inavver- titamente e senza avvedercene, po- tendoli cancellare
immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha a durare questa fatica
di considerare le cose in tal modo, e saremo poi fuori della vita
per sempre. E che v’ha poi di tanto arduo in esse? Se sono secondo
natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili; se sono contro natura,
vedi tu che cosa è secondo la tua natura, e a quello attendi, ancora
che sia senza gloria. È sempre degno di scusa chi va in traccia del
proprio bene. Donde sia venuta ciascuna cosa, di che elementi sia
composta, ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e siccome
non è per soffrire alcun male per la trasformazione. E in primo
luogo,* quale rela- [Sottintendi: Considera] [Sottintendido
considerare, o altra zione io abbiaceli essi e come siam nati gli
uni per gli altri, ed io, per altri rispetti sono nato per essere
loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali
più in alto: se gli atomi non sono, la natura è quella che governa
l’uni- verso; e se questo è, gli esseri meno perfetti sono nati pei
più perfetti, e questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a
mensa, a letto, negli altri momenti della vita. E massimamente a che
sorta di azioni siano necessitati per le credenze che essi hanno, e con
quanta presun- zione di sapere fanno essi ciò che fanno. Che
se essi fanno ciò a buon diritto, e’ non ti bisogna avertelo a male;
se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa- pendo
quel che si fanno. Perciocché frase cotale; e cosi al principio di
ciascuno degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli
uomini la privazione del vero, così involon- tario è ancora il non
portarsi verso altrui secondo le norme del giusto: il che provano
collo adirarsi quando sono chiamati ingiusti, ingrati, cu- pidi
dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora
pecchi non di rado, e sei pur uno del numero loro; e se da certi
peccati ti astieni, hai nondimeno la disposizione a com- metterli,
benché, sia per difetto di audacia, sia per vanità o per altro cotal
vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa scienza che
essi pecchino: perchè molte azioni, che paiono malvage si fanno
talora a fin di bene o per meno male: e ad ogni modo è me- stieri
sapere di molte cose a poter sentenziare convenientemente sulle
azioni altrui. 6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche
solo l’ impazienza; che la vita umana dura un mo- mento, e poi saremo
tutti sotterra. Che non sono le azioni loro quelle che ti turbano,
standosi quelle nei loro autori, ma bensì le nostre opinioni.
Adunque togli via, sappi rimovere da te il concetto che tu fai di
quelle, e l’ ira se ne andrà parimente. E come rimovere quel
concetto? Col considerare che le azioni altrui non hanno nulla di
dis- onesto per te. Che se il male tutto non consistesse nella sola
disonestà dell’agente, di necessità peccheresti tu ancora, e
saresti tu pure assas- sino, e macchiato di ribalderie d’ogni forma.
Siccome le ire, i rammarichi intorno a siffatte cose arrecano seco
troppo più gravi danni che non siano quelli di che ci adiriamo e
ramma- richiamo. Che r amorevolezza è sempre vittoriosa, quando
sia schietta, e non sia una affettazione o una parte che tu reciti.
E in vero che ti può egli fare 1’ uomo il più iracondo e inso-
lente, se tu ti mostri a lui tuttavia amorevole e se, venendo il caso,
tu lo ammonisci cortesemente e cerchi di farlo ricredere in quel
tempo me- desimo che egli intende ad offen- derti? No, figliuol
mio; noi siamo nati ad altro. A me tu non nuoci; a te bensì, figliuol
mio. E gli dimostri e fai toccar con mano che la cosa sta COSI
universalmente; e come nè le pecchie si comportano in quella guisa,
nè alcun altro ani- male che sia nato a vivere in co- munanza. Le
quali cose vogliono es- ser dette senza ombra alcuna di ironia nè
di rimprovero, ma bensì con amorevolezza, e senza amaritu- dine
alcuna nell’animo; nè ancora come si direbbero da un maestro in iscuola,
nè per farsi ammirare dai circostanti; ma da solo a solo, e se v’ha
altri presente, * Di questi nove capi fa’ che tu ti ricordi
come se tu li avessi ricevuti in dono dalle muse; e incomincia pure
una volta ad esser uomo men- tre hai vita.* E’ ti conviene ad un
tempo guardarti dallo adulare gli uomini non mejio che dallo
adirarti contro di essi: perchè le sono cose egualmente antisociali
e nocive. Quando ti sentirai provocato all’ira, ti occorra alla
mente questo pen- siero: non esser punto cosa virile lo adirarsi;
ma anzi la pacatezza, la mansuetudine, siccome sono cose più umane,
così sono anche più vi- rili; e che la costanza, il vigore, la
fortezza sono nel mansueto, non in [Ornato collo Schultz, anzi più
riso- Intamento che lo Schultz, stimò che qui il testo fosse manchevole.
Seneca, De ira, 111,43, disse. Humanitatem
colamns, dnm inter homines snmus. »
chi si adira o s’impazientisce. Per- chè più quegli si avvicina
alla im- passibilità, tanto più partecipa della forza; laddove l’
ira, siccome il do- lore, è propria del debole: lo adirato e lo
addolorato furono egualmente piagati e ambidue cedettero egual-
mente. E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: *
essere da pazzo il volere che i malvagi non pecchino, perch’ egli è
un voler l’im- possibile. Il voler poi che essi por- tinsi da pari
loro verso tutti gli altri e noi facciano con te, è da stolto e da
tiranno. Contro quattro specie di de- terminazioni* della parte tua
prin- cipale ti bisogna sopra tutto stare in guardia, e tosto che
una ti venga [Conduttor delle muse, o Apollo, o se vuoi.
Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti,
determinazioni, volon- avvertita, cancellarla, ragionando teco
medesimo intorno a ciascuna di esse in questa guisa: Intorno a
quelle della prima specie: questo pensiero non è necessario.
Intorno a quelle -della seconda: questo pen- siero tende a
sciogliere la società. Intorno a quelle della terza: tu stai ora
per dire cose che intimamente non credi: e il dir cose che inti-
mamente non credonsi è da essere annoverato fra le massime assurdi-
tà. Intorno a quelle finalmente del- la quarta specie, rampognerai
te medesimo dicendo: tu lasciasti che fosse vinta la parte più
divina di te, e sottoposta a quella che è men nobile e mortale,
cioè a di- re al corpo e ai grossi piaceri di quello. Quattro cose
da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni
ingiuste, dove sono anche compresi i moti di irascibilità; Quanto è
in te di aereo e di igneo, benché abbia naturale ten- denza ad
innalzarsi, acconciandosi nondimeno all’ordinamento del tutto si
rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- |
se, benché tendano naturalmente allo ' ingiù, tengonsi non pertanto
solle- vate ed erette in una forma che non é loro naturale: tanto
anche gli ele- menti sono obbedienti alla legge dell’ universo, e
facendo forza a sé medesimi serbano costantemente il posto in che
furono collocati, finché da quella medesima legge sia dato il segno
dello scioglimento. Ora non é egli singolarmente strano che sola la
parte intelligente dell’ esser tuo non voglia obbedire e si rammarichi
del posto che le fu assegnato? e pure nulla di violento le è
comandato [Disaccordo della mente e delle parole; cioè falsità
voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo
la natura di lei. Con tutto ciò non vi si vuole acconciare, e vuole
andare a ritroso. Perchè le ingiu- stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza,
il timore, sonò tutti moti a ritroso della natura. E ancora allor-
quando r anima non s’ acconcia di buon grado agli avvenimenti, ella
abbandona il suo posto, essendo ella stata instituita alla santità,
alla pietà, non meno che alla giustizia, poiché quelle non meno di
questa fanno parte della sociabilità: chè anzi gli atti di
giustizia succedono piuttosto (-he non precedano a quelli della
pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà verso Dio o
la natura, che è tutt’uno presso gli stoici, e non dimenticare che il
rasse- gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è atto religioso
appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima che con gli
nomini, e le sue relazioni con questi hanno per fondamento le sue relazioni
con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto
di vita, non può essere in tutta la vita il medesimo uomo. Ma ciò
non basta se non aggiungi ancora quale esser debba questo proposito
o isti- tuto di vita. Perchè siccome non di tutti quelli che al
volgo paiono beni è invariabile negli uomini il giudizio, ma di
quelli soltanto che sono univer- sali e comuni; ' così lo scopo
comune e civile dell’ umana famiglia, è quello che l’uomo dee
proporre a sè stesso. Colui adunque il quale indirizzerà a questo
scopo comune l’esercizio di tutte le sue facoltà, quegli farà che
tutte le sue azioni sieno fra loro somiglianti, e per tal guisa sarà
egli costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene
privato varia nella stessa persona, secondo che varia la
sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico è costante e invariabile,
siccome quella che dipende solo dalla ragione, la quale non varia. Rammenta
il topo di monta- gna e il topo di casa, e lo spavento - di questo
e il correre precipitoso.' Socrate chiamava befane le
credenze del volgo, spauracchi di fanciulli. I Lacedemoni nella loro
solen- nità ponevano pei forestieri i sedili all’ ombra, ed essi
sedevano dovunque. A Perdicca, che gii chiedea perchè non
andasse a lui, Socrate rispondea, Per non morire di pes- sima morte
» cioè a dire, « per non ridurmi alla condizione di non poter
ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.
Nelle lettere degli Epicurei era una esortazione all’ aver sempre
pre- sente al pensiero alcuno di quelli antichi che praticarono la
virtù. I Pitagorici prescriveano che [Gli interpreti allegano
Orazio, sat. VI, lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301. Ogni giorno di buon mattino si do-
vesse volgere gli sguardi al Cielo, affinchè per la contemplazione
di quelli esseri che sempre percorrono le medesime vie e sempre
compiono a un modo il loro ufficio, l’ uomo avesse ad ìfver sempre
vivo in sè il pensiero dell’ordine, della purità e della nudità.'
Perchè le stelle non hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate
cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori Santippe colla veste di
lui; e le cose che egli disse agli amici i quali arrossivano e si
ritraevano indietro, vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello
scrivere nè in quella del leggere non puoi essere maestro se prima
non fosti discepo- [Il diligentissimo ed ernditissimo
Gatalcer non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare
della vita di Socrate, e il detto di Ini, ai quali fa qui allusione
Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte (Iella vita. Sei
servo, a te concesso favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la
virtute Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver
fìchf di verno; pazzo ancora chi desidera aver iigliolanza quando
non è più tempo da ciò. Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava
Epitteto, fa' che tu dica teco medesimo: domani sarà forse morto.
Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò che accenna ad
un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte [Nei testo è
un verso iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib.
I dell'Odissea. Nel testo è un verso esametro che ha
qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni; non dall’ essere al
non essere, ma dall’ essere ciò che è all’ essere ciò che ora non
è. Assassini della volontà non ci sono; sentenza di Epitteto. Diceva
ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello assen- tire; stare
all’ erta coi moti della volontà, affinchè tutti sieno condi-
zionali, sempre indirizzati ad un fine, al bene universale, sempre
propor- zionati in intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci
in tutto dalla appetizione, e non dare luogo mai all’ avversione
per cose che non sieno in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva
egli, non è il frutto della vittoria o il danno della sconfìtta; ma
l’ esser savio, o r esser pazzo. 39. Socrate dicea: che
volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser- cizio della
volontà non può esserci tolto da nìssuna forza esteriore. avere anime di
animali ragionevoli, 0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali
ragionevoli? di sani o di corrotti? Di sani. Perchè dunque non le
cercate? Perchè già le abbiamo. Perchè dunque batta- gliate fra voi
e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da quale opera
socratica abbia tratto Antonino questa argomentazione: ma moltissimi
scritti della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali esistevano
ai tempi di Marco nostro. Tutte quelle
cose, alle quali tu . studi di pervenire per mille andiri- vieni, tu
puoi avere immediatamente, se tu non vuoi male a te stesso. E ciò
sarà, se tu metti da banda il pas- sato e lasci alla Provvidenza la
cura del futuro, e attendi solo ad usare il presente, secondo le
norme della santità e della giustizia: della san- tità, coir
accettare volonterosamente i casi tutti che ti intervengono, es-
sendo essi dalla natura prodotti per te, e tu per essi; della giustìzia,
col dire liberamente e senza ambagi la verità e far ciò che è con- forme
alla legge e alla dignità delle l'ose,’ non lasciandoti
frastornare mai nè da malizia altrui, nè da opinione, nè da
discorso di chi che sia, nè da affezione veruna di quel
corpicciuolo che ti è venuto crescendo all’ intor- no: sta a lui
che è il paziente a pen- sarci. Or dunque, prossimo o lontano sia
per essere il termine della tua vita, se tu, deposto ogni altro
pen- siero, non attenderai che ad onorare la parte principale e
divina dell’ os- sei’ tuo, e tuo solo timore sarà, non già di dover
cessare quando che sia di vivere, ma di non aver per anco
incominciato a vivere secondo natu- ra; tu sarai uomo degno del
mondo che ti ha generato, non sarai più [Le prescrizioni della
l^igge sono gene- rali; la dignità delle cose esteriori serve di
guida nell' applicazione della legge. Ta altro modo si potea dire: « ciò
che è confor- me alla legge nelle circostanze particolari in che
ti’ trovi.» Ma quello è più stoica- mente detto. Per dignità delle cose
intendi il loro va- lore ret»tivo. straniero nella tua
patria, non ti maraviglierai più di ciò che accade tutto dì come di
cosa insolita; non sarai più dipendente da chi nè da che che
sia. Iddio vede tutte le menti de- nudate di questi vasi materiali e
involucri e sudiciumi. Quelle solo egli attinge colla pura sua
intelligenza, le quali da lui scaturite sono deri-^ vate in essi.
Se ti avvezzi a far tu pure il medesimo, tu avrai meno di molte distrazioni
e perturbazioni. Perchè chi non guarda all’ involucro della carne,
si lascierà egli turbare o distrarre alla vista dell’abito, o delle
case, o della riputazione, o di altri cosi fatti involucri e
addobbi? Di tre cose sei composto: il corpicciuolo, il soffio
vitale e la mente. Delle quali le due prime non sono tue se non in
quanto tu hai a prenderne cura; la terza, questa sola è tua
veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir più proprio dal tuo
pensiero, tutte le cose che altri fa e dice in presente, e le pas-
sate che tu facesti e dicesti, e le future delle quali 1’ aspqttamento
ti turba, e quelle che riferendosi al corpo onde sei circondato e
al soffio vitale congenito con esso, sono in te involontarie, e
quelle che il vor- tice di fuori va agitando intorno a te, si che
pura e sciolta da ogni esterna fatalità la potenza intellet- tiva
se ne viva libera da sè, ope- rando il giusto, avendo caro ogni
evento qualsiasi, e dicendo il vero; se, dico, tu rimovi da codesta parte
dell’ esser tuo tutto ciò che presen- temente le sta come a dire
appiccato per mezzo dello appetito sensitivo, e tutto r avvenire e
tutto il passa- to, e ti fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU
ri tonda Sfera che posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a
vivere quel tempo che vivi, cioè il presente; ti verrà fatto di
passare tranquillamente, nobilmente e in pace col genio tuo, quello che
ti rimane ancora insino al morire. Soventi volte mi sono
maravi- gliato che ciascuno arai sè stesso più che non arai
qualunque altro uomo, e faccia poi minor conto dei propri giudizi
intorno a sè medesimo, che di quelli degli altri.' Per- chè se a taluno
fosse da un Dio che gli apparisse, o da qualche savio maestro
comandato che non pen- sasse e non volgesse nulla in mente che
tosto, appena ne fosse conscio ' Anche i Pitagorici, benché non ne
fa- cessero nn precetto assoluto, raccomanda- vano che ciascuno
avesse massimamente rispetto a sè medesimo, cioè ai propri giudizi
intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at- tribuiti a Pitagora, ecco la
traduzione di quello che compendiosamente esprime la detta
raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna di te ste.««so. » a sè stesso, noi manifestasse; noi
sosterrebbe pure un solo giorno. Tanto abbiamo noi maggiore
rispetto a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò che ne
pensiamo noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo
ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono passare
inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali
entrarono, sto per dire, in più stretta alleanza colla divinità, e per la
pietà e santità loro vissero in più intimo commercio con essa,
quando una volta sian morti, non abbiano più mai a rivivere, ma
sieno spenti per sempre? Se tale è veramente la condizione di tutti
gli uomini indi- stintamente, abbi per indubitato, che ove avesse
dovuto essere altrimenti, avrebbero gli Dei altrimenti ordinato: perchè
se un ordine diverso fosse stato giusto, sarebbe anche Stato
possibile; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe recato
ad effetto. Ora dal non essere le cose in questi termini, supposto
che veramente non sieno, tu hai a trarre argomento che non dovea essere
altrimenti da quello che è. Per- chè tu vedi pure che mentre tu vai
facendo queste investigazioni, tu. disputi del diritto con Dio; la
qual cosa non faremmo con gli Dei, se essi non fossero ottimi e
giustissimi; e tali essendo, non possono aver mai tollerato nè
lasciato correre inavvertitamente nell’ ordinamento del tutto,
nulla che fosse ingiusto 0 irragionevole. Vienti esercitando anche
in ciò a che tu credi aver poca attitudine. La mano sinistra, la quale
per difetto di esercizio è disadatta ad altri uffici, tiene il freno più
saldamente che noi faccia la destra, perchè a ciò fu
esercitata. In che stato debba essere l’uo- mo, e rispetto al corpo
e rispetto all’ anima, al sopraggiungere della morte; ' la brevità
della vita, l’abisso del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza
di tutta la materia. Osservare le cause denudate della loro
corteccia; il fine delle azioni; che sia il dolore, che il pia-
cere, che la morte, che la gloria; chi sia quegli che è cagione di
tra- vagli a sè stesso; siccome nissuno è mai impedito da altrui; che
tutto è opinione. Nel far uso dei precetti della filosofia, fa’ di
rassomigliare piutto- sto al pugillatore che al gladiatore; perchè
questi, lasciata cadere la spada, vien morto; ma quegli ha la
destra sempre, e non gli è mestieri d’altro che di chiudere e
scagliare il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le
cose in sè stesse, risolvendole nei loro elementi, la materia, la
causa, il fine. Che potere ha l’uomo ! di non fare se non ciò
solamente che Iddio sia per approvare, e di accettare tutto che
Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere
degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon- tariamente nè involontariamente;
nè degli uomini, perchè gli uomini non peccano mai se non malgrado
loro. Di nessuno dunque ti devi doere. Quanto è mai ridicoloso e nuovo
colui che si maraviglia di al- cuna delle -cose che accadono nella
vita! In tutte le edizioni che io conosco si incomincia con questa
frase il paragrafo se- guente; ma non si fa alt^o che guastarvi il
senso. O necessità fatale e ordine di cose impreteribile, o‘
provvidenza esorabile, o confusione a caso e senza governo. Se
necessità inflessibile *, a che resisti? Se provvidenza esora- bile;
fa’ che tu sia degno dell’ aiuto divino. Se confusione senza
governo; pur beato che in tanta tempesta tu hai dentro di te una
mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce seco, rapisca a sua posta
il corpicciuolo e la parte animale di te e cotali altre cose; non potrà
rapir seco la mente. Che? il lume della lampada, fmch’ ella
non si estingue, risplende e non perde della sua luce; e in te,
prima che la vita si spegneranno la verità, la giustizia, la
temperanza? Quando altri ti dà materia a supporre che egli abbia
permeato, di’ teco stesso: come so io che ciò sia un peccato? E se
è peccato, ch’egli non siasi già condannato da per sè? il che h come
nn graffìarsi il pro- prio volto. ' Pensa ancora che il non volere
che il dappoco erri, è un non volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo,
che i bambini vagiscano, che il cavallo annitrisca, ed altri simili
effetti naturali e necessari. E che può egli fare in cotale disposizione?
Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella. Se non è giusto, noi fare;
se non è vero, noi dire: perchè la tua volontà è libera. Esaminare
in ogni incontro che è la cosa che fa impressione in te, ed
esplicarla distinguendovi la causa, la materia, il tempo entro il
quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior pccna neqnìtiie est-,
quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'
taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran- ne i luoghi indicati, io ho fodcljnonto.seguita
noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI, Accorgiti finalmente
che tu hai in te stesso alcun che di più potente, di più divino che
non sia ciò da cui si generano gli affetti e che al tutto ti trac
qua e là come per ima fu- nicella. Che è ora la mia mente? Non è
ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra cosa cotale? Primieramente nulla
si faccia a caso, nè senza uno scopo. Poi, nulla sia riferito ad
altro fine che a quello universale e civile di
tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più, nè alcuna delle
cose che vedi, nè alcuno di quelli che ora vivono. Per- chè ogni
cosa nacque per alterarsi, mutarsi o morire, affinchè altre possano
nascere secondo l’ordine di successione. fin qni. Quanto
all' interpretazione dei pa- ragrafi che seguono, l'Ornato lasciò
sola- mente due otre note delle quali sarà parlato al loro luogo. Che
tutto è opinione, e questa è in poter tuo. Adunque togli via,
quando ti piaccia, l’opinione, e come navigante che appena superato
il passo di un promontorio, trovasi in acque tranquille; così tu ti
troverai in perfetta calma e, come a dire, entrato in un seno non
agitati) da .alcun flutto. 23. Una azione qualsivoglia,
quando cessa a suo tempo, non patisce al- cun male per la cessazione.
Ancora r autore dell’ azione, per la medesi- ma cessazione, non
patisce alcun male. Medesimamente il complesso, 0 vogliasi dire la
serie di tutte le azioni, che è quanto dire la vita, quando cessa a
suo tempo, non pa- tisce alcun male per la cessazione, , nè ancora
chi cessa da questa serie di azioni, soffre per ciò alcun male. Il
tempo proprio poi è determinato dalla natura: talvolta dalla natura .particolare,
quando avviene nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla natura dell’
universo: le cui parti trasformandosi e rinnovandosi del continuo,
ne segue che sempre nuovo e sempre giovane si conserva nella sua
totalità il mondo. E bello sem- pre e tempestivo è ciò che profitta
al tutto. Adunque la cessazione della vita non è un male all’ uomo individuo,
poiché non è cosa disonesta, come quella che non dipende dal- r
arbitrio di lui, nè ripugna al fine universale e sociale della
umanità; ed è in sé stessa un bene, perchè è tempestiva e
profittevole al tutto e armonizzante con esso. E similmente è
divino r uomo che è mosso nella medesima direzione e verso i mede-
simi fini che Iddio, ed ha caro di essere mosso verso questi fini e
in questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-
co oscurissimo e diversamente inteso dai comontatori. Chi è grecista
vegga nella Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto
a ciò che tu fai, che nulla sia fatto a caso nè altrimenti che si
farebbe dalla giustizia in persona; e per rispetto agli avvenimenti
esteriori, sieno essi effetti del caso o della Provvidenza, che non
vuoisi mai nè incolpare il caso, nè mormorare con- tro la
Provvidenza. In secondo luo- go, qual sia ciascun vivente dal mo-
mento della fecondazione sino a quello della animazione, e da
quello della animazione fino a quello in cui cessa la vita,' e di
che elementi sia nota a questo paragrafo nell' edizione di
To- rino le ragioni della nostra interpretazione diversa da tntte
le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli era opinione degli
stoici il feto non essere animato fino al momento in cui ^sce dal
seno materno. Fino a quel momento essi consideravanlo come parte del
corpo della iinadre, come un ramo vegetante sul tronco dell'albero
a cui appartiene. Abbiamo ve- duto (vedi la nota (26) in fine del
volnme) composto e in quali sia per risol- versi. In terzo luogo,
che se tu levato in altissima parte vedessi di là tutte le cose umane e
la grande varietà loro, e vedessi ad un’ ora quanta sia la
moltitudine degli es- seri aerei ed eterei che popolano gli spazi
all’ intorno; per quante volte che tu venissi cosi levato in alto,
vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che sempre hanno
fra loro e la breve durata di tutte. Di cotali cose insu- perbisci?
25. Espelli da te T opinione, e sei salvo. Chi dunque ti impedisce
que- sta espulsione? 26. Quando stai di mala voglia per
cagione di qualsisia cosa o persona, tu dimentichi che tutto succede
se- come gli stoici fossero ignoranti di anato- mia: lo
erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo
antecedenti. condo la natura dell’ imiverso; che l’altrui colpa è male
altrui; e inol- tre che le cose che avvengono sono sempre. avvenute
e sempre avver- ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e
ancora tu di- mentichi quanto intima sia la pa- rentela che ha
ciascun uomo con tutta la famiglia umana: perocché non di sangue o
di seme, ma è co-^ munanza di mente. Tu dimentichi ancora che la
mente di ciascun uomo è divina e da Dio scaturita; che nulla è
proprio di nissuno, ma e il figlio- lino, e il corpicciuolo e
Tanimuccia stessa, tutto venne da quello. Tu di- mentichi
finalmente che tutto è opi- nione; che ciascuno vive solo il mo-
mento presente, e perde solo il momento presente. Recati spesso al
pensiero co- loro i quali di alcun che fieramente adiraronsi,
coloro che per grandis- simi onori, o sventure, o inimicizie, o
altre fortune quali si fossero, di- vennero illustri; poi- chiedi a
te stesso; ora dove sono? Fumo, ce- nere, languido romore di” fama,
o neppur questo. Poi ti occorrano alla mente tutti questi cotali;
Fabio Ca- tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a
Baia, Tiberio nel- r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per dire in
somma, tutte queste diverse inclinazioni verso checchessia gene-
rate dall’ opinione; e quanto sieno di poco pregio in sè medesime
tutte queste cose che con tanto studio si ricercano; e quanto sia
più da filo- sofo il saper far buon uso delle cir- costanze
qualunque esse sieno, o per dir più proprio, della materia quale ci è
data, serbandoci sempre giusti, temperanti e con semplicità obbedienti a
Dio. Perchè 1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi-
nevple. A colóro che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e
donde avuto certa otizia dell’ esser loro, perchè tu abbia a
venerarli - rispondi primieramente. Anche alla vista sono
percettibili. E poi. Nè ancora la mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in
onore: e così da quelli effetti che mi rivelano la loro potenza
argomentando che essi sono, venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita
è il vedere ciascuna cosa quale sia in sè stessa, quale la materia
di essa, quale la ' causa; e attendere con tutta r anima a operare
il giusto e a dire il vero. Poi, che ti rimane a faie, se non se
godere della vita, facendo senza ristare che un bene
succeda Opportunamente avverto qui il Gatakero come Antonino
potesse, stoicamente, dire benissimo, gli Dei essere visibili anche al-
r occhio, poiché il mondo primieramente era per essi il Dio supremo; e
poi fra gli Dei generati essi veneravano il sole, gli astri, gli
elementi eo. immediatamente ad un altro, non lasciando fra due
neppure un menomo intervallo? Una è la luco del sole, ancora che divisa
all’ infinito da pareti, da •monti, da altri obbietti innumerevoli.
Una è la materia comune, ancora che divisa in una moltitudine innu-
merevole di corpi, ciascuno dei quali ha le proprie qualità. Una è la
vita, ancora che distribuita in una molti- tudine innumerevole di
nature particolari. Una è r anima intelligente, ' ancora che sembri
divisa in tante unità. Ora tutte le altre cose sopra- scritte,
esseri organici viventi ed es- seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi:
Quando tu sia ben risolato di non attendere ad altro chò ad operare
il giusto e a dire il vero, non avrai più briga alcuna, e non avrai
che a godere della vita; il qual godimento consiste appunto nel
dire il vero e praticare la giustizia; e il godi- mento.sarà
continuo, se tu non cessi un momento dalle azioni virtuose che sono
il vero bene. nanzà fra loro nè corrispondenza alcuna di
sensibilità, sebbene anche ad esse il respirare e il gravitare
verso un centro sia a tutte comune.’ Ma alla mente è proprio il
tendere verso ciò che le è congenere, e con • esso ella si unisce,
nè può essere esclusa da lei questa corrispondenza di affetti e di
sensi. Che brami? Campare? Non questo. Che dunque? Aver sensazioni,
moto, incremento, appetiti? Far uso della facoltà della parola, di
quella del raziocinio? E che di tutto ciò ti sembra degno da desiderare?
Se ciascuna di queste cose ti sembra dunque in sè poco prege- vole,
volgiti à quella che sola rima- ne, al seguire la ragione e Dio. Ma
a questo culto ripugna eh’ e’ ti gravi [Il testo in questo luogo è
certamente corrotto. Chi ' vuol vedere come sia stato emendato e
quindi interpretato dair Ornato in una lunga sua nota, ricorra all'
Adizione di Torino] il dover essere per la morte escluso dalle cose
dette dianzi. Qual particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno?
Tosto perderassi nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia?
Qual particella di tutta l’anima? Sopra qual particella di tutta la.terra
ti vai strascicando? Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare
gran caso di nulla, fuori l’operare se- condo che la natura ti
guida, e tol- lerare tuttociò che la natura comune ti arreca.
Che uso fa di sè stessa la mente? Questo è il tutto per te. Tutto
il rimanente, sia o non sia sottoposto alla tua volontà, è per te
cadavere e fumo. 34. A farti disprezzare la morte gioverà il
pensare come anche coloro che ebbero il piacere per un bene e il dolore
per un male, non di meno la disprezzarono. A colui al quale ciò solo
che è tempestivo è un bene, poco importandogli il maggiore o minor
numero di azioni virtuose che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la
morte non ha nulla di pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti
di cittadino in questa grande città. Che rileva a te se per cinque
o solo tre anni? Ciò che è secondo la legge, è giusto ed equo per
tutti. Come puoi dunque rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno,
non da un giudice iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto,
non altrimenti che un attore è rimandato dalla scena dal direttore
della commedia che ve lo avea chiamato? Ma io non ho recitato i
cinque atti. Bene dicesti. Ma nella vita anche tre atti bastano a compiere il
dramma. Perciocché chi ne determina il fine, è quel medesimo che allora
fu autore della plasmazione, cd ora ò della dissoluzione. Tu
non fosti autore nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e
contento, chè quegli ancóra che ti accommiata è contento e
propizio. Epistle of Marcus Aurelius to the senate, in which he
testifies that the Christians were the cause of his victory.1919 The Emperor
Cæsar Marcus Aurelius Antoninus, Germanicus, Parthicus, Sarmaticus, to the
People of Rome, and to the sacred Senate greeting: I explained to you my grand
design, and what advantages I gained on the confines of Germany, with much
labour and suffering, in consequence of the circumstance that I was surrounded
by the enemy; I myself being shut up in Carnuntum by seventy-four cohorts, nine
miles off. And the enemy being at hand, the scouts pointed out to us, and our
general Pompeianus showed us that there was close on us a mass of a mixed
multitude of 977,000 men, which indeed we saw; and I was shut up by this vast
host, having with me only a battalion composed of the first, tenth, double and
marine legions. Having then examined my own position, and my host, with respect
to the vast mass of barbarians and of the enemy, I quickly betook myself to
prayer to the gods of my country. But being disregarded by them, I summoned
those who among us go by the name of Christians. And having made inquiry, I
discovered a great number and vast host of them, and raged against them, which
was by no means becoming; for afterwards I learned their power. Wherefore they
began the battle, not by preparing weapons, nor arms, nor bugles; for such
preparation is hateful to them, on account of the God they bear about in their
conscience. Therefore it is probable that those whom we suppose to be atheists,
have God as their ruling power entrenched in their conscience. For having cast
themselves on the ground, they prayed not only for me, but also for the whole
army as it stood, that they might be delivered from the present thirst and
famine. For during five days we had got no water, because there was none; for
we were in the heart of Germany, and in the enemy’s territory. And
simultaneously with their casting themselves on the ground, and praying to God
(a God of whom I am ignorant), water poured from heaven, upon us most
refreshingly cool, but upon the enemies of Rome a withering1920hail. And
immediately we recognised the presence of God following on the prayer-a God
unconquerable and indestructible. Founding upon this, then, let us pardon such
as are Christians, lest they pray for and obtain such a weapon against
ourselves. And I counsel that no such person be accused on the ground of his
being a Christian. But if any one be found laying to the charge of a Christian
that he is a Christian, I desire that it be made manifest that he who is
accused as a Christian, and acknowledges that he is one, is accused of nothing
else than only this, that he is a Christian; but that he who arraigns him be
burned alive. And I further desire, that he who is entrusted with the
government of the province shall not compel the Christian, who confesses and
certifies such a matter, to retract; neither shall he commit him. And I desire
that these things be confirmed by a decree of the Senate. And I command this my
edict to be published in the Forum of Trajan, in order that it may be read. The
prefect Vitrasius Pollio will see that it be transmitted to all the provinces
round about, and that no one who wishes to make use of or to possess it be
hindered from obtaining a copy from the document I now publish.1921 1919
[Spurious, no doubt; but the literature of the subject is very rich. See
text and notes, Milman’s Gibbon, vol. ii. 46.] 1920 Literally,
“fiery.” 1921 [Note I. (See capp. xxvi. and lvi.)
In 1851 I recognised this stone in the Vatican, and read it with emotion.
I copied it, as follows: “Semoni Sanco Deo Fidio Sacrvm Sex.
Pompeius. S. P. F. Col. Mussianvs. Quinquennalis Decur Bidentalis Donum
Dedit.” The explanation is possibly this: Simon Magus was
actually recognised as the God Semo, just as Barnabas and Paul were supposed to
be Zeus and Hermes (Acts xiv. 12.), and were offered divine honours
accordingly. Or the Samaritans may so have informed Justin on their
understanding of this inscription, and with pride in the success of their
countryman (Acts viii. 10.), whom they had recognised “as the great power of
God.” See Orelli (No. 1860), Insc., vol. i. 337. Note II.
(The Thundering Legion.) The bas-relief on the column of
Antonine, in Rome, is a very striking complement of the story, but an answer to
prayer is not a miracle. I simply transcribe from the American Translation of
Alzog’s Universal Church History the references there given to the Legio
Fulminatrix: “Tertull., Apol., cap. 5; Ad Scap., cap. 4; Euseb., v. 5; Greg.
Nyss. Or., II in Martyr.; Oros., vii. 15; Dio. Cass. Epit.: Xiphilin., lib.
lxxi. cap. 8; Jul. Capitol, in Marc. Antonin., cap. 24.”]Antonino. Aurelio.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice,
Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714145775/in/photolist-2mMNvR2-2mLPZbv-2mLR5nr-2mLR5nB-2mLMYBx-2mLR5mK-2mLPZaZ-2mLMYBc-2mLGr84-2mLPZcC-2mLGr8Q-2mLLwjC-2mLMYBn-2mLLwk9-2mLGr7C-2mKy2vb-2mLNi1Z-2mLEyw7-2mLExs3-2mLMXqw-2mKCQBD-2mPtp3t-2mKxrDy-2mKj2vX-2mKgT2F-2mJWMoD-2mHu2M2-2mHu2Ss-2mHxRXN-2mHpTXJ-2mHxRTu-2mHvdKe-2mHxxcr-2mHywQJ-2mHxRZw-2mHyRnJ-2mHpTYv-2mHxx6E-2mHywQP-2mKBnC7-2mKbWTh-2mKbiYk-2mHu2Qt-2mHywLv-2mHumtF-2mHu2TK-2mHvxyw-2mHvdDs-2mHvdD7-2mHumtL
Grice ed Aosta – dio in gioco – logica e sovversione
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Aosta). Grice: “I like Aosta;
my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he one on paronymy –
or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De
casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels of all! And more
seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or
dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in
“Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course –
the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but
we are not sure if Aosta knew this!” Grice:
“Aosta would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where
‘proloquium’ means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo
d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033
o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e
arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero
medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a
dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento
ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia
successiva. Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco
più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco
nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e
fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile
amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno
d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo
di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II,
quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture
che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo
lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista
gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere
politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto
vantaggioso per i religiosi. La riflessione filosofica e teologica di
Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come
quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato
originale, alla grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato
nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta
AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata
all'esterno della cattedrale di Canterbury. Arcivescovo di
Canterbury, santo e dottore della Chiesa NascitaAosta, 1033 o 1034
MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana
CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa
Alessandro III nel 1163[1] Ricorrenza21 aprile[1] Attributibastone pastorale[1]
e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo
di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un
teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi
esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto
per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il
cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte
della filosofia successiva. Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne
allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne
monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di
fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò
un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno
d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo
di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II,
quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture
che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo
lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista
gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico,
la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i
religiosi. La riflessione filosofica e teologica di Anselmo,
caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come
quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato
originale, alla grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato
nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta
casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque nel 1033[3][4] (o
all'inizio del 1034)[5] a[6] (o nei pressi di)[7] Aosta, allora parte del regno
di Arles[6] al confine con la Lombardia.[8] La sua era una famiglia
nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi
possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo,
apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso
il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica
famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di
Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa.[1][12]
Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta
forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che,
vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che
il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle
montagne.[12] Anselmo venne affidato a un istitutore, suo parente, che
però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal
quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva
venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo
espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente
intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione
e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la
domanda di Anselmo.[1][12] La delusione e la frustrazione per il rifiuto
causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo,
pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così
ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo
non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito
l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse
intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla
volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della
madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di
carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano
sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì,
accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del
Moncenisio alla volta della Francia.[1][12] Superate le Alpi, Anselmo e
il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima
di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere
dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava
il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si
recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il
ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel
corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il
pensiero.[13] L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I
progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò
presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne
nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo
intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli
quale priore dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani,
ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si
considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di
cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze
di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12] Nei
quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua
carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito
rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura.
Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività
di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi
all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di
esso) di testi su cui meditare e pregare.[15] La composizione di due delle sue
opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il
Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel periodo.[1][12]
Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli
succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di
Évreux.[16] Fu con riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe
comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla
riflessione e alla preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle
insistenze unanimi dei confratelli.[1] Anselmo fu molto apprezzato come
abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e
della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il
monastero;[1] la nuova carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra,
dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury,
di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi
conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che
dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore;[11] divenne così il candidato
naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu
anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec
dalle autorità civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi
impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva,
Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo
in cui fu abate di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e
didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato
della parola "grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De
veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà)
e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne
uno dei centri di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando
studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20] La
cattedrale di Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in
un'incisione del 1821. Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II
d'Inghilterra confiscò i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di
Canterbury e si astenne dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo,
che pure desiderava tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che
aspirasse al ruolo vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di
Ugo d'Avranches a recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a
trattenervisi per quasi quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in
Canterbury alla vigilia della Natività della Beata Vergine Maria, venne
salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe
esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di rientrare in
Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad Alveston e,
desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale attribuiva la
causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo venisse nominato arcivescovo di
Canterbury all'inizio di marzo.[11][22] Nei mesi successivi, tuttavia,
Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non essere adatto, in quanto
monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo come scuse anche l'età e
alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo sottopose a Guglielmo le
condizioni alle quali avrebbe accettato l'arcivescovato (condizioni peraltro in
linea con il programma della riforma gregoriana): che Guglielmo restituisse le
terre confiscate; che accettasse la preminenza di Anselmo sul piano spirituale;
che riconoscesse Urbano II come Papa, in opposizione all'antipapa Clemente
III.[23] Guglielmo era estremamente riluttante ad accettare tali richieste e,
benché la situazione favorisse Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere
solo alla prima.[24] Arrivò al punto di sospendere i preparativi per
l'investitura di Anselmo, ma infine, sotto la pressione della volontà pubblica,
fu costretto a portare a termine l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia
ad accordarsi con Anselmo raggiungendo un compromesso vantaggioso per la
monarchia: la restituzione delle terre rimase l'unica concessione fatta dal re
all'arcivescovato.[25] Anselmo ottenne dunque il consenso dei suoi ex
confratelli ad essere dispensato dai doveri che lo legavano all'abbazia di Bec,
rese l'omaggio feudale a Guglielmo, e il 25 settembre 1093 si insediò a
Canterbury,[11] ricevendo le terre precedentemente confiscate
all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso anno venne consacrato
arcivescovo di Canterbury.[24] È stato messo in dubbio che la riluttanza
di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera: mentre studiosi come R. W.
Southern sostengono che avrebbe davvero preferito rimanere a Bec, altri, come
Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza nell'accettare
importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel Medioevo, dal
momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio di succedere a
Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un ambizioso carrierista;
inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli obiettivi di Guglielmo
e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo eventuale arcivescovato
oltre che per il movimento riformista gregoriano.[26] Arcivescovo di
Canterbury sotto Guglielmo II Scena raffigurante Anselmo costretto
quasi a forza ad accettare il bastone pastorale, simbolo della carica di
vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente malato. Prima ancora della
fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo
e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una spedizione militare contro
suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e avendo bisogno di fondi
aspettava una donazione dall'arcivescovo di Canterbury;[27] Anselmo mise a
disposizione 500 sterline, che il re rifiutò chiedendo una somma due volte
maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi convinse Guglielmo ad accettare
la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere di aver già donato il denaro ai
poveri.[11] Quando si recò ad Hastings per benedire la spedizione che si
accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo rinnovò le pressioni volte a
tutelare gli interessi di Canterbury e della Chiesa inglese, oltre che, più in
generale, a riformare il rapporto tra Stato e Chiesa[11] secondo la visione
della «teocrazia pontificia» espressa da papa Gregorio VII:[28] Anselmo
concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la sua autonomia e autorità,
dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua missione e per la sua
investitura;[29] questo andava in direzione opposta rispetto alla visione di
Guglielmo la quale, in continuità con quanto già sostenuto dal suo
predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato che sulla
Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli storici tanto
come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come quella di un
politico intelligente e capace, determinato a conservare i privilegi della sede
episcopale di Canterbury.[31] Nuovi attriti sorsero subito dopo, quando,
come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il pallio dalle mani del
Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel periodo, infatti, la
legittimità di papa Urbano II era messa in discussione dall'antipapa Clemente III.
Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente l'autorità di papa
Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia, si era fatto
eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero fedeli a
Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad
Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto
dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che il re
d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma
insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per
Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II,
riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne
convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo,
tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina
della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero
successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un
momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia
dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la
questione dell'investitura rimase insoluta.[11] Anselmo, allora, inviò in
segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a
Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad
Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la
questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in
cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di
ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più
alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che
Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II
senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di
Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del
pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare
personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si
raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del
Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché
consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il
pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di
Canterbury nel giugno 1095.[35] Nei due anni successivi non ci furono
aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per
impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso
gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione
dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il
cui dedicatario era proprio Urbano II.[11] Nel 1097, dopo l'insuccesso di
una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò
Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di
comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di
potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne
negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne
messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più
potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe
dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello
a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa
ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò
l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle
rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo
conservò la carica di arcivescovo.[37] Primo esilio Ritratto di
Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in
dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di
Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio
in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal
Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva
essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a
Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una
lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12]
Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora
abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur
Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in
Inghilterra.[11] Incisione della prima metà del XVI secolo
raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua,
dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari
un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa
greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra
gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione
teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del
1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de
incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa
gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione
della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre
quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e
persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito
sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla
processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne
sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato
Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12]
Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a
Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un
altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099.
Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la
posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei
laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma
si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast,
rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al
re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta,
la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase
di fatto insoluta.[11] Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo
poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento
il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata
Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione
(Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11] Ritorno in Inghilterra sotto
Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto
dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò
Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38]
Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione
del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto. Di
ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle
investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era
stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio
feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad
arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a
queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di
Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di
ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12] Enrico e
Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse
al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12]
Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli
ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di
Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per
qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione
a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova
regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte
delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a
favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica,
contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la
ritirata del rivale.[12][41] Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non
era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo
all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo gruppo
di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra diretto
verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno del re
nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati di
Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni
iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a
un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto
questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò
fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di
consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di
recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un
nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12]
Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò
l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42] Secondo esilio Anselmo si
trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma
nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse
con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale,
ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli
ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re
d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del
ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette
un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in
Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le
pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e
dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione
spiritus sancti.[11] Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105,
quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che
aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte
di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri
rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a
minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto
del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo
personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per
tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]
Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che
Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono
a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la
scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne
revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette
poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre
conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe
rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto
dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici;
le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa
e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di
tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato
dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso:
nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse
un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale
consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di
ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana,
avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai
laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la
scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano
reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra
da tutti i loro peccati.[11] Il ritorno di Anselmo a Canterbury comunque
fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano
arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle
concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da
Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti
a causa della lotta per le investiture. Così, i due si
riappacificarono.[11] Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece
trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei
principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di
Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra
Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da
un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a
nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali
vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II)
vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury,
consacrò tutti i nuovi vescovi.[11] Anche nella fase finale della sua
vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e,
contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De
concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio
(Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di
Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale
del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu
inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di
Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la
riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua
morte.[11] Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne
sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate
durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di
Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11] La tomba
di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di
canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne
continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal
potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163.
Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio
1720[50]. Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico
nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un
pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale,
considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3],
il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del
Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4]. Influenze Il lavoro di Anselmo
è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i
riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le
influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la
fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è
tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di
Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza
dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi
l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto
sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da
Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare
certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre
cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la
teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della
prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco
probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica,
determinante[15]. Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di
Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge
un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto
che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la
fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione
della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3]. Anselmo
riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la fede
nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere per
comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut
intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di
Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non
intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire
dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione,
volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53]. Anselmo tuttavia
riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti con
successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di fede:
come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione
non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare successivamente
appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui impensabile
sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla
logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse
possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o,
anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come
tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta
comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che
fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una
parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare
razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione
anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in
cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità
della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i
contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la
ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la
ragione[8]. Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza
la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio
che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza
di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione,
in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori
evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e
legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici
e legati all'ambito della ricerca razionale[57]. Esistenza di Dio e
attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon
mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni
conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere
anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il
Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione
cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare
l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di
procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo
sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53] La
dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di
ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di
Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a
parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi
diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette
(o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o
minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in
maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque possiede
quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]
Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII
secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal
momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi
tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne
con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene
assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso
grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni
altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello
gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58] Dopodiché, avendo
dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo
applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa
esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da
assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature
finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58] Secondo
Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo
grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio
della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da
dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il
processo di causazione degli enti da un essere primo.[60] La seconda
parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi
degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi
attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di
tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena
esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli
attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio,
anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58] Alla luce del
carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone
poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente
inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e
come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica
era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che
ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di
Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli
ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla
creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e
sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58] Anselmo,
discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o
Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini
delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più
aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce
l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona
della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana
dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che
formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più
comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana:
come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre
facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente
unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]
L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone
di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di
tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le
caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio
comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri
principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio
sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con
tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e
semplicità.[15] Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori:
il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento
ontologico. Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo
sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il
seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed
es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse
aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te;
quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può
pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa
pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu
non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è
impossibile.» (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15,
235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione
dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse
erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un
argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle
stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine
trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato
Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della
comprensione»)[65][66]. L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo
una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8]
è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla
fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido
in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66]. Schema logico
dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo:
«che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio non si
può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per negarla
devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di cui non
si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius cogitari
possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi
riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi
fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella
di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il
maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica dell'esistenza:
esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit
ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in
re")[68] L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla
definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore».
Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi (14, 1 e
53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale definizione,
anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel
comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande,
del quale sia impossibile pensare qualcosa di maggiore. Ora, sostiene
Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore»
esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore
esiste l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che
ancora non esiste al di fuori del suo pensiero. Tuttavia, qualcosa che
esiste solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che
esiste anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò
di cui non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse
dotato di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel
concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente
qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore[65][66], e che non
può essere pensato se non come esistente[15]. Si tratta in fondo di una
dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico
della teologia negativa[70], in base al quale è doveroso per la mente umana
riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite[71]. (LA) «Sic ergo vere
es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim
aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super
Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non
si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente
potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il
Creatore.» (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 3,
228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei
quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della
divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, Anselmo conclude
che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente
buono, giusto e felice[72]. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora
tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le
peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere.[72] In
effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli
insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere
impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo
non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il
male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è
coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura
negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività
ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il
male o contraddirsi[72]. Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo ribadisce
e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel Monologion,
aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza in Dio il
quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe raggiunto più
tardi Tommaso d'Aquino[73]. Le critiche di Gaunilone all'argomento
ontologico e la risposta di Anselmo (LA) «Gratias ago benignitati tuae et in
reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna
susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi
infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia
reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia
per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti
che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato
per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»
(Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta
di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone
obietta: in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di
Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza
sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa
che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse
basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste
esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo
per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire,
ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto
«ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari
nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit
quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano
a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia
possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo
afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni
completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni
senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino
contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la
prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente
(Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber
apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la
risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo,
il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia
appendice[79]. L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su
diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare
nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un
concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di
pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non
può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che
non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano
dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere
pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano,
sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale
concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo
lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio
come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile solamente a
posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata legittima)
deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a quelli
platonizzanti del Monologion[80]. Nella sua risposta alle obiezioni di
Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion
diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da
qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico»,
Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui
non può essere pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa
più grande di tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere
negato senza cadere in contraddizione. Nella parte principale della sua replica
alla replica Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il
maggiore» non è un concetto incomprensibile per l'intelletto umano,[81] a meno
di fingere di non capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se
anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può
pensare il maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non
riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse
qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus),
ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82]. L'esperienza delle cose
del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse
perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia
di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore
finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente di
maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo dà
parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion
alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di
cui non può essere pensato il maggiore» si origina dall'esperienza[84][85]. In
tal modo l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare
compromessa, ma viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa
delle due opere altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di
Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da
osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la legittimità della
definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e
quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta che Dio non è
concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84]. Anselmo
dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del pensiero
di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata
indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva
paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza
non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla
critica della seconda metà del XX secolo[84]. Anselmo ritratto in
una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il
teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per l'attenta
disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come «[esistenza] per
sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo aveva compiuto
operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello specifico il
problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal suono simile ma
prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la parola
"grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè quelle
parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la desinenza, in
questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o
qualità[86]. In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile
sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità
(accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e
a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico"
indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma
però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due
modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è
infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè
il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo
riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della
grammatica, ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo,
per se (cioè in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola
"grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per
aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una
sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo
prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai
dialettici del XIII secolo e successivi[88]. In altre opere di carattere
logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava
altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in
filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i
termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza",
"capacità"), voluntas ("volontà"), facere
("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid
("qualcosa")[89]. Il problema del male, dell'onnipotenza divina
e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia
della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De
casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19]
da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato
anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era
stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90]. La scelta della
forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non
priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di
rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di
poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa
inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali
consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti
legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di
idee[91]. Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate
(Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è
chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in
particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia.[19]
Anselmo propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice
platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari
risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità
come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza
delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la
intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto
essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia
all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso
del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8] traducendosi
in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria
anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni
vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose
eccetera.[8][15] Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le
cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che,
evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente
fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve
esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza
comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua
importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del
male.[15] La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada
a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando
che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi,
l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è
realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il
male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non
è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è
possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo
altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che
essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto
attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza
del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il
male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15] In
conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è
percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità,
giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere
proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente
alla rettitudine della volontà.[15] La rettitudine della volontà è poi
direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e
la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità
suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e
indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le
altre nella partecipazione a Dio.[15] Il De libertate arbitrii Magnifying
glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo
della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in
relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al
problema della grazia e del male.[92] Fin dalle prime pagine dell'opera
Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere
senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di
peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente
compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere
possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne
risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male
(cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92] Anselmo sostiene
al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una
degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni,
che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è
«potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine
stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non
di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra
volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole,
sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto
più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo
comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo
caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per
costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96]
tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio
di libertà ma un esempio di corruzione della libertà. Infine Anselmo
spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente
di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù
del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento
divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di
agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un
peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con
l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo
delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In
conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e
interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e
gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta
dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98] Il De
casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli
tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare
riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento
della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una
certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella
facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione
adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel
conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà
si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a
Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come
questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del
male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta
analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del
termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica,
per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso significa
per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è
un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto una
realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio
riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno
che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione
della facoltà della vista.[101] Anselmo fa così propria la concezione,
già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo
di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività
ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione
dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male
come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di
scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se
perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò
la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè
un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della
giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa
la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è
dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha
nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio,
con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale
anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è
possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia
da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la
volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la
rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in
virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio
è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo
del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo
Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus
homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al
peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità
facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo
soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per
l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani;
tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è
un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De
concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre
con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione
sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e
in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della
fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni
riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a
compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a
spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore,
è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a
costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua
assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria;
si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà
di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità
stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e
non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che
questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza
divina. È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del
piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito
alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso
necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e
ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in
eterno nell'altra vita).[110] Dopodiché, risulta necessario che la
remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva
espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura
misericordia, senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata
punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine
e, in generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe
compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che
peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non
aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un
Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive:
restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare
la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a
quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura
era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene
supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere
a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione
sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore
dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad
argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]
Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che
sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato
dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture
attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello
stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a
spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come
scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a
nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal
peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti
nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente
a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale
dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De
concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la
compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della
grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia
del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema
dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina
con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a
maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere
libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In
primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da
quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella
logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del
sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge
necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in
cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario
ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In
secondo luogo Anselmo propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la
nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra
coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in
un'eternità al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o
futuro, ma tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e
determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una
prospettiva sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando
così le cose, non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini
un evento libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina
eventi necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di
Dio con il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da
un lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di
essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che,
dall'altro lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella
redenzione dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume
nella controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà
vengono armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De
casu diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere
rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da
solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente
conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la
rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà
retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa
facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due
aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117] Il
testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà"
e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una ricapitolazione
dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente
positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla conservazione della sua
originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un
cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine
necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia
ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad agire con
giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua
volontà.[118] Altri scritti Miniatura inglese del XII secolo di un
capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di
diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno
spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De
processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello
Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali
et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata
Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già
portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni,
preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da
un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio
che tratta delle affezioni dell'anima.[15] Le preghiere scritte da
Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes
(Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore
dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio
dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla
contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia
o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel
sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario
presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119] Di
Anselmo si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che
testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura
pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la
sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci
suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose
e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo.
Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia
sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi
in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente
pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista
dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della
natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di
Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di
certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza
nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione
di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui,
secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte
le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion”
egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di
Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la
storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A
proposito della rilevanza dell'argomento
di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle
ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia
appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione
dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è
comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un
problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo
Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto
argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo
d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo,
tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità
di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della
Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova
anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero
sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la
formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo
fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento,
considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di
carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova
anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento
del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile
alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica
di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata
con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della
sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in
sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di
Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti
dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile,
allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se
non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di
Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della
ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato
(non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della
scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato
positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non
avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in
Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica
esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla
base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di Bradley.
Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce inoltre
a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica si è
rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli scritti
di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere dovrebbero
essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore della logica
costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni esistenziali, con
particolare riferimento al problema del peccato e della salvezza e al concetto
di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali punti di riferimento,
ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono altresì degne di nota
le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di emendarla da aporie
ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso tenore
l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo linguistico,
alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In occasione dell'ottavo
centenario della morte di Anselmo, il 21 aprile 1909, papa Pio X promulgò
l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuoveva il culto.
Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio guardava alla prova
ontologica di Anselmo come a un modello di quella complementarità
imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia fondamentale della
conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata:
la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la
ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede
presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”; “De grammatico”; De
veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola de
incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato
originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus
Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis
Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et
impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes
Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni -
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B.C. to 1399, Lexington, D. C. Heath and Company, 1983,120. Vaughn 1980,67. Vaughn 1975,295. Vaughn 1980,71. Vaughn 1978,367. Vaughn 1980,74. Charlesworth,19-20. Vaughn 1980,75. Vaughn 1980,76. Vaughn 1975,296-297. Vaughn 1980,82. Giuseppe de Novaes, Elementi della storia de'
sommi pontefici, Rossi, Siena 1805, tomo XI,179. Amedeo Vigorelli, Anselmo d'Aosta. In Fabio
Cioffi, Giorgio Luppi, Stefano O'Brien, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette,
Diálogos – La filosofia antica e medievale, Milano, Bruno Mondadori,
2000,232,88-424-5259-9. Giacobbe,
Marchetti,15-18. Gilson,291. Karen
Armstrong, Storia di Dio. 4000 anni di religioni monoteiste, Milano, CDE,
1997,217,non esistente.
Gilson,292-293. Giuseppe Colombo,
Invito al pensiero di Sant'Anselmo, Milano, Mursia,
1990,106,88-425-0707-5.
Colombo,56. Simonetta,476. Gilson,293. Gilson,294-296. Thomas Williams, Introduction
to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of South Florida. URL
consultato il 9 settembre 2012. Tale
interpretazione nacque dalla sintesi neoplatonico-cristiana operata da
Agostino. Si veda Simonetta,440. Simonetta,442
e 476. Colombo,44.
Gilson,296. Simonetta,477. G. C.,
Enciclopedia Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico" Proslogion, cap. II. Che l'argomento di Anselmo consista
principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da
Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The
nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974. Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo
non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più
che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo
inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e
segg., Silva, Milano 1965). Coloman
Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso
della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.
Simonetta,479. Colombo,53. A proposito della disputa sull'esistenza di
Dio, avuta col benedettino Gaunilone.
Proslogion, cap. 15, Opera Omnia, I, 112. Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta:
fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del
Proslogion, Jaka Book, 2000.
Colombo,52. Simonetta,478.
Colombo,56-57. Colombo,57-58.
Per Anselmo, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo
sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la
sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Italo Sciuto,296,
Bompiani, 2002). «Nam etsi quisquam est
tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non
tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid
dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et
ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 9, 258C). Colombo,59-60.
Colombo,61. Simonetta,478-479. Colombo,61-62. Colombo,62-63. Colombo,63. Colombo,64-67. Colombo,67.
Giacobbe, Marchetti,7-8. Colombo,73. Tale definizione era stata proposta da
Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479. Colombo, 74.
Simonetta, 490. Colombo,75.
Colombo, 75-76. Colombo,73,
76. Colombo,76-77. Giacobbe, Marchetti,10.
Colombo,77. Il quale l'aveva a sua volta
ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440. Colombo,78. Su questi argomenti Anselmo si esprimeva
anche nel De concordia. Si veda Colombo,79. Colombo,79. Colombo,80.
Colombo,81-82. Colombo,82. Colombo,82-23. Colombo,82, 84. Colombo,85.
Colombo,86. Colombo,86-87. Colombo,87. Colombo,88. Simonetta,480. Colombo,89.
Colombo,91. Colombo,95. Colombo,91-95. Gilson,303. Gilson,302-303. Colombo,135. Colombo,132. Gilson,298.
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia,
vol. 1, Torino, Paravia, Diego Fusaro, Anselmo d'Aosta, su Filosofico.net. URL
consultato il 16 novembre 2012.
Colombo,132-133. Francesco Tomatis,
L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling,56-57, Città
Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la contraddizione logica di chi
rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire l'autonomia
interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato rilevato
come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone, concependo
Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti» (maius omnibus),
anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più grande»): cfr.
Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota 18, Vita e Pensiero, 1996.
Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. Molinaro, Anselmo, Hegel e
l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento ontologico, «Archivio di
filosofia»,353-370, 1-3, 1990). Emanuela
Scribano, Guida alla lettura dell'"Etica" di Spinoza, Roma-Bari,
Laterza, 2008,17-18,978-88-420-8732-8. Colombo,133. Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra
– La logica da Aristotele a Gödel, Torino, Einaudi,
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Milano, Longanesi, 1966,548. Giovanni
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il 12 novembre 2017. (LA) 1033-1109 – Anselmus Cantuariensis – Operum Omnium
Conspectus seu 'Index of available writings', su Documenta Catholica Omnia. URL
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benedettiniScrittori medievali in lingua latina. anselmo
“I would call him ‘Canterbury,’ only he was an
Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher
theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury,
he is best known for his distinctive method
fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence
of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the satisfaction
theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine before him, Anselm
is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the most accessible
proofs of the existence of God are through value theory: in his treatise
Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence of a
source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good; that
same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion, Anselm
begins with his conception of a being a greater than which cannot be conceived,
and mounts his ontological argument that a being a greater than which cannot be
conceived exists in the intellect, because even the fool understands the phrase
when he hears it; but if it existed in the intellect alone, a greater could be
conceived that existed in reality. This supremely valuable object is
essentially whatever it is other things
being equal that is better to be than
not to be, and hence living, wise, powerful, true, just, blessed, immaterial,
immutable, and eternal per se; even the paradigm of sensory goods Beauty, Harmony, Sweetness, and Pleasant
Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God is supremely simple,
not compounded of a plurality of excellences, but “omne et unum, totum et solum
bonum,” a being a more delectable than which cannot be conceived. Everything
other than God has its being and its well-being through God as efficient cause.
Moreover, God is the paradigm of all created natures, the latter ranking as
better to the extent that they more perfectly resemble God. Thus, it is better
to be human than to be horse, to be horse than to be wood, even though in
comparison with God everything else is “almost nothing.” For every created
nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est. On the one
hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal structure of the
natures themselves: a creature of type F is a true F only insofar as it
is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F, to the extent
that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a created nature
is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts through reason
and will, Anselm infers that prior in the order of explanation to creation,
there was, in the reason of the maker, an exemplar, form, likeness, or rule of
what he was going to make. In De veritate Anselm maintains that such teleology
gives rise to obligation: since creatures owe their being and well-being to God
as their cause, so they owe their being and well-being to God in the sense of
having an obligation to praise him by being the best beings they can. Since
every creature is of some nature or other, each can be its best by being
that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational natures
fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity; rational
creatures, when they exercise their powers of reason and will to fulfill God’s
purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how good a being it
is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what sort of
imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising its
natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely independent
owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De casu
diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that since
the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good and
every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a privation
of being, the absence of good in something that properly ought to have it e.g.,
blindness in normally sighted animals, injustice in humans or angels. Second,
since all genuine powers are given to enable a being to fulfill its natural
telos and so to be the best being it can, all genuine metaphysically basic
powers are optimific and essentially aim at goods, so that evils are merely
incidental side effects of their operation, involving some lack of coordination
among powers or between their exercise and the surrounding context. Thus,
divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility,
passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or
powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the corruptible,
passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory begins
teleologically with the observation that humans and angels were made for a
happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of reason
to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm regards
freedom and imputability of choice as essential and permanent features of all
rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites the
power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the good
angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no
metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve
justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if
they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously
by the necessity of their natures, because they do not have their natures from
themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become
just of themselves, God furnishes them with two motivaAnselm Anselm 31 31 tional drives toward the good: an
affection for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things
for the sake of their benefit to the agent itself; and an affection for justice
affectio justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic
value. Creatures are able to align these drives by letting the latter temper
the former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some
advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer
will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as
a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in
accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection
for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to
will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it.
But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of
redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out
the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins
with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices
and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s
honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse
to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction
owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be
maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations
threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably
deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal
frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice
also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it
was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him.
Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which
angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be
compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from
common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction
for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When
Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and
therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he emphatically
includes reason or intellect along with emotion and will. God, the controlling
subject matter, is in part permanently inaccessible to us because of the
ontological incommensuration between God and creatures and our progress is
further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best, and
hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting first to
the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point us in
the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our
appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it
has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of
questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind.
His quartet of teaching dialogues De
grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as
his last philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the
Scholastic question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth
centuries. His discussions are likewise remarkable for their attention to
modalities and proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda
la questione dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale,
inteso come insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa
manifesto, e attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di
una logica del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto
Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e
propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot-
trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È
convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche
se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere
{Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove
dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un momento di notevole
interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene la differenza fra
linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo il linguaggio si
può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare secondo il
reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica", importante
perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*. La
verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che ha
valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”,
la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è
maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un
segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della
proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o
falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is
shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della
proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge
logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato
o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla
realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque,
la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o
del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o
discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione
(l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto è con-sustanziale alla natura, ed è, alla
Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”,
è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo
(il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio
dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia*
*anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa,
“l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx
e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della
proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf.
Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea
della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta
nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la
*causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il
tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del
segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò
che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se
fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o
vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha
e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il
discorso, la è lo stesso; la signi-ficazione
(lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra
essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa
signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova
dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul
linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura,
un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il
segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il
segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per
questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il
segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto
necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51
Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato
a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un
segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare
qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con
l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le
cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che
il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda
della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o
dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la
filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza,
verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non
molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla
sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra
faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile
e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di
una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a
sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e
quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione,
dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da
servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è
da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo.
Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad
alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento
ontologico forne all’insipiente -- che
nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente
dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere
gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un
attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con
un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento
che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo,
un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia.
Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli
differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa,
impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre
un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un limite. Il
programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta perché possa farci
pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le cose anziché
schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco di un dialogo,
Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte).
L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che
sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema
dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto alla
Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire
l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come
possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo
in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la
necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il
loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se
nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per
mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a
filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento.
La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla
cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti,
usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che
bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale.
Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente,
per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o
premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento
dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco”
d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di
lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di
quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello
stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena
lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere
cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata
sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale*
che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un
tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel
caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che
il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La
ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il
destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere
di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se
notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma
lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma
logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma
“il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a negazione
‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf. ‘il re di
Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una descrizione
vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente usa
correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste -- il
‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza non e
un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza di
Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la
prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di
Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce
Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto
è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste
alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente
maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne*
la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo
essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini
– il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che
niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse,
tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione,
quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve
essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto,
misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di
queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df –
quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è impossibile. La
semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo
nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico
comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve dimostrare che
gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri
termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico
ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può
rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra
bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non
solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il
quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur
tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché
l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo
nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui
di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto
ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le
argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu
possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa
pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che
non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita
impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era
svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo
il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una
giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa
azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista
(l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare
arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci
pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza
con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha
svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche
addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un
efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti
approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate
queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il
maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se
la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere
pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via
negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un
gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna
farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione
dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una
proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per
via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio
ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla
Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi,
c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore
esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista
nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di
cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità
logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è
la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile.
Riterra che l’argomentazione funziona se
almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o
inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di
questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente
adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando
l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale;
che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale
che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda
premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non
assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso
la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via
negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere
formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi
sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per
esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction
ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ ∈ P) ASSIOMA 1. P(φ). P(ψ) ⊃ P(φ. ψ) ASSIOMA 2. P(φ) ∨ P(∼φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) ⊃ φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ)
[ ψ(x) ⊃ N(y) [
φ(y) ⊃ ψ(y)
]] (Essenza di x) p ⊃ Nq =
N(p ⊃ q)
(Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) ⊃ NP(φ) ∼P(φ) ⊃ N ∼P(φ)
Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) ⊃ G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess.
x ⊃ N (∃x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)
ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) ⊃ N(∃y) G(y) quindi (∃x) G(x) ⊃ N(∃y) G(y)
quindi M(∃x) G(x)
⊃ MN(∃y) G(y) sibilità) (M = pos- M(∃x) G(x) significa che il sistema di tutte
le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ). φ ⊃ Nψ: ⊃ P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva.: Grice, “Anselmo’s
“De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a
‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare
il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del
programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di
un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo,
eresia. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688013479/in/photolist-2mKbroA-2mKjo1z-2mKgT2F-2mKuQW3-2mKsLhm-2mKuQFo-2mKsKNW-2mKn6oD-2mKuzxc-2mKuzCc-2mKvKrp-2mHU3AF-2mHSNmD-2mHSNRB-2mHSNQV-2mHU3Aq-2mHWjZV-2mHU3B2-2mHU3AA-2mHNHW5-2mHWk2i-2mHSNRw-2mHNHTE-2mHSNRS-2mHWk23-2mHNHUM-2mHNHUX-2mHSNPs-2mHWjZp-2mHWjZe-2mHWk1b-2mHSNQz-2mHSNPx-2mHSNQE-2mKn3Nt-2mKvGG6-2mHXj2G-2mHU3zd-2mHSNRX-2mGnP2f-BK5mza-o7oCuH-nfSxVn-nmwSQx-nmx6TM-njtwYW-nfSnG6-nfSuMP-nhV75D-njuvW2
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